TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 344 di Mercoledì 3 dicembre 2014
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALLA SEPARAZIONE SOCIETARIA DELLA INFRASTRUTTURA DELLA RETE DI TELECOMUNICAZIONE E ALLA DEFINIZIONE DEL RELATIVO MODELLO DI GOVERNANCE
La Camera,
premesso che:
nell'ultimo decennio l'uso di Internet ha raggiunto dimensioni tali che la disponibilità di connessioni veloci e superveloci per un Paese è ormai una precondizione essenziale per la sua crescita economica e sociale. Numerosi sono gli studi di autorevoli istituzioni internazionali (Ocse, Broadband and the Economy – Banca mondiale, Economic impact of Broadband – Unesco, The State of Broadband 2012) che evidenziano come gli investimenti in banda larga abbiano effetti diretti e indiretti sulla crescita complessiva dei sistemi sociali, sull'efficienza delle imprese, sull'aumento della produttività, dell'innovazione tecnologica e dell'occupazione. La Banca mondiale quantifica che una variazione di 10 punti percentuali della penetrazione della banda larga possa generare una crescita del prodotto interno lordo dei Paesi sviluppati dell'1,2 per cento. In virtù di queste considerazioni, la Commissione europea, nell'ambito dell'Agenda digitale, ha fissato una serie di target per stimolare i Paesi membri alla realizzazione di nuove infrastrutture di telecomunicazione, ponendo l'obiettivo di conseguire entro il 2020 una copertura totale della connessione a 30 megabit al secondo e di 100 megabit al secondo per almeno il 50 per cento della popolazione;
anche in Italia numerosi sono gli studi volti a misurare l'impatto economico degli investimenti nella banda larga e ultra larga. Una ricerca dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), l'Authority preposta ad assicurare la corretta competizione degli operatori nel mercato delle telecomunicazioni e a tutelare il pluralismo informativo e le libertà fondamentali dei cittadini nell'accesso alla conoscenza e alla comunicazione, evidenzia chiaramente che, se la banda larga arrivasse al 60 per cento delle famiglie e al 90 per cento delle imprese, il potenziale per l'economia italiana sarebbe di un aumento del prodotto interno lordo dell'1,2 per cento, nella peggiore delle ipotesi, e del 12,2 per cento nella migliore;
a fronte di tali importanti dati, che avrebbero di molto migliorato le capacità di risposta del nostro Paese alla crisi economica, la realizzazione di reti di accesso a Internet ad alta velocità risulta allo stato attuale insoddisfacente. Come dimostra lo scoreboard sui progressi dell'Agenda digitale europea dedicato all'Italia, il nostro Paese vede una copertura della rete Next generation access network (Ngan), con velocità di connessione di almeno 30 megabit al secondo, pari al 14 per cento delle abitazioni contro una media europea del 53,8 per cento, mentre la penetrazione della fibra ultraveloce (ad almeno 100 megabit al secondo) appare del tutto marginale. Secondo dati dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la penetrazione della banda larga in Italia, a fine 2013, constava di meno di 14 milioni di collegamenti su rete fissa e di 38 milioni di cellulari con accesso ad Internet. Dati questi che, pur indicando una crescita, rispetto all'ultimo anno, sono comunque tali da non modificare significativamente il ritardo digitale del nostro Paese, il cui dato più emblematico è quel 45 per cento di popolazione che ancora non usa Internet, anche perché milioni di unità abitative e produttive sono ancora senza nessuna copertura. La situazione, inoltre, si presenta critica anche laddove le unità abitative e produttive sono raggiunte da connessione in quanto la sua qualità è la peggiore in Europa. Secondo il rapporto Akamai sullo stato di Internet 2013, infatti l'Italia compare al 48o posto al mondo per velocità della connessione, ultima nella graduatoria europea poiché anche Cipro e Grecia la superano;
il ritardo della copertura della rete infrastrutturale di telecomunicazioni nazionale, rispetto agli altri partner europei, è stata fotografata anche nel recente rapporto Caio, il team di esperti istituito dal precedente Governo Letta per fare luce sullo stato degli investimenti nella rete nazionale. Dal rapporto «Raggiungere gli obiettivi Europei 2020 della banda larga in Italia: prospettive e sfide», presentato il 30 gennaio 2014, si sostiene esplicitamente che l'obiettivo della totale copertura della rete con velocità a 30 megabit al secondo entro il 2020 è di impossibile realizzazione per una parte rilevante del Paese e, pertanto, si auspica nelle conclusioni un ruolo attivo, vigile e continuo del Governo e quindi dello Stato al fine del conseguimento degli obiettivi Digital Agenda Europe 2020 che altrimenti, date le condizioni date, rimarrebbero a rischio;
da questi dati si evince chiaramente come la causa principale della difficoltà del nostro Paese ad uscire dalla crisi economica è imputabile prioritariamente all'inadeguatezza dell'infrastruttura di rete nazionale e questo è paradossale considerando che l'Italia è stata per anni all'avanguardia nel mondo delle telecomunicazioni. Infatti, Telecom Italia prima della privatizzazione era la più importante società di telecomunicazioni del mondo. Con 120.000 dipendenti solo in Italia, contava 30 partecipate estere, disponeva di un ingente ed innovativo patrimonio tecnologico e di know how tale da essere stata la prima a portare sul mercato le carte prepagate e, se non fosse stata privatizzata, la prima a portare la fibra ottica in 20 milioni di abitazioni (progetto «Socrate»). Il suo debito, 20 per cento del fatturato, era assolutamente trascurabile;
con la privatizzazione avviata dal 1997 dal Governo Prodi ad oggi, Telecom Italia è stata oggetto secondo i firmatari del presente atto di indirizzo della più colossale truffa finanziaria che sia mai stata realizzata nel nostro Paese. Progressivamente depauperata delle proprie risorse umane, finanziarie e strumentali, per ripianare i cospicui debiti serviti per le sue scalate, il gruppo si è trovato nella totale impossibilità di far fronte agli investimenti necessari a colmare il digital divide del nostro Paese e di ammodernare le reti esistenti. Secondo stime di Asati, l'associazione dei piccoli azionisti di Telecom Italia, la privatizzazione è costata direttamente alla compagnia di bandiera 26 miliardi di euro, 70.000 posti di lavoro e la svendita del suo immenso patrimonio tecnologico ed immobiliare e, indirettamente, all'intero sistema Paese per gli inquantificabili costi economici e sociali per l'inadeguatezza della sua infrastruttura;
attualmente Telecom Italia, oltre ad avere un indebitamento netto pari a circa 28 miliardi di euro e un lordo di 36 miliardi di euro, opera in un mercato domestico caratterizzato da una congiuntura economica negativa e su una rete obsoleta che necessita di urgenti interventi di ammodernamento;
Internet è uno strumento indispensabile per la libertà di espressione dei cittadini e per l'accesso alle informazioni, all'istruzione, alla formazione, ai servizi sanitari, al turismo ed alla cultura. Ma è un fattore ancor più importante ai fini dello sviluppo e della crescita economica delle imprese poiché la quasi totalità della nostra economia si fonda sulla presenza in rete;
gli investimenti finora assicurati da Telecom Italia si sono dimostrati insufficienti per garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti dall'Agenda digitale europea e la situazione di forte indebitamento del gruppo non fa presagire un rapido incremento degli stessi tali da garantire l'accesso alla rete a condizioni almeno pari a quelle assicurate negli altri Paesi comunitari. Non solo, la presenza nel board di Telefonica, la compagnia telefonica iberica diretta concorrente sui mercati internazionali di Telecom Italia, è un ulteriore dimostrazione dell'incapacità dell'attuale assetto societario di garantire non solo politiche industriali efficaci ma anche la stessa sicurezza della rete e delle informazioni che vi transitano. Le strategie commerciali di Telefonica sono antitetiche a quelle di Telecom Italia che detiene un assett fondamentale come Tim Brazil, di cui gli spagnoli vogliono liberarsi così come hanno già fatto con Telecom Argentina;
per ragioni economiche e di sicurezza nazionale occorre agire immediatamente per un ritorno dell'infrastruttura nazionale di telecomunicazione in mano pubblica, attraverso lo scorporo ovvero la separazione societaria della rete, in modo da garantire l’equivalence of input sulla parità di trattamento di tutti gli operatori del mercato, attualmente di difficile realizzazione come ha attestato la recente sentenza del Tar del Lazio 8 maggio 2014, n. 4801, che ha confermato la condanna di Telecom Italia per abuso di posizione dominante, e gli investimenti necessari a raggiungere gli obiettivi dell'Agenda digitale;
lo scorporo ovvero la separazione societaria della rete non contrasta con la Costituzione e la normativa nazionale ed europea. Non contrasta in primis con l'articolo 41 della Costituzione che pur stabilendo che «l'iniziativa economica privata è libera» questa non «può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.». Principio di utilità sociale rafforzato dall'articolo 43 della Costituzione che stabilisce che: «ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.». La rete di telecomunicazioni nazionale, che possiede caratteristiche di monopolio naturale, è una risorsa strategica per il nostro Paese, poiché garantisce quei servizi pubblici essenziali e di preminente interesse generale, quali la libertà di comunicazione, l'accesso alla conoscenza, la competitività e la crescita economica delle imprese, che sono costituzionalmente sanciti;
anche in ambito comunitario non si evincono preclusioni alla separazione e rinazionalizzazione ex lege dell'infrastruttura di rete, in quanto l'articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce la tutela e il rispetto dell'accesso ai servizi di interesse economico generale, la cui individuazione rinvia alle legislazioni e prassi nazionali. Inoltre, nell'ambito dei servizi di interesse economico generale, l'articolo 14 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex articolo 16 del Trattato che istituisce la Comunità europea) limita la regola della concorrenza preservando aree di intervento in via esclusiva dei poteri pubblici attraverso strumenti normativi anche necessari ed urgenti come i decreti-legge. L'articolo 106 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex articolo 86, paragrafo 2, del Trattato che istituisce la Comunità europea) invece sancisce che i servizi d'interesse generale sono sottoposti «alle norme di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata» mentre la neutralità rispetto al regime di proprietà, pubblica o privata, delle imprese è sancito dall'articolo 345 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex articolo 295 del trattato che istituisce la Comunità europea);
la normativa nazionale prevede l'adozione da parte dello Stato di poteri speciali (cosiddetti golden power) stabiliti con decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56 del 2012, recante «norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni», esercitabili dal Governo. Con riferimento a tali ultimi settori i poteri speciali esercitabili, emanati recentemente dal Governo con i decreti attuativi pubblicati nella Gazzetta Ufficiale 6 giugno 2014, consistono nella possibilità di far valere il veto dell'Esecutivo alle delibere, agli atti e alle operazioni concernenti asset strategici, qualora essi diano luogo a minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti, ivi compresi le reti e gli impianti necessari ad assicurare l'approvvigionamento minimo e l'operatività dei servizi pubblici essenziali;
inoltre, esiste anche la possibilità per l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni di procedere ai sensi dell'articolo 50-bis del codice delle comunicazioni elettroniche, decreto legislativo 1o agosto 2003, n. 259, alla separazione funzionale involontaria, imponendo alle imprese verticalmente integrate, nel caso specifico Telecom Italia, la collocazione delle attività relative alla fornitura all'ingrosso di prodotti di accesso in un'entità commerciale operante in modo indipendente, questo se è dimostrata l'incapacità della stessa di garantire un'efficace concorrenza oppure una fornitura all'ingrosso di detti prodotti di accesso;
la separazione societaria della rete di accesso, oltre che rafforzare l'assetto concorrenziale del mercato a vantaggio dei cittadini, appare una precondizione per consentire l'ingresso di nuovi capitali nella costituenda società in grado di sostenere gli investimenti necessari per l'ammodernamento della rete ed il passaggio alla fibra ottica in linea con gli obiettivi fissati nell'Agenda digitale europea,
impegna il Governo:
a provvedere, anche ricorrendo ad iniziative normative d'urgenza, al necessario e urgente scorporo, ovvero alla separazione societaria della infrastruttura della rete di telecomunicazione, intendendo con esso il perimetro delle attività e delle risorse relative allo sviluppo e alla gestione della rete di accesso, sia in rame sia in fibra, mediante la costituzione di una società della rete a maggioranza pubblica;
a consentire nella nuova società l'ingresso anche di privati, in primis gli other licensed operator, favorendo un modello di governance di tipo public company in cui oltre a detenere la maggioranza di capitale pubblico sia garantita un'adeguata rappresentanza nel consiglio di amministrazione di dipendenti e azionisti di minoranza;
ad assicurare la presentazione di un piano industriale indirizzato ad un più rapido sviluppo delle reti in fibra di nuova generazione, coerentemente con gli obiettivi posti dall'Agenda digitale europea, anche attraverso l'integrazione degli assetti in fibra ottica e rame già di proprietà di enti locali, enti governativi e partecipate e sostenendo la piena tutela e valorizzazione dell'occupazione e del patrimonio di conoscenze e competenze di Telecom Italia;
a procedere alla riforma dell'istituto dell'offerta pubblica di acquisto, in linea con gli impegni contenuti nella mozione approvata dal Senato della Repubblica il 17 ottobre 2013 e mai attuata, modificando il Testo unico della finanza, in modo da rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, e ad aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, oltre la quale è già prevista per legge l'offerta pubblica di acquisto obbligatoria, una seconda soglia, legata all'accertata situazione di controllo di fatto.
(1-00515)
«Paolo Nicolò Romano, Nicola Bianchi, De Lorenzis, Dell'Orco, Cristian Iannuzzi, Liuzzi, Spessotto, Agostinelli, Alberti, Artini, Baldassarre, Barbanti, Baroni, Basilio, Battelli, Bechis, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cancelleri, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Cecconi, Chimienti, Ciprini, Colletti, Colonnese, Cominardi, Corda, Cozzolino, Crippa, Currò, Da Villa, Dadone, Daga, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Di Vita, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Gallinella, Luigi Gallo, Silvia Giordano, Grande, Grillo, L'Abbate, Lombardi, Lorefice, Lupo, Mannino, Mantero, Marzana, Micillo, Mucci, Nesci, Nuti, Parentela, Pesco, Petraroli, Pinna, Pisano, Prodani, Rizzetto, Rizzo, Rostellato, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Segoni, Sibilia, Sorial, Spadoni, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Tripiedi, Turco, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(24 giugno 2014)
La Camera,
premesso che:
le telecomunicazioni sono un tema di grande attualità e costituiscono un settore strategico per lo sviluppo economico del nostro Paese, provvedendo a dare un contributo sia diretto, (tramite investimenti ed occupazione), che indiretto (promuovendo una società più moderna), stimolando l'innovazione, aumentando la produttività delle imprese e della pubblica amministrazione e contribuendo, altresì, alla sostenibilità ambientale;
il settore delle telecomunicazioni rappresenta, pertanto, per il nostro Paese, un importante obiettivo di sviluppo che può realizzarsi attraverso il superamento degli ostacoli e dei ritardi strutturali che attualmente caratterizzano la diffusione delle nuove reti di comunicazioni. Queste ultime, infatti, costituiscono un asset strategico per la sicurezza, la crescita e la competitività dell'intero sistema Paese;
disporre, pertanto, di infrastrutture di telecomunicazione moderne di nuova generazione a banda ultralarga, mobili e fisse, diventa essenziale per l'Italia e merita di essere al centro della politica industriale del Governo;
gli investimenti in questo settore, infatti, hanno rappresentato negli ultimi venti anni il più importante fattore di crescita, determinando fino allo 0,6 per cento dell'aumento del prodotto interno lordo dei Paesi più avanzati;
il mercato delle telecomunicazioni è stato caratterizzato da una progressiva apertura alla concorrenza rispetto al quadro normativo di riferimento che è di derivazione comunitaria, da un lato, e discende dall'attività di regolazione dell'Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, dall'altro. Gli assetti del mercato sono mutati profondamente: infatti, all'operatore storico in posizione di monopolio si è affiancata una pluralità di attori operanti soprattutto nell'ambito della telefonia mobile e si è assistito all'affermazione di nuovi servizi a banda larga per la rete fissa e per le reti mobili della nuova generazione, senza che ciò intaccasse la posizione dominante dell’ operatore ex monopolista nel comparto delle comunicazioni fisse;
nella telefonia mobile, la realizzazione delle infrastrutture di nuova generazione è nella sostanza garantita dalla competizione presente tra i quattro operatori infrastrutturati (Vodafone, Telecom, Wind e 3). Le nuove infrastrutture consentiranno anche al Paese di chiudere il digital divide, portando la banda larga ovunque sul territorio con tecnologia senza fili. Gli investimenti privati possono essere agevolati attraverso interventi di incentivo e di semplificazione amministrativa e normativa;
nella telefonia fissa, la realizzazione di un'infrastruttura di nuova generazione in fibra, necessaria nelle principali città e nei distretti industriali, rappresenta una sfida più complessa perché la rete di accesso è un monopolio naturale, ancora di più in Italia dove manca anche la competizione dell'infrastruttura via cavo televisivo. All'operatore privato proprietario dell'attuale rete di accesso in rame (Telecom Italia) manca, dunque, lo stimolo competitivo e l'interesse economico a realizzare gli investimenti di modernizzazione della fibra nei tempi e nelle modalità che invece servirebbero al Paese per il suo sviluppo complessivo;
è evidente il forte squilibrio concorrenziale nel mercato della rete fissa, certificato anche da una recente sanzione comminata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato all'operatore Telecom Italia, per oltre 103 milioni di euro per comportamenti anticoncorrenziali;
il mercato della rete fissa in Italia si trova in una situazione anomala, trattandosi sostanzialmente di un monopolio infrastrutturale in cui manca una rete alternativa che ha fortemente limitato lo sviluppo della stessa rete fissa in Italia. Il 99 per cento delle linee di accesso a tale rete è tuttora controllato da Telecom Italia, contro il 77 per cento della media dei Paesi dell'Unione europea. Telecom Italia è monopolista nella generazione di cassa dell'industria della rete fissa (con una quota del 100 per cento) negli ultimi cinque anni ed è l’incumbent con la quota di mercato della rete fissa più alta in Europa;
alcuni organi di informazione hanno riportato la notizia secondo la quale si potrebbe verificare un'eventuale acquisizione di Metroweb spa da parte di Telecom Italia: questa ipotesi rappresenterebbe una limitazione della concorrenza e un potenziale ostacolo allo sviluppo delle reti di accesso di ultima generazione (Ngan) in Italia, perché si verrebbero a creare un nuovo monopolio infrastrutturale sulla fibra e la possibile preclusione all'accesso Ngan per gli operatori alternativi (olo) con forti impatti sulle dinamiche competitive;
alcuni degli operatori privati di telecomunicazioni fisse stanno accelerando gli investimenti necessari per la realizzazione di una moderna rete in fibra, ma, come divulgato da un recente studio dell'ex commissario per l'Agenda digitale, tali investimenti non saranno sufficienti per raggiungere gli obiettivi della Digital agenda 2020 ed il Paese si troverebbe presto in una situazione di profondo divario tra uno scarso 50 per cento della popolazione che godrebbe di perfomance di rete in linea con tali obiettivi e la rimanente popolazione;
la realizzazione di una nuova infrastruttura di rete di accesso in fibra ottica costituirebbe, quindi, direttamente un volano di sviluppo del settore delle telecomunicazioni e del settore delle costruzioni con molte imprese locali che si occuperebbero della realizzazione degli scavi e delle infrastrutture civili, con benefici economici e occupazionali immediati su tutto il territorio;
lo sviluppo di un progetto di tale portata può avvenire solo con un'iniziativa di cooperazione e coinvestimento finalizzata alla realizzazione e alla gestione della nuova infrastruttura in fibra, poi affittata in modo neutrale agli operatori che realizzeranno i servizi per famiglie e imprese in concorrenza tra loro. In tale società potranno essere coinvolti investitori finanziari specializzati, a partire, ad esempio, dalla Cassa depositi e prestiti, a condizioni di ritorno economico di mercato simili a quelle delle altre grandi infrastrutture. Tale approccio rappresenta il miglior bilanciamento per promuovere, al contempo, investimenti su infrastrutture e sviluppo della concorrenza a beneficio del Paese;
l'iniziativa potrebbe essere concretamente realizzata partendo da Metroweb SpA che ha il potenziale per diventare la piattaforma dalla quale sviluppare un'infrastruttura in fibra necessaria allo sviluppo del Paese (moderna, aperta alla concorrenza e neutrale rispetto agli operatori di telecomunicazioni), che assicuri la concorrenza e massimizzi l'adozione del servizio, con pari partecipazione degli operatori, al fine di aggregare la domanda di banda ultralarga rendendo l'investimento Ngan sostenibile;
la creazione di una società della rete e controllo pubblico e governance indipendente costituirebbe la soluzione più efficiente ed efficace dal punto di vista di sistema per lo sviluppo Ngan, anche alla luce degli obiettivi dell'Agenda digitale europea,
impegna il Governo
a sostenere il progetto di costituzione di una nuova infrastruttura in fibra attraverso una società in cui potranno essere coinvolti investitori finanziari specializzati, a partire, ad esempio, dalla Cassa depositi e prestiti.
(1-00657)
«Dorina Bianchi, Garofalo, Minardo, Calabrò, Pagano, Piso, Sammarco, Scopelliti».
(10 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
in questi anni, uno dei settori che ha generato più valore nelle economie avanzate è l'economia di Internet. Per la prima volta nella storia economica mondiale la prima azienda per capitalizzazione è un'azienda che ha come principale fattore di produzione la conoscenza. I campi d'azione sono molteplici: dai sistemi di pagamento ai servizi postali, dall'educazione ai lavori pubblici, dalla sanità al fisco;
sviluppare appieno le potenzialità di Internet e delle nuove tecnologie vuol dire creare centinaia di migliaia di posti di lavoro ad alto valore aggiunto e, al contempo, consentire allo straordinario patrimonio rappresentato dalle piccole e medie imprese italiane di essere più competitive e generare nuova ricchezza;
l'obiettivo non può essere solo quello basilare di garantire a tutti i cittadini l'accesso alla rete, ma anche e soprattutto di porre «realmente» gli individui nelle condizioni di sfruttare appieno il potenziale espressivo, formativo, creativo e lavorativo fornito dalle nuove tecnologie. Solo così il nostro Paese può recuperare il ruolo storico come esempio di imprenditorialità e leadership nella produzione di ricerca, sapere e innovazione e solo così è pensabile generare un tessuto economico e sociale capace di valorizzare il talento, il merito e la competenza con maggiore equità nelle opportunità e nei diritti;
l'affermarsi della digital and network economic rende improcrastinabili le trasformazioni radicali dei modelli di sviluppo dove cultura, conoscenza e spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro: a livello globale la «internet economy» supera i 10.000 miliardi di dollari (presentazione National strategy for trusted identities in cyberspace – Nstic);
in Italia, le conseguenze di un mancato serio intervento in questo settore si riflettono, sia per i cittadini che per le aziende, sugli indici di digitalizzazione che si attestano su posizioni di retrovia: i dati di alfabetizzazione informatica, di copertura di rete fissa e di sviluppo dei servizi on-line, sia sotto il profilo di utilizzo da parte dei consumatori che delle imprese, sono nettamente al di sotto della media europea. Non a caso il peso di Internet nel prodotto interno lordo italiano è ancora al 2,5 per cento contro, ad esempio, il 7 per cento dell'economia inglese. Questo dato da solo spiega forse meglio di tutti il differenziale di crescita fra l'economia italiana e le economie occidentali che mantengono una prospettiva di sviluppo;
i principali Paesi europei si sono da tempo dotati di piani strategici di sviluppo delle reti di accesso di nuova generazione (Ngan) in linea con gli obiettivi dell'Agenda digitale europea che anche la Commissione europea considera elemento base della sostenibilità socioeconomica. Tali piani mirano a creare condizioni favorevoli allo sviluppo degli investimenti privati, favorendo la collaborazione tra i vari operatori e tra questi e le amministrazioni pubbliche;
il Governo britannico ha sviluppato il «Digital Britain» per un settore che già oggi vale il 7,2 per cento del prodotto interno lordo, più della quota riservata alla spesa sanitaria;
il Governo tedesco ha un redatto il progetto «Digital Deutschland 2015», nel quale, tra le altre cose, si stima che la banda ultra larga genererà 1 milione di nuovi posti di lavoro in Europa;
il Governo francese ha assegnato allo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ict) 4,5 miliardi di euro, 500 milioni di euro in più di quanto raccomandato dal rapporto strategico «Investir pour l'avenir»;
il Governo spagnolo si è dato come obiettivo di investire in innovazione il 4 per cento del prodotto interno lordo entro il 2015 ed arrivare a 150 brevetti annui per milione di abitanti;
nel nostro Paese l'attuale penetrazione della banda larga si attesta al 17 per cento contro il 23 per cento della media europea e l'assenza di un obbligo di fornitura del servizio universale da parte delle compagnie di telecomunicazione ha creato un ulteriore discrimine tra i cittadini e le imprese che hanno accesso alla banda larga di prima generazione e coloro che ne sono esclusi;
i finanziamenti pubblici devono essere destinati, nell'ambito delle aree sottoutilizzate, ai bacini territoriali caratterizzati da importanti insediamenti demografici ed industriali, come le aree nelle quali si collocano i distretti industriali, in quanto maggiormente sollecitati nell'agone competitivo globale. In tali aree, l'assenza di un'adeguata capacità di banda costituisce un grave svantaggio competitivo che potrebbe essere colmato sviluppando una domanda di servizi innovativi che poggiano le basi sulle reti di nuova generazione a banda «ultra larga», anche per contrastare l'erosione della propria competitività attraverso innovazioni di processo;
su un universo di circa un milione di piccole e medie imprese, circa 300 mila sono dislocate in aree che necessitano di banda ultra larga e di queste 100 mila si trovano in aree con la più elevata priorità, in quanto corrispondenti a zone ad alta densità di aziende. Sviluppare moderne infrastrutture di nuova generazione, con un'alta capacità di trasmissione nelle sopradette aree, consentirebbe l'interconnessione di tutte le 100 mila aziende in aree con una maggiore priorità mediante un'infrastruttura di rete di nuova generazione a banda ultra larga;
i distretti sono dislocati su tutto il territorio nazionale e concentrati principalmente nei centri e nelle province di media e piccola dimensione e nelle aree poste in prossimità dei grandi centri urbani. In particolare, le aree sono Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Marche, Campania, Puglia e Sicilia;
l'attuale situazione del mercato italiano vede la presenza di Telecom Italia come operatore incumbent, dominante in tutti i segmenti della catena del valore, proprietario dell'unica infrastruttura di accesso in rame necessaria a tutti gli operatori alternativi per offrire i propri servizi. In Italia, a differenza di altri Paesi europei, non esistono infrastrutture alternative, come, ad esempio, gli operatori televisivi via cavo, che potrebbero consentire uno stimolo agli investimenti;
Telecom ha gestito per quasi un secolo la rete di telecomunicazioni nel nostro Paese e tuttora controlla e gestisce questo asset strategico e una delle principali infrastrutture del Paese e, quindi, anche tutti i dati dei cittadini, ma anche quelli delle imprese e delle pubbliche amministrazioni;
l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha recentemente sanzionato Telecom per comportamenti anti concorrenziali nel mercato della rete fissa, comminandogli una sanzione di oltre 103 milioni di euro, confermata dal Tar Lazio;
il 2 ottobre 2013 è stato emanato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 129, correttivo del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 30 novembre 2012, n. 253, che prevede l'inclusione nelle attività di rilevanza strategica per la sicurezza e la difesa nazionale anche delle reti e degli impianti utilizzati per la fornitura dell'accesso agli utenti finali dei servizi rientranti negli obblighi del servizio universale e dei servizi a banda larga e ultralarga;
recentemente è stato adottato un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che definisce fra gli asset strategici anche gli impianti per i servizi a banda larga ed ultralarga e le reti in rame o fibra;
nell'ambito delle telecomunicazioni, la rete rappresenta un patrimonio importante per i cittadini ed è necessario che si intervenga per preservarla, garantendo, al contempo, un'accelerazione dello scorporo della governance della rete da quella dei servizi al fine di garantire lo sviluppo della rete in fibra quale piattaforma fondamentale per le reti di nuova generazione;
secondo alcune indiscrezioni giornalistiche, Telecom Italia starebbe per acquisire Metroweb spa, unico operatore infrastrutturato alternativo che possiede e gestisce una capillare rete in fibra ottica, principalmente a Milano. Questa concentrazione rappresenterebbe un forte rischio di limitazione della concorrenza ed un ulteriore ostacolo alla sviluppo delle reti di accesso di nuova generazione, perché si creerebbe un nuovo monopolio infrastrutturale sulla fibra e la possibile preclusione dell'accesso alle reti di accesso di nuova generazione per gli operatori alternativi (olo) con forti impatti sulla competizione e sulla concorrenza;
la delibera n. 731/09/CONS, in cui l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni aveva formulato alcune previsioni rivolte alle reti di nuova generazione ed alle infrastrutture atte ad ospitarle, riprende quanto previsto dagli impegni di Telecom Italia quali l'obbligo di fornire accesso alle infrastrutture civili ed alla fibra spenta (delibera n. 718/08/CONS) che sono stati a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo ampiamente disattesi;
la possibilità per le televisioni locali di operare anche come aziende di telecomunicazione, oltre che editoriali, ha portato alla migliore ottimizzazione possibile nell'utilizzazione dello spettro radioelettrico dedicato alle trasmissioni televisive, consentendo lo sviluppo di una rete di aziende produttrici di apparati di trasmissione che, pur partendo da approcci spesso artigianali, costituiscono ancora oggi un comparto fra i primi cinque al mondo;
gli operatori di rete in ambito locale, partendo dalla migliore utilizzazione delle frequenze televisive a loro assegnate, potrebbero costituire un'importante risorsa per le centinaia di migliaia di piccole e medie imprese che, per la loro competitività, sono bisognose di accesso alla banda larga;
data l'imprescindibile necessità di broadband, il wireless broadband costituisce un'opportunità irrinunciabile per il Paese che, se negli anni Novanta poteva vantare una penetrazione dei servizi mobili di seconda generazione assai maggiore rispetto agli Stati Uniti, con l'avvento dei servizi mobili di terza generazione è stata ampiamente superata sia come penetrazione del servizio che come tasso di crescita. Il wireless broadband è, inoltre, di fondamentale importanza in quanto consente di fornire l'accesso ai servizi broadband, sia alle aziende che agli utenti consumer, in tempi molto più brevi rispetto alle rete fissa;
vista l'impossibilità del mercato italiano di remunerare gli investimenti necessari per la realizzazione di più reti a banda ultra larga, la via sostenibile per la realizzazione di una rete a banda larga ultra veloce, dunque, è l'identificazione di una Netco, come indicato nel memorandum of understanding firmato dagli operatori con il Ministero dello sviluppo economico nel novembre 2010, per la realizzazione di un'infrastruttura passiva, neutrale, aperta ed economica, che porti la rete in fibra al 50 per cento della popolazione italiana;
l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche tenendo conto delle raccomandazioni europee, ha chiesto misure di semplificazione degli adempimenti burocratici e amministrativi nonché iniziative diverse dagli investimenti pubblici per facilitare la creazione di un ecosistema digitale e fluidificare il percorso di aziende e cittadini nella produzione e fruizione dei contenuti digitali. Interventi che dovrebbero essere completati dall'adozione di una politica dello spettro radio coerente con i principi comunitari in cui siano valorizzate le risorse frequenziali, liberando più risorse per la larga banda;
è urgente e necessario prevedere un piano di migrazione completa dall'attuale rete in rame al fine di garantire una sostenibilità del progetto ed evitare l'aumento dei prezzi ai clienti finali;
le regole sui servizi di accesso delle reti di nuova generazione, che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni doveva definire, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sono state un'occasione persa per creare le condizioni di sviluppo del mercato italiano della fibra ottica;
è necessario realizzare una rete aperta, senza sovrapposizioni, che preveda una suddivisione dei costi tra gli operatori. La presenza di un altro operatore in alcune aree porterebbe ad uno sviluppo a diverse velocità della rete di nuova generazione nelle diverse aree del Paese;
la rete è un patrimonio che va mantenuto ed implementato e l'organizzazione dei lavori non può prescindere dal coinvolgimento sistematico e strutturato degli stakeholder per garantire l'apporto delle intelligenze operative multidisciplinari necessarie e garantire il volume degli investimenti necessari a migliorare il servizio e la qualità dei contenuti;
le tecnologie digitali non sono solo un importante mezzo di comunicazione interpersonale sul quale focalizzarsi per evidenziare gli usi distorti che ne possono conseguire, ma sono anche una grande occasione, estesa ad ogni settore dell'economia e della società, per favorire profonde trasformazioni mediante la digitalizzazione,
impegna il Governo:
ad adottare con urgenza le iniziative necessarie per accelerare lo scorporo della rete fissa telefonica dai servizi, fondamentale per garantire la libera concorrenza del mercato e la tutela dei consumatori con migliori prezzi e servizi, allo scopo esercitando anche i poteri attribuitigli dalla legge in materia di assetti societari per le attività di rilevanza strategica;
ad attuare un piano di infrastrutturazione tecnologica in fibra ottica per massimizzare la penetrazione dei servizi broadband per restare allineati alle principali economie, assicurando la competitività delle aziende, la continuità operativa dei servizi essenziali e l'offerta di servizi sempre più evoluti;
a perseguire l'obiettivo della creazione di un'infrastruttura di telecomunicazione capace di fronteggiare le sfide dell'innovazione idonea a permettere sempre più elevate prestazioni, vale a dire far fronte alle crescenti esigenze di nuovi e più evoluti servizi nel settore dell'informatica e delle telecomunicazioni;
a promuovere una strategia che si dimostri adeguata a permettere ai cittadini ed alle imprese di sviluppare rapidamente una domanda di accesso a servizi innovativi, per contrastare l'erosione della propria competitività attraverso innovazioni di processo;
a prevedere interventi per opere di modernizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione strategiche per la crescita economica, civile e culturale con la realizzazione di una rete in fibra ottica che possa essere efficacemente strutturata negli anni, in funzione anche di significativi cambiamenti della pianificazione, delle esigenze e dell'effettiva disponibilità delle risorse;
ad adottare iniziative per riservare un adeguato ruolo agli operatori di rete in ambito locale valorizzando la cospicua esperienza acquisita quali aziende radio-televisive e consentendo di estendere la loro capacità di impresa sul territorio, a beneficio di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese, alla fornitura – in neutralità tecnologica – dei nuovi servizi in banda larga nell'ambito delle frequenze a loro assegnate;
ad incentivare la ricerca e le applicazioni alternative come, ad esempio, la power line communication (plc) per le aree rurali o le nuove tecnologie fotoniche studiate, tra gli altri, dal Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa per quanto riguarda le reti di trasmissione dati ultra veloci via cavo e via etere;
a ritenere prioritaria, in relazione al complesso di interventi volti a sostenere il rilancio dell'economia del Paese, la finalità di assicurare, attraverso il piano di sviluppo delle nuove reti, un'alta capacità di trasmissione alle principali città ed ai distretti industriali che ancora scontano un forte divario di connettività;
a promuovere la realizzazione di one network, un'unica infrastruttura di rete a banda larga, aperta, efficiente, neutrale, economica e già pronta per evoluzioni future, garantendo il rispetto delle regole di libero mercato e concorrenza nella fornitura di accesso e servizi agli utenti finali privati ed imprese con un'unica rete all'ingrosso e concorrenza al dettaglio;
a promuovere ed incentivare una tempestiva migrazione dalla rete in rame a quella in fibra ottica alla cui realizzazione dovranno partecipare e contribuire tutti gli operatori;
a dotare con urgenza l'Italia di un'organica agenda digitale che preveda interventi nell'ambito delle infrastrutture tecnologiche, dei servizi finali e infrastrutturali, includendo i necessari standard per l’e-business e per i beni digitali (o «neobeni puri», secondo la definizione del Cnel) e una più organica regolamentazione;
a promuovere ogni iniziativa volta alla massima diffusione dell'utilizzo delle tecnologie digitali e alla sperimentazione dei relativi vantaggi, anche con riferimento alla disciplina dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini;
a prevedere la neutralità tecnologica per l'utilizzo dello spettro al fine di ottimizzare l'utilizzo medesimo oltre che renderlo remunerativo per lo Stato.
(1-00658)
«Caparini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(10 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
le telecomunicazioni rappresentano un motore fondamentale di sviluppo poiché aumentano la produttività delle imprese e della pubblica amministrazione. Gli investimenti in banda ultra larga sono dunque strategici per il sistema Paese;
lo sviluppo delle reti fisse a banda larga e ultra larga costituisce un passaggio cruciale per dotare il Paese di quelle infrastrutture che rappresentano la base per dare un forte impulso al processo di digitalizzazione, nonché un fattore determinante di rilancio dell'economia, della competitività e della crescita;
il settore delle telecomunicazioni in Italia è stato pienamente liberalizzato sin dal 1998 e risulta oggi caratterizzato da un elevato livello di concorrenzialità ed è regolamentato a livello sia europeo sia nazionale;
a livello nazionale le società proprietarie di reti, a vario titolo, si stanno fortemente impegnando nello sviluppo delle infrastrutture di rete, come confermato dall'importante piano di investimenti di Telecom per il triennio 2014-2016, che vale complessivamente 9 miliardi di euro, di cui 3,4 miliardi di euro dedicati allo sviluppo di reti e servizi innovativi sia per quanto riguarda la fibra che il 4G;
a novembre 2013 Vodafone ha annunciato il programma «Spring» che prevede investimenti per 3,6 miliardi di euro in due anni al fine di raddoppiare le risorse per lo sviluppo dei collegamenti a banda ultra larga, mobile e fissa. Più nello specifico Vodafone intende sviluppare infrastrutture e piattaforme evolute e accelerare gli investimenti, oltre che sulle reti mobili 3G e 4G, anche nella rete fissa in fibra ottica, arrivando a coprire le 150 principali città con la rete Fttc (Fibre to the cabinet), con l'obiettivo di raggiungere entro il 2016 almeno 6 milioni e mezzo di famiglie, pari a un quarto della popolazione italiana;
allo stesso modo Fastweb spa, società a socio unico soggetta all'attività di direzione e coordinamento di Swisscom AG, ha sviluppato una rete nazionale in fibra ottica che si estende per 35.000 chilometri e raggiunge circa il 50 per cento della popolazione italiana, di cui il 10 per cento direttamente in tecnologia fiber to the cabinet, il collegamento in fibra ottica fino a casa del cliente, offrendo servizi a banda ultra larga fino a 100 megabit al secondo;
dal 1995 opera in Italia anche Albacom spa, nata come progetto delle società British Telecom (BT) e Banca nazionale del lavoro (Bnl), il cui capitale sociale è stato interamente acquisito alla fine del 2004 da British Telecom e il 4 febbraio 2005 la compagnia ha modificato la denominazione sociale in BT Albacom spa;
nel 2006 in BT Albacom confluiscono le attività di Atlanet spa, acquisita da British Telecom nel mese di marzo, e la società ha assunto la sua attuale ragione sociale, BT Italia spa;
BT Italia è il principale fornitore in Italia di servizi e soluzioni integrate di comunicazione e IT interamente dedicato alle imprese, dalle multinazionali alle piccole e medie imprese e professionisti, e alla pubblica amministrazione, gestendo una base clienti di circa 150.000 aziende e una rete in fibra ottica di oltre 14.000 chilometri;
opera in Italia, e in particolare in Lombardia e Liguria, anche Metroweb, che nell'area metropolitana di Milano gestisce una rete in fibra ottica di 7.254 chilometri di cavi, pari a 324.000 chilometri di fibre ottiche, coprendo un'area di oltre 2,7 milioni di abitanti;
una visione liberale dell'economia promuove la piena trasparenza, competitività e libera concorrenza nel mercato tutelando al contempo l'impresa privata;
è necessaria un'azione di regia da parte del Governo affinché, grazie ad una cooperazione tra settore pubblico e privato, l'Italia colmi il digital divide che la separa dagli altri Paesi ad economia avanzata. Per cercare di risolvere il problema del digital divide sono fondamentali gli investimenti sia sulla rete mobile che sulla rete fissa;
il digital divide va considerato come esistente non solo sui megabit necessari alla connessione base, ma anche all'accesso veloce a Internet;
è dunque necessaria un'efficace azione di Governo volta, da un lato, a creare le condizioni per favorire gli investimenti e, dall'altro, ad attuare iniziative di stimolo ed impulso che favoriscano la domanda di servizi digitali anche a fronte del fatto che il livello di alfabetizzazione digitale del Paese risulta basso, come scarso risulta ancora il numero degli utilizzatori di Internet ed il tasso di diffusione dei pc nelle famiglie;
il ritardo accumulato dal Paese deriva anche da una governance sull'Agenda digitale estremamente farraginosa, poco trasparente, con evidenti sovrapposizioni di ruoli e carenza nell'individuazione degli obiettivi e delle azioni necessarie al loro raggiungimento;
come riportato anche dalla recente ricerca dell'Osservatorio agenda digitale della School of management del Politecnico di Milano, infatti, ad oggi sono stati adottati solo 18 dei 53 provvedimenti attuativi, tra regolamenti e regole tecniche, previsti per il raggiungimento degli obiettivi dell'Agenda digitale, e su alcuni di questi sono stati accumulati oltre 600 giorni di ritardo,
impegna il Governo:
ad elaborare una visione strategica nazionale per il settore delle telecomunicazioni tale da soddisfare la funzione di interesse generale dell'infrastruttura di telecomunicazioni e fornire il quadro di riferimento per gli operatori, con la possibilità di prevedere forme di societarizzazione interna ovvero aperta a tutti gli operatori per la gestione della rete di accesso, ove la sola concorrenza non sia in grado di perseguire l'interesse generale;
ad attivarsi con e nelle istituzioni dell'Unione europea affinché sia possibile escludere gli investimenti pubblici, diretti a colmare il digital divide, dal patto di stabilità;
ad attivarsi affinché i fondi strutturali europei siano impiegati a sostegno degli interventi necessari a sviluppare la banda ultra larga su rete fissa e in fibra, wi-fi e mobile, anche nelle aree a fallimento di mercato;
a valutare le strategie più efficaci e praticabili atte a consentire lo sviluppo dell'infrastruttura di rete e della relativa governance in modo da assicurare la piena concorrenza tra operatori;
a promuovere ogni iniziativa volta alla massima diffusione dell'utilizzo delle tecnologie digitali e alla sperimentazione dei relativi vantaggi, attuando politiche volte a diffondere l'uso di Internet tra i cittadini, anche attraverso la sensibilizzazione delle fasce della popolazione che attualmente non fanno uso di servizi on-line;
a rivedere la governance dell'Agenda digitale, in modo da chiarire univocamente obiettivi, ruoli ed azioni, nonché a provvedere alla celere adozione dei decreti attuativi necessari all'implementazione della stessa.
(1-00663) «Bergamini, Palese».
(12 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
sia le istituzioni sovranazionali che i Governi nazionali riconoscono all'evoluzione delle infrastrutture di nuova generazione e al conseguente sviluppo dei servizi in rete un ruolo fondamentale per garantire una crescita inclusiva, sostenibile e duratura dei singoli Paesi e, sotto tale profilo, l'anno 2011 ha rappresentato uno snodo importante caratterizzato dalla definizione degli ambiziosi obiettivi comunitari dell'agenda digitale europea (COM(2010)245) per il prossimo decennio, ma anche dagli indirizzi regolamentari per la realizzazione delle reti di accesso di nuova generazione e dal lancio delle prime offerte a 100 megabit al secondo anche in Italia;
le reti di accesso di nuova generazione sono reti di accesso cablate costituite, in tutto o in parte, da elementi ottici e in grado di fornire servizi d'accesso a banda larga con caratteristiche più avanzate (quale una maggiore capacità di trasmissione) rispetto a quelli forniti tramite le reti in rame esistenti;
dette reti, definite anche come delle vere e proprie «autostrade informatiche» per veicolare il traffico dati a grande velocità, in sicurezza e senza strozzature, secondo quanto emerge dal secondo rapporto dell'Osservatorio I-Com sulle reti di nuova generazione, rappresentano non solo uno strumento di sviluppo e crescita dell'economia, ma anche e soprattutto una modalità di investimento per evitare il cosiddetto «sotto-sviluppo» dei Paesi;
non a caso, proprio sulle reti di nuova generazione, si sono indirizzati importanti investimenti sia di carattere pubblico che privato nei principali Paesi del mondo e, in particolare, negli Stati Uniti, in Cina, in Corea, in India e in Australia;
anche i Paesi europei a più elevato tasso di digitalizzazione quali il Regno Unito, l'Olanda e le economie scandinave hanno investito sulle reti di accesso di nuova generazione, anche se in modo più limitato di altre realtà internazionali;
ciononostante, numerosi studi di caratura nazionale e internazionale dimostrano come le reti di nuova generazione (fisse e mobili) possono promuovere la crescita almeno di un 1 punto di prodotto interno lordo ogni 10 per cento aggiuntivo di diffusione della banda larga e, al contempo, generare importanti risparmi che, a regime, per l'Italia corrisponderebbero a quasi 40 miliardi di euro all'anno. Sul punto, si segnala come la Banca Mondiale stimi, infatti, in 1,21 per cento l'impatto per i Paesi ad alto reddito di prodotto interno lordo aggiuntivo per ogni 10 per cento di diffusione della banda larga (Qiang e Rosotto, «Economic impacts of broadband», in Information and Communication for Development 2009: Extending Reach and Increasing Impact, Word Bank). Con riferimento specifico all'Italia, inoltre, il Progetto Italia digitale 2010 di Confindustria quantifica i risparmi grazie al: telelavoro (in 2 miliardi di euro); e-learning (in 1,4 miliardi di euro); e-government e impresa digitale (in 16 miliardi di euro); e-health (in 8,6 miliardi di euro); giustizia e sicurezza digitale (in 0,5 miliardi di euro); gestione energetica intelligente (in 9,5 miliardi di euro). Analoghe considerazioni sono contenute nel rapporto Oecd (2009) Network developments in support of innovation and user needs – Directorate for science, technology and industry;
come si evince della lettura del secondo rapporto dell'Osservatorio I-Com sulle reti di nuova generazione, molti Governi hanno implementato strategie volte alla diminuzione degli ingenti costi di costruzione delle infrastrutture e a fornire, conseguentemente, incentivi sufficienti ad attrarre l'investimento privato in zone di mercato altrimenti escluse. Solitamente tali interventi sono successivi a un preliminare processo di stima della domanda potenziale e possono avere scala nazionale o, più frequentemente, essere associati a politiche regionali settoriali, indirizzate a specifiche aree geografiche, in cui il costo di fornitura privata del servizio richiesto è troppo elevato per il livello di domanda identificata;
tra i meccanismi di investimento implementati a livello europeo e internazionale, uno dei metodi per canalizzare l'intervento pubblico in modo efficiente consiste:
a) nel progettare forme di partenariato, dal momento che esse permettono di controllare più facilmente i flussi di investimento pubblico e, al contempo, di valersi dell'esperienza e della professionalità del settore privato. Un famoso modello di partenariato pubblico-privato è quello adottato per il progetto Amsterdam Citynet, anche se il modello si è evoluto discostandosi dall'assetto iniziale, con la drastica riduzione della componente pubblica, in seguito al trasferimento di parte della proprietà alle società private KPN e Reggefiber;
b) nell'avviare prestiti di lungo periodo per gli operatori e programmi nazionali di finanziamento. I programmi di finanziamento vengono adottati per sostenere gli investimenti degli operatori e per agevolare la diffusione della banda larga attraverso incentivi all'entrata sul mercato. Nella maggior parte dei casi, i finanziamenti sono diretti a sovvenzionare soggetti privati, come nel caso dei programmi di finanziamento statunitensi «Rural Broadband Access Loan» e «Guarantees Program», nei quali il Governo si impegnava a concedere garanzie e prestiti agli operatori a tassi agevolati;
c) nel riconoscimento di incentivi fiscali. Tale tipologia di intervento serve a promuovere gli investimenti in ricerca e sviluppo, in modo tale che gli operatori che investono sia in nuove reti che, in alcuni casi, in nuovi contenuti abbiano incentivi sufficienti a creare ulteriore innovazione. In tale tipologia di intervento rientrano diverse agevolazioni fiscali, che variano a seconda della legislazione del Paese prescelto, e che comprendono il credito di imposta (Usa) e i sussidi elargiti agli operatori di business (Canada). Gli incentivi fiscali sono particolarmente diffusi in Danimarca e negli Stati Uniti, dove sono stati introdotti per agevolare gli investimenti dei nuovi operatori (Usa) e per sussidiare indirettamente i dipendenti di quelle imprese che adottano sistemi di gestione dei dati supportati dalle reti di prossima generazione (Danimarca);
d) nell'adottare strategie di abbattimento dei costi amministrativi legati ai processi di creazione dell'infrastruttura e nell'agevolare gli investimenti in nuovi rami di business;
e) nell'adottare politiche di condivisione delle infrastrutture. La ratio di tali politiche è legata al fatto che i costi delle opere civili costituiscono di gran lunga la componente dominante dei costi di realizzazione delle reti di prossima generazione in fibra ottica. In particolare, il Giappone ha utilizzato le reti elettriche esistenti per lo sviluppo della fibra ottica, arrivando a risparmiare il 23 per cento dei costi di implementazione. La Francia, invece, ha deciso di condividere la fibra nelle aree urbane, a Parigi in particolare, aprendo il suo sistema di fognatura ai concorrenti, evitando in tal modo gran parte dei costi di ingegneria civile. Nel mese di agosto del 2008, il legislatore francese ha poi approvato una legge che impone ai costruttori dei nuovi edifici di distribuire la fibra di tutto l'edificio e di renderla disponibile a tutti gli operatori concorrenti su base non discriminatoria;
f) nell'adottare iniziative per assicurare un utilizzo efficiente dello spettro radio. Lo sviluppo del mercato della banda larga dipenderà in misura consistente dallo sviluppo di reti di tipo wireless, come ha ribadito la Commissione europea nella comunicazione sul futuro della banda larga in Europa del 20 settembre 2010;
g) nell'implementare il cosiddetto mapping territoriale. Un altro tipo di intervento che, ad oggi, è relativamente poco diffuso è la mappatura delle zone scoperte, ossia quel procedimento di identificazione delle aree territoriali effettivamente escluse dall'accesso a servizi a banda larga mediante un catasto delle infrastrutture;
al riguardo, le analisi condotte dall'Osservatorio I-Com sulle reti di nuova generazione hanno evidenziato come non tutte le tipologie di politiche pubbliche a sostegno della diffusione della banda larga e delle reti di nuova generazione sembrano esercitare un effetto positivo sulla diffusione delle linee a banda larga;
infatti, mentre l'implementazione di forme di partenariato pubblico-privato (sia con proprietà pubblica che privata della rete) risulta avere un effetto positivo e statisticamente significativo sul grado di penetrazione della banda larga sul territorio nazionale, così come la realizzazione di programmi di finanziamento e prestiti di lungo periodo per gli operatori, altre politiche quali la mappatura del territorio o il riconoscimento di incentivi fiscali sembrano esercitare un effetto debole e statisticamente non significativo;
in ogni caso, si ritiene che la questione del finanziamento e degli investimenti in banda larga e reti di nuova generazione appaia troppo importante dal punto di vista economico e sociale per essere lasciata solo nelle mani degli investitori privati, la cui disponibilità all'investimento in tempi rapidi potrebbe essere limitata dagli elevati costi di realizzazione delle nuove reti e, soprattutto, dall'incertezza circa la capacità di ottenere adeguati ritorni dall'investimento;
l'Italia, peraltro, presenta un numero di «analfabeti digitali» (definito come numero di cittadini che non hanno mai utilizzato Internet) fra i più alti d'Europa e questo fenomeno – che frena la crescita economica e la diffusione della cultura delle informazioni, pregiudicando in modo irreversibile il futuro delle prossime generazioni – nel breve e nel medio periodo, di fatto, potrà essere efficacemente contrastato solo attraverso una forte politica di investimenti pubblici da parte dello Stato;
con il termine Agenda digitale si intendono un insieme di specifiche politiche pubbliche volte al potenziamento delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione;
l'Agenda digitale europea è stata presentata dalla Commissione europea nel maggio 2010 – comunicazione «Un'agenda digitale europea» (COM(2010)245) – con lo scopo di sfruttare al meglio il potenziale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione per favorire l'innovazione, la crescita economica e la competitività;
non a caso l'Agenda digitale europea rappresenta una delle sette «iniziative faro» della Strategia per la crescita «Europa 2020», proponendo di realizzare un mercato unico digitale, di garantire un internet «veloce» e «superveloce» accessibile a tutti e a prezzi competitivi, attraverso reti di nuova generazione, di favorire gli investimenti privati e raddoppiare le spese pubbliche nelle sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione;
il 20 settembre 2010, la Commissione europea ha presentato un pacchetto di misure di attuazione dell'Agenda digitale, tra le quali la comunicazione (COM(2010)472) che indica l'obiettivo di assicurare entro il 2020 l'accesso ad Internet a tutti i cittadini con una velocità di connessione superiore a 30 megabit al secondo (banda ultra larga) e per almeno il 50 per cento delle famiglie con velocità superiore a 100 megabit al secondo;
la promozione di reti di banda larga è, infatti, ritenuta di importanza centrale al fine del superamento del cosiddetto digital divide e con il termine «banda larga», nella teoria dei segnali, vengono indicati i metodi che consentono a due o più segnali di condividere la stessa linea di trasmissione. Esso è però divenuto con il tempo sinonimo di «alta velocità» di connessione alla rete Internet e di trasmissione ed è, pertanto, un concetto relativo e in evoluzione con l'avanzamento tecnologico. L'attuale sviluppo tecnologico indica generalmente come «banda larga» le connessioni in Europa superiori a 2 megabit al secondo;
il Piano nazionale per la banda larga, coordinato dal Ministero dello sviluppo economico, mira all'eliminazione del digital divide in tutto il Paese, in particolare tramite l'eliminazione del deficit infrastrutturale presente in oltre 6 mila località del Paese ed i cui costi di sviluppo non possono essere sostenuti dal mercato;
l'Agenda digitale europea fa riferimento anche alla banda «ultra larga», termine con il quale sono generalmente indicate velocità di connessione superiori a 30 megabit al secondo e che possono raggiungere anche i 100 megabit al secondo;
sullo stato di diffusione della banda larga in Italia fornisce informazioni utili il rapporto «Raggiungere gli obiettivi Europei 2020 della banda larga in Italia: prospettive e sfide» presentato il 30 gennaio 2014 da Francesco Caio, nella sua qualità di commissario per l'attuazione dell'Agenda digitale, ai sensi del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013;
il rapporto contiene un'analisi dei piani di investimento dei gestori italiani di telecomunicazioni. Nel rapporto si evidenzia un moderato ottimismo, purché gli operatori continuino ad investire, l'evoluzione tecnologica sia conforme alle attese e vi sia un coordinamento per l'attuazione tra operatori, regolatore e comuni. Per quanto riguarda l'obiettivo della copertura a 30 megabit al secondo per il 100 per cento della popolazione, le prime stime indicano una copertura raggiungibile al 2020 del 70 per cento con piani di dettaglio che arrivano al più fino al 2016-2017 con coperture al 50 per cento. Si ritiene che il raggiungimento completo degli obiettivi dell'Unione europea richieda ulteriori azioni complesse di tipo finanziario e di coordinamento tra i soggetti in campo, con un forte impegno e monitoraggio della Presidenza del Consiglio dei ministri;
inoltre, la Commissione europea ha autorizzato con decisione COM(2012)9833 del 18 dicembre 2012 il progetto nazionale italiano per la banda ultra larga, che sarà gestito nell'ambito di appositi accordi con le regioni. In questo quadro, sono stati emessi a febbraio 2013 i bandi nazionali per 900 milioni di euro per l'azzeramento del digital divide nonché per accelerare lo sviluppo della banda ultra larga;
con il Documento di economia e finanza 2014-2016 l'attuale Governo si è impegnato al raggiungimento degli obiettivi europei al 2020 di garantire al 100 per cento dei cittadini servizi di connettività ad almeno 30 megabit al secondo e incentivando, al contempo, la sottoscrizione di servizi oltre i 100 megabit al secondo per la metà della popolazione;
la IX Commissione (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, il 16 aprile 2014, ha espresso parere favorevole al Documento di economia e finanza 2014-2016 evidenziando, tra le altre cose, la priorità di sostenere adeguatamente la piena attuazione dei piani nazionali della banda larga e della banda ultra larga ed operare per il conseguimento degli obiettivi previsti dall'Agenda digitale europea;
purtuttavia, si deve evidenziare che con riferimento allo stato di attuazione dell'Agenda digitale italiana di cui ai decreti-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012 e n. 69 del 2013, per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo è stato rilevato che dei 55 adempimenti considerati dalla normativa vigente ne sono stati adottati solo 17 (per gli adempimenti non ancora adottati in 21 casi risulta già scaduto il termine per provvedere; rispetto alla ricognizione precedente sono state prese in considerazione le misure dell'articolo 13 del decreto-legge n. 69 del 2013, nonché ulteriori disposizioni del decreto-legge n. 179 del 2012 in precedenza non considerate ma comunque collegate all'attuazione dell'Agenda digitale);
si segnala altresì che non risulta mai utilizzata la procedura prevista dall'articolo 13, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge n. 69 del 2013, in base alla quale, per accelerare l'adozione dei provvedimenti attuativi previsti da quattordici specifiche disposizioni del decreto-legge n. 179 del 2012 si consente, per i regolamenti governativi, la loro adozione su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e non dei ministri proponenti previsti (comma 2-bis) e per i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e per i decreti ministeriali la loro adozione su proposta del Presidente del Consiglio anche in assenza del concerto dei Ministri previsti (comma 2-ter e 2-quater); infatti, tutti i provvedimenti attuativi in questione risultano ancora da adottare, fatta eccezione per due casi, nei quali si è però utilizzata la procedura ordinaria (si tratta nello specifico del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 agosto 2013, n. 109, attuativo dell'articolo 2, comma 1, e del decreto ministeriale 9 agosto 2013, n. 165, attuativo dell'articolo 14, comma 2-bis);
eppure la rilevanza strategica dell'Agenda digitale, in un momento cruciale per il nostro Paese, imporrebbe la priorità di intervenire con urgenza sull'Agenda digitale. Una compiuta dematerializzazione consentirebbe, infatti, di ottenere risparmi pari a 43 miliardi di euro l'anno, di cui 4 miliardi di euro l'anno di soli risparmi per gli approvvigionamenti, 15 miliardi di euro l'anno di risparmi legati all'aumento di produttività del personale, 24 miliardi di euro l'anno di risparmi sui «costi di relazione» tra pubblica amministrazione e imprese, grazie a uno snellimento della burocrazia, come dimostrano i dati dell'Osservatorio fatturazione elettronica e dematerializzazione del Politecnico di Milano;
recentemente, è stata, altresì, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 9 settembre 2014, n. 209, la delibera del comitato interministeriale per la programmazione economica relativa all'approvazione della proposta di accordo di partenariato nell'ambito della programmazione dei fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020;
è stata approvata con delibera del 18 aprile 2014 del Comitato interministeriale per la programmazione economica, la proposta di accordo di partenariato che stabilisce la strategia di impiego di fondi strutturali e di investimento europei per il periodo 2014-2020. Undici gli obiettivi tematici (OT) previsti dal regolamento (UE) n. 1303/2013: OT1: rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l'innovazione; OT2: migliorare l'accesso alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, nonché l'impiego e la qualità delle medesime; OT3: promuovere la competitività delle piccole e medie imprese, il settore agricolo e il settore della pesca e dell'acquacoltura; OT4: sostenere la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori; OT5: promuovere l'adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione dei rischi; OT6: tutelare l'ambiente e promuovere l'uso efficiente delle risorse; OT7: promuovere sistemi di trasporto sostenibili ed eliminare le strozzature nelle principali infrastrutture di rete; OT8: promuovere l'occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori; OT9: promuovere l'inclusione sociale, combattere la povertà e ogni forma di discriminazione; OT10: investire nell'istruzione, formazione e formazione professionale, per le competenze e l'apprendimento permanente; OT11: rafforzare la capacità delle amministrazioni pubbliche e degli stakeholder e promuovere un'amministrazione pubblica efficiente;
l'importo complessivo da ripartire tra gli obiettivi tematici è di 41.548,4 milioni di euro per il periodo di programmazione 2014-2020. Nella delibera sono allegate alcune tavole con cui viene dettagliata la ripartizione già disponibile del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo, pari a complessivi 31.118,7 milioni di euro, articolata per obiettivo tematico rispettivamente a favore delle regioni più sviluppate, delle regioni in transizione e delle regioni meno sviluppate. Nelle successive fasi di negoziazione formale con la Commissione europea e di attuazione dell'accordo di partenariato ci si impegna a tener conto delle esigenze che già sono sorte in fase istruttoria al fine di ottimizzare e garantire l'efficace realizzazione dei programmi, nel rispetto del principio della proficua gestione delle risorse;
come, tuttavia, emerge da una recente inchiesta condotta dal Corriere delle Comunicazioni, tutte le regioni del nostro Paese hanno deliberato in tema di digitalizzazione e sono molte quelle che si sono dotate di agende digitali, reti di nuova generazione, cloud e razionalizzazione dell'esistente: i pilastri, in buona sostanza, sui cui poggia buona parte dei piani;
lo scenario che ne emerge è sorprendente: le regioni sono molto più avanti di quanto si creda in materia di digitalizzazione e non mancano i progetti (di cui moltissimi già portati a termine) votati a rafforzare l'erogazione di servizi innovativi a cittadini e imprese che fanno leva su tecnologie di ultima generazione; il cloud, considerato dai più uno strumento per razionalizzare l’hardware; aumentare la capacità di storage e abbattere i costi in nome dell'efficienza e della spending review;
fra le priorità anche la dematerializzazione e anche in questo caso a guidare i progetti c’è il duplice obiettivo di efficientare la macchina pubblica ottenendo un sensibile risparmio sulle spese vive, che non guasta in tempi di crisi;
da evidenziare il rafforzamento degli investimenti in connettività e in particolare in banda larga per consentire l'erogazione di servizi evoluti e spingere l'attuazione di progetti digitali legati in particolare a sanità e scuola, ma anche a sostenere i distretti produttivi e a favorirne crescita e sviluppo in chiave di globalizzazione;
da Nord a Sud, le agende regionali si somigliano molto; le differenze si misurano per lo più in termini di risorse disponibili e, quindi, di capacità attuativa delle iniziative sulla carta. Il patto di stabilità, da un lato, e l'incapacità di sfruttare appieno i fondi europei, dall'altro, rappresentano i grandi ostacoli sul cammino;
le agende digitali regionali ci sono, dunque, ma ancora non si comprende come potranno integrarsi nel grande progetto nazionale. Attuare un'agenda digitale nazionale, quando ci sono già 21 agende locali, potrebbe determinare il rischio di una frammentazione che può inficiare l'attuazione stessa dei progetti a causa di annose questioni quali la mancanza di standard e di interoperabilità e la duplicazione delle iniziative, per non parlare del pericolo di ritrovarsi un'Italia digitale eternamente a macchia di leopardo;
strettamente legata alla capacità del nostro Paese di centrare pienamente gli obiettivi dell'Agenda digitale europea è senza alcun dubbio l'annosa questione relativa alla necessità di garantire il controllo nazionale dell'infrastruttura di rete;
come noto e costantemente rilevato da precedenti atti di indirizzo e di sindacato ispettivo presentati dal gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, nel 2013, il nostro Paese ha dovuto assistere inerme alla dolorosa cessione, di fatto, ad investitori stranieri di una delle società che per anni ha rappresentato l'eccellenza nel mondo delle telecomunicazioni, ovverosia Telecom;
con riferimento a Telecom spa, in data 4 dicembre 2013, la IX Commissione (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati ha approvato la risoluzione n. 8-00029 concernente la situazione della società, nell'ambito della quale ha impegnato il Governo «ad adottare le iniziative consentite affinché siano garantiti i principi di equità e non discriminazione nell'accesso alla rete di telecomunicazioni da parte degli operatori, e, nel caso in cui si proceda alla costituzione di una società della rete, affinché la governance e gli assetti siano tali da assicurare che la gestione di una risorsa strategica per il Paese sia effettuata in modo rispondente a finalità di interesse generale»;
purtuttavia, durante le audizioni svolte presso la IX Commissione (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, il sindacato Slc-Cgl aveva ribadito che senza uno strumento che potesse rimettere in discussione gli accordi che facevano diventare Telefonica controllore di fatto di Telecom Italia dal 1o gennaio 2014, ogni discussione sugli investimenti in infrastrutture necessari a rimuovere il gap tecnologico del nostro Paese sarebbe avvenuto fuori tempo massimo e che sarebbe stato necessario promuovere il decreto sull'offerta pubblica d'acquisto, avviando successivamente con Telefonica un negoziato che, partendo da un aumento di capitale a cui far partecipare investitori come Cassa depositi e prestiti, fondi pensione, assicurazioni vita, fosse in grado di produrre uno sforzo significativo per la costruzione della rete di nuova generazione;
detto sindacato ha, inoltre, chiesto ai membri della IX Commissione di farsi promotori di una mozione con cui impegnare il Governo, tra le altre cose, a modificare la legge sull'offerta pubblica d'acquisto sulla scorta di quanto realizzato già dal Senato della Repubblica con la mozione n. 1-00160 approvata dall'Assemblea del Senato della Repubblica, a prima firma del presidente Mucchetti e coofirmata dai senatori del gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, ove si chiedeva al Governo di attivarsi al fine di introdurre, con la massima urgenza, anche attraverso l'adozione di un apposito decreto-legge, le necessarie modifiche al Testo unico della finanza, in modo da: a) rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, in linea con le decisioni già assunte dalla Consob stessa in casi analoghi; b) aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, già prevista per l'offerta pubblica d'acquisto obbligatoria, una seconda soglia legata all'accertata situazione di controllo di fatto;
a questo impegno, purtroppo, non si è dato mai seguito, nonostante fosse stato assunto analogamente anche alla Camera dei deputati in occasione della presentazione successiva di mozioni orientate in tal senso da parte di diversi gruppi parlamentari,
impegna il Governo:
a valutare con particolare attenzione, alla luce di quanto previsto dalla normativa nazionale ed europea, l'opportunità di accelerare le procedure di scorporo, ovvero di separazione societaria della infrastruttura della rete di telecomunicazione al fine di rimuovere il gap tecnologico del nostro Paese, mediante la costituzione di una società della rete a maggioranza pubblica che possa prevedere soprattutto il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti;
a valutare l'opportunità di adottare le più opportune iniziative, avendo riguardo ai risultati delle esperienze maturate nel contesto europeo e internazionale richiamate in premessa, tese a favorire gli investimenti pubblici e privati nelle reti di nuova generazione;
a valutare l'opportunità di dare seguito agli impegni richiamati dalla citata mozione n. 1-00160 approvata al Senato della Repubblica in materia di modifiche alla legislazione sull'offerta pubblica di acquisto, a prima firma del presidente Mucchetti e coofirmata dai senatori del gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, per le ragioni espresse in premessa, ove si impegnava, tra l'altro, il Governo pro tempore ad attivarsi al fine di introdurre, con la massima urgenza, anche attraverso l'adozione di un apposito decreto-legge, le necessarie modifiche al testo unico della finanza, in modo da: rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, in linea con le decisioni già assunte dalla Consob stessa in casi analoghi; aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, già prevista per l'offerta pubblica d'acquisto obbligatoria, una seconda soglia legata all'accertata situazione di controllo di fatto;
a valutare l'opportunità di affrontare in modo deciso l'intera materia relativa all'attuazione dell'Agenda digitale, eventualmente intervenendo con un'iniziativa normativa ad hoc, così da dare finalmente esecuzione ad una serie di procedure di rilevanza essenziale per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese;
a valutare l'opportunità di informare quanto prima il Parlamento circa l'ammontare preciso e complessivo delle risorse che saranno destinate alla banda larga e ultra-larga, nonché al piano nazionale per l'attuazione dell'Agenda digitale italiana, chiarendo la strategia complessiva da adottare al fine, da un lato, di non sottovalutare il ruolo che le regioni possono avere in termini di competenze e di conoscenza delle specifiche realtà territoriali ma anche, dall'altro, di evitare inutili «doppioni» e ridondanze che rischierebbero di rallentare i progetti e di non assicurare un efficace impiego delle risorse disponibili.
(1-00664)
«Quaranta, Scotto, Franco Bordo, Ricciatti, Ferrara, Airaudo, Placido, Paglia, Melilla, Marcon, Duranti, Piras, Fratoianni, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Sannicandro, Zaratti, Zaccagnini».
(12 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
le reti di accesso di nuova generazione cablate, costituite in tutto o in parte in fibra ottica, sono in grado di fornire servizi d'accesso a banda larga e ultra larga molto più avanzati – grazie ad una maggiore capacità di trasmissione – rispetto alle reti in rame esistenti;
le tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono il settore che più di ogni altro dà impulso e sostiene la crescita e lo sviluppo di un Paese: come è noto, le reti di nuova generazione – fisse e mobili – contribuiscono fattivamente alla crescita economica: secondo la Banca mondiale nella misura dell'1,3 per cento di prodotto interno lordo per ciascuna quota aggiuntiva del 10 per cento nella diffusione della banda larga;
l'infrastruttura di nuova generazione rappresenta, pertanto, una priorità di investimento perché contribuisce a sviluppare quell’«ecosistema digitale» necessario per recuperare produttività, attrarre investimenti, rivitalizzare la competitività internazionale e creare nuova occupazione qualificata;
la percentuale di investimenti in tecnologie dell'informazione e della comunicazione sul prodotto interno lordo in Europa è, in media, pari a circa il 6 per cento, mentre in Italia non supera il 4,5 per cento. È ampiamente dimostrato che i Paesi che hanno un rapporto investimenti in tecnologie dell'informazione e della comunicazione/prodotto interno lordo più elevato hanno più alti livelli di produttività; metà della crescita della produttività degli ultimi anni negli Stati Uniti è delegata al contributo degli investimenti in tecnologie dell'informazione e della comunicazione; in Europa gli investimenti in tecnologie dell'informazione e della comunicazione contribuiscono alla crescita della produttività per il 40 per cento, mentre in Italia per non più del 23 per cento;
la capacità di crescita delle aziende è sempre più inserita e condizionata dal contesto del sistema Paese: le possibilità di sviluppo delle aziende passano sia dalla capacità di individuare nuovi paradigmi e/o modelli di business, ai quali contribuisce l'investimento in tecnologie dell'informazione e della comunicazione, sia dal contesto in cui operano in termini di servizi tecnologici fruibili nel proprio territorio;
l'Agenda digitale non deve puntare a smaterializzare la carta, ma a far materializzare nuovi processi organizzativi e finanziari più coerenti con l'attuale contesto economico. La scelta dello switch-off (ovvero il passaggio totale dall'analogico al digitale) rappresenta l'unico modo per arrivare finalmente alla totale digitalizzazione delle comunicazioni interne alla pubblica amministrazione e tra questa e i cittadini e le imprese, inoltre è la chiave per spingere anche il nostro Paese a sviluppi rapidi sul digitale, agevolando al contempo l'alfabetizzazione digitale;
l'Agenda digitale europea ha fissato ambiziosi obiettivi in termini di reti e di servizi da conseguire entro il 2020: a) il 100 per cento di copertura con un collegamento a velocità superiore a 30 megabit al secondo e almeno il 50 per cento di popolazione connessa a 100 megabit al secondo; b) il 50 per cento della popolazione europea dovrà comunicare ed interagire con la pubblica amministrazione con modalità di rete; c) il 50 per cento dei cittadini dovrà abitualmente utilizzare l’e-commerce e il 75 per cento dovrà regolarmente ricorrere a internet; d) almeno il 33 per cento delle piccole e medie imprese dovrà vendere i propri prodotti o servizi mediante internet;
l'Italia ha, da un lato, un'insufficiente dotazione di questa fondamentale infrastruttura per cui occorre attivare tutte le iniziative necessarie per accelerarne lo sviluppo, e, dall'altro, una sovrabbondanza di infrastrutture di rete realizzate nel corso degli anni da enti locali, aree metropolitane e società miste, fuori dal controllo degli operatori di telecomunicazioni che duplicano infrastrutture esistenti spesso rimaste del tutto inattive;
l'Italia sconta un grave ritardo nella realizzazione degli obiettivi dell'Agenda digitale europea, anche a seguito di uno sterile confronto tra disponibilità prioritaria dell'infrastruttura o quella dei nuovi servizi digitali, che non ha contribuito né a sviluppare nuovi servizi (sganciandoli definitivamente dalle precedenti modalità fisiche o analogiche) né ad ottimizzare le pur considerevoli dotazioni dell'attuale infrastruttura di rete intesa complessivamente, pubblica e privata;
l'Italia sconta una grave arretratezza su cultura e competenze digitali; dalla capacità d'uso, la cosiddetta «cittadinanza digitale», alle competenze digitali per il lavoro (tutti i lavori), la cosiddetta e-leadership, per finire, non ultimo, alle competenze specialistiche necessarie allo sviluppo di sistemi e servizi, sviluppo che consentirebbe al Paese di spostarsi da mero mercato consumer a Paese produttore di tecnologie;
la recente indagine conoscitiva sulla concorrenza statica e dinamica nel mercato dei servizi di accesso e sulle prospettive di investimento nelle reti di telecomunicazioni a banda larga e ultra-larga condotta congiuntamente dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha suggerito quattro ipotetiche forme di intervento pubblico per lo sviluppo delle reti di comunicazioni a banda ultra larga, distinte in funzione del grado di indirizzo esercitato dalla politica pubblica sul processo di sviluppo delle infrastrutture e del livello di investimento pubblico per la realizzazione delle reti, ovvero: a) le politiche di sostegno indiretto degli investimenti sia dal lato dell'offerta che della domanda; b) l'attività di coordinamento, controllo e monitoraggio dei processi di sviluppo delle reti («oversight»); c) l'investimento pubblico nella realizzazione delle reti nelle aree a «fallimento di mercato»; d) l’«accelerazione» del processo di sviluppo tecnologico;
la medesima indagine conoscitiva ha sottolineato che nel caso di costituzione di una rete nga (next generation access) di tipo Fttc, Fiber to the cabinet, sarebbe riutilizzabile solo il 36 per cento delle infrastrutture civili esistenti nella sezione primaria della rete di accesso in rame;
il Governo, in attuazione dei piani previsti nell'accordo di partenariato 2014-2020, ha recentemente presentato il piano «Crescita Digitale» e il «Piano nazionale Banda Ultra Larga», i cui obiettivi strategici sono strettamente collegati. Piani che saranno sottoposti a una consultazione con gli stakeholder del settore;
il Piano strategico banda ultra larga (Bul) prevede, entro il 2020, la copertura per l'85 per cento della popolazione con connettività di almeno 100 megabit al secondo e per il restante 15 per cento almeno 30 megabit al secondo attraverso investimenti per 6 miliardi di euro pubblici e 2 miliardi di euro privati;
in particolare, il Piano strategico banda ultra larga prevede che – oltre i 2 miliardi di euro di investimenti privati – le fonti di finanziamento saranno pubbliche e per lo più in programmi europei. In particolare, 419 milioni di euro dal Piano strategico banda ultra larga; 2,4 miliardi di euro da programmi operativi regionali a valere sul Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e sul Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale (Feasr); 230 milioni di euro da programmi operativi nazionali Fesr, fino a 5 miliardi di euro dal Fondo sviluppo e coesione (2014-2020),
impegna il Governo:
a promuovere la realizzazione di reti di accesso di nuova generazione aperte, efficienti, neutrali, economiche e pronte per evoluzioni future, garantendo il rispetto delle regole di libero mercato e concorrenza, anche attraverso azioni di coordinamento e di governance;
a favorire e sostenere gli investimenti delle imprese di telecomunicazioni, degli investitori istituzionali, delle utility in un'infrastruttura di accesso di nuova generazione aperta, efficiente e pro competitiva, anche favorendo amministrativamente la posa di reti di comunicazione, assumendo iniziative per ridurre i tempi per il rilascio dei relativi permessi ed escludendo il pagamento di oneri o indennizzi, fermo restando il solo obbligo di ripristino dello stato dei luoghi;
a incrementare, in un'ottica di efficienza della governance, il catasto di ogni infrastruttura, del sotto e sopra suolo, funzionale alla realizzazione di reti di banda ultra larga, siano esse in titolarità di operatori di comunicazione elettronica o di organismi pubblici e di concessionari pubblici;
a prevedere nelle cosiddette «zone a fallimento di mercato» e nelle quali non saranno previsti investimenti con fondi pubblici la possibilità di incentivare l'utilizzo di tecnologie alternative ai fini di ridurre il digital divide;
a realizzare concretamente tutti gli interventi necessari all'Agenda digitale nazionale, che consentano il raggiungimento degli obiettivi dell'Agenda digitale europea, mediante tutti gli strumenti di guida, che assolvano funzione di trasparenza delle procedure e di controllo dell'efficacia delle azioni dell'intera catena decisionale e realizzativa dei soggetti cointeressati (Governo, regioni, enti locali e autorità regolatorie);
a favorire lo sviluppo degli obiettivi del Piano strategico di crescita digitale, anche attraverso apposita iniziativa normativa che attui gli obiettivi del Piano, in particolare quelli relativi al programma «Italia login», e riduca le barriere d'ingresso ai servizi digitali anche attraverso un'azione di accompagnamento volta a ridurre il cosiddetto analfabetismo digitale;
a favorire la diffusione dell'utilizzo della rete e l'alfabetizzazione digitale anche attraverso una pianificazione dello switch-off dei servizi analogici della pubblica amministrazione verso servizi esclusivamente digitali, accompagnando cittadini e imprese nel processo di transizione con interventi coordinati di sviluppo delle competenze digitali in grado di stimolare anche la domanda di servizi e la capacità di integrarli nel cambiamento del Paese ed infine di realizzarli.
(1-00678)
«Bruno Bossio, Carbone, Boccadutri, Tullo, Martella, Coppola, Bonaccorsi, Bargero, Lodolini, Mauri, Aiello, Losacco».
(2 dicembre 2014)
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER L'IMPIEGO DI PARTE DEL RISPARMIO PREVIDENZIALE PER INTERVENTI A SOSTEGNO DELL'ECONOMIA
La Camera,
premesso che:
la Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale ha approvato il 9 luglio 2014 una relazione intitolata «Iniziative per l'utilizzo del risparmio previdenziale complementare a sostegno dello sviluppo dell'economia reale del Paese»;
la relazione è stata trasmessa alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in data 10 luglio 2014;
la Commissione ha svolto un approfondito lavoro, nell'ambito dell'ampliamento delle competenze che il legislatore ha previsto, con l'ultima modifica approvata con la legge di stabilità per il 2014, affidando ad essa non solo le tradizionali funzioni di controllo sugli istituti di previdenza, ma un quadro esteso di funzioni di vigilanza: sull'efficienza del servizio in relazione alle esigenze degli utenti, sull'equilibrio delle gestioni e sull'utilizzo dei fondi disponibili, anche con finalità di finanziamento e sostegno del settore pubblico e con riferimento all'intero settore previdenziale ed assistenziale; sulla programmazione dell'attività degli enti e sui risultati di gestione in relazione alle esigenze dell'utenza; sull'operatività delle leggi in materia previdenziale e sulla coerenza del sistema previdenziale allargato con le linee di sviluppo dell'economia nazionale;
in tale quadro la Commissione sta svolgendo un'approfondita indagine conoscitiva su «Funzionalità del sistema previdenziale pubblico e privato, alla luce della recente evoluzione normativa ed organizzativa, anche con riferimento alla strutturazione della previdenza complementare», che sinora ha contato 37 audizioni a partire dal gennaio 2014, con la partecipazione di tutte le istituzioni rappresentative ed istituzionali interessate al settore previdenziale (Corte dei conti, Banca d'Italia, Consob, Covip, Mefop, Inps, Inail, casse private e privatizzate, fondi pensioni dei settori della previdenza complementare, organizzazioni sindacali e datoriali), nonché esperti del settore, consulenti della Commissione;
la Commissione europea si è fatta promotrice di una modifica della direttiva 2003/41/CE Iorp (Institutions for occupational retirement provision) – proposta COM(2014) 167 final 2014/0091 (COD) del 27 marzo 2014 (c.d. Iorp 2) di revisione della cosiddetta direttiva Iorp, relativa alle attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali – approvata il 27 marzo 2014, varando un pacchetto complessivo che prevede un piano della Commissione europea per soddisfare le esigenze di finanziamento a lungo termine dell'economia europea del 27 marzo 2014 e una comunicazione in tema di crowdfunding (finanziamento collettivo) per offrire possibilità di finanziamento alternative per le piccole e medie impresse (MEMO/14/240); il pacchetto si basa sulle risposte ricevute nel corso dell'esame del libro verde del 2013 e sulle discussioni avvenute in vari consessi internazionali, come il G20 e l'Ocse ed identifica una serie di misure specifiche che l'Unione europea deve adottare per promuovere il finanziamento a lungo termine dell'economia europea;
il tema centrale proposto dalla Commissione europea è quello di favorire l'istituzione di fondi comuni europei specializzati nell'investimento di lungo termine in determinate attività produttive in tutto il territorio dell'Unione europea, in quanto «l'Europa ha notevoli esigenze di finanziamento a lungo termine per favorire la crescita sostenibile, il tipo di crescita che aumenta la competitività e crea occupazione in modo intelligente, sostenibile e inclusivo»; «occorre diversificare le fonti di finanziamento in Europa e migliorare l'accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese, che rappresentano la spina dorsale dell'economia europea»; con riferimento specifico alle norme sulle pensioni aziendali o professionali, si rileva che: «Tutte le società europee devono affrontare una duplice sfida: si tratta di approntare un quadro pensionistico che tenga conto dell'invecchiamento della popolazione e, nel contempo, di realizzare investimenti a lungo termine che favoriscano la crescita. I fondi pensionistici aziendali o professionali sono doppiamente coinvolti nella questione: dispongono di oltre 2.500 miliardi di euro di attivi da gestire con prospettive a lungo termine, mentre 75 milioni di europei dipendono in gran parte da loro per la propria pensione. La proposta legislativa di oggi permetterà di migliorare la governance e la trasparenza di tali fondi in Europa, migliorando, quindi, la stabilità finanziaria e promuovendo le attività transfrontaliere, per sviluppare ulteriormente i fondi pensionistici aziendali e professionali come imprescindibili investitori a lungo termine»;
tra le azioni previste nella Iorp 2 vi sono la finalizzazione dei dettagli del quadro prudenziale per banche e imprese di assicurazione che sostengono i finanziamenti a lungo termine all'economia reale, una maggiore mobilitazione di risparmi pensionistici personali e la valutazione delle modalità per incoraggiare maggiori flussi transfrontalieri di risparmio; la proposta di direttiva Iorp 2 si propone complessivamente di tutelare gli aderenti alle forme di previdenza complementare adeguatamente dai rischi di gestione, di incentivare i benefici derivanti da un mercato unico delle pensioni aziendali o professionali, rafforzando la capacità dei fondi pensionistici aziendali o professionali di investire in attività finanziarie con un profilo economico a lungo termine e sostenendo, quindi, il finanziamento della crescita nell'economia reale; si tratta in sostanza di favorire l'uso dei finanziamenti privati, aggiuntivi rispetto a quelli pubblici, per investimenti in infrastrutture e migliorare il quadro complessivo del finanziamento sostenibile a lungo termine;
tali prospettive sono state oggetto di un importante confronto tra il Vicepresidente della Commissione europea e Commissario per il mercato interno e i servizi Michel Barnier e i componenti della Commissione bicamerale nel corso dell'audizione svoltasi alla Camera dei deputati il 3 luglio 2014; Barnier ha illustrato i contenuti del pacchetto di misure riguardanti l'incentivazione dell'uso del risparmio previdenziale per il finanziamento a medio e lungo termine dell'economia reale in Europa, nel quadro del complesso delle iniziative assunte dalla competente direzione generale per lo sviluppo dell'economia e la liberalizzazione delle attività economiche;
sulla necessità di utilizzare il risparmio previdenziale per operazioni di finanziamento dell'economia reale si ricordano anche gli orientamenti emersi nel corso delle audizioni svolte: la Corte dei conti, nel corso dell'audizione del 27 febbraio 2014, ha rilevato che «un significativo contributo al finanziamento delle imprese può essere assolto dalle casse privatizzate e dalla previdenza complementare, nella peculiare funzione di intermediazione del risparmio previdenziale di lungo periodo»; la Consob, in audizione presso la VI Commissione finanze della Camera dei deputati, ha sottolineato come il mondo della previdenza complementare-domestico mostri una ridotta propensione all'investimento in titoli di capitale, ivi compresi quelli italiani; la Banca d'Italia, nell'audizione dell'11 giugno 2014, ha evidenziato che le attività dei fondi pensioni in Italia rappresentano il 5,6 per cento del prodotto interno lordo, a fronte di percentuali pari al 96 per cento nel Regno Unito, al 75 per cento in USA e alla media dei Paesi europei pari al 21 per cento, e che il criterio che deve orientare gli organi di governo dei fondi pensione è quello dell'ottimizzazione delle scelte di investimento e che «a condizione che i fondi si dotino di competenze e assetti organizzativi adeguati, potrebbero esistere margini per una composizione dei portafogli meno tradizionale»;
nella relazione approvata la Commissione bicamerale, allineandosi alle proposte formulate dalla Commissione europea, tenendo conto anche degli orientamenti nell'ambito di un tavolo tecnico di confronto al quale hanno partecipato rappresentanti del Governo e dei dicasteri interessati (Ministero dell'economia e delle finanze, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Ministero dello sviluppo economico), nonché molti delle istituzioni audite in Commissione, ha valutato la percorribilità di iniziative istituzionali volte a far sì che l'impiego di parte dei patrimoni gestiti dai fondi pensione e dalle casse professionali possa concorrere a destinare rilevanti risorse finanziarie a sostegno di programmi strategici per lo sviluppo del sistema Paese, quali l'innovazione tecnologica, le fonti di energia sostenibili, la ricerca, il rilancio di aree industriali in crisi, il salvataggio e la ristrutturazione di piccole e medie imprese in difficoltà, i programmi di edilizia abitativa e scolastica e altro;
occorre sottolineare che sia per la previdenza complementare che per le forme di previdenza obbligatoria degli iscritti negli ordini professionali, in assenza di una forte iniziativa politica, decine e decine di miliardi del risparmio previdenziale, per un totale di quasi 200 miliardi di euro complessivi, continueranno ad essere investiti in strumenti finanziari, per lo più all'estero, in una misura che oggi è pari a circa il 70 per cento del totale degli impieghi; il restante 30 per cento degli impieghi è sostanzialmente investito in titoli di Stato;
tale andamento determina oggi, di fatto, l'impossibilità di finanziare le imprese italiane e le iniziative di sviluppo infrastrutturale del nostro Paese, in un momento in cui il tema delle risorse finanziarie da recuperare per lo sviluppo dell'economia reale dell'Italia è assolutamente rilevante;
nella relazione approvata dalla Commissione, che qui si intende integralmente richiamata, sono ipotizzate una serie di misure volte a conseguire tale obiettivo, secondo tre principali linee di intervento:
a) interventi fiscali per stimolare gli investimenti della previdenza complementare in iniziative di sviluppo del Paese, con misure di equiparazione del regime di tassazione ovvero di agevolazione fiscale in rapporto alla partecipazione ad investimenti in iniziative a sostegno dell'economia reale del Paese; l'idea di fondo è che lo strumento fiscale non deve rispondere solo all'esigenza contingente di ripristinare o mantenere la tenuta dei conti pubblici, ma anche costituire una leva di politica economica a disposizione del Governo e del Parlamento per una politica di sviluppo, così come avviene in altri Paesi europei che utilizzano le agevolazioni fiscali per incentivare l'economia e per operare in senso competitivo con gli altri Stati, dal momento che gli strumenti di politica monetaria sono ormai devoluti alla Banca centrale europea;
nella relazione si analizzano le normative estere esistenti in materia di tassazione dei fondi pensione e delle Casse previdenziali degli ordini professionali;
il sistema prevalente in Europa, ad esempio nel Regno Unito, è il cosiddetto sistema «eet» (esente, esente, tassato), con riferimento, rispettivamente alla fase dell'accumulazione, alla tassazione dei rendimenti maturati in ciascun anno da parte dei soggetti gestori del risparmio previdenziale e della tassazione delle prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita;
in Italia la fase di accumulazione è sostanzialmente esente, in quanto l'articolo 8, comma 4, del decreto legislativo n. 252 del 2005 prevede che i contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, sia volontari sia dovuti in base a contratti o accordi collettivi, alle forme di previdenza complementare sono deducibili dal reddito complessivo per un importo non superiore ad euro 5.164,57;
i contributi versati dal datore di lavoro usufruiscono, altresì, delle medesime agevolazioni contributive;
ai fini del computo del predetto limite si tiene conto anche delle quote accantonate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza di cui all'articolo 105, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi;
la tassazione dei rendimenti maturati in ciascun anno è stata elevata per il 2014 all'11,5 per cento (prima del decreto-legge n. 66 del 2014, che ha ulteriormente incrementato la pressione fiscale in materia, era, infatti, dell'11 per cento);
la tassazione delle prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita, infine, ai sensi dell'articolo 11, comma 6, del citato decreto legislativo n. 252 del 2005, sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta e a quelli di cui alla lettera g-quinquies del comma 1 dell'articolo 44 del testo unico delle imposte sui redditi: sulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche erogate è, pertanto, operata una ritenuta a titolo d'imposta con l'aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali (sino al 9 per cento, quindi, nell'ipotesi di un'anzianità contributiva di 35 anni); le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di capitale sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta; per le casse private rispetto alle tre fasi della tassazione (accantonamento dei contributi, accumulo dei rendimenti, percezione della rendita), si ha una situazione del tipo «eet», ma più gravosa rispetto a quello previsto per i fondi pensione, in quanto se i contributi versati dagli iscritti sono esenti da tassazione fiscale (articolo 38, comma 11, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, che ha esteso anche all'esercizio di attività previdenziali e assistenziali da parte di enti privati di previdenza obbligatoria la disciplina dell'articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, per gli enti pubblici), il trattamento fiscale dei rendimenti mobiliari è tassato al 20 per cento (articolo 2, comma 6, del decreto-legge n. 138 del 2011, a partire dal 2012), mentre le prestazioni sono assoggettate alle aliquote irpef: la relativa base imponibile è data dal valore della prestazione pensionistica al lordo dei rendimenti conseguiti dall'ente previdenziale, con una sorta di doppia tassazione quindi;
b) interventi ordinamentali concernenti la normativa della previdenza complementare, sia per i fondi pensione che per le casse previdenziali, per stimolare il settore e favorire l'impiego, in condizioni di sicurezza del risparmio, di parte delle risorse ottenute per la promozione di interventi a sostegno dell'economia del Paese; in particolare, nella relazione si ipotizzano: revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare; forme di compensazione o garanzia pubblica per le imprese derivante dall'eventuale incremento dell'impiego del trattamento di fine rapporto in forme di previdenza complementare, in rapporto alla mancata disponibilità dello stesso come forma di autofinanziamento delle imprese; revisione dei limiti quantitativi e tipologici agli impieghi oggetto di definizione per i fondi pensione con il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze n. 703 del 1996 e successiva revisione; definizione dello status giuridico delle casse professionali, che la legge ha previsto come private ma che sia in sede amministrativa – per esempio: dell'inclusione nell'elenco consolidato delle pubbliche amministrazione gestito dall'Istat; dei controlli; della sottoposizione al regime della spending review; dei regimi autorizzatori per gli impieghi del patrimonio; delle modalità di redazione dei bilanci, anche in sede giurisdizionale, sono state, di fatto, ricondotte ad un ambito pubblicistico; altre misure possono riguardare lo sblocco di parte delle risorse degli enti previdenziali pubblici, segnatamente l'Inail, attualmente immobilizzati nel conto di tesoreria unica;
c) definizione delle modalità per la destinazione del risparmio previdenziale a sostegno di investimenti nell'economia reale, attraverso investimenti diretti a sostegno delle imprese, ovvero ampliando il ruolo di raccolta del risparmio della Cassa depositi e prestiti, estendendolo anche al risparmio previdenziale, al fine di favorire l'impiego di interventi strutturali a sostegno dell'economia, in connessione con lo sviluppo dell'impiego di risorse a sostegno del Paese derivanti dalla previdenza complementare;
altro tema importante è quello dello sviluppo delle campagne informative per la sensibilizzazione dei lavoratori, specie i giovani, sulla rilevanza della previdenza complementare per un positivo futuro pensionistico;
per la realizzazione di tale iniziativa dovranno essere assicurate importanti condizioni tecniche, quali acquisire il consenso degli enti interessati, prevedere forme di garanzia dello Stato atte ad assicurare la certezza degli investimenti e la loro adeguata remuneratività, in modo comunque da garantire l'equilibrio della gestione finanziaria degli enti interessati e il rispetto delle normative comunitarie in tema di aiuti di Stato,
impegna il Governo:
ad attuare le linee direttive contenute nella relazione della Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale per l'Assemblea, doc. XVI-bis n. 1 del 9 luglio 2014 e trasmesse alle Presidenze delle Camere in data 12 luglio 2014, al fine di favorire l'impiego di parte del risparmio previdenziale, su base consensuale e garantendo la tutela del risparmio previdenziale, risorse ottenute per la promozione di interventi a sostegno dell'economia del Paese, intervenendo per introdurre misure:
a) per armonizzare il trattamento fiscale delle forme di previdenza complementare e della previdenza riguardante gli ordini professionali, definendo una tassazione a livello inferiore rispetto a quella attualmente prevista per i fondi pensione e valutando, altresì, l'introduzione di un sistema «eet» anche nel nostro Paese;
b) per definire lo status giuridico delle casse degli ordini professionali o enti previdenziali privatizzati ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994 e del decreto legislativo n. 103 del 1996, anche alla luce delle recenti e ripetute decisioni in sede di giustizia amministrativa che hanno richiamato il carattere pubblicistico di tali enti;
c) per valutare forme eventuali di accorpamento delle casse degli ordini professionali al fine di realizzare economie di gestione e modalità di impiego delle risorse più efficienti, fatta salva la separazione delle gestioni relative agli specifici ordini professionali;
d) per prevedere modifiche alla disciplina ordinamentale dei fondi pensione volti a stimolare l'accesso alla previdenza complementare; in particolare nella relazione si ipotizzano: revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare; forme di compensazione o garanzia pubblica per le imprese derivante dall'eventuale incremento dell'impiego del trattamento di fine rapporto in forme di previdenza complementare, in rapporto alla mancata disponibilità dello stesso come forma di autofinanziamento delle imprese; la revisione dei limiti quantitativi e tipologici agli impieghi oggetto di definizione per i fondi pensione con il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze n. 703 del 1996, e successiva revisione;
e) per avviare campagne di informazione per tutti i lavoratori, anche per i dipendenti pubblici, sulle opportunità offerte dalla previdenza complementare, atteso che la piena entrata a regime del sistema contributivo per la previdenza pubblica determinerà la necessità di pensioni complementari anche nel settore pubblico;
f) per valutare l'adozione di altre misure finalizzate a aumentare le risorse finanziarie a disposizione di investimenti di rilevanza pubblica, quali lo sblocco di parte delle risorse degli enti previdenziali pubblici, segnatamente l'Inail, attualmente immobilizzati nel conto di tesoreria unica;
g) per promuovere, d'intesa con i fondi pensione e le casse professionali, un patto per l'Italia per prevedere che, a fronte di interventi di agevolazioni, anche fiscali, e di miglioramento del quadro normativo complessivo del settore, sia verificata la disponibilità di effettuare investimenti di parte dei patrimoni gestiti a favore di iniziative per lo sviluppo infrastrutturale dell'Italia, garantendo la remuneratività degli investimenti, nel quadro della salvaguardia dell'equilibrio finanziario degli enti del secondo e del terzo pilastro e del diritto dei lavoratori a percepire le prestazioni previdenziali.
(1-00602)
(Nuova formulazione) «Di Gioia, Morassut, Di Salvo, Di Lello, Dorina Bianchi, Piazzoni, Palese, Distaso, Aiello, Galati, Fucci, Caruso, Lacquaniti, Capelli, Fava, Adornato, D'Alia, Formisano, Gebhard, Lauricella, Ginoble, Melilla, Piepoli, Zoggia, Ginefra, Pastorelli, Meta, Marzano, Carella, Rostan, Scanu, Pilozzi, Rubinato, Pelillo, Sannicandro, Migliore, Carbone, Francesco Sanna, Grassi, Fioroni, Catania, Bosco, Gigli, Bernardo».
(3 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
l'indirizzo politico adottato dal Governo e dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene è quello di utilizzare il risparmio previdenziale per operazioni di finanziamento dell'economia reale;
tale orientamento trova conferma nel disegno di legge di stabilità per il 2015 e nella relazione intitolata «Iniziative per l'utilizzo del risparmio previdenziale complementare a sostegno dello sviluppo dell'economia reale del Paese», approvata dalla Commissione parlamentare di controllo sulle attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale il 9 luglio 2014 e trasmessa alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in data 10 luglio 2014;
in particolare, per quanto riguarda la legge di stabilità per il 2015, secondo le indiscrezioni di stampa, il documento prevede la possibilità per il lavoratore – anche se ha già scelto di trasferire il trattamento di fine rapporto verso i fondi pensione – di richiedere l'anticipo del trattamento di fine rapporto tramite liquidazione diretta mensile della quota maturanda in busta paga, fino al 100 per cento della somma maturata nel corso dell'anno;
per quanto concerne le modalità operative dell'erogazione del trattamento di fine rapporto, a fronte della richiesta del dipendente, per evitare problemi di liquidità alle piccole e medie imprese, l'idea allo studio sembrerebbe quella che l'azienda si faccia rilasciare dall'Inps una certificazione al diritto alla prestazione, che sarà trasmessa alle banche per ottenere l'erogazione di un finanziamento destinato all'anticipo del trattamento di fine rapporto; allo scadere del finanziamento, in caso di mancata restituzione delle somme da parte dell'azienda, la banca si rivolgerà all'Inps per recuperare il credito vantato verso l'azienda;
sempre il documento della legge di stabilità per il 2015 prevederebbe poi, per recuperare risorse, un aumento della pressione fiscale sulla previdenza integrativa e complementare, con l'elevazione dell'aliquota oggi all'11,5 per cento tra il 20 ed il 26 per cento;
pur comprendendo lo sforzo compiuto dal Governo per reperire le risorse necessarie a far ripartire l'economia italiana, tali decisioni sembrano essere caratterizzate da una logica emergenziale priva di una visione lungimirante; esse, infatti, non sembrano considerare i rischi a cui si espone nel medio-lungo periodo il sistema pensionistico italiano, né tantomeno sembrano tener conto del progressivo invecchiamento della popolazione e, quindi, della necessità di garantire pensioni sicure ed adeguate;
non è, peraltro, la prima volta che un Governo di centrosinistra utilizza soldi dei lavoratori per «fare cassa»; si ricorda a tal proposito la legge finanziaria per il 2007 (articolo 1, commi 755 e seguenti, della legge n. 296 del 2007), con cui il Governo Prodi ha operato un vero e proprio «scippo» del trattamento di fine rapporto nell'intento di recuperare risorse per circa 5 miliardi di euro o il decreto-legge cosiddetto «salva-Italia» (articolo 24 del decreto-legge n. 201/2011), con il quale il Governo Monti e la Ministra Fornero hanno tentato di risanare i conti pubblici elevando d'emblée i requisiti pensionistici;
dalla costituzione del fondo presso l'Inps del trattamento di fine rapporto inoptato, con l'entrata in vigore appunto della legge finanziaria per il 2007, si sta utilizzando in maniera secondo i firmatari del presente atto di indirizzo illegittima quella che costituisce una retribuzione indiretta dei lavoratori per spese correnti, come addirittura il finanziamento di lavori socialmente utili o di comuni e province in dissesto finanziario;
la stessa Corte dei conti ha rilevato che «a partire dal 2010, sulla base della legislazione sopravveniente (...) sembra cessare l'impiego ad investimenti delle somme prelevate (...) a seguito di tale fenomeno può concludersi che il prelievo stesso diviene un'entrata indifferenziata dello Stato, senza alcun vincolo di destinazione e senza l'istituzione di correlate poste passive, destinate alla reintegrazione del fondo», sottolineando il rischio di equità intergenerazionale nonché di pareggio di bilancio derivante dall'utilizzo degli accantonamenti di trattamento di fine rapporto presso il fondo per mere spese correnti,
impegna il Governo:
ad adottare le opportune iniziative, anche di carattere normativo, per il superamento delle previsioni normative di cui ai commi 755 e seguenti dell'articolo 1 della legge n. 296 del 2006, affinché il trattamento di fine rapporto inoptato rimanga in azienda e possa così rappresentare per le imprese stesse, come in passato, una forma di autofinanziamento per ristrutturarsi, investire e ritornare competitive, salvaguardando ed incrementando l'occupazione;
a favorire, in termini fiscali, lo sviluppo della previdenza complementare al fine di garantire al lavoratore la possibilità di costituirsi una previdenza integrativa che compensi la riduzione delle prestazioni del sistema previdenziale pubblico;
ad attuare tutte le opportune iniziative per garantire alle future generazioni pensioni certe e dignitose, considerato che la media dei trattamenti pensionistici italiani è tra le più basse d'Europa.
(1-00639)
«Prataviera, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Simonetti».
(21 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
la previdenza complementare nasce come sistema regolamentare autonomo e strutturato all'inizio degli anni Novanta (articolo 2, comma 1, lettera v), della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 e decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124), in corrispondenza di una revisione complessiva dell'ordinamento pensionistico obbligatorio culminata nella legge n. 335 del 1995. L'obiettivo è quello di introdurre un secondo livello di tutela previdenziale che funga da strumento di compensazione per le riduzioni dei trattamenti pensionistici obbligatori e che concorra a soddisfare gli obiettivi di adeguatezza pensionistica (articolo 38 della Costituzione), ovvero a garantire ai lavoratori più elevati livelli di copertura;
la normativa sui fondi pensione poi è stata riformata dalla legge delega 23 agosto 2004, n. 243, (articolo 1, commi 1, lettera c) e 2, lettera e) e seguenti) e dal decreto legislativo di attuazione 5 dicembre 2005, n. 252, (entrato in vigore il 1o gennaio 2007), con l'intento di aumentare il tasso di adesione dei lavoratori alle forme complementari e i flussi di finanziamento dei fondi pensione. La previdenza di secondo livello interessa tutte le forme di lavoro, autonomo, subordinato, professionale, ma è stata progressivamente estesa anche a soggetti che si trovano al di fuori del perimetro costituito dalle varie tipologie di lavoro;
i fondi pensione vanno oggi considerati anche alla luce delle altre forme di previdenza contrattuale, introdotte nell'ordinamento dalla legislazione più recente, quale ad esempio la legge n. 92 del 2012, che all'articolo 3 disciplina nuovi sistemi di ammortizzazione sociale di fonte contrattuale collettiva;
a livello di normativa europea due sono i principali interventi regolatori in materia e cioè la direttiva n. 49 del 1998 e la direttiva n. 41 del 2003 (cosiddetta direttiva sugli Epap – Enti pensionistici aziendali o professionali), quest'ultima recepita con l'introduzione di apposite disposizioni all'interno del decreto legislativo n. 252 del 2005;
la prima regolamentazione organica della previdenza complementare è stata realizzata con la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, (articolo 2, comma 1, lettera v) e il decreto legislativo attuativo 21 aprile 1993, n. 124;
tale regolamentazione, come detto, è stata sottoposta a revisione nel 2004-2005 con la legge delega 23 agosto 2004, n. 243, (articolo 1, commi 1, lettera c) e 2, lettera e) e seguenti) alla quale si è dato attuazione con il decreto legislativo 5 dicembre 2005 n. 252 (entrato in vigore il 1o gennaio 2007) sul presupposto di una più efficace messa a punto della strumentazione necessaria, anche a livello di flussi di finanziamento, per assicurare l'effettività della diffusione del secondo pilastro previdenziale;
secondo la relazione annuale della Covip del 2013 (dati 2012), tale obiettivo è ancora lontano: alla fine del 2012 le forme pensionistiche complementari contavano su 5,8 milioni di iscritti con un tasso di adesioni, rispetto al totale dei lavoratori occupati (pubblici, privati e autonomi), pari a 25,5 per cento. È solo leggermente più alto il tasso di adesione per il lavoro dipendente privato: supera il 30 per cento se si tiene conto dei soli dipendenti occupati, mentre si riscende sotto tale soglia (circa 27 per cento) se si tiene anche conto dei dipendenti disoccupati (pari all'incirca a 3 milioni);
sul fronte dell'impianto normativo si ritiene poi che talune scelte «tecniche» aumentino le remore dei lavoratori a dare la propria adesione ai fondi pensione. In tal senso, si è posto l'interrogativo se l'attuale situazione di irreversibilità del conferimento del trattamento di fine rapporto – forse discordante con le premesse di un sistema fondato sulla libertà di adesione – non abbia finito per fungere da deterrente per le conseguenze drastiche e definitive che determina;
infatti, subito dopo la riforma del 2005 e alla luce dei dati deludenti sulla conseguente destinazione esplicita o tacita del trattamento di fine rapporto alla previdenza complementare, si è quindi ragionato in ordine all'opportunità di prevedere, a certe condizioni, il «diritto di ripensamento» del lavoratore (senza arrivare ad alcun «approdo» normativo);
va comunque sempre tenuto in considerazione come la previdenza complementare trovi il suo fondamento nell'articolo 38, comma 2, della Costituzione: ciò significa che essa condivide l'obiettivo di garantire l'adeguatezza delle prestazioni pensionistiche;
la previdenza complementare, dunque, per espressa indicazione normativa (articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 252 del 2005) deve concorrere a assicurare ai lavoratori «più elevati livelli di copertura previdenziale», anche in funzione della corrispondente contrazione dei livelli di copertura della previdenza pubblica, in una prospettiva costituzionale di adeguatezza del reddito pensionistico;
occorre certamente una revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare. In merito, risulta necessario tenere in considerazione la limitata entità dell'attuale tasso di adesione, a fronte dell'ampia platea di potenziali contribuenti. Ciò è indice della scarsa propensione del lavoratore medio alla ricerca di forme di risparmio in funzione della garanzia di adeguati trattamenti di quiescenza, nonostante gli effetti prodotti dalle recenti riforme previdenziali;
l'adozione di soluzioni complementari ed integrative della previdenza obbligatoria è attenuata dalla sussistenza di una forte diffidenza nel contribuente medio derivante anche dalla presupposta ed avvertita scarsa tutela, dalla necessaria ed insoddisfatta esigenza di garantire la sorte contributiva e una sufficiente remunerazione del risparmio, oltre che dall'inadeguata convenienza fiscale;
in tale situazione il ventilato ricorso ad un sistema di adesione obbligatoria cagionerebbe un'ulteriore e fisiologica forma di chiusura, acuendo nel contempo la resistenza dei potenziali contribuenti e il contrasto sociale. Una soluzione praticabile è riconducibile alla commistione tra il mantenimento del sistema dell'adesione volontaria, la predisposizione di adeguate agevolazioni fiscali con la previsione di ampi margini di deducibilità e la realizzazione di un solido sistema di garanzie;
in tale ottica – ed in considerazione della perseguita finalità di rendere conveniente per i contribuenti l'adesione ai fondi – appare sì praticabile l'attuazione dell'armonizzazione del trattamento fiscale ma non certamente alcuna soluzione riferibile a forme di adesione obbligatoria che risulterebbe invece del tutto improduttiva;
certamente fruttuoso sarebbe invece provvedere, tra le altre cose, alla realizzazione di un accorpamento delle casse previdenziali;
risulta, infatti, improcrastinabile un intervento di riorganizzazione del sistema delle casse – non circoscritto alla sola forma dell'accorpamento – con la necessaria esigenza di mantenere distinte le evidenze contabili riferibili alle singole casse private o privatizzate;
tale intervento, oltre a consentire l'eliminazione o riduzione delle diseconomie esistenti, renderebbe più agevole l'attuazione dei prescritti controlli di gestione e contabili;
la stessa predisposizione e ridefinizione del sistema di governance – oltre a realizzare evidenti ed immediati risparmi – attuerebbe una lineare e meno variegata azione amministrativa e gestionale, con conseguenti e auspicabili benefici sulla valorizzazione del patrimonio e sulla deflazione del contenzioso;
nel caso di fondi pensione negoziali, la gestione dei singoli fondi è demandata a un consiglio di amministrazione paritetico al 50 per cento designato dagli imprenditori e al 50 per cento dai lavoratori. La percentuale designata dai lavoratori viene nella maggioranza dei casi eletta con liste prestabilite dalle organizzazioni cosiddette «associate» – di fatto Cgil-Cisl-Uil di categoria – e quindi nel consiglio di amministrazione entrano quasi esclusivamente i rappresentanti dei tre sindacati sopra citati;
quello che si vuole sottolineare è che dette organizzazioni sindacali stipulanti gli accordi istitutivi di ciascun fondo poggiano la loro rappresentanza su quella che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare un'iniqua posizione di rendita e di vantaggio, non suffragata da alcuna raccolta di firme con cui si devono invece misurare altre organizzazioni sindacali o associazioni di lavoratori;
tale discriminazione, oltre alle difficoltà tecniche richieste alle liste che si vogliono presentare ex novo o che vogliono rinnovare la loro presenza ma non facenti parti dell'accordo costitutivo del fondo, fa sì che nei fatti siano ben pochi i delegati eletti fuori dell'ambito Cgil, Cisl E Uil, fuori della già citata «corsia privilegiata»;
a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo questo alimenta un senso di sfiducia del lavoratore (contribuente del fondo) ed elettore verso un'istituzione che presenta delle asimmetrie così forti nella propria rappresentanza e potenziali opacità nella gestione del fondo stesso, a causa del fatto che i propri rappresentanti non sono direttamente responsabili di fronte ai lavoratori ma sono «mediati» da un'organizzazione che decide i nominativi nelle liste;
una maggiore iniezione di democrazia partecipata, con posizione paritetica di tutte le liste e con formazione di liste provenienti dal basso ed autonomamente formate, contribuirebbe non poco ad aumentare la platea dei lavoratori aderenti;
l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 252 del 2005 disciplina le forme di previdenza per l'erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, ivi compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 104, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale;
l'azione del Governo ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo non può che essere improntata al perseguimento della tutela degli interessi degli iscritti alle forme di previdenza che deve risultare primario,
impegna il Governo:
a garantire la massima trasparenza della gestione dei risparmi dei lavoratori, ponendo in essere ogni iniziativa utile a garantire, con ampia certezza, il rendimento e la sicurezza del diritto alla pensione da parte del fondo pensione;
a valutare l'adeguatezza dei fondi pensione e la loro aderenza alle previsioni di cui all'articolo 38 della Costituzione, posto che la previdenza complementare, dunque, per espressa indicazione normativa (articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 252 del 2005) deve concorrere ad assicurare ai lavoratori «più elevati livelli di copertura previdenziale», anche in funzione della corrispondente contrazione dei livelli di copertura della previdenza pubblica;
ad assumere iniziative per rivedere l'attuale sistema del silenzio assenso nel conferimento del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione;
a promuovere iniziative normative volte ad avviare serie campagne di informazione sui diritti dei lavoratori e sui modi di impiego del proprio trattamento di fine rapporto;
a promuovere l'accorpamento delle casse degli ordini professionali al fine di realizzare economie di gestione e modalità di impiego delle risorse più efficienti, fatta salva la separazione delle gestioni relative agli specifici ordini professionali;
ad assumere iniziative per superare l'attuale sistema di elezione dei rappresentanti dei lavoratori in seno al fondo negoziale (assemblea dei delegati e/o consiglio d'amministrazione) al fine di eliminare meccanismi elettivi che possano penalizzare l'eterogeneità delle rappresentanze;
a prevedere un metodo elettivo dei rappresentanti dei lavoratori unico ed omogeneo a livello nazionale, valido per ogni fondo ed in ogni azienda;
ad assumere iniziative per definire lo status giuridico delle casse degli ordini professionali o enti previdenziali privatizzati ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994 e del decreto legislativo n. 104 del 1996, richiamando il carattere pubblicistico di tali enti già previsto nell'articolo 2 di quest'ultimo decreto;
ad assumere iniziative per prevedere audit annuali sui bilanci di tutti i fondi pensione e gli enti previdenziali pubblici e privatizzati, eseguiti da un collegio valutatore indipendente internazionale, al fine di stabilire in quale misura i criteri di investimento prefissati siano stati soddisfatti o meno in relazione alla preservazione del patrimonio, al «rendimento target» e alla sostenibilità dell'erogazione pensionistica.
(1-00650)
«Ciprini, Baldassarre, Lombardi, Tripiedi, Rizzetto, Chimienti, Bechis, Rostellato, Cominardi, Currò».
(29 ottobre 2014)
MOZIONI IN MATERIA DI ESENZIONE DAL PAGAMENTO E DI DISDETTA DEL CANONE RAI
La Camera,
premesso che:
il pagamento del canone di abbonamento, istituito con regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, quando ancora non esisteva televisione, è dovuto per la semplice detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle diffusioni televisive, indipendentemente dai programmi ricevuti, a seguito di sentenze della Corte costituzionale (11 maggio 1988, n. 535, e 17-26 giugno 2002, n. 284) che ha riconosciuto la sua natura sostanziale d'imposta per cui la legittimità dell'imposizione è fondata sul presupposto della capacità contributiva e non sulla possibilità dell'utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo al cui finanziamento il canone è destinato;
il canone Rai, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, è ormai un'imposta antiquata e iniqua, che non ha alcun motivo di esistere anche in virtù del maggiore pluralismo indotto dall'ingresso sul mercato di nuovi editori e dall'apporto delle nuove tecnologie (dtt, ddt, dvbh, tv satellitare, adsl, wi-fi, cavo e analogico). Inoltre, è una delle tasse più odiate e per questo più discusse dagli italiani che preferirebbero non guardare la Rai piuttosto che pagare il canone;
è soprattutto un'imposta socialmente iniqua in quanto colpisce tutte le fasce di reddito, comprese le più deboli, nonostante il fatto che il comma 132 dell'articolo 1 della legge finanziaria per il 2008, come modificato dal decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, preveda, a decorrere dall'anno 2008, per i soggetti di età pari o superiore a 75 anni e con un reddito proprio e del coniuge non superiore complessivamente a euro 516,46 per tredici mensilità, senza conviventi, l'abolizione del pagamento del canone Rai esclusivamente per l'apparecchio televisivo ubicato nel luogo di residenza;
la Rai collabora con l'amministrazione finanziaria, Agenzia delle entrate-Sat (Sportello abbonati tv), alla riscossione e alla gestione del canale televisivo, come previsto dall'atto aggiuntivo alla convenzione, stipulato con il dipartimento delle entrate del Ministero dell'economia e delle finanze. Tale collaborazione si estrinseca, tra l'altro, attraverso l'attività di recupero delle morosità, ossia dei canoni non spontaneamente corrisposti dagli abbonati alle scadenze previste da legge;
la legge permette di poter disdire il canone tv a condizione che l'abbonato dismetta gli apparecchi televisivi in suo possesso e ne richieda, quindi, il suggellamento oppure ne denunci la cessione a terzi (regalo, vendita, rottamazione, furto e altro). In caso di suggellamento degli apparecchi l'interessato dovrà anche versare tramite vaglia, intestato all'Agenzia delle entrate di Torino, l'importo di 5,16 euro per ogni apparecchio da suggellare;
la disdetta dell'abbonamento si perfeziona, però, dopo che lo sportello Sat dell'Agenzia delle entrate di Torino invierà a coloro che hanno correttamente disdetto il canone Rai un modulo con il quale, sotto diretta responsabilità dell'utente, verranno indicate tutte le informazioni richieste, allegando il certificato di rottamazione oppure la denuncia di furto in caso di comprovata mancata detenzione della tv o una dichiarazione integrativa in caso di annullamento per cessazione della tv. Inoltre, l'utente autorizza la Guardia di finanza e non meglio citati organi competenti ad accedere alle residenze e dimore per procedere alle operazioni di controllo e di suggellamento, non essendo specificato se si tratti di un controllo successivo per la verifica dell'integrità dei sigilli o di una vera e propria ispezione «autorizzata» di dubbia legittimità;
gli uffici dell'Agenzia delle entrate-Sat richiedono, altresì, in caso di rottamazione dell'apparecchio o in caso di cessione a terzi del medesimo, la compilazione e la spedizione di un «atto sostitutivo di notorietà»;
nonostante gli interessati abbiano seguito le procedure, indicate anche sul sito internet della Rai, per l'esonero dal pagamento del canone o la disdetta dello stesso, questi non solo non hanno ricevuto alcuna risposta, né tantomeno il rimborso delle cifre già pagate indebitamente, ma si sono visti addirittura intimare il pagamento con tanto di sollecito;
sono ormai migliaia le segnalazioni di casi in cui la Rai ha recapitato diffide agli utenti morosi o per libera scelta inadempienti, minacciando il «recupero coattivo dei canoni dovuti anche attraverso il fermo amministrativo dei suoi autoveicoli ed il pignoramento dei suoi beni, tra cui la retribuzione»;
si sottolinea come non sia in alcun modo possibile applicare la procedura del fermo amministrativo dell'automobile in ragione di un ritardo o di un mancato pagamento del canone di abbonamento televisivo, in quanto si tratta di un fermo generalizzato e sistematico che non tiene in alcun conto della concreta situazione in cui versa il debitore, cioè se questi si trovi in una situazione fortemente debitoria e se vi sia un reale pericolo di sottrazione; non è stabilito né in forza di consuetudini, né tanto meno in base a norme vigenti, che lo Stato arrechi un danno tanto considerevole al cittadino per importi irrisori;
la diffida di tale tenore è secondo i firmatari del presente atto di indirizzo fuor di ogni dubbio sproporzionata, vessatoria, antistorica, in contrasto con qualsivoglia principio di corretto rapporto tra concessionaria e utente del servizio pubblico,
impegna il Governo:
ad intervenire tramite l'emanazione di una circolare esplicativa, nonché risolutiva, della situazione con riferimento ai soggetti aventi i requisiti di cui al comma 132 dell'articolo 1 della legge finanziaria per il 2008, che possono ottenere l'esenzione dal pagamento del canone Rai esclusivamente per l'apparecchio televisivo ubicato nel luogo di residenza, nonché a definire le domande di rimborso ancora in sospeso dal 2008 al 2013;
in relazione alla «dichiarazione ad integrazione della disdetta», a fornire adeguata informazione agli utenti ed agli uffici competenti sulla corretta procedura da seguire per la disdetta del canone Rai, rimuovendo gli oneri impropri a carico dell'abbonato per il suggellamento;
a procedere alla convalida, con effetto retroattivo, di tutte le disdette e richieste di esonero effettuate, facendo decadere le pretese in essere a carico dell'utente di corrispondere quote di canone di abbonamento Rai che non costituiscano effettiva omissione, totale o parziale, relativa al pagamento di canoni antecedenti la disdetta, con l'ulteriore effetto di procedere d'ufficio alla liquidazione di quanto indebitamente versato dagli abbonati;
a prevedere la cancellazione dall'elenco degli obbligati al pagamento del canone del nominativo dell'utente che ha effettuato regolare disdetta e sia in possesso dei requisiti per l'esonero.
(1-00592)
«Caparini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(16 settembre 2014)
La Camera,
premesso che:
negli ultimi anni si è manifestato un atteggiamento ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo spesso eccessivamente aggressivo e vessatorio della Rai nella gestione e nella riscossione del canone Rai, riconducibile anche alle difficoltà economiche in cui versa la società;
l'obbligo di pagamento del canone Rai discende da un vecchissimo decreto regio del 1938, una norma anacronistica che purtroppo ha resistito a qualsiasi attività di semplificazione e di rivisitazione dei tributi in senso liberale e che impone il pagamento dell'imposta a «chiunque detenga uno o più apparecchi o altri dispositivi atti o adattabili alla ricezione delle diffusioni radiofoniche e televisive»;
come accertato dalla Corte costituzionale, il canone di abbonamento, «benché all'origine apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli utenti del servizio riservato allo Stato ed esercitato in regime di concessione, ha da tempo assunto, nella legislazione, natura di prestazione tributaria», un'imposta misurata «non più in relazione alla possibilità effettiva per il singolo utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo, al cui finanziamento il canone è destinato» (sentenza n. 284 del 2002), ma che colpisce tutti i cittadini indistintamente dal proprio reddito;
il decreto regio prevede comunque che l'abbonato possa disdire il canone tv a condizione che dismetta gli apparecchi televisivi in suo possesso e ne richieda il suggellamento o ne denunci la cessione a terzi e la legge (comma 132 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007, come modificato dal decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazione, dalla legge n. 31 del 2008) dal 2008 esenta dal pagamento, esclusivamente per l'apparecchio televisivo ubicato nel luogo di residenza, i soggetti di età pari o superiore a 75 anni e con un reddito proprio e del coniuge non superiore complessivamente a 516,46 euro per tredici mensilità, senza conviventi;
molti abbonati che hanno proceduto alla richiesta di disdetta o di esenzione segnalano procedure vessatorie da parte della Rai che talora sembra rispondere con diffide e ingiunzioni di pagamento;
nel mese di giugno 2014, in diverse parti d'Italia, milioni di titolari di partite iva, attività commerciali, studi professionali e vari tipi di impresa, hanno ricevuto un bollettino Rai con la richiesta del pagamento del cosiddetto «canone speciale», nonostante tale canone speciale sia dovuto esclusivamente dalle attività professionali che consentono l'utilizzo di apparecchiature televisive ai clienti all'interno dei propri locali, come alberghi e ristoranti;
le situazioni sopra descritte sono, come detto, in gran parte dovute alla gravissima crisi di inefficienza del sistema radiotelevisivo pubblico;
tale situazione è legata in senso più generale alla situazione del sistema radiotelevisivo italiano, caratterizzato da un bassissimo sviluppo della concorrenza e del mercato, dovuto all'esistenza di un sostanziale duopolio pubblico e privato, costituito, da una parte, dalla società concessionaria in esclusiva del servizio pubblico, la Rai, che vede come azionista di maggioranza lo Stato e, dall'altra, dal gruppo Mediaset;
una reale apertura del mercato alla concorrenza non appare possibile, fino a che le scelte politiche e di settore saranno condizionate dalla presenza di un soggetto pubblico delle dimensioni della Rai attuale;
già nel febbraio 2012 l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha chiesto di ridurre la presenza dello Stato «specialmente nei settori dei media televisivi, dei trasporti, dell'energia e dei servizi locali», mentre circa 14 milioni di italiani hanno detto sì alla privatizzazione della Rai con un referendum abrogativo nel giugno 1995, rimasto poi nei fatti disatteso;
la Rai, con la sua dimensione e struttura organizzativa e gestionale, non ha dimostrato in questi anni di saper assicurare, in qualità di principale attore nel servizio pubblico, il principio del pluralismo, portando in molti casi a pratiche degenerative di lottizzazione partitica;
tale gestione politica e partitica ha inciso pesantemente sull'equilibrio dell'informazione e sull'efficienza economica dell'ente, come dimostrano i dati dell'andamento gestionale del gruppo Rai nel primo semestre del 2014 che indicano una perdita complessiva consolidata di 77,9 milioni di euro e una posizione finanziaria netta del gruppo al 30 giugno 2014 negativa per 170 milioni di euro;
nel febbraio 2014, la Corte dei conti ha affermato nella sua relazione sugli esercizi 2011-2012 che la Rai «non ha ancora perfezionato un rigoroso piano di razionalizzazione e contenimento dei costi», sottolineando e ribadendo «la decisiva necessità che l'azienda attivi comunque ogni misura organizzativa, di processo e gestionale, idonea ad eliminare inefficienze e sprechi, proseguendo, laddove possibile e conveniente, nel percorso di internalizzazione delle attività e concentrando gli impegni finanziari sulle priorità effettivamente strategiche, con decisioni di spesa che siano, singolarmente e nel loro complesso, strettamente coerenti con il quadro di riferimento»;
in assenza di un programma di riforma del sistema radiotelevisivo, i problemi relativi alla gestione economica della Rai, inclusi quelli relativi al canone sopra descritti, non potranno essere risolti;
è pertanto auspicabile che si pervenga nel tempo all'abolizione definitiva del canone Rai, promuovendo, al contempo, un programma di privatizzazione della società Rai-Radiotelevisione italiana spa, che concentri l'attività della società sullo svolgimento del servizio pubblico,
impegna il Governo
a procedere in un tempo ragionevole al riequilibrio del rapporto tra Stato e contribuente con ogni atto amministrativo ritenuto idoneo, garantendo il diritto all'esenzione dal pagamento del canone ai soggetti individuati dal comma 132 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria per il 2008), assicurando la piena disdetta del canone a quanti ne abbiano fatto regolare richiesta.
(1-00668)
«Vargiu, Bombassei, Causin, D'Agostino, Dambruoso, Galgano, Librandi, Matarrese, Mazziotti Di Celso, Molea, Quintarelli, Rabino, Tinagli, Vecchio, Vitelli».
(17 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
il regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, all'articolo 1, prevede che: «Chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento». Si tratta di un'imposta sulla detenzione dell'apparecchio e, pertanto, il canone deve essere pagato indipendentemente dall'uso del televisore o dalla scelta delle emittenti televisive; il canone Rai viene, da sempre, percepito dai cittadini come un'imposta ingiusta, uguale per tutti gli utenti, con un importo pari a 113,50 euro, piuttosto che essere proporzionalmente stabilita in base all'effettiva capacità contributiva;
il sito internet www.abbonamenti.rai.it riporta le disposizioni di legge in base alle quali è possibile, per i cittadini procedere alla disdetta del canone tv; l'articolo 10 del citato regio decreto-legge prevede che gli utenti possano disdire l'abbonamento al canone tv in caso di cessione o alienazione dell'apparecchio (rottamazione, furto o incendio) oppure in caso di suggellamento di tutti gli apparecchi tv detenuti; il suggellamento consiste nel rendere inutilizzabili, generalmente mediante chiusura in appositi involucri, tutti gli apparecchi detenuti dal titolare del canone tv e dagli appartenenti al suo nucleo familiare presso qualsiasi luogo di loro residenza o dimora;
la disdetta del canone tv diventa realmente operativa, in caso di suggellamento, con il versamento, di 5,16 euro per ogni apparecchio da suggellare, all'Agenzia delle entrate di Torino e, per tutti gli altri casi, dopo che lo sportello abbonati tv avrà trasmesso, a coloro che hanno disdetto il canone Rai, il modulo che perfeziona la procedura;
l'articolo 1, comma 132, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008) stabilisce che: «a decorrere dall'anno 2008, per i soggetti di età pari o superiore a 75 anni e con un reddito proprio e del coniuge non superiore complessivamente a euro 516,46 per tredici mensilità, senza conviventi, è abolito il pagamento del canone di abbonamento alle radioaudizioni esclusivamente per l'apparecchio televisivo ubicato nel luogo di residenza»;
i firmatari del presente atto di indirizzo hanno raccolto le segnalazioni di migliaia di cittadini che, nonostante la richiesta di esonero o disdetta del canone tv per la propria abitazione, come previsto dalla legge e come riportato anche sul sito internet della Rai, si sono visti recapitare dalla Rai richieste di pagamento o addirittura diffide, in quanto considerati utenti morosi;
l'articolo 17 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, prevede che le società e le imprese, nella relativa dichiarazione dei redditi, debbano indicare il numero di abbonamento speciale alla radio o alla televisione e la categoria di appartenenza, ai fini della verifica del pagamento del canone di abbonamento radiotelevisivo speciale;
da alcuni mesi, in seguito all'ennesima massiccia campagna nei confronti delle imprese, la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo ha inviato, ai titolari di aziende e attività commerciali, migliaia di bollettini esigendo il pagamento del canone speciale per la detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive al di fuori dall'ambito familiare, indipendentemente dall'uso al quale gli stessi vengono adibiti, ivi compresi gli impianti di videosorveglianza; l'importo dei bollettini precompilati inviati a tappeto dalla Rai, per il pagamento del canone speciale, dovuto per gli apparecchi detenuti nei pubblici esercizi commerciali, varia a seconda della tipologia dell'impresa, da un minimo di 200 ad un massimo di 6.000 euro l'anno;
l'invio dei bollettini, a quanto consta ai firmatari del presente atto di indirizzo, è stato effettuato dalla Rai senza alcuna verifica preventiva circa l'effettivo possesso di un apparecchio per cui è dovuto il pagamento del canone, speciale, ma sulla base di una mera presunzione;
con nota del 22 febbraio 2012 il Ministero dello sviluppo economico - dipartimento per le comunicazioni ha precisato che cosa debba intendersi per «apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni», ai fini dell'insorgere dell'obbligo di pagare il canone radiotelevisivo ai sensi della normativa vigente, senza tuttavia contribuire a chiarire in maniera definitiva la questione del canone speciale,
impegna il Governo
a prevedere l'emanazione di una nota esplicativa che chiarisca in maniera inequivocabile tutti i criteri in base ai quali i cittadini possono ottenere l'esenzione dal pagamento del canone Rai esclusivamente per l'apparecchio televisivo sito nel luogo di residenza, nonché a definire le domande di esonero e disdetta del canone ancora pendenti dal 2008 al 2013.
(1-00672) «Brunetta, Palese».
(19 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
il 21 marzo del 1938, con regio decreto-legge n. 246, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, fu emanata la «Disciplina degli abbonamenti alle Radioaudizioni». Il regio decreto-legge afferma che: «(...) chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento di un canone di abbonamento (...)» precisando anche che: «(...) la presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l'impianto aereo, ovvero di linee interne per il funzionamento di apparecchi radioelettrici, fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio radioricevente (...)»;
oggi non è possibile non percepire tale norma e il pagamento del canone Rai, che ancora ne deriva, non solo come naturalmente datati, ma ancor di più bisognosi di un serio ripensamento in presenza della rete, dei social e dei personal media;
è un canone con natura di prestazione tributaria uguale per tutti senza distinzioni di reddito, tra l'altro, neppure legato alla reale fruizione del servizio pubblico;
per contro, la Rai da sempre ha mantenuto un profilo aggressivo nella gestione della riscossione del canone verso tutti i cittadini sospettati di detenere, a prescindere, un apparecchio o altri dispositivi atti o adattabili alla ricezione delle diffusioni radiofoniche e televisive, inviando, in caso di presunte inadempienze, diffide, ingiunzioni di pagamento fino alla minaccia del fermo amministrativo dell'auto e al pignoramento dei beni e della quota parte della retribuzione;
destano preoccupazioni le voci circa l'intenzione del Governo di presentare un disegno di legge con il quale ogni famiglia titolare di contratto per la fornitura di energia elettrica pagherà il canone Rai con la bolletta dei consumi e con la precisazione che il requisito non sarà più il possesso del televisore, ma di quello di qualsiasi device personale: computer, tablet o smartphone. L'intestatario della bolletta della luce per non pagare il canone dovrà, o dovrebbe, pertanto, dimostrare di non avere alcun dispositivo che lo possa collegare con i canali del servizio pubblico,
impegna il Governo
ad assumere iniziative per provvedere gradualmente, ma in tempi certi e definiti, al superamento dell'attuale impostazione del canone Rai, inserendo nella dichiarazione dei redditi la voce «canone Rai» e rendendo quest'ultimo informato al principio di progressività in base alla capacità economica di ciascuno.
(1-00674)
(Nuova formulazione) «Fratoianni, Scotto, Giancarlo Giordano, Costantino».
(21 novembre 2014)
La Camera,
premesso che:
la riforma del canone è solo una delle problematiche relative alla «questione Rai»: non sfugge a nessuno, infatti, come sia essenziale e non più rinviabile procedere alla riforma «complessiva» della Rai che, al momento, sembra assolvere solo in parte al suo ruolo di servizio pubblico risultando poco attrattiva nei confronti degli utenti in generale e delle nuove generazioni in particolare;
per affrontare un tale percorso appare fondamentale che l'azienda sia guidata da personalità con competenze gestionali ed editoriali di alto profilo, in condizione di dar vita ad un piano editoriale di rilevante livello ed in linea con i relativi obblighi di servizio pubblico;
l'individuazione dei manager che debbono guidare la Rai in questo percorso virtuoso debbono essere selezionati con la massima trasparenza e, soprattutto, effettuando una valutazione approfondita delle loro qualità professionali;
nel prendere in esame il tema della riforma del canone Rai non si può non partire dalla considerazione che esso costituisce un'imposta di scopo e, in quanto tale, non può prescindere dalla qualità del servizio offerto;
non è possibile affidare a soluzioni estemporanee e di discutibile fattibilità (inserendo, ad esempio, una tassa in una tariffa) un tema tanto delicato e particolarmente avvertito dai cittadini, che affronterebbero diversamente la questione se la Rai svolgesse in termini reali, virtuosi e con alti standard di qualità il suo ruolo di servizio pubblico;
l'articolo 1 del regio decreto-legge n. 246 del 1938, convertito dalla legge n. 880 del 1938, ha disposto che chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento;
l'articolo 27, comma 8, primo periodo, della legge n. 488 del 1999, ha poi disposto che il canone di abbonamento alla televisione è attribuito per intero alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo ad eccezione della quota pari all'1 per cento già spettante all'Accademia di Santa Cecilia;
la Corte costituzionale, pronunciandosi sulla legittimità dell'imposizione del canone radiotelevisivo prevista dall'articolo 1 del regio decreto-legge n. 246 del 1938 ha chiarito con la sentenza n. 284 del 2002 che lo stesso costituisce in sostanza un'imposta di scopo destinato come esso è, quasi per intero (a parte la modesta quota ancora assegnata all'Accademia nazionale di Santa Cecilia) alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo;
la sentenza citata, infatti, giustifica l'esistenza di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante ricorso all'imposizione tributaria e, quindi, dell'imposizione del canone in virtù della funzione svolta dalla Rai che svolge un servizio specifico per il soddisfacimento del diritto dei cittadini all'informazione e per la diffusione della cultura, con il fine di ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese;
in seguito l'articolo 47 del decreto legislativo n. 177 del 2005, riprendendo i contenuti dell'articolo 18 della legge n. 112 del 2004 e disciplinando il finanziamento del servizio pubblico generale radiotelevisivo ha disposto, in particolare, che entro il mese di novembre di ciascun anno, il Ministro delle comunicazioni, con proprio decreto, stabilisce l'ammontare dei canoni di abbonamento in vigore dal 1o gennaio dell'anno successivo, in misura tale da consentire alla società concessionaria di coprire i costi che prevedibilmente verranno sostenuti in tale anno per adempiere gli specifici obblighi di servizio pubblico generale radiotelevisivo. Ha, altresì, previsto che è fatto divieto alla società concessionaria di utilizzare direttamente o indirettamente i ricavi derivanti dal canone per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico generale radiotelevisivo;
dai dati comunicati l'11 febbraio 2014 in VI Commissione (Finanze) dal Governo risulta che il 27 per cento delle famiglie italiane non paghi il canone Rai: a fronte di 22,7 milioni di euro di nuclei familiari tenuti al pagamento del tributo, circa 5,9 milioni di euro non sono in regola con il saldo. L'entità di tale fenomeno è differenziata tra le diverse regioni: si va dal 18 per cento dell'Emilia Romagna al 43 per cento della Campania. Tali cifre rilevano che l'evasione del canone Rai è superiore per quasi 19 punti percentuali alla media europea;
sempre in base ai dati forniti dal Governo, nell'ambito delle attività finalizzate al recupero dei canoni dovuti e non spontaneamente pagati da parte dei contribuenti morosi, sono stati inviati, nell'anno 2012, oltre 3 milioni di avvisi di pagamento e di solleciti, nonché iscritte a ruolo oltre 500 mila posizioni per il recupero coattivo delle somme non pagate. Sono stati, inoltre, effettuati incroci tra gli archivi degli «abbonati» e quelli delle anagrafi comunali, con l'emissione di oltre 5 milioni di comunicazioni finalizzate all'acquisizione di nuovi abbonati;
tali attività appaiono insufficienti a contrastare il fenomeno dell'evasione del canone Rai e il danno è stato quantificato in circa 650 milioni di euro annui di mancato gettito;
negli scorsi anni è stata avanzata l'ipotesi di far pagare il canone radiotelevisivo integrandolo con la bolletta per la fornitura dell'energia elettrica; tale misura, tuttavia, oltre a configurare una stortura di sistema, in quanto si carica una tassa su una tariffa, ad essere invisa alla popolazione e ad essere osteggiata dalle associazioni consumeristiche, non consente di commisurare il canone alle condizioni economiche dei nuclei familiari che ne usufruiscono; inoltre, la sussistenza di una pluralità di fornitori del servizio elettrico crea anche problemi di contabilizzazione delle somme spettanti; infine, si configura il rischio che, essendo gli ultrasettantacinquenni esentati dal canone, una rilevante quota di contratti elettrici si sposti verso fascia di popolazione, che peraltro in Italia è sovrarappresentata;
il regime di controlli sull'evasione del canone produce risultati del tutto insufficienti in relazione ai costi sostenuti; addirittura la procedura dell’«insaccamento» dell'apparecchio radiotelevisivo, utilizzata sin dagli anni Cinquanta per gli abbonati che disdicevano il canone, e ancora in uso, ha perso totalmente di significato in quanto il prezzo degli apparecchi radiotelevisivi si è drasticamente ridotto nel corso degli anni ed è quindi estremamente facile per gli evasori sostituire l'apparecchio «insaccato» con un nuovo apparecchio ad un prezzo inferiore a quello del canone;
è pertanto necessario intervenire al fine di promuovere efficaci interventi diretti a ridurre l'evasione del pagamento del canone, dando certezza di risorse alla concessionaria radiotelevisiva, sia pure in un quadro di complessiva ristrutturazione della stessa, in termini di minori costi generali e di un più proficuo utilizzo di risorse,
impegna il Governo
a considerare l'opportunità di assumere iniziative per riformare il canone Rai, valutando se non sia opportuno trasformarlo, nel pieno rispetto della sentenza n. 284 del 2002 della Corte costituzionale, in imposta collegata e ricompresa nelle imposte sui redditi, quindi con gli opportuni criteri di progressività, sopprimendo integralmente un regime di controlli costoso e poco produttivo e in tal modo riducendone significativamente l'importo e collegando altresì tale intervento ad una riforma complessiva della Rai.
(1-00679)
«Garofalo, De Girolamo, Dorina Bianchi, Pizzolante, Minardo, Piso, Pagano, Vignali».
(2 dicembre 2014)
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI DIRITTI DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI RIFUGIATI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA REVISIONE DEL REGOLAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA NOTO COME «DUBLINO III»
La Camera,
premesso che:
il fenomeno dei rifugiati e richiedenti asilo in Europa – a causa dei drammatici conflitti e delle violenze che stanno investendo l'area mediterranea e, più in generale, il continente africano – sta assumendo dimensioni terribili. Secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo, hanno chiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento; in particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo. Tra i Paesi di provenienza, la Siria continua ad occupare il primo posto (16.770), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti, negli anni, è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti più di 23 mila migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra: in media più di 1.600 l'anno);
nonostante lo straordinario impegno del Governo italiano con l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum, che ha salvato migliaia di vite umane, i drammi e le violazioni dei diritti umani continuano a perpetrarsi;
la gestione dell'accoglienza, dell'identificazione e dell'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso: riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967 sullo status dei rifugiati, e a norma del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
nei fatti, l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti;
tra le principali criticità vi è la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati, delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
come rilevato da alcune agenzie di protezione dei rifugiati, tra cui l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, alcune disposizioni del regolamento «Dublino III», in particolare quelle relative alle procedure da adottare per la presa in carico dei minori non accompagnati, stanno determinando seri problemi di interpretazione e di implementazione;
come rilevato da un report dell'Aida 2013, la regolamentazione sta diventando sempre più complicata e complessa e le garanzie a favore dei migranti (nell'espletamento della procedura di richiesta), tra cui il diritto all'assistenza legale, si stanno via via indebolendo;
a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del suddetto regolamento;
il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire ed attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
in considerazione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,
impegna il Governo:
a proporre nelle competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III», che ponga al centro:
a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
b) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
c) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici;
d) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea, considerato che tale sistema, che presuppone la responsabilità condivisa di un piano comune europeo di protezione temporanea e di riconoscimento dell'asilo, risulta prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
e) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti.
(1-00603)
«Nicoletti, Speranza, Berlinghieri, Amendola, Giuseppe Guerini, Quartapelle Procopio, Campana, Beni, Fiano, Monaco, Chaouki, Moscatt, Iacono, Scuvera, Piazzoni, Migliore, Bruno Bossio, Mattiello, Fabbri, Amoddio, Malisani, Brandolin».
(3 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
la Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, considerato che l'Unione europea è soggetta a pressioni migratorie strutturali, conseguenti a cambiamenti sociali e politici negli Stati limitrofi, è tenuta ad assolvere entro il 31 dicembre 2014 il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, attraverso un'efficace promozione della migrazione, individuando strumenti operativi;
secondo i dati dello European asylum support office (Ufficio europeo di sostegno per l'asilo – Easo) diffusi nei giorni scorsi, si è registrato nei primi otto mesi un aumento del 28 per cento delle domande di asilo presentate nell'Unione europea, rispetto allo stesso periodo nel 2013. Uno su cinque dei richiedenti asilo è siriano, infatti la Siria è tra i primi tre Paesi di origine dei richiedenti in diciannove Stati dell'Unione europea;
secondo i dati del Ministero dell'interno, nei mesi gennaio-settembre 2014 il numero dei richiedenti asilo si attestava a circa 44.000, con un aumento del 153 per cento a fronte dei dati del 2013 negli stessi mesi, pari a circa 17.387;
in seguito al tragico naufragio di oltre trecento migranti del 3 ottobre 2013, l'operazione militare ed umanitaria italiana Mare Nostrum, iniziata il successivo 18 ottobre 2013, ha costituito un esempio efficace per affrontare e gestire in modo consapevole lo stato di emergenza umanitaria nello stretto di Sicilia, dovuto dall'afflusso eccezionale di migranti. L'operazione Mare Nostrum, operando congiuntamente ed in sinergia con le attività previste dall'europea Frontex, ha contribuito fattivamente a salvare vite umane in pericolo in mare, nonché a contrastare il traffico illegale di migranti. Secondo dati dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, le navi di Mare Nostrum hanno salvato circa il 70 per cento dei migranti e richiedenti protezione internazionale sbarcati da gennaio ad oggi in Italia;
a partire dal prossimo mese di novembre avrà inizio la futura operazione Frontex Plus con obiettivi diversi, legati ad una maggiore vigilanza della frontiera meridionale dell'Unione. Frontex Plus sarà operativa solo nell'area marittima rientrante nella giurisdizione italiana, senza realizzare interventi di salvataggio in acque internazionali o nelle acque di altri Paesi che non riescono a gestire la propria zona di ricerca e salvataggio;
«il successo di Frontex Plus dipende dalla partecipazione dei singoli Paesi», secondo quanto affermato dal Commissario europeo per gli affari interni Cecilia Malmström ed è necessario l'apporto dei singoli Governi per farsi carico di una gestione europea del fenomeno migratorio. Premesso ciò, le due operazioni dovrebbero essere complementari, convergendo nella promozione dell'integrazione europea delle politiche migratorie;
negli ultimi anni si sono accentuate le differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento e alle procedure di esame della domanda;
con il regolamento «Dublino III» si è voluto realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, per evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande;
tuttavia, l'applicazione del regolamento ha evidenziato alcune criticità, segnalate soprattutto da operatori del settore, relativamente alle procedure di gestione in generale e per la presa in carico dei minori non accompagnati, che necessitano di essere corrette,
impegna il Governo:
a garantire una forma di protezione temporanea ai richiedenti provenienti dalla Siria, dall'Iraq e dall'Eritrea, attraverso la concessione di un permesso per motivi umanitari, in applicazione della direttiva 2001/55/CE, recepita dall'Italia con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85, relativa alla «concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati» e alla «promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi»;
al fine di gestire il fenomeno dei flussi migratori misti, a promuovere la creazione di un centro di accoglienza gestito in collaborazione con altri Paesi europei in Sicilia, che, in modo sperimentale, esamini le domande di protezione internazionale;
a promuovere, in sede europea ed in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la creazione di centri di accoglienza nei Paesi di transito, quali Tunisia, Egitto, Marocco, Etiopia e Giordania, dove presentare domanda di protezione internazionale;
ad adottare tutte le misure opportune per potenziare il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati;
a sostenere presso le competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» al fine di eliminare le criticità sollevate in più sedi da personalità e istituzioni operanti nel settore, al fine di consentire ai richiedenti asilo di poter ottenere una protezione vera nei Paesi in cui hanno legami familiari o culturali e concrete prospettive di inserimento sociale e lavorativo.
(1-00604) «Santerini, Marazziti, Dellai».
(6 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
l'Europa non ha ancora mostrato di voler adottare una politica comune per la gestione dei flussi migratori e certamente non è stata capace di mostrare il volto umano della solidarietà di fronte all'emergenza umanitaria di flussi crescenti di migranti, lasciando sostanzialmente sola l'Italia, mentre ha il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far sì che chi fugge dalla morte per raggiungerla, non trovi la morte nel suo cammino; si tratta di persone costrette a lasciare la propria terra per fuggire da situazioni di violenza, di degrado, di costrizione, di negazione di libertà e di privazione della dignità umana, e ad affidarsi a trafficanti criminali; il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte di questi ultimi, infatti, negli anni è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti migliaia di migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra, in media più di 1.600 l'anno);
le ondate di sbarchi degli ultimi mesi sulle coste siciliane ha rimesso al centro del dibattito anche il diritto d'asilo facendo riemergere di nuovo la questione della normativa che lo regola a livello italiano ed europeo e degli strumenti con cui l'Unione europea può aiutare i Paesi membri sottoposti a forti pressioni migratorie alle frontiere;
come Stato di frontiera esterna dell'Unione europea l'Italia è sottoposta a una pressione maggiore alle proprie frontiere rispetto a quanto non sarebbe se tale ingresso non coincidesse anche con l'ingresso nell'area dell'Unione europea, tuttavia ciò non può sottintendere che il Paese accogliente abbia responsabilità maggiori o speciali;
pur tra polemiche e criticità, l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum ha comunque raggiunto lo scopo per il quale era stata avviata; infatti, dall'inizio del 2014, è stata salvata la vita a oltre 22.000 persone e il nostro Paese ha ancora una volta confermato la propria vocazione umanitaria che da sempre la contraddistingue in Europa; tuttavia, i sottoscrittori del presente atto di indirizzo non ritengono che Mare Nostrum possa rappresentare una soluzione permanente alla questione immigrazione, anche perché non ha impedito l'incremento dei flussi migratori illegali, garantendo, di fatto, l'arrivo in Italia a tutti coloro che si imbarcano sulle coste libiche;
secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, sono state 435 mila le richieste di asilo in Europa nel 2013, facendo registrare un forte rialzo rispetto al 2012 quando erano state 335 mila. Secondo le stime, circa il 90 per cento sono nuove domande. Le più numerose sono state presentate da cittadini di nazionalità siriana. Emerge ancora dai dati Eurostat che il 70 per cento delle richieste si è concentrato in Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila, pari al 29 per cento dell'insieme delle domande), seguito da Francia (65 mila, 15 per cento), Svezia (54 mila, 13 per cento), Regno Unito (30 mila, 7 per cento) e Italia (28 mila, 6 per cento). In questi cinque Stati membri si è concentrato il 70 per cento di tutti i richiedenti asilo dell'Unione europea a 28 nel 2013;
la gestione dell'accoglienza, identificazione, assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità data la consistenza del fenomeno e considerate talvolta le difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
il 29 giugno 2013 sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea gli atti legislativi mancanti per completare la «revisione» di tutte le principali norme del Sistema europeo comune di asilo; in particolare, l'adozione del regolamento (UE) n. 604/2013, cosiddetto «Dublino III», entrato in vigore il 19 luglio 2013, in sostituzione del regolamento (CE) n. 343/2003, cosiddetto «Dublino II», ma la cui applicazione è stata prevista solo a partire dal 1o gennaio 2014;
il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale); inoltre, contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
il regolamento «Dublino III» è senza dubbio la parte del Sistema europeo comune di asilo più discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo; infatti, il principio generale su cui si basa è lo stesso della vecchia convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni; insomma, sono state apportati pochi aggiustamenti;
tuttavia, malgrado l'Unione europea si sia dotata di un proprio sistema di asilo (basato sulla nozione di protezione internazionale, articolata nelle tre forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione temporanea, volte a consentire a chiunque di vedersi riconosciuto lo status appropriato alla propria situazione), faticosamente completato dopo 12 anni di lavori nel giugno 2013, come già detto, il cammino verso il raggiungimento di un sistema comune europeo di asilo giusto ed efficace appare ancora lungo; la realizzazione di tale sistema costituisce, in ogni caso, l'esito ultimo di un processo di progressivo avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia le cui tappe sono state delineate nei programmi pluriennali per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
tra l'altro, con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti il diritto d'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti, tra le quali la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
sia il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli sia l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ritengono criticamente che tale sistema non riesca a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace, impedisca l'esercizio dei diritti legali e del benessere personale dei richiedenti asilo, compreso il diritto a un equo esame della loro domanda d'asilo e, ove riconosciuto, a una protezione effettiva e conduca a una distribuzione ineguale delle richieste d'asilo tra gli Stati membri;
la seconda fase del processo, attualmente in corso e recante la definitiva realizzazione di un Sistema europeo comune di asilo, prevede la revisione della citata normativa vigente; a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del sopracitato regolamento;
il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire e attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il Sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
il Governo italiano si è impegnato a chiedere nelle sedi appropriate una risposta europea più adeguata e a inserire la questione di una più efficace gestione in comune delle politiche migratorie fra le priorità del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
occorre, a questo punto, che a livello europeo si predisponga al più presto almeno un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo o lì dove è necessario (presso i consolati o altri uffici) senza doversi imbarcare, con ciò alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei tragici naufragi, per poi accogliere sul suolo europeo chi fugge ed esaminare qui la domanda dei richiedenti;
la Costituzione italiana, attraverso il terzo comma dell'articolo 10, recita chiaramente: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge», ovvero sussiste l'obbligo dell'accoglienza dei richiedenti asilo;
è nel pieno della sua attività il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (e anche in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014) ed è, dunque, opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative per adottare un testo unico di tutte le disposizioni di attuazione degli atti dell'Unione europea in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione internazionale e temporanea, in attuazione anche dell'articolo 10 della Costituzione, e per rivedere tutta la normativa esistente in tema di regolamentazione organica dell'intera materia dell'immigrazione dall'estero;
ad attivarsi in ogni sede dell'Unione europea, soprattutto in occasione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, al fine di realizzare il superamento dell'attuale quadro normativo (così detto sistema di «Dublino III») attraverso una sua revisione per favorire: l'inserimento dei richiedenti asilo già dal momento dell'avvio della procedura di protezione, nei Paesi dell'Unione dove già vivono propri parenti, prima ancora che acquisiscano lo status di apolide; il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
ad assumere iniziative, in sede di Unione europea, per una più efficace azione nei confronti dei Paesi di origine e di transito, impegnando e incentivando i rispettivi Governi in una seria e solidale politica di gestione dei flussi, soprattutto nella lotta alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di esseri umani;
a favorire l'avvio di un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici, favorendo le logiche di ricongiungimento familiare, etnico, religioso e linguistico;
a promuovere l'adozione di:
a) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale a un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea;
a favorire l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea attraverso la creazione di basi europee direttamente finanziate dall'Unione europea o l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti;
a rivedere tutte le note del Ministero dell'interno che concernono i finanziamenti dei bandi interministeriali destinati alla prima accoglienza e alla gestione dei servizi connessi, con particolare riguardo ai criteri di spesa ad essi inerenti;
a verificare la possibilità di promuovere interventi per assicurare beni e servizi per le famiglie italiane meno abbienti con il fine di evitare tensioni tra italiani e richiedenti asilo all'interno della comunità.
(1-00605)
«Manlio Di Stefano, Spadoni, Grande, Scagliusi, Del Grosso, Di Battista, Sibilia, Currò, Artini, Carinelli, Silvia Giordano, Rostellato, Brescia, Frusone, Colonnese, Lorefice, Sorial, Mantero, Grillo, D'Incà, Spessotto, L'Abbate, Benedetti, Liuzzi, Dall'Osso, De Lorenzis».
(7 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
i dati forniti da Eurostat sulle richieste di asilo presentate in Europa fotografano un fenomeno, quello dei rifugiati e richiedenti asilo, di imponenti dimensioni e che necessita di una forte politica comune dell'Unione europea;
secondo il rapporto fornito dall'istituto europeo di statistica, le persone che nei primi tre mesi del 2014 hanno chiesto asilo sul territorio dell'Unione europea sono state circa 108.300, con un aumento di circa il 30 per cento rispetto al dato dello stesso periodo del 2013, che ha registrato nell'anno circa 450 mila richieste di asilo presentate ai 28 Stati dell'Unione europea, con un aumento di circa 100 mila richieste rispetto al 2012;
l'Italia nel 2013 ha ricevuto 27.800 domande di asilo. Erano state 31.723 nel 2008, 19.090 nel 2009, 12.121 nel 2010, 37.350 nel 2011 e 17.323 nel 2012;
nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila), seguito da Francia (65 mila), Svezia (54 mila), Regno Unito (30 mila). Complessivamente, sommato al dato italiano, questi numeri compongono il circa il 70 per cento del totale delle richieste d'asilo presentate nell'Unione europea;
tra i Paesi di provenienza, la Siria occupa il primo posto (16.770 richieste), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero totale di persone arrivate via mare in Italia, sempre nei primi mesi del 2014, è di oltre 18.500 e quasi 43.000 persone sono arrivate via mare nel 2013;
l'operazione di soccorso in mare denominata Mare Nostrum ha salvato in mare, in questi mesi, migliaia di vite umane. Tuttavia, ha dimostrato più volte i suoi limiti, come, ad esempio, nella tragedia del 12 maggio 2014 al largo di Lampedusa e nelle centinaia di morti nei pressi delle coste libiche;
Mare Nostrum è stata una risposta emergenziale ad una questione strutturale, quale è quella relativa ai flussi migratori. Inadeguata e insufficiente e che, in ogni caso, non previene in alcun modo l'esposizione dei potenziali rifugiati ai rischi delle traversate per mare e che, se pure ha permesso di fermare molti dei cosiddetti scafisti, certo non è in grado di intervenire sull'emergenza della tratta di esseri umani, che ha luogo principalmente in Libia e che vede negli scafisti solo l'ultimo anello della catena;
le navi dell'operazione Mare Nostrum, se, da un lato, svolgono un'importante opera di pattugliamento e di soccorso, come prescritto dalle convenzioni internazionali in vigore, dall'altro, tuttavia, nulla può rispetto all'altra grande emergenza che l'Unione europea si trova ad affrontare: la gestione dell'accoglienza e l'assistenza ai richiedenti asilo negli Stati europei e, in particolare, nel nostro Paese, specificatamente interessato dalla pressione migratoria;
la gestione dell'accoglienza, la «presa in carico» e l'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso, riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente, al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
rispetto al precedente regolamento denominato «Dublino II», in particolare, sono state modificate le definizioni di familiari; è stato introdotto l'effetto sospensivo del ricorso; sono stati inseriti i termini anche per la procedura di ripresa in carico; è possibile il trattenimento del richiedente per pericolo di fuga; è introdotto lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente;
studi effettuati negli ultimi anni mostravano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento, sia rispetto alle procedure di esame della domanda; pertanto, l'Unione europea ha riformato il complesso della normativa in materia, ponendolo, nelle intenzioni, come base uniforme al fine di evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande, proprio come premessa delle misure previste dal regolamento «Dublino», nella sua versione modificata;
tuttavia, al di là dei buoni propositi sopra richiamati, diverse disposizioni del regolamento «Dublino III» stanno determinando seri problemi di interpretazione e applicazione negli Stati membri;
l'obiettivo iniziale di tale sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l'applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono il diritto d'asilo inesigibile;
in particolare, il regolamento «Dublino III» limita oltremodo la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
per quanto concerne l'Italia, il regolamento di Dublino interessa, in particolare, due categorie di migranti: quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come Stato responsabile per esaminare la loro domanda d'asilo («dublinati») e quelli che devono essere trasferiti dall'Italia a un altro Stato europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali (in attesa di trasferimento);
il rilievo delle impronte digitali assume un'importanza poiché il regolamento prescrive che il migrante sia «preso in carico» dal Paese di primo accesso. Essendo l'Italia un Paese di transito per la maggior parte dei migranti e vista la diffusione delle notizie sulla lentezza delle procedure del nostro Paese nell'evasione delle richieste d'asilo e sulle limitazioni – pur se illegittime – poste alla libera circolazione in territorio europeo anche successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, sono molti i migranti che si oppongono al rilevamento;
il regolamento (UE) n. 604/2013, nato per contrastare il fenomeno del cosiddetto asylum shopping (la presentazione della richiesta di protezione in più Paesi), appare del tutto inadeguato a gestire i flussi migratori attuali; esso impedisce, di fatto, la necessaria solidarietà europea nella gestione delle domande di protezione e incentiva fenomeni di fughe collettive dai centri di prima accoglienza e, quindi, di «clandestinizzazione» dei migranti;
un'altra criticità particolarmente vistosa riguarda l'accoglienza. Occorre segnalare come non sia stato organizzato nel nostro Paese un sistema di prima accoglienza idoneo alla portata del fenomeno delle migrazioni e, in particolare con riferimento ai richiedenti asilo, siano state spesso utilizzate strutture di accoglienza del tutto improprie e al limite della dignità umana;
un ulteriore elemento critico è la mancanza di un'effettiva ed esigibile tutela legale da parte dei migranti, e ciò ha un forte impatto sull'equità della procedura di asilo. La procedura «Dublino», infatti, può durare molto e il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede il suo caso, né attraverso un apposito ufficio informazioni, né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità competenti, come quelli territoriali dell'immigrazione;
questo produce frustrazione, depressione e un profondo senso di precarietà, che coinvolge anche le popolazioni locali interessate dalla pressione migratoria;
la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
nonostante le criticità del sistema siano note da tempo, l'Unione europea non sembra voler porre rimedio, anzi pare prendere misure che vanno nella direzione opposta a quella della risoluzione dei problemi;
ne è l'esempio la gigantesca operazione di polizia appena partita in tutta Europa volta a fermare, controllare e identificare tutti i migranti che verranno intercettati sul territorio continentale;
l'Italia guiderà tale operazione di polizia europea, denominata «Mos Maiorum», un intervento coordinato dalla direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera del Ministero dell'interno italiano, in collaborazione con l'agenzia Frontex, volto a perseguire l’«attraversamento illegale dei confini»; un'operazione più repressiva che di tutela nei confronti di quella moltitudine di individui che approdati in Europa stanno cercando di realizzare un loro nuovo progetto di vita, lontano da guerre, miseria e persecuzioni;
di fatto, l'identificazione, già dal prelevamento delle impronte digitali, rappresenta oggi per il migrante non una garanzia di tutela dei diritti connessi al proprio status, ma una limitazione della propria libertà di movimento all'interno dell'Unione europea, anche al fine di proporre istanza di protezione in un Paese diverso da quello di primo accesso. Doversi nascondere dall'autorità statuale del Paese di primo accesso rappresenta, in molti casi, l'inizio di un percorso di emarginazione;
ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi (Pse, Ppe, Alde – tra gli italiani Pd, Fi, Popolari, Sel, 5Stelle) hanno depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
sempre l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha raccomandato, nella sua ultima risoluzione, la 2047/2014, una profonda revisione del regolamento «Dublino III»;
riveste particolare importanza la circostanza che l'Italia è presidente di turno dell'Unione europea ed appare qui opportuno che l'Italia ponga la necessità di aggiungere anche tale punto all'ordine del giorno del Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,
impegna il Governo:
a proporre nelle competenti sedi europee un'iniziativa tesa a sospendere l'applicazione del regolamento cosiddetto «Dublino III» e a sostenere la necessità di una sua revisione, che ponga al centro:
a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, fornendo loro un'adeguata assistenza fisica, psicologia e legale, nonché un adeguato percorso di integrazione;
b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, che estenda ai richiedenti asilo ed ai rifugiati i diritti previsti per i cittadini europei dal Trattato di Schengen, permettendo così un'allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
c) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati;
d) a prendere tutti i provvedimenti necessari affinché il tempo richiesto per l'esame delle richieste di asilo in Italia si allinei alla media europea;
e) ad operare per ottenere le modifiche al regolamento di Dublino III idonee a rendere l'identificazione del migrante non un limite alla propria libertà di circolazione e al pieno godimento dei diritti connessi al proprio status, ma una garanzia del rispetto degli stessi diritti;
a farsi portatore in sede europea di un'iniziativa che porti al definitivo superamento del sistema Frontex, affinché quelle risorse siano finalizzate in primis ad organizzare un efficiente sistema di monitoraggio e soccorso;
ad interrompere la prassi di rimpatri cosiddetti «immediati», effettuati prima che sia data ai migranti la possibilità di proporre istanza di protezione, posto che tali provvedimenti, anche se presi in forza di accordi bilaterali, sono illegittimi in quanto costituiscono rimpatri collettivi non motivati singolarmente ed in quanto negano al migrante la possibilità, riconosciuta da numerose convenzioni internazionali, di proporre istanza di protezione;
a porre in sede europea la questione dell'indifferibilità dell'apertura di canali di «accesso protetto», che tramite corridoi umanitari garantiscano la possibilità ai migranti di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi di transito, come l'Egitto, per poi poter entrare in Europa in sicurezza.
(1-00616)
(Nuova formulazione) «Palazzotto, Fratoianni, Scotto, Nicchi, Costantino, Pannarale, Duranti, Piras, Kronbichler, Zaratti».
(13 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
il tema dell'immigrazione, di per sé particolarmente complesso e delicato, assume un particolare rilievo in questo momento storico a causa della grave instabilità politica dei Paesi africani del Mediterraneo e di quelli dell'Africa subsahariana. Si sta assistendo, infatti, ad una mutazione delle cause storiche del fenomeno migratorio. Se prima povertà e scarsezza dei mezzi economici rappresentavano il motivo principale della spinta alla migrazione, oggi la causa prioritaria e più significativa è costituita dalle guerre e dalle persecuzioni;
infatti, la ciclicità delle crisi che attraversano quei Paesi, segnati da fragili equilibri politici interni e debolezza degli apparati statuali, determina spesso tumulti, sommosse e vere e proprie rivoluzioni che rendono impossibile ogni forma di civile convivenza;
ciò cambia il profilo dei flussi migratori che, inizialmente originati dal desiderio di fuggire dalla povertà e da condizioni sociali allarmanti, oggi, per i motivi esposti, sono soprattutto determinati dal desiderio di sfuggire da guerre e devastazioni e spingono i migranti a richiedere all'Europa asilo politico;
i cosiddetti «viaggi della speranza» partono da Eritrea, Mali, Siria, Libia, Gambia, Somalia, Senegal, Pakistan, Nigeria, Egitto ed altri;
secondo il rapporto Eurostat sul primo quadrimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo 2014, hanno richiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento. In particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo;
per quanto attiene alla politica europea di asilo, si ricorda che il tema è già stato oggetto, da parte delle istituzioni comunitarie, di dibattito e di specifiche valutazioni in relazione anche ai complessi e difficili percorsi di integrazione nei Paesi dell'Unione europea;
con il Trattato di Amsterdam, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la «comunitarizzazione», diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione europea e Stati membri;
nel 2009 il Trattato di Lisbona, confermando l'impegno dell'Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: pertanto, con il Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea);
con il regolamento «Dublino III» (regolamento (UE) n. 604/2013) si stabiliscono i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente ad esaminare le domande di protezione internazionale presentate da cittadini di un Paese terzo o da un apolide;
il nuovo regolamento, che abroga il regolamento (CE) n. 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente per l'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e le tempistiche ad esso correlate. Il nucleo fondamentale di tale regolamento è costituito dai criteri che determinano quale sia lo Stato membro dell'Unione europea competente;
altro obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto di asilo dei richiedenti: nel pieno rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi di accoglienza, della solidarietà degli Stati membri e con l'impegno di pervenire ad una rapida e sicura identificazione;
il regolamento «Dublino III» (in base al quale lo Stato membro responsabile dell'esame dell'istanza è quello in cui è avvenuto il primo ingresso del richiedente protezione internazionale) risulta ormai superato, essendo già mutato il quadro di riferimento e le stesse condizioni nelle quali esso è stato definito;
il nostro Paese, ad esempio, risulta essere di gran lunga il primo punto di approdo dei migranti: ma la maggior parte di questi desiderano raggiungere familiari inseriti in comunità già insediate in altre nazioni e rifiutano, pertanto, il riconoscimento considerando l'Italia come un mero Paese di transito;
il superamento del regolamento «Dublino III» consentirebbe, quindi, il trasferimento legale di questi migranti, ma fino a quando non verrà permesso al richiedente asilo o al rifugiato di muoversi legalmente all'interno dell'Europa, si continuerà ad assistere all'aumento dei flussi migratori considerati illegali verso altri Stati membri, a cui seguono, normalmente, nuovi e costosi trasferimenti nel nostro Paese, punto di prima accoglienza;
il regolamento «Dublino III» ha, quindi, un grande limite, perché non risponde più alle esigenze attuali e scarica sul nostro Paese, normalmente meta di primo ingresso, l'intero peso dei flussi migratori, con le drammatiche conseguenze economico sociali che tutti possono valutare;
occorre, pertanto, porre in essere una strategia di ampio respiro che deve potere agire sulle cause e sulla gestione di un tale fenomeno epocale, essendo evidente che non può incombere solo sull'Italia l'immenso peso di questo immane flusso migratorio verso l'Occidente europeo;
il Consiglio europeo ha presentato il 26 e 27 giugno 2014 il proprio documento programmatico. Nell'agenda strategica trovano spazio le priorità chiave per i prossimi cinque anni, tra cui quelle inerenti alla gestione dei flussi migratori, alla tutela del diritto di asilo e alla libertà di circolazione. Il Consiglio ha, quindi, invitato le istituzioni dell'Unione europea e gli Stati membri ad attuare pienamente tali indicazioni prioritarie;
l'Unione europea, ad avviso del Consiglio europeo, deve, infatti, dotarsi di una politica efficace e ben gestita in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità in conformità all'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e garantendone l'effettiva attuazione;
il pieno recepimento e l'attuazione del sistema europeo costituiscono una priorità assoluta. In particolare, occorre che ci si avvii verso «norme comuni di livello elevato ed in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea»;
il Governo è già intervenuto incrementando, anche con l'intervento degli enti locali, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e le commissioni territoriali;
la questione va considerata nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea ed in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,
impegna il Governo:
a proporre, nelle sedi europee competenti, la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» che riguardi:
a) compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, l'impegno a provvedere in modo efficace ad una loro identificazione per evitare che possano finire vittime del traffico clandestino;
b) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote sulla base degli indici demografici ed economici;
c) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri per la concessione del diritto di asilo in modo tale da garantire che il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo sia valido per l'intero territorio dell'Unione europea;
a valutare, insieme ai partner europei, i possibili vantaggi dell'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione che utilizzi le sedi diplomatiche presenti nei Paesi di origine dei flussi migratori, al fine di analizzare e valutare le richieste di protezione internazionale, anche per arginare la consistenza dei flussi migratori.
(1-00617)
«Dorina Bianchi, Misuraca, Bosco, Garofalo, Minardo».
(13 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
con il termine «immigrazione» si tende ad indicare fenomeni tra loro molto diversi da un punto di vista sociologico ma, soprattutto, e di conseguenza, normativo e che l'ormai diffuso utilizzo dell'espressione «migranti», senza la necessaria distinzione tra immigrazione regolare, irregolare e asilo, è una palese discriminazione tra chi ha un titolo legittimo e chi invece viola le leggi;
l'asilo e l'immigrazione, per le loro implicazioni sul governo e controllo delle frontiere e del territorio, è sempre stata di competenza esclusiva dei singoli Stati, finché l'Unione Europea, a partire dagli anni 2000 e poi con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ne ha eroso la potestà, avocando a sé parte sempre più considerevole della disciplina;
con riguardo all'immigrazione clandestina, la direttiva 2008/115/CE, cosiddetta «rimpatri» pone in capo agli Stati l'obbligo di procedere all'espulsione di chi entra clandestinamente entro lo spazio europeo e la legittimità del trattenimento amministrativo, onde procedere non solo all'identificazione ma ad un effettivo allontanamento del clandestino, anche ricorrendo a misure coercitive;
attualmente, secondo anche quanto riportato nel rapporto del luglio 2014 sui centri di identificazione ed espulsione (istituti dalla cosiddetta legge Turco-Napolitano e poi ridisciplinati nel 2011) in Italia: degli 11 centri di identificazione ed espulsione solo 5 sono funzionanti, mentre gli altri sono chiusi a causa dei danneggiamenti provocati dagli ospiti ed altri ancora, snaturandone la funzione, sono stati convertiti in centri di accoglienza per richiedenti asilo; al 4 febbraio 2014, su una capienza complessiva di 1.791 posti, risultava una capienza effettiva di 842 posti e 460 presenze, mentre a luglio 2014 il Ministro dell'interno Alfano dichiarò che i posti disponibili erano già scesi a 500;
le espulsioni sono drasticamente diminuite di numero, come riporta il rapporto appena citato, il che appare una logica ed inevitabile conseguenza della chiusura dei centri a ciò adibiti e della attuale politica di incentivo all'immigrazione;
della direttiva cosiddetta «rimpatri», l'articolo 2 ha costituito fonte normativa per legittimamente formulare il cosiddetto reato di clandestinità, mentre l'articolo 15, al comma 6, prevede il trattenimento fino a 18 mesi al fine di procedere all’«allontanamento»;
invece, in materia di protezione internazionale le direttive comunitarie attualmente di riferimento sono la direttiva 2013/33/UE cosiddetta «accoglienza», la direttiva 2013/32/UE cosiddetta «procedure», direttiva 2011/95/UE cosiddetta «qualifiche»; tuttavia, nonostante le nuove disposizioni in materia di accoglienza e procedure l'obiettivo di creare un sistema europeo comune di asilo (Ceas) è ormai palesemente fallito per le prassi e le legislazioni ancora molto differenziate tra i diversi Stati membri;
proprio in virtù di tali obblighi di controllo dei confini e di una crescente legislazione comunitaria in materia è in vigore il cosiddetto regolamento «Dublino III» (riformulato nel 2013): nato come convenzione ma diventato regolamento, pone il principio del Paese di ingresso quale criterio per la gestione degli arrivi anche per «responsabilizzare» gli Stati membri e obbligarli al controllo dei confini nazionali facenti parte di quelli comunitari;
tali direttive, in forza dei Trattati europei, pongono dei vincoli in materia, tuttavia, come da consolidata giurisprudenza, la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994 della Corte costituzionale), cui lo Stato non può rinunciare nell'assicurare la pacifica convivenza sociale;
mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una rigorosa legislazione di contrasto all'immigrazione clandestina, una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
sicuramente il regolamento «Dublino III» ha particolarmente penalizzato l'Italia, quale Paese di confine marittimo; tuttavia l'Italia è ancora più penalizzata, rispetto agli altri Stati nelle medesime condizioni geografiche, quali, ad esempio, Spagna o Grecia, dalle politiche dell'attuale e del precedente Governo in materia di immigrazione, in totale controtendenza rispetto a quelle degli altri Paesi europei: l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina e la missione Mare Nostrum hanno costituito un incentivo per un flusso incontrollato di ingressi nel nostro Paese e per la tratta degli esseri umani;
in particolare, il fallimento della missione «militare-umanitaria» denominata Mare Nostrum, autorizzata dal Governo italiano ad ottobre 2013, è attestato dai più di 130.000 arrivi attraverso il Mediterraneo solo dall'inizio del 2014, da 2.600 persone annegate o disperse e da un costo complessivo di 1,2 miliardi di euro in anno;
per il momento di grave crisi economica che stanno attraversando i nostri cittadini è impossibile farsi carico degli ingenti costi diretti e conseguenti all'operazione Mare Nostrum, stante i numeri degli sbarchi, i continui arrivi e il numero di immigrati in attesa di salpare dalle coste libiche e africane (pare 800.000);
secondo gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero dell'interno in merito alle richieste di asilo, tra le principali nazionalità dei richiedenti asilo, sia per il 2013 che per il 2014, non compare né la Siria né l'Eritrea, mentre da agosto 2013 a settembre 2014 le variazioni percentuali più consistenti, ossia l'aumento delle richieste di asilo, sono state registrate da Bangladesh (+615 per cento), Senegal (+556 per cento), Gambia (+508 per cento), mentre la Siria ha avuto un calo delle domande del 17 per cento e l'Eritrea del 76 per cento; con riguardo agli esiti delle domande, a luglio 2014, su 4.135 domande esaminate a 376 è stato riconosciuto lo status di rifugiato;
a fronte dell'emergenza del virus Ebola, ormai arrivato in Europa, e del grave problema costituito dal rischio di infiltrazioni terroristiche, confermato dal Ministro dell'interno e aggravato anche dalle continue dichiarazioni dell'Isis, mentre gli altri Stati europei stanno attuando misure di controllo sempre più stringenti sugli ingressi nel proprio territorio, l'Italia è in totale controtendenza, poiché addirittura va a prendere in acque territoriali di altri Stati chiunque tenti di raggiungere l'Europa via mare e non ha più alcun controllo sul proprio territorio per le continue fughe dai centri di accoglienza e le tendopoli abusive che stanno sorgendo in numerose città;
la Marina militare e le forze dell'ordine dovrebbero essere impiegate per proteggere i confini italiani e garantire il necessario controllo del territorio, e i cittadini devono essere tutelati dai rischi sanitari a cui vengono oggi esposti;
anche il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, a fronte dei dati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità (secondo cui «dal dicembre 2013, quando l'epidemia è iniziata alla data di ieri 8 ottobre, sono 8.011 casi probabili, confermati e sospetti, e 3.877 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento nei Paesi dell'africa occidentale») ha dichiarato che «sono necessari più controlli alle frontiere»,
impegna il Governo:
nelle more o in assenza di un intervento strutturale e strategico, coordinato a livello dell'Unione europea o a livello internazionale, per far fronte a condizioni di pericolo per la sicurezza del territorio nazionale, dovute all'eccezionale pressione migratoria verso l'Italia, anche attraverso l'utilizzo della normativa d'urgenza, ad adottare qualsiasi provvedimento o iniziativa idonea a:
a) cessare immediatamente l'operazione cosiddetta Mare Nostrum, garantire il pattugliamento e il controllo dei confini, in particolare marittimi, anche mediante il rifiuto a partecipare alla missione Triton o a qualsiasi operazione o missione se non aventi tali finalità di disincentivo e divieto all'ingresso illegale nel nostro Paese;
b) farsi promotore nelle più opportune sedi comunitarie della revisione del regolamento «Dublino III», senza rinunciare al principio di responsabilità degli Stati in materia di controllo dei flussi di ingresso, e contestualmente ripristinare le politiche di controllo dei confini, anche marittimi, e di contrasto all'immigrazione clandestina adottati dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni, nonché, con riguardo al reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, assicurare per quanto di competenza la piena applicazione;
c) assicurare la piena e immediata operatività dei già esistenti 13 centri di identificazione ed espulsione, prevedendone, nel caso, uno in ogni regione, e l'effettivo allontanamento o rimpatrio dei clandestini dal territorio nazionale, utilizzando le risorse del fondo per i rimpatri solo ed esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge;
d) tutela della sicurezza e della salute dei cittadini, adottare qualsiasi altra iniziativa o promuovere l'adozione di norme speciali per contrastare la pressione migratoria verso il nostro Paese anche in deroga ai trattati comunitari, internazionali e ad ogni disposizione vigente;
e) concordare strategie comuni con i Paesi dell'Unione europea che si affacciano nel Mediterraneo, impiegando gli stessi strumenti di disincentivo dei flussi migratori via mare;
f) farsi promotore in tutte le sedi competenti di una strategia europea comune per il contrasto del fenomeno emergenziale degli sbarchi di immigrati sulle coste del Mediterraneo europeo e, altresì, per la gestione di emergenze dovute ad eventi bellici, in coordinamento con le organizzazioni internazionali al fine di predisporre gli interventi più idonei e tempestivi nelle aree confinanti alle zone colpite dai conflitti armati.
(1-00618)
«Matteo Bragantini, Molteni, Invernizzi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(13 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
secondo i dati Eurostat, 108.300 persone hanno chiesto asilo nei 28 Paesi dell'Unione europea nel primo trimestre del 2014, 24.320 in più rispetto allo stesso periodo del 2013 (+ 29 per cento). Nei primi 3 mesi del 2014, l'Italia ha avuto 10.700 richieste d'asilo, un dato molto superiore (+ 129 per cento) alle richieste registrate nel primo semestre del 2013;
in particolare, secondo gli ultimi dati elaborati dall'Ufficio europeo di sostegno all'asilo (Easo, ottobre 2014), riguardanti i richiedenti asilo nel territorio dell’«UE+», cioè nei 28 Paesi dell'Unione europea più Svizzera e Norvegia, si conterebbero circa 50 mila richieste di asilo a giugno 2014, 60 mila a luglio 2014 e 58.500 ad agosto 2014, essendo Germania, Svezia, Italia e Francia, i Paesi che registrano il maggior numero di richiedenti (tali Paesi totalizzando insieme, ad agosto, il 62 per cento delle domande di protezione, praticamente due sue tre);
solo ad agosto 2014, i richiedenti asilo siriani (circa 12.800) sono aumentati del 6 per cento rispetto a luglio 2014, quelli eritrei (6.350) del 21 per cento, mentre quelli ucraini (1.700 persone) del 32 per cento, con l'aumento percentualmente più elevato, i richiedenti fuggiti da questo Paese in Polonia, avendo per la prima volta dall'inizio della crisi in Ucraina superato quelli in Italia;
secondo il rapporto annuale Global trends pubblicato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si assiste per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ad un enorme aumento di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni, che in tutto il mondo sono circa 51 milioni di persone. E solo nel 2013 sono aumentati di sei milioni, passando dai 45,2 milioni del 2012 ai 51,2 milioni del 2013; sempre secondo lo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, questo rapido e significativo aumento è stato causato in larga misura dalla guerra civile in Siria, un disastro umanitario che da solo ha prodotto 6,5 milioni di sfollati interni e 2,5 milioni di rifugiati all'estero, e in secondo luogo dagli esodi forzati avvenuti nella Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan;
del totale di 51,2 milioni di persone sradicate a forza a livello globale, ci sono circa 33,3 milioni di sfollati interni, 16,7 milioni di rifugiati (i principali Paesi che li hanno accolti e se ne fanno carico come possono sono il Pakistan, 1,6 milioni, l'Iran, 857.000, e il Libano, 856.000) e infine 1,2 milioni di richiedenti asilo (il Paese che ha ricevuto il maggior numero di nuove domande d'asilo è la Germania);
secondo stime dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel mondo sono circa un milione i rifugiati che avrebbero bisogno di reinsediamento, perché nei Paesi ospitanti, in genere confinanti con quelli d'origine, non trovano condizioni che rispettino il loro diritto a ricostruirsi una vita accettabile, o sono sopravvissuti a torture e violenze;
l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pur non costituendo obbligo internazionale, incoraggia fortemente i Paesi ricchi e le democrazie occidentali a farsi carico stabilmente di queste situazioni con quote annuali di reinsediati, ad oggi, su scala globale, trovando posto in questi programmi di accoglienza solo un decimo dei rifugiati che ne avrebbero diritto;
attualmente l'Europa non riveste un ruolo significativo tra i Paesi attivi nei programmi di reinsediamento dei rifugiati. In particolare, l'Unione europea, per parte sua, offre appena cinquemila posti l'anno, l'8 per cento del totale mondiale; gli sforzi maggiori in questo campo sono compiuti da parte di Paesi, come Stati Uniti, Canada e Australia, che reinsediano annualmente nel proprio territorio circa 60 mila rifugiati, a fronte di un numero di soggetti in Europa che sfiora a malapena le cinquemila unità;
il regolamento «Dublino III» – che sostituisce il cosiddetto regolamento «Dublino II» (regolamento n. 343 del 2003), che a sua volta innovava la Convenzione di Dublino del 1990 – contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro che è competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o apolide;
all'interno del sistema europeo comune di asilo, il regolamento «Dublino III» è stato ampiamente discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo, ma anche per la scarsa efficienza del sistema (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); sono state evidenziate una serie di carenze per lo più connesse con il livello di protezione garantito ai richiedenti protezione internazionale soggetti alla «procedura Dublino», e con l'efficienza del sistema istituito dall'attuale quadro normativo, dal momento che appena il 25 per cento circa delle richieste di trasferimento in un altro Stato è stato poi seguito da un trasferimento effettivo;
il principio generale alla base del regolamento «Dublino III» è lo stesso della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); la competenza è individuata attraverso i criteri «obiettivi» del regolamento, che lasciano uno spazio ridottissimo alle preferenze dei singoli e, quindi, molti dubbi in merito alla tutela dei diritti umani dei richiedenti asilo, laddove l'esercizio di un loro diritto fondamentale – quello a fare domanda di protezione internazionale – è subordinato ad un regolamento, che, in questo caso, non terrebbe pienamente conto di un principio generale universalmente garantito e sovraordinato nella gerarchia delle fonti del diritto, quale quello del rispetto dei diritti umani;
pur non intaccando tale principio, «Dublino III» apporta comunque una serie di novità importanti e certamente apprezzabili (molte derivanti in realtà dalla giurisprudenza), in quanto in grado di attenuare parzialmente gli effetti negativi del sistema; è necessario, però, porre rimedio ai problemi alla base del «sistema Dublino», il cui impianto si regge su un presupposto non corrispondente al vero, ovvero che gli Stati membri costituiscano un'area con un livello di protezione omogeneo; le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e i tassi di accoglimento di domande di protezione cambiano drammaticamente da un Paese all'altro;
chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea; ciò significa che, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda, sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione, non tenendo conto né delle aspirazioni dei singoli, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei;
il Governo italiano, per fronteggiare l'eccezionale afflusso di migranti, ha avviato nel 2013 l'operazione Mare Nostrum per il controllo e il pattugliamento del Canale di Sicilia;
negli ultimi tempi si è verificata una consistente ripresa degli sbarchi di cittadini stranieri nelle coste italiane, nonché diversi incidenti culminati in tragici naufragi con centinaia di vittime tra i migranti;
l'attuazione di Mare Nostrum comporta una spesa di oltre 9 milioni di euro al mese, con l'evidente necessità di un interessamento dell'Unione europea, per farsi carico in maniera più decisa della questione migratoria, sia ampliando e rafforzando il ruolo di Frontex, sia intervenendo affinché si assuma un impegno più diretto nelle operazioni volte al controllo della frontiera marittima;
il 16 aprile 2014 il Ministro dell'interno ha svolto un'informativa urgente sull'ingente incremento del flusso di migranti e sulle misure da adottare per farvi fronte, evidenziando che l'azione di Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, costituirà un tema centrale nel semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (luglio-dicembre 2014);
l'intenzione è quella di fare in modo che l'agenzia Frontex assuma la regia ed il coordinamento non solo delle attività di pattugliamento del Mediterraneo, ma anche delle attività di cooperazione operativa con i Paesi di origine e di transito dei flussi;
è evidente la necessità di rendere più efficace il sistema di accoglienza, che ha comportato l'incremento da dieci a venti del numero delle commissioni territoriali destinate alla funzione di velocizzazione dell'esame della decisione delle istanze di protezione internazionale;
è stato di recente annunciato l'avvio dell'operazione Triton, che avrà inizio a novembre 2014 e che avrà un budget iniziale di 2,9 milioni di euro al mese (a fronte dei 9 milioni mensili spesi per Mare Nostrum);
la Commissaria per gli affari interni Cecilia Malmström ha lanciato l'appello affinché gli altri Stati membri ascoltino la richiesta di Frontex per avere più attrezzature e ufficiali stranieri, dal momento che l'operazione Triton si estenderà 30 miglia oltre le acque territoriali, coprendo 18 miglia di acque internazionali, con l'obiettivo di unire le due operazioni di Frontex (l'agenzia dell'Unione europea per il controllo delle frontiere con sede a Varsavia) nel Mediterraneo, denominate Hermes (area di intervento: il Canale di Sicilia) e Aeneas (che interviene sul Mar Jonio davanti alle coste di Calabria e Puglia);
il decreto-legge n. 119 del 2014, da ultimo approvato dalla Camera dei deputati e ora all'esame del Senato della Repubblica, sembra, tuttavia, seguire l'ottica di una prosecuzione dell'operazione italiana, dal momento che dispone nuovi finanziamenti per fronteggiare l’«eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale»;
il decreto-legge n. 119 del 2014 provvede ad incrementare il fondo per i richiedenti asilo di 51 milioni di euro, mentre 9 milioni vengono destinati alle commissioni che devono vigilare sulle richieste d'asilo. Viene, inoltre, istituito ex novo un fondo di 62 milioni di euro per «fronteggiare la nuova emergenza», cioè, si suppone, rifinanziare Mare Nostrum o Frontex. I soldi vengono prelevati dal fondo per i rimpatri, ovvero quel capitolo di spesa creato per rimpatriare gli stranieri giunti illegalmente nel nostro territorio, rendendo, quindi, ancora più difficile espellere dal nostro Paese i clandestini;
non è credibile la sostituzione di Mare Nostrum da parte di Triton, ma è evidente che questa svolgerà piuttosto un intervento di supporto all'operazione italiana, in quanto dispone di un numero più esiguo di mezzi navali rispetto alla Marina militare italiana e la sua «autonomia» si ferma a 30 miglia dalle coste italiane; non potranno, quindi, essere garantite le operazioni di salvataggio come fino ad ora gestite da Mare Nostrum, considerando, inoltre, che il personale della Marina militare italiana opera anche screening sanitari a bordo, che rappresentano un valido deterrente contro la diffusione delle epidemie (ebola e tubercolosi);
il 23 ottobre 2013 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui flussi migratori diretta a realizzare un approccio coordinato basato sulla solidarietà e sulla responsabilità e sostenuto da strumenti comuni a livello di Unione europea, anche al fine di evitare il ripetersi dei tragici eventi di Lampedusa;
in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese metta in evidenza l'urgenza di definire una politica condivisa in materia di immigrazione e diritto d'asilo;
l'individuazione di misure auspicabili volte a migliorare il sistema dell'accoglienza e di gestione dei richiedenti asilo in arrivo non può essere disgiunta dall'obiettivo ultimo di garantire agli stessi condizioni di vita dignitose, nell'auspicio che essi possano costruire in Europa un futuro alternativo in tutta sicurezza rispetto alle realtà da cui fuggono;
in tal senso, vi è la ferma convinzione che si debba separare il problema dell'asilo da quello dell'immigrazione economica, per evitare che il sistema costruito dagli Stati membri per proteggere chi chiede asilo crolli sotto la pressione, comprensibile, di persone in cerca di accettabili livelli di benessere, ma non bisognose, in senso stretto, di protezione;
alla luce del «sistema Dublino», per il quale, come già ricordato, risulta competente lo Stato membro attraverso il quale il richiedente ha fatto ingresso nel territorio dell'Unione europea, si pone con forza l'esigenza di equilibrare gli sforzi da parte di tutti i Paesi membri proprio nell'accoglienza dei profughi, cioè di coloro che fuggono da situazioni di violenza, auspicando, in tal senso, una revisione dei criteri per la determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo, che non necessariamente coincide con quello nel cui territorio la domanda è stata presentata;
alla prova dei fatti, tale sistema presenta almeno due innegabili difetti, rischiando, da un lato, di sovraccaricare gli Stati membri geograficamente più esposti al flusso di profughi (al momento, gli Stati meridionali dell'Unione europea), dall'altro, di ostacolare un'allocazione efficiente dei profughi, quale quella che invece si otterrebbe selezionando lo Stato membro competente in base alla ricettività del suo mercato del lavoro o delle reti di sostegno (parenti, amici) di cui un dato profugo potrebbe soggettivamente godere, nonché dell'effettiva volontà di integrarsi del rifugiato in un Paese che sia stato da lui/lei scelto e non imposto;
ogni tentativo di riforma che intendesse correggere questi difetti dovrebbe essere accompagnato da una periodica determinazione della percentuale di profughi che ciascuno Stato membro sarebbe tenuto ad accogliere in base alla propria situazione economica e da meccanismi di compensazione (burden sharing) per quegli Stati membri che si trovino ad accogliere una percentuale di profughi superiore a quella loro spettante;
secondo l'esperienza che in primis l'Italia continua a vivere, appare non più procrastinabile da parte dell'Unione europea la necessità di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, che seppure generalmente associati a situazioni di guerra o violenza generalizzata, chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea, non solo dei territori più esposti come Lampedusa o Malta;
rispetto a questo obiettivo, la normativa europea già prevede, con la direttiva 2001/55/CE, che il Consiglio dell'Unione europea possa concedere protezione temporanea a determinati gruppi di persone, con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato;
l'istituzione di un regime di questo tipo potrebbe essere accompagnata (anche in base alle disposizioni della direttiva stessa) dalla creazione di corridoi umanitari, ossia da misure di evacuazione dei destinatari della protezione, senza che essi debbano affidarsi a trafficanti e scafisti per raggiungere il territorio dell'Unione europea;
l'istituzione del regime di protezione temporanea non si pone affatto come una modalità emergenziale per il riconoscimento del diritto alla protezione, che resta invece regolato dalle norme a regime, essendo piuttosto da considerarsi come una misura complementare a quanto già previsto in relazione al riconoscimento del diritto a ottenere protezione quando si fugge da un conflitto o da una situazione di violenza generalizzata, un elemento fondamentale della normativa dell'Unione europea, la quale riconosce tale diritto come soggettivamente esigibile (senza che, quindi, gli Stati membri possano opporre alle corrispondenti richieste dinieghi fondati su considerazioni di sostenibilità economica), prevedendo che la richiesta di protezione possa essere presentata solo sul territorio di uno Stato membro;
drammatiche notizie giungono dal continente africano riguardo all'espandersi del virus ebola, in considerazione del flusso continuo di decine di profughi i quali, raccolti in mare in condizioni disperate mediante operazioni di salvataggio, vengono, quindi, accolti sul territorio senza che i tempi e i mezzi a disposizione permettano uno screening efficace per accertare la presenza o meno del virus;
la tutela della salute verso i nostri concittadini è da porre su un piano che non può essere considerato di livello inferiore rispetto a quello teso a garantire la tutela e l'accoglienza dei soggetti migranti in arrivo, e quindi debbono espletarsi tutte le procedure, gli sforzi e le iniziative necessarie a garantire che il territorio nazionale possa essere protetto dal rischio di un'epidemia del virus per via dell'accoglienza prestata ai migranti accolti, che attualmente risulta priva di garanzie in tal senso,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative a livello europeo per una rapida revisione del regolamento «Dublino III» affinché si preveda la compartecipazione di tutti gli Stati membri nelle attività di accoglienza e di identificazione dei migranti, superando l'attuale principio del «Paese di primo arrivo», anche al fine di garantire il diritto fondamentale dei richiedenti asilo di presentare domanda di protezione alle autorità del loro Paese di elezione;
ad adoperarsi affinché il Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2014 preveda l'applicazione di quanto previsto in caso di «afflusso massiccio di sfollati nell'Unione europea», con le modalità di concessione della protezione temporanea, secondo quanto previsto dalla direttiva 2001/55/CE, definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato membro, anche al fine di garantire ai richiedenti asilo e protezione internazionale il diritto costituzionalmente garantito della libertà di circolazione;
ad assumere iniziative per individuare modalità di identificazione dei beneficiari della protezione temporanea da parte dell'Unione europea anche con il concorso diretto dei Paesi di transito, per esempio, attraverso le delegazioni diplomatiche del servizio europeo per l'azione esterna e/o la rete diplomatico-consolare degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e delle associazioni umanitarie;
ad assumere iniziative per prevedere la possibilità di introdurre clausole politiche più flessibili per quel che attiene all'identificazione dello Stato membro competente per una domanda di asilo, permettendo anche ad altri Paesi membri, privi di tale competenza, di decidere di assumere comunque titolarità in tal senso, in presenza di condizioni specifiche (una clausola che è costantemente applicata dall'Italia per i minori non accompagnati richiedenti asilo provenienti da altri Paesi);
a favorire uno sforzo europeo coordinato a beneficio di un maggior utilizzo delle politiche di reinsediamento (resettlement), nonché la promozione di strumenti volti ad assicurare meccanismi di maggiore solidarietà tra gli Stati e di migliore condivisione delle responsabilità fra tutti i Paesi membri, stante il contributo che un più diffuso utilizzo del resettlement potrebbe offrire in termini di soluzione durevole alle problematiche incontrate dai rifugiati (sia quelli presenti sul territorio dell'Unione europea, sia quelli posti al di fuori dei confini europei), garantendo loro piena libertà di circolazione e accesso a tutta l'Europa;
ad assumere iniziative per individuare chiare modalità e costi dei trasferimenti, prevedendo l'obbligo, prima di un trasferimento, di scambiarsi dati (soprattutto sanitari) necessari a garantire assistenza adeguata, continuità della protezione e soddisfazione di esigenze specifiche, in particolare mediche;
a promuovere un sistema che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni in tutti i Paesi e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro, prevenendo ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
ad assumere iniziative volte ad assicurare un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
a prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea.
(1-00619)
«Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero».
(13 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
il 15 giugno 1990 con la firma della Convenzione di Dublino, l'Unione europea si è dotata di un sistema di regole condivise per regolamentare e coordinare l'accoglienza e l'esame delle domande di protezione internazionale presentate negli Stati membri da cittadini di un Paese terzo o apolidi;
in seguito la Convenzione è stata revisionata più volte, fino all'adozione dell'attuale regolamento europeo n. 604/2013, approvato il 26 giugno 2013, noto come «Dublino III» ed entrato in vigore il 1o gennaio 2014, che costituisce l'elemento portante del più ampio «sistema di Dublino» e il cui obiettivo iniziale era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente asilo;
il regolamento è applicato in una regione geografica che comprende i 28 Stati membri dell'Unione europea, ai quali si aggiungono la Norvegia, l'Islanda, la Svizzera e il Liechtenstein;
l'altro pilastro del «sistema di Dublino» è l'Eurodac (European dactyloscopie), una banca dati centrale in cui vengono registrate le generalità di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro, in particolare le impronte digitali;
i due strumenti insieme consentono di stabilire dove è avvenuto il primo ingresso in Europa di una persona richiedente asilo e di attribuire a quel Paese l'onere dell'esame di un'eventuale domanda;
il nuovo regolamento, che ha abrogato il precedente regolamento (CE) 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune delle disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente all'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e tempistiche per la determinazione;
come il precedente, il presente regolamento ha il duplice obiettivo di impedire che nessuno Stato si dichiari competente all'esame della domanda di protezione internazionale, privando così il rifugiato del diritto di accedere alla procedura amministrativa prevista per il riconoscimento dello status, e di impedire i movimenti interni all'Unione europea dei richiedenti protezione, dando agli Stati e non alle persone la facoltà di decidere in quale Stato la persona debba veder esaminata la domanda;
le principali novità introdotte sono la modifica delle definizioni di familiari, al fine di agevolare i minori, l'introduzione dell'effetto sospensivo del ricorso, la possibilità di trattenere il richiedente per pericolo di fuga, nonché si chiarisce il contenuto del diritto all'informazione del richiedente;
gli studi effettuati negli ultimi anni mostrano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quanto riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento;
recentemente l'Eurostat ha pubblicato un dettagliato rapporto sul tema immigrazione che smentisce il luogo comune dell'Italia paese «ostile» verso gli immigrati, evidenziando che tra quelli maggiormente coinvolti nel problema immigrazione, il nostro è il Paese che respinge meno immigrati;
alla fine del 2013, infatti, l'Italia era al quarto posto in Europa per numero di richieste di asilo pendenti, pari a 27.930, dopo Germania, Svezia e Gran Bretagna, e ne ha respinte il 36 per cento rispetto al 74 per cento della Germania, l'83 per cento della Francia, il 47 per cento della Svezia, l'82 per cento della Gran Bretagna e il 68 per cento del Belgio;
del 64 per cento di richieste accolte nel 12 per cento dei casi è stato riconosciuto lo status di rifugiato, nel 30 per cento dei casi la protezione umanitaria e nel 22 per cento la «protezione sussidiaria», vale a dire un tipo di protezione aggiuntivo rispetto alle tipologie normate a livello internazionale, concessa dall'Italia a persone che, nel loro Paese, potrebbero subire ingiustizie;
insieme al regolamento «Dublino III», a comporre il quadro del sistema europeo comune di asilo, che dovrebbe portare all'instaurazione di una procedura comune e a uno status uniforme valido in tutta l'Unione europea per i titolari della protezione internazionale, ai sensi dell'articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, concorrono la cosiddetta direttiva qualifiche n. 2011/95/UE, la «direttiva procedure» n. 2013/32/UE e la nuova «direttiva accoglienza» n. dir. 2013/33/UE;
nel 2010 è stato istituito l'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), che fornisce assistenza agli Stati al fine della corretta applicazione del regolamento, oltre ad un supporto informativo e un intervento rapido di supporto agli Stati in caso di afflusso massiccio di richiedenti protezione internazionale;
con il nuovo regolamento di Dublino è rimasta invariata la gerarchia dei criteri per la determinazione dello Stato competente, che prevedono che:
a) quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie, che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l'esame della domanda di protezione internazionale; detta responsabilità cessa 12 mesi dopo la data di attraversamento clandestino della frontiera;
b) quando uno Stato membro non può o non può più essere ritenuto responsabile dell'ingresso irregolare e quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie, che il richiedente – entrato illegalmente nei territori degli Stati membri o del quale non si possano accertare le circostanze dell'ingresso – ha soggiornato per un periodo continuato di almeno cinque mesi in uno Stato membro prima di presentare domanda di protezione internazionale, detto Stato membro è competente per l'esame della domanda di protezione internazionale;
c) nei termini previsti lo Stato membro competente è obbligato a prendere o riprendere in carico il richiedente, a meno che non dimostri che il richiedente aveva lasciato il territorio degli Stati membri conformemente a una decisione di rimpatrio o di un provvedimento di allontanamento emessi da quello Stato membro a seguito del ritiro o del rigetto della domanda;
inoltre, in caso di situazioni particolari, come l'afflusso di numerose persone in un Paese membro, che possa mettere in crisi l'applicazione del regolamento, la Commissione europea può chiedere allo Stato di presentare ed attuare un piano d'azione per fronteggiare la crisi, chiedendo allo stesso la garanzia che non si verifichino deroghe ai diritti dei richiedenti protezione;
l'11 settembre 2014 ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi hanno depositato presso l'Ufficio di presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
il 9 settembre 2014 è stato pubblicato il rapporto «Mind the gap: una prospettiva delle organizzazioni non governative sulle sfide dell'accesso alla protezione nel sistema comune d'asilo», dal quale emerge che degli immigrati arrivati in Italia solo una percentuale minoritaria presenta la richiesta d'asilo nel nostro Paese, mentre la maggior parte di essi tenta di evitare l'identificazione per andare in altri Paesi europei a richiedere protezione;
questo essenzialmente perché altri Paesi hanno sistemi di welfare migliori e, soprattutto, al fine di ricongiungersi ai propri familiari;
in una ricerca recentemente condotta è emerso che il regolamento di Dublino nella sua concreta applicazione impedisce, almeno nella metà dei casi, che chi arriva in Italia possa ricongiungersi ai propri parenti che vivono in altro Stato europeo;
inoltre, il regolamento presenta oneri e difficoltà per gli Stati: i trasferimenti necessitano di risorse economiche e umane e non sembrano portare particolari benefici, se non agli Stati interni dell'Unione europea che possono avere interesse a contenere il numero delle richieste d'asilo;
le problematiche derivanti dall'applicazione del regolamento di Dublino nel nostro Paese sono anche legate alle gravi carenze del sistema di accoglienza italiano: posti insufficienti, frammentarietà causata dall'esistenza di diversi tipi di strutture, incoerenza e disomogeneità degli standard;
manca un sistema di accoglienza unico, integrato, capace di rispondere a bisogni variabili e di offrire la stessa qualità di protezione in tutta Italia, che possa far riferimento a chiare linee guida nazionali e sia dotato di monitoraggio indipendente;
la capacità della rete Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), anche se da gennaio 2014 è passata da tremila a sedicimila posti, rimane non proporzionata agli attuali bisogni;
questi elementi, uniti all'assenza di misure di integrazione efficaci per i titolari di protezione internazionale, stanno creando un serio rischio di violazione dei diritti umani in Italia;
la principale finalità del regolamento era e rimane quella di prevenire i movimenti secondari di richiedenti asilo all'interno dell'Unione europea, ma le persone continuano a spostarsi in percentuali allarmanti;
nell'ambito del progetto Diasp-impatto del regolamento di Dublino sulla protezione dei richiedenti asilo, finanziato dal fondo europeo per i rifugiati, gli intervistati, in media, avevano alle spalle già tre o quattro viaggi;
la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
inoltre, allo stato attuale chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea e, quindi, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione;
questo, tuttavia, non tiene conto né delle aspirazioni dei singoli, né dei loro legami familiari o culturali con alcuni Paesi, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei, come se Malta, la Grecia, la Germania, la Svezia fossero la stessa cosa;
anche la terza revisione del regolamento di Dublino, pur introducendo qualche cambiamento potenzialmente positivo, non ha modificato la sostanzialmente l'impianto del «sistema di Dublino», ma continua a impedire – o quanto meno a limitare pesantemente – la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
in realtà l'applicazione di tale insieme di regole è diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione,
impegna il Governo:
nell'ambito della presidenza di turno dell'Unione europea a svolgere un ruolo di impulso per la revisione dei criteri del «sistema di Dublino» affinché ai migranti sia garantita la libertà di scegliere in quale Paese presentare la propria richiesta di protezione internazionale, eliminando l'obbligo di avanzarla nel Paese di primo ingresso, con particolare attenzione ai minori e alle loro possibilità di ricongiungimento familiare;
nel medesimo ambito sovranazionale, a promuovere l'adozione di un sistema di gestione delle spese di accoglienza che ponga questi oneri in carico alla totalità degli Stati, non lasciando soli quei Paesi, come l'Italia, esposti per la loro semplice posizione geografica ai maggiori flussi d'ingresso;
ad attivarsi in ambito europeo al fine di elaborare standard di accoglienza condivisi e maggiormente uniformi che possano consentire una migliore gestione dei richiedenti asilo;
a valutare l'istituzione, in collaborazione con i Paesi membri dell'Unione europea, di appositi presidi nei Paesi dai quali partono i maggiori flussi migratori, che siano in grado di effettuare una valutazione preventiva delle possibilità dei soggetti migranti di ottenere lo status di rifugiato nell'ambito dell'Unione europea;
ad informare preventivamente il Parlamento in merito alla stipula di ogni accordo internazionale in materia di immigrazione e di asilo.
(1-00654)
«Rampelli, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Giorgia Meloni, Nastri, Taglialatela, Totaro».
(3 novembre 2014)
MOZIONI CONCERNENTI INTERVENTI A FAVORE DEL MEZZOGIORNO
La Camera,
premesso che:
il quadro già grave e complesso evidenziato dalla Svimez, (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno), nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, si è ulteriormente aggravato in sede di presentazione del rapporto Svimez 2014 e delle proiezioni elaborate dal medesimo istituto per l'anno 2015, al punto che apertamente si parla di un «Sud a rischio desertificazione umana e industriale»;
la riduzione del prodotto interno lordo nel 2014, quantificata dal Governo in -0,4 per cento, è la risultante tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento); il quadro risulta ancora più divergente nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale secondo le stime Svimez è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il positivo +1,3 per cento del Centro-Nord e il negativo -0,7 per cento del Sud;
a livello regionale, nel 2013, il calo del prodotto interno lordo è compreso tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda nazionale, che ha così registrato un segno negativo per la crisi dell`industria meccanica e dei mezzi di trasporto. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (- 2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Tra il 2008 e il 2013 difficoltà, soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Ha perso oltre il 13 per cento di prodotto anche la Sardegna, mentre cali superiori al 12 per cento si registrano in Campania, Marche e Umbria;
dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento). Nello stesso periodo al Centro-Nord il manifatturiero ha perso circa il 16 per cento del proprio prodotto e oltre il 24 per cento degli investimenti;
i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
tra il 2008 ed il 2013 delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 in Italia sono andati persi 478 mila posti di lavoro, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977, anno da cui è possibile disporre della serie storica dei dati;
tra il 2008 ed il 2013 si registra al Sud una caduta dell'occupazione del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Negli anni Settanta il tasso di occupazione al Sud era del 49 per cento; nel 2013 è sceso al 42 per cento; al Centro-Nord invece si è passati dal 56 per cento degli anni Settanta al 63 per cento del 2013; Sud e Centro-Nord sono lontani dal target del 75 per cento di Europa 2020, ma per il Meridione l'obiettivo si allontana e continua ad allontanarsi. In calo soprattutto l'occupazione giovanile: al Sud nel 2013 fra gli under 34 flette del 12 per cento, contro il -6,9 per cento del Centro-Nord;
al Sud appena il 21,6 per cento (1 su cinque) delle donne sotto i 34 anni ha un lavoro contro il 43 per cento del Centro-Nord ed una media nazionale del 34,7 per cento; il confronto con la media dell'Unione europea è impietoso: nell'Europa a 27 le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Considerando tutte le classi di età, l'occupazione femminile meridionale si ferma al 33 per cento; al Centro-Nord la percentuale di donne che lavorano non è lontana dalla media europea (59,2 per cento rispetto al 62,6 per cento dell'Unione europea). Anche la nuova occupazione che si crea per le donne perde di qualità: dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell`11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate. Indicativo anche il dato sul part-time: le donne che lo scelgono, circa il 30 per cento del totale in Italia, non lo fa per scelta: al Sud addirittura il 75 per cento dei part-time femminili è involontario;
i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
al di là delle aride cifre riferite a prodotto interno lordo, produzione e occupazione, la questione che riveste assoluta gravità è quella sociale: nel 2007 la povertà assoluta interessava il 4,1 per cento delle famiglie italiane (3,3 per cento al Centro-Nord e 5,8 per cento al Sud), mentre a fine 2013 si è arrivati al 7,9 per cento a livello nazionale, con il 5,8 per cento di nuclei familiari in povertà assoluta al Centro-Nord e il 12,6 per cento al Sud; in termini assoluti, nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione 14 mila, con un incremento del 40 per cento solo nell'ultimo anno della serie. Nel 2012 il 9,5 per cento delle famiglie meridionali guadagna meno di mille euro al mese, mentre per il Centro-Nord tale dato si attesta al 3,8 per cento; si tratta, in particolare, del 9,2 per cento delle famiglie lucane, del 9,3 per cento delle calabresi, del 10,9 per cento delle molisane e del 14,1 per cento di quelle siciliane;
secondo stime Svimez, anche nel 2013, come nel 2012, nel Meridione i decessi hanno superato le nascite: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Proseguendo questo trend, il Sud avrebbe una perdita di 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così ad una consistenza del 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento; la situazione è aggravata dall'emigrazione: negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord circa 2,3 milioni di persone. Nel 2013 secondo Svimez si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 116 mila abitanti; altro elemento da valutare è che anche gli stranieri rifuggono dal Sud: a dicembre 2013 i residenti stranieri nel nostro Paese sono circa 5 milioni, di cui solo 717 mila al Sud e 4 milioni e 200 mila nel Centro-Nord;
i giovani meridionali si trovano di fronte ad una drammatica realtà sociale e culturale: secondo una recente ricerca l'80 per cento dei giovani meridionali maschi sotto i 30 anni vive ancora in casa con i propri genitori, mentre oltre tre quinti delle giovani del Sud intravedono per sé un futuro di casalinga: una situazione simile a quella dei primi anni del dopo guerra. Le abitazioni non mancano: mancano le risorse per potersi stabilire;
annualmente il Sole 24 Ore pubblica un'indagine sulla qualità della vita condotta nelle 107 città italiane capoluogo di provincia. L'indagine è piuttosto approfondita e complessa e si basa su 36 parametri, raggruppati in sei macro-aree (tenore di vita, affari e lavoro, servizi ambiente e salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), fino alla compilazione di una classifica generale. Anche per il 2014 il Sud continua a essere fanalino di coda della classifica e Napoli in particolare si conferma la città dove si vive peggio, mentre Palermo è la penultima; a salire si trovano: Reggio Calabria; Taranto; Caserta; Vibo Valentia; Catania; Caltanissetta, Foggia, Trapani, Bari, Agrigento e Cosenza; la prima città non meridionale è Frosinone all'87esimo posto;
in termini di ricchezza prodotta la città che ne produce di meno è Crotone (12.930 euro; Milano 37.642 euro), seguita da Agrigento, Enna e Caserta; la prima città non meridionale è Isernia al 78esimo posto;
in termini di propensione al risparmio la provincia peggiore è Carbonia-Iglesias (7.903 euro, Trieste 43.228 euro), seguita da Crotone, Trapani e Siracusa; la prima città non meridionale è Rieti all'82esimo posto;
in termini di assegno pensionistico medio la città in cui la media è più bassa è Catanzaro (485 euro, Milano 1.100 euro), seguita da Agrigento, Campobasso, Benevento ed Enna;
in termini di ambiente favorevole agli affari e al lavoro, la città meno attraente è Reggio Calabria, seguita da Caltanissetta, Caserta, Napoli e Cosenza;
in termini di servizi, ambiente e salute, la città nelle peggiori condizioni è Crotone, seguita da Vibo Valentia, Foggia, Caltanissetta e Agrigento;
le risorse inizialmente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987); la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro (all'incirca il 75 per cento del totale), risultava destinata all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata;
a seguito del Piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
secondo le indicazioni offerte dal Governo nei primi giorni del mese di ottobre 2014, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei, cui ne andrebbero aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). È stata avanzata anche la proposta di ridurre, nelle regioni «convergenza», la quota di cofinanziamento regionale e sono state indicate tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione. Nel decreto-legge «sblocca Italia» (n. 133 del 2014) si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle risorse comunitarie nelle regioni «convergenza»; il Presidente del Consiglio dei ministri avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate;
ma, a seguito della presentazione della legge di stabilità 2015, è intervenuto un richiamo comunitario che ha richiesto un ulteriore aggiustamento di bilancio; il Governo ha pertanto provveduto riducendo, tra l'altro, di 500 milioni di euro la quota delle risorse nazionali dai fondi di cofinanziamento di coesione dell'Unione europea; inoltre l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione;
se è vero che i dati di per sé risultano aridi e che, comunque, vanno integrati, si può convenire che dagli elementi presentati emerge una realtà drammatica e fortemente preoccupante per l'intero Mezzogiorno d'Italia;
una parte fondamentale del Paese ha nella storia, nella cultura, nell'economia un bacino di potenzialità a sua disposizione e gli strumenti per crescere svilupparsi, integrare e sostenere con vigore lo sforzo dell'esecutivo per risanare e rilanciare il Paese;
il quadro macroeconomico che emerge dalle considerazioni effettuate suscita timori sotto diversi profili. Ma ciò che risalta soprattutto è l'allarmante crisi sociale che impedisce il formarsi di nuove famiglie, la crescita delle famiglie esistenti e la stessa natalità. Una preoccupazione forte che ha sollecitato il Ministro della salute a dar vita al piano nazionale per la fertilità, nel quale sono coinvolti esperti di natalità, pediatri, sociologi, esperti di economia sanitaria ed altri. Un'operazione questa che, se risulta indubbiamente utile al Paese intero, lo è ancor di più per il Sud che, nelle condizioni attuali, non è di sicuro sostenuto e assecondato sul piano della crescita demografica: una questione, quest'ultima, che è strettamente collegata ora e di più lo sarà nel futuro al tema della sostenibilità del sistema sanitario e previdenziale,
impegna il Governo:
ad adottare ogni iniziativa, anche attraverso ulteriori interventi normativi, volta ad attribuire adeguate quote di cofinanziamento e comunque adeguate risorse comunitarie e nazionali alle regioni meridionali ed individuando la sede idonea in cui Governo, regioni ed i competenti organi parlamentari, a seguito di un naturale, approfondito confronto, siano in grado di definire un insieme coordinato di opere strategiche di importanza prioritaria, la cui realizzazione favorisca la crescita economica complessiva delle regioni meridionali;
ad assicurare, attraverso una specifica programmazione infrastrutturale, forti politiche di investimento da parte dello Stato a favore delle regioni meridionali ed impegnandosi, altresì, a riconsiderare le regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
a perseguire con decisione, in sede di Unione europea e quale obiettivo del semestre di Presidenza italiana, l'obiettivo della riduzione delle quote di partecipazione nazionale ed in particolare regionale, con specifico riferimento alle regioni meridionali, da erogare a titolo di concorso al cofinanziamento del Fondo europeo per lo sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo;
con riferimento alla programmazione 2014-2020, a prevedere l'utilizzo di parte significativa delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali;
ad avviare politiche a sostegno della natalità e della genitorialità, con particolare riferimento alle zone socialmente ed economicamente più disagiate;
ad assicurare tempestiva e rigida applicazione dei poteri sostitutivi del Governo in materia di utilizzo delle risorse comunitarie, previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 in caso di ritardo delle regioni nelle assegnazioni ed erogazioni;
ad adoperarsi al fine di consentire all'Agenzia per la coesione territoriale di operare da subito e con poteri rafforzati negli ambiti di sua competenza.
(1-00653)
«De Girolamo, Pagano, Garofalo, Calabrò, Dorina Bianchi, Pizzolante, Bosco, Minardo, Misuraca, Scopelliti, Cicchitto, Alli, Bernardo, Piccone, Piso, Roccella, Saltamartini, Sammarco, Tancredi, Vignali».
(31 ottobre 2014)
La Camera,
premesso che:
la Svimez con il suo recentissimo rapporto sull'economia del Mezzogiorno ha ricordato che questa fase del Mezzogiorno è la peggiore dal dopoguerra in poi. Le previsioni lasciano intravedere ancora altri due anni di recessione (si arriverà così ad 8 anni consecutivi). Eppure questa situazione così drammatica non viene affatto percepita come tale dal mondo politico ed imprenditoriale;
non si può sottovalutare il fenomeno dell'impoverimento industriale e fisico del Mezzogiorno che, in assenza di contromisure, condurrà le regioni meridionali, oggi le più ricche di giovani, a un drammatico invecchiamento se i giovani laureati e competenti continueranno ad abbandonare le città del Sud al ritmo di più di centomila all'anno;
tutti i dati – da quelli di Banca d'Italia a quelli di Unioncamere, di Svimez e Istat – concordano nell'analisi di una realtà non ferma, ma in profonda regressione dal punto di vista sociale, dal punto di vista economico, dal punto di vista culturale e civile. I dati su occupazione, procedure fallimentari, liquidazione e scioglimenti di società di persone e di capitale convergono tutti nella direzione di descrivere una condizione che, negli anni, ha visto crisi sovrapporsi a crisi, fino ad incrociare la crisi perfetta che si sta vivendo in questi tempi;
l'Esecutivo ha confermato la sua politica di totale disimpegno nei confronti di un'area del Paese, il Mezzogiorno, che con la sua produzione contribuisce ad un quarto del prodotto interno nazionale, dimostrando in tal modo di sottovalutare la dimensione nazionale e le ricadute della questione meridionale e l'impossibilità per una nazione di mantenere la propria unità, se parti di essa procedono a velocità diverse, accentuando fra loro il disequilibrio;
sarebbe auspicabile che il Governo facesse un'inversione di rotta e ricomprendesse nella sua agenda politica le istanze e le energie delle tante forze vive presenti nel tessuto sociale ed imprenditoriale del Mezzogiorno, al fine di farle emergere ed esprimersi nei contesti internazionali e sui mercati con maggiore facilità, senza rimanere penalizzate, come troppo spesso oggi accade, da fattori di contesto;
d'altra parte, nel corso degli anni le politiche per il Mezzogiorno hanno oscillato tra due paradigmi, quello assistenziale e quello compensativo, in funzione della diminuzione più o meno graduale del gap con il Centro-Nord, e che si sono rivelati fallimentari e non premianti;
il Mezzogiorno ha subito più del Centro-Nord le conseguenze della crisi economica, con una caduta maggiore del prodotto interno lordo e una riduzione ancora più pesante dell'occupazione nel biennio di recessione 2008-2009, mentre la debole ripresa del successivo biennio 2010-2011 è stata nell'area troppo incerta e insufficiente;
tra il 2007 e il 2011 il prodotto interno lordo meridionale ha subito una riduzione in termini reali del 6,1 per cento, a fronte di una riduzione del 4,1 per cento nel Centro-Nord;
il Mezzogiorno è a rischio desertificazione umana e industriale, si continua a emigrare (116 mila abitanti nel solo 2013) e a non fare figli, infatti nel 2013 continuano a esserci più morti che nati. Nel Sud la popolazione continua a impoverirsi, con un aumento del 40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno. Sono alcuni dati che emergono dal rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014 presentato il 28 ottobre a Roma;
nel 2013 al Sud i decessi hanno superato le nascite, confermando il trend già in atto dall'anno precedente. Un fenomeno così grave si era verificato solo nel 1867 e nel 1918, cioè alla fine di due guerre, la terza guerra d'indipendenza e la prima Guerra mondiale: «Nel 2013 il numero dei nati ha toccato il suo minimo storico, 177 mila, il valore più basso mai registrato dal 1861». «Il Sud – sottolinea la Svimez – sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento»;
la Svimez sottolinea come gli investimenti produttivi nel Sud sono crollati del 53 per cento;
la Calabria, come si evince dalla drammaticità e dalla crudezza del dato statistico, confermato da altri autorevoli centri di ricerca istituzionali, evidenzia sul piano socio-economico una drammatica specificità negativa, continuando inesorabilmente a declinare in un lento processo di separazione anche rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno: i dati dei centri di ricerca evidenziano, sul piano socio-economico, una forte specificità negativa, anche rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno;
la Calabria si conferma, infatti, la regione più povera d'Italia con un prodotto interno lordo pro capite che nel 2013 si è fermato a 15.989 euro, meno della metà delle regioni più ricche come Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Lombardia. Nel Mezzogiorno la regione con il prodotto interno lordo pro capite più elevato è stata l'Abruzzo (21.845 euro). Seguono il Molise (19.374 euro), la Sardegna (18.620), la Basilicata (17.006 euro), la Puglia (16.512 euro), la Campania (16.291 euro), la Sicilia (16.152 euro) e la Calabria (15.989 euro). In generale, in termini di prodotto interno lordo pro capite, il Mezzogiorno nel 2013 è sceso al 56,6 per cento del valore del Centro-Nord, tornando ai livelli del 2003, con un prodotto interno lordo pro capite pari a 16.888 euro. In valori assoluti, a livello nazionale, il prodotto interno lordo è stato di 25.457 euro, risultante dalla media tra i 29.837 euro del Centro-Nord e i 16.888 euro del Mezzogiorno;
nel Sud appena il 21,6 per cento delle donne sotto i 34 anni è occupata contro il 43,0 per cento del Centro-Nord e una media nazionale del 34,7 per cento. Il confronto con la media dell'Unione europea evidenzia il divario. Nell'Europa a 27 Stati le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Le donne che rientrano, o entrano per la prima volta, nel mercato del lavoro, vanno a ricoprire posizioni poco qualificate. Dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell'11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate;
il prodotto interno lordo si attesterà a -0,4 per cento nel 2014, come «risultato tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento)». Per il Sud è il settimo anno di recessione. Forbice ancora divaricata nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale, secondo le stime Svimez, è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il +1,3 per cento del Centro-Nord e il -0,7 per cento del Sud;
nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, peggiorando la flessione dell'anno precedente (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Il peggior andamento del prodotto interno lordo meridionale nel 2013 è dovuto soprattutto a una più sfavorevole dinamica della domanda interna con i consumi in calo del 2,4 per cento e gli investimenti crollati del 5,2 per cento. Da segnalare l'ulteriore perdita di posti di lavoro scesi sempre nel Mezzogiorno del 3,8 per cento. In un panorama fortemente negativo, le esportazioni nel 2013 hanno segnato -0,6 per cento al Sud. Tra il 2008 e il 2013 i redditi al Sud sono crollati del 15 per cento e i posti di lavoro sono diminuiti di circa 800 mila persone;
al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila (il 5,8 per cento del totale) a 1 milione 14 mila (il 12,5 per cento del totale), cioè il 40 per cento in più solo nell'ultimo anno. È quanto emerge dal rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014. Secondo il rapporto, in Italia, dal 2008 al 2012, sono aumentate del 7 per cento le famiglie in stato di «deprivazione materiale severa», cioè che non riescono, ad esempio, a pagare l'affitto o il mutuo, fare una vacanza di una settimana una volta l'anno fuori casa, pagare il riscaldamento, fronteggiare spese inaspettate, e che magari non hanno l'automobile, la lavatrice, il telefono, la TV, e fanno fatica a fare un pasto di carne o pesce ogni due giorni. In Italia oltre due milioni di famiglie si trovavano nel 2013 al di sotto della soglia di povertà assoluta, equamente divise tra Centro-Nord e Sud (1 milione e 14 mila famiglie per ripartizione), con un aumento di 1 milione e 150 mila famiglie rispetto al 2007;
tra il 2008 e il 2013 delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 sono andati persi 478 mila posti di lavoro in Italia, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche basi di dati. Nel primo trimestre 2014 il Sud ha perso 170 mila posti di lavoro rispetto all'anno precedente, contro -41mila nel Centro-Nord. A fronte di una quota di occupati pari a circa un quarto dell'occupazione complessiva, tra il primo trimestre del 2013 e il primo trimestre del 2014 l'80 per cento delle perdite di posti di lavoro in Italia si è concentrata al Sud;
l'ultimo rilevamento dell'Istat del 28 novembre 2014 certifica una volta di più che il tasso disoccupazione nel Mezzogiorno nel mese di ottobre 2014 supera il 20 per cento (rispetto ad un dato nazionale, pur preoccupante, del 13,3 per cento);
in questo scenario, rischiano di apparire come semplice palliativo anche strumenti e programmi, che avevano rappresentato almeno una speranza per i territori del Sud, come «Garanzia giovani»: quelle risorse rischiano di essere utili più a chi fa dell'intermediazione del lavoro o dell'intermediazione finanziaria la propria attività, piuttosto che per creare lavoro e reddito in quelle aree;
il tessuto sociale si presenta sempre più lacerato e le manifestazioni di insofferenza e di conflitto, che si allargano giorno dopo giorno, sono i sintomi di una malattia che potrebbe rendere instabile sia la coesione sociale che la forza stessa delle istituzioni;
di fronte a questa drammatica realtà tutto il dibattito sul Sud sembra appuntarsi sui fondi comunitari, come se questi fossero da soli in grado di portare il Mezzogiorno fuori dalle sue difficoltà attuali. Molti studiosi, viceversa, concordano sul fatto che lo sviluppo del Sud non può essere delegato interamente alle politiche di coesione dell'Europa;
basti riflettere che per il quadro strategico 2007-2013 restano da spendere da qui al 31 dicembre 2015 quasi 15 miliardi di euro tra Ministeri, regioni e privati. Per centrare l'obiettivo bisognerebbe spendere un miliardo al mese. Ma tale spesa è in larga misura inibita dal patto di stabilità interno. Secondo uno studio di Confindustria, nel 2015 per cinque regioni (Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Molise) il cofinanziamento nazionale e il fondo di coesione supereranno il 60 per cento della spesa massima consentita dal loro patto di stabilità, rendendo nei fatti impossibile il completo utilizzo delle risorse europee;
il Governo continua ad indicare la spesa dei fondi come unica via per uscire dalla crisi, ma esso sa bene che nel patto di stabilità non ci sono le condizioni finanziarie sufficienti ad effettuare i pagamenti. Quel poco che c'era (500 milioni di euro) nella legge di stabilità per il 2015 di esclusione dal patto di stabilità interno per il cofinanziamento delle regioni è stato, in seguito ai richiami della Commissione europea, addirittura soppresso;
inoltre, l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione che, dal sistema di monitoraggio del dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, risultano non ancora impegnate alla data del 30 settembre 2014;
in pratica, si tratta di risorse tolte al Mezzogiorno per finanziare gli sgravi contributivi per supposte nuove assunzioni, sgravi che saranno attribuiti prevalentemente al Centro-Nord;
infine, non è ancora entrata in funzione l'Agenzia per la coesione a cui in tanti guardavano come una possibilità di aiuto per le regioni e i Ministeri, in questa ultima e difficile fase di completamento del programma comunitario 2007/2013;
l'incremento della dotazione infrastrutturale diventa pertanto assolutamente prioritario ed indilazionabile per rendere il Mezzogiorno area capace di creare e di attrarre investimenti e a farsi partecipe del nuovo ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Africa, Medio Oriente ed Asia, e che, sfruttando la sua collocazione geografica, è chiamato ad assumere nello scacchiere euromediterraneo, anche raccogliendo le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi dopo la tregua di tutti i conflitti del Nord Africa;
la sopradetta collocazione geopolitica del Meridione, crocevia geografico naturale e storico degli interessi e degli scambi economici e culturali tra Europa e Nord Africa e punto di approdo più vicino ai rivolgimenti in atto in quella regione, lo trova però costretto a fare i conti con quella che oramai è considerata una grande emergenza umanitaria e cioè l'esplosione del fenomeno immigratorio;
l'immigrazione non può essere arrestata, perché è parte della storia dell'umanità, ma va gestita nell'interesse dei Paesi di origine e di quelli di destinazione dei flussi migratori, anche e soprattutto per impedire il rischio di una deriva razzista, rischio che impone una rinnovata tensione ed un'azione pedagogica che si fondino su valori quali il rispetto della dignità umana, la solidarietà e la condivisione tra i popoli, tutti presupposti sui quali costruire una nuova politica dell'accoglienza di un territorio che, nonostante la sua grande vocazione solidale, è costretto a mettere a disposizione risorse logistiche, umane ed economiche necessarie per evitare il collasso del suo territorio, e che in questo sforzo ha dovuto e potuto contare solo sulle proprie forze che a volte sono risultate deboli e inadeguate per affrontare l'emergenza;
il Mezzogiorno, più che soldi, chiede più politica e più intelligenza. Il Mezzogiorno ha bisogno di un bacino produttivo autocentrato, esteso dal napoletano alla Sicilia;
sul versante della formazione i sistemi scolastico ed universitario del Meridione esprimono professionalità con buoni livelli di qualifica che il tessuto produttivo locale non riesce però ad assorbire e valorizzare adeguatamente, relegando molti giovani nella condizione di dover scegliere fra l'emigrazione o l'inattività. Infatti, il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi raggiunti nella formazione scolastica ed universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese, ed i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni;
occorre affrontare il declino italiano partendo dalla debolezza dell'economia meridionale: un deficit commerciale - quasi tutto in prodotti industriali - che è quasi il 20 per cento del suo prodotto interno lordo. Le numerose aree di eccellenza di cui è costellato il Mezzogiorno confermano che, al di là della retorica, quel territorio può costituire una risorsa per l'Italia, purché riesca a valorizzare ed esprimere pienamente le sue potenzialità, a partire da quelle umane e naturali,
impegna il Governo
a prevedere a favore delle regioni ad obiettivo convergenza:
a) la messa a regime di forme di credito d'imposta automatico sugli investimenti in ricerca, innovazione e formazione, a favore delle imprese disposte ad investire nel Mezzogiorno;
b) lo sfruttamento del potenziale che ha il Sud per la produzione di energie tramite fonti rinnovabili attraverso il riconoscimento di significative tariffe incentivanti, come attualmente previsto dal V conto energia, ma limitato ai parchi solari su terreni delle pubbliche amministrazioni e sui tetti e le serre fotovoltaiche, per evitare ulteriori speculazioni sui terreni agricoli;
c) l'avvio di un'innovativa programmazione del fondi strutturali europei, non solo per accelerare la capacità di spesa, ma anche per migliorarne la qualità e l'efficacia, attraverso la concentrazione degli stessi su alcuni obiettivi, come scuola, formazione, ferrovie, agenda digitale, occupazione, servizi di cura per bambini e anziani, anche attraverso una maggiore responsabilizzazione delle strutture politico-amministrative centrali, con un orientamento ai risultati tramite obiettivi misurabili, e con la concentrazione su alcuni obiettivi prioritari senza comunque prescindere dall'ammodernamento dell'intera rete infrastrutturale del Sud, presupposto determinante per sfruttarne le potenzialità di piattaforma logistica e di collocamento geo-strategico che ne fanno il crocevia naturale degli scambi internazionali lungo le direttrici nord-sud e est-ovest;
a rilanciare gli investimenti in infrastrutture, la riqualificazione del territorio, la rigenerazione delle città e l'ammodernamento della rete dei trasporti e tutti gli interventi in grado di aumentare la competitività delle aree meridionali: gli assi viari, i collegamenti ferroviari tra le città del Mezzogiorno, le opere di consolidamento idrogeologico, di adeguamento statico e di efficientamento energetico degli edifici e di risanamento dell'edilizia pubblica e scolastica e il risanamento dei centri storici e delle periferie;
a mettere in essere una politica industriale articolata per la promozione delle energie rinnovabili, dell’hi-tech e delle infrastrutture immateriali;
a sostenere con politiche specifiche l'industria della cultura ed il turismo sostenibile e promuovere i territori e i diffusi «know how» locali;
a realizzare la linea ferroviaria di alta capacità Napoli-Reggio Calabria, facendo sì che la nuova linea – proprio perché è alta capacità e non alta velocità – sia spina dorsale di tutto il territorio meridionale, in grado di assicurare quasi dovunque frequentazioni giornaliere, con un tracciato che attraversi i territori interni, in cui sono storicamente situati gli insediamenti più rilevanti, e non – come il Governo sembra preferire – la costa tirrenica o, peggio, la costa ionica, tenendo conto che Potenza, in particolare, appare un nodo ferroviario irrinunciabile;
ad assumere iniziative, per quanto di competenza, nell'ottica della creazione di tre nuove città policentriche, per un adeguato servizio ferroviario regionale che, in sinergia con l'alta capacità, leghi in relazioni urbane (60 minuti) due gruppi di comuni, uno in Basilicata e Puglia (Potenza, Tricarico, Ferrandina, Matera, Altamura, Gravina, Genzano) e l'altro in Calabria (Cosenza, Rogliano, Serrastretta, Catanzaro, più gli insediamenti limitrofi);
ad assumere le iniziative di competenza per realizzare la terza città policentrica con baricentro nel bipolo Reggio Calabria-Messina, nonché il tracciato anulare della città policentrica apulolucana (peraltro, in parte già realizzato ma mai completato), mentre il tracciato lineare della città calabrese sarebbe a costo zero (coincidendo con quello dell'alta capacità), considerato che il nuovo assetto territoriale aprirebbe una prospettiva industriale oggi impensabile;
a costruire, grazie alla potenza delle economie di agglomerazione messe in gioco e le filiere produttive (prime fra tutte quelle distrettuali del made in Italy) che potrebbero agevolmente superare la loro frammentazione, configurando articolate relazioni intersettoriali ed integrando vecchie e nuove attività, un bacino produttivo aperto ai Paesi rivieraschi del Mediterraneo, in grado di offrire tutto ciò che occorra ad un loro appropriato sviluppo;
ad intraprendere le opportune iniziative per fare diventare i porti di Taranto, Gioia Tauro e Crotone – in coordinamento con Genova e Trieste – il nodo esclusivo dei flussi commerciali tra Oriente e Occidente e, quindi, sedi di nuove rilevanti attività manifatturiere, in modo che si possano trasformare, grazie al gigantismo navale e alle crescenti economie di scala con cui stanno facendo i conti le grandi compagnie di navigazione, i porti che diverrebbero luoghi appetibili non solo per le attività indotte dalla movimentazione container (assemblaggio, imballaggio ed altro), ma anche per altre attività cui sia strategico l'accesso al mare, potendosi creare nei retro-porti un polo specializzato della meccanica strumentale pesante;
a confermare la percentuale di riparto del Fondo per lo sviluppo e la coesione assegnando l'85 per cento delle risorse al Sud e il 15 per cento al Centro-Nord;
a dare rapida attuazione agli interventi a favore dei lavoratori in mobilità, dei licenziati, dei giovani e delle donne disoccupati, degli inattivi e di coloro che né lavorano, né svolgono un'inattività di studio o formazione (neet) del Mezzogiorno, nonché ad aumentare gli sforzi per creare un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione, utilizzando parte significativa delle risorse derivanti dalla terza e ultima riprogrammazione dei fondi comunitari;
a finanziare misure di agevolazione fiscale de minimis per le micro e le piccole imprese, con particolare attenzione alle imprese a conduzione o a prevalente partecipazione giovanile e femminile, operative nelle città con aree a più elevata criticità economico-sociale del Meridione;
a promuovere, coerentemente con quanto recita l'articolo 119, quinto comma, della Carta costituzionale, «la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona», con un forte presidio nazionale degli interventi finanziati con il Piano di azione coesione, con particolare riferimento ai servizi di cura per la prima infanzia e gli anziani, verificando, in tale contesto di promozione dei diritti di cittadinanza, la possibilità di concentrare le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione per gli obiettivi di servizio sugli interventi volti ad aumentare i servizi socio-assistenziali per bambini ed anziani nei comuni, nonché l'opportunità di estendere la sperimentazione della nuova social card familiare a tutti i comuni del Sud o, in alternativa, ai soli comuni capoluogo e valutando ogni altro adempimento, di competenza del Governo, necessario a migliorare l'efficienza delle strutture ospedaliere;
a promuovere l'internazionalizzazione delle imprese meridionali, in particolare attraverso interventi mirati a sostegno della capacità di penetrazione nei mercati esteri dei settori di specializzazione e l'attivazione di forme di tutoraggio a vantaggio delle piccole e medie imprese dei settori ad elevato potenziale;
a promuovere, attraverso un tavolo permanente Cipe-regioni del Mezzogiorno e Trenitalia o altri concessionari, un efficace monitoraggio della qualità del servizio di trasporto passeggeri di media e lunga percorrenza, anche con riferimento al contratto di servizio con Rete ferroviaria italiana, nel più ampio tema della mobilità nel Mezzogiorno e dal Sud verso il Centro-Nord e viceversa, che interessi anche la razionalizzazione e il rafforzamento del sistema portuale e aeroportuale calabrese, anche attraverso un progetto che preveda l'utilizzo in modo integrato e intermodale dell'attuale assetto del trasporto (treni, aliscafi, bus e aerei), per rendere più efficiente ed economica la gestione del sistema stesso, in sinergia con il sistema dei trasporti della Sicilia;
a sostenere per le regioni obiettivo convergenza, nell'ambito dei negoziati per la riforma della politica agricola comune, una riforma non penalizzante dei pagamenti diretti, favorendo l'inserimento nel greening anche dell'olivicoltura e dell'agrumicoltura, nonché una riforma che preveda un aiuto specifico in favore delle coltivazioni tipiche di tali aree, anche sotto forma di maggiorazione degli aiuti diretti della politica agricola comune;
a sollecitare la realizzazione di interventi per lo sviluppo dei principali siti archeologici anche per accrescere l'offerta turistica, rendendola adeguata e competitiva, attraverso, in particolare, il potenziamento dei servizi di accoglienza delle aree archeologiche, nel quadro dell'ampia riprogrammazione dell'intervento per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale delle regioni del Sud, finanziato attraverso le risorse dei fondi strutturali comunitari;
a riprogrammare le risorse disponibili mantenendole integralmente al Mezzogiorno, ivi incluse quelle derivanti dalla riduzione del cofinanziamento nazionale;
ad indirizzare interventi adeguati nelle agglomerazioni produttive vitali, industriali e agricole, del Mezzogiorno allo scopo di rafforzare soprattutto il contesto territoriale nelle aree capaci di esportare e di cogliere così i benefici della domanda mondiale;
a compensare i maggiori costi unitari delle imprese del Mezzogiorno e le loro difficoltà nell'accesso al credito, sia rilanciando lo strumento del fondo di garanzia, sia sbloccando i contratti di sviluppo, sia rifinanziando gli strumenti volti al sostegno dell'imprenditoria giovanile, sia infine, ricorrendo, previa intesa con la Commissione europea, ai crediti d'imposta per l'occupazione e gli investimenti destinando una quota significativa di risorse;
ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per rafforzare i servizi per la cura dell'infanzia e degli anziani non autosufficienti, ambito nel quale gli interventi possono migliorare significativamente la condizione dei cittadini specie in una fase di forte compressione del reddito disponibile dalle famiglie del Mezzogiorno;
ad assumere iniziative per reintegrare, nell'ambito del riparto e della programmazione 2014-2020 delle risorse comunitarie e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, le risorse che il Mezzogiorno ha perduto negli ultimi anni.
(1-00680)
«Scotto, Costantino, Sannicandro, Palazzotto, Duranti, Piras, Giancarlo Giordano, Ferrara, Placido, Matarrelli, Pannarale».
(2 dicembre 2014)
INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA
PIZZOLANTE. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
il dipartimento per l'informazione e l'editoria, nell'ambito dei propri compiti istituzionali, stipula contratti con le agenzie di stampa, per l'acquisto di servizi giornalistici ed informativi, come previsto dalla legge 15 maggio 1954, n. 237, secondo l'interpretazione autentica recata dall'articolo 55, comma 24, della legge 27 dicembre 1997, n. 449;
l'acquisto di tali servizi avviene tramite procedura negoziata ai sensi dell'articolo 57, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici);
per l'individuazione dei contraenti abilitati a fornire i servizi di agenzia alle pubbliche amministrazioni statali, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha selezionato le sole agenzie a diffusione nazionale sulla base dei parametri indicati dall'articolo 2, comma 122, della legge 24 novembre 2006, n. 286 (che ha sostituito l'articolo 27, comma 2, della legge 5 agosto 1981, n. 416);
in tale ambito normativo, anche per l'anno 2014 sono state stipulate convenzioni con 11 agenzie di stampa per la fornitura, alle Amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, di 6.333 postazioni per l'accesso ai servizi giornalistici, oltre a 112 postazioni «full» che consentono agli utenti di fruire di collegamenti per un numero illimitato di postazioni;
si apprende che il dipartimento per l'informazione e l'editoria presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, in totale controtendenza con i proclami a favore del sostegno della libera informazione e dei lavoratori del settore, ha intenzione di modificare radicalmente i criteri in base ai quali sono stipulati i rapporti di convenzione tra le agenzie di stampa e la Presidenza del Consiglio dei ministri, senza procedere ad alcun tipo di confronto –:
se la Presidenza del Consiglio dei ministri ritenga utile instaurare il confronto con le parti sociali al fine di giungere ad una soluzione condivisa e di stabilire nuovi criteri per la stipula delle convenzioni con l'obiettivo di razionalizzare ed ottimizzare le spese, garantire la pluralità dell'informazione primaria e la sua specializzazione, evitare di favorire il costituirsi di posizioni dominanti in un mercato di fondamentale valore per il pluralismo dell'informazione e, infine, permettere a centinaia di professionisti di conservare il posto di lavoro. (3-01192)
(2 dicembre 2014)
PANNARALE, NICCHI, MATARRELLI, ZARATTI, SCOTTO, AIRAUDO, DURANTI, FRANCO BORDO, COSTANTINO, DANIELE FARINA, FERRARA, FRATOIANNI, GIANCARLO GIORDANO, KRONBICHLER, MARCON, MELILLA, PAGLIA, PALAZZOTTO, PELLEGRINO, PIRAS, PLACIDO, QUARANTA, RICCIATTI, SANNICANDRO e ZACCAGNINI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
tutti gli indicatori economico-sociali evidenziano che il nostro Paese è ancora lontano dall'aver imboccato la strada giusta per contribuire a raggiungere, nell'ambito della strategia «Europa 2020», l'obiettivo europeo della riduzione entro quell'anno di almeno 20 milioni del numero di persone a rischio di povertà e di esclusione sociale. In Italia infatti, secondo gli ultimi dati Istat, ammontano a circa 10 milioni i poveri relativi e tra questi circa 6 milioni sono quelli assoluti, coloro, cioè, che non hanno i mezzi finanziari per condurre una vita dignitosa o per accedere a beni e servizi di base; anche il ceto medio e quei gruppi sociali tradizionalmente estranei al disagio sociale sono sempre più coinvolti dalla vulnerabilità economica e stanno gradualmente scivolando verso forme d'indigenza. Sempre l'Istat, ma a mezzo del suo presidente, dottor Giorgio Alleva, ha affermato che il cosiddetto bonus irpef da 80 euro «porterebbe a una lieve riduzione della diseguaglianza economica e del numero di poveri» e che la relativa spesa relativa, circa 10 miliardi di euro l'anno, «andrebbe a beneficiare individui per circa due terzi in famiglie con redditi medio-alti e avrebbe un'incidenza di beneficiari maggiore tra le coppie con figli»;
anche il nuovo rapporto Caritas 2014 (novembre) su povertà ed esclusione sociale in Italia, dal titolo «False partenze», viene in soccorso a questa visione, aprendo, dal suo punto di osservazione e di ascolto, una finestra sul fenomeno della povertà in Italia confermando i suddetti dati. Nel corso del 2013, il problema bisogno più frequente degli utenti dei 220 centri di ascolto delle Caritas diocesiane è stato quello della povertà economica (59,2 per cento del totale degli utenti), seguito dai problemi di lavoro (47,3 per cento) e dai problemi abitativi (16,2 per cento). Tra gli italiani l'incidenza della povertà economica è molto più pronunciata rispetto a quanto accade tra gli stranieri (65,4 per cento contro il 55,3 per cento). Più elevata la presenza di problemi occupazionali tra gli immigrati rispetto agli italiani (49,5 per cento contro il 43,8 per cento). Interessante notare come i problemi familiari siano più diffusi tra gli italiani (13,1 per cento rispetto al 5,7 per cento degli stranieri), mentre la situazione appare rovesciata per quanto riguarda i problemi abitativi, più diffusi nella componente straniera dell'utenza (17,2 per cento contro il 14,6 per cento). Una fetta cospicua di utenti richiede beni e servizi materiali (34 per cento);
stesso scenario, ma da un'altra prospettiva, è quello delineato dal recente dossier della Coldiretti sulle «Nuove povertà del Belpaese. Gli italiani che aiutano», ove si legge che per effetto della crisi economica si registra un aumento esponenziale degli italiani senza risorse sufficienti neanche per sfamarsi, che in Italia nel 2013 4.068.250 poveri sono stati costretti a chiedere aiuto per ottenere cibo con un aumento del 10 per cento rispetto al 2012 e del 47 per cento rispetto al 2010, ovvero ben 1.304.871 persone in più negli ultimi tre anni, e che ci sono 428.587 bambini con meno di cinque anni che nel 2013 hanno necessitato di aiuto per poter consumare latte e cibo. Sempre dal medesimo dossier emerge che ben 578.583 anziani over 65 sono dovuti ricorrere ad aiuti alimentari, con un aumento del 14 per cento rispetto al 2012;
secondo la relazione sul «Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti 2013» realizzata dall'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, Agea, gli italiani indigenti che hanno ricevuto pacchi alimentari o pasti gratuiti attraverso i canali no profit che distribuiscono le eccedenze alimentari hanno raggiunto il numero di 4,1 milioni di persone. Le risorse ad oggi assegnate dal Governo per dette finalità si confermano ad avviso degli interroganti del tutto inadeguate;
resta immutato il problema di fondo rispetto al modo in cui nel nostro Paese si contrasta, poco o per niente, la povertà. Le stesse politiche sociali, infatti, sono spesso pensate in modo da non raggiungere gli strati più poveri della popolazione. Il bonus 80 euro rappresenta uno dei paradossi più recenti, essendo questa misura solo l'ultima applicazione recente di un diffuso modo di operare che tende a concentrare su interventi di natura fiscale il peso delle politiche sociali, con il risultato però di escludere, nonostante i roboanti proclami del Presidente del Consiglio dei ministri di allargarne la platea dei beneficiari, da detto beneficio proprio gli incapienti, non raggiunti né dal bonus, né da eventuali altri sgravi o agevolazioni fiscali;
per la povertà estrema rimangono gli stanziamenti, insufficienti (40 euro mensili) e stigmatizzati, della «social card» o «carta acquisti», che peraltro raggiungono una platea ridotta di beneficiari, nonché l'assegno sociale, destinato agli anziani ultrasessantacinquenni in condizioni economiche disagiate, e le pensioni di inabilità. Per il resto, e cioè per la gran parte dei poveri in età da lavoro, non rimane che rivolgersi ai servizi sociali dei comuni, che hanno però, a loro volta, i bilanci impoveriti dai tagli e dalle regole della stabilità finanziaria, oppure, più frequentemente, rivolgersi ai gruppi caritativi, «laici» o religiosamente ispirati;
quella fin qui rappresentata è una realtà drammatica che il Governo dovrebbe affrontare, ribaltando la sua agenda politica, con misure coraggiose alle quali accompagnare una riflessione di fondo sulla natura stessa dell'economia italiana. L'espansione della povertà, che nell'ultimo biennio ha assunto livelli preoccupanti, mina, infatti, la stessa ripresa economica del Paese –:
se non ritenga di dover assumere iniziative urgenti e di carattere strutturale al fine di superare tutte le forme di povertà e sostenere chi è in difficoltà, anche adottando, come hanno già fatto quasi tutti gli altri Paesi europei, un piano nazionale di lotta contro la povertà.
(3-01193)
(2 dicembre 2014)
BRUNETTA e PALESE. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
la proposta del piano di investimenti da 315 miliardi di euro del Presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, si è rivelato secondo gli interroganti un vero e proprio «imbroglio», finalizzato a coprire, come un'inutile mascheratura, l'egoismo egemonico tedesco e i tragici errori di politica economica nella gestione della crisi della Commissione europea dal 2008 a oggi;
come dice con grande onestà intellettuale anche l'ex Ministro Pd Vincenzo Visco: «Sarebbe necessario che qualcuno si alzasse a dire esplicitamente che la linea di politica economica seguita in Europa negli ultimi anni è sbagliata e autolesionistica e che bisogna effettivamente cambiare verso. (...) Il semestre italiano è stato un'occasione perduta»;
insomma, per coprire la non reflazione tedesca (più domanda, più investimenti, meno surplus), Juncker lancia il suo piano di investimenti ad avviso degli interroganti ridicolo. E il Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, e il Ministro dell'economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, presidenti di turno dell'Unione europea, a dirsi sostanzialmente soddisfatti;
purtroppo, non c’è nulla di cui essere soddisfatti: i 315 miliardi di euro di cui si parla sono costituiti solo da 21 miliardi «veri», a carico degli Stati, versati in un fondo apposito che dovrebbe a sua volta emettere obbligazioni per ottenere dal mercato le risorse mancanti, con una leva finanziaria di 1 a 15 assolutamente poco credibile;
si ipotizza che gli investimenti da finanziare, essenzialmente infrastrutture, siano in grado di produrre un reddito sufficiente a remunerare gli investitori privati, anch'essi coinvolti nel meccanismo della leva finanziaria. Questo significa che i privati, per realizzare redditi dall'operazione, selezioneranno con grande cura i progetti da finanziare, riducendone drasticamente il numero possibile. Resteranno, pertanto, escluse tutte le opere pubbliche non suscettibili di produrre un reddito direttamente quantificabile, per esempio quelle relative al recupero del territorio, mentre i progetti che verranno sostenuti dai privati, in quanto remunerativi, sarebbero comunque stati finanziati dal mercato, anche senza l'intervento del fondo della Commissione europea, che si rivela, pertanto, del tutto inutile;
la vera risposta per superare la crisi nell'eurozona è una e una sola: la reflazione in Germania. Vale a dire rilancio della domanda interna; stimolo a consumi e investimenti; aumento dei salari; aumento dell'inflazione fino al suo livello fisiologico (2 per cento), con conseguente aumento dei rendimenti dei titoli del debito pubblico tedesco; relativa svalutazione dell'euro, troppo forte nei confronti delle altre monete –:
quali iniziative in sede europea il Governo intenda adottare, al fine di sollecitare la Germania a ridurre i suoi squilibri macroeconomici, in particolare il surplus della bilancia dei pagamenti, e reflazionare, cosa che l'Italia in Europa finora, nonostante il semestre di presidenza dell'Unione europea, non ha fatto, tutta preoccupata di farsi perdonare la sua politica economica secondo gli interroganti fallimentare. (3-01194)
(2 dicembre 2014)
MAZZIOTTI DI CELSO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
l'articolo 47 della legge 23 luglio 2009, n. 99, prevede che entro sessanta giorni dalla data di trasmissione al Governo della relazione annuale dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, il Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, deve presentare alle Camere il disegno di legge annuale per la concorrenza;
il disegno di legge sulla concorrenza deve contenere disposizioni di immediata applicazione finalizzate a rimuovere gli ostacoli all'apertura dei mercati, promuovere lo sviluppo della concorrenza, anche con riferimento alle funzioni pubbliche e ai costi regolatori condizionanti l'esercizio delle attività economiche private, nonché a garantire la tutela dei consumatori, anche in relazione ai pareri e alle segnalazioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, nonché alle indicazioni contenute nelle relazioni annuali dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e delle altre autorità amministrative indipendenti;
nel 2013 il disegno di legge annuale per la concorrenza non è stato presentato dal Governo Letta;
in data 4 luglio 2014, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha trasmesso al Governo le proprie proposte di riforma concorrenziale, ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza; il termine previsto dalla legge è, quindi, scaduto da circa 90 giorni;
nelle sue proposte, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato richiede interventi in una serie di settori strategici e di particolare rilevanza per il sistema economico e per i consumatori: tra questi, distributori di carburanti, banche, comunicazioni, mercato dei farmaci, infrastrutture e servizi portuali e aeroportuali, assicurazioni, energia, servizi sanitari, servizio postale, rifiuti, ordini professionali, servizi pubblici locali, società pubbliche;
nello specifico, appaiono di particolare rilevanza gli interventi raccomandati in materia di assicurazioni, distributori di carburante (visto l'anomalo andamento del prezzo della benzina, pur in presenza del calo del prezzo del petrolio), maggiore liberalizzazione del settore farmaceutico e degli ordini professionali, riforma dei servizi pubblici locali e delle società pubbliche, che sono oggi numerosissime, costosissime e spesso dannosamente in concorrenza con gli imprenditori privati;
secondo il rapporto annuale dell'Istituto Bruno Leoni sull'indice delle liberalizzazioni, l'Italia è all'ultimo posto in Europa quanto a liberalizzazione dei mercati: una situazione che, secondo studi di Banca d'Italia, costa al nostro Paese l'8 per cento del prodotto interno lordo;
la raccomandazione del Consiglio europeo del 2 giugno 2014 sul programma nazionale di riforma 2014 dell'Italia, al punto 7, invita espressamente il nostro Paese a «promuovere l'apertura del mercato e rimuovere gli ostacoli rimanenti e le restrizioni alla concorrenza nei settori dei servizi professionali e dei servizi pubblici locali, delle assicurazioni, della distribuzione dei carburanti, del commercio al dettaglio e dei servizi postali; potenziare l'efficienza degli appalti pubblici, specialmente tramite la semplificazione delle procedure attraverso l'uso degli appalti elettronici, la razionalizzazione delle centrali d'acquisto e la garanzia della corretta applicazione delle regole relative alle fasi precedenti e successive all'aggiudicazione; in materia di servizi pubblici locali, applicare con rigore la normativa che impone di rettificare entro il 31 dicembre 2014 i contratti che non ottemperano alle disposizioni sugli affidamenti in house»;
fino ad oggi, l'azione del Governo non ha incluso alcun intervento diretto di liberalizzazione, o comunque finalizzato allo sviluppo di una maggiore concorrenza nel mercato italiano –:
se il Governo, considerando prioritaria la liberalizzazione dei mercati, intenda presentare rapidamente il disegno di legge annuale per la concorrenza, recependo, in particolare, gli interventi proposti dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato nei settori assicurativo, degli ordini professionali, dei distributori di carburante, dei farmaci, dei servizi pubblici locali e delle società pubbliche. (3-01195)
(2 dicembre 2014)
PISICCHIO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
l'Italia, come il Presidente del Consiglio dei ministri ha affermato intervenendo al Senato della Repubblica alla 52esima riunione del Cosac, spende tra i dieci e gli undici miliardi di euro di fondi europei a fronte di un contributo annuo doppio, di venti miliardi;
questa circostanza pone, dunque, il nostro Paese nella condizione paradossale di importante «finanziatore» dell'Unione europea ma di minore percettore di risorse, recuperate per dimensione, pari a quasi alla metà di ciò che viene erogato;
d'altro canto il rischio di deflazione nell'area euro, come dichiarato dal Ministro dell'economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, resta molto elevato e creerebbe un ulteriore ostacolo alla crescita dell'economia ed alla creazione di nuovi posti di lavoro, nonostante l'avvio del cosiddetto piano Junker, che comunque rappresenta un primo importante segnale nella direzione di una visione «sociale» e non solo finanziaria dell'Europa;
in una recente intervista ad un importante quotidiano il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato che sarebbe favorevole ad un intervento diretto dello Stato per risolvere la drammatica questione dell'Ilva;
la dichiarazione d'intenti sull'Ilva è, dunque, indicativa di una volontà di intervento nelle aree meridionali e nelle strutture industriali di base, ma in qualche modo rivendicherebbe un'autonomia di azione del Governo italiano, che fa leva anche sull'importante ruolo che il nostro Paese svolge in Europa;
tuttavia, la dichiarazione sull'Ilva sembrerebbe, però, non compatibile con la riduzione del cofinanziamento per i fondi di sviluppo europei nelle regioni del Sud;
in particolare, sembrerebbe che tre miliardi e mezzo di cofinanziamento sarebbero dirottati dalle regioni del Sud per finanziare le assunzioni a tempo indeterminato, rappresentando, così, un unico «calderone» nazionale –:
quali urgenti iniziative il Governo intenda assumere, anche nelle competenti sedi europee, per dare effetto all'intento manifestato dal Presidente del Consiglio dei ministri di realizzare interventi statali sul piano dell'industria siderurgica e se, per quel che concerne l'occupazione giovanile nel Mezzogiorno, non ritenga di promuovere iniziative vincolando le risorse rivenienti dal budget del cofinanziamento alla creazione di posti di lavoro nelle aree meridionali, al fine di sostenerne la crescita. (3-01196)
(2 dicembre 2014)
FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, MATTEO BRAGANTINI, BUSIN, CAON, CAPARINI, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, PRATAVIERA, RONDINI e SIMONETTI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
l'articolo 24 del decreto-legge n. 201/2011, cosiddetto «salva Italia», di riforma delle regole di accesso al pensionamento, ha disposto, in sintesi, l'abolizione delle pensioni di anzianità, l'innalzamento repentino dei requisiti anagrafici per accedere alla pensione di vecchiaia, le penalizzazioni per le pensioni anticipate (età inferiore a 62 anni a prescindere dall'anzianità contributiva) ed il calcolo col sistema contributivo di tutte le pensioni a decorrere dal 1o gennaio 2012;
trattasi della tristemente nota «riforma Fornero», che ha creato non poche piaghe sociali; basti pensare agli esodati, intendendo con tale terminologia anche tutti quei lavoratori sottoposti ad ammortizzatori sociali o addirittura licenziati e che erano prossimi alla pensione secondo le regole previgenti o al personale della scuola cosiddetto «quota ’96», vale a dire gli oltre tremila docenti in procinto di maturare, appunto, la quota 96 quale somma di età anagrafica e contributiva, ma che si son visti sfumare il diritto a pensione per un errore tecnico dell'allora Governo Monti di prendere in considerazione l'anno solare invece che quello scolastico;
proprio riguardo agli esodati, l'ultimo report diffuso dall'Inps il 27 ottobre 2014, relativo alle procedure di monitoraggio dei lavoratori beneficiari di salvaguardia, denuncia che la questione è tutt'altro che chiusa, sia per il numero degli aventi diritto certificati dall'istituto rispetto ai posti disponibili e sia per l'esclusione, in tutte e sei le salvaguardie, di talune categorie di lavoratori;
in occasione dell'esame parlamentare del provvedimento relativo alla sesta salvaguardia, il sottosegretario Bobba, nella seduta della Commissione lavoro della Camera dei deputati il 24 giugno 2014, aveva preannunciato soluzioni strutturali;
parimenti, anche con il personale della scuola «quota ’96» il Governo si è impegnato ripetutamente nelle aule parlamentari ad addivenire ad una soluzione, rinviandone ogni volta l'intervento normativo al provvedimento successivo a quello in discussione;
la «riforma Fornero» ha colpito duramente anche i lavoratori addetti a mansioni usuranti, stravolgendo i requisiti per la pensione anticipata con un sistema di quote meno favorevole, trasformando quello che per loro era un diritto in un miraggio;
l'ultima problematica, in ordine di notizia a mezzo stampa, causata dalla «riforma Fornero» è il rischio per l'Inps di un buco di 2 milioni di euro nel 2014 e di quasi 500 milioni di euro fra dieci anni, derivante dalla previsione di legge di calcolare tutte le pensioni col sistema contributivo, senza porre un tetto a quelle più alte; caso quest'ultimo sottovalutato dal Governo in carica e dai suoi predecessori nonostante i ripetuti solleciti della Lega Nord con proposte di legge e mozioni, salvo correre ai ripari con interventi last minute, salvaguardando comunque i trattamenti dei pensionati d'oro dell'ultimo triennio;
è indubbio, peraltro, che la crescita esponenziale del tasso di disoccupazione – pari al 13,2 per cento fra i più altri dell'eurozona ed il più alto in assoluto degli ultimi 37 anni – sia dovuta non soltanto alla fase recessiva che il nostro Paese sta vivendo, bensì anche e soprattutto alla «riforma Fornero» che, prolungando la permanenza al lavoro con l'innalzamento dell'età pensionabile, ha di fatto bloccato il ricambio generazionale, portando la disoccupazione giovanile al 43,3 per cento –:
se, considerato quanto esposto in premessa con riguardo alle innumerevoli «falle» contenute nella riforma previdenziale «targata Fornero» ed ai disastrosi risultati prodotti, il Governo non ritenga di dover assumere iniziative per pervenire nel più breve tempo possibile all'abrogazione dell'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 ed al ripristino della normativa pensionistica previgente.
(3-01197)
(2 dicembre 2014)
CECCONI, PESCO, CASTELLI, DADONE, RUOCCO, SORIAL, CANCELLERI, CASO, BARBANTI, BRUGNEROTTO, ALBERTI, CARIELLO, PISANO, COLONNESE, VILLAROSA, CURRÒ e D'INCÀ. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
in alcuni Stati, come gli Stati Uniti d'America, il Governo si astiene dallo stipulare contratti relativi a «derivati», soprattutto in seguito all'aver accertato i gravissimi rischi nei quali è possibile incorrere. L'Italia al contrario – come si apprende da fonti stampa – sembrerebbe essere il maggior utilizzatore di strumenti derivati;
gli strumenti derivati sono contratti o titoli il cui prezzo dipende da un altro strumento finanziario, definito «sottostante», il cui valore è relazionato ad una vera e propria «scommessa». L'incertezza della scommessa determina la rischiosità degli strumenti derivati. Come attività sottostanti si riscontrano diverse tipologie di parametri, ad esempio azioni, obbligazioni, indici finanziari, commodity come il petrolio o anche di un altro derivato, ma esistono derivati basati sulle più diverse variabili, perfino sulla quantità di neve caduta in una determinata zona o sulle precipitazioni in genere. Il derivato si sostanzia, in determinati casi, anche in una vera e propria scommessa, rischiosa e speculativa, basata su un evento incerto futuro;
nella seduta della Camera dei deputati n. 605 del 15 marzo 2012, il Sottosegretario Marco Rossi Doria, in risposta a interrogazione parlamentare, ha dichiarato che, alla data suddetta, il nozionale complessivo di strumenti derivati a copertura di debito emessi dalla Repubblica italiana ammontava a circa 160 miliardi di euro, a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1.624 miliardi di euro. All'epoca, quindi, il nozionale ammontava a circa il 10 per cento dei titoli in circolazione; «degli strumenti derivati in essere», affermava il Sottosegretario di Stato per l'istruzione, l'università e la ricerca, «circa 100 miliardi erano interest rate swap, 36 miliardi cross currency swap, 20 swaption e 3,5 miliardi degli swap ex Ispa»;
secondo fonti giornalistiche, nei primi otto anni di utilizzo degli strumenti derivati le finanze pubbliche hanno beneficiato di quasi 8 miliardi di euro di guadagni, mentre a partire dal 2006 la tendenza si è invertita e le perdite sono state sempre più consistenti. Da elaborazioni di la Repubblica e Financial Times (svolte sulla base di una relazione del Ministero dell'economia e delle finanze sul debito pubblico, inviata alla Corte dei conti a inizio 2013) emerge che un rilevante numero di derivati (del valore di 31 miliardi di euro), ristrutturati nel 2012, ha generato circa 8 miliardi di euro di minusvalenze di mercato. Le perdite si sono concretizzate nell'ipotesi di scadenze o risoluzione anticipata;
l'intenzione del Governo sembra essere quella di permettere che, in futuro, vengano predisposte delle garanzie su «conti ad hoc», immunizzando dal rischio le banche. Infatti, nel caso in cui l'Italia andasse in default, le banche riceverebbero automaticamente le liquidità poste a garanzia, di fatto qualificandosi come creditori privilegiati rispetto ai detentori di titoli pubblici (btp), che ormai in gran parte sono in possesso di investitori italiani;
è doveroso precisare che nell’«eurozona» solo Portogallo ed Irlanda hanno posto in essere accordi di garanzia bilaterale sul «debito» e l'Italia potrebbe essere la terza in ordine cronologico di adesione al sistema prescritto;
dopo la rivalutazione delle quote azionarie di Banca d'Italia, che di fatto ha generato circa 7 miliardi di euro di plusvalenze per pochi istituti bancari, bilanciate solo da un miliardo di maggiori entrate fiscali, e dopo la deducibilità ai fini irap delle «perdite» sui crediti in 5 anni (rispetto ai 18 originari) che ha consentito alle sei principali banche di ricevere ulteriori sgravi per 514 milioni di euro, sembra eccessivo concedere alle banche un ulteriore privilegio, visto che, contemporaneamente, agli italiani – in piena crisi economica – è stato chiesto l'ennesimo sacrificio pur consci che il livello di tassazione effettiva sfiora ormai il 55 per cento del prodotto interno lordo;
non si dispone di dati ufficiali dai quali sia possibile evincere il valore nozionale degli strumenti derivati sottoscritti fino ad oggi dallo Stato italiano, l'ammontare dei flussi di cassa in entrata e uscita, con quali banche siano stati sottoscritti e quale sia il capitale di riferimento, quale sia la tipologia tecnica e quale sia il valore complessivo delle garanzie che verranno eventualmente stipulate relativamente ad operazioni in strumenti derivati;
recenti iniziative del Governo sembrerebbero riferirsi a possibili garanzie su strumenti derivati già stipulati; non si comprendono le ragioni di una modifica di un contratto già stipulato e conseguentemente le ragioni di una modifica contrattuale a favore delle banche con le quali sono stati stipulati i medesimi strumenti derivati –:
quale sia il valore complessivo degli accordi di garanzia bilaterale in relazione alle operazioni in strumenti derivati e quale siano le ragioni che hanno portato a preferire la scelta di destinare tali risorse come garanzia sulle operazioni in strumenti derivati a discapito dell'opportunità di destinare le medesime risorse al finanziamento delle politiche sociali, che risultano particolarmente necessarie nell'attuale contesto economico e sociale.
(3-01198)
(2 dicembre 2014)
SPERANZA, MARTELLA, ROSATO, FREGOLENT, GRASSI, MORANI, TARANTO, EPIFANI, BENAMATI, BINI e CINZIA MARIA FONTANA. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
dall'inizio della «grande crisi», se il settore manifatturiero ha registrato, a livello europeo, la perdita di quasi quattro milioni di posti di lavoro e una caduta degli investimenti di circa 350 miliardi di euro, l’export industriale europeo si conferma positivo con un surplus, nel 2013, di circa 365 miliardi di euro e circa l'80 per cento dell'innovazione nel settore privato risulta comunque generato dal comparto industriale;
per quel che riguarda l'Italia, fatto 100 l'indice della produzione industriale del gennaio 2008, esso risultava pari a 76 già a dicembre del 2012 e l'occupazione nel settore registrava, a giugno del 2013, una diminuzione di oltre 500 mila unità. Nonostante ciò, a settembre 2014 si è registrato un surplus manifatturiero, sul versante dell’export, che ha toccato la quota record di 100 miliardi di euro e, secondo recenti analisi, circa il 27 per cento dell'occupazione e circa il 40 per cento del prodotto interno lordo (percentuali superiori alla media dell'Unione europea) trarrebbero origine, nel nostro Paese, da imprese altamente innovative;
nel complesso scenario della globalizzazione, si sono registrati – tanto a livello europeo, quanto a livello nazionale – forti processi di polarizzazione che, per l'Italia, evidenziano come fattori particolarmente critici: i rischi di desertificazione industriale della macro-area territoriale del Mezzogiorno; il posizionamento di molte imprese, rispetto alle grandi catene globali del valore, in un ruolo di subfornitura, seppure caratterizzata da elevati livelli di qualità e di complessità tecnologica; il basso grado di partecipazione del tessuto diffuso delle piccole e medie imprese ai processi di internazionalizzazione ed innovazione;
al quadro del sistema industriale fin qui delineato, il Governo ha anzitutto risposto con una strategia – bene espressa, tra l'altro, dal disegno di legge di stabilità per il 2015 – ispirata al perseguimento di una più efficace interazione tra riforme strutturali e politica di bilancio, tra misure volte al rafforzamento del potenziale dell'economia e misure dedicate al sostegno della domanda aggregata, nonché agendo per l'avanzamento di una simile impostazione complessiva anche a livello europeo;
quanto al più specifico terreno delle politiche industriali, l'operato del Governo mostra di essersi sviluppato in coerenza con la strategia europea per il perseguimento dell'obiettivo 2020 di innalzamento della quota del prodotto interno lordo generata dall'industria dall'attuale 15 per cento al 20 per cento, strategia che si basa su quattro fondamentali assi operativi:
a) più mercato interno ed internazionale;
b) un più agevole accesso ai mezzi di produzione (energia, materie prime, capitali);
c) più intelligenza e più sostenibilità attraverso più innovazione;
d) una regolamentazione più «amichevole»;
alle difficoltà del sistema industriale italiano si è cercato di dare risposta anche attraverso la task-force istituita presso il Ministero dello sviluppo economico, incaricata della gestione delle vertenze più complesse e rilevanti, con appositi tavoli di confronto;
in questi mesi, anche attraverso la suddetta task-force, diverse vertenze, alcune delle quali particolarmente critiche, hanno trovato uno sbocco positivo come nei casi del tavolo Electrolux e del tavolo Eni, che ha registrato, nel corso del mese di novembre 2014, la firma dei protocolli d'intesa per la riconversione della raffineria di Gela e per il rilancio della chimica e della raffinazione di Porto Marghera; proseguono i lavori del tavolo concernente il futuro del sito ex Fiat di Termini Imerese ai fini dell'avvio della produzione di auto ibride ed elettriche;
sono, altresì, in corso trattative circa le vertenze del settore dell'acciaio, a partire dalla vicenda Ast-ThyssenKrupp di Terni, così come, contestualmente, si registra, da parte dell'algerina Cevital, l'aggiudicazione del bando per la vendita degli asset della Lucchini di Piombino;
la collaborazione tra pubblico e privato emerge, quindi, come profilo distintivo di una politica industriale adeguata alle sfide in campo, portando, come annunciato dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, a valutare, nel caso dell'Ilva, anche la possibilità di un transitorio intervento pubblico e, ancora ad esempio della capacità di fare sistema, provando a rilanciare il tema dell'investimento sul trasporto pubblico locale anche in relazione alle prospettive dell'ex Irisbus –:
quali iniziative il Governo intenda promuovere in materia di politiche industriali per la definizione di possibili soluzioni di alcune importanti vertenze, nonché per l'elaborazione di un industrial-compact italiano, anche sulla scorta di quanto emerso nell'ambito delle riunioni del «Consiglio competitività», svoltesi durante la presidenza del semestre dell'Unione europea, contribuendo così al rafforzamento della competitività del nostro Paese e dell'attrattività del suo settore industriale, anche in termini di investimenti esteri. (3-01199)
(2 dicembre 2014)
MARAZZITI, BUTTIGLIONE, GIGLI, BINETTI, SANTERINI e SBERNA. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
dal mese di ottobre 2014 la bandiera nera dello Stato islamico sventola nella città di Derna in Libia, che ha ripreso l'antico nome di Barqa ed è oggi il primo califfato che l'Isis è riuscita a proclamare nel Mediterraneo;
è stato lo sceicco yemenita Mohammed Abdullah (nome di battaglia Abu al Baraa al Azdi) a proclamare la «provincia della Cirenaica», in arabo Wilayat Barka, con l'aiuto di 800 miliziani. Oltre al Consiglio della Shura, altre brigate partecipano al controllo della nuova provincia affiliata al califfo, tra le quali «Lo scudo libico», Rafallah al Sahati, i «Martiri della brigata del 17 febbraio» e Jaish al Mujahideen;
secondo Human rights watch, gli 80.000 abitanti di Derna sono tenuti in pugno dai miliziani dell'Isis con i medesimi sistemi usati in Iraq e Siria: impiccagioni, decapitazioni, flagellazioni in pubblico, distruzione di moschee e tombe, assassinii;
un regno del terrore a circa 430 miglia nautiche dall'Italia, poco meno di 800 chilometri, meno della distanza esistente tra Torino e Napoli o da Milano a Bari;
il Consiglio della Shura ha annunciato di avere cellule diffuse in svariate città della Libia, tra cui la capitale Tripoli, ma, al momento, Derna si afferma come il punto principale anche per il reclutamento di jihadisti provenienti dal Maghreb e, in particolare, dalla Tunisia, Paese che conta già 3.000 cittadini arruolati nello Stato islamico –:
se il Governo stia monitorando la situazione e quali iniziative, anche in ambito europeo, intenda adottare tenuto conto che il califfato di Barqa rappresenta uno dei punti cruciali per l'espansione dello Stato islamico in Nord Africa.
(3-01200)
(2 dicembre 2014)
GIORGIA MELONI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
dai dati del Ministero dell'interno emerge l'eccezionalità del 2014 per quanto riguarda gli sbarchi sulle coste italiane, che dall'inizio dell'anno ha portato a quota 130 mila il numero dei migranti giunti in Italia, oltre il triplo del 2013 e il doppio rispetto al 2011, anno dell'emergenza Nord Africa;
a fronte di questi dati non va dimenticato che i centri di accoglienza in Italia possono accogliere attualmente appena cinquantamila persone e quindi, di fatto, alcune regioni si trovano a dover gestire un numero di migranti nettamente superiore rispetto a quello previsto;
l'eccezionale afflusso di immigrati trae origine dalle difficili e pericolose condizioni di vita che esistono nei Paesi dai quali queste persone si trovano costrette a fuggire;
il criterio del Paese di primo approdo stabilito dal «regolamento di Dublino» per la presentazione delle domande di asilo ha causato in Italia un incremento del 144 per cento dei richiedenti;
solo nell'ultimo anno il numero accertato delle persone morte in mare cercando di raggiungere l'Italia è triplicato;
l'unico modo per evitare altre tragedie in mare è un'attività di prevenzione che possa scongiurare non solo le partenze dalle coste libiche, ma anche i viaggi che queste persone sono costrette ad effettuare per giungere nei «porti di partenza» in mano ad organizzazioni criminali e in condizioni disumane;
non è noto per quali motivi all'atto della riforma del «regolamento di Dublino» non si sia intervenuti al fine di modificare il criterio del Paese di primo approdo per la presentazione delle domande di asilo –:
se non ritenga di attivarsi affinché sia promossa una missione internazionale europea che permetta di prevenire le tragedie legate all'immigrazione clandestina attraverso l'istituzione di appositi presidi nei Paesi dai quali partono i maggiori flussi migratori che siano in grado di effettuare una valutazione preventiva delle possibilità dei soggetti migranti di ottenere le previste forme di protezione internazionale nei Paesi dell'Unione europea, anche al fine di garantire un'adeguata distribuzione tra i Paesi stessi dei migranti e dei costi relativi alla gestione della loro accoglienza.
(3-01201)
(2 dicembre 2014)