Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Altri Autori: Servizio Biblioteca - Ufficio Legislazione straniera , Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Deleghe al Governo in materia di lavoro - A.C. 2660 - Schede di lettura
Riferimenti:
AC N. 2660/XVII     
Serie: Progetti di legge    Numero: 226
Data: 14/10/2014
Descrittori:
LAVORO   LEGGE DELEGA
Organi della Camera: XI-Lavoro pubblico e privato

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

 

Deleghe al Governo in materia di lavoro

 

A.C. 2660

Schede di lettura

 

 

 

 

 

 

n. 226

 

 

 

14 ottobre 2014

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Lavoro

( 066760-4884 / 066760-4974 – * st_lavoro@camera.it

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

Servizio Biblioteca – Osservatorio della legislazione straniera

( 066760-2278 – * bib_segreteria@camera.it

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La documentazione dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

File: LA0307.docx

 


INDICE

Schede di lettura

§  Commi 1-2 (Delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali) 3

-     Strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro (lettera a)) 3

-     Strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria (lettera b)) 10

-     Obbligo di attivazione dei beneficiari (lettere c) e d)) 14

§  Commi 3-4 (Delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive) 16

-     Incentivi all’occupazione (lettera a)) 17

-     Incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità (lettera b)) 21

-     Ridefinizione delle politiche attive (lettere m), n), q) e v)) 23

o   Agenzia nazionale per l’occupazione (lettere c), d), e), h), i), l), m) e n)) 28

o   Accordi per la ricollocazione (lettera p)) 31

o   Competenze istituzionali (lettere f), t) e u)) 32

o   Semplificazioni procedurali (lettere g), z), aa) e bb)) 33

-     Valorizzazione della bilateralità (lettera o)) 35

§  Commi 5-6 (Delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti) 37

§  Comma 7 (Delega al Governo in materia di rapporti di lavoro e attività ispettiva) 48

-     Riordino delle forme contrattuali (lettere a) e h)) 50

-     Contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di lavoro (lettera b)) 63

-     Contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (lettera c)) 66

-     Disciplina delle mansioni (lettera d)) 69

-     Controlli a distanza dei lavoratori (lettera e)) 72

-     Compenso orario minimo (lettera f)) 74

-     Lavoro accessorio (lettera g)) 75

-     Attività ispettiva e Agenzia unica per le ispezioni del lavoro (lettera i)) 75

§  Commi 8 e 9 (Delega al Governo per la tutela e la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) 79

-     Prestazioni di maternità (lettere a) e b)) 79

-     Incentivi al lavoro femminile (lettera c)) 80

-     Flessibilità dell’orario e telelavoro (lettera d)) 84

-     Cessione fra lavoratori di giorni di riposo (lettera e)) 86

-     Servizi per l’infanzia (lettera f)) 87

-     Sostegno della genitorialità e congedi (lettera g)) 88

-     Estensione al lavoro pubblico (lettera h)) 88

§  Commi 10-14 (Disposizioni comuni per l’esercizio delle deleghe) 94

Legislazione straniera

§  Le politiche attive per il lavoro nei principali paesi europei 99

§  La normativa sul licenziamento individuale in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna  114

§  Il compenso orario minimo in Francia, Germania e Regno Unito  119

 

 


Schede di lettura

 


Commi 1-2
(Delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali)

 

I commi 1 e 2 recano una delega al Governo per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali[1].

 

Il comma 1 indica le finalità della delega, intesa ad assicurare, per la disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, a razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale ed a favorire il coinvolgimento attivo dei soggetti espulsi dal mercato del lavoro ovvero beneficiari di ammortizzatori sociali, semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro, tenuto conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi.

La delega va esercitata con uno o più decreti legislativi, da adottare entro 6 mesi, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

 

Altri aspetti procedurali per l’esercizio della delega, applicabili a tutte le deleghe previste dal provvedimento, sono definiti ai commi 10-14 (alla cui scheda si rinvia).

 

Il comma 2 individua i principii ed i criteri direttivi per l'esercizio della delega, con riferimento agli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro (lettera a)), agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria (lettera b)), agli obblighi di attivazione del soggetto beneficiario (lettera c)) e alla revisione della disciplina sanzionatoria (lettera d)).

 

Per quanto concerne gli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro, la lettera a) fissa i seguenti principi e criteri direttivi:

 

·      l'esclusione di ogni forma di integrazione salariale in caso di cessazione dell'attività aziendale o di un ramo di essa (numero 1));

·      la semplificazione delle procedure burocratiche, attraverso l'incentivo di strumenti telematici e digitali, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati di concessione, prevedendo strumenti certi ed esigibili (numero 2));

·      l’accesso alla cassa integrazione solo in caso di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando ai contratti di solidarietà una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione (numero 3));

·      la revisione dei limiti di durata, da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento ordinario o straordinario di cassa integrazione e l'individuazione di meccanismi di incentivazione della rotazione tra i lavoratori da sospendere (numero 4));

·      sotto il profilo della contribuzione, una maggiore compartecipazione da parte delle imprese effettivamente beneficiarie (numero 5)) e la riduzione delle aliquote di contribuzione ordinarie[2], con la rimodulazione delle stesse aliquote tra i settori, in funzione dell'effettivo impiego (numero 6)).

·      la revisione dell'àmbito di applicazione della cassa integrazione ordinaria (CIG) e straordinaria (CIGS), nonché dei fondi di solidarietà bilaterali, relativi ai settori non coperti dagli strumenti di integrazione salariale, con la fissazione di un termine certo per il loro avvio e previsione della possibilità di destinare gli eventuali risparmi di spesa derivanti dall’attuazione delle disposizioni di cui alla presente lettera al finanziamento delle disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 (numero 7);

·      la revisione dell'àmbito di applicazione e delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà, con particolare riguardo a quelli cosiddetti espansivi ed alla messa a regime delle norme transitorie (in genere, oggetto di successive proroghe), le quali estendono alle imprese non rientranti nell'àmbito di applicazione della disciplina dei contratti di solidarietà difensivi[3] la possibilità di stipulare tali contratti, con il riconoscimento di determinate agevolazioni (in favore delle stesse imprese e dei lavoratori interessati) (numero 8).

 

La delega è volta a consentire la modifica della normativa che attualmente disciplina gli interventi in costanza di rapporto di lavoro, ossia gli interventi della Cassa integrazioni guadagni, ordinari (CIG) e straordinari (CIGS) e i contratti di solidarietà.

Di seguito si riassumono i contenuti della normativa vigente in materia, con particolare riferimento ai profili richiamati nei principi e criteri direttivi.

 

La Cassa integrazione guadagni

 

La funzione della Cassa integrazione guadagni è di integrare la retribuzione dei lavoratori a seguito di sospensioni o riduzioni dell’attività di impresa.

La Cassa integrazione permette la permanenza del rapporto di lavoro in vista della ripresa produttiva.

Sono previsti due tipi di interventi, che differiscono tra di loro in relazione ai motivi per i quali possono essere richiesti:

l’intervento ordinario (CIGO) per situazioni sospensive brevi e transitorie;

l’intervento straordinario (CIGS) per cause di durata più lunga ed esito incerto.

La CIGO viene concessa, ai sensi dell'articolo 1 della L. 20 maggio 1975, n. 164, nei casi di sospensione o contrazione dell'attività in conseguenza di: 1) situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all'imprenditore o ai dipendenti; 2) situazioni temporanee di mercato.

Gli interventi sono previsti (D.Lgs.Lgt. 788/1945, artt. 1, 3 e 5; D.Lgs. CPS 869/1947, artt. 3 e 5; L. 240/84, art. 3, co. 1) per il settore industriale, indipendentemente dal numero di lavoratori occupati[4].

Possono beneficiare della CIGO i lavoratori subordinati appartenenti alle categorie degli operai, impiegati e quadri (assunti a tempo indeterminato o a termine), part-time o con contratto di inserimento. Essa spetta inoltre ai soci e ai dipendenti delle cooperative destinatarie della CIG.

Ai sensi dell’articolo 6 della L. 164/1975 l'integrazione salariale è corrisposta per un periodo massimo di 3 mesi (13 settimane) consecutivi, prorogabile in casi eccezionali per successivi periodi trimestrali, fino ad un massimo complessivo di 12 mesi (52 settimane). Superato tale limite, per la stessa unità produttiva non possono essere richiesti ulteriori interventi della Cassa prima che sia trascorso un periodo di almeno 52 settimane di ripresa della normale attività produttiva[5].

In caso di interventi non consecutivi, la durata dell'integrazione non può comunque eccedere 12 mesi (52 settimane) nell'arco di un biennio.

In base all'articolo 2 della L. 164/1975, l'integrazione salariale è dovuta nella misura dell'80% della retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate, comprese fra le zero ore e il limite dell'orario contrattuale osservato (ma comunque non oltre le 40 ore settimanali).

Per quanto concerne il finanziamento della CIGO, la contribuzione di base (a carico del datore di lavoro) è pari all’1,90% dell’intera retribuzione imponibile ai fini previdenziali, ovvero al 2,20% per le imprese con più di 50 dipendenti. Per i casi di effettivo ricorso all’intervento ordinario di integrazione salariale, si applica (salvo eccezioni) una contribuzione addizionale, pari al 4,0% o all’8,0%per le imprese con più di 50 dipendenti, delle integrazioni salariali da corrispondere.

L’ammissione al beneficio è preceduta dall’espletamento di alcuni adempimenti procedurali da parte del datore di lavoro.

In primo luogo, il datore di lavoro deve individuare i lavoratori interessati sulla base di un nesso tra causa di sospensione e lavoratore scelto.

In secondo luogo si attiva una specifica procedura sindacale (L. 164/1975, art. 5), differenziata a seconda della causa che ha prodotto la contrazione o la sospensione dell’attività. Nel caso in cui questa non sia differibile, la procedura si sostanzia nella comunicazione alle rappresentanze sindacali dell’azienda o, in mancanza, alle organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più rappresentative operanti nella provincia, della durata prevedibile della sospensione o contrazione e del numero dei lavoratori interessati. In tutti gli altri casi, il datore di lavoro deve comunicare preventivamente le cause di sospensione o riduzione di orario, l’entità, la durata prevedibile, il numero e i criteri di scelta dei lavoratori.

L’irregolarità o la mancanza della procedura sindacale comportano l’inammissibilità e quindi l’illegittimità della CIG, con la conseguenza che i lavoratori hanno diritto alla retribuzione intera per i periodi di riduzione o di sospensione già realizzati. E’ inoltre prevista la possibilità, da parte delle organizzazioni sindacali, di esperire un’azione per condotta antisindacale.

 

La CIGS è riservata, in via generale (ai sensi degli articoli 1 e 2 della L. 23 luglio 1991, n. 2239, alle imprese industriali che abbiano occupato mediamente più di 15 lavoratori nel semestre precedente la domanda, nonché alle imprese commerciali con più di 200 dipendenti (secondo lo stesso criterio di computo); le imprese artigiane, ai fini dell'applicazione dell'istituto, sono equiparate a quelle industriali nel caso in cui un'altra impresa, che eserciti un "influsso gestionale prevalente" (determinato secondo i termini posti dall'articolo 12 della L. 223) si avvalga, a sua volta, dell'intervento di integrazione straordinaria; anche per le imprese artigiane valgono i requisiti dimensionali stabiliti per le imprese industriali. Possono inoltre beneficiare della CIGS le società cooperative di produzione e lavoro (L. 236/1993, articolo 8, comma 2).

Si ricorda che gli interventi di integrazione salariale straordinaria sono o sono stati estesi - spesso con provvedimenti a termine - ad altri settori imprenditoriali (sulla base di uno specifico programma presentato dall’impresa).

Le fattispecie nelle quali è possibile il ricorso alla CIGS sono le seguenti:

·        ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale (per un periodo massimo pari, in linea ordinaria, a 24 mesi);

·        crisi aziendale (per un periodo massimo, pari, in linea ordinaria, a 12 mesi);

·        casi di fallimento, di liquidazione coatta amministrativa, di amministrazione straordinaria e di omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni, qualora la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata (per un periodo massimo, pari, in linea ordinaria, a 12 mesi).

Hanno diritto alla CIGS (L. 464/1972, L. 164/1975, art. 1) gli operai, impiegati, intermedi e i quadri con un’anzianità di servizio di almeno 90 giorni alla data della richiesta. Tale diritto, inoltre, è riconosciuto ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro.

In linea di massima, ai sensi dell’articolo 1 della L. 223/1991, i limiti di durata del trattamento di integrazione salariale straordinaria sono pari a 2 anni (se concessa per ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale) o a 1 anno (se riconosciuta per crisi aziendale; in questo caso, un nuovo intervento, per la medesima causale, non può essere disposto prima che sia decorso un periodo pari a due terzi di quello relativo alla precedente concessione). Inoltre i trattamenti relativi alla medesima unità produttiva non possono avere una durata superiore a 36 mesi nell’arco di un quinquennio (il quale decorre dal mese iniziale del primo dei trattamenti in considerazione); nel computo sono inclusi anche i periodi di integrazione salariale ordinaria relativa a situazioni temporanee di mercato.

Per quanto attiene alla misura del trattamento straordinario, esso è dovuto  nella misura dell'80% della retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate, comprese nel limite massimo di 40 ore settimanali.

Per quanto concerne il finanziamento della CIGS è prevista una contribuzione di base sia a carico delle imprese (che rientrino nell’ambito di applicazione dell’istituto) sia a carico dei relativi lavoratori; tali contributi sono pari, rispettivamente, allo 0,6% e allo 0,3% della retribuzione. Per i casi di effettivo ricorso all’intervento straordinario di integrazione salariale, si applica una contribuzione addizionale, pari al 3,0%, ovvero al 4,5% per le imprese con più di 50 dipendenti, delle integrazioni salariali da corrispondere.

Per quanto attiene agli aspetti procedurali, in primo luogo sussiste il principio di rotazione dei lavoratori (L. 223/1991, art. 1, co. 8), in base alla quale il datore di lavoro ha l’obbligo di alternare tra loro i lavoratori sospesi o ad orario ridotto.

Il datore di lavoro che ricorre alla CIGS direttamente o tramite le organizzazioni datoriali, deve dare tempestiva comunicazione alle rappresentanze aziendali, o, in mancanza di queste, alle organizzazione sindacali di categoria dei lavoratori comparativamente più rappresentative operanti nella provincia.

Entro 3 giorni dalla comunicazione, il datore o i rappresentanti dei lavoratori devono presentare la domanda di esame congiunto della situazione aziendale all’ufficio competente della regione nel cui territorio sono ubicate le unità aziendali interessate, o al Ministero del lavoro se queste ultime sono ubicate in più regioni.

La procedura termina con il decreto di concessione emanato dal ministero del lavoro.

 

I contratti di solidarietà

 

Per contratti di solidarietà difensivi si intendono quelli collettivi aziendali, stipulati tra imprese industriali rientranti nel campo di applicazione della CIGS (comprese le aziende appaltatrici di servizi di mense e di servizi di pulizia) e le rappresentanze sindacali, che, a norma dell'articolo 1 del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, stabiliscano una riduzione dell'orario di lavoro, al fine di evitare, in tutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esubero del personale. In relazione a tale riduzione d'orario, di cui sia stata accertata la finalizzazione da parte dell'Ufficio regionale del lavoro, il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, concede il trattamento d'integrazione salariale il cui ammontare è determinato nella misura del 60% del trattamento retributivo perso a seguito della riduzione d'orario.

A decorrere dal 1° gennaio 2014 possono ricorrere ai contratti di solidarietà, in favore dei propri dipendenti, anche i partiti politici e i movimenti politici iscritti nel registro nazionale (ai sensi dell’articolo 16 del D.L. 149/2013). Restano invece escluse le imprese che abbiano presentato istanza per essere ammesse ad una delle procedure concorsuali di cui all'articolo 3 della L. 223/1991, ovvero siano state assoggettate ad una delle suddette procedure.

Infine, il contratto di solidarietà non si applica nei casi di fine lavoro e fine fase lavorativa nei cantieri edili, e non è ammesso per rapporti di lavoro a tempo determinato, instaurati al fine di soddisfare le esigenze di attività produttive soggette a fenomeni di natura stagionale.

Può beneficiare del contratto di solidarietà tutto il personale dipendente, ad esclusione dei dirigenti, degli apprendisti e dei lavoratori a domicilio (articolo 3 del D.M. 46448/2009).

Per i dipendenti part-time è ammissibile l'applicazione dell'ulteriore riduzione di orario, qualora sia dimostrato il carattere strutturale del part-time nella preesistente organizzazione del lavoro.

Il contratto di solidarietà non può avere (ex articolo 1, comma 2, del D.L. 726/1984) una durata superiore a 24 mesi. Alla scadenza, è prevista la possibilità (articolo 7 del D.L. 536/1987) di prorogare il trattamento, fino ad un massimo di 24 mesi (36 mesi per i lavoratori occupati nel Mezzogiorno). Qualora il contratto di solidarietà raggiunga la durata massima prevista dal richiamato articolo 7, un nuovo contratto di solidarietà può essere stipulato, per le medesime unità aziendali coinvolte dal contratto precedente, decorsi dodici mesi. Il limite massimo di fruizione del trattamento straordinario di integrazione salariale stabilito dall'articolo 1, comma 9, della L. 223/1991 (36 mesi nell'arco di un quinquennio), può essere superato nelle singole unità produttive, qualora il ricorso al contratto di solidarietà abbia la finalità di strumento alternativo alla procedura per la dichiarazione di mobilità ai sensi dell’articolo 7 del D.M. 46448/2009).

L’articolo 2 del D.L. 726/1984 ha previsto (nel caso in cui i contratti collettivi aziendali, stipulati con i sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, al fine di incrementare gli organici, prevedano, programmandone le modalità di attuazione, una riduzione stabile dell'orario di lavoro, con riduzione della retribuzione, e la contestuale assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale, con richiesta nominativa, ai datori di lavoro) la concessione, per ogni lavoratore assunto sulla base dei predetti contratti collettivi e per ogni mensilità di retribuzione ad esso corrisposta, di un contributo (a carico della gestione dell'assicurazione per la disoccupazione involontaria), pari, per i primi 12 mesi, al 15% della retribuzione lorda prevista dal contratto collettivo di categoria per il livello di inquadramento. Per ciascuno dei 2 anni successivi il predetto contributo è ridotto, rispettivamente, al 10% e al 5%.

Per i lavoratori di età compresa tra i 15 e i 29 anni assunti sulla base delle disposizioni richiamate, il comma 2 dispone che la quota di contribuzione a carico del datore di lavoro sia corrispondente a quella per gli apprendisti (per i primi tre anni e comunque non oltre il compimento del ventinovesimo anno di età del lavoratore assunto) ferma restando la contribuzione a carico del lavoratore nella misura prevista per la generalità dei lavoratori[6]. Il contributo richiamato è cumulabile con gli sgravi degli oneri sociali e può essere conguagliato dai datori di lavoro all'atto del pagamento dei contributi dovuti all'Istituto nazionale della previdenza sociale[7]. Non beneficiano delle agevolazioni indicate in precedenza i datori di lavoro che, nei 12 mesi antecedenti le assunzioni, abbiano proceduto a riduzioni di personale ovvero a sospensioni di lavoro.

Come accennato, in caso di contratti di solidarietà ai lavoratori interessati spetta un trattamento di integrazione salariale pari al 60% della retribuzione persa a seguito della riduzione dell’orario di lavoro; in via sperimentale, per gli periodo 2009-2012 (e prorogato per il 2013 dall’articolo 1, comma 256, della L. 228/2012), l'ammontare del trattamento di integrazione è stato aumentato del 20% (con passaggio dell’indennità dal 60% all’80% della retribuzione) del trattamento perso a seguito della riduzione dell'orario di lavoro. Dal 2014, ai sensi dell’articolo 1, comma 186, della L. 147/2013, l'ammontare del trattamento di integrazione salariale è stato aumentato in misura pari al 10%, diventando così complessivamente pari al 70% della retribuzione persa a seguito della riduzione di orario.

Per quanto attiene, infine, alle agevolazioni contributive, si ricorda che l'articolo 6, comma 4, del D.L. 510/1996 ha stabilito una specifica agevolazione contributiva a favore dei datori di lavoro (valevole per un periodo non superiore a 24 mesi e consistente nella riduzione dell'ammontare dei contributi da essi dovuti per i lavoratori interessati dalla riduzione dell'orario di lavoro) per i contratti di solidarietà stipulati successivamente al 14 giugno 1995 e nei quali è pattuita una riduzione dell'orario di lavoro superiore al 20. Tale riduzione contributiva, inizialmente pari al 25%, è stata successivamente elevata al 35% nel caso di contratto di solidarietà con diminuzione di orario di lavoro superiore al 30%. Per le imprese operanti nelle aree individuate per l'Italia dalla CE - ai sensi dell'obiettivo 1 del regolamento n. 1260/1999 - tali percentuali erano elevate rispettivamente al 30% e al 40%. In base alle modifiche apportate dall'articolo 5 del recente D.L. 34/2014, la misura della riduzione contributiva è stata  generalizzata nella misura del 35%. Si ricorda, inoltre, che il comma 1-ter del richiamato articolo 5 del D.L. 34/2014, al fine di favorire la diffusione delle buone pratiche e il monitoraggio delle risorse economiche impiegate, ha introdotto l'obbligo di depositare i contratti di solidarietà presso l'archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro.

Si ricorda, inoltre, che l’articolo 5, comma 5, del D.L. 148/1993, ha disposto (fino al 31 dicembre 1995), per le imprese non rientranti nel campo di applicazione della CIG che (al fine di evitare o ridurre le eccedenze di personale nel corso della procedura di licenziamento collettivo, o al fine di evitare licenziamenti plurimi individuali per giustificato motivo oggettivo) stipulino contratti di solidarietà, la corresponsione, per un periodo massimo di 2 anni, di un contributo pari alla metà del monte retributivo da esse non dovuto a seguito della riduzione di orario. Il predetto contributo viene erogato in rate trimestrali e ripartito in parti uguali tra l'impresa e i lavoratori interessati[8]. Il successivo comma 8 ha altresì disposto l’applicazione di tale agevolazione alle imprese artigiane non rientranti nel campo di applicazione della CIGS, anche ove occupino meno di 16 dipendenti, a condizione che i lavoratori con orario ridotto da esse dipendenti percepiscano, a carico di fondi bilaterali istituiti da contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale, una prestazione di entità non inferiore alla metà della quota del contributo pubblico destinata ai lavoratori.

Accanto ai contratti di solidarietà difensivi, sussistono anche quelli cd. espansivi (L. 863/1994, articolo 2), che si concretizzano in un accordo tra datore di lavoro e sindacati maggiormente rappresentativi che prevede una riduzione stabile dell’orario di lavoro e della retribuzione dei dipendenti e, contestualmente, l’effettuazione di nuove assunzioni al fine di incrementare l’organico. Le nuove assunzioni devono essere a tempo indeterminato e non devono determinare una riduzione della percentuale di manodopera femminile rispetto a quella maschile, oppure di quest’ultima quando risulti inferiore.

Per quanto concerne gli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, la lettera b) prevede criteri di delega per la rimodulazione dell’ASpI (numeri da 1) a 4)), l’eventuale introduzione di un ulteriore prestazione (dopo la fruizione dell’ASpI) destinata a lavoratori in stato di particolare disagio economico (numero 5)) e sullo stato di disoccupazione (numero 6)).

 

In particolare si prevede:

 

·      la rimodulazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi, rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore (numero 1));

·      l'incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti (numero 2));

·      l'estensione dell’ASpI ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (con l’esclusione, in ogni caso, degli amministratori e dei sindaci) mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito (relativi a tali soggetti), l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi ed il principio di automaticità delle prestazioni[9] e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite (numero 3));

 

Per quanto riguarda gli strumenti di sostegno al reddito dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa[10] (strumenti che la norma in esame intende abrogare), occorre fare riferimento all’articolo 2, commi 51-56, della legge 92/2012 (c.d. legge Fornero), che ha introdotto (a decorrere dal 2013) una indennità una tantum a favore dei lavoratori a progetto disoccupati, in quanto esclusi dall’ambito di applicazione dell’ASpI. L’indennità, erogata in presenza di determinati presupposti (operatività in regime di monocomittenza nell’anno precedente; conseguimento nell’anno precedente di un reddito lordo complessivo soggetto a imposizione fiscale non superiore al limite di 20.000 euro; iscrizione in via esclusiva alla gestione pensionistica INPS separata, con almeno un accreditamento contributivo nell’anno di riferimento e almeno 4 accreditamenti in quello precedente; non titolarità anche di reddito di lavoro autonomo; aver passato un periodo di disoccupazione ininterrotta di almeno 2 mesi nell’anno precedente) è pari è pari ad una somma del 5% del minimale annuo di reddito[11] moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione.

 

Per quanto riguarda la richiamata “automaticità delle prestazioni”, la norma parrebbe (ma sarebbe opportuna una esplicitazione al riguardo) fare riferimento al riconoscimento del diritto alla prestazione anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.

Al riguardo, si ricorda che il principio generale dell'automatismo delle prestazioni previdenziali e assistenziali (sancito dall’articolo 2116 del codice civile[12]), in forza del quale le prestazioni spettano al lavoratore anche quando i contributi dovuti non siano stati effettivamente versati, costituisce la regola fondamentale (che, secondo consolidata  giurisprudenza, trova applicazione a prescindere da qualsiasi richiamo esplicito, essendo semmai necessaria una disposizione esplicita per derogare al principio stesso[13]). Tuttavia, tale  principio opererebbe per i lavoratori subordinati, ma non anche per i lavoratori iscritti alla Gestione separata INPS e per gli autonomi.

Con sentenza n. 941 del 12 dicembre 2013 il Tribunale di Bergamo ha però argomentato che se è vero che la non applicabilità del principio di automatismo delle prestazioni abbia una sua coerenza nei casi di rapporti di lavoro autonomo, come ad esempio per i professionisti (in questi casi, infatti, l'obbligo di pagamento della contribuzione previdenziale grava sui lavoratori stessi assicurati e sui quali ovviamente non può che ricadere la conseguenza dell'eventuale omesso versamento), nel caso di contratti di collaborazione coordinata e continuativa o di collaborazione a progetto, in cui tutta una serie di elementi (i contributi versati da parte del committente anche per la quota a carico del lavoratore, l’assimilazione ai fini fiscali dei redditi da collaborazione a quelli da lavoro dipendente e la mancanza di una modalità per costringere il committente a versare i contributi) prefigurano un sistema speculare a quello previsto per i lavoratori dipendenti, "la mancata applicazione del principio dell'automaticità delle prestazioni potrebbe costituire una violazione dell'art. 3 della Costituzione, trattando situazioni che allo stesso modo meritano tutela, in modo irragionevolmente diverso”. Sulla base di ciò, è stato ritenuto applicabile anche ai collaboratori coordinati e continuativi e a quelli a progetto iscritti alla gestione separata dell’INPS l’accreditamento automatico dei contributi previdenziali non versati dal committente.

 

·         l'introduzione di limiti massimi relativi alla contribuzione figurativa[14] (numero 4)).

·        l'eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una ulteriore prestazione, eventualmente priva di copertura pensionistica figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione[15] proposte dai servizi competenti (numero 5)).

 

Di seguito si riassumono i contenuti della normativa vigente in materia di ASpI, con particolare riferimento ai profili richiamati nei principi e criteri direttivi della delega.

 

L’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI): quadro normativo

 

La L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, nell’ambito di una generale revisione degli strumenti di tutela del reddito, ha istituito un unico ammortizzatore sociale (ASpI - Assicurazione Sociale per l'Impiego) in cui (a decorrere dal 1° gennaio 2013 e in relazione ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla medesima data[16]) sono confluite l'indennità di mobilità e l'indennità di disoccupazione (indennità di disoccupazione ordinaria e con requisiti ridotti, indennità di disoccupazione speciale edile). Con tale strumento è stato ampliato sia l’ambito di applicazione soggettivo (beneficiari), sia quello oggettivo (trattamenti).

Possono accedere all'ASpI tutti i lavoratori dipendenti, compresi gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa con un rapporto di lavoro in forma subordinata, i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni (mentre ne sono esclusi quelli con rapporto a tempo indeterminato), nonché i soci lavoratori delle cooperative, il personale artistico, teatrale e cinematografico con rapporto di lavoro subordinato.

Dal campo di applicazione dell’ASpI sono altresì esclusi gli operai agricoli (a tempo indeterminato e determinato), e i lavoratori extracomunitari con permesso di lavoro stagionale.

Per usufruire dell’ASpI è necessario essere assicurati presso l'INPS da almeno 2 anni ed aver versato almeno un anno di contributi nei 2 anni precedenti all'evento che ha determinato la disoccupazione.

L'indennità mensile è rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi 2 anni (comprensiva degli elementi continuativi e non nonché delle mensilità aggiuntive, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33), è pari fino ad un limite massimo pari, nel 2014, a euro 1.192,98. In caso di importo superiore, l'indennità è pari al 75% di 1.192.98 euro incrementata di una somma pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo. L'indennità mensile non può in ogni caso superare l'importo mensile massimo di CIGS.

La durata massima del trattamento, a decorrere dal 1° gennaio 2016  per gli eventi che si verifichino da tale data è di 12 mesi, per i lavoratori di età inferiore a 55 anni (detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti negli ultimi 12 mesi, anche in relazione ai trattamenti brevi); 18 mesi, per i lavoratori di età pari o superiore ai 55 anni (nei limiti delle settimane di contribuzione negli ultimi 2 anni, detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti negli ultimi 18 mesi).

La stessa L. 92/2012 ha inoltre introdotto, sempre dal 2013, un ulteriore strumento di tutela del reddito, la cd. mini-ASpI, la quale sostituisce l’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola con requisiti ridotti. Di importo pari a quello dell’ASpI, viene corrisposta per un periodo pari alla metà delle settimane di contribuzione nell’ultimo anno. Per aver accesso alla mini-ASpI occorre aver versato contributi da attività lavorativa per almeno 13 settimane nei 12 mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. Hanno diritto alla mini-ASpI i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente l’occupazione dal 1° gennaio 2013, compresi gli apprendisti; i soci lavoratori di cooperative con rapporto di lavoro subordinato; il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato; i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni e i lavoratori a tempo determinato della scuola.

I commi da 25 a 39 definiscono le modalità di contribuzione per il finanziamento del nuovo sistema di indennità (ASPI e mini-ASPI), in sostituzione delle aliquote oggi a carico dei datori di lavoro per gli strumenti di sostegno del reddito che verranno sostituiti a regime. In particolare, si dispone l’applicazione di un’aliquota (pari all’1,31%) per i lavoratori a tempo indeterminato, nonché di un contributo addizionale (a carico del datore di lavoro), per ogni rapporto di lavoro subordinato diverso da quello a tempo indeterminato, pari all'1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, fatte salve specifiche eccezioni. Inoltre, si prevede un ulteriore contributo, analogo al contributo stabilito per l’indennità di mobilità, a carico del datore di lavoro, in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni, intervenuti a decorrere dal 1º gennaio 2013.

Più specificamente, il comma 31 prevede un contributo di licenziamento, erogabile in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sono inclusi anche i rapporti di apprendistato) appunto per cause diverse dalle dimissioni, intervenuti a decorrere dal 1º gennaio 2013, a carico del datore di lavoro. Il contributo è pari al 41% del trattamento mensile iniziale dell’ASPI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni (sono quindi compresi i periodi di lavoro a termine). Nel computo dell’anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo determinato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione del contributo.

 

La disposizione prevede, infine, l'eliminazione dello stato di disoccupazione[17] come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale (numero 6)).

 

Con riferimento a tale ultimo criterio di delega si osserva che nella normativa vigente lo stato di disoccupazione non risulta essere un criterio per l’accesso a servizi di carattere assistenziale (accesso che è modulato unicamente sulla base dell’ISEE), con l’unica eccezione della esenzione dal pagamento del ticket sulle prestazioni mediche[18].

 

Le lettere c) e d) definiscono principi relativi al c.d. obbligo di attivazione dei beneficiari di strumenti di sostegno al reddito[19], prevedendo:

 

·      l’individuazione di meccanismi che garantiscano un coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario dei trattamenti al fine di favorirne l’attività a beneficio delle comunità locali[20], tenuto conto della finalità di incentivare la ricerca attiva di una nuova occupazione secondo percorsi personalizzati, senza determinare aspettative di accesso agevolato alle pubbliche amministrazioni (lettera c)).

·      l'adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, in funzione della migliore effettività, secondo criteri oggettivi ed uniformi, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito che non si renda disponibile ad una nuova occupazione, a programmi di formazione o alle attività a beneficio di comunità locali (lettera d)).

 

 


 

Obbligo di attivazione dei beneficiari: la normativa vigente

 

L’articolo 4 del D.Lgs. 181/2000 pone a carico dell’interessato un obbligo di attivazione, in assenza del quale viene meno lo stato di disoccupazione e, conseguentemente, il diritto ad usufruire di misure di politica attiva. Il suddetto obbligo si sostanzia nel divieto di rifiutare, senza giustificato motivo, una congrua offerta di lavoro (a tempo pieno ed indeterminato o a tempo determinato o di lavoro temporaneo), definita con riferimento a bacini territoriali, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici stabiliti dalle regioni.

Successivamente, l’obbligo di attivazione è stato ripreso e specificato (in vario modo) da numerose disposizioni normative in materia di strumenti di sostegno al reddito (v., in particolare, l’articolo 1-quinquies del DL 249/2004 e l’articolo 19, comma 10, del DL 185/2008).

Da ultimo, l’articolo 4, commi 40-45, della L. 92/2012 (di riforma del mercato del lavoro, c.d. legge Fornero) è intervenuto nuovamente sulla materia stabilendo, in via generale, criteri più puntuali per la determinazione dei casi in cui il lavoratore decade dai trattamenti di sostegno al reddito, la cui corresponsione è collegata allo stato di disoccupazione (o di inoccupazione). La decadenza dal beneficio si verifica quando il soggetto:

rifiuti di partecipare senza giustificato motivo ad una iniziativa di politica attiva o di attivazione proposta dai servizi per l’impiego, o non vi partecipi regolarmente;

non accetti una offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo superiore almeno del 20% rispetto all'importo lordo dell'indennità cui ha diritto.

La decadenza dai benefici (con perdita dello stato di disoccupazione) interviene quando le attività lavorative, di formazione o di riqualificazione proposte si svolgono in un luogo che non dista più di 50 chilometri dalla residenza del beneficiario o comunque che è raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici.

I centri per l’impiego hanno obbligo di comunicare tempestivamente gli eventi all’INPS, che provvede ad emettere il provvedimento di decadenza, recuperando le somme eventualmente erogate per periodi di non spettanza dei trattamenti.

Merita tuttavia evidenziare che la normativa in questione è rimasta di fatto inattuata, attese le difficoltà amministrative (riconducibili soprattutto alla dispersione delle competenze in materia di politiche attive e passive) connesse alla sua applicazione[21].

 


 

Commi 3-4
(Delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive)

 

I commi 3 e 4 recano una delega al Governo in materia di servizi per l'impiego e di politiche attive per il lavoro[22].

 

Il comma 3 indica le finalità della delega, intesa, in generale, a garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva per il lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative.

La delega va esercitata con uno o più decreti legislativi, da adottare entro 6 mesi, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano (in mancanza dell'intesa nel termine di 30 giorni, il Consiglio dei ministri provvede comunque con deliberazione motivata).

 

La disposizione prevede, poi, che la disciplina di delega ed i successivi decreti legislativi si applicano nei confronti delle Province autonome di Trento e di Bolzano nel rispetto dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige e delle relative norme di attuazione, tra le quali viene specificamente richiamata la novella di cui al D.Lgs. 21 settembre 1995, n. 430 (che attribuisce alle suddette Province autonome le funzioni amministrative in materia di servizi per l'impiego). Si ricorda che, in ogni caso, per tutte le regioni a statuto speciale, il comma 14 (alla cui scheda si rinvia), reca un'analoga norma di garanzia per le autonomie speciali con riferimento a tutte le deleghe contenute nel disegno di legge (prevedendo, altresì, ulteriori aspetti procedurali comuni).

 

Il comma 4 individua i principii ed i criteri direttivi per l'esercizio della delega, che possono essere così suddivisi:

·      riordino degli incentivi all’occupazione e all’imprenditorialità (lettere a) e b));

·      complessiva ridefinizione delle politiche attive (lettere m), n), q) e v));

·      istituzione di una Agenzia nazionale per l’occupazione (lettere c), d), e), h), i), l), m) e n));

·      accordi per la ricollocazione (lettera p));

·      revisione delle competenze istituzionali in materia di politiche attive (lettere f), t) e u));

·      semplificazioni procedurali in materia di politiche attive (lettere g), z), aa) e bb));

·      valorizzazione della bilateralità (lettera o)).

Per quanto concerne il riordino degli incentivi all’occupazione viene prevista la razionalizzazione degli incentivi all'assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l'analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione, e a criteri di valutazione e di verifica dell’efficacia e dell’impatto (lettera a)).

 

Gli incentivi alle assunzioni: quadro normativo e valutazioni di efficacia

 

In materia di incentivi alle assunzioni si ricorda, in via preliminare, che la L. 92/2012 (articolo 4, comma 12), al fine di garantirne una omogenea applicazione, ha definito una serie di principi generali per la loro erogazione, enucleando una serie di ipotesi nelle quali gli incentivi non spettano:

Gli incentivi non spettano:

·      se l’assunzione costituisce attuazione di un obbligo preesistente, stabilito da norme di legge o della contrattazione collettiva; gli incentivi sono esclusi anche nel caso in cui il lavoratore avente diritto all’assunzione viene utilizzato mediante contratto di somministrazione;

·      se l'assunzione viola il diritto di precedenza, stabilito dalla legge o dal contratto collettivo, alla riassunzione di un altro lavoratore licenziato da un rapporto a tempo indeterminato o cessato da un rapporto a termine; gli incentivi sono esclusi anche nel caso in cui, prima dell'utilizzo di un lavoratore mediante contratto di somministrazione, l'utilizzatore non abbia preventivamente offerto la riassunzione al lavoratore titolare di un diritto di precedenza per essere stato precedentemente licenziato da un rapporto a tempo indeterminato o cessato da un rapporto a termine;

·      se il datore di lavoro o l’utilizzatore con contratto di somministrazione abbiano in atto sospensioni dal lavoro connesse ad una crisi o riorganizzazione aziendale, salvi i casi in cui l’assunzione, la trasformazione o la somministrazione siano finalizzate all’acquisizione di professionalità sostanzialmente diverse da quelle dei lavoratori sospesi oppure sia effettuata presso una diversa unità produttiva;

·      con riferimento a quei lavoratori che siano stati licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di un datore di lavoro che, al momento del licenziamento, presenti assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore di lavoro che assume ovvero risulti con quest’ultimo in rapporto di collegamento o controllo; in caso di somministrazione tale condizione si applica anche all’utilizzatore.

 

Un quadro dei principali incentivi alle assunzioni previsti dalla normativa vigente è offerto dalla tabella sottostante.

 

 

 

INCENTIVI ALLE ASSUNZIONI

 

Incentivo

Fonte normativa

Credito d’imposta per lavoratori svantaggiati (ossia privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi o di un diploma di scuola media superiore o professionale) assunti a tempo indeterminato nel mezzogiorno nei 12 mesi successivi all’entrata in vigore del D.L. 40/2011 (in caso di assunzione a part-time il credito spetta proporzionalmente alle ore prestate) in misura del 50% dei costi salariali sostenuti nei 12 mesi successivi ad assunzione per lavoratori svantaggiati e 24 mesi per lavoratori molto svantaggiati

D.L. 70/2011, articolo 2

Credito d’imposta per assunzioni a tempo indeterminato di soggetti con profili altamente qualificati, pari al 35 per cento del costo aziendale sostenuto per l’assunzione (con limite massimo di 200.000 euro)

D.L. 83/2012, articolo 24

Accesso a prestiti agevolati (di durata massima pari a 6 anni) per assunzioni di soggetti under 35

D.L. 83/2012

Incentivo sperimentale per assunzioni a tempo indeterminato (entro il 30 giugno 2015) di lavoratori di età compresa tra i 18 ed i 29 anni, che rientrino nella categoria dei lavoratori svantaggiati

D.L. 76/2013, articolo 1

Credito d’imposta, per le imprese che investono in attività di ricerca e sviluppo, pari al 50 per cento delle spese incrementali sostenute dalle imprese rispetto all’anno precedente (con agevolazione massima di 2,5 milioni di euro per impresa e spesa minima di 50.000 € in ricerca e sviluppo per poter accedere all’agevolazione), con ammissione, ai fini della determinazione del credito d'imposta, delle spese relative al personale impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo

L. 145/2013, articolo 3

Riduzione del 10 per cento delle aliquote ordinarie IRAP per tutti i settori di attività economica a decorrere dal periodo d'imposta 2014

D.L. 66/2014, articolo 2

 

Applicazione a regime delle deduzioni IRAP per l’incremento di base occupazionale

L. 147/2013, articolo 1, comma 132

Deducibilità ai fini IRAP per determinate categorie di lavoratori (in particolare per agevolare l’assunzione di lavoratrici e giovani sotto i 35 anni)

D.L. 201/2011, articolo 2; L. 228/2012, articolo 1, c. 483-485

Credito di imposta alle imprese che assumono, per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni, lavoratori detenuti o internati, anche ammessi al lavoro all'esterno ovvero semiliberi provenienti dalla detenzione, o che svolgono effettivamente attività formative nei loro confronti. Tale credito di imposta è determinato, per ogni lavoratore assunto, nella misura massima di 700 euro mensili nel caso di lavoratori detenuti o internati anche ammessi al lavoro esterno, ovvero di 350 euro nel caso di lavoratori semiliberi

Articolo 3 della legge n. 193 del 2000 (modificato ed integrato dall'articolo 3-bis del D.L. n. 78 del 2013 e dall'articolo 7, comma 8, del D.L. n. 101 del 2013)

Sgravio contributivo per i datori di lavoro (comprese le società cooperative che assumono soci lavoratori con rapporto di subordinazione) che assumono lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi a tempo indeterminato (anche part-time) – sgravio pari al 50% per 36 mesi per le imprese diverse da quelle artigiane, sgravio pari al 100% per 36 mesi per le imprese artigiane e quelle operanti nel Mezzogiorno

L. 407/1990, articolo 8, comma 9

Sgravio contributivo (fino al 31 dicembre 2016) per i datori di lavoro (comprese le società cooperative che assumono soci lavoratori con rapporto di subordinazione) che assumono lavoratori in mobilità con contratti a tempo determinato (anche part-time) consistente nell’applicazione dell’aliquota contributiva per gli apprendisti (10%) per un periodo di 12 mesi. In caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato, il beneficio contributivo spetta per ulteriori 12 mesi

L. 223/1991, articolo 8, comma 2

Sgravio contributivo (valido fino al 31 dicembre 2016) per i datori di lavoro (comprese le società cooperative che assumono soci lavoratori con rapporto di subordinazione) che assumono lavoratori in mobilità con contratti a tempo indeterminato consistente nell’applicazione dell’aliquota contributiva per gli apprendisti (10%) per un periodo di 18 mesi

L. 223/1991, articolo 25, comma 9

Sgravio contributivo pari al 100% per l'assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute dalle cooperative sociali, relativamente alla retribuzione corrisposta alle persone svantaggiate, per l’assunzione di persone svantaggiate in qualità di soci lavoratori o dipendenti. Nel caso di assunzione di detenuti le aliquote contributive sono ridotte nella misura percentuale individuata ogni due anni con apposito decreto interministeriale e trovano applicazione per un periodo successivo alla cessazione dello stato di detenzione di 18 mesi per i detenuti ed internati che abbiano beneficiato di misure alternative alla detenzione o del lavoro all'esterno e di 24 mesi per i detenuti ed internati che non ne abbiano beneficiato (il D.M. 9 novembre 2001 ha ridotto le aliquote nella misura dell'80%)

L. 381/1991, articolo 4, commi 1, 3 e 3-bis; L. 448/1998, articolo 51

Sgravio contributivo a carico del datore di lavoro pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per 12 mesi per assunzione a tempo pieno e indeterminato di lavoratori che abbiano fruito della CIGS per almeno 3 mesi, anche non continuativi, e dipendenti di aziende beneficiarie di CIGS da almeno 6 mesi. Dall’agevolazione è esclusa la quota a carico del lavoratore che è dovuta per intero come per la generalità dei dipendenti

D.L. 148/1993, articolo 4, comma 3; L. 223/1991, articolo 8, comma 4

 

Sgravio contributivo sulla contribuzione complessiva (comprensiva delle quote del datore di lavoro e del dirigente) ridotta al 50% per una durata non superiore a 12 mesi per i datori di lavoro (imprese che occupano meno di 250 dipendenti) e consorzi tra di esse che assumono con contratto di lavoro a termine dirigenti disoccupati

L. 266/1997, articolo 20

Sgravio contributivo (50% dei contributi a carico del datore di lavoro e dei premi assicurativi INAIL, per un massimo di 12 mesi) per il datore di lavoro (con meno di 20 dipendenti) che assume a tempo determinato per sostituzione di lavoratrice in astensione obbligatoria o facoltativa per maternità

D.Lgs. 151/2001, articolo 4, commi 3, 4, 5

Sgravio contributivo per le agenzie di somministrazione che assumono (con contratto di durata tra 9 e 12 mesi) lavoratori svantaggiati (ex Regolamento CE 2008) che stiano usufruendo di una indennità di disoccupazione, mobilità, ASU o altri sostegni al reddito (consistente nella detrazione dai contributi dovuti l’ammontare dei contributi figurativi)

D.Lgs. 176/2003, articolo 13

Sgravio contributivo del 100% per i primi 3 anni per i datori di lavoro (fino a 9 dipendenti) che assumono (con contratti stipulati nel quadriennio 2012-2016) apprendisti (contribuzione al 10% per gli anni successivi al terzo. In caso di trasformazione del rapporto di lavoro dopo il periodo di apprendistato, l’agevolazione contributiva del 10% viene riconosciuta per i 12 mesi successivi)

D.Lgs. 167/2011; L.183/2011, articolo 22, comma 1

Sgravio contributivo per i datori di lavoro (comprese le società cooperative che assumono soci lavoratori con rapporto di subordinazione) che assumono lavoratori in mobilità con contratti di apprendistato, consistente nell’applicazione dell’aliquota contributiva per gli apprendisti (10%) per un periodo di 18 mesi

D.Lgs. 167/2011, articolo 7, comma 4

Sgravio contributivo (per assunzioni a tempo determinato 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per un massimo di 12 mesi; per assunzioni a tempo indeterminato 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per un massimo di 18 mesi) per assunzione di donne prive di impiego da almeno 24 mesi (6 mesi se residenti in regioni svantaggiate). In caso di trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, la riduzione dei contributi si prolunga fino al 18° mese dalla data di assunzione

L. 92/2012, articolo 4, commi 8-12

Sgravio contributivo (per assunzioni a tempo determinato 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per un massimo di 12 mesi; per assunzioni a tempo indeterminato 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per un massimo di 18 mesi) per assunzione lavoratori di età pari o superiore a 50 anni disoccupati da oltre 12 mesi

L. 92/2012, articolo 4, commi 8-12

Incentivo a favore dei datori di lavoro imprenditori agricoli per assunzioni a tempo indeterminato o con contratto di lavoro a tempo determinato di durata almeno triennale, redatto in forma scritta e che garantisca al lavoratore un periodo di occupazione minima di 102 giornate all'anno (dal 1° luglio 2014 al 30 giugno 2015)  di lavoratori di età compresa tra i 18 ed i 35 anni, che rientrino nella categoria dei lavoratori svantaggiati.

D.L. 91/2014, articolo 5

 

Per quanto concerne l’efficacia degli incentivi all’occupazione, si segnala il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva della XI Commissione della Camera dei deputati “sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile”. Nel documento (approvato il 16 ottobre 2013), con riferimento agli “incentivi finalizzati a nuove assunzioni o alla stabilizzazione di lavoratori flessibili […] si osserva come il legislatore sia spesso vittima di una presunzione di efficacia, che porta a ricondurre a un incentivo tutti gli effetti che si osservano successivamente alla sua introduzione. Si tratta di una prospettiva fuorviante, che induce sistematicamente a sovrastimare gli effetti degli interventi, conducendo spesso a sprechi di risorse pubbliche. Non tutto quello che si osserva a seguito di un intervento normativo (in termini di assunzioni e stabilizzazioni), infatti, è ad esso legato da un nesso di causalità. Un'ormai consolidata letteratura, fondata sull'analisi cosiddetta «controfattuale» (tesa cioè ad indagare cosa sarebbe comunque accaduto in assenza dell'intervento), mostra che gli effetti netti degli incentivi per l'occupazione sono spesso assai inferiori a quanto comunemente si ritiene. A tali conclusioni sono giunti, ad esempio, importanti studi aventi ad oggetto il credito d'imposta per le assunzioni a tempo indeterminato di cui all'articolo 7 della legge n. 388 del 2000 (cosiddetto «bonus Sud»). Un analogo intervento della regione Piemonte del 2007 (voucher di 5.000 euro per la stabilizzazione di lavoratori precari) ha mostrato scarsa efficacia (l'addizionalità è risultata pari al 10 per cento, con il risultato che ogni assunzione stabile aggiuntiva è costata, in realtà, 50.000 euro). Anche con riguardo all'intervento disposto dall'articolo 24, comma 27, del decreto-legge n. 214 del 2011 (12.000 euro per la stabilizzazione di rapporti di lavoro flessibile), le analisi giungono a conclusioni analoghe, in quanto circa i due terzi delle risorse impegnate sono andate a datori di lavoro che, secondo le stime, avrebbero comunque proceduto ad assunzioni o stabilizzazioni (il costo reale per ogni nuova assunzione/stabilizzazione è stato quindi pari, in realtà, a 30.000/40.000 euro)”[23].

 

Per quanto concerne il riordino degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità, viene prevista la definizione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome (lettera b)).

 

Agevolazioni per autoimpiego e autoimprenditorialità

 

Per quanto riguarda l’autoimpiego, le disposizioni di cui al D.Lgs 185/2000 (Tit. II), sono volte a favorire la diffusione di forme di autoimpiego nelle aree depresse e svantaggiate del Paese, attraverso strumenti di promozione del lavoro autonomo e dell'autoimprenditorialità, consistenti nel finanziamento e nell’assistenza tecnica da parte di INVITALIA s.p.a. di progetti relativi all’avvio di attività di lavoro autonomo e alla creazione di imprese di piccole dimensioni (imprese in franchising e microimprese) poste in essere da persone prive di occupazione (inoccupati) o disoccupati nei sei mesi precedenti la presentazione della domanda. In base alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 185/2000, le misure a favore dell'autoimpiego hanno l'obiettivo principale di favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di soggetti privi di occupazione, nonché di qualificare la professionalità dei soggetti beneficiari e promuovere la cultura d'impresa. La non occupazione è infatti l’unico requisito soggettivo richiesto per l’attivazione delle misure agevolative, non essendo previsto alcun limite massimo circa l’età dei soggetti interessati all’avvio di lavoro autonomo o alla creazione di società per le iniziative in franchising e le microimprese. Il requisito territoriale è l’ulteriore condizione necessaria per la concessione delle agevolazioni; in particolare, è richiesto che i soggetti interessati devono risultare residenti nei comuni ricadenti nei territori ammissibili alla data del 1° gennaio 2000 ovvero da almeno 6 mesi all’atto della presentazione della domanda.

La disciplina delle misure in favore dell’autoimpiego ha ricevuto attuazione con l’emanazione del D.M. Tesoro 28 maggio 2001, n. 295.

Possono beneficiare delle agevolazioni dell’autoimpiego:

a) i soggetti singoli, nel caso di iniziative di lavoro autonomo. In tal caso, i destinatari devono essere maggiorenni alla data di presentazione della domanda e privi di occupazione nei 6 mesi antecedenti la data di presentazione della richiesta di ammissione alle agevolazioni.

b) le imprese di piccola dimensione (c.d. microimprese)

c)  le iniziative di autoimpiego in forma di franchising 

I benefici concessi consistono in:

a) contributi a fondo perduto e mutui agevolati per gli investimenti, secondo i limiti fissati dall'Unione europea;

b) contributi a fondo perduto in conto gestione, secondo i limiti fissati dall'Unione europea, limitatamente al primo anno di attività;

c) assistenza tecnica in fase di realizzazione degli investimenti e di avvio delle iniziative, che può essere concessa per il periodo massimo di un anno.

I benefici finanziari suddetti sono concessi entro il limite del de minimis come individuato dalla normativa comunitaria.

 

Le agevolazioni dell’autoimprenditorialità sono regolate dal decreto legislativo 185/2000 (Titolo I), che stabilisce i requisiti per richiedere gli incentivi e dal regolamento di attuazione (DM 16 luglio 2004) che rende operativo il suddetto decreto e dalla legge 80/2005 (decreto Competitività) che ha introdotto alcune novità.

Con Decreto Legge n.145/2013, sono state modificate le norme che regolano la concessione delle agevolazioni. In particolare l'articolo 2, comma 1, riforma la disciplina degli incentivi all'autoimprenditorialità con misure volte a sostenere la creazione e lo sviluppo di piccole imprese possedute in prevalenza da giovani e da donne. Gli incentivi sono applicabili in tutto il territorio nazionale e non più esclusivamente nelle aree svantaggiate del Paese. I benefici consistono nella concessione di mutui agevolati per gli investimenti, a tasso zero, per una durata massima di otto anni e per un importo non superiore al 75 per cento della spesa ammissibile ai sensi della normativa comunitaria. I soggetti che possono accedere ai benefici devono possedere una serie di requisiti. Il primo è quello della novità dell'impresa: deve trattarsi di imprese costituite da non più di sei mesi alla data di presentazione della domanda di agevolazione. Il secondo requisito attiene alla dimensione dell'impresa: deve trattarsi di imprese di micro e piccola dimensione secondo la classificazione comunitaria. Restano fermi i requisiti della costituzione in forma societaria e quello per cui la compagine societaria sia costituita, per oltre la metà numerica di soci e quote, da soggetti in età compresa tra 18 e 35 anni. Tra gli elementi di novità rispetto alla disciplina previgente vi è l'estensione dei benefici all'imprenditoria femminile. Tra i beneficiari delle agevolazioni invece non sono più comprese le cooperative sociali. Sono finanziabili le iniziative che prevedono investimenti non superiori a 1.500.000 euro relativi alla produzione di beni nei settori dell'industria, dell'artigianato, della trasformazione dei prodotti agricoli ovvero alla fornitura di servizi alle imprese, nonché iniziative relative ad ulteriori settori individuati dal decreto di attuazione. La concessione delle suddette agevolazioni, è subordinata all’emanazione del regolamento di attuazione, da parte del Ministero dello Sviluppo Economico, che indicherà anche le modalità di presentazione della domanda di ammissione alle agevolazioni.

 

Per quanto attiene, in linea generale, alla ridefinizione delle politiche attive, vengono stabiliti i seguenti principi e criteri direttivi:

 

·      rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi (lettera m));

·      valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d'incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevedendo, a tal fine, la definizione dei criteri per l'accreditamento e l'autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l'impiego (lettera n));

·      introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l'utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle buone pratiche realizzate a livello regionale (lettera q))[24];

·         attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso dal mercato del lavoro o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati, anche mediante l'adozione di strumenti di segmentazione dell'utenza basati sull'osservazione statistica[25] (lettera v)).

 

 

 

Le politiche attive: quadro normativo generale[26]

 

Le politiche attive del lavoro rappresentano il complesso di misure volte a favorire e promuovere l’inserimento del lavoratore nel tessuto produttivo.

Titolari di competenze in materia sono in primo luogo i Centri per l’impiego, che si rivolgono a lavoratori e datori di lavoro con lo scopo di favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro e l’inserimento nel mercato del lavoro.

I Centri per l’impiego operano a livello provinciale, nel quadro dell’attività di programmazione definita dalle Regioni.

La legge (decreto legislativo n.181/2000, come modificato dalla legge n.92/2012) fissa i livelli minimi delle prestazioni che devono essere assicurati dai Centri per l'impiego nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali per i quali lo stato di disoccupazione o di inoccupazione costituisca requisito. In particolare si prevede:

·        un colloquio di orientamento entro i tre mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione;

·        azioni di orientamento collettive fra i tre e i sei mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione;

·        una formazione della durata complessiva di almeno due settimane tra i sei e i dodici mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione;

·        una proposta di adesione ad iniziative di inserimento lavorativo entro il termine del periodo del trattamento di sostegno del reddito.

A partire dal decreto legislativo n.276/2003 (adottato in attuazione della legge delega 30/2003 - cd. legge Biagi), il sistema del collocamento è stato liberalizzato, consentendo non solo a soggetti pubblici, ma anche a soggetti privati accreditati (Agenzie per il lavoro) in possesso dei requisiti legislativamente previsti. Più precisamente, la tipologia delle agenzie per il lavoro è diversa (così come anche i requisiti richiesti per ottenere l’autorizzazione) a seconda del tipo di attività che svolgono:  attività di somministrazione di lavoro; attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro; attività di ricerca e selezione del personale; attività di supporto alla ricollocazione professionale. L’autorizzazione all’esercizio delle suddette attività viene rilasciata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in presenza di determinati requisiti legislativamente previsti, che possono essere generali, validi cioè per tutte le tipologie delle agenzie per il lavoro, o aggiuntivi, ossia relativi alla specifica attività svolta.

La platea dei soggetti operanti nel mercato del lavoro è stata ulteriormente ampliata dall’articolo 29, comma 1, del D.L. 98/2011, che ha autorizzato altri soggetti allo svolgimento dell’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro. Questi sono:

·      gli istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali e paritari, le università, pubbliche e private, e i consorzi universitari, a condizione che rendano pubblici e gratuitamente accessibili sui relativi siti istituzionali i curricula dei propri studenti all'ultimo anno di corso e fino ad almeno dodici mesi successivi alla data del conseguimento del titolo di studio;

·      i comuni, singoli o associati nelle forme delle unioni di comuni e delle comunità montane, e le camere di commercio;

·      le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale anche per il tramite delle associazioni territoriali e delle società di servizi controllate;

·      i patronati, gli enti bilaterali e le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l'assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la progettazione e l'erogazione di percorsi formativi e di alternanza, la tutela della disabilità;

·      i gestori di siti internet a condizione che svolgano la predetta attività senza finalità di lucro e che rendano pubblici sul sito medesimo i dati identificativi del legale rappresentante;

·      l'ordine nazionale dei consulenti del lavoro, che può chiedere l'iscrizione all'albo istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali delle agenzie per il lavoro[27] di una apposita fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell'ambito del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. L’iscrizione è subordinata al possesso di determinati requisiti[28] (disponibilità di uffici in locali idonei e di adeguate competenze professionali; assenza di condanne penali, anche non definitive, per gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti muniti di rappresentanza e i soci accomandatari; nel caso di soggetti polifunzionali, presenza di distinte divisioni operative, gestite con strumenti di contabilità analitica; l’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro; diffusione dei dati relativi al lavoratore nel rispetto delle norme di legge a tutela della privacy).

 

Tra i principali interventi legislativi nella attuale legislatura si ricorda, in primo luogo, l’articolo 8 del D.L. 76/2013, che ha istituito, nell'ambito delle strutture del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la Banca dati delle politiche attive e passive, al fine di razionalizzare gli interventi di politica attiva di tutti gli organismi centrali e territoriali coinvolti, nonché di garantire l’attivazione del programma di Garanzia per i Giovani. La Banca dati ha il compito di raccogliere le informazioni concernenti i soggetti da collocare nel mercato del lavoro, i servizi erogati per una loro migliore collocazione nel mercato stesso e le opportunità di impiego.

Si ricorda, inoltre, la Legge di stabilità 2014 (L. 147/2013), che all’articolo 1, c. 215, ha istituito, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per le politiche attive del lavoro (con dotazione pari a 15 milioni di euro per il 2014, e 20 milioni di euro annui per il biennio 2015-2016), per la realizzazione di iniziative, anche sperimentali, volte a potenziare le politiche attive del lavoro, tra le quali la sperimentazione regionale del contratto di ricollocazione[29].

 

Per quanto concerne, infine, i documenti all’esame delle istituzioni dell’Unione Europea, si ricorda che con riferimento all’attività di intermediazione di manodopera finalizzata al collocamento dei lavoratori, l’Ue annette grande importanza a riforme che permettano una più ampia circolazione dei lavoratori all’interno dell’UE e spinge per un miglioramento dei servizi di intermediazione, soprattutto attraverso la messa in comune delle buone prassi. A tale proposito, a giugno 2014 è entrata in vigore la decisione n. 573/2014/UE, su una cooperazione rafforzata dei servizi per l’impiego (SPI). Lo scopo è quello di formalizzare la rete di collaborazione attualmente esistente e funzionante su base volontaria.

Agli SPI è riconosciuto un ruolo di primo piano anche nella proposta di riforma di EURES, la piattaforma informatica comune che ha la finalità di permettere l’incontro, da un lato, delle offerte di lavoro e, dall’altro, delle domande di lavoro e dei curricula (CV). La riforma è contenuta nella proposta di regolamento (COM(2014)6), presentata lo scorso gennaio dalla Commissione europea e discussa in Consiglio lo scorso 19 giugno.

Si segnala che la Commissione XI della Camera, dopo avere esaminato la proposta in esame, ha approvato un documento finale, nella seduta del 7 agosto 2014, in cui esprime ampia condivisione sull’impianto e sulle finalità del regolamento.

 

 

La spesa per le politiche del lavoro in Italia e nel raffronto europeo

 

Dall’analisi dei dati elaborati da Eurostat risulta che la spesa dell’Italia per le politiche del lavoro è stata pari all’1,99% del PIL (circa 31 miliardi di euro) nel 2012 (in crescita rispetto all’1,7% del 2011), di poco superiore alla media dei 28 Paesi dell’Unione europea (1,89%) e alla Germania (1,67%).

Ciò che differenzia notevolmente l’Italia dagli altri Paesi europei (come si può vedere dalla tabella e dal grafico sottostanti), è la ripartizione della spesa per le politiche del lavoro tra le sue diverse componenti (servizi per il lavoro, politiche attive e politiche passive), con una spesa per politiche attive assai ridotta al confronto di quella per politiche passive (sostegni al reddito e prepensionamenti). La spesa sostenuta nel 2011 per i servizi per il lavoro[30] è pari solo all’1,8% del totale degli stanziamenti per le politiche del lavoro nel loro complesso (pari allo 0,03% del PIL nel 2011, sceso ulteriormente allo 0,025 nel 2012), nettamente dell’UE a 28 (11,2%) e della Germania (19,2%).

 

 

Spese per le politiche del lavoro (LMP) per tipologia di intervento in alcuni Paesi

UE – Anno 2011 (milioni di euro e % PIL)

 

Paese

Servizi per il lavoro

Politiche attive

Sostegni al reddito e prepensionamenti

Totale

Servizi  per il lavoro

Politiche attive

Sostegni al reddito e prepensionamenti

Totale

Milioni di euro

% PIL

EU-28

26.894

59.943

153.643

240.480

0,21

0,47

1,21

1,89

Germania

9.125

11.635

26.683

47.444

0,35

0,45

1,02

1,82

Spagna

1.110

7.404

30.140

38.654

0,11

0,71

2,88

3,69

Francia

5.129

13.467

28.054

46.650

0,26

0,67

1,40

2,33

Italia

489

4.920

21.511

26.920

0,03

0,31

1,36

1,71

Olanda

2.234

4.343

9.832

16.409

0,37

0,73

1,64

2,74

Regno Unito*

5.750

1.358

5.307

12.416

0,33

0,08

0,31

0,72

Fonte: Eurostat – Labour Market Policy (LMP) Public expenditure on labour market policies

(*Dati 2010)

 


 

Spese per tipologia di intervento in alcuni Paesi UE in % sul totale degli stanziamenti per le politiche del lavoro (LMP) – Anno 2011*

 

 Fonte: Eurostat – Labour Market Policy (LMP) Public expenditure on labour market policies

*Regno Unito: dati 2010

 

Per quanto concerne, nell’ambito del riordino delle politiche attive, la creazione di una Agenzia nazionale per l’occupazione, vengono stabiliti i seguenti principi e criteri direttivi:

 

·        istituzione, ai sensi dell'articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di un’Agenzia nazionale per l'occupazione (di seguito denominata «Agenzia»), partecipata da Stato, regioni e province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente e mediante quanto previsto alla lettera f) (lettera c));

·        coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell'azione dell'Agenzia (lettera d));

·        attribuzione all'Agenzia delle competenze gestionali in materia di servizi per l'impiego, politiche attive e ASpI (lettera e));

·        possibilità di far confluire, in via prioritaria, nei ruoli delle amministrazioni vigilanti o dell'Agenzia il personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati in attuazione della lettera f) nonché di altre amministrazioni (lettera h));

·        individuazione del comparto contrattuale del personale dell'Agenzia con modalità tali da garantire l'invarianza di oneri per la finanza pubblica (lettera i));

·        determinazione della dotazione organica di fatto dell'Agenzia attraverso la corrispondente riduzione delle posizioni presenti nella pianta organica di fatto delle amministrazioni di provenienza del personale ricollocato presso l'Agenzia medesima (lettera l));

·        previsione di meccanismi di raccordo tra l'Agenzia e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sia a livello centrale che a livello territoriale (lettera r));

·        previsione di meccanismi di raccordo tra l'Agenzia e gli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all'autoimpiego e all'autoimprenditorialità (lettera s)).

 

 

Le Agenzie governative: quadro normativo

Il decreto legislativo 300/1999 di riforma dell’organizzazione del Governo ha istituito diverse agenzie (tra cui le agenzie fiscali) provvedendo a definire alcune norme generali di disciplina in materia (artt. 8-10).

Le agenzie svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, attività in precedenza esercitate da amministrazioni ed enti pubblici. Il ricorso all'agenzia si rende opportuno in presenza di funzioni che richiedano particolari professionalità, conoscenze specialistiche e specifiche modalità di organizzazione del lavoro.

Le agenzie operano in condizioni di autonomia, nei limiti stabiliti dalla legge: dispongono di un proprio statuto; sono sottoposte al controllo della Corte dei conti ed al potere di indirizzo e vigilanza di un ministro; hanno autonomia di bilancio ed agiscono sulla base di convenzioni stipulate con le amministrazioni.

Organo apicale di ciascuna agenzia è il direttore generale nominato con le stesse modalità del capo dipartimento di un Ministero. L’incarico di capo dipartimento è conferito con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali prestabilite, art. 19, D.Lgs. /1652001).

Le agenzie sono disciplinate da statuti adottati con regolamenti di delegificazione (ex art. 17, co. 2 della L. 400/1988) emanati su proposta del Presidente del Consiglio e del ministro competente, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

I regolamenti sono addottati nel rispetto di una serie dettagliata di principi e criteri direttivi. Lo statuto deve prevedere, oltre al direttore generale, un comitato direttivo che lo coadiuva, un collegio dei revisori e un organo di controllo della gestione, e deve definire compiti e attribuzioni di tali organi. Inoltre, esso definisce le forme dell’autonomia di bilancio e di autorganizzazione, nel rispetto dei principi di efficienza e efficacia dell’amministrazione.

Alla dotazione di personale delle agenzie si provvede in primo luogo attraverso l’inquadramento del personale trasferito dai ministeri e dagli enti pubblici ai quali erano attribuite in precedenza le competenze conferite alle agenzie.

In subordine si procede mediante le procedure di mobilità e, a regime, attraverso procedure concorsuali.

Dal punto di vista dello status giuridico, il personale delle agenzie ha un trattamento differenziato. Il personale delle Agenzie fiscali ha un comparto di contrattazione apposito, mentre il personale delle altre agenzie istituite dal D.Lgs. 300 rientra nel comparto del personale dei Ministeri, ad eccezione dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente che fa parte del Comparto del personale delle Istituzioni e degli Enti di ricerca e sperimentazione (CCNQ definizione comparti 2006 – 2009, 11 giugno 2007.

Le fonti di finanziamento delle autorità sono sostanzialmente di tre tipi:

·         risorse trasferite dalle amministrazioni precedentemente investite dei compiti trasferiti alle agenzie;

·         introiti derivanti dai contratti stipulati con le amministrazioni a vario titolo (consulenza, collaborazione ecc.);

·         finanziamenti annuali disposti nella legge di bilancio.

Le agenzie previste dal D.Lgs. 300/1999 sono le seguenti:

§  Agenzia Industrie Difesa (art. 22);

§  Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (artt. 38 e 39);

§  Agenzia dei trasporti terrestri e delle infrastrutture (art. 44);

§  Agenzia per la formazione e l’istruzione professionale (art. 88);

§  Agenzie fiscali (art. 57):

-      Agenzia delle entrate;

-      Agenzia delle dogane e dei monopoli;

-      Agenzia del demanio.

 

 

La Struttura di missione operante presso il Ministero del lavoro

Come detto[31], la programmazione e la gestione delle politiche attive avviene, essenzialmente, a livello regionale e locale.

Merita tuttavia ricordare che l’articolo 5 del D.L. 76/2013 ha istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali (in via sperimentale e fino al 31 dicembre 2015) “in attesa di un complessivo riordino delle competenze in materia di servizi per l’impiego”, una Struttura di missione[32] con compiti propositivi ed istruttori, anche al fine di assicurare attuazione alla c.d. "Garanzia giovani" (Youth Guarantee) e di favorire la ricollocazione nel tessuto produttivo dei soggetti beneficiari degli ammortizzatori sociali in deroga.

Le attività della Struttura di missione sono rivolte in particolare:

·      interagire con i diversi livelli di governo preposti all'attuazione delle politiche occupazionali;

·      definire le linee-guida nazionali per la programmazione degli interventi di politica attiva;

·      valutare le attività poste in essere dai soggetti coinvolti;

·      promuovere ogni iniziativa diretta ad integrare i diversi sistemi informativi, definendo le linee-guida per la costituzione della banca dati delle politiche attive e passive (istituita dall’articolo 8 dello stesso D.L. 76/2013);

·      predisporre rapporti periodici per il Ministro del lavoro e delle politiche sociali con proposte di miglioramento dell'azione amministrativa;

·      avviare l'organizzazione della rilevazione sistematica e la pubblicazione in rete, per la formazione professionale, del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, anche utilizzando, mediante distacco, personale dei Centri per l'impiego, di Italia Lavoro S.p.a. o dell'ISFOL;

·      promuovere l'accessibilità da parte di ogni persona interessata, nonché da parte del mandatario della persona stessa, alle banche dati contenenti informazioni sugli studi compiuti dalla persona stessa o sulle sue esperienze lavorative o formative.

Nel quadro della ridefinizione delle politiche attive viene prevista la promozione di un collegamento tra misure di sostegno al reddito della persona inoccupata o disoccupata e misure volte al suo inserimento nel tessuto produttivo, anche attraverso la conclusione di accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell'effettivo inserimento almeno per un congruo periodo, a carico di fondi regionali a ciò destinati, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale o regionale (lettera p)).

 

 

Il contratto di ricollocazione

Si ricorda che l’articolo 1, comma 215, della L. 147/2013 (Stabilità 2014), istituisce (con l’obiettivo favorire il reinserimento lavorativo dei fruitori di ammortizzatori sociali, anche in deroga, e di lavoratori in stato di disoccupazione involontaria), presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per le politiche attive del lavoro (con dotazione pari a 15 milioni di euro per il 2014, e 20 milioni di euro annui per il biennio 2015-2016), per la realizzazione di iniziative, anche sperimentali, volte a potenziare le politiche attive del lavoro, tra le quali la sperimentazione regionale del contratto di ricollocazione. Le iniziative, anche sperimentali, sono definite con apposito decreto di natura non regolamentare del Ministero del lavoro e delle politiche social (decreto che non risulta fin qui emanato).

Il contratto di ricollocazione rappresenta uno strumento diretto a collegare le misure di politica attiva del lavoro (volte a promuovere l’inserimento del lavoratore nel tessuto produttivo) con quelle di politica passiva (di sostegno al reddito).

Il contratto, stipulato dalla persona interessata con uno dei soggetti accreditati dalla regione per i servizi per il lavoro e il CPI di competenza, prevede:

·      che il CPI individui il grado di collocabilità della persona e attivi un servizio di assistenza per la ricerca di una nuova occupazione, comprendente anche l’assegnazione alla persona in cerca di lavoro, da parte dell’agenzia, di un tutor (job advisor) che lo segua nel suo percorso e al quale è attribuito anche un potere di controllo sull’effettiva disponibilità del soggetto;

·      che la persona interessata scelga l'ente per i servizi specialistici per il lavoro di cui avvalersi, tra quelli accreditati dalla regione;

·      che non vi sia da parte della persona interessata un rifiuto ingiustificato di un lavoro o dell’attività necessaria per trovarlo. Nel caso di rifiuto, accertato dal tutor nell’esercizio del suo potere di controllo, vi sarà una conseguente riduzione o interruzione del trattamento di disoccupazione.

Il servizio è coperto da un voucher regionale, proporzionato alla difficoltà di collocamento, e subordinato al conseguimento di un inserimento occupazionale di durata congrua.

Si segnala che, attualmente, la regione Lazio ha attivato la sperimentazione del contratto di ricollocazione[33], prevedendo l’assegnazione di un voucher per ogni singolo contratto concluso, per un totale di circa 50.000 interventi, proporzionato alla difficoltà di reinserimento nel tessuto produttivo e condizionato al conseguimento del risultato occupazionale rappresentato dalla conclusione, da parte della persona interessata, di uno o più contratti di lavoro subordinato di durata minima di 2 mesi ciascuno e complessivamente non inferiore a 6 mesi, anche non continuativi e con aziende diverse, nell’arco di un anno decorrente dalla sottoscrizione del primo contratto di lavoro.

La ridefinizione delle politiche attive passa anche per la revisione delle competenze istituzionali, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

 

·        razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali allo scopo di aumentare l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa, mediante l'utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente (lettera f));

·        attribuzione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali delle competenze in materia di verifica e controllo del rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale (lettera t));

·        mantenimento in capo alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro (lettera u)).

 

Per un quadro generale della normativa in materia di politiche attive si rinvia retro al § “Le politiche attive: quadro normativo generale”.

 

Merita in questa sede ricordare che il disegno di legge di costituzionale AC 2613 e abb [34], approvato dal Senato e ora all’esame della Camera dei deputati, prevede il trasferimento della materia “tutela e sicurezza del lavoro” dalla competenza concorrente Stato-regioni (ove è attualmente collocata ai sensi dell’articolo 117, comma 3, Cost.[35]), alla competenza esclusiva statale, per quanto attiene alle “disposizioni generali e comuni”.

 

La semplificazione e la razionalizzazione delle procedure amministrative, anche con riferimento al collocamento obbligatorio dei disabili, in materia di politiche attive, è definita dai seguenti principi e criteri direttivi:

·        razionalizzazione e revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità (di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68) e degli altri soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio, al fine di favorirne l'inserimento e l'integrazione nel mercato del lavoro (lettera g));

·        valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni erogate, anche attraverso l'istituzione del fascicolo elettronico unico contenente le informazioni relative ai percorsi educativi e formativi[36], ai periodi lavorativi, alla fruizione di provvidenze pubbliche ed ai versamenti contributivi (lettera z));

·        integrazione del sistema informativo con la raccolta sistematica dei dati disponibili nel collocamento mirato, nonché di dati relativi alle buone pratiche di inclusione lavorativa delle persone con disabilità e agli ausili ed adattamenti utilizzati sui luoghi di lavoro (lettera aa));

·        semplificazione amministrativa in materia di lavoro e politiche attive, con l’impiego delle tecnologie informatiche, secondo le regole tecniche in materia di interoperabilità e scambio dei dati definite dal Codice dell'amministrazione digitale (di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82), allo scopo di rafforzare l’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive e favorire la cooperazione con i servizi privati, anche mediante la previsione di strumenti atti a favorire il conferimento al sistema nazionale per l'impiego delle informazioni relative ai posti di lavoro vacanti (lettera bb)).

 

Si evidenzia la necessità di un coordinamento tra il criterio di delega di cui alla lettera z) e quello contenuto al successivo comma 6, lettera i), ove si prevede la revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino.

 

 

Collocamento obbligatorio e quote di riserva: quadro della normativa vigente

In base alla L. 12 marzo 1999, n. 68 i lavoratori disabili, considerata la comprovata difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro, usufruiscono di uno speciale regime di collocamento obbligatorio, in base al quale ai datori di lavoro viene imposto di assumere un certo numero di lavoratori disabili, i quali devono tuttavia possedere una (anche solo minima) capacità lavorativa residua[37]. Le condizioni di disabilità vengono accertate attraverso apposita visita medica effettuata da commissioni mediche istituite presso le ASL secondo i criteri indicati in apposito DPCM[38] .

I datori di lavoro, pubblici e privati, hanno l’obbligo di impiegare lavoratori disabili nella misura seguente (quote di riserva):

·         il 7% della forza lavoro per i datori di lavoro che occupano più di 50 dipendenti;

·         almeno 2 disabili per i datori che occupano da 36 a 50 dipendenti;

·         almeno un disabile per i datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti;

·         i datori di lavoro che occupano meno di 16 dipendenti sono invece esentati dal collocamento obbligatorio.

I lavoratori disabili disoccupati devono iscriversi negli speciali elenchi presso i centri per l’impiego, i quali provvedono a predisporre una graduatoria; per l’avviamento al lavoro i datori di lavoro inoltrano la relativa richiesta ai suddetti centri per l’impiego, oppure procedono alla stipula di una convenzione avente ad oggetto la determinazione di un programma mirante al conseguimento degli obiettivi occupazionali fissati dalla legge. Al lavoratore disabile si applica il trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi.

 

In tema di assunzioni obbligatorie, un ulteriore filone normativo riguarda le vittime del terrorismo, del dovere e delle altre categorie ad esse equiparate, nonché i loro familiari.

Al riguardo, la L. 407/1998 ha disposto il diritto al collocamento obbligatorio a favore delle vittime del terrorismo, del dovere e delle altre categorie ad esse equiparate, nonché dei familiari (coniuge e figli superstiti, ovvero fratelli conviventi e a carico qualora siano gli unici superstiti) dei soggetti deceduti, con assunzione per chiamata diretta per i profili professionali del personale contrattualizzato del comparto Ministeri, con precedenza rispetto ad ogni altra categoria e preferenza a parità di titoli.

Il successivo D.L. 102/2010 (modificando la legge 407/1998), ha stabilito la non applicazione della specifica quota di riserva prevista dalla legge sul collocamento obbligatorio  per le assunzioni in precedenza richiamate.

Infine, la L. 25/2011 ha fornito un’interpretazione autentica sulle disposizioni citate, al fine di stabilire che quanto disposto per il collocamento obbligatorio dei soggetti in precedenza richiamati non va ad intaccare le quote di collocamento obbligatorio previste per i disabili dalla normativa generale in materia.

 

 

Infine, per quanto concerne la valorizzazione della bilateralità, si prevede il riordino della disciplina vigente in materia, nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà, flessibilità e prossimità anche al fine di definire un sistema di monitoraggio e controllo sui risultati dei servizi di welfare erogati (lettera o)).

 

 

Gli enti bilaterali

 

L’articolo 2, comma 1, lett. h), del D.Lgs. 276/2003 definisce gli enti bilaterali come quegli organismi, costituiti liberamente (di solito in attuazione di previsioni del contratto collettivo) dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative. Si tratta di enti paritetici in quanto i rappresentanti dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro sono in numero eguale tra loro[39].

Gli enti bilaterali possono essere definiti come sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso, in particolare:

·      la promozione di un’occupazione regolare e di qualità;

·      l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro;

·      la programmazione e le modalità di attuazione di attività formative;

·      la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati

·      la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito;

·      la certificazione dei contratti di lavoro e lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro;

·      lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro;

·      ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento.


 

Commi 5-6
(Delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti)

I commi 5-6 recano reca una delega al Governo per la definizione di norme di semplificazione e di razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti, a carico di cittadini e imprese, relativi alla costituzione ed alla gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza del lavoro.

 

La delega va esercitata con uno o più decreti legislativi, da adottare entro 6 mesi, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione.

 

Altri aspetti procedurali per l’esercizio della delega, applicabili a tutte le deleghe previste dal provvedimento, sono definiti ai commi 10-14 (alla cui scheda si rinvia).

 

I principi e i criteri direttivi per l'esercizio della delega sono:

 

·      la razionalizzazione e la semplificazione (anche mediante abrogazione di norme) delle procedure e degli adempimenti connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione, inerenti al medesimo rapporto, di carattere amministrativo (lettera a));

·      l’eliminazione e la semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle disposizioni interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi (lettera b));

·      l’unificazione delle comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi e l’obbligo delle stesse amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti (lettera c));

 

Si fa presente che tra i principi generali per l'uso delle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni nell'azione amministrativa, il Codice dell’amministrazione digitale (CAD)  già prevede l’obbligo per le PA di garantire l'accesso alla consultazione, la circolazione e lo scambio di dati e informazioni, nonché l'interoperabilità dei sistemi e l'integrazione dei processi di servizio fra le diverse amministrazioni nel rispetto delle regole tecniche stabilite con regolamento (articolo 12, comma 5, del D.Lgs. 82/2005, Codice dell’amministrazione digitale - CAD).

Il Capo V del CAD disciplina in modo dettagliato le modalità di condivisione e fruibilità dei dati delle P.A. In particolare l'articolo 58 (come recentemente modificato dall’articolo 24-quinquies, comma 1, del D.L. 90/2014) specifica che le pubbliche amministrazioni sono tenute a mettere a disposizione a titolo gratuito gli accessi alle proprie basi di dati alle altre amministrazioni mediante la cooperazione. Gli standard di comunicazione e le regole tecniche a cui le pubbliche amministrazioni devono conformarsi dovranno essere definite dall’Agenzia per l'Italia digitale, sentiti il Garante per la protezione dei dati personali e le amministrazioni interessate alla comunicazione telematica.

E’ stato così superato il precedente sistema di scambio dei dati fondato su apposite convenzioni predisposte sulla base delle linee guida redatte dall'Agenzia per l'Italia Digitale, sentito il Garante per la protezione dei dati personali. Dette linee guida sono state adottate dall'Agenzia per l'Italia Digitale con Determinazione Commissariale n. 126 del 24 luglio 2013.

 

·      il divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere dati dei quali esse siano in possesso (lettera d));

 

Si ricorda che già dal 1990, secondo quanto stabilito dall’articolo 18 della legge n.241/1990 (legge sull’azione amministrativa), il nostro ordinamento prevede che i documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l'istruttoria del procedimento amministrativo, sono acquisiti d'ufficio quando sono in possesso dell'amministrazione procedente o di altre pubbliche amministrazioni. L'amministrazione procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti.

Analogamente sono accertati d'ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare.

Il principio dell’acquisizione diretta di documenti da parte delle p.a. è ribadito dal testo unico in materia di documentazione amministrativa, laddove si prevede che le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell'interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall'interessato (articolo 43 del DPR 445/2000);

 

·      il rafforzamento del sistema di trasmissione delle comunicazioni in via telematica e l'abolizione della tenuta di documenti cartacei (lettera e)), nonché l'individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere, esclusivamente in via telematica, tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro (lettera h));

 

Si ricorda che a decorrere dal 1° luglio 2013[40] è previsto che la "presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni pubbliche" avvengono esclusivamente in via telematica. Per le comunicazioni obbligatorie relative alla costituzione ed alle variazioni dei rapporti di lavoro, la disciplina vigente[41] prevede che tali comunicazioni siano effettuate, esclusivamente in via telematica, al centro per l'impiego competente per territorio e che l'effettuazione delle stesse sia valida ai fini dell'adempimento dell'obbligo di comunicazione all'INAIL (relativo alla costituzione ed alla cessazione del rapporto di lavoro) e ai fini dell'adempimento degli eventuali obblighi di comunicazione (nei confronti delle direzioni regionali e provinciali del lavoro, dell'INPS o di altre forme previdenziali sostitutive o esclusive, della Prefettura-Ufficio territoriale del Governo e delle province[42]); riguardo agli infortuni sul lavoro (che rientrino nelle fattispecie soggette agli obblighi di denuncia all'INAIL ed all'autorità locale di pubblica sicurezza), la denuncia all'INAIL[43] è effettuata, a decorrere dal 1° luglio 2013[44], esclusivamente in via telematica, mentre l'obbligo di denuncia all'autorità locale di pubblica sicurezza verrà meno[45] a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di attuazione del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP)[46];

 

·      la revisione del regime delle sanzioni, tenendo conto dell'eventuale natura formale della violazione ed in modo da favorire l'immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché la valorizzazione degli istituti di tipo premiale (lettera f));

 

 

Sistema sanzionatorio e istituti premiali in materia di sicurezza sul lavoro: quadro normativo

 

In materia di sicurezza sul lavoro il D.Lgs. 81/2008 ha operato una complessiva rivisitazione dell’apparato sanzionatorio, attraverso la rimodulazione degli obblighi (e le conseguenti sanzioni in caso di violazione) del datore di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e degli altri soggetti del sistema aziendale, sulla base dell’effettività dei compiti rispettivamente svolti[47].

Il sistema sanzionatorio è essenzialmente basato sulla contravvenzione.

La pena dell’arresto è prevista per il datore di lavoro che non abbia effettuato la valutazione dei rischi cui possono essere esposti i lavoratori in aziende che svolgano attività con elevata pericolosità. Nella maggior parte dei casi, però, il decreto legislativo prevede che al datore di lavoro si applichi la sanzione dell’arresto alternativo all’ammenda o la sola ammenda, con un’attenta graduazione delle sanzioni in relazione alle singole violazioni. Per favorire l’adeguamento alle disposizioni indicate dal decreto legislativo, al datore di lavoro che si metta in regola non è applicata la sanzione penale ma una sanzione pecuniaria[48].

Si ricorda che mentre il Titolo I del D.Lgs. 81/2008 prevede sanzioni di carattere generale, gli altri titoli dispongono sanzioni speciali[49].

Più specificamente, l’articolo 55 del D.Lgs. 81/2008 regolamenta le sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente. Attualmente, in seguito a quanto disposto dal D.Lgs. 106/2009 (modificativo ed integrativo del D.Lgs. 81/2008), le sanzioni previste a carico del datore di lavoro e del dirigente risultano più contenute. In particolare, è previsto, a carico del datore di lavoro, l’arresto da 4 a 8 mesi se la violazione dell'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi ed elaborare il relativo documento sia commessa nelle aziende esposte a particolari rischi. Il datore di lavoro è inoltre sanzionato con un’ammenda da 2.000 a 4.000 euro nel caso in cui adotti il documento di valutazione dei rischi in assenza di specifici elementi essenziali (articolo 28, comma 2, lettere b), c) o d)), o senza specifiche  modalità (articolo 29, commi 2 e 3)[50]. Anche per le contravvenzioni commesse dal datore di lavoro, in alternativa al dirigente, le sanzioni sono state modificate rispetto all'originaria formulazione del D.Lgs. 81/2008.

Il successivo articolo 56 prevede anche per i preposti con riferimento a tutte le disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008 sanzioni variamente graduate, nei limiti delle proprie attribuzioni e competenze, mentre l’articolo 59 regolamenta le sanzioni effettuate dai lavoratori (soprattutto in relazione agli obblighi a carico degli stessi previsti dall’articolo 20 e all'ipotesi specifica del rifiuto ingiustificato alla designazione per la gestione delle emergenze).

L’apparato sanzionatorio prevede, inoltre, un’estinzione agevolata dei reati e degli illeciti amministrativi. In particolare, per tutti i reati contravvenzionali puniti con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda, ovvero la pena della sola ammenda, l'articolo 301 del T.U. prevede l'applicazione delle disposizioni in materia di prescrizione ed estinzione del reato (di cui agli artt. 20 e ss. del D.Lgs. 758/1994). Con la prescrizione, l'organo di vigilanza può imporre specifiche misure idonee a far cessare i pericoli per la sicurezza e salute dei lavoratori.

Scopo della procedura è quello di verificare l’eliminazione della violazione, secondo le modalità e nel termine indicati dalla prescrizione stessa con un pagamento in sede amministrativa (nel caso in cui la prescrizione sia adempiuta) o la ripresa del procedimento penale (in caso di inadempimento).

Allo stesso tempo, l’adempimento effettuato in un periodo temporale superiore a quello richiesto dalla prescrizione (ma comunque congruo), nonché l'eliminazione dei pericoli con modalità diverse da quelle indicate dall'organo di vigilanza, sono valutate ai fini dell'applicazione dell'oblazione speciale ex articolo 162-bis c.p.).

Inoltre, l’articolo 302 stabilisce un particolare procedimento di definizione sostitutivo della detenzione (in ogni caso non superiore a 12 mesi), attraverso il pagamento di una somma determinata. La sostituzione può avvenire a condizione di eliminare le fonti di rischio e le conseguenze dannose del reato (in ogni caso, la somma non può essere comunque inferiore a 2.000 euro).

In ogni caso il beneficio è escluso quando la violazione ha avuto un contributo causale nel verificarsi di un infortunio sul lavoro, da cui derivi la morte ovvero una lesione che abbia comportato l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni.

Il reato si estingue decorsi 3 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, nel caso in cui l'imputato non abbia commesso ulteriori reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro[51].

Infine, l’articolo 301-bis del D.Lgs. 81/2008 stabilisce che in tutti i casi di inosservanza degli obblighi puniti con sanzione pecuniaria amministrativa, al fine di estinguere l’illecito amministrativo, il trasgressore è ammesso al pagamento di una somma pari alla misura minima prevista nel caso in cui regolarizzi la propria posizione entro il termine assegnato dall'organo di vigilanza.

Per quanto riguarda, più in generale, i benefici riconosciuti dall’ordinamento per una corretta applicazione delle norme antinfortunistiche da parte delle imprese, si ricorda che l’articolo 1, comma 128, della L. 147/2013, ha previsto la riduzione dei premi e contributi per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (applicata nelle more dell'aggiornamento delle tariffe dei richiamati premi e contributi), secondo modalità da definire, con effetto dal 1° gennaio 2014, con specifico decreto interministeriale[52].

Con il D.M. 12 dicembre 2000[53] sono state determinate le nuove tariffe dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali delle quattro gestioni separate, nonché le relative modalità di applicazione[54]. Il decreto ha stabilito che il tasso medio nazionale subisce variazioni, in aumento o in diminuzione, in relazione alla specifica situazione dell’azienda, attraverso le cd. oscillazioni, dovute:

·      nei primi 2 anni dalla data di inizio dell'attività, in relazione alla situazione dell'azienda per quanto riguarda il rispetto delle norme di prevenzione infortuni e di igiene del lavoro, nel qual caso può essere applicata una riduzione o un aumento del tasso medio di tariffa in misura fissa del 15%, ed applicato con determinate modalità (articolo 19). Per ottenere la richiamata riduzione il datore di lavoro deve presentare, all'atto della denuncia dei lavori, istanza motivata corredata di specifici elementi definiti a tal fine dall'INAIL. Nel caso in cui dai citati elementi risulti l'osservanza delle norme di prevenzione infortuni e di igiene del lavoro, l'INAIL applica la riduzione del tasso medio nella misura fissa del 15% a decorrere dalla data di inizio dei lavori (se denunciati nei termini di legge) (comma 20);

·      dopo i primi 2 anni di attività, in relazione all’effettivo andamento infortunistico aziendale.

Più specificamente, l’oscillazione è determinata in base al tasso specifico aziendale ed al parametro dei lavoratori-anno. A tale oscillazione si aggiunge un’ulteriore variazione, pari al 5%, al 10% o al 15% del tasso medio nazionale, in relazione all’entità dello scarto tra tasso specifico aziendale e tasso medio nazionale, nonché alla dimensione dell’azienda espressa dal numero dei lavoratori-anno del periodo, determinata in ragione del loro numero (articolo 22).

 

 

Sicurezza sul lavoro: gli interventi di semplificazione nell’attuale legislatura

 

In tema di sicurezza sul lavoro il legislatore, proseguendo sulla linea tracciata nella passata legislatura, è intervenuto con misure per la semplificazione amministrativa e procedurale, in un’ottica di riduzione degli adempimenti burocratici per le imprese.

Sotto il profilo della semplificazione, importanti novità sono previste dagli articoli 32 e 35 del D.L. 69/2013. In particolare, l’articolo 32, intervenendo su molteplici aspetti del D.Lgs. 81/2008, ha previsto:

·      nei settori a basso rischio di infortuni e malattie professionali, che il datore di lavoro, in luogo della predisposizione del DUVRI (Documento di Valutazione dei Rischi da interferenza, richiesto quando nello stesso ambiente operano soggetti appartenenti a più imprese), possa procedere alla nomina di un proprio incaricato, in possesso di specifici requisiti, al fine di sovrintendere alla cooperazione e al coordinamento con le altre imprese;

·      l’esenzione dall’obbligo di redazione del DUVRI per i servizi di natura intellettuale, per le mere forniture di materiali o attrezzature, nonché per i lavori o servizi la cui durata non sia superiore a 5 uomini-giorno e che non comportino rischi derivanti dal rischio incendio alto, dallo svolgimento di attività in ambienti confinati, o dalla presenza (oltre ad agenti cancerogeni nonché biologici, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari di cui all'allegato XI del D.Lgs. 81/2008) anche di agenti mutageni e amianto;

·      l’individuazione, attraverso specifico decreto, dei settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali, sulla base di criteri e parametri oggettivi, desunti dagli indici infortunistici e delle malattie professionali di settore dell’I.N.A.I.L., con possibilità, per i datori di lavoro di aziende che operano in tali settori, di effettuare la valutazione del rischio utilizzando all’uopo un modello semplificato;

·      l’invio della notifica preliminare (insieme all’istanza o alla segnalazione relativa all’avvio delle attività produttive) per l’avvio di nuove attività viene effettuato attraverso lo Sportello unico, che provvede a trasmettere il tutto agli organi di vigilanza;

·      per quanto attiene alle procedure di verifica periodica delle attrezzature di lavoro, la riduzione da 60 a 45 giorni del termine per la prima verifica e si introduce l’obbligo, per i soggetti pubblici, di comunicare al datore di lavoro, entro 15 giorni, l’impossibilità di effettuare la verifica di propria competenza. Inoltre, In caso di comunicazione negativa o comunque dopo 45 giorni, si prevede che il datore di lavoro possa scegliere di rivolgersi a soggetti pubblici o privati abilitati alle verifiche, mentre le verifiche successive possono essere effettuate, su scelta del datore di lavoro, da soggetti pubblici o privati abilitati;

·      l’adozione, tramite specifico decreto interministeriale, di modelli semplificati per la redazione del piano operativo di sicurezza (POS), del piano di sicurezza e coordinamento (PSC) e del fascicolo dell’opera nei cantieri temporanei o mobili;

·      l’eliminazione di determinate duplicazioni nell’attività di formazione mediante il riconoscimento (con modalità stabilite dalla Conferenza Stato-Regioni) di crediti formativi per la durata e i contenuti già erogati;

·      l’assolvimento di numerosi obblighi di comunicazione e notifica contenuti nel D.Lgs. 81/2008 attraverso l’invio telematico;

·      l’adozione, con specifico decreto interministeriale, nei contratti relativi ai lavori pubblici, di modelli semplificati per la redazione del piano di sicurezza sostitutivo (PSS);

·      in materia di denunce di infortuni sul lavoro, che l’I.N.A.I.L. trasmetta le denunce per via telematica all’autorità di pubblica sicurezza, all’ASL e alle altre autorità competenti (nella normativa previgente la denuncia all’autorità di P.S. era inviata generalmente con raccomandata R.R.; l’autorità in seguito provvedeva a trasmettere il tutto alle ASL).

Con l’articolo 35, invece, in primo luogo sono state individuate apposite procedure per la semplificazione degli obblighi di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria quando il lavoratore svolga la sua attività in azienda per un periodo non superiore a 50 giorni nel corso di una anno solare; inoltre, è stata prevista la definizione, tramite un apposito decreto interministeriale, di misure di semplificazione degli adempimenti relativi all'informazione, formazione, valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria per le imprese agricole, con particolare riferimento a lavoratori a tempo determinato e stagionali, e per le imprese di piccole dimensioni.

 

 

 

·      l'adozione di modalità semplificate per garantire la data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso del lavoratore (lettera g));

 

Tale criterio di delega sembra richiamare il tema delle c.d. dimissioni in bianco. Al riguardo si ricorda che la pratica delle cd. dimissioni "in bianco" consiste nel far firmare le dimissioni al lavoratore al momento dell'assunzione (in bianco, appunto) e quindi nel momento in cui la posizione dello stesso lavoratore è più debole, pratica riguardante prevalentemente le donne lavoratrici.

Al fine di contrastare tale fenomeno, rendendo meno difficoltoso l'onere probatorio relativo alla nullità delle dimissioni volontarie, era intervenuta la L. 188/2007, che aveva disposto che la validità della lettera di dimissioni volontarie, presentata dal "prestatore d'opera" (lavoratori subordinati e cd. "parasubordinati") e volta a dichiarare l'intenzione del medesimo soggetto di recedere dal contratto di lavoro, fosse subordinata (fatte salve le disposizioni concernenti il recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato e il rispetto dei termini di preavviso di cui all'articolo 2118 c.c.) all'utilizzo, a pena di nullità, di appositi moduli predisposti e resi disponibili, gratuitamente, dagli uffici provinciali del lavoro e dagli uffici comunali. Destinatari della norma erano tutti i datori di lavoro, pubblici e privati; la nuova disciplina si applicava ai contratti di lavoro subordinato (indipendentemente dalle caratteristiche e dalla durata), ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto), alle prestazioni occasionali di collaborazione, ai contratti di associazione in partecipazione, nonché ai contratti di lavoro instaurati dalle cooperative con i propri soci. I moduli avevano una validità temporale massima di quindici giorni dalla data di emissione ed erano realizzati secondo determinate specifiche tecniche.

In seguito alle difficoltà (soprattutto di carattere burocratico) emerse in sede di applicazione della normativa (evidenziate soprattutto da parte delle imprese), l'articolo 39, comma 10, del D.L. 112/2008 ha disposto l'abrogazione della L. 188/2007[55].

L'abrogazione della L. 188/2007 ha lasciato comunque impregiudicato l'impianto normativo a tutela dei lavoratori (e, in particolare) delle lavoratrici (ispirato alle medesime esigenze di tutela, sebbene solo in corrispondenza di specifici eventi, della stessa legge 188/2007) di cui agli articoli 54-56 del D.Lgs. 151/2001 e all'articolo 35, comma 4, del D.Lgs. 198/2006[56].

 

·      la revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino, in un’ottica di integrazione con la già prevista dorsale informativa unica e con la banca dati delle politiche attive e passive del lavoro (lettera i)).

 

Si evidenzia la necessità di un coordinamento tra tale criterio di delega e quello contenuto al precedente comma 4, lettera z), ove si prospetta l'istituzione del fascicolo elettronico unico, contenente le informazioni relative ai percorsi educativi e formativi, ai periodi lavorativi, alla fruizione di provvidenze pubbliche ed ai versamenti contributivi.

 

 

Il libretto formativo

 

Il “Libretto formativo del cittadino” contiene le informazioni relative ai percorsi formativi e ai periodi lavorativi della persona interessata, con l’obiettivo di documentare il curriculum formativo e professionale della persona interessata. Il “Libretto”, istituito dal D.Lgs. 276/2003 sulla base di quanto previsto dall’Accordo Stato-regioni del 18 febbraio 2000, è un documento personale del lavoratore (rilasciato dalle regioni tramite servizi o enti autorizzati) - definito di concerto tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, previa intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni e sentite le parti sociali - in cui vengono registrate le competenze acquisite durante la formazione in apprendistato, la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione continua svolta durante l'arco della vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle regioni, nonché le competenze acquisite in modo non formale e informale secondo gli indirizzi della Unione europea in materia di apprendimento permanente, purché riconosciute e certificate[57].

 

·      la promozione del principio di legalità ed il conferimento di priorità alle politiche intese a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso, ai sensi di alcune recenti risoluzioni del Parlamento europeo in materia (lettera l)).

 

Di seguito si illustra brevemente il contenuto delle risoluzioni del Parlamento europeo richiamate nel testo.

Il Parlamento europeo il 9 ottobre 2008 ha approvato una specifica risoluzione ((2008/2035(NI)) sul rafforzamento della lotta al lavoro sommerso. In particolare, il PE auspica l’adozione da parte dell’UE di una strategia specifica per la lotta contro il lavoro nero e la promozione dell’emersione del lavoro irregolare. Chiede anche incentivi, quali l'aumento dell'aliquota di reddito non imponibile e la riduzione dei costi non salariali e degli oneri amministrativi che gravano sulle PMI. Infine, invitando gli Stati membri ad esaminare la possibilità di introdurre salari minimi, sollecita sanzioni severe per i datori di lavoro che occupano manodopera in nero e misure per la tutela dei lavoratori migranti. Da ultimo, il PE auspica la promozione della libera circolazione dei lavoratori tra gli Stati membri, dal momento che le limitazioni esistenti, ad avviso del PE, causano l’aumento del ricorso al lavoro sommerso e determinano squilibri territoriali.

Il 14 gennaio 2014, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione ((2013/2112(INI)) sulla necessità di incrementare il personale e le risorse necessarie per effettuare le ispezioni sul lavoro negli Stati membri, al fine di contrastare il lavoro sommerso, quello autonomo fittizio e il dumping sociale. A tale proposito, il PE auspica il potenziamento della cooperazione transfrontaliera, creando una piattaforma europea per gli ispettori del lavoro dedicata alla questione del lavoro sommerso e volta ad identificare e monitorare le società di comodo e operazioni similari. Inoltre, il PE invita la Commissione a valutare l'opportunità di introdurre una tessera europea di previdenza sociale o altro analogo documento elettronico europeo, che sia assoggettato a norme rigorose in materia di protezione dei dati, e a condurre un progetto pilota relativo a un meccanismo europeo di allarme rapido che segnali i casi di lavoro sommerso. Nella risoluzione, infine, si ribadisce la necessità di istituire nuove misure comunitarie volte a combattere il dumping sociale.

 


Comma 7
(Delega al Governo in materia di rapporti di lavoro e attività ispettiva)

Il comma 7 reca una delega al Governo per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti, nonché per la razionalizzazione e semplificazione dell'attività ispettiva.

 

La delega va esercitata con uno o più decreti legislativi, di cui uno contenente un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, da adottare entro 6 mesi, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

 

Altri aspetti procedurali per l’esercizio della delega, applicabili a tutte le deleghe previste dal provvedimento, sono definiti ai commi 10-14 (alla cui scheda si rinvia).

 

I principi e i criteri direttivi per l'esercizio della delega sono stabiliti dalle lettere da a) ad i).

 

Si fa preliminarmente presente che i principi e criteri direttivi di cui alle lettere a) e c) non paiono definiti in termini puntuali, lasciando ampia discrezionalità al Governo ai fini della loro traduzione normativa nei decreti delegati.

Per quanto concerne la lettera a) i principi e criteri della delega non forniscono espresse indicazioni, nè in ordine alle forme contrattuali sulle quali intervenire[58], nè in relazione agli interventi di riordino da operare su ciascuna di esse; sulla base di una interpretazione sistematica, l’unico limite sembrerebbe derivare dal richiamo, all’interno del disegno di legge, ad interventi di regolamentazione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa[59] e del lavoro accessorio[60], ciò da cui può desumersi la volontà del legislatore di non addivenire, comunque, ad un integrale “superamento” di tali forme contrattuali.

Per quanto concerne la lettera c), non appare chiaro se la norma prefiguri l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (o, invece, la modifica delle tutele previste dalla normativa vigente per l’attuale contratto a tempo indeterminato, sebbene in relazione alle sole nuove assunzioni); né è precisato in modo espresso il contenuto delle "tutele crescenti", anche con riferimento alla loro natura obbligatoria o reale.

 

La giurisprudenza costituzionale ha in varie occasioni affrontato il tema delle leggi di delega recanti principi e criteri direttivi generici e indeterminati (c.d. deleghe in bianco)[61], in relazione a quanto previsto dall’articolo 76 Cost., che ammette la delega dell’esercizio della funzione legislativa al Governo solo “con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

Già nella sentenza n. 158 del 1985, la Corte ha chiarito che “le direttive, i principi ed i criteri servono, da un verso, a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, ma, dall’altro, devono consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare. In particolare, la norma di delega non deve contenere enunciazioni troppo generiche o troppo generali, riferibili indistintamente ad ambiti vastissimi della normazione oppure enunciazioni di finalità, inidonee o insufficienti ad indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato.”

Nella sentenza n. 98 del 2008 la Corte ha riconosciuto che “la varietà delle materie riguardo alle quali si può ricorrere alla delega legislativa comporta che neppure è possibile enucleare una nozione rigida valevole per tutte le ipotesi di principi e criteri direttivi”, con la conseguenza che “il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose”. Con l’ordinanza n. 134 del 2003 la Corte ha precisato che “il livello di specificazione dei principi criteri direttivi può in concreto essere diverso da caso a caso, anche in relazione alle caratteristiche della materia e della disciplina su cui la legge delegata incide”.

In linea generale la Corte ammette, poi, che i principi e criteri direttivi possano essere ricavati per implicito (sentenza n. 48 del 1986) o essere enucleati, nel silenzio della legge delega, per relationem (ossia ricavati dalla normativa vigente: sentenze nn.156 del 1987, 87 del 1989, 126 del 1996 e 383 del 1998).

Per quanto riguarda le deleghe volte al riordino e al coordinamento di una determinata disciplina normativa, la Corte ha riconosciuto costituire un principio sufficiente a guidare l’azione dell’esecutivo precisamente quello del riordino (sentenze nn. 53 e 174 del 2005). Tornata sul punto, con la sentenza n. 350 del 2007 la Corte ha avuto modo di precisare che ogniqualvolta una delega volta riordino e al coordinamento della materia non contiene l’enunciazione esplicita di principi nuovi cui il legislatore delegato debba uniformarsi, l’attività di quest’ultimo resta, in qualche modo, limitata e la delega deve essere intesa “in senso minimale”.

Ciò che non può essere validamente ammesso come principio e criterio direttivo è un generico rinvio alla stessa discrezionalità del Governo: come affermato dalla Corte nella sentenza n. 68 del 1991 (e ribadito nella sentenza n. 340 del 2007), per quanta ampiezza possa a questo riconoscersi, “il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata quale è, per definizione, la legislazione su delega”.

In conclusione, benché la Corte abbia in varie occasioni sollecitato una maggiore precisione da parte del legislatore delegante, dal complesso della giurisprudenza costituzionale sembra evincersi un atteggiamento assai prudente da parte della Corte in sede di declaratoria di incostituzionalità, come dimostra il fatto che, ad oggi, l’illegittimità costituzionale di una legge delega per violazione dell’articolo 76 della Costituzione sia stata pronunciata una sola volta (sentenza n. 280 del 2004[62]).

 

Per quanto concerne il riordino delle forme contrattuali, i principi e criteri direttivi a) ed h) prevedono:

 

·           l'individuazione e l'analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo, nazionale ed internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali (lettera a));

·           l’abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative (lettera h));

 

 

Le tipologie contrattuali in materia di lavoro: quadro normativo

 

Di seguito si fornisce un quadro della normativa vigente relativa alle principali forme contrattuali “flessibili” esistenti.

 

1. Il lavoro a progetto

Gli articoli 61-69 del D.Lgs. 276/2003 hanno introdotto una specifica disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro a progetto, applicabile al solo settore lavorativo privato, finalizzata a superare gli abusi che hanno condotto all’uso talvolta improprio di tale strumento contrattuale, per eludere la disciplina del rapporto di lavoro subordinato[63].

Con la nuova fattispecie del lavoro a progetto è stato previsto l’obbligo (articolo 61 del D.Lgs. 276/2003) di ricondurre i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.

L’articolo 1, commi 23-25, della L. 92/2012 (di riforma del mercato del lavoro) ha apportato importanti modifiche alla disciplina del lavoro a progetto.

In particolare, il nuovo testo dell’articolo 61 (ferma restando la disciplina degli agenti e rappresentanti di commercio, nonché le attività di vendita diretta di beni e servizi[64] realizzate attraverso call center "outbound", per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, c.p.c.) consente che il contratto di lavoro a progetto sia riconducibile unicamente a progetti specifici (e non più anche a “programmi di lavoro o a fasi di questi ultimi”, come previsto dalla normativa previgente), escludendo che il progetto possa consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente o nello svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi (questi ultimi possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale)[65].

Inoltre, si prevede la prosecuzione automatica del progetto nel caso in cui questo riguardi l’attività di ricerca scientifica, a condizione che la stessa venga ampliata per temi connessi e/o prorogata nel tempo.

I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto[66].

Tra gli elementi essenziali da indicare in forma scritta (sempre richiesta e non più soltanto ai fini della prova) deve esserci anche il risultato finale che si intende conseguire attraverso il contratto di lavoro a progetto.

Il corrispettivo, secondo quanto disposto dall’articolo 63 del D.Lgs. 276/2003 (come modificato dalla L. 92/2012) non può essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività (eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati), dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria (ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati). In assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell'attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto (la formulazione previgente si limitava a richiedere che il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto dovesse essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto).

Ai sensi del successivo articolo 67 (anch’esso modificato dalla L. 92/2012), il lavoro a progetto si risolve al momento della realizzazione del progetto che ne costituisce l'oggetto. Le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa, ed il committente può altresì recedere prima della scadenza del termine qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto. Il collaboratore può recedere prima della scadenza del termine, dandone preavviso, nel caso in cui tale facoltà sia prevista nel contratto individuale di lavoro.

L’articolo 69 del D.Lgs. 276/2003 disciplina la trasformazione del contratto a progetto, prevedendo che nel caso in cui i rapporti di lavoro siano instaurati senza individuare uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, siano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla data di costituzione del rapporto (comma 1). Al riguardo, l’articolo 1, comma 24, della L. 92/2012, dettando una norma di interpretazione autentica (con effetto, quindi, retroattivo) dell’articolo 69, comma 1, ha chiarito che tale disposizione si interpreta nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

In seguito alle modificazioni recate dalla L. 92/2012, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, vengono considerati rapporti di lavoro subordinato, sin dalla data di costituzione del rapporto, nel caso in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe rispetto a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente (articolo 69, comma 2), fatte salve la prova contraria a carico del committente, nonché le prestazioni di elevata professionalità (le quali possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

Qualora nel corso di un rapporto venga invece accertato dal giudice che lo stesso si configura come un contratto di lavoro subordinato per difetto del requisito dell'autonomia, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti.

Ulteriori disposizioni sull’istituto riguardano la possibilità, per il collaboratore a progetto, di svolgere l’attività nei riguardi di più committenti, anche se lo stesso non può svolgere attività concorrenziale nei confronti dei committenti stessi né può venire meno all’obbligo di riservatezza (articolo 64).

Lo stesso D.Lgs. 276/2003 ha individuato (articoli 65 e 66) alcuni diritti del collaboratore a progetto. In particolare (articolo 65), il collaboratore ha il diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione eventualmente fatta nello svolgimento del rapporto. In ogni caso, i diritti e gli obblighi delle parti sono regolati da leggi speciali, comprese le disposizioni di cui all’articolo 12-bis della L. 633/1941. Il successivo articolo 66 disciplina ulteriori diritti del collaboratore a progetto. In particolare, si stabilisce che gravidanza, malattia ed infortunio non comportino estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso, senza erogazione del corrispettivo. In caso di gravidanza, inoltre, la durata del rapporto è prorogata di 180 giorni, salvo previsione contrattuale più favorevole. Inoltre, in caso di infortunio o malattia, salvo diversa previsione contrattuale, la sospensione del rapporto non comporta una proroga della durata del contratto, che si estingue alla scadenza. Il contratto si intende comunque risolto se la sospensione si protrae per un periodo superiore ad un sesto della durata stabilita nel contratto, se determinata, ovvero superiore a 30 giorni per i contratti a durata determinabile. Infine, ai rapporti che rientrano nel campo di applicazione del capo in esame si applicano specifiche norme, tra le quali si ricordano quelle sul processo del lavoro, sulla tutela della maternità per le lavoratrici iscritte alla gestione separata INPS, sulla sicurezza e igiene del lavoro, (di cui al D.Lgs. 81/2008), nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e quelle di cui all’articolo 51, comma 1, della L. 488/1999 (finanziaria 2002) .

E’ stato previsto, poi, che nella riconduzione a un progetto, programma di lavoro o fase di esso delle collaborazioni coordinate e continuative, i diritti derivanti da un rapporto di lavoro già in essere possono essere oggetto di rinunzie o transazioni (articolo 68, così come modificato dal richiamato D.Lgs. 251/2004) tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro, anche in deroga alle disposizioni sulle rinunce e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti le controversie individuali di lavoro, di cui all’articolo 2113 del codice civile.

Merita infine ricordare che l’articolo 2, commi 51-56, della L. 92/2012, disciplina, a decorrere dal 2013, una specifica indennità una tantum per i collaboratori coordinati e continuativi in regime di monocomittenza, iscritti in via esclusiva alla gestione pensionistica INPS separata e non titolari anche di reddito di lavoro autonomo, in quanto esclusi dall’ambito di applicazione della ASPI.

 

2. Il lavoro accessorio

Il lavoro accessorio è disciplinato dagli articoli da 70 a 74 del D.Lgs. 276/2003.

Ai sensi dell’articolo 70, comma 1, per prestazioni di lavoro accessorio si intendono tutte le attività lavorative[67] che diano complessivamente luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi non superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare (annualmente rivalutati sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell'anno precedente). Le prestazioni possono essere rese in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi lavoratore (salvo alcuni limiti nel settore agricolo), mentre per quanto concerne le prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti (fermo restando il limite dei compensi fissato in linea generale a 5.000 euro annui), si prevede che le attività svolte a favore di ciascun committente non possono comunque superare i 2.000 euro annui.

La L. 92/2012 ha soppresso le discipline sperimentali (previste dalla normativa previgente fino al 31 dicembre 2012) che consentivano prestazioni di lavoro accessorio da parte di titolari di contratti di lavoro a tempo parziale nonché di percettori di prestazioni integrative del salario o sostegno al reddito, a condizione che fosse rispettato un limite massimo degli emolumenti ricevuti, pari a 3.000 euro per anno solare e che tali prestazioni fossero comunque compatibili con quanto disposto dall’articolo 19, comma 10, del D.L. 185/2008, il quale subordina il diritto a percepire qualsiasi trattamento di sostegno al reddito previsto dalla legislazione vigente in materia di ammortizzatori sociali, alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale.

Si ricorda, inoltre, che l’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 70 del D.Lgs. 276/2003 (aggiunto dall’articolo 46-bis, comma 1, lett. d), del D.L. 83/2012) ha disposto, per il 2013, che i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito possano svolgere prestazioni di lavoro accessorio in tutti i settori produttivi (compresi gli enti locali, fermi restando i vincoli vigenti in materia di contenimento delle spese di personale) nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno solare (lettera d)). L’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa, relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio. Successivamente, l’articolo 8, comma 2-ter, del D.L. 150/2013 ha prorogato tale possibilità per il 2014.

L’articolo 72 disciplina le modalità di assolvimento dell’obbligo retributivo e contributivo connesso alle prestazioni, prevedendo che esso avvenga attraverso l’acquisto presso le rivendite autorizzate, da parte dei datori di lavoro, di uno o più carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio (cd. voucher), che garantiscono la retribuzione nonché la copertura previdenziale ed assicurativa, da consegnare al prestatore di lavoro accessorio. Il valore nominale dei buoni è fissato con specifico decreto, con il quale vengono anche stabiliti gli aggiornamenti periodici del valore stesso, ed è stabilito tenendo conto della media delle retribuzioni rilevate per le attività lavorative affini a quelle richiamate in precedenza, nonché del costo di gestione del servizio. Inoltre, i buoni devono essere orari, numerati progressivamente e datati; si prevede, quindi, che in sede di adozione del decreto ministeriale chiamato ad aggiornare periodicamente il valore nominale dei buoni, si dovrà tener conto delle “risultanze istruttorie del confronto con le parti sociali”.

Attualmente il valore nominale del buono, fissato inizialmente con D.M. 30 settembre 2005 e confermato dal D.M. 12 marzo 2008[68], è pari a 10 euro e non è ricollegato ad una retribuzione minima oraria (nota INAIL n. 6464/2010).

Sempre riguardo alle caratteristiche dei buoni, la circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 4/2013 ha sottolineato che, “considerata la natura preventiva della comunicazione sull’utilizzo del lavoro accessorio, al fine di consentire la massima flessibilità sia del voucher telematico, sia di quello cartaceo, il riferimento alla data non può che implicare che la stessa vada intesa come un arco temporale di utilizzo del voucher non superiore ai 30 giorni decorrenti dal suo acquisto”.

Il monitoraggio sui dati relativi ai voucher riscossi, venduti e sul numero dei lavoratori così retribuiti è effettuato dall’INPS.

Il prestatore di lavoro accessorio percepisce il proprio compenso presso il concessionario (individuato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali con apposito decreto, con il quale sono anche regolamentati i criteri e le modalità per il versamento dei contributi e delle relative coperture assicurative e previdenziali), all'atto della restituzione dei buoni ricevuti dal beneficiario della prestazione di lavoro accessorio. Tale compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del prestatore di lavoro accessorio.

Spetta al concessionario provvedere al pagamento delle spettanze alla persona che presenta i buoni, registrandone i dati anagrafici e il codice fiscale, nonché effettuare il versamento per suo conto dei contributi per fini previdenziali alla Gestione separata INPS (in misura pari al 13% del valore nominale del buono, e per fini assicurativi contro gli infortuni all'INAIL (in misura pari al 7% del valore nominale del buono), trattenendo l'importo autorizzato dal decreto a titolo di rimborso spese.

L’articolo 72, comma 4, dispone l’adeguamento delle aliquote dei contributi previdenziali rispetto a quelle previste per gli iscritti alla Gestione separata dell’INPS, da rideterminare con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Si ricorda che (nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 5425 del 2011) al lavoro accessorio non è applicabile il criterio generale di ripartizione del carico previdenziale tra committente e prestatore di lavoro, previsto dall'articolo 2, comma 30, della L. 335/1995, con la conseguenza che i contributi previdenziali, compresi nel valore nominale del voucher, sono a totale carico del committente.

Inoltre, si prevede che il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con decreto, possa stabilire specifiche condizioni, modalità e importi dei buoni orari, in "considerazione delle particolari e oggettive condizioni sociali di specifiche categorie di soggetti correlate allo stato di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali per i quali è prevista una contribuzione figurativa, utilizzati nell’ambito di progetti promossi da amministrazioni pubbliche (articolo 72, comma 4-bis[69]).

Come specificato nella circolare INPS n. 88/2009 (e successivamente confermato dalla circolare INPS n. 17/2010 e dalla circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 4 del 18 gennaio 2013), le prestazioni accessorie devono essere svolte direttamente a favore dell'utilizzatore della prestazione, senza il tramite di intermediari. Pertanto, è da ritenersi escluso che un'impresa possa utilizzare lavoratori per svolgere prestazioni a favore di terzi, come nel caso dell'appalto o della somministrazione di lavoro.

Infine, ulteriori disposizioni in materia sono state recate dall’articolo 9, comma 2, del D.L. 76/2013, il quale, apportando modifiche all’articolo 9, comma 28, quarto periodo, del D.L. 78/2010, ha escluso la spesa sostenuta dagli enti locali per lo svolgimento di attività sociali mediante forme di lavoro accessorio dai vincoli alla spesa di personale. Dunque, tale tipologia di spesa viene sottratta, a decorrere dall’anno 2013, dal limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2011.

 

3. La somministrazione di lavoro

Il contratto di somministrazione di lavoro, introdotto dal D.Lgs. 276/2003 (articoli 20 e ss.), può essere concluso da ogni soggetto (utilizzatore) che si rivolga ad altro soggetto (somministratore) a ciò autorizzato dal Ministero del lavoro.

Il contratto di somministrazione in sostanza sostituisce il contratto di fornitura di lavoro interinale (la cui disciplina viene contestualmente abrogata). Pertanto, le agenzie di somministrazione hanno preso il posto delle vecchie agenzie di lavoro temporaneo.

La normativa previgente alla L. 247/2007 prevedeva che il contratto di somministrazione potesse essere concluso a termine o a tempo indeterminato.

La somministrazione a tempo indeterminato, abrogata dall’articolo 1, comma 46, della L.  247/2007 e reintrodotta dall’articolo 2, comma 143, della L. 191/2009 (attraverso l’abrogazione del richiamato comma 46) è uno strumento contrattuale inedito per l'Italia, ma molto diffuso negli Stati Uniti fin dai primi anni ’80. Con tale istituto sostanzialmente si introduceva anche nell’ordinamento italiano il cosiddetto leasing di manodopera (staff leasing), grazie al quale le aziende potevano "affittare" la forza-lavoro anche a tempo indeterminato e non solo a termine. Invece, con il contratto di fornitura di lavoro interinale di cui alla L. 196/1997, l’impresa fornitrice metteva a disposizione dell’impresa utilizzatrice un lavoratore solamente per esigenze lavorative di carattere temporaneo.

Si consideri tuttavia che l’articolo 20, comma 3, del D.Lgs. 276/2003 ha previsto una tassativa elencazione delle attività per le quali è legittima la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, in presenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo o produttivo. Si tratta in particolare delle seguenti attività:

·      servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, compresa la progettazione e manutenzione di reti intranet e extranet, siti internet, sistemi informatici, sviluppo di software applicativo, caricamento dati;

·      servizi di pulizia, custodia, portineria;

·      servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci;

·      gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, nonché servizi di economato;

·      attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione del personale, ricerca e selezione del personale;

·      attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione commerciale;

·      gestione di call-center, nonché avvio di nuove iniziative imprenditoriali nelle aree Obiettivo 1 di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del 21 giugno 1999 del Consiglio, recante disposizioni generali sui Fondi strutturali;

·      costruzioni edilizie all'interno degli stabilimenti, per installazioni o smontaggio di impianti e macchinari, per particolari attività produttive, con specifico riferimento all'edilizia e alla cantieristica navale, le quali richiedano più fasi successive di lavorazione, l'impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell'impresa;

·      in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative;

·      in tutti i settori produttivi, pubblici e privati, per l’esecuzione di servizi di cura e assistenza alla persona e di sostegno alla famiglia;

·      in tutti i settori produttivi, in caso di utilizzo da parte del somministratore di uno o più lavoratori assunti con contratto di apprendistato.

 

Nel caso della somministrazione a tempo determinato, invece, viene superata la precedente impostazione restrittiva che rendeva possibile la fornitura di lavoro temporaneo solamente nel casi previsti tassativamente dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Pertanto la somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa ogniqualvolta ricorrano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore. Si affida alla contrattazione collettiva il compito dell’eventuale individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato.

L’articolo 20, comma 5, inoltre, elenca una serie di fattispecie nelle quali è vietata l’utilizzazione del contratto di somministrazione:

-      nel caso di sostituzione di lavoratori in sciopero;

-      salva diversa previsione degli accordi sindacali, nel caso di unità produttive che nei sei mesi precedenti abbiano effettuato licenziamenti collettivi[70], che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione[71]. Salva diversa disposizione degli accordi sindacali, tale divieto opera altresì presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti;

-      o presso cui sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione di orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori con analoghe mansioni;

-      nel caso di aziende che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi degli articoli 28 e ss. del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81[72].

Il successivo comma 5-bis ha disposto la non applicazione, qualora il contratto di somministrazione preveda l’utilizzo di lavoratori in mobilità, assunti dal somministratore con contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, delle condizioni di ammissibilità e dei limiti previsti per il contratto di somministrazione a tempo indeterminato e a tempo determinato. Inoltre, è stato previsto che ai richiamati contratti di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, stipulati dal somministratore con i lavoratori in mobilità, si applichi il beneficio contributivo di cui all’art. 8, comma 2, della L. 223/1991 (quota di contribuzione a carico del datore di lavoro pari a quella prevista per gli apprendisti).

 

Il successivo articolo 21 dispone che il contratto di somministrazione deve essere concluso in forma scritta (ad substantiam) e deve contenere una serie di elementi (per esempio, numero dei lavoratori interessati e loro mansioni, durata, motivi di interesse aziendale, luogo, orario e trattamento economico, assunzione reciproca degli obblighi contrattuali). La mancanza della forma scritta o la mancata indicazione di alcuni elementi essenziali determina la nullità del contratto di somministrazione, con la conseguenza che i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.

Per quanto concerne in generale il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore, per i contratti di lavoro a tempo indeterminato, l’articolo 22 conferma l’applicazione della disciplina civilistica e delle leggi speciali vigenti, mentre per i contratti di lavoro a tempo determinato si applicano le disposizioni del D.Lgs. 368 del 2001 in materia di lavoro a tempo determinato.

Nell’ipotesi di somministrazione a tempo determinato, nel caso in cui il prestatore sia stato assunto dall’agenzia di somministrazione con contratto stipulato a tempo indeterminato, nel medesimo è precisato l’ammontare dell’indennità mensile di disponibilità, corrisposta dal somministratore per i periodi in cui il lavoratore rimane in attesa di assegnazione. La misura di tale indennità è fissata dal contratto collettivo e comunque non può essere inferiore alla misura prevista con decreto ministeriale. Si precisa che l’indennità di disponibilità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo (quindi non concorre alla determinazione della tredicesima mensilità o al trattamento di fine rapporto).

All’articolo 23, oltre a prevedersi un obbligo in solido tra somministratore ed utilizzatore per quanto riguarda la corresponsione ai lavoratori dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali, si prevedono alcune tutele per i lavoratori dal punto di vista economico e retributivo (condizioni di base di occupazione e d’occupazione non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore), della sicurezza sul lavoro (per l’intero periodo di missione del lavoratore presso il soggetto utilizzatore) e dell’esercizio del potere disciplinare riservato al somministratore. E’ previsto altresì il diritto[73], per i lavoratori dipendenti dal somministratore, all’informazione sui posti vacanti a tempo indeterminato, al fine delle pari opportunità per ricoprire tali posti con gli altri dipendenti.

L’articolo 24 dispone che ai lavoratori delle imprese di somministrazione si applicano i diritti sindacali di cui allo Statuto dei lavoratori, alla stregua di tutti i lavoratori subordinati a tempo indeterminato. Il lavoratore può esercitare liberamente, anche presso l’utilizzatore, le libertà sindacali e può partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici.

Ai lavoratori che dipendono da uno stesso somministratore ma lavorano presso diversi utilizzatori compete uno specifico diritto di riunione secondo la normativa vigente, con le modalità stabilite dalla contrattazione.

Inoltre l’utilizzatore è tenuto a comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali il numero e i motivi dei contratti di somministrazione conclusi, la durata degli stessi, il numero e la qualifica dei lavoratori interessati. In mancanza delle r.s.a. tale comunicazione va indirizzata alle associazioni territoriali di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano sindacale.

L’articolo 25 pone a carico del somministratore il versamento degli oneri contributivi (previdenziali ed assistenziali), nonché quelli relativi all’assicurazione contro gli infortuni. A tal fine il somministratore viene inquadrato nel settore terziario, tranne nel caso in cui i lavoratori prestino la loro opera nel settore agricolo o nel lavoro domestico dove sono applicate le discipline di settore.

Per quanto concerne la responsabilità civile per i danni arrecati a terzi nell’esercizio dell’attività lavorativa, ai sensi dell’articolo 2049 del c.c., l’articolo 26 precisa che ne risponde il soggetto utilizzatore, poiché esercita nel concreto il potere direttivo nei confronti del lavoratore.

In caso di somministrazione irregolare di lavoro, ovvero quando non siano state rispettate le condizioni per la stipula del contratto di somministrazione (cfr. articolo 20) o non siano state indicati alcuni elementi che configurano il rapporto di lavoro, l’articolo 27 stabilisce che il lavoratore possa adire le vie legali per richiedere l’instaurazione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore con decorrenza fin dall’inizio della somministrazione. Il giudizio dovrà riguardare solo l’accertamento della irregolarità del contratto, senza entrare nel merito delle scelte organizzative o produttive.

Nell’eventualità di somministrazione di lavoro fraudolenta con l’intento di eludere disposizioni legislative o contrattuali inderogabili, l’articolo 28 prevede – oltre alle sanzioni pecuniarie indicate all’articolo 18 del D.Lgs. 276/2003 – l’irrogazione di una sanzione pecuniaria di 20 euro, a carico sia del somministratore sia dell’utilizzatore, per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.

Si ricorda, infine, che il comma 39 dell’articolo 2 della L. 92/2012 aveva commisurato l'aliquota contributiva a carico dei soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro alla retribuzione dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l'esercizio di attività di somministrazione (pari al 2,6%), mentre lasciava immutata la corrispondente aliquota (pari al 4%) relativa ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.

Si evidenzia, inoltre, che la contribuzione in oggetto è destinata ai fondi bilaterali costituiti dalle parti stipulanti il contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro, ai fini dello svolgimento di iniziative e dell'erogazione di interventi in favore dei lavoratori assunti per prestazioni di lavoro in somministrazione.

Successivamente, l’articolo 1, comma 136, della L. 147/2013 comma 136, ha soppresso la richiamata riduzione, prevista dal richiamato comma 39, con decorrenza dal 1° gennaio 2014, dal 4% al 2,6%, della misura della citata aliquota contributiva.

Da ultimo, l’articolo 1 del D.L. 34/2014 contiene disposizioni in materia di contratti a tempo determinato (c.d. lavoro a termine) e somministrazione di lavoro a tempo determinato, con l’obiettivo di facilitare il ricorso a tali tipologie contrattuali. A tal fine, la disposizione modifica in più parti il D.Lgs. 368/2001 e il D.Lgs. 276/ 2003 (così come già modificati dalla L. 92/2012), prevedendo, in primo luogo, l’innalzamento da 1 a 3 anni, comprensivi di un massimo di 5 proroghe della durata del rapporto a tempo determinato (anche in somministrazione) che non necessiti dell’indicazione della causale per la sua stipulazione (c.d. acausalità).

 

4. Il lavoro intermittente

L'art. 1, comma 21, della L. 92/2012 ha modificato il campo di applicazione del lavoro intermittente eliminando la possibilità - prima ammessa - di ricorrervi nei c.d. periodi predeterminati di cui all'art. 37 del D.Lgs. n. 276/2003 (ovvero durante il fine settimana, nei periodi estivi, o di vacanze natalizie e pasquali) e in relazione alle prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età, anche pensionati. Il contratto di lavoro intermittente può essere oggi concluso:

-       per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo e saltuario secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno (art. 34, comma 1, D.Lgs. 276/2003);

-       con soggetti con più di 55 anni di età e con soggetti con meno di 24 anni di età, fermo restando che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età (art. 34, comma 2, D.Lgs. 276/2003).

In ogni caso, è stabilito un limite di 400 giornate annue di lavoro effettivo nell’arco di 3 anni solari, riferito a ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, superato il quale il rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato (ai sensi dell’articolo 34, comma 3, si computano solo le giornate prestate successivamente all’entrata in vigore del decreto-legge); restano esclusi da tale limite i settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

In relazione alla causale di cui all'articolo 34, comma 1, D.Lgs. 276/2003, il Ministero del lavoro con la circolare n. 20/2012, ritiene demandata alla contrattazione collettiva anche l'individuazione dei c.d. "periodi predeterminati". Tali periodi si devono collocare nel cd. contenitore/anno, pertanto, non risulta possibile prevedere che il periodo predeterminato sia riferito all'intero anno, ma occorre una precisa delimitazione temporale. Diversamente, i rapporti instaurati si intendono a tempo indeterminato (C.M. n. 7258/2013).

Invece, per la causale ex articolo 34, comma 2, D.Lgs.. 276/2003, la L. 92/2012 ha delimitato diversamente, rispetto alla previgente disciplina, anche la causale soggettiva che consente il ricorso al lavoro intermittente. Infatti ora è previsto, ai fini della stipulazione del contratto, che il lavoratore:

-       non abbia compiuto i 24 anni (quindi abbia al massimo 23 anni e 364 giorni);

-       oppure abbia più di 55 anni (quindi almeno 55 anni e quindi possono essere anche pensionati).

La modifica al campo di applicazione del lavoro intermittente ha suggerito anche l'introduzione di una disciplina transitoria, ai sensi della quale i contratti di lavoro intermittente già sottoscritti alla data di entrata in vigore della L. 92/2012 (18 luglio 2012), che non siano compatibili con le nuove disposizioni cessano di produrre effetti decorsi 12 mesi dalla sua entrata in vigore (pertanto dal 18 luglio 2013). Tale termine (ai sensi dell’articolo 7, comma 2, lettera a), n. 2) del D.L. 76/2013) è stato da ultimo prorogato al 1° gennaio 2014.

Va in ogni caso ricordato che, ai sensi dell'art. 40 del D.Lgs. 276/2003, in assenza di una regolamentazione da parte della contrattazione collettiva, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individua in via provvisoria e con proprio decreto i casi in cui è ammissibile il ricorso al lavoro intermittente (INAIL circ. n. 64/2012).

Il Ministro del lavoro con il D.M. 23 ottobre 2004 ha indicato nelle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo elencate nella tabella approvata con R.D. 2657/1923 le ipotesi oggettive per le quali in via provvisoriamente sostitutiva della contrattazione collettiva è possibile stipulare i contratti di lavoro intermittente.

L'art. 34, comma  3, D.Lgs. 276/2003 elenca tassativamente i casi nei quali non è possibile la stipulazione del contratto a chiamata.

In particolare è vietato il ricorso al lavoro intermittente:

-       per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

-       salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della L. 223/1991, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a chiamata ovvero presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a chiamata;

-       da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.

In caso di assenza delle condizioni legittimanti la stipulazione del contratto (v. supra), nonché in caso di violazione dei divieti indicati dall'art. 34, comma 3, del D.Lgs. 276/2003, i rapporti di lavoro saranno considerati a tempo pieno e indeterminato (C.M. n. 20/2012; INAIL circ. n. 64/2012).

Ai fini della applicazione di normative di legge, il prestatore di lavoro intermittente è computato nell'organico dell'impresa in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre (articolo 39 del D.Lgs. 276/2003).

Si ricorda che non è previsto alcun divieto per quanto riguarda la stipulazione di più contratti di lavoro intermittente con datori di lavoro differenti.

Nulla vieta, inoltre, l'ammissibilità di porre in essere un contratto intermittente e altre differenti tipologie contrattuali a patto che siano tra loro compatibili e che non risultino di ostacolo con i vari impegni negoziali assunti dalle parti (C.M. n. 4/2005).

 

5. Il lavoro ripartito (Job sharing)

Il lavoro ripartito (detto anche condiviso, o job sharing), sulla base di quanto disposto dall’articolo 41 del D.Lgs. 276/2003, è un contratto di lavoro attraverso il quale due lavoratori assumono in solido, dando vita ad un vincolo di solidarietà, l'adempimento di un’unica ed identica obbligazione lavorativa.

Ferma restando una diversa intesa tra le parti contraenti, ciascun lavoratore è responsabile direttamente e personalmente dell'intera obbligazione, conseguentemente il datore di lavoro può chiedere l'intero adempimento della prestazione ad uno o ad entrambi. Inoltre, salvo patto contrario tra le parti, i lavoratori hanno la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell'orario di lavoro (in quest’ultimo caso il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti a uno dei coobbligati è posta in capo all'altro obbligato), mentre sono vietate, salvo previo consenso del datore di lavoro, eventuali sostituzioni da parte di terzi.

Salvo diversa intesa tra le parti, le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano l'estinzione dell'intero vincolo contrattuale. A meno che, su richiesta del datore di lavoro, l'altro coobbligato si renda disponibile ad adempiere, in tutto o in parte, l'obbligazione lavorativa, trasformando così il contratto di lavoro ripartito in un normale contratto di lavoro subordinato.

Salvo diversa intesa tra le parti, l'impedimento di entrambi i lavoratori coobbligati è disciplinato in base all’articolo 1256 del Codice civile, che enuncia i criteri che regolano l'impossibilità definitiva e/o temporanea della prestazione[74].

 

6. L’associazione in partecipazione

Il contratto di associazione in partecipazione, regolato dagli articoli 2549 – 2554 del codice civile, è il contratto in base al quale l’associante (imprenditore) attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa (o di uno o più affari), verso il corrispettivo di un determinato apporto che può consistere nel versamento di capitale o nell’esecuzione di un’attività lavorativa.

Recentemente, l’articolo 1, commi da 28 a 31, della L. 92/2012, ha introdotto alcune modifiche al contratto di associazione in partecipazione qualora l'apporto dell'associato preveda anche una prestazione di lavoro (solo lavoro o capitale e lavoro).

Il numero degli associati non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti (salvo si tratti di soggetti legati all'associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo). La violazione di tale limite comporta che il rapporto associativo viene considerato rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Le caratteristiche fondamentali del contratto di associazione in partecipazione si possono riassumere:

·           nella gestione dell’impresa o dell’affare da parte dell’associante;

·           nella partecipazione agli utili dell’impresa, se presenti, da parte dell’associato;

·           nell’assunzione del rischio di impresa da parte dell’associato (diritto agli utili solo se prodotti, responsabilità per le perdite non oltre il valore apportato);

·           diritto al rendiconto dell’affare o al rendiconto annuale di gestione da parte dell’associato.

Nel contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, la prestazione lavorativa dell’associato si realizza secondo i canoni del lavoro autonomo, per cui è l’apporto lavorativo dell’associato si attua in assenza di vincolo di subordinazione nei confronti dell’associante, al quale competerà solo un potere generico di coordinamento dell’attività dell’associato (e non già il potere gerarchico e disciplinare tipico del rapporto di lavoro subordinato)

Inoltre, secondo la previsione di cui all'articolo 1, comma 30, della L. 92/2012, si presumono, salvo prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro realizzati senza che:

·           vi sia stata un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili d'impresa;

·           non sia stato consegnato il rendiconto annuale di gestione all'associato;

·           l'apporto dell'associato non sia connotato da competenze teoriche di grado elevato ovvero da capacità tecnico - pratiche acquisite da precedenti rilevanti esperienze.

Al fine di prevenire contenziosi è prevista la possibilità di certificare il contratto di associazione in partecipazione secondo la procedura volontaria indicata negli articoli 76 – 81 del D.Lgs. 276/2003.

I contratti di associazione in partecipazione in essere alla data del 18 luglio 2012 (data di entrata in vigore della L. 92/2012) e certificati mantengono validità fino alla loro cessazione.

Da ultimo, in materia è intervenuto il D.L. 76/2013.

Più specificamente, l’articolo 7, comma 5, del D.L. 76/2013 ha esteso a tale forma contrattuale le tutele (introdotte dall’articolo 4, commi da 16 a 23, della L. 92/2012) in materia di contrasto del fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”. Lo stesso comma, inoltre, ha escluso dall’ambito applicativo della sanzione (consistente nella trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato) per violazione del numero massimo di associati (tre) in una medesima attività, gli associati nell’ambito di imprese mutualistiche  individuati mediante elezione dell’assemblea (il cui contratto sia comunque certificato dagli appositi organismi di certificazione), nonché i rapporti tra produttori e artisti, interpreti ed esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni (sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento).

Il successivo articolo 7-bis del D.L. 76/2013 ha invece introdotto un procedimento per la stabilizzazione degli associati in partecipazione con apporto di lavoro.

La stabilizzazione avviene sulla base di contratti collettivi stipulati dai datori di lavoro (anche assistiti dalla propria organizzazione di categoria) con le organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale e si attua mediante la stipula, tra il 1° giugno 2013 e il 31 marzo 2014[75], di contratti di lavoro a tempo indeterminato (anche di apprendistato) con i soggetti in precedenza associati in partecipazione.

A fronte dell’assunzione, il lavoratore è tenuto a sottoscrivere un atto di conciliazione riguardante la pregressa associazione in partecipazione (che vale come sanatoria di tutti i contenziosi eventualmente in atto), mentre il datore di lavoro deve versare (alla gestione separata INPS di cui all’articolo 2, comma 26, della L. 335/1995) un contributo straordinario integrativo pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli associati, per un periodo massimo di 6 mesi.

I nuovi contratti, gli atti di conciliazione e l’attestazione dell’avvenuto versamento del contributo straordinario, devono essere depositati dai datori di lavoro, entro il 31 luglio 2014[76], presso le sedi competenti dell’INPS, il quale trasmette alle Direzioni territoriali del lavoro gli esiti delle conseguenti verifiche.

Il buon esito delle verifiche comporta l’estinzione degli illeciti relativi ai pregressi rapporti di associazione in partecipazione e tirocinio.

·      promuovere, in coerenza con le indicazioni europee[77], il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti (lettera b));

 

Le aliquote contributive: quadro di sintesi

 

Attualmente, l’aliquota contributiva per il Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti ( FPLD) è pari al 33%.

Una diversa distribuzione delle aliquote contributive si ha per i soggetti iscritti alla Gestione separata INPS ex articolo 2, comma 26, della L. 335/1995[78]. Tale gestione presenta, per effetto delle norme succedutesi nel tempo, differenti aliquote (in primo luogo a seconda se gli iscritti risultino iscritti o meno presso altre forme obbligatorie previdenziali). Inoltre, è stato previsto un innalzamento delle aliquote in un determinato periodo temporale per entrambi i gruppi di iscritti, con lo scopo di avvicinarne il livello a quello previsto per i lavoratori dipendenti.

Più specificamente, l’articolo 1, comma 79, della L. 247/2007[79], prevede:

·      per i lavoratori iscritti ad altre forme obbligatorie previdenziali, un’aliquota del 20% per il 2013, del 22% per il 2014, del 23,5% per il 2015 e del 24% a decorrere dall'anno 2016.

·      per i lavoratori non iscritti ad altre forme previdenziali, un’aliquota del 28%[80] per il 2014, del 30% per il 2015, del 31% per il 2016, del 32% per il 2017 e del 33% a decorrere dal 2018 (di fatto parificandola a quella dei lavoratori dipendenti).

Infine, per particolari categorie di contratti, come l’apprendistato, sono previste aliquote contributive agevolate. In via generale la contribuzione dovuta dai datori di lavoro per gli apprendisti artigiani e non artigiani è pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali ( ai sensi dell’articolo 1, comma 773, della L. 296/2006)[81]. Specifiche riduzioni, inoltre, sono previste per i datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a 9. In tali casi, limitatamente ai contratti di apprendistato, l'aliquota complessiva a carico dei datori di lavoro, è pari: all'1,50% per i periodi contributivi maturati nel primo anno di contratto (riduzione di 8,5 punti percentuali); al 3%, per i periodi contributivi maturati nel secondo anno di contratto (riduzione di 7 punti percentuali); per i periodi contributivi maturati negli anni di contratto successivi al secondo, la contribuzione è dovuta nella misura del 10%[82]. Si ricorda, infine, che l’articolo 22 della L. 183/2011 ha previsto che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, per i contratti di apprendistato stipulati successivamente alla medesima data ed entro il 31 dicembre 2016, venga riconosciuto ai datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a 9, uno sgravio contributivo del 100% con riferimento alla contribuzione dovuta, per i periodi contributivi maturati nei primi 3 anni di contratto (ferma restando l’aliquota del 10% per i periodi contributivi maturati negli anni di contratto successivi al terzo)[83].

 

Deduzioni IRAP

 

La legge di stabilità 2014 ha disposto l’applicazione a regime delle deduzioni IRAP per l’incremento di base occupazionale (articolo 1, comma 132, della L. 147/2013). In particolare, viene prevista la possibilità, per i soggetti passivi IRAP, di dedurre il costo del personale, ove stipulino contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato ad incremento d'organico a decorrere dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2014.

Si segnala, inoltre, che l'articolo 19 (commi 13 e 14) del D.L. 91/2014 consente, per i produttori agricoli che rientrino nell’àmbito di applicazione dell'IRAP, di dedurre dalla base imponibile del medesimo tributo le spese riferite ai lavoratori agricoli dipendenti a tempo determinato.

Più in generale in materia di agevolazioni IRAP, si ricorda che già l'articolo 2 del D.L. 201/2011 aveva reso integralmente deducibile ai fini delle imposte dirette (IRES e IRPEF), a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2012, la quota di IRAP dovuta relativa al costo del lavoro. Il medesimo provvedimento ha altresì incrementato le agevolazioni IRAP per l’assunzione di lavoratrici e giovani di età inferiore ai 35 anni. Di segno analogo è l'intervento recato con la legge di stabilità 2013 (articolo 1, commi 484 e 485 della L. 228/2012), che ha modificato la disciplina delle deduzioni IRAP, elevando gli importi per i lavoratori assunti a tempo indeterminato e per i contribuenti di minori dimensioni. Tali disposizioni si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2013. In particolare, è stato innalzato da 4.600 a 7.500 euro l’importo deducibile, su base annua, per ogni lavoratore dipendente a tempo indeterminato impiegato nel periodo di imposta di riferimento da parte del soggetto passivo IRAP. Viene altresì innalzato da 10.600 a 13.500 euro l’importo deducibile per i lavoratori di sesso femminile, nonché per quelli di età inferiore ai 35 anni. E’ poi elevato da 9.200 a 15.000 euro l’importo massimo deducibile per ogni lavoratore dipendente a tempo indeterminato impiegato nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, elevando altresì tale importo da 15.200 a 21.000 euro se tali lavoratori sono di sesso femminile e per quelli di età inferiore ai 35 anni.

·           previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio (lettera c));

 

 

Licenziamenti individuali e tutela del lavoratore: la normativa vigente[84]

 

La L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (c.d. riforma Fornero), attraverso un’ampia modifica dell’articolo 18 della legge n.300/1970, ha operato, com’è noto, una complessiva ridefinizione delle cause di risoluzione del rapporto di lavoro e delle conseguenze del licenziamento illegittimo, nel senso di una riduzione dell’area della tutela reale (ossia della reintegrazione nel posto di lavoro) e, contemporaneamente, di un ampliamento dell’area della tutela obbligatoria (indennità).

Le ipotesi da prendere in considerazione sono tre:

·           Licenziamento nullo

·           Licenziamento illegittimo

·           Licenziamento inefficace

 

Nel caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio o adottato in presenza di una causa di divieto) o intimato in forma orale, viene sostanzialmente confermata la normativa previgente, che prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (tutela reale), indipendentemente dal motivo formalmente addotto e dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, nonchè un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità).

 

Per quanto concerne il licenziamento illegittimo, secondo la legge (art. 1 della legge n. 604/1966), il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato può avvenire solo per giusta causa o per giustificato motivo.

La nozione di giusta causa è contenuta nell'articolo 2119 del codice civile, ai sensi del quale ciascuna delle parti del rapporto di lavoro a tempo indeterminato può recedere dal contratto, senza preavviso, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. L'articolo precisa che non costituisce giusta causa il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. La giusta causa ricorre allorché siano commessi fatti di particolare gravità i quali, valutati oggettivamente e soggettivamente, sono tali da configurare una grave e irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto. A differenza dei comportamenti che costituiscono giustificato motivo soggettivo, che devono essere strettamente attinenti al rapporto contrattuale, secondo giurisprudenza e dottrina i comportamenti che integrano la giusta causa possono anche essere estranei alla sfera del contratto, ma idonei a produrre riflessi negativi nell’ambiente di lavoro e a deteriorare la fiducia insita nel rapporto di lavoro stesso.

Secondo la legge (articolo 3 della legge n. 604/1966) il licenziamento per giustificato motivo è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Secondo dottrina e giurisprudenza, nel primo caso ("notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro")  ricorre l'ipotesi del c.d. giustificato motivo soggettivo. Poiché si parla di inadempimento, i fatti che lo configurano devono essere costituiti esclusivamente da comportamenti attinenti al rapporto di lavoro. L’inadempimento si caratterizza in questo caso per essere di minore gravità "quantitativa" rispetto a quello che costituisce giusta causa per il recesso. Peraltro, ove esso non abbia le caratteristiche per essere considerato “notevole”, potrà essere sanzionato solo da misure disciplinari.

Il giustificato motivo oggettivo, invece, è determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza in tali casi spetta al datore di lavoro l’onere di provare il nesso di causalità tra il licenziamento e la riorganizzazione del lavoro; il giudice può valutare l'effettiva sussistenza di tale nesso, ma non può sindacare il merito delle scelte imprenditoriali che portano al licenziamento[85].

Alla tipizzazione delle condotte legittimanti il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo si provvede, assai di frequente, anche nei contratti collettivi, ma le previsioni contrattuali non sono comunque vincolanti per il giudice.

 

Per quanto concerne la tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo bisogna distinguere tra licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa (o di giustificato motivo “soggettivo”- c.d. licenziamento disciplinare) e per mancanza di giustificato motivo “oggettivo” (c.d. licenziamento economico).

Nel caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo “soggettivo”, rispetto alla disciplina previgente, che prevedeva in ogni caso l’obbligo di reintegrazione del lavoratore nelle imprese oltre i 15 dipendenti (o oltre i 5 se si tratta di imprenditore agricolo), la legge n.92/2012 ha introdotto una distinzione tra:

·        mancanza di giusta causa o di giustificato motivo connessi a insussistenza del fatto contestato ovvero a fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti o dei codici disciplinari: in questi casi continua a valere la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (Per quanto concerne l’indennità, rispetto alla normativa previgente viene quindi fissato un tetto massimo e, allo stesso tempo, soppresso il limite minimo di 5 mensilità);

·        mancanza di giusta causa o di giustificato motivo connessi a tutte le restanti ipotesi: in questi casi non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (in precedenza prevista nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro, riconosce un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale (in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo).

Nel caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giustificato motivo “oggettivo”, non trova più applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale; tuttavia, il giudice, nel caso in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo, può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) e riconoscere un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

 

Nel caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione, della procedura disciplinare o della procedura di conciliazione, non trova più applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce al lavoratore un’indennità risarcitoria complessiva determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale (ai fini della determinazione in concreto dell’indennità il giudice deve tenere conto della gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, e motivare in modo specifico al riguardo).

 

·           la revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera (lettera d));

 

Per quanto concerne il rinvio alla contrattazione aziendale e di secondo livello ai fini dell’individuazione di “ulteriori ipotesi” di revisione delle mansioni, si fa presente che la normativa vigente già prevede tale possibilità, secondo quanto stabilito dall’articolo del D.L. n.138/2011[86].

 

Disciplina delle mansioni e jus variandi nella legge e nella giurisprudenza

 

La norma di riferimento in tema di mansioni nel rapporto di lavoro è rappresentata dall’articolo 2103 del Codice civile, così come modificato dall’articolo 13 della Statuto dei lavoratori (L. 300/1970), il quale dispone che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione, sancendo la nullità di ogni patto contrario.

La disposizione in questione tutela quindi sia il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni di assunzione (così riconoscendo meritevole di tutela non solo il suo diritto alla retribuzione, ma anche, quale bene ulteriore, la sua professionalità), sia quello del datore di lavoro di modificare, in relazione a specifiche esigenze organizzative dell’impresa, le mansioni disposte in sede di assunzione (jus variandi), attraverso l’assegnazione di mansioni equivalenti o superiori[87]. Il precetto civilistico nega però il cosiddetto demansionamento, ossia la modifica in pejus delle mansioni, pena la nullità del relativo atto: il datore di lavoro, pur nell’esercizio dello jus variandi, non può, pertanto, unilateralmente o contrattualmente, adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle in precedenza svolte.

Si ricorda che la normativa vigente prevede, in casi particolari, alcune deroghe ai limiti posti dall’articolo 2103 c.c., tra cui:

·      l’art. 4, comma 4, L. 68/1999, il quale ammette che il lavoratore possa essere adibito a mansioni inferiori qualora sia divenuto inabile a seguito di infortunio o malattia, con il riconoscimento del diritto alla conservazione del trattamento più favorevole corrispondente alle mansioni di provenienza;

·      l’articolo 7 del Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.Lgs. 151/2001), il quale prevede che la lavoratrice in gravidanza sia adibita a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione nel caso in cui queste siano ricomprese tra le mansioni a rischio o comunque interdette in relazione allo stato della lavoratrice, che conserva la retribuzione e la qualifica corrispondenti alle mansioni precedentemente svolte;

·      l’art. 4 comma 11, della L. 223/1991, il quale stabilisce che gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di mobilità possano stabilire l’assegnazione dei lavoratori in esubero, in deroga a quanto disposto dal secondo comma dell’art. 2103 c.c., a mansioni diverse e quindi anche inferiori (allo scopo, appunto, di evitare il licenziamento).

Per il settore pubblico, una esplicita deroga a quanto disposto dall’articolo 2103 c.c. è stata introdotta, di recente, dall’articolo 5, comma 1, lett. b), del D.L. 90/2014, che interviene sulla gestione del personale pubblico in disponibilità[88]: al fine di ampliare le possibilità di ricollocamento, il personale in disponibilità può presentare (nei 6 mesi anteriori alla data di scadenza del termine di 24 mesi previsto come periodo massimo di godimento dell’indennità spettante al seguito del collocamento in disponibilità) istanza di ricollocazione, nell’ambito dei posti vacanti in organico, anche in una qualifica inferiore o in posizione economica inferiore (della stessa o di inferiore area o categoria), in deroga a quanto previsto dall’articolo 2103 del codice civile. La ricollocazione non può comunque avvenire prima dei 30 giorni anteriori alla data di scadenza del richiamato termine di 24 mesi.

La contrattazione collettiva ribadisce sostanzialmente i principi della disciplina legislativa. Ad esempio, gli articoli 3 e ss. del Titolo II del CCNL 5 dicembre 2012 per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata e alla installazione di impianti (vigenza 1° gennaio 2013-31 dicembre 2015), stabiliscono, in primo luogo, che il prestatore di lavoro debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Oltre a ciò, si prevede il passaggio alla categoria superiore se si sono svolte mansioni superiori per un determinato periodo (salvo specifiche eccezioni), l’attribuzione ala categoria corrispondente alle mansioni superiori in caso di cumulo di mansioni e la tutela dei lavoratori con mansioni discontinue[89].

La giurisprudenza ha introdotto ulteriori deroghe, rispetto a quelle normativamente previste, al divieto di cui all’articolo 2103 c.c.. Con la sentenza n. 4301/2013 della Cassazione (Sez. lavoro) è stato sancito che è legittimo adibire il lavoratore a mansioni inferiori, se questo avviene per esigenze di servizio e se viene assicurato, in modo prevalente, l’espletamento delle mansioni ordinarie.

Una consolidata giurisprudenza ritiene ammissibile il cosiddetto “patto di demansionamento”, se questo rappresenta l’unica alternativa al licenziamento. Infatti, se il demansionamento avviene con il consenso del lavoratore e in suo favore quale unica alternativa al licenziamento, viene meno la ratio sottesa alla limitazione dello ius variandi del datore di lavoro, volta ad impedire che un eventuale demansionamento possa essere adottato in danno e senza il consenso del lavoratore[90]. In questi casi, secondo la giurisprudenza, il patto di demansionamento non rappresenterebbe una vera e propria deroga alla norma che limita l’esercizio dello ius variandi in capo al datore di lavoro, ma un adeguamento del contratto alla nuova situazione venutasi a creare; in tal caso  il datore di lavoro ha l’onere di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, mentre il lavoratore ha l’onere di allegazione in merito all’esistenza di concrete possibilità di trovare una diversa collocazione[91].

La giurisprudenza, infine, ritiene che si debba comunque tutelare il diritto del lavoratore di richiedere il mutamento di mansioni o il trasferimento. “Le limitazioni dello ius variandi sono dirette ad incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle clausole contrattuali che prevedono il mutamento di mansioni o il trasferimento non sorretti da ragioni tecniche, organizzative e produttive e mirano ad impedire che il cambiamento di mansioni od il trasferimento siano disposti contro la volontà del lavoratore ed in suo danno; dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui - secondo un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato - il mutamento di mansioni od il trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un'esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro, che l'abbia invece subita” (Cass. Sez. lavoro Sentenza n. 17095/2011).

·      revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore (lettera e));

 

Il potere di controllo costituisce uno dei tre poteri (insieme a quello direttivo e disciplinare) tradizionalmente attribuiti al datore di lavoro, mediante il quale verificare l’esatto adempimento degli obblighi gravanti sul dipendente.

In particolare, il datore di lavoro ha il potere di controllare che il lavoratore, nell’esecuzione della prestazione lavorativa, usi la diligenza dovuta (articolo 2104, co. 1, c.c.), osservi le disposizioni impartitegli (art. 2104, co. 2, c.c.), rispetti gli obblighi di fedeltà sullo stesso gravanti (art. 2105 c.c.), anche al fine di poter esercitare l’eventuale azione disciplinare nel caso in cui rilevi l’inosservanza di tali obblighi (art. 2106 c.c., art. 7 dello Statuto dei lavoratori).

Tale potere non è, tuttavia, assoluto, ma incontra come limite la necessità che esso sia esercitato in modo tale da non ledere diritti fondamentali del lavoratore, come la dignità e la riservatezza.

Per quanto riguarda le modalità del controllo, l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) vieta espressamente (comma 1) l’utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature che abbiano quale finalità determinante ed esclusiva il controllo a distanza dell’attività lavorativa[92].

Nel divieto è ricompresa qualsiasi forma di controllo a distanza che sottragga al lavoratore, nello svolgimento delle sue mansioni, ogni margine di spazio e di tempo nel quale egli possa essere ragionevolmente certo di non essere osservato, ascoltato o comunque “seguito” nei propri movimenti.

Nel caso in cui la presenza degli impianti ed apparecchiature dai quali derivi anche la semplice possibilità di controllo a distanza dei lavoratori sia giustificata da criteri di oggettività e necessarietà richiesti dalla legge (e cioè esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro), lo stesso articolo 4 dello statuto (comma 2) subordina la legittimità dell’installazione al previo accordo con le R.S.U. o, in mancanza di queste, con la commissione interna: in mancanza di accordo è necessaria l’autorizzazione della DTL competente[93].

La norma, pur emanata nel 1970, tutelando un bene “sostanzialmente indeterminato”, consentirebbe di adattare la previsione normativa al progressivo evolversi delle tecnologie, in particolare informatiche, introdotte nei processi produttivi[94].

 

Merita comunque ricordare che parte della giurisprudenza ha manifestato un orientamento teso ad ammorbidire la disposizione normativa sui controlli a distanza. In particolare, è stato considerato inapplicabile il divieto posto dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori nei cosiddetti casi di controllo a scopo difensivo, cioè il controllo volto a rilevare qualsiasi condotta illecita dei lavoratori diretta a ledere il patrimonio aziendale, a condizione che le stesse condotte illecite non riguardino, né direttamente né indirettamente, l'attività lavorativa[95]

Allo stesso tempo, considerato che il divieto di controllo a distanza mira a tutelare la riservatezza e dignità del lavoratore nello svolgimento dell’attività lavorativa, possono essere considerati legittimi gli accertamenti operati attraverso riproduzioni filmate dirette a tutelare il proprio patrimonio aziendale, al di fuori dell’orario di lavoro e contro possibili atti penalmente illegittimi messi in atto da terzi e, quindi, anche dai propri dipendenti (da considerare come soggetti terzi nel caso in cui agiscano fuori dell’orario di lavoro[96]).

 

Di grande importanza sono le linee guida del Garante per la privacy relativamente a posta elettronica e uso di Internet. Muovendo dal Codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. 196/2003) (che tutela il diritto alla riservatezza di tutti coloro i cui dati personali possono essere oggetto di comunicazione a terzi e, conseguentemente, obbliga il titolare del trattamento dei suddetti dati a determinati adempimenti, primo l’obbligo di informare i soggetti interessati) il Garante ha chiarito che l’uso della posta elettronica e di Internet da parte dei dipendenti rientra tra le attività soggette alla normativa posta a tutela del trattamento dei dati personali e, con deliberazione n. 13 del 1° marzo 2007, ha dettato una serie di linee guida atte a disciplinare l’utilizzo di mail e Internet sul luogo di lavoro.

In primo luogo, il Garante evidenzia l’opportunità di adottare una policy interna che stabilisca le corrette modalità di utilizzo della posta elettronica e della rete Internet, specificamente assicurando la funzionalità e il corretto impiego di tali mezzi da parte dei lavoratori (definendone altresì le modalità d'uso nell'organizzazione dell'attività lavorativa, tenendo conto della disciplina in tema di diritti e relazioni sindacali) degli strumenti messi a disposizione del lavoratore e quelle per l’esercizio di controlli da parte del datore di lavoro (tenendo conto della disciplina in tema di informazione e consultazione delle organizzazioni sindacali), ribadendo il diritto di quest’ultimo di controllare l’effettivo adempimento della prestazione lavorativa. Inoltre, per l’esercizio del suo potere di controllo il datore di lavoro non può utilizzare “apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori”, tra cui rientrano anche “strumentazioni hardware e software mirate al controllo dell’utente di un sistema di comunicazione elettronica”, in quanto lesive della libertà e della dignità del lavoratore. Il trattamento dei dati che ne consegue è illecito, a prescindere dall'illiceità dell'installazione stessa e anche quando i singoli lavoratori ne siano consapevoli.

Si sottolinea che l’adozione di una policy interna non esime il datore di lavoro dall’obbligo, previsto dall’art. 13 del Codice della privacy, di informare i lavoratori circa le finalità e le modalità con cui i loro dati saranno trattati. Questo perché i due adempimenti hanno natura e finalità diverse; il Codice chiarisce che la posta aziendale ed Internet possono essere utilizzati solo come strumenti di lavoro, mentre il disciplinare interno costituisce una condizione di legittimità per poter raccogliere e trattare i dati personali che si raccolgono mediante gli strumenti telematici.

Infine, il consenso può non essere richiesto in caso di trattamento di dati comuni a causa del legittimo interesse del datore di lavoro alla tutela dei beni aziendali.

·      l'introduzione, anche in via sperimentale, del compenso orario minimo,  applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (lettera f));

 

Nel nostro ordinamento non esiste un livello minimo di retribuzione fissato per  via legislativa, mentre trovano applicazione, per i relativi settori, i livelli minimi di retribuzione stabiliti dai contratti collettivi nazionali per ciascuna qualifica e mansione; tali livelli retributivi minimi, secondo una consolidata giurisprudenza[97], si applicano anche ai lavoratori non iscritti alle associazioni sindacali firmatarie dei contratti.

Per approfondimenti sul compenso minimo stabilito per legge in alcuni Paesi europei si rinvia all’apposita sezione di diritto comparato del presente dossier.

·      previsione, tenuto conto di quanto disposto dall’articolo 70 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, della possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi, fatta salva la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati, con contestuale rideterminazione contributiva di cui all’articolo 72, comma 4, ultimo periodo, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (lettera g));

 

Si osserva che tale criterio direttivo non appare idoneo ad estendere l’ambito applicativo del ricorso al lavoro accessorio, in quanto la normativa vigente già prevede che prestazioni di lavoro accessorio possano essere svolte in tutti i settori produttivi e per qualsiasi tipo di attività[98]. Quanto alla “rideterminazione contributiva”, si osserva che l’articolo  72, comma 4, ultimo periodo, già demanda a un decreto interministeriale la rideterminazione della percentuale relativa al versamento dei contributi previdenziali (in funzione degli incrementi delle aliquote contributive per gli iscritti alla gestione separata INPS[99]). In ogni caso sembrerebbe opportuno specificare se la rideterminazione contributiva debba operare in aumento o in diminuzione.

 

Per un quadro della normativa vigente in materia di lavoro accessorio si veda retro, § Le tipologie contrattuali in materia di lavoro: quadro normativo.

·      razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale (lettera i)).

 

 

L’attività di vigilanza in materia di lavoro: quadro normativo

 

L’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale è stata profondamente riformata con il D.Lgs. 124/2004, (emanato in attuazione dell’articolo 8 della L. 30/2003), che ha disposto il riassetto della disciplina sulle ispezioni in materia di lavoro e previdenza sociale, allo scopo di definire un sistema organico e coerente di tutela del lavoro, con particolare riguardo alla attività di prevenzione.

Il provvedimento in particolare:

·      ha attuato la riorganizzazione dell'attività ispettiva del Ministero del lavoro in materia di previdenza sociale e di lavoro mediante l'istituzione di una direzione generale con compiti di direzione e coordinamento delle strutture periferiche del Ministero ai fini dell'esercizio unitario della funzione ispettiva, tenendo altresì conto della specifica funzione di polizia giudiziaria dell'ispettore del lavoro;

·      ha razionalizzato gli interventi ispettivi di tutti gli organi di vigilanza, compresi quelli degli istituti previdenziali, con attribuzione della direzione e del coordinamento operativo alle direzioni regionali e provinciali del lavoro sulla base delle direttive adottate dalla direzione generale per l’attività ispettiva. Allo stesso tempo, è stata disposta l’istituzione di una Commissione centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza[100] (che può essere convocata su iniziativa del Ministro del lavoro al fine di coordinare a livello nazionale l’attività di contrasto del lavoro irregolare), l’istituzione di una banca dati, la possibilità di costituire gruppi di intervento straordinario a livello regionale e l’adozione di un modello unificato di verbale per la rilevazione degli illeciti;

·      ha introdotto l’istituto della conciliazione monocratica (affidata alla Direzione provinciale del lavoro, tramite un proprio funzionario, anche con qualifica ispettiva) ed il nuovo istituto della diffida accertativa per crediti retributivi[101];

·      ha dettato una nuova disciplina dei poteri attribuiti al personale ispettivo in caso di inosservanza delle norme in materia di lavoro e legislazione sociale, prevedendo: un potere di diffida in caso di illeciti amministrativi; un potere di prescrizione in caso di contravvenzioni punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda ovvero con la sola ammenda; un potere di impartire disposizioni per l’applicazione di norme che richiedono un apprezzamento discrezionale;

·      ha previsto la facoltà, per le associazioni di categoria, gli ordini professionali, nonché gli enti pubblici, di inoltrare, esclusivamente per via telematica, alla Direzione generale per il coordinamento delle attività ispettive, quesiti di ordine generale sull’applicazione delle normative di competenza del Ministero del lavoro (cd. diritto di interpello). Tale facoltà è esercitabile solamente da soggetti pubblici e privati con valenza nazionale, cioè gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali, gli enti pubblici nazionali, nonché le organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative a livello nazionale e i consigli nazionali degli ordini professionali. L’adeguamento alle indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti mette al riparo i soggetti interpellanti dall’applicazione delle sanzioni penali, civili e amministrative;

·      ha introdotto, al fine della semplificazione dei procedimenti sanzionatori amministrativi, due nuove ipotesi di ricorso amministrativo: ricorso avverso le ordinanze-ingiunzioni non concernenti la qualificazione del rapporto di lavoro, su cui decide il direttore della direzione regionale del lavoro; ricorso avverso gli atti di accertamento e le ordinanze-ingiunzioni delle Direzioni provinciali del lavoro e avverso i verbali di accertamento degli istituti previdenziali ed assicurativi che abbiano ad oggetto la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro, su cui decide un comitato costituito ad hoc presso la Direzione regionale del lavoro. In entrambi i casi è comunque previsto il cd. silenzio-rigetto: dal mero decorso di un termine dalla proposizione del ricorso discende la reiezione dello stesso.

 

 

Le Agenzie governative: quadro normativo

 

Il decreto legislativo 300/1999 di riforma dell’organizzazione del Governo ha istituito diverse agenzie (tra cui le agenzie fiscali) provvedendo a definire alcune norme generali di disciplina in materia (artt. 8-10).

Le agenzie svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, attività in precedenza esercitate da amministrazioni ed enti pubblici. Il ricorso all'agenzia si rende opportuno in presenza di funzioni che richiedano particolari professionalità, conoscenze specialistiche e specifiche modalità di organizzazione del lavoro.

Le agenzie operano in condizioni di autonomia, nei limiti stabiliti dalla legge: dispongono di un proprio statuto; sono sottoposte al controllo della Corte dei conti ed al potere di indirizzo e vigilanza di un ministro; hanno autonomia di bilancio ed agiscono sulla base di convenzioni stipulate con le amministrazioni.

Organo apicale di ciascuna agenzia è il direttore generale nominato con le stesse modalità del capo dipartimento di un Ministero. L’incarico di capo dipartimento è conferito con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali prestabilite, art. 19, D.Lgs. /1652001).

Le agenzie sono disciplinate da statuti adottati con regolamenti di delegificazione (ex art. 17, co. 2 della L. 400/1988) emanati su proposta del Presidente del Consiglio e del ministro competente, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

I regolamenti sono addottati nel rispetto di una serie dettagliata di principi e criteri direttivi. Lo statuto deve prevedere, oltre al direttore generale, un comitato direttivo che lo coadiuva, un collegio dei revisori e un organo di controllo della gestione, e deve definire compiti e attribuzioni di tali organi. Inoltre, esso definisce le forme dell’autonomia di bilancio e di autorganizzazione, nel rispetto dei principi di efficienza e efficacia dell’amministrazione.

Alla dotazione di personale delle agenzie si provvede in primo luogo attraverso l’inquadramento del personale trasferito dai ministeri e dagli enti pubblici ai quali erano attribuite in precedenza le competenze conferite alle agenzie.

In subordine si procede mediante le procedure di mobilità e, a regime, attraverso procedure concorsuali.

Dal punto di vista dello status giuridico, il personale delle agenzie ha un trattamento differenziato. Il personale delle Agenzie fiscali ha un comparto di contrattazione apposito, mentre il personale delle altre agenzie istituite dal D.Lgs. 300 rientra nel comparto del personale dei Ministeri, ad eccezione dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente che fa parte del Comparto del personale delle Istituzioni e degli Enti di ricerca e sperimentazione (CCNQ definizione comparti 2006 – 2009, 11 giugno 2007.

Le fonti di finanziamento delle autorità sono sostanzialmente di tre tipi:

·           risorse trasferite dalle amministrazioni precedentemente investite dei compiti trasferiti alle agenzie;

·           introiti derivanti dai contratti stipulati con le amministrazioni a vario titolo (consulenza, collaborazione ecc.);

·           finanziamenti annuali disposti nella legge di bilancio.

Le agenzie previste dal D.Lgs. 300/1999 sono le seguenti:

§   Agenzia Industrie Difesa (art. 22);

§   Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (artt. 38 e 39);

§   Agenzia dei trasporti terrestri e delle infrastrutture (art. 44);

§   Agenzia per la formazione e l’istruzione professionale (art. 88);

§   Agenzie fiscali (art. 57):

-       Agenzia delle entrate;

-       Agenzia delle dogane e dei monopoli;

-       Agenzia del demanio.

 


 

Commi 8 e 9
(Delega al Governo per la tutela e la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro)

 

I commi 8 e 9 recano una delega al Governo per la revisione e l’aggiornamento delle misure intese a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

 

La delega va esercitata con uno o più decreti legislativi, da adottare entro 6 mesi, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto, per i profili di competenza, con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione.

 

Altri aspetti procedurali per l’esercizio della delega, applicabili a tutte le deleghe previste dal provvedimento, sono definiti all’articolo 6 (alla cui scheda si rinvia).

 

I principii ed i criteri direttivi per l'esercizio della delega sono:

 

 

Al riguardo si fa presente che la normativa vigente (testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151[102]) già prevede trattamenti di maternità per le lavoratrici subordinate, per le lavoratrici autonome (ivi comprese le libere professioniste) o titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

·        l'estensione alle lavoratrici madri "parasubordinate" del diritto alla prestazione di maternità anche in assenza del versamento dei contributi da parte del datore di lavoro (c.d. principio di automaticità della prestazione) (lettera b)).

 

Si segnala l’opportunità di prevedere che l’estensione del principio di automaticità delle prestazioni[103] operi anche a beneficio del lavoratore parasubordinato che abbia diritto all'indennità di paternità[104]. Inoltre, trattandosi di lavoratore parasubordinato, appare necessario sostituire l’espressione "datore di lavoro" con il termine "committente".

 

Al riguardo si ricorda che nel nostro ordinamento il principio generale dell'automatismo delle prestazioni previdenziali e assistenziali è sancito dall’articolo 2116 del codice civile[105], per cui le prestazioni spettano al lavoratore anche quando i contributi dovuti non siano stati effettivamente versati. Pur trattandosi di una regola di principio (che, secondo consolidata  giurisprudenza, trova applicazione a prescindere da qualsiasi richiamo esplicito, essendo semmai necessaria una disposizione esplicita per derogare al principio stesso[106]), essa tuttavia opererebbe per i lavoratori subordinati, ma non anche per i lavoratori iscritti alla Gestione separata INPS e per gli autonomi.

Con sentenza n. 941 del 12 dicembre 2013 il Tribunale di Bergamo ha però argomentato che se è vero che la non applicabilità del principio di automatismo delle prestazioni abbia una sua coerenza nei casi di rapporti di lavoro autonomo, come ad esempio per i professionisti (in questi casi, infatti, l'obbligo di pagamento della contribuzione previdenziale grava sui lavoratori stessi assicurati e sui quali ovviamente non può che ricadere la conseguenza dell'eventuale omesso versamento), nel caso di contratti di collaborazione coordinata e continuativa o di collaborazione a progetto, in cui tutta una serie di elementi (i contributi versati da parte del committente anche per la quota a carico del lavoratore, l’assimilazione ai fini fiscali dei redditi da collaborazione a quelli da lavoro dipendente e la mancanza di una modalità per costringere il committente a versare i contributi) prefigurano un sistema speculare a quello previsto per i lavoratori dipendenti, "la mancata applicazione del principio dell'automaticità delle prestazioni potrebbe costituire una violazione dell'art. 3 della Costituzione, trattando situazioni che allo stesso modo meritano tutela, in modo irragionevolmente diverso”. Sulla base di ciò, è stato ritenuto applicabile anche ai collaboratori coordinati e continuativi e a quelli a progetto iscritti alla gestione separata dell’INPS l’accreditamento automatico dei contributi previdenziali non versati dal committente.

 

Dal tenore letterale della disposizione non appare chiara l’effettiva portata normativa della disciplina che si intende introdurre. Occorrerebbe pertanto chiarire il rapporto tra l’introduzione dell’incentivo per l’occupazione femminile e la prevista “armonizzazione” delle detrazioni per il coniuge a carico; in particolare, se l’introduzione della predetta agevolazione per il lavoro femminile implichi una modifica dell’attuale regime delle detrazioni per il coniuge a carico, tale da diminuire la portata del vigente sistema di agevolazioni, per l’invarianza della spesa a carico dell’Erario.  Occorrerebbe altresì chiarire, con riferimento al fatto che l'introduzione del credito d'imposta, di fatto, potrebbe in alcuni casi sovrapporsi con le vigenti detrazioni per il coniuge a carico, l’operatività degli incentivi così introdotti: si pensi ai casi in cui un soggetto, pur percependo redditi (quali i redditi da lavoro), in ragione del basso livello degli stessi rimanga a carico del coniuge (anche ai fini del diritto di quest'ultimo alle corrispondenti detrazioni).,

 

 

Le detrazioni per carichi di famiglia: quadro della normativa vigente

 

I carichi di famiglia danno diritto a detrazioni dall’imposta lorda (IRPEF) di importo differenziato, sia in relazione al rapporto tra il contribuente e il soggetto a carico, sia in relazione al reddito percepito dal contribuente (nel senso che l’importo delle detrazioni si riduce all’aumentare del reddito). Tali agevolazioni spettano purché (ai sensi dell’articolo 12, comma 2 del Testo Unico delle Imposte sui redditi – TUI, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986) le persone alle quali si riferiscono non possiedano un reddito complessivo superiore a 2.840,51 euro.

I familiari per cui possono spettare le agevolazioni sono (giusto il richiamo all’articolo 433 del codice civile):

·           coniuge, figli e in loro mancanza i discendenti più prossimi;

·           genitori e, in loro mancanza, ascendenti più prossimi;

·           fratelli e sorelle;

·           suoceri, nuore, generi;

·           adottanti.

Per il coniuge e i figli la detrazione spetta se tali soggetti sono fiscalmente a carico, ancorché conviventi o residenti all’estero. Per gli altri familiari si prescrive che essi siano conviventi con il contribuente, ovvero che de da esso percepiscano assegni alimentari non risultanti da provvedimento dell’autorità giudiziaria (articolo 12, comma 1, lettera d) del TUIR).

 

La legge di stabilità 2013 (legge n. 228 del 2012, articolo 1, comma 483) ha innalzato l’importo delle detrazioni per figli a carico: è stata in particolare elevata da 800 a 950 euro la detrazione IRPEF per figli a carico di età pari o superiore a tre anni, da 900 a 1.220 euro quella prevista per ciascun figlio di età inferiore a tre anni, nonché dal 220 a 400 euro quella spettante per ciascun figlio portatore di handicap, con le conseguenti modifiche al citato articolo 12, comma 1, lettera c) del TUIR.

Resta fermo che, per i contribuenti con più di tre figli a carico, la detrazione è aumentata di 200 euro per ciascun figlio a partire dal primo;

La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 95.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 95.000 euro; in presenza di più figli l'importo di 95.000 euro è aumentato, per tutti, di 15.000 euro per ogni figlio successivo al primo .

L’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 15/E del 16 marzo 2007, ha chiarito che la detrazione spetta a prescindere dall’età del figlio e dalla convivenza con i genitori, nonché dalla eventuale circostanza che il figlio sia portatore di handicap.

La detrazione per i figli a carico è ripartita tra i genitori, non legalmente ed effettivamente separati, nella misura del 50 per cento ciascuno. E’ consentito, sulla base di un accordo tra i genitori, attribuire interamente la detrazione al genitore con un reddito complessivo di ammontare più elevato, in modo da permettere, in caso di incapienza di uno dei genitori, il godimento per intero delle detrazioni da parte del genitore fiscalmente capiente.

Nel caso di separazione legale ed effettiva o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, la detrazione, in mancanza di accordo, spetta al genitore affidatario del (o dei) figlio (figli). Nell’eventualità di un affidamento congiunto o condiviso, la detrazione è ripartita tra i genitori nella misura del 50 per cento ciascuno, in mancanza di diverso accordo.

E’ inoltre previsto, nell’ipotesi in cui il genitore affidatario o, in caso di affidamento congiunto, uno dei genitori affidatari, non possa usufruire, in tutto o in parte, della detrazione, per limiti di reddito, che la detrazione stessa è assegnata per intero all’altro genitore, il quale è tenuto a riversare al genitore affidatario l’intera detrazione o, in caso di affidamento congiunto, il cinquanta per cento, salvo diverso accordo.

Nel caso in cui un coniuge sia fiscalmente a carico dell’altro, la detrazione spetta a quest’ultimo per l’intero ammontare.

Infine, è statuito che per il primo figlio si applichino, se più convenienti, le detrazioni per il coniuge a carico non legalmente ed effettivamente separato, nei seguenti casi:

·      qualora l’altro genitore manchi o non abbia riconosciuto i figli nati fuori del matrimonio e il contribuente non sia coniugato o, se coniugato, si sia in seguito legalmente ed effettivamente separato;

·      qualora vi siano figli adottivi, affidati o affiliati del solo contribuente e questi non sia coniugato o, se coniugato, si sia successivamente legalmente ed effettivamente separato.

Tale misura costituisce dunque un’agevolazione per le famiglie monoparentali.

Ai fini del calcolo delle predette detrazioni, il reddito complessivo è assunto al netto del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e di quello delle relative pertinenze (articolo 12, comma 4-bis).

Il comma 1-bis dell’articolo 12 prevede un’ulteriore detrazione ove vi siano almeno quattro figli a carico, che ammonta a 1.200 euro.

Come già anticipato, anche le detrazioni per figli a carico (comma 2 dell’articolo 12) spettano a condizione che le persone alle quali si riferiscono non possiedano un reddito complessivo superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili. Le detrazioni sono rapportate a mese e competono dal mese in cui si sono verificate al mese in cui sono cessate le condizioni richieste (comma 3 dell’articolo 12).

Il comma 4 dell’articolo 12 del TUIR stabilisce che le detrazioni per carichi di famiglia spettano esclusivamente quando i rapporti contemplati nelle varie ipotesi sono numeri maggiori di zero e minori di uno. Se il rapporto è pari a zero, minore di zero o pari a uno le detrazioni non spettano.

Si ricorda che l’articolo 7, comma 2, lettera e) del D.L. 70/2011 ha sollevato i contribuenti dall’obbligo di presentare ogni anno al sostituto d’imposta la domanda contenente la richiesta delle detrazioni per carichi di famiglia unitamente alle condizioni di spettanza ed ai dati relativi ai familiari per i quali richiedono l’attribuzione del beneficio fiscale. L’adempimento deve essere effettuato, tempestivamente, soltanto al verificarsi di ogni variazione che rilevi ai fini del diritto a fruire delle predette detrazioni.

Si rammenta infine che l’articolo 1, comma 1 del D.L. n. 66 del 2014 dispone che, con la legge di stabilità per l'anno 2015 gli interventi strutturali di natura fiscale daranno priorità a misure che privilegino, con misure appropriate, il carico di famiglia e, in particolare, le famiglie monoreddito con almeno due o più figli a carico.

Per quanto riguarda le detrazioni per il coniuge a carico, il coniuge deve avere un reddito complessivo annuo non superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili.

L’ammontare della detrazione non è fisso, ma varia in funzione del reddito complessivo posseduto nel periodo di imposta. In sostanza, è prevista una detrazione (800 euro per i redditi fino a 15.000 euro, 690 euro per i redditi fino a 40.000 euro) sulla base della quale calcolare l’importo effettivo, il quale diminuisce all’aumentare del reddito[107].

Concretamente l’importo della detrazione per il coniuge a carico si aggira intorno ai 700 euro per i redditi fino a 40.000 euro. Per i contribuenti con un reddito di 8.000 euro la detrazione corrisponde a circa 740 euro. In corrispondenza di 35.000 euro di reddito la detrazione è di 720 euro. Al di sopra dei 40.000 euro di reddito la detrazione diminuisce progressivamente fino ad azzerarsi a 80.000 euro.

Di seguito una tabella esemplificativa:

 

 

Reddito lordo

Detrazione

8.000

740

15.000

690

35.000

720

40.000

60.000

75.000

690

345

86

 

 

La detrazione per gli altri familiari a carico (per ciascun familiare a carico e convivente) è ripartita pro quota tra coloro che hanno diritto alla detrazione. Anche in questo caso per calcolare la detrazione spettante, il cui importo diminuisce all’aumentare del reddito complessivo, occorre effettuare un’operazione sulla base della detrazione di 750 euro[108].

I familiari per cui possono spettare le agevolazioni sono genitori e, in loro mancanza, ascendenti più prossimi; fratelli e sorelle; suoceri, nuore, generi; adottanti. È necessario che siano conviventi con il contribuente ovvero che ne percepiscano assegni alimentari non risultanti da provvedimento dell’autorità giudiziaria (articolo 12, comma 1, lettera d) del TUIR).

·      l'incentivazione di accordi collettivi intesi a facilitare la flessibilità dell’orario di lavoro e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità di genitore, l’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro (lettera d));

 

 

Il telelavoro nella normativa vigente e nei contratti collettivi

 

Il telelavoro non si qualifica come un’autonoma tipologia contrattuale, quanto, piuttosto, come una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che, potendo anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa.

Il telelavoro può configurarsi come un’attività di lavoro autonomo, quando il telelavoratore fornisce servizi in piena autonomia; di lavoro parasubordinato, quando il telelavoratore presta la sua opera continuativamente nei confronti di un committente ma è comunque libero di organizzare la propria attività; di lavoro subordinato, quando, anche se in luogo diverso dalla sede dell’unità produttiva, il telelavoratore presta la sua attività alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, senza alcuna autonomia.

 

Nel settore privato il telelavoro è disciplinato, in recepimento dell’Accordo Quadro Europeo del 16 luglio 2002, dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2004, diretto a stabilire una regolamentazione generale a livello nazionale dell’istituto. Alla contrattazione collettiva è affidata la possibilità di adeguare od integrare i principi e i criteri definiti nell’Accordo.

L’Accordo prevede che il telelavoro consegua ad una scelta volontaria del datore di lavoro e del lavoratore interessati, e non incide sullo status del telelavoratore. Per quanto attiene alle condizioni di lavoro, inoltre, si dispone che il telelavoratore fruisca dei medesimi diritti, garantiti dalla legislazione e dal contratto collettivo applicato, previsti per un  lavoratore comparabile che svolge attività nei locali dell’impresa, nonché delle identiche tutele previste dalla normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

 

Nel settore pubblico, il telelavoro è disciplinato dal D.P.R. 8 marzo 1999, n. 70, recante il Regolamento di disciplina del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, a norma dell'articolo 4, comma 3, della L. 191/1998, e dall’Accordo-quadro del 23 marzo 2000. Anche per il settore pubblico è previsto che il ricorso al telelavoro debba consentire al lavoratore pari diritti ed opportunità rispetto ai lavoratori che operano in sede.

 In particolare, l’articolo 3, comma 2, del D.P.R. 70 stabilisce che il ricorso a forme di telelavoro avviene sulla base di un progetto generale in cui sono indicati: gli obiettivi, le attività interessate, le tecnologie utilizzate ed i sistemi di supporto, le modalità di effettuazione secondo principi di ergonomia cognitiva, le tipologie professionali ed il numero dei dipendenti di cui si prevede il coinvolgimento, i tempi e le modalità di realizzazione, i criteri di verifica e di aggiornamento, le modificazioni organizzative ove necessarie, nonché i costi e i benefici, diretti e indiretti.

Il progetto deve definire (articolo 3, comma 4) la tipologia, la durata, le metodologie didattiche, le risorse finanziarie degli interventi di formazione e di aggiornamento, anche al fine di sviluppare competenze atte ad assicurare capacità di evoluzione e di adattamento alle mutate condizioni organizzative, tecnologiche e di processo.

Ai sensi del successivo articolo 4, comma 1, del D.P.R. 70, l’Amministrazione assegna il dipendente al telelavoro sulla base di criteri previsti dalla contrattazione collettiva, che, fra l'altro, consentano di valorizzare i benefici sociali e personali del telelavoro.

Inoltre, l’articolo 3, comma 5, dell’Accordo-quadro dispone, nell'ambito di ciascun comparto, la facoltà, per la contrattazione, di disciplinare gli aspetti strettamente legati alle specificità del comparto e, in particolare: criteri generali per l'esatta individuazione del telelavoro rispetto ad altre forme di delocalizzazione; criteri generali per l'articolazione del tempo di lavoro e per la determinazione delle fasce di reperibilità telematica; forme di copertura assicurativa delle attrezzature in dotazione e del loro uso; iniziative di formazione legate alla specificità del comparto.

Il successivo articolo 4 stabilisce, nell'ambito dei progetti di telelavoro di cui all'articolo 3 del D.P.R. 70, che l'Amministrazione di riferimento deve assegnare, con specifiche procedure, posizioni di telelavoro ai lavoratori che si siano dichiarati disponibili a ricoprire dette posizioni, alle condizioni previste dal progetto, con priorità per coloro che già svolgano le relative mansioni o abbiano esperienza lavorativa in mansioni analoghe a quelle richieste, tale da consentire di operare in autonomia nelle attività di competenza.

Sono inoltre previsti particolari criteri di scelta da utilizzare in caso di richieste in esubero, e precisamente: situazioni di disabilità psico-fisiche tali da rendere disagevole il raggiungimento del luogo di lavoro; esigenze di cura di figli minori di 8 anni; esigenze di cura nei confronti di familiari o conviventi, debitamente certificate; maggiore tempo di percorrenza dall'abitazione del dipendente alla sede.

 

Da ultimo, il legislatore è intervenuto sulla materia con la L. 183/2011 (Stabilità 2012), articolo 22, comma 5, che reca alcune misure intese a favorire il ricorso al telelavoro, anche con specifico riferimento ai disabili e ai lavoratori in mobilità. In particolare, prevede:

·      che i benefici concessi dalla normativa vigente al fine di promuovere e incentivare azioni volte a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro (art.9, c. 1, lettera a), della L. 53/2000, possano essere riconosciuti anche in caso di telelavoro in forma di contratto a termine o reversibile;

·      che gli obblighi in materia di assunzioni obbligatorie e quote di riserva possano essere adempiuti anche utilizzando il telelavoro;

·      che fra le modalità di assunzione che possono costituire oggetto delle convenzioni di integrazione lavorativa (di cui all’articolo 11 della legge 68/1999[109]) sono incluse anche le assunzioni con contratto di telelavoro;

·      al fine di facilitare il reinserimento dei lavoratori in mobilità, che le offerte di lavoro ad essi rivolte comprendono anche ipotesi di attività lavorative in forma di telelavoro, anche reversibile.

·         l'eventuale riconoscimento, compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali ed alle ferie annuali retribuite, della possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi (rispetto a quelli previsti dalle norme statali) spettanti in base al contratto collettivo nazionale, in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessiti di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute (lettera e));

 

Il criterio di delega pare ispirarsi alla legislazione di recente approvata in Francia. Con la Legge n. 2014-459 del 9 maggio 2014 è stata introdotta, infatti,  la possibilità per un lavoratore dipendente di donare a un proprio collega ore o giorni di riposo o congedo ordinario da utilizzare per assistere il figlio malato.

La legge reca in particolare modifiche al Codice del lavoro, introducendo il nuovo paragrafo “Dono dei giorni di riposo ad un genitore di un figlio gravemente malato” (cfr. Code du travail, art. L1225-65-1 e L1225-65-2). Il nuovo art. L1225-65-1 del codice stabilisce che un lavoratore dipendente possa, su sua domanda e in accordo con il proprio datore di lavoro, rinunciare in modo anonimo e senza contropartita ad un intero “giorno di riposo” non goduto, o a parte di esso (ore), in favore di un altro dipendente della stessa impresa. I giorni o le ore donate possono essere comprese o meno in un “conto di risparmio del tempo” (compte épargne temps). Il dono può essere effettuato nei confronti di un dipendente che ha necessità di assistere un figlio di età inferiore ai 20 anni che è affetto da una malattia, o è portatore di handicap, ovvero vittima di un incidente di particolare gravità, e necessita pertanto di specifiche cure. Il dipendente donatore può offrire inoltre i propri giorni di congedo ordinario (congé payé), ma solo quelli in eccedenza rispetto ai 24 giorni lavorativi del congedo annuale di cui ha diritto. Il “dipendente beneficiario” dei giorni/ore di riposo o di congedo, donati da altri colleghi, ha diritto al mantenimento della retribuzione nel periodo della sua assenza dal lavoro per prestare le cure al figlio. Tale periodo è assimilato ad un periodo di lavoro effettivo per la determinazione dei suoi diritti di anzianità. Il dipendente conserva inoltre tutti i benefici acquisiti prima dell’inizio del suo periodo di assenza dal lavoro. Il nuovo art. L1225-65-2 del codice dispone poi che la particolare gravità della malattia, dell’handicap o dell’incidente del figlio del dipendente, unitamente all’indispensabilità di una presenza costante di una persona per la sua assistenza, siano attestati con certificato medico. Si rileva inoltre che l’art. 2 della legge n. 2014-459 prescrive che, mediante decreto, siano stabilite le condizioni di applicazione del nuovo dispositivo anche ai pubblici ufficiali civili e militari.

·      la promozione dell’integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia[110], forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali