Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Missione a Berlino (13-15 marzo 2016)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 221
Data: 11/03/2016
Descrittori:
BERLINO   GERMANIA
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari
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Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Missione a Berlino

(13-15 marzo 2016)

 

 

 

 

 

 

n. 221

 

 

 

11 marzo 2016

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi

 

Dipartimento Affari esteri

( 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

 

Segreteria Generale
Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 / 066760-2146 – * cdrue@camera.it

 

Servizio Rapporti Internazionali

( 066760-3948 – *  cdrin1@camera.it

 

La documentazione dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

File: es0455.docx

 


INDICE

 

Programma della Conferenza

Lista dei partecipanti alla Conferenza

Schede di lettura

Conferenza internazionale sull’antisemitismo

Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo  25

Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee  (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea) 39

L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti 47

Profili biografici (a cura del Servizio Rapporti Internazionali)

Norbert Röttgen Presidente della Commissione Affari esteri del Bundestag  59

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo  61

Pubblicistica

Nuovi aspetti dell’antisemitismo

§  K. Gebert ‘L’ebreo, il fantasma e lo specchio’, in: www.limesonline.com, n. 1, 2 gennaio 2014  67

§  A. Goldstein ‘Mort aux juifs’, ne: Il Mulino, n. 1/2015  67

§  Osservatorio antisemitismo ’Relazione sui principali episodi di antisemitismo in Italia nel 2014’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, n. 1, 3 marzo 2015  67

§  D. Assael ‘Dalle ‘radici giudaico-cristiane’ alle nuove intolleranze. Dove sta andando l’Europa?’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  P. F. Fumagalli ‘La croce e la torah’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  Osservatorio Antisemitismo. B. Guetta e L. Hassan, ’Antisemitismo: un pregiudizio multiforme’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, 14 dicembre 2015  67

I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

§  L. Baccaro ‘Le trasformazioni del capitalismo tedesco e la crisi dell’euro’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  G. D’Ottavio ‘La Germania e la crisi europea’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  C. Catalano ‘La Germania è l’anello debole dell’industria della difesa europea’, in: Cemiss (Centro militare di Studi strategici) Osservatorio Strategico, n. 9/2015, 71

§  U. Villani Lubelli ‘L’indennità nazionale tedesca 25 anni dopo la riunificazione’, in: Commentary ISPI, 3 ottobre 2015  71

§  U. Villani Lubelli ‘La discesa in campo della Germania nel conflitto in Siria’, in: Commentary ISPI, 9 novembre 2015  71

§  R. Perissich ‘Il complesso di Calimero e la demonizzazione della Germania’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  M. Dassù ‘Il compromesso possibile e necessario’, in: www.aspeninstitute.it, 30 gennaio 2016  71

§  M. Messori ‘Scontro italo-tedesco, il peso delle banche’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  E. Rusconi ‘Renzi-Merkel, le differenze possono convergere’, in: www.affarinternazionali.it, 1 febbraio 2016  71

§  R. Menotti e R. Pennisi ‘Il chiarimento italo-tedesco (visto dagli altri) e i problemi strutturali dell’Europa), in: www.aspeninstitute.it, 1 febbraio 2016  71

§  A. Ungaro ‘Difesa, il lungo risveglio di Berlino’, in: www.affarinternazionali.it, 22 febbraio 2016  71

Documentazione allegata

Dichiarazione di Londra - The London Declaration on Combating Antisemitism, Lancaster House, 17 February 2009  257

XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011  263

 

 

 


Programma della Conferenza


(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Lista dei partecipanti alla Conferenza


 

(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Schede di lettura

 


Conferenza internazionale sull’antisemitismo

 


 

(…)

 


Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo

 

Unione europea

Il principale strumento normativo europeo utilizzabile in chiave di contrasto all’antisemitismo è la decisione quadro 2008/913/GAI, del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.

La decisione quadro prevede il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari dei Paesi dell'UE per quanto riguarda i reati ispirati a talune manifestazioni di razzismo e xenofobia. Obiettivo della decisione quadro è che talune gravi manifestazioni di razzismo e xenofobia costituiscano reato in tutti i Paesi dell'UE e siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive.

La decisione quadro si applica ad ogni reato commesso:

·          sul territorio dell'Unione europea (UE), anche tramite un sistema di informazione;

·          da un cittadino di un Paese dell'UE o per conto di una persona giuridica avente sede in un Paese dell'UE. A tale riguardo, la decisione quadro propone criteri per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche.

Discorsi di incitamento all'odio

Sono considerati punibili, in quanto reati penali, determinati atti commessi, quali:

·          pubblico incitamento alla violenza o all'odio rivolto contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito sulla base della razza, del colore, l’ascendenza, la religione o il credo o l’origine nazionale o etnica;

·          il reato di cui sopra commesso mediante diffusione e distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale;

·          l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana in pubblico dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro.

Sono passibili di sanzione anche l'incitamento o la partecipazione nel commettere gli atti suddetti.

Riguardo a tali reati, i Paesi dell'UE devono stabilire:

·          sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive;

·          pene detentive della durata massima di almeno un anno.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, le sanzioni devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive, e devono comprendere ammende penali e non penali. Inoltre le persone giuridiche possono essere sanzionate mediante:

·          l' esclusione dal beneficio di agevolazioni o sovvenzioni pubbliche;

·          l'interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di un’attività commerciale;

·          il collocamento sotto sorveglianza giudiziaria;

·          il provvedimento di liquidazione giudiziaria.

L'avvio delle indagini o dell'azione legale per reati di razzismo e xenofobia non deve essere subordinato a una denuncia o un'accusa a opera della vittima.

 

Reati ispirati dall'odio

Quanto ai reati basati sull’odio, in ogni caso, la motivazione razzista o xenofoba deve essere considerata circostanza aggravante o, in alternativa, il tribunale deve poter considerare tale motivazione nel decidere quale sanzione infliggere.

 

Altri strumenti normativi

La  direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione (2000/78/CE)   la direttiva sull’uguaglianza razziale (2000/43/CE) sono due strumenti giuridici di cui l’UE dispone per combattere la discriminazione. Entrambe tutelano gli ebrei contro la discriminazione – sia essa fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (direttiva sulla parità di trattamento) o contro gli ebrei in quanto gruppo etnico (direttiva sull’uguaglianza razziale).

 

L’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea

L’Unione europea ha deciso nel 2007 l’istituzione dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA) in sostituzione del Centro europeo di monitoraggio del razzismo e della xenofobia (EUMC). L’Agenzia ha lo scopo di “fornire alle competenti istituzioni, organi, uffici e agenzie della Comunità e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti quando essi adottano misure o definiscono iniziative nei loro rispettivi settori di competenza”.

La FRA (e prima ancora l’EUMC) raccoglie dal 2000 con regolarità dati e informazioni riguardanti il razzismo e la xenofobia negli Stati membri dell’UE e, a partire dal 2002, ha stabilito un particolare focus sull’antisemitismo. La FRA ha pubblicato nell’ottobre 2015 un nuovo aggiornamento  del rapporto sull’antisemitismo in Europa (Anti-semitism – Summary overview of the situation in the EU 2004-2014). In esso son riportati i dati relativi a episodi di antisemitismo registrati negli Stati membri.

Nel novembre  2013 la FRA ha anche pubblicato i risultati di un’indagine sulle esperienze di discriminazione e di reati generati dall’odio subiti dagli ebrei degli Stati membri dell’Unione europea.

I risultati della ricerca presentati riguardano Belgio, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Lettonia, Svezia e Regno Unito, paesi in cui, nel complesso, si calcola risieda circa il 90% della popolazione ebraica europea. L’indagine è stata effettuata on-line nei mesi di settembre e ottobre 2012 e vi hanno partecipato circa 5.900 ebrei autocertificati.

Di seguito alcuni risultati della ricerca FRA.

Due terzi degli intervistati (66%) ritiene che l’antisemitismo sia un problema negli Stati membri dell’UE oggetto dell’indagine. Tre quarti degli intervistati (76%) sostengono che l’antisemitismo sia peggiorato negli ultimi cinque anni nel paese in cui vivono.

Nei 12 mesi precedenti l’indagine, il 26% di tutti gli intervistati ha vissuto un episodio o episodi di insulti verbali o molestie per il fatto di essere ebreo – il 4% ha subito violenza fisica o è stato minacciato di violenza.

Quasi un quarto (23%) degli intervistati ha dichiarato che evita almeno occasionalmente di assistere a eventi ebraici o di visitare luoghi ebraici perché non si sentirebbe al sicuro, in quanto ebreo, sul posto o durante il percorso per recarvisi. Oltre un quarto di tutti gli intervistati (27%) evita determinati luoghi nella propria zona o nel proprio quartiere, almeno di tanto in tanto, perché non si sentirebbe al sicuro in quanto ebreo.

Gli intervistati hanno dichiarato che, nei 12 mesi precedenti l’indagine, era più probabile che gli episodi di discriminazione antisemita si verificassero sul posto di lavoro (l’11% degli intervistati che stavano lavorando durante quel periodo aveva subito questo tipo di comportamento), o nella fase di ricerca del lavoro (il 10% degli intervistati che avevano cercato lavoro) o da parte di persone che lavorano in una scuola o in un centro di formazione.

Negli ultimi 12 mesi, più della metà di tutti gli intervistati (57%) ha sentito o visto qualcuno affermare che l’Olocausto era un mito o che era stato esagerato.

Quasi due terzi (64%) di coloro che hanno subito violenze fisiche o minacce di violenza non hanno segnalato l’episodio più grave alla polizia o ad altre organizzazioni.

 

Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo

Il 1° dicembre 2015 il Vicepresidente della Commissione europea e la Commissaria alla giustizia hanno nominato Katharina von Schnurbein Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo.

In tale occasione è stato nominato anche un Coordinatore per il contrasto all’odio contro i musulmani.

Compito principale di tale organismo è portare all’attenzione  del Vice-Presidente e della Commissaria le preoccupazioni delle comunità ebree. Il coordinatore funge dunque da punto di contatto per tali comunità e contribuisce a allo sviluppo della strategia della Commissione europea volta a contrastare i reati di odio, i discorsi di odio, l’intolleranza e  la discriminazione. Il coordinatore deve inoltre offrire un contributo alle politiche in materia di educazione e a quelle volte a contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento. L’organismo collabora con gli Stati membri, il Parlamento europeo, e altre istituzioni, e stabilisce collegamenti con la società civile e li mondo accademico.

 

Nazioni Unite

Lo strumento giuridico internazionale che ha costituito la pietra angolare sulla quale si sono fondati i successivi sviluppi della lotta all’antisemitismo e alle altre forme di discriminazione basate sulla razza è, come noto, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale fatta a New York il 7 marzo 1966[1].

La Convenzione ha previsto la creazione di un Comitato sull'eliminazione della Discriminazione Razziale (Committee on the Elimination of Racial Discrimination  - CERD), costituito presso l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU. Il CERD è un organo di monitoraggio che tutela l'applicazione della Convenzione attraverso lo studio dei rapporti degli Stati parte alla Convenzione. Gli Stati parte (173, attualmente) sono infatti tenuti a dare conto al Comitato - ogni due anni - delle misure adottate per rispettare gli obblighi derivanti dalla Convenzione. Il Comitato esprime il proprio parere su tali rapporti e formula raccomandazioni allo Stato interessato. Il Comitato può inoltre ricevere ricorsi individuali o anche inter-statali, ed ha incluso nella sua agenda una procedura di early warning volta a prevenire la degenerazione di situazioni a rischio.

Sempre nell’ambito delle Nazioni Unite, si ricordano le due risoluzioni dell’Assemblea generale (60/7 e 61/255 adottate, rispettivamente, nel 2005 e nel 2006) che affermano la centralità della commemorazione dell’Olocausto[2] nella prevenzione di ulteriori pericoli di genocidi e che condannano senza riserve qualunque forma di negazionismo.

E’ importante ricordare inoltre che la condanna dell’antisemitismo è contenuta nell’annuale risoluzione dell’Assemblea generale sull’eliminazione di tutte le forme di razzismo[3] e, a partire dal 2004, con l’adozione della risoluzione A/RES/59/199, Elimination of all forms of religious intolerance, anche nella risoluzione annuale sulle intolleranze religiose.

Si ricorda inoltre che il 24 gennaio 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è riunita in una Sessione speciale per commemorare il 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti nella quale più di quaranta oratori hanno preso la parola per riaffermare e dimostrare che l’Olocausto costituisce un vero e proprio iato nel percorso della civiltà.

Tra i numerosi organi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, si ricorda in questa sede il Consiglio per i Diritti Umani per il ruolo che ha ricoperto nella realizzazione della Conferenza di Revisione (Durban II, aprile 2009) della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza collegata a questi fenomeni.

Come è noto, la Conferenza è stata disertata dall’Italia e da numerosi Stati – tra i quali Canada, Germania, Paesi Bassi e Stati Uniti – che, in disaccordo con la bozza di dichiarazione finale, hanno deciso di ritirarsi dai negoziati in corso a Ginevra, per i toni antisemiti che trasparivano nella bozza di documento finale.

In un comunicato ufficiale del Ministero degli Affari esteri del 17 marzo 2009,  iI capo della diplomazia italiana motivava la decisione del ritiro stigmatizzando le le frasi antisemite contenute nella proposta di documento finale

“Come nel 2001 – si legge nel comunicato - di nuovo la questione israelo-palestinese fa capolino in diversi paragrafi del documento in discussione. Il documento negoziato sinora parla di “politica di discriminazione razziale nei confronti della popolazione palestinese”. Israele viene definita responsabile di praticare l’apartheid, la tortura e numerosi atti criminali che sarebbero in contrasto con i diritti umani. In definitiva, addirittura una ‘minaccia per la pace e la sicurezza internazionale’. il documento sinora negoziato contiene anche riferimenti alla questione della ‘diffamazione religiosa’. Esistono già le Convenzioni internazionali contro il razzismo. Occorre adoperarsi affinché siano pienamente applicate. Il governo italiano ritiene invece inopportuno parlare di ‘standard aggiuntivi’, che di fatto mirano ad introdurre nuovi limiti alla libertà di espressione nell’ ipotesi che sia una religione ad essere ‘diffamata’. La libertà di espressione è uno dei valori fondamentali della nostra civiltà e della nostra cultura giuridica, secondo la quale sono gli individui, non le religioni, ad essere titolari di diritti.”

 Va senz’altro segnalata la riunione straordinaria tenuta dall’Assemblea generale dell’ONU il 22 gennaio 2015, e dedicata per la prima volta proprio all’incremento di violenze antiebraiche in diverse aree del mondo, inclusi naturalmente i numerosi episodi di terrorismo con obiettivi ebraici. Il Segretario generale Ban Ki-moon ha indirizzato un videomessaggio alla riunione mentre si trovava a Davos, per sostenere la necessità di combattere con fermezza queste nuove forme di antisemitismo, proprio sulla base del fatto che una delle missioni delle Nazioni Unite risiede nel prevenire nuove mostruosità come la Shoah.    

Per l'Italia, ha affermato nel suo intervento l'ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente al Palazzo di Vetro, sussiste “la necessita' di rafforzare l'opposizione internazionale a ogni forma di razzismo, antisemitismo, xenofobia e intolleranza, e allo stesso tempo promuovere la tutela di diritti fondamentali quali la liberta' di espressione, opinione e associazione". "Dobbiamo condannare con chiarezza e all'unanimita' ogni atto di antisemitismo e le sue radici ideologiche, ma dobbiamo anche condurre una battaglia culturale contro ogni forma di intolleranza, per favorire il rispetto dell'identita' religiosa e ridurre il rischio di violenza", ha proseguito Cardi, ribadendo che il governo italiano "ha da tempo fatto di questa battaglia una priorita'".

 

Consiglio d’Europa

La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) è un organismo di monitoraggio indipendente del Consiglio d’Europa specializzato nel campo della lotta contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza, dalla prospettiva del rispetto dei diritti umani.

L’istituzione dell’ECRI è stata prevista dal primo summit dei Capi di Stato e di governo dei paesi membri del Consiglio d’Europa nel 1993; nel giugno 2002 il Comitato dei ministri del CdE ha adottato uno statuto autonomo per l’ECRI, in tal mondo accentuando il suo carattere di organismo indipendente.

Tra le funzioni dell’ECRI vi sono: l’esame della legislazione, delle politiche e delle altre misure adottate dagli stati membri del CdE per combattere il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e le altre forme di intolleranza; la proposta di ulteriori azioni a livello locale, nazionale ed europeo; la formulazione di raccomandazioni agli Stati membri; l’analisi degli strumenti giuridici internazionali in vista di loro possibili rafforzamenti.

Di rilievo in ambito del Consiglio d’Europa, la Raccomandazione dell’ECRI n. 9 (Raccomandazione di politica generale n° 9: la lotta contro l’antisemitismo),  adottata il 25 giugno 2004, il primo strumento giuridico europeo su questo specifico soggetto, che esorta tutti gli Stati membri a combattere con forza le nuove forme di antisemitismo.

Anche nell’ultimo Rapporto sull’Italia, approvato nel dicembre 2011, l’organismo del CdE sottolinea come  sebbene in teoria la legge Mancino permetta di sanzionare i siti internet in Italia il cui contenuto costituisce un incitamento all’odio, spesso tali siti sono ospitati all’estero e sono pertanto più difficili da combattere. Al riguardo, l’ECRI attira l’attenzione delle autorità sulle raccomandazioni formulate precedentemente, miranti a rafforzare le misure per combattere il razzismo su internet”.

Si segnala infine che è attualmente all’esame delle Commissioni riunite Giustizia ed Affari esteri, in sede referente, il disegno di legge A.C. 3508, di ratifica ed esecuzione del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla criminalità informatica, relativo all'incriminazione di atti di natura razzista e xenofobica commessi a mezzo di sistemi informatici, adottato proprio nell’ambito del Consiglio d’Europa il 28 gennaio 2003 e sottoscritto dall’Italia il 9 novembre 2011.

 

 

OSCE

Gli Stati membri dell’OSCE hanno condannato l’antisemitismo in numerose occasioni a partire dalla Conferenza sulla Dimensione Umana della CSCE[4] del 1990. In seguito, il 4° meeting del Consiglio dei ministri della CSCE riunito a Roma nel 1993 ha riconosciuto l’antisemitismo come una minaccia non solo nei confronti del popolo ebraico, ma anche per la stabilità internazionale.

Si sono poi susseguiti altri Consigli dei ministri[5], nei quali è stata assunta la decisione di agire per fronteggiare l’aumento degli episodi di antisemitismo, nella convinzione  che combattere tale fenomeno debba far parte dei compiti di tutte le forze democratiche. Una prima Conferenza ad alto livello sull’antisemitismo si è svolta a Vienna nel giugno 2003, cui ha fatto seguito la Conferenza di Berlino del 2004 che condanna in maniera risoluta l’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni.

Il 13 e 14 novembre 2014, dieci anni dopo la conferenza di Berlino, l’OSCE ha promosso nella capitale tedesca una nuova conferenza sul tema nel corso della quale il presidente di turno dell’Organizzazione, Didier Burkhalter, ha espresso riconoscimento per le misure varate negli ultimi dieci anni, come, per esempio, la designazione di un rappresentante dell’OSCE per la lotta contro l’antisemitismo e i programmi di formazione finalizzati ad aumentare la consapevolezza del pericolo rappresentato dai sentimenti antiebraici. Al tempo stesso egli.ha chiesto che episodi e accuse di matrice antisemita siano esplicitamente definiti come tali e venga chiaramente sottolineato che non sono tollerati. L’esponente politico elvetico ha inoltre sottolineato che la critica nei confronti di sviluppi politici, per esempio in Israele, non deve essere strumentalizzata come pretesto per dichiarazioni o atti antisemiti.

 


L’introduzione dell’aggravante di “negazionismo”

nell’ordinamento penale italiano

 

L'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato con modificazioni, il 13 ottobre 2015, la proposta di legge A.C. 2874 , già approvata dal Senato, concernente il contrasto e la repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. In particolare, la proposta introduce l'aggravante di negazionismo, riferita a reati di discriminazione previsti dalla c.d. legge Mancino. La proposta di legge è ora al Senato.

L'articolo unico della proposta di legge approvata dalla Camera modifica la c.d. legge Mancino.

Attualmente, in base alla legge Mancino è punito con la pena della reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' poi punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' inoltre vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: ne è sanzionata con pene detentive la partecipazione (da sei mesi a quattro anni) e la promozione o direzione (da uno a sei anni).

La proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati prevede una specifica aggravante nei casi in cui la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale, tenendo conto dei fatti accertati con sentenza passata in giudicato dalla giustizia internazionale o da atti di organismi internazionali e sovranazionali di cui l'Italia è membro.

Nel corso della discussione, la Camera dei deputati ha invece soppresso le disposizioni, contenute nel testo approvato dal Senato, in base a cui:

·         veniva modificato il reato di istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già previsto dalla legge "Mancino"; la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il reato di istigazione a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni; anche in questo caso, la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il codice penale, con la riduzione da cinque a tre anni di reclusione del limite massimo di pena previsto per il reato di istigazione a commettere un delitto.

 


Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

 


(…)

 


La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 18-19 febbraio scorso s’individuano anzitutto  i seguenti obiettivi: contenere rapidamente i flussi migratori; proteggere le frontiere esterne UE; ridurre la migrazione irregolare, e salvaguardare l’integrità dello spazio Schengen. Secondo tale approccio il Consiglio europeo ha valutato lo stato di attuazione degli orientamenti convenuti a dicembre.

Secondo Frontex, l’Agenzia europea per il coordinamento della sorveglianza delle frontiere esterne dell’UE, nel 2015 sono stati rilevati 1,83 milioni attraversamenti irregolari di migranti, a fronte dei 283.500 nell’anno precedente. Solo in Grecia nel 2015 sarebbero arrivate 880 mila persone; in Italia circa 170 mila. Il dato dei flussi migratori in Italia evidenzia una flessione di circa l’8 per cento rispetto al numero dei migranti nel 2014: tale diminuzione dovrebbe rappresentare l’effetto indiretto dell’incremento dei flussi che attraversano il Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia) e che raggiungono l’Europa tramite i Balcani occidentali.

L’aumento dei flussi provenienti dalla Turchia verso la Grecia e lungo la rotta dei Balcani occidentali potrebbe, tra l’altro, essere stato determinato dal rafforzamento dei controlli effettuati lungo le frontiere marittime del Mediterraneo centrale. In particolare, si tratta della missione EUNAVFOR MED – SOPHIA, istituita al fine di contrastare i trafficanti di migranti che utilizzano la rotta dalla Libia all’Italia.

In base alle stime dell’OIM – Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono oltre 76 mila i migranti e i rifugiati arrivati via mare in Grecia e in Italia tra l'1 gennaio e il 7 febbraio 2016: Grecia e Italia avrebbero registrato rispettivamente 70.365 e 5.898 arrivi. Nel corso dei primi due mesi del 2015, la Grecia aveva registrato solo 3.952 arrivi di migranti via mare, l'Italia 7.882 Secondo Eurostat, nel terzo trimestre 2015, sono state presentate nell’Unione europea 430 mila domande di protezione di cui 413 mila di prima istanza (ovvero domande nuove di protezione internazionale). A settembre 2015 nell’UE erano pendenti oltre 800 mila domande di asilo.

Gli orientamenti adottati nel Consiglio europeo del 17-18 dicembre 2015 delineano una serie di impegni per gli Stati membri e le Istituzioni europee volti a una migliore gestione della crisi dei migranti.

Si tratta, tra l’altro, di: colmare le lacune nella gestione delle frontiere esterne; porre rimedio alle carenze nel funzionamento degli hotspot; garantire l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali in maniera sistematica e completa, adottare misure per contrastare il rifiuto di registrazione; attuare le decisioni di ricollocazione, e considerare l'eventualità di includere tra i beneficiari delle decisioni in vigore altri Stati membri in situazione di forte pressione che ne abbiano fatto richiesta; adottare misure concrete per garantire il rimpatrio e la riammissione effettivi delle persone non autorizzate a soggiornare; potenziare le misure per la lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani; garantire l'attuazione e il seguito operativo alla Conferenza ad alto livello sulla rotta del Mediterraneo orientale/dei Balcani occidentali, al vertice di La Valletta, in particolare per quanto riguarda i rimpatri e la riammissione; e al piano d'azione UE-Turchia.

Al riguardo, merita rilevare che nel settembre del 2015 il Consiglio aveva adottato due programmi temporanei di ricollocazione concernenti 160 mila richiedenti asilo; secondo i programmi, dovrebbero essere redistribuiti rispettivamente da Grecia e Italia 66.400 e 39.600 richiedenti asilo. Alla data del 15 febbraio è stata effettuata la ricollocazione di sole 295 persone dalla Grecia e 288 dall’Italia. Tale lentezza nell’attuazione dei programmi di relocation sconta le resistenze da parte di molti Stati membri, alcuni dei quali si sono addirittura rifiutati di aderire al programma.

 

L’intervento della NATO

Il Consiglio europeo ha accolto con favore la decisione della NATO di fornire assistenza nelle attività di ricognizione, controllo e sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo ed esorta tutti i membri della NATO a sostenere attivamente questa misura. Secondo il Consiglio europeo, l'UE (in particolare Frontex) dovrebbe cooperare strettamente con la NATO.

L’11 febbraio 2016 la NATO, su richiesta congiunta di Germania, Grecia e Turchia, ha avviato una missione navale nel Mar Egeo, con il compito di condurre la ricognizione, il monitoraggio e la sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo (v. scheda di lettura specifica).

 

Iniziative in materia di rimpatrio e di riammissione

Con riferimento alle relazioni con i paesi terzi, le Conclusioni del Consiglio europeo prevedono il pieno sostegno, da parte dell’UE e degli Stati membri, ai pacchetti di incentivi globali e su misura, attualmente in fase di sviluppo per determinati paesi al fine di garantire rimpatri e riammissioni efficaci.

Il riferimento è, in primo luogo, al Vertice sulla migrazione di La Valletta dell’11 e 12 novembre 2015 cui hanno partecipato, tra l’altro, i capi di Stato e di Governo dell'Unione europea e dei Paesi africani parti del processo di Khartoum (in particolare i Paesi del Corno d'Africa e l’Egitto) e del processo di Rabat (gli Stati delle regioni dell’Africa settentrionale, occidentale e centrale).

In esito al Vertice è stato lanciato un Fondo fiduciario d'emergenza dell'Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa con una dotazione di 1,8 miliardi di euro finanziato in parte dal bilancio UE e in parte da contributi degli Stati membri. Il Fondo dovrebbe sostenere, tra l’altro, programmi di sviluppo in quelle aree dell’Africa di origine e di transito dei migranti verso l’UE (Sahel, Corno d’Africa, Africa del Nord). Per quanto riguarda la cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione, su sollecitazione dei paesi africani, il Vertice ha sostanzialmente accordato la preferenza ai rimpatri volontari; il Vertice ha inoltre discusso della possibilità di stabilire un collegamento tra gli accordi di riammissione con i paesi africani e gli accordi di facilitazione del rilascio dei visti, nonché di misure volte a sostenere un'effettiva riammissione dei migranti irregolari nei Paesi di origine.

 

 

Aiuti alla popolazione siriana

Si ricorda che in esito alla Conferenza internazionale dei donatori per gli aiuti alla Siria, voltasi a Londra lo scorso 4 febbraio, l'Unione europea e gli Stati membri hanno promesso per il 2016 più di 3 miliardi di euro in assistenza al popolo siriano in Siria, ai rifugiati e alle comunità che li ospitano nei Paesi limitrofi. Con questo impegno si è sostanzialmente triplicato il sostegno che l'UE aveva offerto in occasione della precedente conferenza dei donatori tenutasi il 31 marzo 2015 in Kuwait; la somma si aggiunge ai 5 miliardi di euro che l'UE ha già impegnato in risposta alla crisi umanitaria siriana.

L’Italia si è impegnata a stanziare 400 milioni di euro. Secondo le stime dell’Unione europea negli ultimi cinque anni la guerra in Siria ha provocato più di 250 mila vittime, per lo più civili, e più di 18 milioni di persone hanno bisogno di assistenza , 13,5 milioni dei quali all'interno della Siria. Gli sfollati interni sarebbero 6,5 milioni mentre 4,6 milioni di persone sarebbero fuggite principalmente in Libano, Giordania e Turchia. In particolare in Turchia si sono riversati nel 2015 circa 2,5 milioni di profughi.

Per quanto riguarda l’assistenza per i  rifugiati siriani ospitati in paesi limitrofi , l’UE ha finora

stanziato 583 milioni di euro in Giordania, 552 milioni di euro in Libano, 104 milioni di euro in Iraq, 352 milioni di euro in Turchia. Inoltre nel novembre 2015 il Consiglio europeo, nell’ambito di un accordo più generale UE-Turchia (vedi infra) ha deciso lo stanziamento aggiuntivo di 3 miliardi per il sostegno ai rifugiati siriani da parte della Turchia. Lo stanziamento è ripartito in 1 miliardo a carico del bilancio dell’UE e 2 miliardi a carico dei bilanci nazionali. La quota italiana, dovrebbe essere pari ad una quota del’11,25% corrispondente a circa 225 milioni di euro.

 

La rotta dei Balcani occidentali

Secondo il Consiglio europeo la questione dei continui e intensi flussi migratori irregolari lungo la rotta dei Balcani occidentali richiede un’ulteriore azione concertata e un termine all’atteggiamento permissivo e ai provvedimenti non coordinati lungo tale rotta. Nella Conclusioni si pone inoltre in rilievo la necessità di restare vigili quanto ai potenziali sviluppi lungo le rotte alternative.

Nel 2015 Frontex ha rilevato circa 760 mila attraversamenti irregolari alle frontiere UE lungo la rotta cosiddetta dei Balcani occidentali (la maggior parte dei migranti che percorrono questa rotta, dopo essere entrati in Grecia, attraversano l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e la Serbia per approdare in Ungheria e in Croazia, spesso con l’ulteriore proposito di raggiungere Austria, Germania e i Paesi scandinavi. La maggior parte dei migranti lungo questa rotta è di origine siriana, afgana ed irachena.

L’ingente aumento di tale flusso di migranti ha indotto alcuni Stati dell’area Schengen a reintrodurre i controlli alle frontiere interne applicando le relative disposizioni del Codice frontiere Schengen.

Si tratta, tra gli altri, di Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, e Germania. Tale reintroduzione, in base agli articoli 23-25 del Codice Schengen, può protrarsi fino a sei mesi; tuttavia in occasione del Consiglio informale giustizia e affari interni del 25-26 gennaio 2016 alcuni Stati membri hanno chiesto di approfondire l’eventualità di estendere la misura fino a due anni, in applicazione della procedura ex articolo 26 del codice Schengen. Tale strumento prevede che in caso di circostanze eccezionali in cui il funzionamento globale dello spazio senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio a seguito di carenze gravi e persistenti nel controllo di frontiera alle frontiere esterne, a seguito di raccomandazione del Consiglio, gli Stati membri rispristinino i controlli a alle frontiere interne per un periodo che può essere prorogato fino a due anni.

L’eventuale reintroduzione di controlli alle frontiere interne fino a due anni da parte degli Stati membri esposti alla rotta balcanica potrebbe spostare i flussi di migranti tra i diversi canali di ingresso in Europa. In particolare, non è da escludere che il tentativo di ostacolare i movimenti secondari che partono dalla Grecia per giungere nell’Europa centrale e settentrionale possa indurre a riprendere la rotta del Mediterraneo centrale che comporterebbe l’approdo in Italia di un numero più consistente di migranti.

 

La valutazione Schengen sulla Grecia

Il Consiglio europeo richiama la raccomandazione del Consiglio del 12 febbraio 2016 sull’applicazione dell’acquis di Schengen per quanto concerne la gestione delle frontiere esterne.

Secondo le Conclusioni, tutti gli Stati membri dello spazio Schengen sono tenuti ad applicare appieno il codice frontiere Schengen e a respingere “alle frontiere esterne i cittadini di paesi terzi che non soddisfano le condizioni d'ingresso o che non hanno presentato domanda d'asilo sebbene ne abbiano avuto la possibilità, tenendo conto al tempo stesso delle specificità delle frontiere marittime, anche con l'attuazione dell'agenda UE-Turchia”.

Si ricorda che in applicazione del regolamento (UE) n. 1053/2013 del Consiglio, che istituisce un meccanismo di valutazione e di controllo per verificare l’applicazione dell’acquis di Schengen, nel novembre 2015, una squadra composta da esperti degli Stati membri e della Commissione ha valutato (mediante visita di valutazione sul campo e senza preavviso), l'attuazione dell'acquis di Schengen nel settore della gestione delle frontiere esterne da parte della Grecia.

In esito a tale valutazione, la Commissione il 2 febbraio 2016 ha adottato una relazione in cui sono state messe in luce gravi carenze da parte della Grecia nello svolgimento dei controlli alle frontiere esterne.

In seguito, in applicazione dell’articolo 15 del citato regolamento, il Consiglio del 12 febbraio 2016 ha adottato una decisione recante raccomandazioni volte alla correzione delle gravi carenze individuate nel corso della valutazione e a garantire che la Grecia applichi in modo corretto ed efficace tutte le norme Schengen relative alla gestione delle frontiere esterne.

Tra le raccomandazioni più rilevanti si segnalano: il miglioramento delle procedure di registrazione e raccolta delle impronte digitali dei migranti e il loro inserimento nella banca dati Eurodac, l’accelerazione delle procedure di rimpatrio delle persone che non hanno diritto all’asilo o che non hanno fatto richiesta di protezione; l’adozione di misure per migliorare l’attività di sorveglianza delle frontiere marittime anche attraverso il rafforzamento della guardia costiera con l’impiego di un sufficiente numero di imbarcazioni; il rafforzamento della cooperazione con Turchia e Bulgaria circa la sorveglianza dei confini comuni terrestri.

Si segnala che in applicazione dell’articolo 19b del Codice frontiere Schengen, ove la Grecia non dovesse sanare, entro tre mesi, le gravi carenze nel funzionamento dello spazio Schengen sotto il profilo del controlli alle frontiere esterne UE messe in evidenza nella relazione Schengen, la Commissione europea potrebbe attivare la procedura di cui all’articolo 26 del Codice frontiere Schengen, proponendo al Consiglio l’adozione di raccomandazioni agli Stati membri (in particolare quelli esposti alla cosiddetta rotta dei Balcani occidentali) intese alla reintroduzione dei controlli alle frontiere interne per un periodo prorogabile fino a due anni, in modo tale da diminuire il rischio dei cosiddetti movimenti secondari dei migranti non aventi diritto a rimanere sul territorio dell’UE.

 

Lo stato di attuazione dei punti di crisi

Il Consiglio europeo ha rilevato che con l'assistenza dell'UE, la creazione e il funzionamento dei punti di crisi in Italia e Grecia sono in graduale miglioramento per quanto concerne l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali; il Consiglio europeo pone l’accento sulla necessità di ulteriori progressi nei seguenti settori: rendere pienamente operativi gli hotspot; impedire i movimenti secondari di migranti irregolari e di richiedenti asilo; migliorare sotto il profilo delle condizioni umane le strutture di accoglienza che ospitano i migranti in attesa di accertamento del loro status.

Il Consiglio europeo sottolinea al contempo il fatto che i richiedenti asilo non hanno il diritto di scegliere lo Stato membro in cui chiedere protezione internazionale.

Il 10 febbraio 2016 la Commissione europea ha pubblicato la relazione sullo stato di attuazione delle misure da parte di Italia e Grecia ed in particolare delle raccomandazioni emanate nel dicembre 2015. Secondo tale rapporto in Italia sono stati programmati sei hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta e Taranto), ma allo stato sarebbero pienamente operativi solo i due punti di crisi di Lampedusa e Pozzallo. Notevoli progressi sono inoltre stati fatti per quanto riguarda la raccolta delle impronte digitali dei migranti: secondo la Commissione europea dal 36 per cento nel settembre 2015 il dato è salito all’87 per cento nel gennaio 2016, mentre in occasione degli ultimi sbarchi il fingerprinting negli hotspot si sarebbe avvicinato al 100 per cento. La Commissione stima che, resi pienamente operativi tutti i punti di crisi, questi dovrebbero avere la capacità di rilevare le impronte digitali di circa 2.160 persone al giorno.

Il 10 dicembre 2015 la Commissione ha avviato una procedura di infrazione (con lettera di costituzione in mora) nei confronti dell’Italia, insieme a Grecia e Croazia, invitandola ad attuare correttamente il Regolamento n. 603/2013 Eurodac per l’effettivo rilevamento delle impronte digitali dei richiedenti asilo e la trasmissione dei dati al sistema centrale.

Nel rapporto si sottolinea, tra l’altro, la necessità di aumentare la capacità dei centri di identificazione ed espulsione e di prolungare il periodo di detenzione amministrativa (nell’ambito del limite massimo di 18 mesi consentito dalla direttiva rimpatri) in tali centri in modo da assicurare che le procedure di rimpatrio siano completate con successo ed evitare che i rimpatriandi siano lasciati liberi e facciano perdere le loro tracce.

Le Conclusioni del Consiglio europeo sottolineano come s’imponga un'azione urgente per rendere meno critica la situazione umanitaria dei migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali mediante il ricorso a tutti gli strumenti dell'UE e nazionali disponibili. A questo scopo il Consiglio europeo ritiene necessario dotare l'UE della capacità di fornire aiuti umanitari in cooperazione con organizzazioni come l'UNHCR, a livello sia interno che esterno, per sostenere i paesi che fanno fronte a un elevato numero di rifugiati e migranti.

 

La Guardia costiera e di frontiera europea

Il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di accelerare i lavori al fine di raggiungere un accordo politico durante il semestre di Presidenza olandese del Consiglio dell’Unione europea per quanto concerne la proposta relativa all’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea.

Con la proposta di regolamento COM(2015)671, adottata dalla Commissione europea il 15 dicembre 2015, si prevede in particolare l’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea e la previsione di un nuovo quadro giuridico rafforzato di Frontex che prenderà il nome di Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera. La nuova guardia costiera e di frontiera dovrebbe avere a disposizione una squadra di riserva rapida di almeno 1500 esperti, e un parco di attrezzature tecniche messo a disposizione dagli Stati membri cui l’agenzia dovrebbe poter attingere autonomamente. È previsto che in seno all’Agenzia sia istituito un centro di monitoraggio e analisi dei rischi per controllare i flussi migratori verso l’Unione europea e al suo interno. In particolare tale centro dovrà svolgere valutazioni di vulnerabilità volte ad individuare i punti deboli alle frontiere UE. Inoltre, secondo la proposta, gli Stati membri potranno richiedere operazioni congiunte e interventi rapidi alle frontiere, nonché il dispiegamento di squadre della guardia costiera e di frontiera europea a sostegno di tali operazioni e interventi.

In caso di persistenza delle carenze o di ritardo o inadeguatezza dell'azione nazionale qualora uno Stato membro sia sottoposto a una forte pressione migratoria che rappresenti una minaccia per lo spazio Schengen, la Commissione dovrebbe poter adottare una decisione di esecuzione per stabilire che la situazione in un particolare tratto delle frontiere esterne richiede un intervento urgente a livello europeo. Ciò dovrebbe permettere all'Agenzia di intervenire, dispiegando le squadre della guardia costiera e di frontiera europea, per assicurare l'azione sul campo anche quando uno Stato membro non può o non vuole adottare le misure necessarie.

La proposta prevede infine il rafforzamento del mandato dell’Agenzia per quanto riguarda le attività di rimpatrio.

 

 

 

Il Vertice UE-Turchia

Il 7 marzo scorso, i Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea si sono riuniti con il Primo ministro turco Davutoglu, dando seguito all'analogo Vertice del 29 novembre 2015 e alla Dichiarazione ivi approvata e discutendo in particolare della situazione in materia di migrazione, con riferimento alla rotta dei Balcani occidentali. A conclusione della riunione è stata approvata una nuova Dichiarazione nella quale Unione europea e Turchia convengono, tra l'altro, sulla necessità di "far rientrare, a spese dell'Unione, tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche"; di assicurare che, "per ogni siriano che la Turchia riammette dalle isole greche, un altro siriano sia reinsediato dalla Turchia negli Stati membri dell'UE"; di accelerare l'erogazione dei 3 miliardi di euro inizialmente stanziati e di prendere una decisione "in merito a un ulteriore finanziamento destinato allo strumento per i rifugiati siriani"; di "prepararsi alla decisione di aprire quanto prima nuovi capitoli dei negoziati di adesione con la Turchia". Spetterà al Presidente del Consiglio europeo portare avanti tali proposte e definirne i dettagli con la controparte turca "prima del Consiglio europeo di marzo"

 

 


L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti[6]

Il 13 settembre, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non seguiva per lungo tempo l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie candidature.

Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei dintorni del Medical Center di Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa provocava accuse alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese. Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.

 

La posizione del Governo italiano di fronte alle ipotesi d’intervento internazionale in Libia

L’Italia non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.

Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon.

Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.

Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominano Tripoli definiva l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.

Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri dell’Unione europea -, e gli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar ed altri.

Il 19 ottobre il parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava  recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima.

Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti della dialogo proposto dall’ONU.

Nel prolungarsi dello stallo negoziale libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi (conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione accuratamente pianificata dal Pentagono.

Il ruolo oggettivamente preminente dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla la firma diretta dell’intesa.

Tale impostazione era il frutto anche del nuovo approccio del mediatore delle Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.

 

L’accordo di Skhirat

La Conferenza di Roma si dimostrava un passo decisivo, e finalmente il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. Al Consiglio di presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità libiche.

Il giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale si sollecita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dall’ISIS o da al-Qaida.

 

I tentativi per la creazione di un esecutivo di unità nazionale

In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari. Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi, dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione anti-ISIS, ribadiva la disponibilità dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia, purché richieste in tal senso vengano dalle autorità di quel paese e purché il processo di stabilizzazione venga operato congiuntamente dall’Italia e dai suoi alleati.

Tuttavia cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di ministri. Un’altra mozione, inoltre, votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk,  ha bloccato anche il via libera all’accordo politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di fatto interamente l’influente generale Khalifa Haftar.

In tal modo la grande maggioranza dei membri del parlamento di Tobruk sembra aver ribadito la propria vicinanza alle posizioni di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero territorio libico.

In questo scenario indubbiamente, dilatandosi i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, sono state rilanciate le voci, già numerose nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrerebbe orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Irritazione negli ambienti francesi della difesa ha destato quanto diffuso il 24 febbraio dal quotidiano Le Monde sulla presenza di forze francesi in Cirenaica impegnate da diverse settimane a combattere in maniera clandestina il “Califfato”.

Per ciò che concerne il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, va rilevato anzitutto come nell’incontro a Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio Mattarella l’Italia abbia avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca che gli Stati Uniti si trovano in consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Intanto il 14 febbraio, ancora una volta a Skhirat in Marocco, era stata stilata la lista di una nuova compagine di governo, assai più leggera della precedente, con 13 ministri e cinque ministri di Stato: tra essi tre donne. Mentre nei dicasteri della difesa e dell’interno sono stati confermati rispettivamente al-Burghuthi e al-Khouja, agli esteri è stato nominato un ex ministro della cooperazione in carica negli ultimi anni del regime di Gheddafi, Mohammed Sayala. In particolare, il premier incaricato Serraj ha fatto leva sulla conferma di al-Burghuthi alla difesa come possibile punto di mediazione, in quanto pur essendo stato questi agli ordini di Haftar,  risulterebbe gradito a varie milizie filo islamiche della fazione di Tripoli, così come il ministro dell’interno in pectore al-Khouja, già attivo nella stessa carica proprio a Tripoli.

La nuova lista di ministri ha trovato però nuovamente nel Consiglio di presidenza l’opposizione di due esponenti favorevoli al generale Haftar, al-Qatrani e al-Aswad, non l’hanno sottoscritta. Proprio al-Qatrani avrebbe lasciato intendere la pregiudiziale opposizione di una parte significativa del parlamento di Tobruk al ministro della difesa designato, e ha accusato il Consiglio di presidenza di essere controllato dai Fratelli Musulmani.

Il 19 febbraio si era poi verificato un raid aereo statunitense contro postazioni dell’ISIS nella cittadina di Sabrata, a una settantina di km. da Tripoli: l’attacco aereo ha avuto come obiettivo un campo di addestramento di appartenenti allo “Stato islamico”, e avrebbe provocato una quarantina di vittime, senza peraltro poter escludere la morte di diversi civili - accertata purtroppo invece la morte di due cittadini serbi, dipendenti dell’ambasciata di Belgrado in Libia e rapiti nel novembre 2015.

Nel raid probabilmente ha perso la vita Noureddine Chouchane, ritenuto l’ideatore degli attacchi ai turisti in Tunisia al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Sabrata risultava da alcuni mesi il bastione più occidentale del “Califfato” in Libia: i jihadisti si erano dapprima accordati con le tribù locali per occupare parti della città, poi, grazie anche ai traffici di migranti, sarebbero stati in grado di creare campi di addestramento. Per tutta risposta, comunque, circa 150 miliziani dell’ISIS occupavano nei giorni seguenti il quartier generale della sicurezza di Sabrata: i miliziani venivano successivamente respinti, ma non prima di aver decapitato una decina di agenti di sicurezza libici.

Sul fronte del cammino politico-istituzionale della Libia, il 24 febbraio 101 parlamentari di Tobruk hanno firmato una petizione a sostegno del nuovo esecutivo proposto da Serraj, un fatto che, pur non significando ancora il via libera di Tobruk, ha costituito uno snodo potenzialmente importante nella questione.

Infatti il 1° marzo il Ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, a colloquio a New York con l’incaricato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Martin Kobler - che il giorno dopo avrebbe riferito al Consiglio di sicurezza dell’ONU - avanzava la proposta italiana di far leva sul pronunciamento dei 101 parlamentari di Tobruk per considerare espressa e formalizzata la volontà della maggioranza di quel consesso parlamentare - ove peraltro, come emerso da una lettera del vicepresidente Hamuhu a Martin Kobler, un libero dibattito sarebbe stato più volte impedito anche con la violenza.

L’urgenza di sbloccare la situazione istituzionale libica è emersa sempre più pressante anche in rapporto allo stato avanzato dei preparativi per quello che potrebbe essere un secondo intervento internazionale nel paese nordafricano, per il quale intanto veniva istituito a Roma il centro di coordinamento della coalizione. Le difficoltà della situazione libica si confermavano tuttavia il 4 marzo, quando colpi di granate anticarro raggiungevano a Tripoli la sede del Partito della patria, il giorno dopo che più di 50 deputati del Congresso nazionale generale di Tripoli a quel partito riferentisi avevano dichiarato il proprio appoggio al nascente governo unitario.

Per di più alcuni deputati di Tobruk avevano frattanto negato di aver apposto la propria firma alla petizione del 24 febbraio, ponendo in ulteriore difficoltà i piani di Martin Kobler e anche la proposta avanzata dal nostro Paese - diversi media libici hanno tra l’altro protestato contro l’escamotage[7] fatto proprio da Kobler, qualificato alla stregua di un tentativo di aggiramento della maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione del parlamento di Tobruk della nuova lista dei ministri. Per uscire dall’impasse è emersa da parte dell’inviato speciale delle Nazioni Unite la prospettazione di una possibile ripresa del dialogo politico libico, per affidare nuovamente a un formato extraparlamentare la riconciliazione nazionale e il via libera a un nuovo esecutivo, superando i blocchi e i veti incrociati delle varie minoranze del paese. Su questo obiettivo di Kobler un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha espresso convinto sostegno.

 

Le rivelazioni del Wall Street Journal sull’impiego della base aerea di Sigonella per operazioni di bombardamento con droni

Una polemica interna allo schieramento politico italiano si è aperta dopo le rivelazioni del 22 febbraio del Wall Street Journal, secondo le quali dal mese di gennaio decollerebbero dalla base NATO italiana di Sigonella droni armati statunitensi per operazioni di bombardamento contro l’ISIS in Libia e in altre località del Nordafrica. Il Ministero della difesa italiano ha confermato l’accordo tra Washington e Roma per l’utilizzo della base di Sigonella, negando tuttavia che siano già in corso voli finalizzati a tali missioni, e precisando che ogni singola missione dovrà essere sottoposta all’autorizzazione del Governo italiano. Inoltre l’accordo non riguarderebbe tanto la Libia, e quindi un’accelerazione della possibilità di intervento militare nel paese nordafricano, quanto profili più generali di protezione e sicurezza del personale impegnato nella lotta contro l’ISIS in tutti gli scenari in cui il “Califfato” è presente.

Le opposizioni parlamentari hanno lamentato di non essere state adeguatamente informate dal Governo su tali sviluppi, a loro dire particolarmente preoccupanti alla luce del più volte manifestato allarme degli Stati Uniti per la crescente presenza dell’ISIS in Libia, con la richiesta di una maggior cooperazione agli alleati europei.

Tutte queste questioni sono state affrontate il 25 febbraio dal Consiglio supremo di difesa presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, dal quale è emersa la disponibilità italiana a intervenire, ma solo su richiesta di un’autorità libica ricostituita unitariamente, per una missione di supporto che vedrebbe impegnato un numero limitato di militari, con compiti di addestramento delle forze locali e sorveglianza di siti particolarmente sensibili, come ambasciate e palazzi istituzionali.

Parallelamente al crescere della pressione statunitense sulle autorità italiane - con il Segretario alla difesa USA Ashton Carter che in una conferenza stampa del 29 febbraio al Pentagono esplicitamente ha ribadito spettare all’Italia il ruolo guida per un intervento in Libia -; è emerso come anche l’Italia abbia già dispiegato una quarantina di agenti operativi del servizio segreto esterno (AISE), e si trovi nell’imminenza di inviare una cinquantina di appartenenti al reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin.

Questa forma di intervento è stata possibile in ragione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio, oggetto di secretazione, che avrebbe avocato al Dipartimento per la sicurezza - cui fa capo il coordinamento dei due servizi italiani di intelligence - e quindi alla Presidenza del Consiglio, la responsabilità in ordine ad operazioni per gravi crisi all’estero. In base al citato DPCM, con gli agenti dell’AIE sarà possibile la collaborazione di militari di alcuni corpi speciali, in via diretta e al di fuori della normale catena di comando - che naturalmente farebbe invece capo al Ministero della difesa.

Nell’espletare queste funzioni gli appartenenti ai corpi speciali della difesa godrebbero dell’estensione delle normali garanzie funzionali a favore degli agenti dell’AISE, estensione già disposta nel decreto-legge di rinnovo della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali della fine del 2015 (D.L. 174/2015, art. 7-bis, nel quale pure si riscontra la base legislativa del DPCM del 10 febbraio).

Va comunque segnalato che lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, anche nel clima di costernazione destato dall’uccisione dei due tecnici italiani in Libia e prima del rientro dei due colleghi superstiti, ha espresso forte irritazione per ogni accelerazione mediatica in ordine a un possibile intervento del nostro Paese nello scenario libico, definita quale atto di irresponsabilità. Matteo Renzi ha ribadito che la priorità dell’Italia è diplomatica, e mira anzitutto alla formazione di un governo libico unitario, ed effettivamente gran parte dell’arco politico-parlamentare è sembrato convergere sulla cautela del Presidente Renzi, sulla quale sono apparse altresì quasi perfettamente sintoniche fonti dell’Eliseo, in vista dell’incontro dell’8 marzo tra Matteo Renzi e il Presidente francese Hollande. Lo stesso ambasciatore americano a Roma John Phillips è sembrato assai più cauto quando è tornato sull’argomento dell’impegno italiano in Libia, sottolineando di aver fatto riferimento, nell’intervista di tre giorni prima al Corriere della Sera, al contingente italiano di 5.000 uomini per la Libia in base a precedenti indicazioni della stessa Italia, e non come forma di suggerimento da parte degli USA, consapevoli che si tratta di decisioni ancora da adottare.

L’incontro italo-francese di Venezia dell’8 marzo ha visto la convergenza tra i due Governi sulla priorità della formazione del governo unitario in Libia, pur sottolineando l’urgenza di addivenire a una soluzione dell’intricato problema istituzionale - come sostenuto in particolare dal presidente francese Hollande, alludendo alla presenza ormai ben radicata del terrorismo dell’ISIS in Libia. Il riferimento alle notizie riportate nella stessa giornata dal New York Times in merito a piani statunitensi già messi a punto per un’ondata di raid aerei contro alcune decine di obiettivi dell’ISIS in diverse zone della Libia, che dovrebbe precedere l’intervento di terra delle milizie libiche filoccidentali, il Presidente del Consiglio Renzi ha evidenziato l’importanza di una visione di lungo periodo dei problemi del paese nordafricano, disinnescando pertanto nell’immediato le tensioni in ordine all’intervento militare a breve termine. Un’incognita fondamentale anche nei rapporti tra i paesi occidentali rimane però quella della tempistica dell’intervento militare contro l’ISIS, che da parte degli Stati Uniti e, par di comprendere, della Francia, si correla alla necessità di impedire un eccessivo rafforzamento delle milizie del “Califfato”, che rischierebbe di vanificare l’intervento militare su scala limitata attualmente nei piani generali.

Le posizioni dell’Italia sono state ribadite in Parlamento nella giornata del 9 marzo, anzitutto con l’intervento del Ministro degli esteri Gentiloni alla Camera e al Senato: il Ministro ha ribadito la linea di prudenza sull’intervento militare in Libia, un teatro, ha ricordato, nel quale oltre ad almeno cinquemila combattenti dell’ISIS vi sarebbero circa duecentomila uomini armati, inquadrati in varie milizie o gruppi tribali. Il Governo italiano, ha proseguito il Ministro Gentiloni, tenta di favorire la formazione di un governo libico unitario, consentendo alla maggioranza del parlamento di Tobruk favorevole al premier designato Fayez Serraj di esprimersi anche al di fuori del consesso parlamentare, per superare le minacce da parte delle frange più estremiste. Dal canto suo la Ministra della difesa Roberta Pinotti, intervenendo nella stessa giornata in seno al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) ha reiterato analoghe dichiarazioni, precisando che solo su richiesta libica potrà dispiegarsi una missione di tipo militare, e in ogni caso dopo il via libera del Parlamento italiano – la Ministra Pinotti ha poi precisato  non esservi al momento forze speciali militari italiane in Libia.

Il 10 marzo si è svolta peraltro Tunisi la preannunciata riunione del dialogo politico libico - la via alternativa scelta dalle forze interessate alla formazione di un governo unitario in Libia per aggirare il veto finora rappresentato dal parlamento di Tobruk nei confronti del nuovo esecutivo -, subito inceppata da complicate procedure di insediamento del Comitato di dialogo. Per di più, il presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh l’8 marzo aveva dichiarato che una fiducia accordata al nuovo esecutivo al di fuori del parlamento non avrebbe alcun valore.

 

L’assassinio di due ostaggi italiani e la liberazione degli altri due connazionali rapiti

Il 2 marzo purtroppo si era intanto avuta notizia dell’uccisione di Salvatore Failla e Fausto Piano - due dei quattro ostaggi italiani, tecnici dell’azienda Bonatti, rapiti in Libia nel luglio 2015 - che perdevano la vita nel corso di un attacco a Sabrata delle milizie fedeli a Tripoli nei confronti di gruppi ritenuti vicini all’ISIS. Nel caos di Sabrata è stato particolarmente difficile nelle prime ore ricostruire gli eventi, anche per la delicatezza della situazione, che sembrava far immaginare la volontà delle autorità cittadine di trattenere i due ostaggi superstiti – Gino Pollicardo e Filippo Calcagno -, alla ricerca di una qualche forma di riconoscimento politico di Tripoli, cui le autorità di Sabrata risultano collegate. Fortunatamente all’alba del 6 marzo ha potuto atterrare all’aeroporto di Ciampino l’aereo che riportato a casa i due tecnici superstiti, che già in tarda mattinata sono stati ascoltati dai magistrati in una caserma del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri.

Nelle sei ore di colloquio sarebbe emerso come, unitamente ai due colleghi deceduti, Pollicardo e Calcagno abbiano patito durante gli otto mesi di prigionia violenze fisiche e psicologiche da parte della banda criminale che li aveva in ostaggio. Quanto alla loro liberazione, sarebbe avvenuta il 4 marzo, dopo la scomparsa dei loro carcerieri, i quali due giorni prima avevano prelevato Failla e Piano, che non avrebbero più rivisto i propri colleghi di lavoro e di prigionia.

Sulla vicenda tra l’altro il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha asserito il 6 marzo la necessità di comprendere come mai i quattro tecnici italiani siano entrati in Libia quando già era stato posto un esplicito divieto da parte delle autorità del nostro Paese: al Presidente del Consiglio ha replicato il numero uno della società Bonatti, Paolo Ghirelli, dicendo che la sua azienda aveva rispettato tutti gli obblighi di legge e i quattro tecnici si trovavano in Libia per uno scopo di lavoro ben preciso.

Solo nella notte tra il 9 e il 10 marzo le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano hanno potuto far rientro in Italia, accolte all’aeroporto di Ciampino dai familiari e dal Ministro degli esteri Gentiloni - particolarmente amareggiata la reazione della moglie di Salvatore Failla, che ha detto di non volere funerali di Stato per il marito, per il quale la strategia consigliata dalle autorità italiane si sarebbe rivelata fatale. La vedova Failla ha poi rivelato la presenza tra i sequestratori di un soggetto in grado di parlare seppur stentatamente in italiano, in occasione della telefonata con cui i sequestratori le avevano fatto ascoltare un messaggio registrato in cui il marito chiedeva aiuto e le diceva di rivolgersi ai mezzi di comunicazione italiani. L’avvocato della famiglia Failla, dal canto suo, ha stigmatizzato l’autopsia effettuata in Libia, qualificandola alla stregua di una macelleria: in particolare, il prelievo di parte dei tessuti corporei ha reso impossibile l’identificazione della dinamica esatta dell’uccisione dei due tecnici italiani. Tuttavia, l’autopsia subito effettuata al Policlinico Gemelli di Roma dopo l’arrivo delle salme in Italia ha evidenziato come i colpi mortali per Failla e Piano siano stati in parti del corpo non compatibili con la versione di una esecuzione da parte dei rapitori prima del blitz delle milizie libiche, a differenza di quanto ancora il 10 marzo dichiarato dal sindaco di Sabrata. Altra questione su cui c’è dissenso tra le autorità italiane e i libici è quella dell’appartenenza all’ISIS dei carcerieri di Failla e Piano, data per scontata delle autorità libiche ed esclusa invece nettamente dall’intelligence italiana.

 


Profili biografici
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali)


Norbert Röttgen
Presidente della Commissione
Affari esteri del Bundestag

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato il 2 luglio 1965 a Meckenheim. Cattolico, sposato con tre figli.

 

Consegue la maturità nel 1984. Dal 1984 al 1989 studia giurisprudenza all’Università di Bonn.

Nel 1993 consegue l’abilitazione ad esercitare la professione di avvocato presso il Tribunale regionale di Colonia. Nel 2001 consegue il dottorato in Giurisprudenza.

Nel 1999 consegue l’abilitazione ad esercitare presso la Corte d’appello di Colonia.

Carriera politica

Dal 1982 membro del Partito democratico-cristiano CDU.

Dal 1984 al 2010: Membro del Direttivo locale della CDU per la circoscrizione Rhein-Sieg.

Dal 1992 al 1996: Presidente regionale della Giovane Unione (Gruppo giovanile) del Nord Reno Vestfalia.

Dal 1994: Deputato al Bundestag.

Dal 2001 al 2009: Presidente del Gruppo di lavoro federale dei giuristi democratico-cristiani.

Dal novembre 2009 all’ottobre 2011: Presidente dell’Associazione della CDU del Distretto Mittelrhein.

Dal novembre 2010 al giugno 2012: Presidente della CDU per il Nord Reno Vestfalia.

Dal novembre 2010 al dicembre 2012: Vice Presidente federale della CDU.

Dal febbraio 2005 all’ottobre 2009: Primo Responsabile del Gruppo parlamentare CDU/CSU.

Dall’ottobre 2009 al maggio 2012: Ministro federale per l’Ambiente, la Tutela della Natura e la Sicurezza dei Reattori.

Dal maggio 2012 al settembre 2013: Membro della Commissione Esteri del Bundestag.

Da gennaio 2014: Presidente della Commissione Esteri del Bundestag.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo

Kadri  Veseli

 

Nato a Mitrovica il 31 maggio 1967, è stato uno dei leader delle associazioni studentesche impegnate per l’indipendenza del suo paese. Ha svolto studi universitari dapprima in Albania poi presso l’Università di Sheffield dove ha conseguito un master in Business Administration.

Prima di diventare Presidente del parlamento kosovaro, Veseli è stato membro dell’Esercito di liberazione del Kosovo (KLA), comandante del controspionaggio del Servizio segreto kosovaro (KIS) e, nella veste di consigliere di politica estera, ha preso parte ai negoziati che hanno portato agli accordi di Rambouillet (1999).

Sposato, padre di quattro figli, parla inglese, tedesco e serbo.

 

 

 

 


Pubblicistica

 


Nuovi aspetti dell’antisemitismo

 



I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

 


 

 

 


Documentazione allegata


Dichiarazione di Londra -
The London Declaration on Combating Antisemitism,
Lancaster House, 17 February 2009


 

Preamble

We, Representatives of our respective Parliaments from across the world, convening in London for the founding Conference and Summit of the Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism, draw the democratic world’s attention to the resurgence of antisemitism as a potent force in politics, international affairs and society.

We note the dramatic increase in recorded antisemitic hate crimes and attacks targeting Jewish persons and property, and Jewish religious, educational and communal institutions.

We are alarmed at the resurrection of the old language of prejudice and its modern manifestations in rhetoric and political action -against Jews, Jewish belief and practice and the State of Israel.

We are alarmed by Government-backed antisemitism in general, and state-backed genocidal antisemitism, in particular.

We, as Parliamentarians, affirm our commitment to a comprehensive programme of action to meet this challenge.

We call upon national governments, parliaments, international institutions, political and civic leaders, NGOs, and civil society to affirm democratic and human values, build societies based on respect and citizenship and combat any manifestations of antisemitism and discrimination.

We today in London resolve that:

 

Challenging Antisemitism

1.       Parliamentarians shall expose, challenge, and isolate political actors who engage in hate against Jews and target the State of Israel as a Jewish collectivity;

2.       Parliamentarians should speak out against antisemitism and discrimination directed against any minority, and guard against equivocation, hesitation and justification in the face of expressions of hatred;

3.       Governments must challenge any foreign leader, politician or public figure who denies, denigrates or trivialises the Holocaust and must encourage civil society to be vigilant to this phenomenon and to openly condemn it;

4.       Parliamentarians should campaign for their Government to uphold international commitments on combating antisemitism -including the OSCE Berlin Declaration and its eight main principles;

5.       The UN should reaffirm its call for every member state to commit itself to the principles laid out in the Holocaust Remembrance initiative including specific and targeted policies to eradicate Holocaust denial and trivialisation;

6.       Governments and the UN should resolve that never again will the institutions of the international community and the dialogue of nation states be abused to try to establish any legitimacy for antisemitism, including the singling out of Israel for discriminatory treatment in the international arena, and we will never witness – or be party to -another gathering like the United Nations World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and other related Intolerances in Durban in 2001;

7.       The OSCE should encourage its member states to fulfil their commitments under the 2004 Berlin Declaration and to fully utilise programmes to combat antisemitism including the Law Enforcement programme LEOP;

8.       The European Union, inter-state institutions, multilateral fora and religious communities must make a concerted effort to combat antisemitism and lead their members to adopt proven and best practice methods of countering antisemitism;

9.       Leaders of all religious faiths should be called upon to use all the means possible to combat antisemitism and all types of discriminatory hostilities among believers and society at large;

10.    The EU Council of Ministers should convene a session on combating antisemitism relying on the outcomes of the London Conference on Combating Antisemitism and using the London Declaration as a basis.

 

Prohibitions

11.    Governments should fully reaffirm and actively uphold the Genocide Convention, recognising that where there is incitement to genocide signatories automatically have an obligation to act. This may include sanctions against countries involved in or threatening to commit genocide, referral of the matter to the UN Security Council, or initiation of an interstate complaint at the International Court of Justice;

12.    Parliamentarians should legislate effective Hate Crime legislation recognising “hate aggravated crimes” and, where consistent with local legal standards, “incitement to hatred” offences and empower law enforcement agencies to convict;

13.    Governments that are signatories to the Hate Speech Protocol of the Council of Europe ‘Convention on Cybercrime’ (and the ‘Additional Protocol to the Convention on cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems’) should enact domestic enabling legislation;

Identifying the threat

14.    Parliamentarians should return to their legislature, Parliament or Assembly and establish inquiry scrutiny panels that are tasked with determining the existing nature and state of antisemitism in their countries and developing recommendations for government and civil society action;

15.    Parliamentarians should engage with their governments in order to measure the effectiveness of existing policies and mechanisms in place and to recommend proven and best practice methods of countering antisemitism;

16.    Governments should ensure they have publicly accessible incident reporting systems, and that statistics collected on antisemitism should be the subject of regular review and action by government and state prosecutors and that an adequate legislative framework is in place to tackle hate crime;

17.    Governments must expand the use of the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform policy of national and international organisations and as a basis for training material for use by Criminal Justice Agencies;

18.    Police services should record allegations of hate crimes and incidents -including antisemitism -as routine part of reporting crimes;

19.    The OSCE should work with member states to seek consistent data collection systems for antisemitism and hate crime.

 

Education, awareness and training

20.    Governments should train Police, prosecutors and judges comprehensively. The training is essential if perpetrators of antisemitic hate crime are to be successfully apprehended, prosecuted, convicted and sentenced. The OSCE’s Law enforcement Programme LEOP is a model initiative consisting of an international cadre of expert police officers training police in several countries;

21.    Governments should develop teaching materials on the subjects of the Holocaust, racism, antisemitism and discrimination which are incorporated into the national school curriculum. All teaching materials ought to be based on values of comprehensiveness, inclusiveness, acceptance and respect and should be designed to assist students to recognise and counter antisemitism and all forms of hate speech;

22.    The Council of Europe should act efficiently for the full implementation of its ‘Declaration and Programme for Education for Democratic Citizenship based on the Rights and Responsibilities of the Citizens’, adopted on 7 May 1999 in Budapest;

23.    Governments should include a comprehensive training programme across the Criminal Justice System using programmes such as the LEOP programme;

24.    Education Authorities should ensure that freedom of speech is upheld within the law and to protect students and staff from illegal antisemitic discourse and a hostile environment in whatever form it takes including calls for boycotts.

Community Support

25.    The Criminal Justice System should publicly notify local communities when antisemitic hate crimes are prosecuted by the courts to build community confidence in reporting and pursuing convictions through the Criminal Justice system;

26.    Parliamentarians should engage with civil society institutions and leading NGOs to create partnerships that bring about change locally, domestically and globally, and support efforts that encourage Holocaust education, inter-religious dialogue and cultural exchange.

 

Media and the Internet

27.    Governments should acknowledge the challenge and opportunity of the growing new forms of communication;

28.    Media Regulatory Bodies should utilise the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform media standards;

29.    Governments should take appropriate and necessary action to prevent the broadcast of antisemitic programmes on satellite television channels, and to apply pressure on the host broadcast nation to take action to prevent the transmission of antisemitic programmes;

30.    The OSCE should seek ways to coordinate the response of member states to combat the use of the internet to promote incitement to hatred;

31.    Law enforcement authorities should use domestic “hate crime”, “incitement to hatred” and other legislation as well as other means to mitigate and, where permissible, to prosecute “Hate on the Internet” where racist and antisemitic content is hosted, published and written;

32.    An international task force of Internet specialists comprised of parliamentarians and experts should be established to create common metrics to measure antisemitism and other manifestations of hate online and to develop policy recommendations and practical instruments for Governments and international frameworks to tackle these problems.

 

Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism

33.    Participants will endeavour to maintain contact with fellow delegates through the working group framework, communicating successes or requesting further support where required;

34.    Delegates should reconvene for the next ICCA Conference in Canada in 2010, become an active member of the Inter-parliamentary Coalition and promote and prioritise the London Declaration on Combating Antisemitism.

 


XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011



(…)

 

 

 

 

 

 

 



[1]     La Convenzione fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 1965;  la ratifica dell’Italia è stata effettuata a seguito della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

[2]     La giornata in memoria dell’Olocausto è stata fissata per il 27 gennaio di ogni anno dalla Risoluzione dell’A.G. delle Nazioni unite n. 60/7 del 21 Novembre 2005.

[3]    La più recente risoluzione annuale è del 17 dicembre 2015: A global call for concrete action for the total elimination of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance and the comprehensive implementation of and follow-up to the Durban Declaration and Programme of Action (A/RES/70/140). Si segnala anche la risoluzione, in pari data, sulla lotta al neonazismo e ad altre pratiche che alimentano il razzismo, la discriminazione razziale, la xenophobia e l’intolleranza (A/RES/70/139).

 

[4]     Nel Summit di Budapest del 1994, è stato deciso che la CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) cambiasse la sua denominazione in OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), per riflettere l’avvenuta trasformazione in istituzione stabile.

[5]     Porto, dicembre 2002, e Maastricht, dicembre 2003.

[6]     Aggiornata al 10 marzo 2016

[7]     va però ricordato che secondo alcuni osservatori si tratterebbe di un legittimo ricorso all'articolo 64 dell'accordo di Skhirat, che espressamente prevede la riconvocazione del dialogo politico libico in in caso di gravi violazioni dell'accordo, e tali sarebbero le intimidazioni denunciate da deputati di Tobruk nell'imminenza di concedere la fiducia all'esecutivo di Fayez Serraj.

SERVIZIO STUDI

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Missione a Berlino

(13-15 marzo 2016)

 

 

 

 

 

 

n. 221

 

 

 

11 marzo 2016

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi

 

Dipartimento Affari esteri

( 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

 

Segreteria Generale
Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 / 066760-2146 – * cdrue@camera.it

 

Servizio Rapporti Internazionali

( 066760-3948 – *  cdrin1@camera.it

 

La documentazione dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

File: es0455.docx

 


INDICE

 

Programma della Conferenza

Lista dei partecipanti alla Conferenza

Schede di lettura

Conferenza internazionale sull’antisemitismo

Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo  25

Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee  (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea) 39

L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti 47

Profili biografici (a cura del Servizio Rapporti Internazionali)

Norbert Röttgen Presidente della Commissione Affari esteri del Bundestag  59

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo  61

Pubblicistica

Nuovi aspetti dell’antisemitismo

§  K. Gebert ‘L’ebreo, il fantasma e lo specchio’, in: www.limesonline.com, n. 1, 2 gennaio 2014  67

§  A. Goldstein ‘Mort aux juifs’, ne: Il Mulino, n. 1/2015  67

§  Osservatorio antisemitismo ’Relazione sui principali episodi di antisemitismo in Italia nel 2014’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, n. 1, 3 marzo 2015  67

§  D. Assael ‘Dalle ‘radici giudaico-cristiane’ alle nuove intolleranze. Dove sta andando l’Europa?’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  P. F. Fumagalli ‘La croce e la torah’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  Osservatorio Antisemitismo. B. Guetta e L. Hassan, ’Antisemitismo: un pregiudizio multiforme’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, 14 dicembre 2015  67

I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

§  L. Baccaro ‘Le trasformazioni del capitalismo tedesco e la crisi dell’euro’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  G. D’Ottavio ‘La Germania e la crisi europea’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  C. Catalano ‘La Germania è l’anello debole dell’industria della difesa europea’, in: Cemiss (Centro militare di Studi strategici) Osservatorio Strategico, n. 9/2015, 71

§  U. Villani Lubelli ‘L’indennità nazionale tedesca 25 anni dopo la riunificazione’, in: Commentary ISPI, 3 ottobre 2015  71

§  U. Villani Lubelli ‘La discesa in campo della Germania nel conflitto in Siria’, in: Commentary ISPI, 9 novembre 2015  71

§  R. Perissich ‘Il complesso di Calimero e la demonizzazione della Germania’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  M. Dassù ‘Il compromesso possibile e necessario’, in: www.aspeninstitute.it, 30 gennaio 2016  71

§  M. Messori ‘Scontro italo-tedesco, il peso delle banche’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  E. Rusconi ‘Renzi-Merkel, le differenze possono convergere’, in: www.affarinternazionali.it, 1 febbraio 2016  71

§  R. Menotti e R. Pennisi ‘Il chiarimento italo-tedesco (visto dagli altri) e i problemi strutturali dell’Europa), in: www.aspeninstitute.it, 1 febbraio 2016  71

§  A. Ungaro ‘Difesa, il lungo risveglio di Berlino’, in: www.affarinternazionali.it, 22 febbraio 2016  71

Documentazione allegata

Dichiarazione di Londra - The London Declaration on Combating Antisemitism, Lancaster House, 17 February 2009  257

XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011  263

 

 

 


Programma della Conferenza


(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Lista dei partecipanti alla Conferenza


 

(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Schede di lettura

 


Conferenza internazionale sull’antisemitismo

 


 

(…)

 


Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo

 

Unione europea

Il principale strumento normativo europeo utilizzabile in chiave di contrasto all’antisemitismo è la decisione quadro 2008/913/GAI, del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.

La decisione quadro prevede il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari dei Paesi dell'UE per quanto riguarda i reati ispirati a talune manifestazioni di razzismo e xenofobia. Obiettivo della decisione quadro è che talune gravi manifestazioni di razzismo e xenofobia costituiscano reato in tutti i Paesi dell'UE e siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive.

La decisione quadro si applica ad ogni reato commesso:

·          sul territorio dell'Unione europea (UE), anche tramite un sistema di informazione;

·          da un cittadino di un Paese dell'UE o per conto di una persona giuridica avente sede in un Paese dell'UE. A tale riguardo, la decisione quadro propone criteri per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche.

Discorsi di incitamento all'odio

Sono considerati punibili, in quanto reati penali, determinati atti commessi, quali:

·          pubblico incitamento alla violenza o all'odio rivolto contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito sulla base della razza, del colore, l’ascendenza, la religione o il credo o l’origine nazionale o etnica;

·          il reato di cui sopra commesso mediante diffusione e distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale;

·          l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana in pubblico dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro.

Sono passibili di sanzione anche l'incitamento o la partecipazione nel commettere gli atti suddetti.

Riguardo a tali reati, i Paesi dell'UE devono stabilire:

·          sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive;

·          pene detentive della durata massima di almeno un anno.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, le sanzioni devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive, e devono comprendere ammende penali e non penali. Inoltre le persone giuridiche possono essere sanzionate mediante:

·          l' esclusione dal beneficio di agevolazioni o sovvenzioni pubbliche;

·          l'interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di un’attività commerciale;

·          il collocamento sotto sorveglianza giudiziaria;

·          il provvedimento di liquidazione giudiziaria.

L'avvio delle indagini o dell'azione legale per reati di razzismo e xenofobia non deve essere subordinato a una denuncia o un'accusa a opera della vittima.

 

Reati ispirati dall'odio

Quanto ai reati basati sull’odio, in ogni caso, la motivazione razzista o xenofoba deve essere considerata circostanza aggravante o, in alternativa, il tribunale deve poter considerare tale motivazione nel decidere quale sanzione infliggere.

 

Altri strumenti normativi

La  direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione (2000/78/CE)   la direttiva sull’uguaglianza razziale (2000/43/CE) sono due strumenti giuridici di cui l’UE dispone per combattere la discriminazione. Entrambe tutelano gli ebrei contro la discriminazione – sia essa fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (direttiva sulla parità di trattamento) o contro gli ebrei in quanto gruppo etnico (direttiva sull’uguaglianza razziale).

 

L’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea

L’Unione europea ha deciso nel 2007 l’istituzione dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA) in sostituzione del Centro europeo di monitoraggio del razzismo e della xenofobia (EUMC). L’Agenzia ha lo scopo di “fornire alle competenti istituzioni, organi, uffici e agenzie della Comunità e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti quando essi adottano misure o definiscono iniziative nei loro rispettivi settori di competenza”.

La FRA (e prima ancora l’EUMC) raccoglie dal 2000 con regolarità dati e informazioni riguardanti il razzismo e la xenofobia negli Stati membri dell’UE e, a partire dal 2002, ha stabilito un particolare focus sull’antisemitismo. La FRA ha pubblicato nell’ottobre 2015 un nuovo aggiornamento  del rapporto sull’antisemitismo in Europa (Anti-semitism – Summary overview of the situation in the EU 2004-2014). In esso son riportati i dati relativi a episodi di antisemitismo registrati negli Stati membri.

Nel novembre  2013 la FRA ha anche pubblicato i risultati di un’indagine sulle esperienze di discriminazione e di reati generati dall’odio subiti dagli ebrei degli Stati membri dell’Unione europea.

I risultati della ricerca presentati riguardano Belgio, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Lettonia, Svezia e Regno Unito, paesi in cui, nel complesso, si calcola risieda circa il 90% della popolazione ebraica europea. L’indagine è stata effettuata on-line nei mesi di settembre e ottobre 2012 e vi hanno partecipato circa 5.900 ebrei autocertificati.

Di seguito alcuni risultati della ricerca FRA.

Due terzi degli intervistati (66%) ritiene che l’antisemitismo sia un problema negli Stati membri dell’UE oggetto dell’indagine. Tre quarti degli intervistati (76%) sostengono che l’antisemitismo sia peggiorato negli ultimi cinque anni nel paese in cui vivono.

Nei 12 mesi precedenti l’indagine, il 26% di tutti gli intervistati ha vissuto un episodio o episodi di insulti verbali o molestie per il fatto di essere ebreo – il 4% ha subito violenza fisica o è stato minacciato di violenza.

Quasi un quarto (23%) degli intervistati ha dichiarato che evita almeno occasionalmente di assistere a eventi ebraici o di visitare luoghi ebraici perché non si sentirebbe al sicuro, in quanto ebreo, sul posto o durante il percorso per recarvisi. Oltre un quarto di tutti gli intervistati (27%) evita determinati luoghi nella propria zona o nel proprio quartiere, almeno di tanto in tanto, perché non si sentirebbe al sicuro in quanto ebreo.

Gli intervistati hanno dichiarato che, nei 12 mesi precedenti l’indagine, era più probabile che gli episodi di discriminazione antisemita si verificassero sul posto di lavoro (l’11% degli intervistati che stavano lavorando durante quel periodo aveva subito questo tipo di comportamento), o nella fase di ricerca del lavoro (il 10% degli intervistati che avevano cercato lavoro) o da parte di persone che lavorano in una scuola o in un centro di formazione.

Negli ultimi 12 mesi, più della metà di tutti gli intervistati (57%) ha sentito o visto qualcuno affermare che l’Olocausto era un mito o che era stato esagerato.

Quasi due terzi (64%) di coloro che hanno subito violenze fisiche o minacce di violenza non hanno segnalato l’episodio più grave alla polizia o ad altre organizzazioni.

 

Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo

Il 1° dicembre 2015 il Vicepresidente della Commissione europea e la Commissaria alla giustizia hanno nominato Katharina von Schnurbein Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo.

In tale occasione è stato nominato anche un Coordinatore per il contrasto all’odio contro i musulmani.

Compito principale di tale organismo è portare all’attenzione  del Vice-Presidente e della Commissaria le preoccupazioni delle comunità ebree. Il coordinatore funge dunque da punto di contatto per tali comunità e contribuisce a allo sviluppo della strategia della Commissione europea volta a contrastare i reati di odio, i discorsi di odio, l’intolleranza e  la discriminazione. Il coordinatore deve inoltre offrire un contributo alle politiche in materia di educazione e a quelle volte a contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento. L’organismo collabora con gli Stati membri, il Parlamento europeo, e altre istituzioni, e stabilisce collegamenti con la società civile e li mondo accademico.

 

Nazioni Unite

Lo strumento giuridico internazionale che ha costituito la pietra angolare sulla quale si sono fondati i successivi sviluppi della lotta all’antisemitismo e alle altre forme di discriminazione basate sulla razza è, come noto, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale fatta a New York il 7 marzo 1966[1].

La Convenzione ha previsto la creazione di un Comitato sull'eliminazione della Discriminazione Razziale (Committee on the Elimination of Racial Discrimination  - CERD), costituito presso l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU. Il CERD è un organo di monitoraggio che tutela l'applicazione della Convenzione attraverso lo studio dei rapporti degli Stati parte alla Convenzione. Gli Stati parte (173, attualmente) sono infatti tenuti a dare conto al Comitato - ogni due anni - delle misure adottate per rispettare gli obblighi derivanti dalla Convenzione. Il Comitato esprime il proprio parere su tali rapporti e formula raccomandazioni allo Stato interessato. Il Comitato può inoltre ricevere ricorsi individuali o anche inter-statali, ed ha incluso nella sua agenda una procedura di early warning volta a prevenire la degenerazione di situazioni a rischio.

Sempre nell’ambito delle Nazioni Unite, si ricordano le due risoluzioni dell’Assemblea generale (60/7 e 61/255 adottate, rispettivamente, nel 2005 e nel 2006) che affermano la centralità della commemorazione dell’Olocausto[2] nella prevenzione di ulteriori pericoli di genocidi e che condannano senza riserve qualunque forma di negazionismo.

E’ importante ricordare inoltre che la condanna dell’antisemitismo è contenuta nell’annuale risoluzione dell’Assemblea generale sull’eliminazione di tutte le forme di razzismo[3] e, a partire dal 2004, con l’adozione della risoluzione A/RES/59/199, Elimination of all forms of religious intolerance, anche nella risoluzione annuale sulle intolleranze religiose.

Si ricorda inoltre che il 24 gennaio 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è riunita in una Sessione speciale per commemorare il 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti nella quale più di quaranta oratori hanno preso la parola per riaffermare e dimostrare che l’Olocausto costituisce un vero e proprio iato nel percorso della civiltà.

Tra i numerosi organi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, si ricorda in questa sede il Consiglio per i Diritti Umani per il ruolo che ha ricoperto nella realizzazione della Conferenza di Revisione (Durban II, aprile 2009) della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza collegata a questi fenomeni.

Come è noto, la Conferenza è stata disertata dall’Italia e da numerosi Stati – tra i quali Canada, Germania, Paesi Bassi e Stati Uniti – che, in disaccordo con la bozza di dichiarazione finale, hanno deciso di ritirarsi dai negoziati in corso a Ginevra, per i toni antisemiti che trasparivano nella bozza di documento finale.

In un comunicato ufficiale del Ministero degli Affari esteri del 17 marzo 2009,  iI capo della diplomazia italiana motivava la decisione del ritiro stigmatizzando le le frasi antisemite contenute nella proposta di documento finale

“Come nel 2001 – si legge nel comunicato - di nuovo la questione israelo-palestinese fa capolino in diversi paragrafi del documento in discussione. Il documento negoziato sinora parla di “politica di discriminazione razziale nei confronti della popolazione palestinese”. Israele viene definita responsabile di praticare l’apartheid, la tortura e numerosi atti criminali che sarebbero in contrasto con i diritti umani. In definitiva, addirittura una ‘minaccia per la pace e la sicurezza internazionale’. il documento sinora negoziato contiene anche riferimenti alla questione della ‘diffamazione religiosa’. Esistono già le Convenzioni internazionali contro il razzismo. Occorre adoperarsi affinché siano pienamente applicate. Il governo italiano ritiene invece inopportuno parlare di ‘standard aggiuntivi’, che di fatto mirano ad introdurre nuovi limiti alla libertà di espressione nell’ ipotesi che sia una religione ad essere ‘diffamata’. La libertà di espressione è uno dei valori fondamentali della nostra civiltà e della nostra cultura giuridica, secondo la quale sono gli individui, non le religioni, ad essere titolari di diritti.”

 Va senz’altro segnalata la riunione straordinaria tenuta dall’Assemblea generale dell’ONU il 22 gennaio 2015, e dedicata per la prima volta proprio all’incremento di violenze antiebraiche in diverse aree del mondo, inclusi naturalmente i numerosi episodi di terrorismo con obiettivi ebraici. Il Segretario generale Ban Ki-moon ha indirizzato un videomessaggio alla riunione mentre si trovava a Davos, per sostenere la necessità di combattere con fermezza queste nuove forme di antisemitismo, proprio sulla base del fatto che una delle missioni delle Nazioni Unite risiede nel prevenire nuove mostruosità come la Shoah.    

Per l'Italia, ha affermato nel suo intervento l'ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente al Palazzo di Vetro, sussiste “la necessita' di rafforzare l'opposizione internazionale a ogni forma di razzismo, antisemitismo, xenofobia e intolleranza, e allo stesso tempo promuovere la tutela di diritti fondamentali quali la liberta' di espressione, opinione e associazione". "Dobbiamo condannare con chiarezza e all'unanimita' ogni atto di antisemitismo e le sue radici ideologiche, ma dobbiamo anche condurre una battaglia culturale contro ogni forma di intolleranza, per favorire il rispetto dell'identita' religiosa e ridurre il rischio di violenza", ha proseguito Cardi, ribadendo che il governo italiano "ha da tempo fatto di questa battaglia una priorita'".

 

Consiglio d’Europa

La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) è un organismo di monitoraggio indipendente del Consiglio d’Europa specializzato nel campo della lotta contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza, dalla prospettiva del rispetto dei diritti umani.

L’istituzione dell’ECRI è stata prevista dal primo summit dei Capi di Stato e di governo dei paesi membri del Consiglio d’Europa nel 1993; nel giugno 2002 il Comitato dei ministri del CdE ha adottato uno statuto autonomo per l’ECRI, in tal mondo accentuando il suo carattere di organismo indipendente.

Tra le funzioni dell’ECRI vi sono: l’esame della legislazione, delle politiche e delle altre misure adottate dagli stati membri del CdE per combattere il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e le altre forme di intolleranza; la proposta di ulteriori azioni a livello locale, nazionale ed europeo; la formulazione di raccomandazioni agli Stati membri; l’analisi degli strumenti giuridici internazionali in vista di loro possibili rafforzamenti.

Di rilievo in ambito del Consiglio d’Europa, la Raccomandazione dell’ECRI n. 9 (Raccomandazione di politica generale n° 9: la lotta contro l’antisemitismo),  adottata il 25 giugno 2004, il primo strumento giuridico europeo su questo specifico soggetto, che esorta tutti gli Stati membri a combattere con forza le nuove forme di antisemitismo.

Anche nell’ultimo Rapporto sull’Italia, approvato nel dicembre 2011, l’organismo del CdE sottolinea come  sebbene in teoria la legge Mancino permetta di sanzionare i siti internet in Italia il cui contenuto costituisce un incitamento all’odio, spesso tali siti sono ospitati all’estero e sono pertanto più difficili da combattere. Al riguardo, l’ECRI attira l’attenzione delle autorità sulle raccomandazioni formulate precedentemente, miranti a rafforzare le misure per combattere il razzismo su internet”.

Si segnala infine che è attualmente all’esame delle Commissioni riunite Giustizia ed Affari esteri, in sede referente, il disegno di legge A.C. 3508, di ratifica ed esecuzione del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla criminalità informatica, relativo all'incriminazione di atti di natura razzista e xenofobica commessi a mezzo di sistemi informatici, adottato proprio nell’ambito del Consiglio d’Europa il 28 gennaio 2003 e sottoscritto dall’Italia il 9 novembre 2011.

 

 

OSCE

Gli Stati membri dell’OSCE hanno condannato l’antisemitismo in numerose occasioni a partire dalla Conferenza sulla Dimensione Umana della CSCE[4] del 1990. In seguito, il 4° meeting del Consiglio dei ministri della CSCE riunito a Roma nel 1993 ha riconosciuto l’antisemitismo come una minaccia non solo nei confronti del popolo ebraico, ma anche per la stabilità internazionale.

Si sono poi susseguiti altri Consigli dei ministri[5], nei quali è stata assunta la decisione di agire per fronteggiare l’aumento degli episodi di antisemitismo, nella convinzione  che combattere tale fenomeno debba far parte dei compiti di tutte le forze democratiche. Una prima Conferenza ad alto livello sull’antisemitismo si è svolta a Vienna nel giugno 2003, cui ha fatto seguito la Conferenza di Berlino del 2004 che condanna in maniera risoluta l’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni.

Il 13 e 14 novembre 2014, dieci anni dopo la conferenza di Berlino, l’OSCE ha promosso nella capitale tedesca una nuova conferenza sul tema nel corso della quale il presidente di turno dell’Organizzazione, Didier Burkhalter, ha espresso riconoscimento per le misure varate negli ultimi dieci anni, come, per esempio, la designazione di un rappresentante dell’OSCE per la lotta contro l’antisemitismo e i programmi di formazione finalizzati ad aumentare la consapevolezza del pericolo rappresentato dai sentimenti antiebraici. Al tempo stesso egli.ha chiesto che episodi e accuse di matrice antisemita siano esplicitamente definiti come tali e venga chiaramente sottolineato che non sono tollerati. L’esponente politico elvetico ha inoltre sottolineato che la critica nei confronti di sviluppi politici, per esempio in Israele, non deve essere strumentalizzata come pretesto per dichiarazioni o atti antisemiti.

 


L’introduzione dell’aggravante di “negazionismo”

nell’ordinamento penale italiano

 

L'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato con modificazioni, il 13 ottobre 2015, la proposta di legge A.C. 2874 , già approvata dal Senato, concernente il contrasto e la repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. In particolare, la proposta introduce l'aggravante di negazionismo, riferita a reati di discriminazione previsti dalla c.d. legge Mancino. La proposta di legge è ora al Senato.

L'articolo unico della proposta di legge approvata dalla Camera modifica la c.d. legge Mancino.

Attualmente, in base alla legge Mancino è punito con la pena della reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' poi punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' inoltre vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: ne è sanzionata con pene detentive la partecipazione (da sei mesi a quattro anni) e la promozione o direzione (da uno a sei anni).

La proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati prevede una specifica aggravante nei casi in cui la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale, tenendo conto dei fatti accertati con sentenza passata in giudicato dalla giustizia internazionale o da atti di organismi internazionali e sovranazionali di cui l'Italia è membro.

Nel corso della discussione, la Camera dei deputati ha invece soppresso le disposizioni, contenute nel testo approvato dal Senato, in base a cui:

·         veniva modificato il reato di istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già previsto dalla legge "Mancino"; la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il reato di istigazione a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni; anche in questo caso, la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il codice penale, con la riduzione da cinque a tre anni di reclusione del limite massimo di pena previsto per il reato di istigazione a commettere un delitto.

 


Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

 


(…)

 


La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 18-19 febbraio scorso s’individuano anzitutto  i seguenti obiettivi: contenere rapidamente i flussi migratori; proteggere le frontiere esterne UE; ridurre la migrazione irregolare, e salvaguardare l’integrità dello spazio Schengen. Secondo tale approccio il Consiglio europeo ha valutato lo stato di attuazione degli orientamenti convenuti a dicembre.

Secondo Frontex, l’Agenzia europea per il coordinamento della sorveglianza delle frontiere esterne dell’UE, nel 2015 sono stati rilevati 1,83 milioni attraversamenti irregolari di migranti, a fronte dei 283.500 nell’anno precedente. Solo in Grecia nel 2015 sarebbero arrivate 880 mila persone; in Italia circa 170 mila. Il dato dei flussi migratori in Italia evidenzia una flessione di circa l’8 per cento rispetto al numero dei migranti nel 2014: tale diminuzione dovrebbe rappresentare l’effetto indiretto dell’incremento dei flussi che attraversano il Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia) e che raggiungono l’Europa tramite i Balcani occidentali.

L’aumento dei flussi provenienti dalla Turchia verso la Grecia e lungo la rotta dei Balcani occidentali potrebbe, tra l’altro, essere stato determinato dal rafforzamento dei controlli effettuati lungo le frontiere marittime del Mediterraneo centrale. In particolare, si tratta della missione EUNAVFOR MED – SOPHIA, istituita al fine di contrastare i trafficanti di migranti che utilizzano la rotta dalla Libia all’Italia.

In base alle stime dell’OIM – Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono oltre 76 mila i migranti e i rifugiati arrivati via mare in Grecia e in Italia tra l'1 gennaio e il 7 febbraio 2016: Grecia e Italia avrebbero registrato rispettivamente 70.365 e 5.898 arrivi. Nel corso dei primi due mesi del 2015, la Grecia aveva registrato solo 3.952 arrivi di migranti via mare, l'Italia 7.882 Secondo Eurostat, nel terzo trimestre 2015, sono state presentate nell’Unione europea 430 mila domande di protezione di cui 413 mila di prima istanza (ovvero domande nuove di protezione internazionale). A settembre 2015 nell’UE erano pendenti oltre 800 mila domande di asilo.

Gli orientamenti adottati nel Consiglio europeo del 17-18 dicembre 2015 delineano una serie di impegni per gli Stati membri e le Istituzioni europee volti a una migliore gestione della crisi dei migranti.

Si tratta, tra l’altro, di: colmare le lacune nella gestione delle frontiere esterne; porre rimedio alle carenze nel funzionamento degli hotspot; garantire l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali in maniera sistematica e completa, adottare misure per contrastare il rifiuto di registrazione; attuare le decisioni di ricollocazione, e considerare l'eventualità di includere tra i beneficiari delle decisioni in vigore altri Stati membri in situazione di forte pressione che ne abbiano fatto richiesta; adottare misure concrete per garantire il rimpatrio e la riammissione effettivi delle persone non autorizzate a soggiornare; potenziare le misure per la lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani; garantire l'attuazione e il seguito operativo alla Conferenza ad alto livello sulla rotta del Mediterraneo orientale/dei Balcani occidentali, al vertice di La Valletta, in particolare per quanto riguarda i rimpatri e la riammissione; e al piano d'azione UE-Turchia.

Al riguardo, merita rilevare che nel settembre del 2015 il Consiglio aveva adottato due programmi temporanei di ricollocazione concernenti 160 mila richiedenti asilo; secondo i programmi, dovrebbero essere redistribuiti rispettivamente da Grecia e Italia 66.400 e 39.600 richiedenti asilo. Alla data del 15 febbraio è stata effettuata la ricollocazione di sole 295 persone dalla Grecia e 288 dall’Italia. Tale lentezza nell’attuazione dei programmi di relocation sconta le resistenze da parte di molti Stati membri, alcuni dei quali si sono addirittura rifiutati di aderire al programma.

 

L’intervento della NATO

Il Consiglio europeo ha accolto con favore la decisione della NATO di fornire assistenza nelle attività di ricognizione, controllo e sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo ed esorta tutti i membri della NATO a sostenere attivamente questa misura. Secondo il Consiglio europeo, l'UE (in particolare Frontex) dovrebbe cooperare strettamente con la NATO.

L’11 febbraio 2016 la NATO, su richiesta congiunta di Germania, Grecia e Turchia, ha avviato una missione navale nel Mar Egeo, con il compito di condurre la ricognizione, il monitoraggio e la sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo (v. scheda di lettura specifica).

 

Iniziative in materia di rimpatrio e di riammissione

Con riferimento alle relazioni con i paesi terzi, le Conclusioni del Consiglio europeo prevedono il pieno sostegno, da parte dell’UE e degli Stati membri, ai pacchetti di incentivi globali e su misura, attualmente in fase di sviluppo per determinati paesi al fine di garantire rimpatri e riammissioni efficaci.

Il riferimento è, in primo luogo, al Vertice sulla migrazione di La Valletta dell’11 e 12 novembre 2015 cui hanno partecipato, tra l’altro, i capi di Stato e di Governo dell'Unione europea e dei Paesi africani parti del processo di Khartoum (in particolare i Paesi del Corno d'Africa e l’Egitto) e del processo di Rabat (gli Stati delle regioni dell’Africa settentrionale, occidentale e centrale).

In esito al Vertice è stato lanciato un Fondo fiduciario d'emergenza dell'Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa con una dotazione di 1,8 miliardi di euro finanziato in parte dal bilancio UE e in parte da contributi degli Stati membri. Il Fondo dovrebbe sostenere, tra l’altro, programmi di sviluppo in quelle aree dell’Africa di origine e di transito dei migranti verso l’UE (Sahel, Corno d’Africa, Africa del Nord). Per quanto riguarda la cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione, su sollecitazione dei paesi africani, il Vertice ha sostanzialmente accordato la preferenza ai rimpatri volontari; il Vertice ha inoltre discusso della possibilità di stabilire un collegamento tra gli accordi di riammissione con i paesi africani e gli accordi di facilitazione del rilascio dei visti, nonché di misure volte a sostenere un'effettiva riammissione dei migranti irregolari nei Paesi di origine.

 

 

Aiuti alla popolazione siriana

Si ricorda che in esito alla Conferenza internazionale dei donatori per gli aiuti alla Siria, voltasi a Londra lo scorso 4 febbraio, l'Unione europea e gli Stati membri hanno promesso per il 2016 più di 3 miliardi di euro in assistenza al popolo siriano in Siria, ai rifugiati e alle comunità che li ospitano nei Paesi limitrofi. Con questo impegno si è sostanzialmente triplicato il sostegno che l'UE aveva offerto in occasione della precedente conferenza dei donatori tenutasi il 31 marzo 2015 in Kuwait; la somma si aggiunge ai 5 miliardi di euro che l'UE ha già impegnato in risposta alla crisi umanitaria siriana.

L’Italia si è impegnata a stanziare 400 milioni di euro. Secondo le stime dell’Unione europea negli ultimi cinque anni la guerra in Siria ha provocato più di 250 mila vittime, per lo più civili, e più di 18 milioni di persone hanno bisogno di assistenza , 13,5 milioni dei quali all'interno della Siria. Gli sfollati interni sarebbero 6,5 milioni mentre 4,6 milioni di persone sarebbero fuggite principalmente in Libano, Giordania e Turchia. In particolare in Turchia si sono riversati nel 2015 circa 2,5 milioni di profughi.

Per quanto riguarda l’assistenza per i  rifugiati siriani ospitati in paesi limitrofi , l’UE ha finora

stanziato 583 milioni di euro in Giordania, 552 milioni di euro in Libano, 104 milioni di euro in Iraq, 352 milioni di euro in Turchia. Inoltre nel novembre 2015 il Consiglio europeo, nell’ambito di un accordo più generale UE-Turchia (vedi infra) ha deciso lo stanziamento aggiuntivo di 3 miliardi per il sostegno ai rifugiati siriani da parte della Turchia. Lo stanziamento è ripartito in 1 miliardo a carico del bilancio dell’UE e 2 miliardi a carico dei bilanci nazionali. La quota italiana, dovrebbe essere pari ad una quota del’11,25% corrispondente a circa 225 milioni di euro.

 

La rotta dei Balcani occidentali

Secondo il Consiglio europeo la questione dei continui e intensi flussi migratori irregolari lungo la rotta dei Balcani occidentali richiede un’ulteriore azione concertata e un termine all’atteggiamento permissivo e ai provvedimenti non coordinati lungo tale rotta. Nella Conclusioni si pone inoltre in rilievo la necessità di restare vigili quanto ai potenziali sviluppi lungo le rotte alternative.

Nel 2015 Frontex ha rilevato circa 760 mila attraversamenti irregolari alle frontiere UE lungo la rotta cosiddetta dei Balcani occidentali (la maggior parte dei migranti che percorrono questa rotta, dopo essere entrati in Grecia, attraversano l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e la Serbia per approdare in Ungheria e in Croazia, spesso con l’ulteriore proposito di raggiungere Austria, Germania e i Paesi scandinavi. La maggior parte dei migranti lungo questa rotta è di origine siriana, afgana ed irachena.

L’ingente aumento di tale flusso di migranti ha indotto alcuni Stati dell’area Schengen a reintrodurre i controlli alle frontiere interne applicando le relative disposizioni del Codice frontiere Schengen.

Si tratta, tra gli altri, di Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, e Germania. Tale reintroduzione, in base agli articoli 23-25 del Codice Schengen, può protrarsi fino a sei mesi; tuttavia in occasione del Consiglio informale giustizia e affari interni del 25-26 gennaio 2016 alcuni Stati membri hanno chiesto di approfondire l’eventualità di estendere la misura fino a due anni, in applicazione della procedura ex articolo 26 del codice Schengen. Tale strumento prevede che in caso di circostanze eccezionali in cui il funzionamento globale dello spazio senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio a seguito di carenze gravi e persistenti nel controllo di frontiera alle frontiere esterne, a seguito di raccomandazione del Consiglio, gli Stati membri rispristinino i controlli a alle frontiere interne per un periodo che può essere prorogato fino a due anni.

L’eventuale reintroduzione di controlli alle frontiere interne fino a due anni da parte degli Stati membri esposti alla rotta balcanica potrebbe spostare i flussi di migranti tra i diversi canali di ingresso in Europa. In particolare, non è da escludere che il tentativo di ostacolare i movimenti secondari che partono dalla Grecia per giungere nell’Europa centrale e settentrionale possa indurre a riprendere la rotta del Mediterraneo centrale che comporterebbe l’approdo in Italia di un numero più consistente di migranti.

 

La valutazione Schengen sulla Grecia

Il Consiglio europeo richiama la raccomandazione del Consiglio del 12 febbraio 2016 sull’applicazione dell’acquis di Schengen per quanto concerne la gestione delle frontiere esterne.

Secondo le Conclusioni, tutti gli Stati membri dello spazio Schengen sono tenuti ad applicare appieno il codice frontiere Schengen e a respingere “alle frontiere esterne i cittadini di paesi terzi che non soddisfano le condizioni d'ingresso o che non hanno presentato domanda d'asilo sebbene ne abbiano avuto la possibilità, tenendo conto al tempo stesso delle specificità delle frontiere marittime, anche con l'attuazione dell'agenda UE-Turchia”.

Si ricorda che in applicazione del regolamento (UE) n. 1053/2013 del Consiglio, che istituisce un meccanismo di valutazione e di controllo per verificare l’applicazione dell’acquis di Schengen, nel novembre 2015, una squadra composta da esperti degli Stati membri e della Commissione ha valutato (mediante visita di valutazione sul campo e senza preavviso), l'attuazione dell'acquis di Schengen nel settore della gestione delle frontiere esterne da parte della Grecia.

In esito a tale valutazione, la Commissione il 2 febbraio 2016 ha adottato una relazione in cui sono state messe in luce gravi carenze da parte della Grecia nello svolgimento dei controlli alle frontiere esterne.

In seguito, in applicazione dell’articolo 15 del citato regolamento, il Consiglio del 12 febbraio 2016 ha adottato una decisione recante raccomandazioni volte alla correzione delle gravi carenze individuate nel corso della valutazione e a garantire che la Grecia applichi in modo corretto ed efficace tutte le norme Schengen relative alla gestione delle frontiere esterne.

Tra le raccomandazioni più rilevanti si segnalano: il miglioramento delle procedure di registrazione e raccolta delle impronte digitali dei migranti e il loro inserimento nella banca dati Eurodac, l’accelerazione delle procedure di rimpatrio delle persone che non hanno diritto all’asilo o che non hanno fatto richiesta di protezione; l’adozione di misure per migliorare l’attività di sorveglianza delle frontiere marittime anche attraverso il rafforzamento della guardia costiera con l’impiego di un sufficiente numero di imbarcazioni; il rafforzamento della cooperazione con Turchia e Bulgaria circa la sorveglianza dei confini comuni terrestri.

Si segnala che in applicazione dell’articolo 19b del Codice frontiere Schengen, ove la Grecia non dovesse sanare, entro tre mesi, le gravi carenze nel funzionamento dello spazio Schengen sotto il profilo del controlli alle frontiere esterne UE messe in evidenza nella relazione Schengen, la Commissione europea potrebbe attivare la procedura di cui all’articolo 26 del Codice frontiere Schengen, proponendo al Consiglio l’adozione di raccomandazioni agli Stati membri (in particolare quelli esposti alla cosiddetta rotta dei Balcani occidentali) intese alla reintroduzione dei controlli alle frontiere interne per un periodo prorogabile fino a due anni, in modo tale da diminuire il rischio dei cosiddetti movimenti secondari dei migranti non aventi diritto a rimanere sul territorio dell’UE.

 

Lo stato di attuazione dei punti di crisi

Il Consiglio europeo ha rilevato che con l'assistenza dell'UE, la creazione e il funzionamento dei punti di crisi in Italia e Grecia sono in graduale miglioramento per quanto concerne l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali; il Consiglio europeo pone l’accento sulla necessità di ulteriori progressi nei seguenti settori: rendere pienamente operativi gli hotspot; impedire i movimenti secondari di migranti irregolari e di richiedenti asilo; migliorare sotto il profilo delle condizioni umane le strutture di accoglienza che ospitano i migranti in attesa di accertamento del loro status.

Il Consiglio europeo sottolinea al contempo il fatto che i richiedenti asilo non hanno il diritto di scegliere lo Stato membro in cui chiedere protezione internazionale.

Il 10 febbraio 2016 la Commissione europea ha pubblicato la relazione sullo stato di attuazione delle misure da parte di Italia e Grecia ed in particolare delle raccomandazioni emanate nel dicembre 2015. Secondo tale rapporto in Italia sono stati programmati sei hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta e Taranto), ma allo stato sarebbero pienamente operativi solo i due punti di crisi di Lampedusa e Pozzallo. Notevoli progressi sono inoltre stati fatti per quanto riguarda la raccolta delle impronte digitali dei migranti: secondo la Commissione europea dal 36 per cento nel settembre 2015 il dato è salito all’87 per cento nel gennaio 2016, mentre in occasione degli ultimi sbarchi il fingerprinting negli hotspot si sarebbe avvicinato al 100 per cento. La Commissione stima che, resi pienamente operativi tutti i punti di crisi, questi dovrebbero avere la capacità di rilevare le impronte digitali di circa 2.160 persone al giorno.

Il 10 dicembre 2015 la Commissione ha avviato una procedura di infrazione (con lettera di costituzione in mora) nei confronti dell’Italia, insieme a Grecia e Croazia, invitandola ad attuare correttamente il Regolamento n. 603/2013 Eurodac per l’effettivo rilevamento delle impronte digitali dei richiedenti asilo e la trasmissione dei dati al sistema centrale.

Nel rapporto si sottolinea, tra l’altro, la necessità di aumentare la capacità dei centri di identificazione ed espulsione e di prolungare il periodo di detenzione amministrativa (nell’ambito del limite massimo di 18 mesi consentito dalla direttiva rimpatri) in tali centri in modo da assicurare che le procedure di rimpatrio siano completate con successo ed evitare che i rimpatriandi siano lasciati liberi e facciano perdere le loro tracce.

Le Conclusioni del Consiglio europeo sottolineano come s’imponga un'azione urgente per rendere meno critica la situazione umanitaria dei migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali mediante il ricorso a tutti gli strumenti dell'UE e nazionali disponibili. A questo scopo il Consiglio europeo ritiene necessario dotare l'UE della capacità di fornire aiuti umanitari in cooperazione con organizzazioni come l'UNHCR, a livello sia interno che esterno, per sostenere i paesi che fanno fronte a un elevato numero di rifugiati e migranti.

 

La Guardia costiera e di frontiera europea

Il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di accelerare i lavori al fine di raggiungere un accordo politico durante il semestre di Presidenza olandese del Consiglio dell’Unione europea per quanto concerne la proposta relativa all’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea.

Con la proposta di regolamento COM(2015)671, adottata dalla Commissione europea il 15 dicembre 2015, si prevede in particolare l’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea e la previsione di un nuovo quadro giuridico rafforzato di Frontex che prenderà il nome di Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera. La nuova guardia costiera e di frontiera dovrebbe avere a disposizione una squadra di riserva rapida di almeno 1500 esperti, e un parco di attrezzature tecniche messo a disposizione dagli Stati membri cui l’agenzia dovrebbe poter attingere autonomamente. È previsto che in seno all’Agenzia sia istituito un centro di monitoraggio e analisi dei rischi per controllare i flussi migratori verso l’Unione europea e al suo interno. In particolare tale centro dovrà svolgere valutazioni di vulnerabilità volte ad individuare i punti deboli alle frontiere UE. Inoltre, secondo la proposta, gli Stati membri potranno richiedere operazioni congiunte e interventi rapidi alle frontiere, nonché il dispiegamento di squadre della guardia costiera e di frontiera europea a sostegno di tali operazioni e interventi.

In caso di persistenza delle carenze o di ritardo o inadeguatezza dell'azione nazionale qualora uno Stato membro sia sottoposto a una forte pressione migratoria che rappresenti una minaccia per lo spazio Schengen, la Commissione dovrebbe poter adottare una decisione di esecuzione per stabilire che la situazione in un particolare tratto delle frontiere esterne richiede un intervento urgente a livello europeo. Ciò dovrebbe permettere all'Agenzia di intervenire, dispiegando le squadre della guardia costiera e di frontiera europea, per assicurare l'azione sul campo anche quando uno Stato membro non può o non vuole adottare le misure necessarie.

La proposta prevede infine il rafforzamento del mandato dell’Agenzia per quanto riguarda le attività di rimpatrio.

 

 

 

Il Vertice UE-Turchia

Il 7 marzo scorso, i Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea si sono riuniti con il Primo ministro turco Davutoglu, dando seguito all'analogo Vertice del 29 novembre 2015 e alla Dichiarazione ivi approvata e discutendo in particolare della situazione in materia di migrazione, con riferimento alla rotta dei Balcani occidentali. A conclusione della riunione è stata approvata una nuova Dichiarazione nella quale Unione europea e Turchia convengono, tra l'altro, sulla necessità di "far rientrare, a spese dell'Unione, tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche"; di assicurare che, "per ogni siriano che la Turchia riammette dalle isole greche, un altro siriano sia reinsediato dalla Turchia negli Stati membri dell'UE"; di accelerare l'erogazione dei 3 miliardi di euro inizialmente stanziati e di prendere una decisione "in merito a un ulteriore finanziamento destinato allo strumento per i rifugiati siriani"; di "prepararsi alla decisione di aprire quanto prima nuovi capitoli dei negoziati di adesione con la Turchia". Spetterà al Presidente del Consiglio europeo portare avanti tali proposte e definirne i dettagli con la controparte turca "prima del Consiglio europeo di marzo"

 

 


L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti[6]

Il 13 settembre, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non seguiva per lungo tempo l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie candidature.

Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei dintorni del Medical Center di Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa provocava accuse alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese. Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.

 

La posizione del Governo italiano di fronte alle ipotesi d’intervento internazionale in Libia

L’Italia non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.

Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon.

Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.

Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominano Tripoli definiva l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.

Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri dell’Unione europea -, e gli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar ed altri.

Il 19 ottobre il parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava  recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima.

Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti della dialogo proposto dall’ONU.

Nel prolungarsi dello stallo negoziale libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi (conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione accuratamente pianificata dal Pentagono.

Il ruolo oggettivamente preminente dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla la firma diretta dell’intesa.

Tale impostazione era il frutto anche del nuovo approccio del mediatore delle Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.

 

L’accordo di Skhirat

La Conferenza di Roma si dimostrava un passo decisivo, e finalmente il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. Al Consiglio di presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità libiche.

Il giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale si sollecita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dall’ISIS o da al-Qaida.

 

I tentativi per la creazione di un esecutivo di unità nazionale

In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari. Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi, dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione anti-ISIS, ribadiva la disponibilità dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia, purché richieste in tal senso vengano dalle autorità di quel paese e purché il processo di stabilizzazione venga operato congiuntamente dall’Italia e dai suoi alleati.

Tuttavia cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di ministri. Un’altra mozione, inoltre, votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk,  ha bloccato anche il via libera all’accordo politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di fatto interamente l’influente generale Khalifa Haftar.

In tal modo la grande maggioranza dei membri del parlamento di Tobruk sembra aver ribadito la propria vicinanza alle posizioni di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero territorio libico.

In questo scenario indubbiamente, dilatandosi i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, sono state rilanciate le voci, già numerose nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrerebbe orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Irritazione negli ambienti francesi della difesa ha destato quanto diffuso il 24 febbraio dal quotidiano Le Monde sulla presenza di forze francesi in Cirenaica impegnate da diverse settimane a combattere in maniera clandestina il “Califfato”.

Per ciò che concerne il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, va rilevato anzitutto come nell’incontro a Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio Mattarella l’Italia abbia avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca che gli Stati Uniti si trovano in consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Intanto il 14 febbraio, ancora una volta a Skhirat in Marocco, era stata stilata la lista di una nuova compagine di governo, assai più leggera della precedente, con 13 ministri e cinque ministri di Stato: tra essi tre donne. Mentre nei dicasteri della difesa e dell’interno sono stati confermati rispettivamente al-Burghuthi e al-Khouja, agli esteri è stato nominato un ex ministro della cooperazione in carica negli ultimi anni del regime di Gheddafi, Mohammed Sayala. In particolare, il premier incaricato Serraj ha fatto leva sulla conferma di al-Burghuthi alla difesa come possibile punto di mediazione, in quanto pur essendo stato questi agli ordini di Haftar,  risulterebbe gradito a varie milizie filo islamiche della fazione di Tripoli, così come il ministro dell’interno in pectore al-Khouja, già attivo nella stessa carica proprio a Tripoli.

La nuova lista di ministri ha trovato però nuovamente nel Consiglio di presidenza l’opposizione di due esponenti favorevoli al generale Haftar, al-Qatrani e al-Aswad, non l’hanno sottoscritta. Proprio al-Qatrani avrebbe lasciato intendere la pregiudiziale opposizione di una parte significativa del parlamento di Tobruk al ministro della difesa designato, e ha accusato il Consiglio di presidenza di essere controllato dai Fratelli Musulmani.

Il 19 febbraio si era poi verificato un raid aereo statunitense contro postazioni dell’ISIS nella cittadina di Sabrata, a una settantina di km. da Tripoli: l’attacco aereo ha avuto come obiettivo un campo di addestramento di appartenenti allo “Stato islamico”, e avrebbe provocato una quarantina di vittime, senza peraltro poter escludere la morte di diversi civili - accertata purtroppo invece la morte di due cittadini serbi, dipendenti dell’ambasciata di Belgrado in Libia e rapiti nel novembre 2015.

Nel raid probabilmente ha perso la vita Noureddine Chouchane, ritenuto l’ideatore degli attacchi ai turisti in Tunisia al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Sabrata risultava da alcuni mesi il bastione più occidentale del “Califfato” in Libia: i jihadisti si erano dapprima accordati con le tribù locali per occupare parti della città, poi, grazie anche ai traffici di migranti, sarebbero stati in grado di creare campi di addestramento. Per tutta risposta, comunque, circa 150 miliziani dell’ISIS occupavano nei giorni seguenti il quartier generale della sicurezza di Sabrata: i miliziani venivano successivamente respinti, ma non prima di aver decapitato una decina di agenti di sicurezza libici.

Sul fronte del cammino politico-istituzionale della Libia, il 24 febbraio 101 parlamentari di Tobruk hanno firmato una petizione a sostegno del nuovo esecutivo proposto da Serraj, un fatto che, pur non significando ancora il via libera di Tobruk, ha costituito uno snodo potenzialmente importante nella questione.

Infatti il 1° marzo il Ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, a colloquio a New York con l’incaricato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Martin Kobler - che il giorno dopo avrebbe riferito al Consiglio di sicurezza dell’ONU - avanzava la proposta italiana di far leva sul pronunciamento dei 101 parlamentari di Tobruk per considerare espressa e formalizzata la volontà della maggioranza di quel consesso parlamentare - ove peraltro, come emerso da una lettera del vicepresidente Hamuhu a Martin Kobler, un libero dibattito sarebbe stato più volte impedito anche con la violenza.

L’urgenza di sbloccare la situazione istituzionale libica è emersa sempre più pressante anche in rapporto allo stato avanzato dei preparativi per quello che potrebbe essere un secondo intervento internazionale nel paese nordafricano, per il quale intanto veniva istituito a Roma il centro di coordinamento della coalizione. Le difficoltà della situazione libica si confermavano tuttavia il 4 marzo, quando colpi di granate anticarro raggiungevano a Tripoli la sede del Partito della patria, il giorno dopo che più di 50 deputati del Congresso nazionale generale di Tripoli a quel partito riferentisi avevano dichiarato il proprio appoggio al nascente governo unitario.

Per di più alcuni deputati di Tobruk avevano frattanto negato di aver apposto la propria firma alla petizione del 24 febbraio, ponendo in ulteriore difficoltà i piani di Martin Kobler e anche la proposta avanzata dal nostro Paese - diversi media libici hanno tra l’altro protestato contro l’escamotage[7] fatto proprio da Kobler, qualificato alla stregua di un tentativo di aggiramento della maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione del parlamento di Tobruk della nuova lista dei ministri. Per uscire dall’impasse è emersa da parte dell’inviato speciale delle Nazioni Unite la prospettazione di una possibile ripresa del dialogo politico libico, per affidare nuovamente a un formato extraparlamentare la riconciliazione nazionale e il via libera a un nuovo esecutivo, superando i blocchi e i veti incrociati delle varie minoranze del paese. Su questo obiettivo di Kobler un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha espresso convinto sostegno.

 

Le rivelazioni del Wall Street Journal sull’impiego della base aerea di Sigonella per operazioni di bombardamento con droni

Una polemica interna allo schieramento politico italiano si è aperta dopo le rivelazioni del 22 febbraio del Wall Street Journal, secondo le quali dal mese di gennaio decollerebbero dalla base NATO italiana di Sigonella droni armati statunitensi per operazioni di bombardamento contro l’ISIS in Libia e in altre località del Nordafrica. Il Ministero della difesa italiano ha confermato l’accordo tra Washington e Roma per l’utilizzo della base di Sigonella, negando tuttavia che siano già in corso voli finalizzati a tali missioni, e precisando che ogni singola missione dovrà essere sottoposta all’autorizzazione del Governo italiano. Inoltre l’accordo non riguarderebbe tanto la Libia, e quindi un’accelerazione della possibilità di intervento militare nel paese nordafricano, quanto profili più generali di protezione e sicurezza del personale impegnato nella lotta contro l’ISIS in tutti gli scenari in cui il “Califfato” è presente.

Le opposizioni parlamentari hanno lamentato di non essere state adeguatamente informate dal Governo su tali sviluppi, a loro dire particolarmente preoccupanti alla luce del più volte manifestato allarme degli Stati Uniti per la crescente presenza dell’ISIS in Libia, con la richiesta di una maggior cooperazione agli alleati europei.

Tutte queste questioni sono state affrontate il 25 febbraio dal Consiglio supremo di difesa presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, dal quale è emersa la disponibilità italiana a intervenire, ma solo su richiesta di un’autorità libica ricostituita unitariamente, per una missione di supporto che vedrebbe impegnato un numero limitato di militari, con compiti di addestramento delle forze locali e sorveglianza di siti particolarmente sensibili, come ambasciate e palazzi istituzionali.

Parallelamente al crescere della pressione statunitense sulle autorità italiane - con il Segretario alla difesa USA Ashton Carter che in una conferenza stampa del 29 febbraio al Pentagono esplicitamente ha ribadito spettare all’Italia il ruolo guida per un intervento in Libia -; è emerso come anche l’Italia abbia già dispiegato una quarantina di agenti operativi del servizio segreto esterno (AISE), e si trovi nell’imminenza di inviare una cinquantina di appartenenti al reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin.

Questa forma di intervento è stata possibile in ragione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio, oggetto di secretazione, che avrebbe avocato al Dipartimento per la sicurezza - cui fa capo il coordinamento dei due servizi italiani di intelligence - e quindi alla Presidenza del Consiglio, la responsabilità in ordine ad operazioni per gravi crisi all’estero. In base al citato DPCM, con gli agenti dell’AIE sarà possibile la collaborazione di militari di alcuni corpi speciali, in via diretta e al di fuori della normale catena di comando - che naturalmente farebbe invece capo al Ministero della difesa.

Nell’espletare queste funzioni gli appartenenti ai corpi speciali della difesa godrebbero dell’estensione delle normali garanzie funzionali a favore degli agenti dell’AISE, estensione già disposta nel decreto-legge di rinnovo della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali della fine del 2015 (D.L. 174/2015, art. 7-bis, nel quale pure si riscontra la base legislativa del DPCM del 10 febbraio).

Va comunque segnalato che lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, anche nel clima di costernazione destato dall’uccisione dei due tecnici italiani in Libia e prima del rientro dei due colleghi superstiti, ha espresso forte irritazione per ogni accelerazione mediatica in ordine a un possibile intervento del nostro Paese nello scenario libico, definita quale atto di irresponsabilità. Matteo Renzi ha ribadito che la priorità dell’Italia è diplomatica, e mira anzitutto alla formazione di un governo libico unitario, ed effettivamente gran parte dell’arco politico-parlamentare è sembrato convergere sulla cautela del Presidente Renzi, sulla quale sono apparse altresì quasi perfettamente sintoniche fonti dell’Eliseo, in vista dell’incontro dell’8 marzo tra Matteo Renzi e il Presidente francese Hollande. Lo stesso ambasciatore americano a Roma John Phillips è sembrato assai più cauto quando è tornato sull’argomento dell’impegno italiano in Libia, sottolineando di aver fatto riferimento, nell’intervista di tre giorni prima al Corriere della Sera, al contingente italiano di 5.000 uomini per la Libia in base a precedenti indicazioni della stessa Italia, e non come forma di suggerimento da parte degli USA, consapevoli che si tratta di decisioni ancora da adottare.

L’incontro italo-francese di Venezia dell’8 marzo ha visto la convergenza tra i due Governi sulla priorità della formazione del governo unitario in Libia, pur sottolineando l’urgenza di addivenire a una soluzione dell’intricato problema istituzionale - come sostenuto in particolare dal presidente francese Hollande, alludendo alla presenza ormai ben radicata del terrorismo dell’ISIS in Libia. Il riferimento alle notizie riportate nella stessa giornata dal New York Times in merito a piani statunitensi già messi a punto per un’ondata di raid aerei contro alcune decine di obiettivi dell’ISIS in diverse zone della Libia, che dovrebbe precedere l’intervento di terra delle milizie libiche filoccidentali, il Presidente del Consiglio Renzi ha evidenziato l’importanza di una visione di lungo periodo dei problemi del paese nordafricano, disinnescando pertanto nell’immediato le tensioni in ordine all’intervento militare a breve termine. Un’incognita fondamentale anche nei rapporti tra i paesi occidentali rimane però quella della tempistica dell’intervento militare contro l’ISIS, che da parte degli Stati Uniti e, par di comprendere, della Francia, si correla alla necessità di impedire un eccessivo rafforzamento delle milizie del “Califfato”, che rischierebbe di vanificare l’intervento militare su scala limitata attualmente nei piani generali.

Le posizioni dell’Italia sono state ribadite in Parlamento nella giornata del 9 marzo, anzitutto con l’intervento del Ministro degli esteri Gentiloni alla Camera e al Senato: il Ministro ha ribadito la linea di prudenza sull’intervento militare in Libia, un teatro, ha ricordato, nel quale oltre ad almeno cinquemila combattenti dell’ISIS vi sarebbero circa duecentomila uomini armati, inquadrati in varie milizie o gruppi tribali. Il Governo italiano, ha proseguito il Ministro Gentiloni, tenta di favorire la formazione di un governo libico unitario, consentendo alla maggioranza del parlamento di Tobruk favorevole al premier designato Fayez Serraj di esprimersi anche al di fuori del consesso parlamentare, per superare le minacce da parte delle frange più estremiste. Dal canto suo la Ministra della difesa Roberta Pinotti, intervenendo nella stessa giornata in seno al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) ha reiterato analoghe dichiarazioni, precisando che solo su richiesta libica potrà dispiegarsi una missione di tipo militare, e in ogni caso dopo il via libera del Parlamento italiano – la Ministra Pinotti ha poi precisato  non esservi al momento forze speciali militari italiane in Libia.

Il 10 marzo si è svolta peraltro Tunisi la preannunciata riunione del dialogo politico libico - la via alternativa scelta dalle forze interessate alla formazione di un governo unitario in Libia per aggirare il veto finora rappresentato dal parlamento di Tobruk nei confronti del nuovo esecutivo -, subito inceppata da complicate procedure di insediamento del Comitato di dialogo. Per di più, il presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh l’8 marzo aveva dichiarato che una fiducia accordata al nuovo esecutivo al di fuori del parlamento non avrebbe alcun valore.

 

L’assassinio di due ostaggi italiani e la liberazione degli altri due connazionali rapiti

Il 2 marzo purtroppo si era intanto avuta notizia dell’uccisione di Salvatore Failla e Fausto Piano - due dei quattro ostaggi italiani, tecnici dell’azienda Bonatti, rapiti in Libia nel luglio 2015 - che perdevano la vita nel corso di un attacco a Sabrata delle milizie fedeli a Tripoli nei confronti di gruppi ritenuti vicini all’ISIS. Nel caos di Sabrata è stato particolarmente difficile nelle prime ore ricostruire gli eventi, anche per la delicatezza della situazione, che sembrava far immaginare la volontà delle autorità cittadine di trattenere i due ostaggi superstiti – Gino Pollicardo e Filippo Calcagno -, alla ricerca di una qualche forma di riconoscimento politico di Tripoli, cui le autorità di Sabrata risultano collegate. Fortunatamente all’alba del 6 marzo ha potuto atterrare all’aeroporto di Ciampino l’aereo che riportato a casa i due tecnici superstiti, che già in tarda mattinata sono stati ascoltati dai magistrati in una caserma del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri.

Nelle sei ore di colloquio sarebbe emerso come, unitamente ai due colleghi deceduti, Pollicardo e Calcagno abbiano patito durante gli otto mesi di prigionia violenze fisiche e psicologiche da parte della banda criminale che li aveva in ostaggio. Quanto alla loro liberazione, sarebbe avvenuta il 4 marzo, dopo la scomparsa dei loro carcerieri, i quali due giorni prima avevano prelevato Failla e Piano, che non avrebbero più rivisto i propri colleghi di lavoro e di prigionia.

Sulla vicenda tra l’altro il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha asserito il 6 marzo la necessità di comprendere come mai i quattro tecnici italiani siano entrati in Libia quando già era stato posto un esplicito divieto da parte delle autorità del nostro Paese: al Presidente del Consiglio ha replicato il numero uno della società Bonatti, Paolo Ghirelli, dicendo che la sua azienda aveva rispettato tutti gli obblighi di legge e i quattro tecnici si trovavano in Libia per uno scopo di lavoro ben preciso.

Solo nella notte tra il 9 e il 10 marzo le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano hanno potuto far rientro in Italia, accolte all’aeroporto di Ciampino dai familiari e dal Ministro degli esteri Gentiloni - particolarmente amareggiata la reazione della moglie di Salvatore Failla, che ha detto di non volere funerali di Stato per il marito, per il quale la strategia consigliata dalle autorità italiane si sarebbe rivelata fatale. La vedova Failla ha poi rivelato la presenza tra i sequestratori di un soggetto in grado di parlare seppur stentatamente in italiano, in occasione della telefonata con cui i sequestratori le avevano fatto ascoltare un messaggio registrato in cui il marito chiedeva aiuto e le diceva di rivolgersi ai mezzi di comunicazione italiani. L’avvocato della famiglia Failla, dal canto suo, ha stigmatizzato l’autopsia effettuata in Libia, qualificandola alla stregua di una macelleria: in particolare, il prelievo di parte dei tessuti corporei ha reso impossibile l’identificazione della dinamica esatta dell’uccisione dei due tecnici italiani. Tuttavia, l’autopsia subito effettuata al Policlinico Gemelli di Roma dopo l’arrivo delle salme in Italia ha evidenziato come i colpi mortali per Failla e Piano siano stati in parti del corpo non compatibili con la versione di una esecuzione da parte dei rapitori prima del blitz delle milizie libiche, a differenza di quanto ancora il 10 marzo dichiarato dal sindaco di Sabrata. Altra questione su cui c’è dissenso tra le autorità italiane e i libici è quella dell’appartenenza all’ISIS dei carcerieri di Failla e Piano, data per scontata delle autorità libiche ed esclusa invece nettamente dall’intelligence italiana.

 


Profili biografici
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali)


Norbert Röttgen
Presidente della Commissione
Affari esteri del Bundestag

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato il 2 luglio 1965 a Meckenheim. Cattolico, sposato con tre figli.

 

Consegue la maturità nel 1984. Dal 1984 al 1989 studia giurisprudenza all’Università di Bonn.

Nel 1993 consegue l’abilitazione ad esercitare la professione di avvocato presso il Tribunale regionale di Colonia. Nel 2001 consegue il dottorato in Giurisprudenza.

Nel 1999 consegue l’abilitazione ad esercitare presso la Corte d’appello di Colonia.

Carriera politica

Dal 1982 membro del Partito democratico-cristiano CDU.

Dal 1984 al 2010: Membro del Direttivo locale della CDU per la circoscrizione Rhein-Sieg.

Dal 1992 al 1996: Presidente regionale della Giovane Unione (Gruppo giovanile) del Nord Reno Vestfalia.

Dal 1994: Deputato al Bundestag.

Dal 2001 al 2009: Presidente del Gruppo di lavoro federale dei giuristi democratico-cristiani.

Dal novembre 2009 all’ottobre 2011: Presidente dell’Associazione della CDU del Distretto Mittelrhein.

Dal novembre 2010 al giugno 2012: Presidente della CDU per il Nord Reno Vestfalia.

Dal novembre 2010 al dicembre 2012: Vice Presidente federale della CDU.

Dal febbraio 2005 all’ottobre 2009: Primo Responsabile del Gruppo parlamentare CDU/CSU.

Dall’ottobre 2009 al maggio 2012: Ministro federale per l’Ambiente, la Tutela della Natura e la Sicurezza dei Reattori.

Dal maggio 2012 al settembre 2013: Membro della Commissione Esteri del Bundestag.

Da gennaio 2014: Presidente della Commissione Esteri del Bundestag.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo

Kadri  Veseli

 

Nato a Mitrovica il 31 maggio 1967, è stato uno dei leader delle associazioni studentesche impegnate per l’indipendenza del suo paese. Ha svolto studi universitari dapprima in Albania poi presso l’Università di Sheffield dove ha conseguito un master in Business Administration.

Prima di diventare Presidente del parlamento kosovaro, Veseli è stato membro dell’Esercito di liberazione del Kosovo (KLA), comandante del controspionaggio del Servizio segreto kosovaro (KIS) e, nella veste di consigliere di politica estera, ha preso parte ai negoziati che hanno portato agli accordi di Rambouillet (1999).

Sposato, padre di quattro figli, parla inglese, tedesco e serbo.

 

 

 

 


Pubblicistica

 


Nuovi aspetti dell’antisemitismo

 



I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

 


 

 

 


Documentazione allegata


Dichiarazione di Londra -
The London Declaration on Combating Antisemitism,
Lancaster House, 17 February 2009


 

Preamble

We, Representatives of our respective Parliaments from across the world, convening in London for the founding Conference and Summit of the Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism, draw the democratic world’s attention to the resurgence of antisemitism as a potent force in politics, international affairs and society.

We note the dramatic increase in recorded antisemitic hate crimes and attacks targeting Jewish persons and property, and Jewish religious, educational and communal institutions.

We are alarmed at the resurrection of the old language of prejudice and its modern manifestations in rhetoric and political action -against Jews, Jewish belief and practice and the State of Israel.

We are alarmed by Government-backed antisemitism in general, and state-backed genocidal antisemitism, in particular.

We, as Parliamentarians, affirm our commitment to a comprehensive programme of action to meet this challenge.

We call upon national governments, parliaments, international institutions, political and civic leaders, NGOs, and civil society to affirm democratic and human values, build societies based on respect and citizenship and combat any manifestations of antisemitism and discrimination.

We today in London resolve that:

 

Challenging Antisemitism

1.       Parliamentarians shall expose, challenge, and isolate political actors who engage in hate against Jews and target the State of Israel as a Jewish collectivity;

2.       Parliamentarians should speak out against antisemitism and discrimination directed against any minority, and guard against equivocation, hesitation and justification in the face of expressions of hatred;

3.       Governments must challenge any foreign leader, politician or public figure who denies, denigrates or trivialises the Holocaust and must encourage civil society to be vigilant to this phenomenon and to openly condemn it;

4.       Parliamentarians should campaign for their Government to uphold international commitments on combating antisemitism -including the OSCE Berlin Declaration and its eight main principles;

5.       The UN should reaffirm its call for every member state to commit itself to the principles laid out in the Holocaust Remembrance initiative including specific and targeted policies to eradicate Holocaust denial and trivialisation;

6.       Governments and the UN should resolve that never again will the institutions of the international community and the dialogue of nation states be abused to try to establish any legitimacy for antisemitism, including the singling out of Israel for discriminatory treatment in the international arena, and we will never witness – or be party to -another gathering like the United Nations World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and other related Intolerances in Durban in 2001;

7.       The OSCE should encourage its member states to fulfil their commitments under the 2004 Berlin Declaration and to fully utilise programmes to combat antisemitism including the Law Enforcement programme LEOP;

8.       The European Union, inter-state institutions, multilateral fora and religious communities must make a concerted effort to combat antisemitism and lead their members to adopt proven and best practice methods of countering antisemitism;

9.       Leaders of all religious faiths should be called upon to use all the means possible to combat antisemitism and all types of discriminatory hostilities among believers and society at large;

10.    The EU Council of Ministers should convene a session on combating antisemitism relying on the outcomes of the London Conference on Combating Antisemitism and using the London Declaration as a basis.

 

Prohibitions

11.    Governments should fully reaffirm and actively uphold the Genocide Convention, recognising that where there is incitement to genocide signatories automatically have an obligation to act. This may include sanctions against countries involved in or threatening to commit genocide, referral of the matter to the UN Security Council, or initiation of an interstate complaint at the International Court of Justice;

12.    Parliamentarians should legislate effective Hate Crime legislation recognising “hate aggravated crimes” and, where consistent with local legal standards, “incitement to hatred” offences and empower law enforcement agencies to convict;

13.    Governments that are signatories to the Hate Speech Protocol of the Council of Europe ‘Convention on Cybercrime’ (and the ‘Additional Protocol to the Convention on cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems’) should enact domestic enabling legislation;

Identifying the threat

14.    Parliamentarians should return to their legislature, Parliament or Assembly and establish inquiry scrutiny panels that are tasked with determining the existing nature and state of antisemitism in their countries and developing recommendations for government and civil society action;

15.    Parliamentarians should engage with their governments in order to measure the effectiveness of existing policies and mechanisms in place and to recommend proven and best practice methods of countering antisemitism;

16.    Governments should ensure they have publicly accessible incident reporting systems, and that statistics collected on antisemitism should be the subject of regular review and action by government and state prosecutors and that an adequate legislative framework is in place to tackle hate crime;

17.    Governments must expand the use of the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform policy of national and international organisations and as a basis for training material for use by Criminal Justice Agencies;

18.    Police services should record allegations of hate crimes and incidents -including antisemitism -as routine part of reporting crimes;

19.    The OSCE should work with member states to seek consistent data collection systems for antisemitism and hate crime.

 

Education, awareness and training

20.    Governments should train Police, prosecutors and judges comprehensively. The training is essential if perpetrators of antisemitic hate crime are to be successfully apprehended, prosecuted, convicted and sentenced. The OSCE’s Law enforcement Programme LEOP is a model initiative consisting of an international cadre of expert police officers training police in several countries;

21.    Governments should develop teaching materials on the subjects of the Holocaust, racism, antisemitism and discrimination which are incorporated into the national school curriculum. All teaching materials ought to be based on values of comprehensiveness, inclusiveness, acceptance and respect and should be designed to assist students to recognise and counter antisemitism and all forms of hate speech;

22.    The Council of Europe should act efficiently for the full implementation of its ‘Declaration and Programme for Education for Democratic Citizenship based on the Rights and Responsibilities of the Citizens’, adopted on 7 May 1999 in Budapest;

23.    Governments should include a comprehensive training programme across the Criminal Justice System using programmes such as the LEOP programme;

24.    Education Authorities should ensure that freedom of speech is upheld within the law and to protect students and staff from illegal antisemitic discourse and a hostile environment in whatever form it takes including calls for boycotts.

Community Support

25.    The Criminal Justice System should publicly notify local communities when antisemitic hate crimes are prosecuted by the courts to build community confidence in reporting and pursuing convictions through the Criminal Justice system;

26.    Parliamentarians should engage with civil society institutions and leading NGOs to create partnerships that bring about change locally, domestically and globally, and support efforts that encourage Holocaust education, inter-religious dialogue and cultural exchange.

 

Media and the Internet

27.    Governments should acknowledge the challenge and opportunity of the growing new forms of communication;

28.    Media Regulatory Bodies should utilise the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform media standards;

29.    Governments should take appropriate and necessary action to prevent the broadcast of antisemitic programmes on satellite television channels, and to apply pressure on the host broadcast nation to take action to prevent the transmission of antisemitic programmes;

30.    The OSCE should seek ways to coordinate the response of member states to combat the use of the internet to promote incitement to hatred;

31.    Law enforcement authorities should use domestic “hate crime”, “incitement to hatred” and other legislation as well as other means to mitigate and, where permissible, to prosecute “Hate on the Internet” where racist and antisemitic content is hosted, published and written;

32.    An international task force of Internet specialists comprised of parliamentarians and experts should be established to create common metrics to measure antisemitism and other manifestations of hate online and to develop policy recommendations and practical instruments for Governments and international frameworks to tackle these problems.

 

Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism

33.    Participants will endeavour to maintain contact with fellow delegates through the working group framework, communicating successes or requesting further support where required;

34.    Delegates should reconvene for the next ICCA Conference in Canada in 2010, become an active member of the Inter-parliamentary Coalition and promote and prioritise the London Declaration on Combating Antisemitism.

 


XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011



(…)

 

 

 

 

 

 

 



[1]     La Convenzione fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 1965;  la ratifica dell’Italia è stata effettuata a seguito della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

[2]     La giornata in memoria dell’Olocausto è stata fissata per il 27 gennaio di ogni anno dalla Risoluzione dell’A.G. delle Nazioni unite n. 60/7 del 21 Novembre 2005.

[3]    La più recente risoluzione annuale è del 17 dicembre 2015: A global call for concrete action for the total elimination of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance and the comprehensive implementation of and follow-up to the Durban Declaration and Programme of Action (A/RES/70/140). Si segnala anche la risoluzione, in pari data, sulla lotta al neonazismo e ad altre pratiche che alimentano il razzismo, la discriminazione razziale, la xenophobia e l’intolleranza (A/RES/70/139).

 

[4]     Nel Summit di Budapest del 1994, è stato deciso che la CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) cambiasse la sua denominazione in OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), per riflettere l’avvenuta trasformazione in istituzione stabile.

[5]     Porto, dicembre 2002, e Maastricht, dicembre 2003.

[6]     Aggiornata al 10 marzo 2016

[7]     va però ricordato che secondo alcuni osservatori si tratterebbe di un legittimo ricorso all'articolo 64 dell'accordo di Skhirat, che espressamente prevede la riconvocazione del dialogo politico libico in in caso di gravi violazioni dell'accordo, e tali sarebbero le intimidazioni denunciate da deputati di Tobruk nell'imminenza di concedere la fiducia all'esecutivo di Fayez Serraj.

SERVIZIO STUDI

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Missione a Berlino

(13-15 marzo 2016)

 

 

 

 

 

 

n. 221

 

 

 

11 marzo 2016

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi

 

Dipartimento Affari esteri

( 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

 

Segreteria Generale
Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 / 066760-2146 – * cdrue@camera.it

 

Servizio Rapporti Internazionali

( 066760-3948 – *  cdrin1@camera.it

 

La documentazione dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

File: es0455.docx

 


INDICE

 

Programma della Conferenza

Lista dei partecipanti alla Conferenza

Schede di lettura

Conferenza internazionale sull’antisemitismo

Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo  25

Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee  (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea) 39

L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti 47

Profili biografici (a cura del Servizio Rapporti Internazionali)

Norbert Röttgen Presidente della Commissione Affari esteri del Bundestag  59

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo  61

Pubblicistica

Nuovi aspetti dell’antisemitismo

§  K. Gebert ‘L’ebreo, il fantasma e lo specchio’, in: www.limesonline.com, n. 1, 2 gennaio 2014  67

§  A. Goldstein ‘Mort aux juifs’, ne: Il Mulino, n. 1/2015  67

§  Osservatorio antisemitismo ’Relazione sui principali episodi di antisemitismo in Italia nel 2014’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, n. 1, 3 marzo 2015  67

§  D. Assael ‘Dalle ‘radici giudaico-cristiane’ alle nuove intolleranze. Dove sta andando l’Europa?’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  P. F. Fumagalli ‘La croce e la torah’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  Osservatorio Antisemitismo. B. Guetta e L. Hassan, ’Antisemitismo: un pregiudizio multiforme’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, 14 dicembre 2015  67

I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

§  L. Baccaro ‘Le trasformazioni del capitalismo tedesco e la crisi dell’euro’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  G. D’Ottavio ‘La Germania e la crisi europea’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  C. Catalano ‘La Germania è l’anello debole dell’industria della difesa europea’, in: Cemiss (Centro militare di Studi strategici) Osservatorio Strategico, n. 9/2015, 71

§  U. Villani Lubelli ‘L’indennità nazionale tedesca 25 anni dopo la riunificazione’, in: Commentary ISPI, 3 ottobre 2015  71

§  U. Villani Lubelli ‘La discesa in campo della Germania nel conflitto in Siria’, in: Commentary ISPI, 9 novembre 2015  71

§  R. Perissich ‘Il complesso di Calimero e la demonizzazione della Germania’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  M. Dassù ‘Il compromesso possibile e necessario’, in: www.aspeninstitute.it, 30 gennaio 2016  71

§  M. Messori ‘Scontro italo-tedesco, il peso delle banche’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  E. Rusconi ‘Renzi-Merkel, le differenze possono convergere’, in: www.affarinternazionali.it, 1 febbraio 2016  71

§  R. Menotti e R. Pennisi ‘Il chiarimento italo-tedesco (visto dagli altri) e i problemi strutturali dell’Europa), in: www.aspeninstitute.it, 1 febbraio 2016  71

§  A. Ungaro ‘Difesa, il lungo risveglio di Berlino’, in: www.affarinternazionali.it, 22 febbraio 2016  71

Documentazione allegata

Dichiarazione di Londra - The London Declaration on Combating Antisemitism, Lancaster House, 17 February 2009  257

XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011  263

 

 

 


Programma della Conferenza


(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Lista dei partecipanti alla Conferenza


 

(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Schede di lettura

 


Conferenza internazionale sull’antisemitismo

 


 

(…)

 


Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo

 

Unione europea

Il principale strumento normativo europeo utilizzabile in chiave di contrasto all’antisemitismo è la decisione quadro 2008/913/GAI, del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.

La decisione quadro prevede il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari dei Paesi dell'UE per quanto riguarda i reati ispirati a talune manifestazioni di razzismo e xenofobia. Obiettivo della decisione quadro è che talune gravi manifestazioni di razzismo e xenofobia costituiscano reato in tutti i Paesi dell'UE e siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive.

La decisione quadro si applica ad ogni reato commesso:

·          sul territorio dell'Unione europea (UE), anche tramite un sistema di informazione;

·          da un cittadino di un Paese dell'UE o per conto di una persona giuridica avente sede in un Paese dell'UE. A tale riguardo, la decisione quadro propone criteri per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche.

Discorsi di incitamento all'odio

Sono considerati punibili, in quanto reati penali, determinati atti commessi, quali:

·          pubblico incitamento alla violenza o all'odio rivolto contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito sulla base della razza, del colore, l’ascendenza, la religione o il credo o l’origine nazionale o etnica;

·          il reato di cui sopra commesso mediante diffusione e distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale;

·          l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana in pubblico dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro.

Sono passibili di sanzione anche l'incitamento o la partecipazione nel commettere gli atti suddetti.

Riguardo a tali reati, i Paesi dell'UE devono stabilire:

·          sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive;

·          pene detentive della durata massima di almeno un anno.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, le sanzioni devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive, e devono comprendere ammende penali e non penali. Inoltre le persone giuridiche possono essere sanzionate mediante:

·          l' esclusione dal beneficio di agevolazioni o sovvenzioni pubbliche;

·          l'interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di un’attività commerciale;

·          il collocamento sotto sorveglianza giudiziaria;

·          il provvedimento di liquidazione giudiziaria.

L'avvio delle indagini o dell'azione legale per reati di razzismo e xenofobia non deve essere subordinato a una denuncia o un'accusa a opera della vittima.

 

Reati ispirati dall'odio

Quanto ai reati basati sull’odio, in ogni caso, la motivazione razzista o xenofoba deve essere considerata circostanza aggravante o, in alternativa, il tribunale deve poter considerare tale motivazione nel decidere quale sanzione infliggere.

 

Altri strumenti normativi

La  direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione (2000/78/CE)   la direttiva sull’uguaglianza razziale (2000/43/CE) sono due strumenti giuridici di cui l’UE dispone per combattere la discriminazione. Entrambe tutelano gli ebrei contro la discriminazione – sia essa fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (direttiva sulla parità di trattamento) o contro gli ebrei in quanto gruppo etnico (direttiva sull’uguaglianza razziale).

 

L’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea

L’Unione europea ha deciso nel 2007 l’istituzione dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA) in sostituzione del Centro europeo di monitoraggio del razzismo e della xenofobia (EUMC). L’Agenzia ha lo scopo di “fornire alle competenti istituzioni, organi, uffici e agenzie della Comunità e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti quando essi adottano misure o definiscono iniziative nei loro rispettivi settori di competenza”.

La FRA (e prima ancora l’EUMC) raccoglie dal 2000 con regolarità dati e informazioni riguardanti il razzismo e la xenofobia negli Stati membri dell’UE e, a partire dal 2002, ha stabilito un particolare focus sull’antisemitismo. La FRA ha pubblicato nell’ottobre 2015 un nuovo aggiornamento  del rapporto sull’antisemitismo in Europa (Anti-semitism – Summary overview of the situation in the EU 2004-2014). In esso son riportati i dati relativi a episodi di antisemitismo registrati negli Stati membri.

Nel novembre  2013 la FRA ha anche pubblicato i risultati di un’indagine sulle esperienze di discriminazione e di reati generati dall’odio subiti dagli ebrei degli Stati membri dell’Unione europea.

I risultati della ricerca presentati riguardano Belgio, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Lettonia, Svezia e Regno Unito, paesi in cui, nel complesso, si calcola risieda circa il 90% della popolazione ebraica europea. L’indagine è stata effettuata on-line nei mesi di settembre e ottobre 2012 e vi hanno partecipato circa 5.900 ebrei autocertificati.

Di seguito alcuni risultati della ricerca FRA.

Due terzi degli intervistati (66%) ritiene che l’antisemitismo sia un problema negli Stati membri dell’UE oggetto dell’indagine. Tre quarti degli intervistati (76%) sostengono che l’antisemitismo sia peggiorato negli ultimi cinque anni nel paese in cui vivono.

Nei 12 mesi precedenti l’indagine, il 26% di tutti gli intervistati ha vissuto un episodio o episodi di insulti verbali o molestie per il fatto di essere ebreo – il 4% ha subito violenza fisica o è stato minacciato di violenza.

Quasi un quarto (23%) degli intervistati ha dichiarato che evita almeno occasionalmente di assistere a eventi ebraici o di visitare luoghi ebraici perché non si sentirebbe al sicuro, in quanto ebreo, sul posto o durante il percorso per recarvisi. Oltre un quarto di tutti gli intervistati (27%) evita determinati luoghi nella propria zona o nel proprio quartiere, almeno di tanto in tanto, perché non si sentirebbe al sicuro in quanto ebreo.

Gli intervistati hanno dichiarato che, nei 12 mesi precedenti l’indagine, era più probabile che gli episodi di discriminazione antisemita si verificassero sul posto di lavoro (l’11% degli intervistati che stavano lavorando durante quel periodo aveva subito questo tipo di comportamento), o nella fase di ricerca del lavoro (il 10% degli intervistati che avevano cercato lavoro) o da parte di persone che lavorano in una scuola o in un centro di formazione.

Negli ultimi 12 mesi, più della metà di tutti gli intervistati (57%) ha sentito o visto qualcuno affermare che l’Olocausto era un mito o che era stato esagerato.

Quasi due terzi (64%) di coloro che hanno subito violenze fisiche o minacce di violenza non hanno segnalato l’episodio più grave alla polizia o ad altre organizzazioni.

 

Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo

Il 1° dicembre 2015 il Vicepresidente della Commissione europea e la Commissaria alla giustizia hanno nominato Katharina von Schnurbein Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo.

In tale occasione è stato nominato anche un Coordinatore per il contrasto all’odio contro i musulmani.

Compito principale di tale organismo è portare all’attenzione  del Vice-Presidente e della Commissaria le preoccupazioni delle comunità ebree. Il coordinatore funge dunque da punto di contatto per tali comunità e contribuisce a allo sviluppo della strategia della Commissione europea volta a contrastare i reati di odio, i discorsi di odio, l’intolleranza e  la discriminazione. Il coordinatore deve inoltre offrire un contributo alle politiche in materia di educazione e a quelle volte a contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento. L’organismo collabora con gli Stati membri, il Parlamento europeo, e altre istituzioni, e stabilisce collegamenti con la società civile e li mondo accademico.

 

Nazioni Unite

Lo strumento giuridico internazionale che ha costituito la pietra angolare sulla quale si sono fondati i successivi sviluppi della lotta all’antisemitismo e alle altre forme di discriminazione basate sulla razza è, come noto, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale fatta a New York il 7 marzo 1966[1].

La Convenzione ha previsto la creazione di un Comitato sull'eliminazione della Discriminazione Razziale (Committee on the Elimination of Racial Discrimination  - CERD), costituito presso l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU. Il CERD è un organo di monitoraggio che tutela l'applicazione della Convenzione attraverso lo studio dei rapporti degli Stati parte alla Convenzione. Gli Stati parte (173, attualmente) sono infatti tenuti a dare conto al Comitato - ogni due anni - delle misure adottate per rispettare gli obblighi derivanti dalla Convenzione. Il Comitato esprime il proprio parere su tali rapporti e formula raccomandazioni allo Stato interessato. Il Comitato può inoltre ricevere ricorsi individuali o anche inter-statali, ed ha incluso nella sua agenda una procedura di early warning volta a prevenire la degenerazione di situazioni a rischio.

Sempre nell’ambito delle Nazioni Unite, si ricordano le due risoluzioni dell’Assemblea generale (60/7 e 61/255 adottate, rispettivamente, nel 2005 e nel 2006) che affermano la centralità della commemorazione dell’Olocausto[2] nella prevenzione di ulteriori pericoli di genocidi e che condannano senza riserve qualunque forma di negazionismo.

E’ importante ricordare inoltre che la condanna dell’antisemitismo è contenuta nell’annuale risoluzione dell’Assemblea generale sull’eliminazione di tutte le forme di razzismo[3] e, a partire dal 2004, con l’adozione della risoluzione A/RES/59/199, Elimination of all forms of religious intolerance, anche nella risoluzione annuale sulle intolleranze religiose.

Si ricorda inoltre che il 24 gennaio 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è riunita in una Sessione speciale per commemorare il 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti nella quale più di quaranta oratori hanno preso la parola per riaffermare e dimostrare che l’Olocausto costituisce un vero e proprio iato nel percorso della civiltà.

Tra i numerosi organi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, si ricorda in questa sede il Consiglio per i Diritti Umani per il ruolo che ha ricoperto nella realizzazione della Conferenza di Revisione (Durban II, aprile 2009) della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza collegata a questi fenomeni.

Come è noto, la Conferenza è stata disertata dall’Italia e da numerosi Stati – tra i quali Canada, Germania, Paesi Bassi e Stati Uniti – che, in disaccordo con la bozza di dichiarazione finale, hanno deciso di ritirarsi dai negoziati in corso a Ginevra, per i toni antisemiti che trasparivano nella bozza di documento finale.

In un comunicato ufficiale del Ministero degli Affari esteri del 17 marzo 2009,  iI capo della diplomazia italiana motivava la decisione del ritiro stigmatizzando le le frasi antisemite contenute nella proposta di documento finale

“Come nel 2001 – si legge nel comunicato - di nuovo la questione israelo-palestinese fa capolino in diversi paragrafi del documento in discussione. Il documento negoziato sinora parla di “politica di discriminazione razziale nei confronti della popolazione palestinese”. Israele viene definita responsabile di praticare l’apartheid, la tortura e numerosi atti criminali che sarebbero in contrasto con i diritti umani. In definitiva, addirittura una ‘minaccia per la pace e la sicurezza internazionale’. il documento sinora negoziato contiene anche riferimenti alla questione della ‘diffamazione religiosa’. Esistono già le Convenzioni internazionali contro il razzismo. Occorre adoperarsi affinché siano pienamente applicate. Il governo italiano ritiene invece inopportuno parlare di ‘standard aggiuntivi’, che di fatto mirano ad introdurre nuovi limiti alla libertà di espressione nell’ ipotesi che sia una religione ad essere ‘diffamata’. La libertà di espressione è uno dei valori fondamentali della nostra civiltà e della nostra cultura giuridica, secondo la quale sono gli individui, non le religioni, ad essere titolari di diritti.”

 Va senz’altro segnalata la riunione straordinaria tenuta dall’Assemblea generale dell’ONU il 22 gennaio 2015, e dedicata per la prima volta proprio all’incremento di violenze antiebraiche in diverse aree del mondo, inclusi naturalmente i numerosi episodi di terrorismo con obiettivi ebraici. Il Segretario generale Ban Ki-moon ha indirizzato un videomessaggio alla riunione mentre si trovava a Davos, per sostenere la necessità di combattere con fermezza queste nuove forme di antisemitismo, proprio sulla base del fatto che una delle missioni delle Nazioni Unite risiede nel prevenire nuove mostruosità come la Shoah.    

Per l'Italia, ha affermato nel suo intervento l'ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente al Palazzo di Vetro, sussiste “la necessita' di rafforzare l'opposizione internazionale a ogni forma di razzismo, antisemitismo, xenofobia e intolleranza, e allo stesso tempo promuovere la tutela di diritti fondamentali quali la liberta' di espressione, opinione e associazione". "Dobbiamo condannare con chiarezza e all'unanimita' ogni atto di antisemitismo e le sue radici ideologiche, ma dobbiamo anche condurre una battaglia culturale contro ogni forma di intolleranza, per favorire il rispetto dell'identita' religiosa e ridurre il rischio di violenza", ha proseguito Cardi, ribadendo che il governo italiano "ha da tempo fatto di questa battaglia una priorita'".

 

Consiglio d’Europa

La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) è un organismo di monitoraggio indipendente del Consiglio d’Europa specializzato nel campo della lotta contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza, dalla prospettiva del rispetto dei diritti umani.

L’istituzione dell’ECRI è stata prevista dal primo summit dei Capi di Stato e di governo dei paesi membri del Consiglio d’Europa nel 1993; nel giugno 2002 il Comitato dei ministri del CdE ha adottato uno statuto autonomo per l’ECRI, in tal mondo accentuando il suo carattere di organismo indipendente.

Tra le funzioni dell’ECRI vi sono: l’esame della legislazione, delle politiche e delle altre misure adottate dagli stati membri del CdE per combattere il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e le altre forme di intolleranza; la proposta di ulteriori azioni a livello locale, nazionale ed europeo; la formulazione di raccomandazioni agli Stati membri; l’analisi degli strumenti giuridici internazionali in vista di loro possibili rafforzamenti.

Di rilievo in ambito del Consiglio d’Europa, la Raccomandazione dell’ECRI n. 9 (Raccomandazione di politica generale n° 9: la lotta contro l’antisemitismo),  adottata il 25 giugno 2004, il primo strumento giuridico europeo su questo specifico soggetto, che esorta tutti gli Stati membri a combattere con forza le nuove forme di antisemitismo.

Anche nell’ultimo Rapporto sull’Italia, approvato nel dicembre 2011, l’organismo del CdE sottolinea come  sebbene in teoria la legge Mancino permetta di sanzionare i siti internet in Italia il cui contenuto costituisce un incitamento all’odio, spesso tali siti sono ospitati all’estero e sono pertanto più difficili da combattere. Al riguardo, l’ECRI attira l’attenzione delle autorità sulle raccomandazioni formulate precedentemente, miranti a rafforzare le misure per combattere il razzismo su internet”.

Si segnala infine che è attualmente all’esame delle Commissioni riunite Giustizia ed Affari esteri, in sede referente, il disegno di legge A.C. 3508, di ratifica ed esecuzione del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla criminalità informatica, relativo all'incriminazione di atti di natura razzista e xenofobica commessi a mezzo di sistemi informatici, adottato proprio nell’ambito del Consiglio d’Europa il 28 gennaio 2003 e sottoscritto dall’Italia il 9 novembre 2011.

 

 

OSCE

Gli Stati membri dell’OSCE hanno condannato l’antisemitismo in numerose occasioni a partire dalla Conferenza sulla Dimensione Umana della CSCE[4] del 1990. In seguito, il 4° meeting del Consiglio dei ministri della CSCE riunito a Roma nel 1993 ha riconosciuto l’antisemitismo come una minaccia non solo nei confronti del popolo ebraico, ma anche per la stabilità internazionale.

Si sono poi susseguiti altri Consigli dei ministri[5], nei quali è stata assunta la decisione di agire per fronteggiare l’aumento degli episodi di antisemitismo, nella convinzione  che combattere tale fenomeno debba far parte dei compiti di tutte le forze democratiche. Una prima Conferenza ad alto livello sull’antisemitismo si è svolta a Vienna nel giugno 2003, cui ha fatto seguito la Conferenza di Berlino del 2004 che condanna in maniera risoluta l’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni.

Il 13 e 14 novembre 2014, dieci anni dopo la conferenza di Berlino, l’OSCE ha promosso nella capitale tedesca una nuova conferenza sul tema nel corso della quale il presidente di turno dell’Organizzazione, Didier Burkhalter, ha espresso riconoscimento per le misure varate negli ultimi dieci anni, come, per esempio, la designazione di un rappresentante dell’OSCE per la lotta contro l’antisemitismo e i programmi di formazione finalizzati ad aumentare la consapevolezza del pericolo rappresentato dai sentimenti antiebraici. Al tempo stesso egli.ha chiesto che episodi e accuse di matrice antisemita siano esplicitamente definiti come tali e venga chiaramente sottolineato che non sono tollerati. L’esponente politico elvetico ha inoltre sottolineato che la critica nei confronti di sviluppi politici, per esempio in Israele, non deve essere strumentalizzata come pretesto per dichiarazioni o atti antisemiti.

 


L’introduzione dell’aggravante di “negazionismo”

nell’ordinamento penale italiano

 

L'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato con modificazioni, il 13 ottobre 2015, la proposta di legge A.C. 2874 , già approvata dal Senato, concernente il contrasto e la repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. In particolare, la proposta introduce l'aggravante di negazionismo, riferita a reati di discriminazione previsti dalla c.d. legge Mancino. La proposta di legge è ora al Senato.

L'articolo unico della proposta di legge approvata dalla Camera modifica la c.d. legge Mancino.

Attualmente, in base alla legge Mancino è punito con la pena della reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' poi punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' inoltre vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: ne è sanzionata con pene detentive la partecipazione (da sei mesi a quattro anni) e la promozione o direzione (da uno a sei anni).

La proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati prevede una specifica aggravante nei casi in cui la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale, tenendo conto dei fatti accertati con sentenza passata in giudicato dalla giustizia internazionale o da atti di organismi internazionali e sovranazionali di cui l'Italia è membro.

Nel corso della discussione, la Camera dei deputati ha invece soppresso le disposizioni, contenute nel testo approvato dal Senato, in base a cui:

·         veniva modificato il reato di istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già previsto dalla legge "Mancino"; la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il reato di istigazione a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni; anche in questo caso, la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il codice penale, con la riduzione da cinque a tre anni di reclusione del limite massimo di pena previsto per il reato di istigazione a commettere un delitto.

 


Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

 


(…)

 


La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 18-19 febbraio scorso s’individuano anzitutto  i seguenti obiettivi: contenere rapidamente i flussi migratori; proteggere le frontiere esterne UE; ridurre la migrazione irregolare, e salvaguardare l’integrità dello spazio Schengen. Secondo tale approccio il Consiglio europeo ha valutato lo stato di attuazione degli orientamenti convenuti a dicembre.

Secondo Frontex, l’Agenzia europea per il coordinamento della sorveglianza delle frontiere esterne dell’UE, nel 2015 sono stati rilevati 1,83 milioni attraversamenti irregolari di migranti, a fronte dei 283.500 nell’anno precedente. Solo in Grecia nel 2015 sarebbero arrivate 880 mila persone; in Italia circa 170 mila. Il dato dei flussi migratori in Italia evidenzia una flessione di circa l’8 per cento rispetto al numero dei migranti nel 2014: tale diminuzione dovrebbe rappresentare l’effetto indiretto dell’incremento dei flussi che attraversano il Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia) e che raggiungono l’Europa tramite i Balcani occidentali.

L’aumento dei flussi provenienti dalla Turchia verso la Grecia e lungo la rotta dei Balcani occidentali potrebbe, tra l’altro, essere stato determinato dal rafforzamento dei controlli effettuati lungo le frontiere marittime del Mediterraneo centrale. In particolare, si tratta della missione EUNAVFOR MED – SOPHIA, istituita al fine di contrastare i trafficanti di migranti che utilizzano la rotta dalla Libia all’Italia.

In base alle stime dell’OIM – Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono oltre 76 mila i migranti e i rifugiati arrivati via mare in Grecia e in Italia tra l'1 gennaio e il 7 febbraio 2016: Grecia e Italia avrebbero registrato rispettivamente 70.365 e 5.898 arrivi. Nel corso dei primi due mesi del 2015, la Grecia aveva registrato solo 3.952 arrivi di migranti via mare, l'Italia 7.882 Secondo Eurostat, nel terzo trimestre 2015, sono state presentate nell’Unione europea 430 mila domande di protezione di cui 413 mila di prima istanza (ovvero domande nuove di protezione internazionale). A settembre 2015 nell’UE erano pendenti oltre 800 mila domande di asilo.

Gli orientamenti adottati nel Consiglio europeo del 17-18 dicembre 2015 delineano una serie di impegni per gli Stati membri e le Istituzioni europee volti a una migliore gestione della crisi dei migranti.

Si tratta, tra l’altro, di: colmare le lacune nella gestione delle frontiere esterne; porre rimedio alle carenze nel funzionamento degli hotspot; garantire l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali in maniera sistematica e completa, adottare misure per contrastare il rifiuto di registrazione; attuare le decisioni di ricollocazione, e considerare l'eventualità di includere tra i beneficiari delle decisioni in vigore altri Stati membri in situazione di forte pressione che ne abbiano fatto richiesta; adottare misure concrete per garantire il rimpatrio e la riammissione effettivi delle persone non autorizzate a soggiornare; potenziare le misure per la lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani; garantire l'attuazione e il seguito operativo alla Conferenza ad alto livello sulla rotta del Mediterraneo orientale/dei Balcani occidentali, al vertice di La Valletta, in particolare per quanto riguarda i rimpatri e la riammissione; e al piano d'azione UE-Turchia.

Al riguardo, merita rilevare che nel settembre del 2015 il Consiglio aveva adottato due programmi temporanei di ricollocazione concernenti 160 mila richiedenti asilo; secondo i programmi, dovrebbero essere redistribuiti rispettivamente da Grecia e Italia 66.400 e 39.600 richiedenti asilo. Alla data del 15 febbraio è stata effettuata la ricollocazione di sole 295 persone dalla Grecia e 288 dall’Italia. Tale lentezza nell’attuazione dei programmi di relocation sconta le resistenze da parte di molti Stati membri, alcuni dei quali si sono addirittura rifiutati di aderire al programma.

 

L’intervento della NATO

Il Consiglio europeo ha accolto con favore la decisione della NATO di fornire assistenza nelle attività di ricognizione, controllo e sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo ed esorta tutti i membri della NATO a sostenere attivamente questa misura. Secondo il Consiglio europeo, l'UE (in particolare Frontex) dovrebbe cooperare strettamente con la NATO.

L’11 febbraio 2016 la NATO, su richiesta congiunta di Germania, Grecia e Turchia, ha avviato una missione navale nel Mar Egeo, con il compito di condurre la ricognizione, il monitoraggio e la sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo (v. scheda di lettura specifica).

 

Iniziative in materia di rimpatrio e di riammissione

Con riferimento alle relazioni con i paesi terzi, le Conclusioni del Consiglio europeo prevedono il pieno sostegno, da parte dell’UE e degli Stati membri, ai pacchetti di incentivi globali e su misura, attualmente in fase di sviluppo per determinati paesi al fine di garantire rimpatri e riammissioni efficaci.

Il riferimento è, in primo luogo, al Vertice sulla migrazione di La Valletta dell’11 e 12 novembre 2015 cui hanno partecipato, tra l’altro, i capi di Stato e di Governo dell'Unione europea e dei Paesi africani parti del processo di Khartoum (in particolare i Paesi del Corno d'Africa e l’Egitto) e del processo di Rabat (gli Stati delle regioni dell’Africa settentrionale, occidentale e centrale).

In esito al Vertice è stato lanciato un Fondo fiduciario d'emergenza dell'Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa con una dotazione di 1,8 miliardi di euro finanziato in parte dal bilancio UE e in parte da contributi degli Stati membri. Il Fondo dovrebbe sostenere, tra l’altro, programmi di sviluppo in quelle aree dell’Africa di origine e di transito dei migranti verso l’UE (Sahel, Corno d’Africa, Africa del Nord). Per quanto riguarda la cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione, su sollecitazione dei paesi africani, il Vertice ha sostanzialmente accordato la preferenza ai rimpatri volontari; il Vertice ha inoltre discusso della possibilità di stabilire un collegamento tra gli accordi di riammissione con i paesi africani e gli accordi di facilitazione del rilascio dei visti, nonché di misure volte a sostenere un'effettiva riammissione dei migranti irregolari nei Paesi di origine.

 

 

Aiuti alla popolazione siriana

Si ricorda che in esito alla Conferenza internazionale dei donatori per gli aiuti alla Siria, voltasi a Londra lo scorso 4 febbraio, l'Unione europea e gli Stati membri hanno promesso per il 2016 più di 3 miliardi di euro in assistenza al popolo siriano in Siria, ai rifugiati e alle comunità che li ospitano nei Paesi limitrofi. Con questo impegno si è sostanzialmente triplicato il sostegno che l'UE aveva offerto in occasione della precedente conferenza dei donatori tenutasi il 31 marzo 2015 in Kuwait; la somma si aggiunge ai 5 miliardi di euro che l'UE ha già impegnato in risposta alla crisi umanitaria siriana.

L’Italia si è impegnata a stanziare 400 milioni di euro. Secondo le stime dell’Unione europea negli ultimi cinque anni la guerra in Siria ha provocato più di 250 mila vittime, per lo più civili, e più di 18 milioni di persone hanno bisogno di assistenza , 13,5 milioni dei quali all'interno della Siria. Gli sfollati interni sarebbero 6,5 milioni mentre 4,6 milioni di persone sarebbero fuggite principalmente in Libano, Giordania e Turchia. In particolare in Turchia si sono riversati nel 2015 circa 2,5 milioni di profughi.

Per quanto riguarda l’assistenza per i  rifugiati siriani ospitati in paesi limitrofi , l’UE ha finora

stanziato 583 milioni di euro in Giordania, 552 milioni di euro in Libano, 104 milioni di euro in Iraq, 352 milioni di euro in Turchia. Inoltre nel novembre 2015 il Consiglio europeo, nell’ambito di un accordo più generale UE-Turchia (vedi infra) ha deciso lo stanziamento aggiuntivo di 3 miliardi per il sostegno ai rifugiati siriani da parte della Turchia. Lo stanziamento è ripartito in 1 miliardo a carico del bilancio dell’UE e 2 miliardi a carico dei bilanci nazionali. La quota italiana, dovrebbe essere pari ad una quota del’11,25% corrispondente a circa 225 milioni di euro.

 

La rotta dei Balcani occidentali

Secondo il Consiglio europeo la questione dei continui e intensi flussi migratori irregolari lungo la rotta dei Balcani occidentali richiede un’ulteriore azione concertata e un termine all’atteggiamento permissivo e ai provvedimenti non coordinati lungo tale rotta. Nella Conclusioni si pone inoltre in rilievo la necessità di restare vigili quanto ai potenziali sviluppi lungo le rotte alternative.

Nel 2015 Frontex ha rilevato circa 760 mila attraversamenti irregolari alle frontiere UE lungo la rotta cosiddetta dei Balcani occidentali (la maggior parte dei migranti che percorrono questa rotta, dopo essere entrati in Grecia, attraversano l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e la Serbia per approdare in Ungheria e in Croazia, spesso con l’ulteriore proposito di raggiungere Austria, Germania e i Paesi scandinavi. La maggior parte dei migranti lungo questa rotta è di origine siriana, afgana ed irachena.

L’ingente aumento di tale flusso di migranti ha indotto alcuni Stati dell’area Schengen a reintrodurre i controlli alle frontiere interne applicando le relative disposizioni del Codice frontiere Schengen.

Si tratta, tra gli altri, di Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, e Germania. Tale reintroduzione, in base agli articoli 23-25 del Codice Schengen, può protrarsi fino a sei mesi; tuttavia in occasione del Consiglio informale giustizia e affari interni del 25-26 gennaio 2016 alcuni Stati membri hanno chiesto di approfondire l’eventualità di estendere la misura fino a due anni, in applicazione della procedura ex articolo 26 del codice Schengen. Tale strumento prevede che in caso di circostanze eccezionali in cui il funzionamento globale dello spazio senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio a seguito di carenze gravi e persistenti nel controllo di frontiera alle frontiere esterne, a seguito di raccomandazione del Consiglio, gli Stati membri rispristinino i controlli a alle frontiere interne per un periodo che può essere prorogato fino a due anni.

L’eventuale reintroduzione di controlli alle frontiere interne fino a due anni da parte degli Stati membri esposti alla rotta balcanica potrebbe spostare i flussi di migranti tra i diversi canali di ingresso in Europa. In particolare, non è da escludere che il tentativo di ostacolare i movimenti secondari che partono dalla Grecia per giungere nell’Europa centrale e settentrionale possa indurre a riprendere la rotta del Mediterraneo centrale che comporterebbe l’approdo in Italia di un numero più consistente di migranti.

 

La valutazione Schengen sulla Grecia

Il Consiglio europeo richiama la raccomandazione del Consiglio del 12 febbraio 2016 sull’applicazione dell’acquis di Schengen per quanto concerne la gestione delle frontiere esterne.

Secondo le Conclusioni, tutti gli Stati membri dello spazio Schengen sono tenuti ad applicare appieno il codice frontiere Schengen e a respingere “alle frontiere esterne i cittadini di paesi terzi che non soddisfano le condizioni d'ingresso o che non hanno presentato domanda d'asilo sebbene ne abbiano avuto la possibilità, tenendo conto al tempo stesso delle specificità delle frontiere marittime, anche con l'attuazione dell'agenda UE-Turchia”.

Si ricorda che in applicazione del regolamento (UE) n. 1053/2013 del Consiglio, che istituisce un meccanismo di valutazione e di controllo per verificare l’applicazione dell’acquis di Schengen, nel novembre 2015, una squadra composta da esperti degli Stati membri e della Commissione ha valutato (mediante visita di valutazione sul campo e senza preavviso), l'attuazione dell'acquis di Schengen nel settore della gestione delle frontiere esterne da parte della Grecia.

In esito a tale valutazione, la Commissione il 2 febbraio 2016 ha adottato una relazione in cui sono state messe in luce gravi carenze da parte della Grecia nello svolgimento dei controlli alle frontiere esterne.

In seguito, in applicazione dell’articolo 15 del citato regolamento, il Consiglio del 12 febbraio 2016 ha adottato una decisione recante raccomandazioni volte alla correzione delle gravi carenze individuate nel corso della valutazione e a garantire che la Grecia applichi in modo corretto ed efficace tutte le norme Schengen relative alla gestione delle frontiere esterne.

Tra le raccomandazioni più rilevanti si segnalano: il miglioramento delle procedure di registrazione e raccolta delle impronte digitali dei migranti e il loro inserimento nella banca dati Eurodac, l’accelerazione delle procedure di rimpatrio delle persone che non hanno diritto all’asilo o che non hanno fatto richiesta di protezione; l’adozione di misure per migliorare l’attività di sorveglianza delle frontiere marittime anche attraverso il rafforzamento della guardia costiera con l’impiego di un sufficiente numero di imbarcazioni; il rafforzamento della cooperazione con Turchia e Bulgaria circa la sorveglianza dei confini comuni terrestri.

Si segnala che in applicazione dell’articolo 19b del Codice frontiere Schengen, ove la Grecia non dovesse sanare, entro tre mesi, le gravi carenze nel funzionamento dello spazio Schengen sotto il profilo del controlli alle frontiere esterne UE messe in evidenza nella relazione Schengen, la Commissione europea potrebbe attivare la procedura di cui all’articolo 26 del Codice frontiere Schengen, proponendo al Consiglio l’adozione di raccomandazioni agli Stati membri (in particolare quelli esposti alla cosiddetta rotta dei Balcani occidentali) intese alla reintroduzione dei controlli alle frontiere interne per un periodo prorogabile fino a due anni, in modo tale da diminuire il rischio dei cosiddetti movimenti secondari dei migranti non aventi diritto a rimanere sul territorio dell’UE.

 

Lo stato di attuazione dei punti di crisi

Il Consiglio europeo ha rilevato che con l'assistenza dell'UE, la creazione e il funzionamento dei punti di crisi in Italia e Grecia sono in graduale miglioramento per quanto concerne l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali; il Consiglio europeo pone l’accento sulla necessità di ulteriori progressi nei seguenti settori: rendere pienamente operativi gli hotspot; impedire i movimenti secondari di migranti irregolari e di richiedenti asilo; migliorare sotto il profilo delle condizioni umane le strutture di accoglienza che ospitano i migranti in attesa di accertamento del loro status.

Il Consiglio europeo sottolinea al contempo il fatto che i richiedenti asilo non hanno il diritto di scegliere lo Stato membro in cui chiedere protezione internazionale.

Il 10 febbraio 2016 la Commissione europea ha pubblicato la relazione sullo stato di attuazione delle misure da parte di Italia e Grecia ed in particolare delle raccomandazioni emanate nel dicembre 2015. Secondo tale rapporto in Italia sono stati programmati sei hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta e Taranto), ma allo stato sarebbero pienamente operativi solo i due punti di crisi di Lampedusa e Pozzallo. Notevoli progressi sono inoltre stati fatti per quanto riguarda la raccolta delle impronte digitali dei migranti: secondo la Commissione europea dal 36 per cento nel settembre 2015 il dato è salito all’87 per cento nel gennaio 2016, mentre in occasione degli ultimi sbarchi il fingerprinting negli hotspot si sarebbe avvicinato al 100 per cento. La Commissione stima che, resi pienamente operativi tutti i punti di crisi, questi dovrebbero avere la capacità di rilevare le impronte digitali di circa 2.160 persone al giorno.

Il 10 dicembre 2015 la Commissione ha avviato una procedura di infrazione (con lettera di costituzione in mora) nei confronti dell’Italia, insieme a Grecia e Croazia, invitandola ad attuare correttamente il Regolamento n. 603/2013 Eurodac per l’effettivo rilevamento delle impronte digitali dei richiedenti asilo e la trasmissione dei dati al sistema centrale.

Nel rapporto si sottolinea, tra l’altro, la necessità di aumentare la capacità dei centri di identificazione ed espulsione e di prolungare il periodo di detenzione amministrativa (nell’ambito del limite massimo di 18 mesi consentito dalla direttiva rimpatri) in tali centri in modo da assicurare che le procedure di rimpatrio siano completate con successo ed evitare che i rimpatriandi siano lasciati liberi e facciano perdere le loro tracce.

Le Conclusioni del Consiglio europeo sottolineano come s’imponga un'azione urgente per rendere meno critica la situazione umanitaria dei migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali mediante il ricorso a tutti gli strumenti dell'UE e nazionali disponibili. A questo scopo il Consiglio europeo ritiene necessario dotare l'UE della capacità di fornire aiuti umanitari in cooperazione con organizzazioni come l'UNHCR, a livello sia interno che esterno, per sostenere i paesi che fanno fronte a un elevato numero di rifugiati e migranti.

 

La Guardia costiera e di frontiera europea

Il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di accelerare i lavori al fine di raggiungere un accordo politico durante il semestre di Presidenza olandese del Consiglio dell’Unione europea per quanto concerne la proposta relativa all’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea.

Con la proposta di regolamento COM(2015)671, adottata dalla Commissione europea il 15 dicembre 2015, si prevede in particolare l’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea e la previsione di un nuovo quadro giuridico rafforzato di Frontex che prenderà il nome di Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera. La nuova guardia costiera e di frontiera dovrebbe avere a disposizione una squadra di riserva rapida di almeno 1500 esperti, e un parco di attrezzature tecniche messo a disposizione dagli Stati membri cui l’agenzia dovrebbe poter attingere autonomamente. È previsto che in seno all’Agenzia sia istituito un centro di monitoraggio e analisi dei rischi per controllare i flussi migratori verso l’Unione europea e al suo interno. In particolare tale centro dovrà svolgere valutazioni di vulnerabilità volte ad individuare i punti deboli alle frontiere UE. Inoltre, secondo la proposta, gli Stati membri potranno richiedere operazioni congiunte e interventi rapidi alle frontiere, nonché il dispiegamento di squadre della guardia costiera e di frontiera europea a sostegno di tali operazioni e interventi.

In caso di persistenza delle carenze o di ritardo o inadeguatezza dell'azione nazionale qualora uno Stato membro sia sottoposto a una forte pressione migratoria che rappresenti una minaccia per lo spazio Schengen, la Commissione dovrebbe poter adottare una decisione di esecuzione per stabilire che la situazione in un particolare tratto delle frontiere esterne richiede un intervento urgente a livello europeo. Ciò dovrebbe permettere all'Agenzia di intervenire, dispiegando le squadre della guardia costiera e di frontiera europea, per assicurare l'azione sul campo anche quando uno Stato membro non può o non vuole adottare le misure necessarie.

La proposta prevede infine il rafforzamento del mandato dell’Agenzia per quanto riguarda le attività di rimpatrio.

 

 

 

Il Vertice UE-Turchia

Il 7 marzo scorso, i Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea si sono riuniti con il Primo ministro turco Davutoglu, dando seguito all'analogo Vertice del 29 novembre 2015 e alla Dichiarazione ivi approvata e discutendo in particolare della situazione in materia di migrazione, con riferimento alla rotta dei Balcani occidentali. A conclusione della riunione è stata approvata una nuova Dichiarazione nella quale Unione europea e Turchia convengono, tra l'altro, sulla necessità di "far rientrare, a spese dell'Unione, tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche"; di assicurare che, "per ogni siriano che la Turchia riammette dalle isole greche, un altro siriano sia reinsediato dalla Turchia negli Stati membri dell'UE"; di accelerare l'erogazione dei 3 miliardi di euro inizialmente stanziati e di prendere una decisione "in merito a un ulteriore finanziamento destinato allo strumento per i rifugiati siriani"; di "prepararsi alla decisione di aprire quanto prima nuovi capitoli dei negoziati di adesione con la Turchia". Spetterà al Presidente del Consiglio europeo portare avanti tali proposte e definirne i dettagli con la controparte turca "prima del Consiglio europeo di marzo"

 

 


L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti[6]

Il 13 settembre, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non seguiva per lungo tempo l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie candidature.

Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei dintorni del Medical Center di Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa provocava accuse alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese. Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.

 

La posizione del Governo italiano di fronte alle ipotesi d’intervento internazionale in Libia

L’Italia non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.

Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon.

Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.

Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominano Tripoli definiva l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.

Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri dell’Unione europea -, e gli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar ed altri.

Il 19 ottobre il parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava  recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima.

Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti della dialogo proposto dall’ONU.

Nel prolungarsi dello stallo negoziale libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi (conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione accuratamente pianificata dal Pentagono.

Il ruolo oggettivamente preminente dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla la firma diretta dell’intesa.

Tale impostazione era il frutto anche del nuovo approccio del mediatore delle Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.

 

L’accordo di Skhirat

La Conferenza di Roma si dimostrava un passo decisivo, e finalmente il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. Al Consiglio di presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità libiche.

Il giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale si sollecita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dall’ISIS o da al-Qaida.

 

I tentativi per la creazione di un esecutivo di unità nazionale

In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari. Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi, dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione anti-ISIS, ribadiva la disponibilità dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia, purché richieste in tal senso vengano dalle autorità di quel paese e purché il processo di stabilizzazione venga operato congiuntamente dall’Italia e dai suoi alleati.

Tuttavia cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di ministri. Un’altra mozione, inoltre, votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk,  ha bloccato anche il via libera all’accordo politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di fatto interamente l’influente generale Khalifa Haftar.

In tal modo la grande maggioranza dei membri del parlamento di Tobruk sembra aver ribadito la propria vicinanza alle posizioni di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero territorio libico.

In questo scenario indubbiamente, dilatandosi i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, sono state rilanciate le voci, già numerose nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrerebbe orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Irritazione negli ambienti francesi della difesa ha destato quanto diffuso il 24 febbraio dal quotidiano Le Monde sulla presenza di forze francesi in Cirenaica impegnate da diverse settimane a combattere in maniera clandestina il “Califfato”.

Per ciò che concerne il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, va rilevato anzitutto come nell’incontro a Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio Mattarella l’Italia abbia avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca che gli Stati Uniti si trovano in consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Intanto il 14 febbraio, ancora una volta a Skhirat in Marocco, era stata stilata la lista di una nuova compagine di governo, assai più leggera della precedente, con 13 ministri e cinque ministri di Stato: tra essi tre donne. Mentre nei dicasteri della difesa e dell’interno sono stati confermati rispettivamente al-Burghuthi e al-Khouja, agli esteri è stato nominato un ex ministro della cooperazione in carica negli ultimi anni del regime di Gheddafi, Mohammed Sayala. In particolare, il premier incaricato Serraj ha fatto leva sulla conferma di al-Burghuthi alla difesa come possibile punto di mediazione, in quanto pur essendo stato questi agli ordini di Haftar,  risulterebbe gradito a varie milizie filo islamiche della fazione di Tripoli, così come il ministro dell’interno in pectore al-Khouja, già attivo nella stessa carica proprio a Tripoli.

La nuova lista di ministri ha trovato però nuovamente nel Consiglio di presidenza l’opposizione di due esponenti favorevoli al generale Haftar, al-Qatrani e al-Aswad, non l’hanno sottoscritta. Proprio al-Qatrani avrebbe lasciato intendere la pregiudiziale opposizione di una parte significativa del parlamento di Tobruk al ministro della difesa designato, e ha accusato il Consiglio di presidenza di essere controllato dai Fratelli Musulmani.

Il 19 febbraio si era poi verificato un raid aereo statunitense contro postazioni dell’ISIS nella cittadina di Sabrata, a una settantina di km. da Tripoli: l’attacco aereo ha avuto come obiettivo un campo di addestramento di appartenenti allo “Stato islamico”, e avrebbe provocato una quarantina di vittime, senza peraltro poter escludere la morte di diversi civili - accertata purtroppo invece la morte di due cittadini serbi, dipendenti dell’ambasciata di Belgrado in Libia e rapiti nel novembre 2015.

Nel raid probabilmente ha perso la vita Noureddine Chouchane, ritenuto l’ideatore degli attacchi ai turisti in Tunisia al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Sabrata risultava da alcuni mesi il bastione più occidentale del “Califfato” in Libia: i jihadisti si erano dapprima accordati con le tribù locali per occupare parti della città, poi, grazie anche ai traffici di migranti, sarebbero stati in grado di creare campi di addestramento. Per tutta risposta, comunque, circa 150 miliziani dell’ISIS occupavano nei giorni seguenti il quartier generale della sicurezza di Sabrata: i miliziani venivano successivamente respinti, ma non prima di aver decapitato una decina di agenti di sicurezza libici.

Sul fronte del cammino politico-istituzionale della Libia, il 24 febbraio 101 parlamentari di Tobruk hanno firmato una petizione a sostegno del nuovo esecutivo proposto da Serraj, un fatto che, pur non significando ancora il via libera di Tobruk, ha costituito uno snodo potenzialmente importante nella questione.

Infatti il 1° marzo il Ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, a colloquio a New York con l’incaricato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Martin Kobler - che il giorno dopo avrebbe riferito al Consiglio di sicurezza dell’ONU - avanzava la proposta italiana di far leva sul pronunciamento dei 101 parlamentari di Tobruk per considerare espressa e formalizzata la volontà della maggioranza di quel consesso parlamentare - ove peraltro, come emerso da una lettera del vicepresidente Hamuhu a Martin Kobler, un libero dibattito sarebbe stato più volte impedito anche con la violenza.

L’urgenza di sbloccare la situazione istituzionale libica è emersa sempre più pressante anche in rapporto allo stato avanzato dei preparativi per quello che potrebbe essere un secondo intervento internazionale nel paese nordafricano, per il quale intanto veniva istituito a Roma il centro di coordinamento della coalizione. Le difficoltà della situazione libica si confermavano tuttavia il 4 marzo, quando colpi di granate anticarro raggiungevano a Tripoli la sede del Partito della patria, il giorno dopo che più di 50 deputati del Congresso nazionale generale di Tripoli a quel partito riferentisi avevano dichiarato il proprio appoggio al nascente governo unitario.

Per di più alcuni deputati di Tobruk avevano frattanto negato di aver apposto la propria firma alla petizione del 24 febbraio, ponendo in ulteriore difficoltà i piani di Martin Kobler e anche la proposta avanzata dal nostro Paese - diversi media libici hanno tra l’altro protestato contro l’escamotage[7] fatto proprio da Kobler, qualificato alla stregua di un tentativo di aggiramento della maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione del parlamento di Tobruk della nuova lista dei ministri. Per uscire dall’impasse è emersa da parte dell’inviato speciale delle Nazioni Unite la prospettazione di una possibile ripresa del dialogo politico libico, per affidare nuovamente a un formato extraparlamentare la riconciliazione nazionale e il via libera a un nuovo esecutivo, superando i blocchi e i veti incrociati delle varie minoranze del paese. Su questo obiettivo di Kobler un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha espresso convinto sostegno.

 

Le rivelazioni del Wall Street Journal sull’impiego della base aerea di Sigonella per operazioni di bombardamento con droni

Una polemica interna allo schieramento politico italiano si è aperta dopo le rivelazioni del 22 febbraio del Wall Street Journal, secondo le quali dal mese di gennaio decollerebbero dalla base NATO italiana di Sigonella droni armati statunitensi per operazioni di bombardamento contro l’ISIS in Libia e in altre località del Nordafrica. Il Ministero della difesa italiano ha confermato l’accordo tra Washington e Roma per l’utilizzo della base di Sigonella, negando tuttavia che siano già in corso voli finalizzati a tali missioni, e precisando che ogni singola missione dovrà essere sottoposta all’autorizzazione del Governo italiano. Inoltre l’accordo non riguarderebbe tanto la Libia, e quindi un’accelerazione della possibilità di intervento militare nel paese nordafricano, quanto profili più generali di protezione e sicurezza del personale impegnato nella lotta contro l’ISIS in tutti gli scenari in cui il “Califfato” è presente.

Le opposizioni parlamentari hanno lamentato di non essere state adeguatamente informate dal Governo su tali sviluppi, a loro dire particolarmente preoccupanti alla luce del più volte manifestato allarme degli Stati Uniti per la crescente presenza dell’ISIS in Libia, con la richiesta di una maggior cooperazione agli alleati europei.

Tutte queste questioni sono state affrontate il 25 febbraio dal Consiglio supremo di difesa presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, dal quale è emersa la disponibilità italiana a intervenire, ma solo su richiesta di un’autorità libica ricostituita unitariamente, per una missione di supporto che vedrebbe impegnato un numero limitato di militari, con compiti di addestramento delle forze locali e sorveglianza di siti particolarmente sensibili, come ambasciate e palazzi istituzionali.

Parallelamente al crescere della pressione statunitense sulle autorità italiane - con il Segretario alla difesa USA Ashton Carter che in una conferenza stampa del 29 febbraio al Pentagono esplicitamente ha ribadito spettare all’Italia il ruolo guida per un intervento in Libia -; è emerso come anche l’Italia abbia già dispiegato una quarantina di agenti operativi del servizio segreto esterno (AISE), e si trovi nell’imminenza di inviare una cinquantina di appartenenti al reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin.

Questa forma di intervento è stata possibile in ragione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio, oggetto di secretazione, che avrebbe avocato al Dipartimento per la sicurezza - cui fa capo il coordinamento dei due servizi italiani di intelligence - e quindi alla Presidenza del Consiglio, la responsabilità in ordine ad operazioni per gravi crisi all’estero. In base al citato DPCM, con gli agenti dell’AIE sarà possibile la collaborazione di militari di alcuni corpi speciali, in via diretta e al di fuori della normale catena di comando - che naturalmente farebbe invece capo al Ministero della difesa.

Nell’espletare queste funzioni gli appartenenti ai corpi speciali della difesa godrebbero dell’estensione delle normali garanzie funzionali a favore degli agenti dell’AISE, estensione già disposta nel decreto-legge di rinnovo della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali della fine del 2015 (D.L. 174/2015, art. 7-bis, nel quale pure si riscontra la base legislativa del DPCM del 10 febbraio).

Va comunque segnalato che lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, anche nel clima di costernazione destato dall’uccisione dei due tecnici italiani in Libia e prima del rientro dei due colleghi superstiti, ha espresso forte irritazione per ogni accelerazione mediatica in ordine a un possibile intervento del nostro Paese nello scenario libico, definita quale atto di irresponsabilità. Matteo Renzi ha ribadito che la priorità dell’Italia è diplomatica, e mira anzitutto alla formazione di un governo libico unitario, ed effettivamente gran parte dell’arco politico-parlamentare è sembrato convergere sulla cautela del Presidente Renzi, sulla quale sono apparse altresì quasi perfettamente sintoniche fonti dell’Eliseo, in vista dell’incontro dell’8 marzo tra Matteo Renzi e il Presidente francese Hollande. Lo stesso ambasciatore americano a Roma John Phillips è sembrato assai più cauto quando è tornato sull’argomento dell’impegno italiano in Libia, sottolineando di aver fatto riferimento, nell’intervista di tre giorni prima al Corriere della Sera, al contingente italiano di 5.000 uomini per la Libia in base a precedenti indicazioni della stessa Italia, e non come forma di suggerimento da parte degli USA, consapevoli che si tratta di decisioni ancora da adottare.

L’incontro italo-francese di Venezia dell’8 marzo ha visto la convergenza tra i due Governi sulla priorità della formazione del governo unitario in Libia, pur sottolineando l’urgenza di addivenire a una soluzione dell’intricato problema istituzionale - come sostenuto in particolare dal presidente francese Hollande, alludendo alla presenza ormai ben radicata del terrorismo dell’ISIS in Libia. Il riferimento alle notizie riportate nella stessa giornata dal New York Times in merito a piani statunitensi già messi a punto per un’ondata di raid aerei contro alcune decine di obiettivi dell’ISIS in diverse zone della Libia, che dovrebbe precedere l’intervento di terra delle milizie libiche filoccidentali, il Presidente del Consiglio Renzi ha evidenziato l’importanza di una visione di lungo periodo dei problemi del paese nordafricano, disinnescando pertanto nell’immediato le tensioni in ordine all’intervento militare a breve termine. Un’incognita fondamentale anche nei rapporti tra i paesi occidentali rimane però quella della tempistica dell’intervento militare contro l’ISIS, che da parte degli Stati Uniti e, par di comprendere, della Francia, si correla alla necessità di impedire un eccessivo rafforzamento delle milizie del “Califfato”, che rischierebbe di vanificare l’intervento militare su scala limitata attualmente nei piani generali.

Le posizioni dell’Italia sono state ribadite in Parlamento nella giornata del 9 marzo, anzitutto con l’intervento del Ministro degli esteri Gentiloni alla Camera e al Senato: il Ministro ha ribadito la linea di prudenza sull’intervento militare in Libia, un teatro, ha ricordato, nel quale oltre ad almeno cinquemila combattenti dell’ISIS vi sarebbero circa duecentomila uomini armati, inquadrati in varie milizie o gruppi tribali. Il Governo italiano, ha proseguito il Ministro Gentiloni, tenta di favorire la formazione di un governo libico unitario, consentendo alla maggioranza del parlamento di Tobruk favorevole al premier designato Fayez Serraj di esprimersi anche al di fuori del consesso parlamentare, per superare le minacce da parte delle frange più estremiste. Dal canto suo la Ministra della difesa Roberta Pinotti, intervenendo nella stessa giornata in seno al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) ha reiterato analoghe dichiarazioni, precisando che solo su richiesta libica potrà dispiegarsi una missione di tipo militare, e in ogni caso dopo il via libera del Parlamento italiano – la Ministra Pinotti ha poi precisato  non esservi al momento forze speciali militari italiane in Libia.

Il 10 marzo si è svolta peraltro Tunisi la preannunciata riunione del dialogo politico libico - la via alternativa scelta dalle forze interessate alla formazione di un governo unitario in Libia per aggirare il veto finora rappresentato dal parlamento di Tobruk nei confronti del nuovo esecutivo -, subito inceppata da complicate procedure di insediamento del Comitato di dialogo. Per di più, il presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh l’8 marzo aveva dichiarato che una fiducia accordata al nuovo esecutivo al di fuori del parlamento non avrebbe alcun valore.

 

L’assassinio di due ostaggi italiani e la liberazione degli altri due connazionali rapiti

Il 2 marzo purtroppo si era intanto avuta notizia dell’uccisione di Salvatore Failla e Fausto Piano - due dei quattro ostaggi italiani, tecnici dell’azienda Bonatti, rapiti in Libia nel luglio 2015 - che perdevano la vita nel corso di un attacco a Sabrata delle milizie fedeli a Tripoli nei confronti di gruppi ritenuti vicini all’ISIS. Nel caos di Sabrata è stato particolarmente difficile nelle prime ore ricostruire gli eventi, anche per la delicatezza della situazione, che sembrava far immaginare la volontà delle autorità cittadine di trattenere i due ostaggi superstiti – Gino Pollicardo e Filippo Calcagno -, alla ricerca di una qualche forma di riconoscimento politico di Tripoli, cui le autorità di Sabrata risultano collegate. Fortunatamente all’alba del 6 marzo ha potuto atterrare all’aeroporto di Ciampino l’aereo che riportato a casa i due tecnici superstiti, che già in tarda mattinata sono stati ascoltati dai magistrati in una caserma del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri.

Nelle sei ore di colloquio sarebbe emerso come, unitamente ai due colleghi deceduti, Pollicardo e Calcagno abbiano patito durante gli otto mesi di prigionia violenze fisiche e psicologiche da parte della banda criminale che li aveva in ostaggio. Quanto alla loro liberazione, sarebbe avvenuta il 4 marzo, dopo la scomparsa dei loro carcerieri, i quali due giorni prima avevano prelevato Failla e Piano, che non avrebbero più rivisto i propri colleghi di lavoro e di prigionia.

Sulla vicenda tra l’altro il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha asserito il 6 marzo la necessità di comprendere come mai i quattro tecnici italiani siano entrati in Libia quando già era stato posto un esplicito divieto da parte delle autorità del nostro Paese: al Presidente del Consiglio ha replicato il numero uno della società Bonatti, Paolo Ghirelli, dicendo che la sua azienda aveva rispettato tutti gli obblighi di legge e i quattro tecnici si trovavano in Libia per uno scopo di lavoro ben preciso.

Solo nella notte tra il 9 e il 10 marzo le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano hanno potuto far rientro in Italia, accolte all’aeroporto di Ciampino dai familiari e dal Ministro degli esteri Gentiloni - particolarmente amareggiata la reazione della moglie di Salvatore Failla, che ha detto di non volere funerali di Stato per il marito, per il quale la strategia consigliata dalle autorità italiane si sarebbe rivelata fatale. La vedova Failla ha poi rivelato la presenza tra i sequestratori di un soggetto in grado di parlare seppur stentatamente in italiano, in occasione della telefonata con cui i sequestratori le avevano fatto ascoltare un messaggio registrato in cui il marito chiedeva aiuto e le diceva di rivolgersi ai mezzi di comunicazione italiani. L’avvocato della famiglia Failla, dal canto suo, ha stigmatizzato l’autopsia effettuata in Libia, qualificandola alla stregua di una macelleria: in particolare, il prelievo di parte dei tessuti corporei ha reso impossibile l’identificazione della dinamica esatta dell’uccisione dei due tecnici italiani. Tuttavia, l’autopsia subito effettuata al Policlinico Gemelli di Roma dopo l’arrivo delle salme in Italia ha evidenziato come i colpi mortali per Failla e Piano siano stati in parti del corpo non compatibili con la versione di una esecuzione da parte dei rapitori prima del blitz delle milizie libiche, a differenza di quanto ancora il 10 marzo dichiarato dal sindaco di Sabrata. Altra questione su cui c’è dissenso tra le autorità italiane e i libici è quella dell’appartenenza all’ISIS dei carcerieri di Failla e Piano, data per scontata delle autorità libiche ed esclusa invece nettamente dall’intelligence italiana.

 


Profili biografici
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali)


Norbert Röttgen
Presidente della Commissione
Affari esteri del Bundestag

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato il 2 luglio 1965 a Meckenheim. Cattolico, sposato con tre figli.

 

Consegue la maturità nel 1984. Dal 1984 al 1989 studia giurisprudenza all’Università di Bonn.

Nel 1993 consegue l’abilitazione ad esercitare la professione di avvocato presso il Tribunale regionale di Colonia. Nel 2001 consegue il dottorato in Giurisprudenza.

Nel 1999 consegue l’abilitazione ad esercitare presso la Corte d’appello di Colonia.

Carriera politica

Dal 1982 membro del Partito democratico-cristiano CDU.

Dal 1984 al 2010: Membro del Direttivo locale della CDU per la circoscrizione Rhein-Sieg.

Dal 1992 al 1996: Presidente regionale della Giovane Unione (Gruppo giovanile) del Nord Reno Vestfalia.

Dal 1994: Deputato al Bundestag.

Dal 2001 al 2009: Presidente del Gruppo di lavoro federale dei giuristi democratico-cristiani.

Dal novembre 2009 all’ottobre 2011: Presidente dell’Associazione della CDU del Distretto Mittelrhein.

Dal novembre 2010 al giugno 2012: Presidente della CDU per il Nord Reno Vestfalia.

Dal novembre 2010 al dicembre 2012: Vice Presidente federale della CDU.

Dal febbraio 2005 all’ottobre 2009: Primo Responsabile del Gruppo parlamentare CDU/CSU.

Dall’ottobre 2009 al maggio 2012: Ministro federale per l’Ambiente, la Tutela della Natura e la Sicurezza dei Reattori.

Dal maggio 2012 al settembre 2013: Membro della Commissione Esteri del Bundestag.

Da gennaio 2014: Presidente della Commissione Esteri del Bundestag.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo

Kadri  Veseli

 

Nato a Mitrovica il 31 maggio 1967, è stato uno dei leader delle associazioni studentesche impegnate per l’indipendenza del suo paese. Ha svolto studi universitari dapprima in Albania poi presso l’Università di Sheffield dove ha conseguito un master in Business Administration.

Prima di diventare Presidente del parlamento kosovaro, Veseli è stato membro dell’Esercito di liberazione del Kosovo (KLA), comandante del controspionaggio del Servizio segreto kosovaro (KIS) e, nella veste di consigliere di politica estera, ha preso parte ai negoziati che hanno portato agli accordi di Rambouillet (1999).

Sposato, padre di quattro figli, parla inglese, tedesco e serbo.

 

 

 

 


Pubblicistica

 


Nuovi aspetti dell’antisemitismo

 



I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

 


 

 

 


Documentazione allegata


Dichiarazione di Londra -
The London Declaration on Combating Antisemitism,
Lancaster House, 17 February 2009


 

Preamble

We, Representatives of our respective Parliaments from across the world, convening in London for the founding Conference and Summit of the Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism, draw the democratic world’s attention to the resurgence of antisemitism as a potent force in politics, international affairs and society.

We note the dramatic increase in recorded antisemitic hate crimes and attacks targeting Jewish persons and property, and Jewish religious, educational and communal institutions.

We are alarmed at the resurrection of the old language of prejudice and its modern manifestations in rhetoric and political action -against Jews, Jewish belief and practice and the State of Israel.

We are alarmed by Government-backed antisemitism in general, and state-backed genocidal antisemitism, in particular.

We, as Parliamentarians, affirm our commitment to a comprehensive programme of action to meet this challenge.

We call upon national governments, parliaments, international institutions, political and civic leaders, NGOs, and civil society to affirm democratic and human values, build societies based on respect and citizenship and combat any manifestations of antisemitism and discrimination.

We today in London resolve that:

 

Challenging Antisemitism

1.       Parliamentarians shall expose, challenge, and isolate political actors who engage in hate against Jews and target the State of Israel as a Jewish collectivity;

2.       Parliamentarians should speak out against antisemitism and discrimination directed against any minority, and guard against equivocation, hesitation and justification in the face of expressions of hatred;

3.       Governments must challenge any foreign leader, politician or public figure who denies, denigrates or trivialises the Holocaust and must encourage civil society to be vigilant to this phenomenon and to openly condemn it;

4.       Parliamentarians should campaign for their Government to uphold international commitments on combating antisemitism -including the OSCE Berlin Declaration and its eight main principles;

5.       The UN should reaffirm its call for every member state to commit itself to the principles laid out in the Holocaust Remembrance initiative including specific and targeted policies to eradicate Holocaust denial and trivialisation;

6.       Governments and the UN should resolve that never again will the institutions of the international community and the dialogue of nation states be abused to try to establish any legitimacy for antisemitism, including the singling out of Israel for discriminatory treatment in the international arena, and we will never witness – or be party to -another gathering like the United Nations World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and other related Intolerances in Durban in 2001;

7.       The OSCE should encourage its member states to fulfil their commitments under the 2004 Berlin Declaration and to fully utilise programmes to combat antisemitism including the Law Enforcement programme LEOP;

8.       The European Union, inter-state institutions, multilateral fora and religious communities must make a concerted effort to combat antisemitism and lead their members to adopt proven and best practice methods of countering antisemitism;

9.       Leaders of all religious faiths should be called upon to use all the means possible to combat antisemitism and all types of discriminatory hostilities among believers and society at large;

10.    The EU Council of Ministers should convene a session on combating antisemitism relying on the outcomes of the London Conference on Combating Antisemitism and using the London Declaration as a basis.

 

Prohibitions

11.    Governments should fully reaffirm and actively uphold the Genocide Convention, recognising that where there is incitement to genocide signatories automatically have an obligation to act. This may include sanctions against countries involved in or threatening to commit genocide, referral of the matter to the UN Security Council, or initiation of an interstate complaint at the International Court of Justice;

12.    Parliamentarians should legislate effective Hate Crime legislation recognising “hate aggravated crimes” and, where consistent with local legal standards, “incitement to hatred” offences and empower law enforcement agencies to convict;

13.    Governments that are signatories to the Hate Speech Protocol of the Council of Europe ‘Convention on Cybercrime’ (and the ‘Additional Protocol to the Convention on cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems’) should enact domestic enabling legislation;

Identifying the threat

14.    Parliamentarians should return to their legislature, Parliament or Assembly and establish inquiry scrutiny panels that are tasked with determining the existing nature and state of antisemitism in their countries and developing recommendations for government and civil society action;

15.    Parliamentarians should engage with their governments in order to measure the effectiveness of existing policies and mechanisms in place and to recommend proven and best practice methods of countering antisemitism;

16.    Governments should ensure they have publicly accessible incident reporting systems, and that statistics collected on antisemitism should be the subject of regular review and action by government and state prosecutors and that an adequate legislative framework is in place to tackle hate crime;

17.    Governments must expand the use of the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform policy of national and international organisations and as a basis for training material for use by Criminal Justice Agencies;

18.    Police services should record allegations of hate crimes and incidents -including antisemitism -as routine part of reporting crimes;

19.    The OSCE should work with member states to seek consistent data collection systems for antisemitism and hate crime.

 

Education, awareness and training

20.    Governments should train Police, prosecutors and judges comprehensively. The training is essential if perpetrators of antisemitic hate crime are to be successfully apprehended, prosecuted, convicted and sentenced. The OSCE’s Law enforcement Programme LEOP is a model initiative consisting of an international cadre of expert police officers training police in several countries;

21.    Governments should develop teaching materials on the subjects of the Holocaust, racism, antisemitism and discrimination which are incorporated into the national school curriculum. All teaching materials ought to be based on values of comprehensiveness, inclusiveness, acceptance and respect and should be designed to assist students to recognise and counter antisemitism and all forms of hate speech;

22.    The Council of Europe should act efficiently for the full implementation of its ‘Declaration and Programme for Education for Democratic Citizenship based on the Rights and Responsibilities of the Citizens’, adopted on 7 May 1999 in Budapest;

23.    Governments should include a comprehensive training programme across the Criminal Justice System using programmes such as the LEOP programme;

24.    Education Authorities should ensure that freedom of speech is upheld within the law and to protect students and staff from illegal antisemitic discourse and a hostile environment in whatever form it takes including calls for boycotts.

Community Support

25.    The Criminal Justice System should publicly notify local communities when antisemitic hate crimes are prosecuted by the courts to build community confidence in reporting and pursuing convictions through the Criminal Justice system;

26.    Parliamentarians should engage with civil society institutions and leading NGOs to create partnerships that bring about change locally, domestically and globally, and support efforts that encourage Holocaust education, inter-religious dialogue and cultural exchange.

 

Media and the Internet

27.    Governments should acknowledge the challenge and opportunity of the growing new forms of communication;

28.    Media Regulatory Bodies should utilise the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform media standards;

29.    Governments should take appropriate and necessary action to prevent the broadcast of antisemitic programmes on satellite television channels, and to apply pressure on the host broadcast nation to take action to prevent the transmission of antisemitic programmes;

30.    The OSCE should seek ways to coordinate the response of member states to combat the use of the internet to promote incitement to hatred;

31.    Law enforcement authorities should use domestic “hate crime”, “incitement to hatred” and other legislation as well as other means to mitigate and, where permissible, to prosecute “Hate on the Internet” where racist and antisemitic content is hosted, published and written;

32.    An international task force of Internet specialists comprised of parliamentarians and experts should be established to create common metrics to measure antisemitism and other manifestations of hate online and to develop policy recommendations and practical instruments for Governments and international frameworks to tackle these problems.

 

Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism

33.    Participants will endeavour to maintain contact with fellow delegates through the working group framework, communicating successes or requesting further support where required;

34.    Delegates should reconvene for the next ICCA Conference in Canada in 2010, become an active member of the Inter-parliamentary Coalition and promote and prioritise the London Declaration on Combating Antisemitism.

 


XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011



(…)

 

 

 

 

 

 

 



[1]     La Convenzione fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 1965;  la ratifica dell’Italia è stata effettuata a seguito della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

[2]     La giornata in memoria dell’Olocausto è stata fissata per il 27 gennaio di ogni anno dalla Risoluzione dell’A.G. delle Nazioni unite n. 60/7 del 21 Novembre 2005.

[3]    La più recente risoluzione annuale è del 17 dicembre 2015: A global call for concrete action for the total elimination of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance and the comprehensive implementation of and follow-up to the Durban Declaration and Programme of Action (A/RES/70/140). Si segnala anche la risoluzione, in pari data, sulla lotta al neonazismo e ad altre pratiche che alimentano il razzismo, la discriminazione razziale, la xenophobia e l’intolleranza (A/RES/70/139).

 

[4]     Nel Summit di Budapest del 1994, è stato deciso che la CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) cambiasse la sua denominazione in OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), per riflettere l’avvenuta trasformazione in istituzione stabile.

[5]     Porto, dicembre 2002, e Maastricht, dicembre 2003.

[6]     Aggiornata al 10 marzo 2016

[7]     va però ricordato che secondo alcuni osservatori si tratterebbe di un legittimo ricorso all'articolo 64 dell'accordo di Skhirat, che espressamente prevede la riconvocazione del dialogo politico libico in in caso di gravi violazioni dell'accordo, e tali sarebbero le intimidazioni denunciate da deputati di Tobruk nell'imminenza di concedere la fiducia all'esecutivo di Fayez Serraj.

SERVIZIO STUDI

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Missione a Berlino

(13-15 marzo 2016)

 

 

 

 

 

 

n. 221

 

 

 

11 marzo 2016

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi

 

Dipartimento Affari esteri

( 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

 

Segreteria Generale
Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 / 066760-2146 – * cdrue@camera.it

 

Servizio Rapporti Internazionali

( 066760-3948 – *  cdrin1@camera.it

 

La documentazione dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

File: es0455.docx

 


INDICE

 

Programma della Conferenza

Lista dei partecipanti alla Conferenza

Schede di lettura

Conferenza internazionale sull’antisemitismo

Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo  25

Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee  (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea) 39

L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti 47

Profili biografici (a cura del Servizio Rapporti Internazionali)

Norbert Röttgen Presidente della Commissione Affari esteri del Bundestag  59

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo  61

Pubblicistica

Nuovi aspetti dell’antisemitismo

§  K. Gebert ‘L’ebreo, il fantasma e lo specchio’, in: www.limesonline.com, n. 1, 2 gennaio 2014  67

§  A. Goldstein ‘Mort aux juifs’, ne: Il Mulino, n. 1/2015  67

§  Osservatorio antisemitismo ’Relazione sui principali episodi di antisemitismo in Italia nel 2014’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, n. 1, 3 marzo 2015  67

§  D. Assael ‘Dalle ‘radici giudaico-cristiane’ alle nuove intolleranze. Dove sta andando l’Europa?’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  P. F. Fumagalli ‘La croce e la torah’, in: www.limesonline.com, n. 10, 5 novembre 2015  67

§  Osservatorio Antisemitismo. B. Guetta e L. Hassan, ’Antisemitismo: un pregiudizio multiforme’, in. www.osservatorioantisemitismo.it, 14 dicembre 2015  67

I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

§  L. Baccaro ‘Le trasformazioni del capitalismo tedesco e la crisi dell’euro’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  G. D’Ottavio ‘La Germania e la crisi europea’, in: Il Mulino, n. 5/2015  71

§  C. Catalano ‘La Germania è l’anello debole dell’industria della difesa europea’, in: Cemiss (Centro militare di Studi strategici) Osservatorio Strategico, n. 9/2015, 71

§  U. Villani Lubelli ‘L’indennità nazionale tedesca 25 anni dopo la riunificazione’, in: Commentary ISPI, 3 ottobre 2015  71

§  U. Villani Lubelli ‘La discesa in campo della Germania nel conflitto in Siria’, in: Commentary ISPI, 9 novembre 2015  71

§  R. Perissich ‘Il complesso di Calimero e la demonizzazione della Germania’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  M. Dassù ‘Il compromesso possibile e necessario’, in: www.aspeninstitute.it, 30 gennaio 2016  71

§  M. Messori ‘Scontro italo-tedesco, il peso delle banche’, in: www.affarinternazionali.it, 20 gennaio 2016  71

§  E. Rusconi ‘Renzi-Merkel, le differenze possono convergere’, in: www.affarinternazionali.it, 1 febbraio 2016  71

§  R. Menotti e R. Pennisi ‘Il chiarimento italo-tedesco (visto dagli altri) e i problemi strutturali dell’Europa), in: www.aspeninstitute.it, 1 febbraio 2016  71

§  A. Ungaro ‘Difesa, il lungo risveglio di Berlino’, in: www.affarinternazionali.it, 22 febbraio 2016  71

Documentazione allegata

Dichiarazione di Londra - The London Declaration on Combating Antisemitism, Lancaster House, 17 February 2009  257

XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011  263

 

 

 


Programma della Conferenza


(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Lista dei partecipanti alla Conferenza


 

(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Schede di lettura

 


Conferenza internazionale sull’antisemitismo

 


 

(…)

 


Le iniziative multilaterali e gli strumenti giuridici europei ed internazionali per la lotta all’antisemitismo

 

Unione europea

Il principale strumento normativo europeo utilizzabile in chiave di contrasto all’antisemitismo è la decisione quadro 2008/913/GAI, del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.

La decisione quadro prevede il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari dei Paesi dell'UE per quanto riguarda i reati ispirati a talune manifestazioni di razzismo e xenofobia. Obiettivo della decisione quadro è che talune gravi manifestazioni di razzismo e xenofobia costituiscano reato in tutti i Paesi dell'UE e siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive.

La decisione quadro si applica ad ogni reato commesso:

·          sul territorio dell'Unione europea (UE), anche tramite un sistema di informazione;

·          da un cittadino di un Paese dell'UE o per conto di una persona giuridica avente sede in un Paese dell'UE. A tale riguardo, la decisione quadro propone criteri per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche.

Discorsi di incitamento all'odio

Sono considerati punibili, in quanto reati penali, determinati atti commessi, quali:

·          pubblico incitamento alla violenza o all'odio rivolto contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito sulla base della razza, del colore, l’ascendenza, la religione o il credo o l’origine nazionale o etnica;

·          il reato di cui sopra commesso mediante diffusione e distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale;

·          l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana in pubblico dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro.

Sono passibili di sanzione anche l'incitamento o la partecipazione nel commettere gli atti suddetti.

Riguardo a tali reati, i Paesi dell'UE devono stabilire:

·          sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive;

·          pene detentive della durata massima di almeno un anno.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, le sanzioni devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive, e devono comprendere ammende penali e non penali. Inoltre le persone giuridiche possono essere sanzionate mediante:

·          l' esclusione dal beneficio di agevolazioni o sovvenzioni pubbliche;

·          l'interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di un’attività commerciale;

·          il collocamento sotto sorveglianza giudiziaria;

·          il provvedimento di liquidazione giudiziaria.

L'avvio delle indagini o dell'azione legale per reati di razzismo e xenofobia non deve essere subordinato a una denuncia o un'accusa a opera della vittima.

 

Reati ispirati dall'odio

Quanto ai reati basati sull’odio, in ogni caso, la motivazione razzista o xenofoba deve essere considerata circostanza aggravante o, in alternativa, il tribunale deve poter considerare tale motivazione nel decidere quale sanzione infliggere.

 

Altri strumenti normativi

La  direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione (2000/78/CE)   la direttiva sull’uguaglianza razziale (2000/43/CE) sono due strumenti giuridici di cui l’UE dispone per combattere la discriminazione. Entrambe tutelano gli ebrei contro la discriminazione – sia essa fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (direttiva sulla parità di trattamento) o contro gli ebrei in quanto gruppo etnico (direttiva sull’uguaglianza razziale).

 

L’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea

L’Unione europea ha deciso nel 2007 l’istituzione dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA) in sostituzione del Centro europeo di monitoraggio del razzismo e della xenofobia (EUMC). L’Agenzia ha lo scopo di “fornire alle competenti istituzioni, organi, uffici e agenzie della Comunità e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti quando essi adottano misure o definiscono iniziative nei loro rispettivi settori di competenza”.

La FRA (e prima ancora l’EUMC) raccoglie dal 2000 con regolarità dati e informazioni riguardanti il razzismo e la xenofobia negli Stati membri dell’UE e, a partire dal 2002, ha stabilito un particolare focus sull’antisemitismo. La FRA ha pubblicato nell’ottobre 2015 un nuovo aggiornamento  del rapporto sull’antisemitismo in Europa (Anti-semitism – Summary overview of the situation in the EU 2004-2014). In esso son riportati i dati relativi a episodi di antisemitismo registrati negli Stati membri.

Nel novembre  2013 la FRA ha anche pubblicato i risultati di un’indagine sulle esperienze di discriminazione e di reati generati dall’odio subiti dagli ebrei degli Stati membri dell’Unione europea.

I risultati della ricerca presentati riguardano Belgio, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Lettonia, Svezia e Regno Unito, paesi in cui, nel complesso, si calcola risieda circa il 90% della popolazione ebraica europea. L’indagine è stata effettuata on-line nei mesi di settembre e ottobre 2012 e vi hanno partecipato circa 5.900 ebrei autocertificati.

Di seguito alcuni risultati della ricerca FRA.

Due terzi degli intervistati (66%) ritiene che l’antisemitismo sia un problema negli Stati membri dell’UE oggetto dell’indagine. Tre quarti degli intervistati (76%) sostengono che l’antisemitismo sia peggiorato negli ultimi cinque anni nel paese in cui vivono.

Nei 12 mesi precedenti l’indagine, il 26% di tutti gli intervistati ha vissuto un episodio o episodi di insulti verbali o molestie per il fatto di essere ebreo – il 4% ha subito violenza fisica o è stato minacciato di violenza.

Quasi un quarto (23%) degli intervistati ha dichiarato che evita almeno occasionalmente di assistere a eventi ebraici o di visitare luoghi ebraici perché non si sentirebbe al sicuro, in quanto ebreo, sul posto o durante il percorso per recarvisi. Oltre un quarto di tutti gli intervistati (27%) evita determinati luoghi nella propria zona o nel proprio quartiere, almeno di tanto in tanto, perché non si sentirebbe al sicuro in quanto ebreo.

Gli intervistati hanno dichiarato che, nei 12 mesi precedenti l’indagine, era più probabile che gli episodi di discriminazione antisemita si verificassero sul posto di lavoro (l’11% degli intervistati che stavano lavorando durante quel periodo aveva subito questo tipo di comportamento), o nella fase di ricerca del lavoro (il 10% degli intervistati che avevano cercato lavoro) o da parte di persone che lavorano in una scuola o in un centro di formazione.

Negli ultimi 12 mesi, più della metà di tutti gli intervistati (57%) ha sentito o visto qualcuno affermare che l’Olocausto era un mito o che era stato esagerato.

Quasi due terzi (64%) di coloro che hanno subito violenze fisiche o minacce di violenza non hanno segnalato l’episodio più grave alla polizia o ad altre organizzazioni.

 

Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo

Il 1° dicembre 2015 il Vicepresidente della Commissione europea e la Commissaria alla giustizia hanno nominato Katharina von Schnurbein Coordinatore per il contrasto all’antisemitismo.

In tale occasione è stato nominato anche un Coordinatore per il contrasto all’odio contro i musulmani.

Compito principale di tale organismo è portare all’attenzione  del Vice-Presidente e della Commissaria le preoccupazioni delle comunità ebree. Il coordinatore funge dunque da punto di contatto per tali comunità e contribuisce a allo sviluppo della strategia della Commissione europea volta a contrastare i reati di odio, i discorsi di odio, l’intolleranza e  la discriminazione. Il coordinatore deve inoltre offrire un contributo alle politiche in materia di educazione e a quelle volte a contrastare la radicalizzazione e l’estremismo violento. L’organismo collabora con gli Stati membri, il Parlamento europeo, e altre istituzioni, e stabilisce collegamenti con la società civile e li mondo accademico.

 

Nazioni Unite

Lo strumento giuridico internazionale che ha costituito la pietra angolare sulla quale si sono fondati i successivi sviluppi della lotta all’antisemitismo e alle altre forme di discriminazione basate sulla razza è, come noto, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale fatta a New York il 7 marzo 1966[1].

La Convenzione ha previsto la creazione di un Comitato sull'eliminazione della Discriminazione Razziale (Committee on the Elimination of Racial Discrimination  - CERD), costituito presso l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU. Il CERD è un organo di monitoraggio che tutela l'applicazione della Convenzione attraverso lo studio dei rapporti degli Stati parte alla Convenzione. Gli Stati parte (173, attualmente) sono infatti tenuti a dare conto al Comitato - ogni due anni - delle misure adottate per rispettare gli obblighi derivanti dalla Convenzione. Il Comitato esprime il proprio parere su tali rapporti e formula raccomandazioni allo Stato interessato. Il Comitato può inoltre ricevere ricorsi individuali o anche inter-statali, ed ha incluso nella sua agenda una procedura di early warning volta a prevenire la degenerazione di situazioni a rischio.

Sempre nell’ambito delle Nazioni Unite, si ricordano le due risoluzioni dell’Assemblea generale (60/7 e 61/255 adottate, rispettivamente, nel 2005 e nel 2006) che affermano la centralità della commemorazione dell’Olocausto[2] nella prevenzione di ulteriori pericoli di genocidi e che condannano senza riserve qualunque forma di negazionismo.

E’ importante ricordare inoltre che la condanna dell’antisemitismo è contenuta nell’annuale risoluzione dell’Assemblea generale sull’eliminazione di tutte le forme di razzismo[3] e, a partire dal 2004, con l’adozione della risoluzione A/RES/59/199, Elimination of all forms of religious intolerance, anche nella risoluzione annuale sulle intolleranze religiose.

Si ricorda inoltre che il 24 gennaio 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è riunita in una Sessione speciale per commemorare il 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti nella quale più di quaranta oratori hanno preso la parola per riaffermare e dimostrare che l’Olocausto costituisce un vero e proprio iato nel percorso della civiltà.

Tra i numerosi organi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, si ricorda in questa sede il Consiglio per i Diritti Umani per il ruolo che ha ricoperto nella realizzazione della Conferenza di Revisione (Durban II, aprile 2009) della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza collegata a questi fenomeni.

Come è noto, la Conferenza è stata disertata dall’Italia e da numerosi Stati – tra i quali Canada, Germania, Paesi Bassi e Stati Uniti – che, in disaccordo con la bozza di dichiarazione finale, hanno deciso di ritirarsi dai negoziati in corso a Ginevra, per i toni antisemiti che trasparivano nella bozza di documento finale.

In un comunicato ufficiale del Ministero degli Affari esteri del 17 marzo 2009,  iI capo della diplomazia italiana motivava la decisione del ritiro stigmatizzando le le frasi antisemite contenute nella proposta di documento finale

“Come nel 2001 – si legge nel comunicato - di nuovo la questione israelo-palestinese fa capolino in diversi paragrafi del documento in discussione. Il documento negoziato sinora parla di “politica di discriminazione razziale nei confronti della popolazione palestinese”. Israele viene definita responsabile di praticare l’apartheid, la tortura e numerosi atti criminali che sarebbero in contrasto con i diritti umani. In definitiva, addirittura una ‘minaccia per la pace e la sicurezza internazionale’. il documento sinora negoziato contiene anche riferimenti alla questione della ‘diffamazione religiosa’. Esistono già le Convenzioni internazionali contro il razzismo. Occorre adoperarsi affinché siano pienamente applicate. Il governo italiano ritiene invece inopportuno parlare di ‘standard aggiuntivi’, che di fatto mirano ad introdurre nuovi limiti alla libertà di espressione nell’ ipotesi che sia una religione ad essere ‘diffamata’. La libertà di espressione è uno dei valori fondamentali della nostra civiltà e della nostra cultura giuridica, secondo la quale sono gli individui, non le religioni, ad essere titolari di diritti.”

 Va senz’altro segnalata la riunione straordinaria tenuta dall’Assemblea generale dell’ONU il 22 gennaio 2015, e dedicata per la prima volta proprio all’incremento di violenze antiebraiche in diverse aree del mondo, inclusi naturalmente i numerosi episodi di terrorismo con obiettivi ebraici. Il Segretario generale Ban Ki-moon ha indirizzato un videomessaggio alla riunione mentre si trovava a Davos, per sostenere la necessità di combattere con fermezza queste nuove forme di antisemitismo, proprio sulla base del fatto che una delle missioni delle Nazioni Unite risiede nel prevenire nuove mostruosità come la Shoah.    

Per l'Italia, ha affermato nel suo intervento l'ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente al Palazzo di Vetro, sussiste “la necessita' di rafforzare l'opposizione internazionale a ogni forma di razzismo, antisemitismo, xenofobia e intolleranza, e allo stesso tempo promuovere la tutela di diritti fondamentali quali la liberta' di espressione, opinione e associazione". "Dobbiamo condannare con chiarezza e all'unanimita' ogni atto di antisemitismo e le sue radici ideologiche, ma dobbiamo anche condurre una battaglia culturale contro ogni forma di intolleranza, per favorire il rispetto dell'identita' religiosa e ridurre il rischio di violenza", ha proseguito Cardi, ribadendo che il governo italiano "ha da tempo fatto di questa battaglia una priorita'".

 

Consiglio d’Europa

La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) è un organismo di monitoraggio indipendente del Consiglio d’Europa specializzato nel campo della lotta contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza, dalla prospettiva del rispetto dei diritti umani.

L’istituzione dell’ECRI è stata prevista dal primo summit dei Capi di Stato e di governo dei paesi membri del Consiglio d’Europa nel 1993; nel giugno 2002 il Comitato dei ministri del CdE ha adottato uno statuto autonomo per l’ECRI, in tal mondo accentuando il suo carattere di organismo indipendente.

Tra le funzioni dell’ECRI vi sono: l’esame della legislazione, delle politiche e delle altre misure adottate dagli stati membri del CdE per combattere il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e le altre forme di intolleranza; la proposta di ulteriori azioni a livello locale, nazionale ed europeo; la formulazione di raccomandazioni agli Stati membri; l’analisi degli strumenti giuridici internazionali in vista di loro possibili rafforzamenti.

Di rilievo in ambito del Consiglio d’Europa, la Raccomandazione dell’ECRI n. 9 (Raccomandazione di politica generale n° 9: la lotta contro l’antisemitismo),  adottata il 25 giugno 2004, il primo strumento giuridico europeo su questo specifico soggetto, che esorta tutti gli Stati membri a combattere con forza le nuove forme di antisemitismo.

Anche nell’ultimo Rapporto sull’Italia, approvato nel dicembre 2011, l’organismo del CdE sottolinea come  sebbene in teoria la legge Mancino permetta di sanzionare i siti internet in Italia il cui contenuto costituisce un incitamento all’odio, spesso tali siti sono ospitati all’estero e sono pertanto più difficili da combattere. Al riguardo, l’ECRI attira l’attenzione delle autorità sulle raccomandazioni formulate precedentemente, miranti a rafforzare le misure per combattere il razzismo su internet”.

Si segnala infine che è attualmente all’esame delle Commissioni riunite Giustizia ed Affari esteri, in sede referente, il disegno di legge A.C. 3508, di ratifica ed esecuzione del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla criminalità informatica, relativo all'incriminazione di atti di natura razzista e xenofobica commessi a mezzo di sistemi informatici, adottato proprio nell’ambito del Consiglio d’Europa il 28 gennaio 2003 e sottoscritto dall’Italia il 9 novembre 2011.

 

 

OSCE

Gli Stati membri dell’OSCE hanno condannato l’antisemitismo in numerose occasioni a partire dalla Conferenza sulla Dimensione Umana della CSCE[4] del 1990. In seguito, il 4° meeting del Consiglio dei ministri della CSCE riunito a Roma nel 1993 ha riconosciuto l’antisemitismo come una minaccia non solo nei confronti del popolo ebraico, ma anche per la stabilità internazionale.

Si sono poi susseguiti altri Consigli dei ministri[5], nei quali è stata assunta la decisione di agire per fronteggiare l’aumento degli episodi di antisemitismo, nella convinzione  che combattere tale fenomeno debba far parte dei compiti di tutte le forze democratiche. Una prima Conferenza ad alto livello sull’antisemitismo si è svolta a Vienna nel giugno 2003, cui ha fatto seguito la Conferenza di Berlino del 2004 che condanna in maniera risoluta l’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni.

Il 13 e 14 novembre 2014, dieci anni dopo la conferenza di Berlino, l’OSCE ha promosso nella capitale tedesca una nuova conferenza sul tema nel corso della quale il presidente di turno dell’Organizzazione, Didier Burkhalter, ha espresso riconoscimento per le misure varate negli ultimi dieci anni, come, per esempio, la designazione di un rappresentante dell’OSCE per la lotta contro l’antisemitismo e i programmi di formazione finalizzati ad aumentare la consapevolezza del pericolo rappresentato dai sentimenti antiebraici. Al tempo stesso egli.ha chiesto che episodi e accuse di matrice antisemita siano esplicitamente definiti come tali e venga chiaramente sottolineato che non sono tollerati. L’esponente politico elvetico ha inoltre sottolineato che la critica nei confronti di sviluppi politici, per esempio in Israele, non deve essere strumentalizzata come pretesto per dichiarazioni o atti antisemiti.

 


L’introduzione dell’aggravante di “negazionismo”

nell’ordinamento penale italiano

 

L'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato con modificazioni, il 13 ottobre 2015, la proposta di legge A.C. 2874 , già approvata dal Senato, concernente il contrasto e la repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. In particolare, la proposta introduce l'aggravante di negazionismo, riferita a reati di discriminazione previsti dalla c.d. legge Mancino. La proposta di legge è ora al Senato.

L'articolo unico della proposta di legge approvata dalla Camera modifica la c.d. legge Mancino.

Attualmente, in base alla legge Mancino è punito con la pena della reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' poi punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E' inoltre vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: ne è sanzionata con pene detentive la partecipazione (da sei mesi a quattro anni) e la promozione o direzione (da uno a sei anni).

La proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati prevede una specifica aggravante nei casi in cui la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale, tenendo conto dei fatti accertati con sentenza passata in giudicato dalla giustizia internazionale o da atti di organismi internazionali e sovranazionali di cui l'Italia è membro.

Nel corso della discussione, la Camera dei deputati ha invece soppresso le disposizioni, contenute nel testo approvato dal Senato, in base a cui:

·         veniva modificato il reato di istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già previsto dalla legge "Mancino"; la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il reato di istigazione a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni; anche in questo caso, la rilevanza penale della istigazione era circoscritta dalla proposta di legge alle sole condotte commesse "pubblicamente";

·         era modificato il codice penale, con la riduzione da cinque a tre anni di reclusione del limite massimo di pena previsto per il reato di istigazione a commettere un delitto.

 


Missione presso la Commissione Affari esteri del Bundestag

 


(…)

 


La gestione dei flussi migratori nelle recenti decisioni delle Istituzioni europee
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 18-19 febbraio scorso s’individuano anzitutto  i seguenti obiettivi: contenere rapidamente i flussi migratori; proteggere le frontiere esterne UE; ridurre la migrazione irregolare, e salvaguardare l’integrità dello spazio Schengen. Secondo tale approccio il Consiglio europeo ha valutato lo stato di attuazione degli orientamenti convenuti a dicembre.

Secondo Frontex, l’Agenzia europea per il coordinamento della sorveglianza delle frontiere esterne dell’UE, nel 2015 sono stati rilevati 1,83 milioni attraversamenti irregolari di migranti, a fronte dei 283.500 nell’anno precedente. Solo in Grecia nel 2015 sarebbero arrivate 880 mila persone; in Italia circa 170 mila. Il dato dei flussi migratori in Italia evidenzia una flessione di circa l’8 per cento rispetto al numero dei migranti nel 2014: tale diminuzione dovrebbe rappresentare l’effetto indiretto dell’incremento dei flussi che attraversano il Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia) e che raggiungono l’Europa tramite i Balcani occidentali.

L’aumento dei flussi provenienti dalla Turchia verso la Grecia e lungo la rotta dei Balcani occidentali potrebbe, tra l’altro, essere stato determinato dal rafforzamento dei controlli effettuati lungo le frontiere marittime del Mediterraneo centrale. In particolare, si tratta della missione EUNAVFOR MED – SOPHIA, istituita al fine di contrastare i trafficanti di migranti che utilizzano la rotta dalla Libia all’Italia.

In base alle stime dell’OIM – Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono oltre 76 mila i migranti e i rifugiati arrivati via mare in Grecia e in Italia tra l'1 gennaio e il 7 febbraio 2016: Grecia e Italia avrebbero registrato rispettivamente 70.365 e 5.898 arrivi. Nel corso dei primi due mesi del 2015, la Grecia aveva registrato solo 3.952 arrivi di migranti via mare, l'Italia 7.882 Secondo Eurostat, nel terzo trimestre 2015, sono state presentate nell’Unione europea 430 mila domande di protezione di cui 413 mila di prima istanza (ovvero domande nuove di protezione internazionale). A settembre 2015 nell’UE erano pendenti oltre 800 mila domande di asilo.

Gli orientamenti adottati nel Consiglio europeo del 17-18 dicembre 2015 delineano una serie di impegni per gli Stati membri e le Istituzioni europee volti a una migliore gestione della crisi dei migranti.

Si tratta, tra l’altro, di: colmare le lacune nella gestione delle frontiere esterne; porre rimedio alle carenze nel funzionamento degli hotspot; garantire l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali in maniera sistematica e completa, adottare misure per contrastare il rifiuto di registrazione; attuare le decisioni di ricollocazione, e considerare l'eventualità di includere tra i beneficiari delle decisioni in vigore altri Stati membri in situazione di forte pressione che ne abbiano fatto richiesta; adottare misure concrete per garantire il rimpatrio e la riammissione effettivi delle persone non autorizzate a soggiornare; potenziare le misure per la lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani; garantire l'attuazione e il seguito operativo alla Conferenza ad alto livello sulla rotta del Mediterraneo orientale/dei Balcani occidentali, al vertice di La Valletta, in particolare per quanto riguarda i rimpatri e la riammissione; e al piano d'azione UE-Turchia.

Al riguardo, merita rilevare che nel settembre del 2015 il Consiglio aveva adottato due programmi temporanei di ricollocazione concernenti 160 mila richiedenti asilo; secondo i programmi, dovrebbero essere redistribuiti rispettivamente da Grecia e Italia 66.400 e 39.600 richiedenti asilo. Alla data del 15 febbraio è stata effettuata la ricollocazione di sole 295 persone dalla Grecia e 288 dall’Italia. Tale lentezza nell’attuazione dei programmi di relocation sconta le resistenze da parte di molti Stati membri, alcuni dei quali si sono addirittura rifiutati di aderire al programma.

 

L’intervento della NATO

Il Consiglio europeo ha accolto con favore la decisione della NATO di fornire assistenza nelle attività di ricognizione, controllo e sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo ed esorta tutti i membri della NATO a sostenere attivamente questa misura. Secondo il Consiglio europeo, l'UE (in particolare Frontex) dovrebbe cooperare strettamente con la NATO.

L’11 febbraio 2016 la NATO, su richiesta congiunta di Germania, Grecia e Turchia, ha avviato una missione navale nel Mar Egeo, con il compito di condurre la ricognizione, il monitoraggio e la sorveglianza degli attraversamenti illegali nel Mar Egeo (v. scheda di lettura specifica).

 

Iniziative in materia di rimpatrio e di riammissione

Con riferimento alle relazioni con i paesi terzi, le Conclusioni del Consiglio europeo prevedono il pieno sostegno, da parte dell’UE e degli Stati membri, ai pacchetti di incentivi globali e su misura, attualmente in fase di sviluppo per determinati paesi al fine di garantire rimpatri e riammissioni efficaci.

Il riferimento è, in primo luogo, al Vertice sulla migrazione di La Valletta dell’11 e 12 novembre 2015 cui hanno partecipato, tra l’altro, i capi di Stato e di Governo dell'Unione europea e dei Paesi africani parti del processo di Khartoum (in particolare i Paesi del Corno d'Africa e l’Egitto) e del processo di Rabat (gli Stati delle regioni dell’Africa settentrionale, occidentale e centrale).

In esito al Vertice è stato lanciato un Fondo fiduciario d'emergenza dell'Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa con una dotazione di 1,8 miliardi di euro finanziato in parte dal bilancio UE e in parte da contributi degli Stati membri. Il Fondo dovrebbe sostenere, tra l’altro, programmi di sviluppo in quelle aree dell’Africa di origine e di transito dei migranti verso l’UE (Sahel, Corno d’Africa, Africa del Nord). Per quanto riguarda la cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione, su sollecitazione dei paesi africani, il Vertice ha sostanzialmente accordato la preferenza ai rimpatri volontari; il Vertice ha inoltre discusso della possibilità di stabilire un collegamento tra gli accordi di riammissione con i paesi africani e gli accordi di facilitazione del rilascio dei visti, nonché di misure volte a sostenere un'effettiva riammissione dei migranti irregolari nei Paesi di origine.

 

 

Aiuti alla popolazione siriana

Si ricorda che in esito alla Conferenza internazionale dei donatori per gli aiuti alla Siria, voltasi a Londra lo scorso 4 febbraio, l'Unione europea e gli Stati membri hanno promesso per il 2016 più di 3 miliardi di euro in assistenza al popolo siriano in Siria, ai rifugiati e alle comunità che li ospitano nei Paesi limitrofi. Con questo impegno si è sostanzialmente triplicato il sostegno che l'UE aveva offerto in occasione della precedente conferenza dei donatori tenutasi il 31 marzo 2015 in Kuwait; la somma si aggiunge ai 5 miliardi di euro che l'UE ha già impegnato in risposta alla crisi umanitaria siriana.

L’Italia si è impegnata a stanziare 400 milioni di euro. Secondo le stime dell’Unione europea negli ultimi cinque anni la guerra in Siria ha provocato più di 250 mila vittime, per lo più civili, e più di 18 milioni di persone hanno bisogno di assistenza , 13,5 milioni dei quali all'interno della Siria. Gli sfollati interni sarebbero 6,5 milioni mentre 4,6 milioni di persone sarebbero fuggite principalmente in Libano, Giordania e Turchia. In particolare in Turchia si sono riversati nel 2015 circa 2,5 milioni di profughi.

Per quanto riguarda l’assistenza per i  rifugiati siriani ospitati in paesi limitrofi , l’UE ha finora

stanziato 583 milioni di euro in Giordania, 552 milioni di euro in Libano, 104 milioni di euro in Iraq, 352 milioni di euro in Turchia. Inoltre nel novembre 2015 il Consiglio europeo, nell’ambito di un accordo più generale UE-Turchia (vedi infra) ha deciso lo stanziamento aggiuntivo di 3 miliardi per il sostegno ai rifugiati siriani da parte della Turchia. Lo stanziamento è ripartito in 1 miliardo a carico del bilancio dell’UE e 2 miliardi a carico dei bilanci nazionali. La quota italiana, dovrebbe essere pari ad una quota del’11,25% corrispondente a circa 225 milioni di euro.

 

La rotta dei Balcani occidentali

Secondo il Consiglio europeo la questione dei continui e intensi flussi migratori irregolari lungo la rotta dei Balcani occidentali richiede un’ulteriore azione concertata e un termine all’atteggiamento permissivo e ai provvedimenti non coordinati lungo tale rotta. Nella Conclusioni si pone inoltre in rilievo la necessità di restare vigili quanto ai potenziali sviluppi lungo le rotte alternative.

Nel 2015 Frontex ha rilevato circa 760 mila attraversamenti irregolari alle frontiere UE lungo la rotta cosiddetta dei Balcani occidentali (la maggior parte dei migranti che percorrono questa rotta, dopo essere entrati in Grecia, attraversano l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e la Serbia per approdare in Ungheria e in Croazia, spesso con l’ulteriore proposito di raggiungere Austria, Germania e i Paesi scandinavi. La maggior parte dei migranti lungo questa rotta è di origine siriana, afgana ed irachena.

L’ingente aumento di tale flusso di migranti ha indotto alcuni Stati dell’area Schengen a reintrodurre i controlli alle frontiere interne applicando le relative disposizioni del Codice frontiere Schengen.

Si tratta, tra gli altri, di Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, e Germania. Tale reintroduzione, in base agli articoli 23-25 del Codice Schengen, può protrarsi fino a sei mesi; tuttavia in occasione del Consiglio informale giustizia e affari interni del 25-26 gennaio 2016 alcuni Stati membri hanno chiesto di approfondire l’eventualità di estendere la misura fino a due anni, in applicazione della procedura ex articolo 26 del codice Schengen. Tale strumento prevede che in caso di circostanze eccezionali in cui il funzionamento globale dello spazio senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio a seguito di carenze gravi e persistenti nel controllo di frontiera alle frontiere esterne, a seguito di raccomandazione del Consiglio, gli Stati membri rispristinino i controlli a alle frontiere interne per un periodo che può essere prorogato fino a due anni.

L’eventuale reintroduzione di controlli alle frontiere interne fino a due anni da parte degli Stati membri esposti alla rotta balcanica potrebbe spostare i flussi di migranti tra i diversi canali di ingresso in Europa. In particolare, non è da escludere che il tentativo di ostacolare i movimenti secondari che partono dalla Grecia per giungere nell’Europa centrale e settentrionale possa indurre a riprendere la rotta del Mediterraneo centrale che comporterebbe l’approdo in Italia di un numero più consistente di migranti.

 

La valutazione Schengen sulla Grecia

Il Consiglio europeo richiama la raccomandazione del Consiglio del 12 febbraio 2016 sull’applicazione dell’acquis di Schengen per quanto concerne la gestione delle frontiere esterne.

Secondo le Conclusioni, tutti gli Stati membri dello spazio Schengen sono tenuti ad applicare appieno il codice frontiere Schengen e a respingere “alle frontiere esterne i cittadini di paesi terzi che non soddisfano le condizioni d'ingresso o che non hanno presentato domanda d'asilo sebbene ne abbiano avuto la possibilità, tenendo conto al tempo stesso delle specificità delle frontiere marittime, anche con l'attuazione dell'agenda UE-Turchia”.

Si ricorda che in applicazione del regolamento (UE) n. 1053/2013 del Consiglio, che istituisce un meccanismo di valutazione e di controllo per verificare l’applicazione dell’acquis di Schengen, nel novembre 2015, una squadra composta da esperti degli Stati membri e della Commissione ha valutato (mediante visita di valutazione sul campo e senza preavviso), l'attuazione dell'acquis di Schengen nel settore della gestione delle frontiere esterne da parte della Grecia.

In esito a tale valutazione, la Commissione il 2 febbraio 2016 ha adottato una relazione in cui sono state messe in luce gravi carenze da parte della Grecia nello svolgimento dei controlli alle frontiere esterne.

In seguito, in applicazione dell’articolo 15 del citato regolamento, il Consiglio del 12 febbraio 2016 ha adottato una decisione recante raccomandazioni volte alla correzione delle gravi carenze individuate nel corso della valutazione e a garantire che la Grecia applichi in modo corretto ed efficace tutte le norme Schengen relative alla gestione delle frontiere esterne.

Tra le raccomandazioni più rilevanti si segnalano: il miglioramento delle procedure di registrazione e raccolta delle impronte digitali dei migranti e il loro inserimento nella banca dati Eurodac, l’accelerazione delle procedure di rimpatrio delle persone che non hanno diritto all’asilo o che non hanno fatto richiesta di protezione; l’adozione di misure per migliorare l’attività di sorveglianza delle frontiere marittime anche attraverso il rafforzamento della guardia costiera con l’impiego di un sufficiente numero di imbarcazioni; il rafforzamento della cooperazione con Turchia e Bulgaria circa la sorveglianza dei confini comuni terrestri.

Si segnala che in applicazione dell’articolo 19b del Codice frontiere Schengen, ove la Grecia non dovesse sanare, entro tre mesi, le gravi carenze nel funzionamento dello spazio Schengen sotto il profilo del controlli alle frontiere esterne UE messe in evidenza nella relazione Schengen, la Commissione europea potrebbe attivare la procedura di cui all’articolo 26 del Codice frontiere Schengen, proponendo al Consiglio l’adozione di raccomandazioni agli Stati membri (in particolare quelli esposti alla cosiddetta rotta dei Balcani occidentali) intese alla reintroduzione dei controlli alle frontiere interne per un periodo prorogabile fino a due anni, in modo tale da diminuire il rischio dei cosiddetti movimenti secondari dei migranti non aventi diritto a rimanere sul territorio dell’UE.

 

Lo stato di attuazione dei punti di crisi

Il Consiglio europeo ha rilevato che con l'assistenza dell'UE, la creazione e il funzionamento dei punti di crisi in Italia e Grecia sono in graduale miglioramento per quanto concerne l'identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali; il Consiglio europeo pone l’accento sulla necessità di ulteriori progressi nei seguenti settori: rendere pienamente operativi gli hotspot; impedire i movimenti secondari di migranti irregolari e di richiedenti asilo; migliorare sotto il profilo delle condizioni umane le strutture di accoglienza che ospitano i migranti in attesa di accertamento del loro status.

Il Consiglio europeo sottolinea al contempo il fatto che i richiedenti asilo non hanno il diritto di scegliere lo Stato membro in cui chiedere protezione internazionale.

Il 10 febbraio 2016 la Commissione europea ha pubblicato la relazione sullo stato di attuazione delle misure da parte di Italia e Grecia ed in particolare delle raccomandazioni emanate nel dicembre 2015. Secondo tale rapporto in Italia sono stati programmati sei hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta e Taranto), ma allo stato sarebbero pienamente operativi solo i due punti di crisi di Lampedusa e Pozzallo. Notevoli progressi sono inoltre stati fatti per quanto riguarda la raccolta delle impronte digitali dei migranti: secondo la Commissione europea dal 36 per cento nel settembre 2015 il dato è salito all’87 per cento nel gennaio 2016, mentre in occasione degli ultimi sbarchi il fingerprinting negli hotspot si sarebbe avvicinato al 100 per cento. La Commissione stima che, resi pienamente operativi tutti i punti di crisi, questi dovrebbero avere la capacità di rilevare le impronte digitali di circa 2.160 persone al giorno.

Il 10 dicembre 2015 la Commissione ha avviato una procedura di infrazione (con lettera di costituzione in mora) nei confronti dell’Italia, insieme a Grecia e Croazia, invitandola ad attuare correttamente il Regolamento n. 603/2013 Eurodac per l’effettivo rilevamento delle impronte digitali dei richiedenti asilo e la trasmissione dei dati al sistema centrale.

Nel rapporto si sottolinea, tra l’altro, la necessità di aumentare la capacità dei centri di identificazione ed espulsione e di prolungare il periodo di detenzione amministrativa (nell’ambito del limite massimo di 18 mesi consentito dalla direttiva rimpatri) in tali centri in modo da assicurare che le procedure di rimpatrio siano completate con successo ed evitare che i rimpatriandi siano lasciati liberi e facciano perdere le loro tracce.

Le Conclusioni del Consiglio europeo sottolineano come s’imponga un'azione urgente per rendere meno critica la situazione umanitaria dei migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali mediante il ricorso a tutti gli strumenti dell'UE e nazionali disponibili. A questo scopo il Consiglio europeo ritiene necessario dotare l'UE della capacità di fornire aiuti umanitari in cooperazione con organizzazioni come l'UNHCR, a livello sia interno che esterno, per sostenere i paesi che fanno fronte a un elevato numero di rifugiati e migranti.

 

La Guardia costiera e di frontiera europea

Il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di accelerare i lavori al fine di raggiungere un accordo politico durante il semestre di Presidenza olandese del Consiglio dell’Unione europea per quanto concerne la proposta relativa all’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea.

Con la proposta di regolamento COM(2015)671, adottata dalla Commissione europea il 15 dicembre 2015, si prevede in particolare l’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea e la previsione di un nuovo quadro giuridico rafforzato di Frontex che prenderà il nome di Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera. La nuova guardia costiera e di frontiera dovrebbe avere a disposizione una squadra di riserva rapida di almeno 1500 esperti, e un parco di attrezzature tecniche messo a disposizione dagli Stati membri cui l’agenzia dovrebbe poter attingere autonomamente. È previsto che in seno all’Agenzia sia istituito un centro di monitoraggio e analisi dei rischi per controllare i flussi migratori verso l’Unione europea e al suo interno. In particolare tale centro dovrà svolgere valutazioni di vulnerabilità volte ad individuare i punti deboli alle frontiere UE. Inoltre, secondo la proposta, gli Stati membri potranno richiedere operazioni congiunte e interventi rapidi alle frontiere, nonché il dispiegamento di squadre della guardia costiera e di frontiera europea a sostegno di tali operazioni e interventi.

In caso di persistenza delle carenze o di ritardo o inadeguatezza dell'azione nazionale qualora uno Stato membro sia sottoposto a una forte pressione migratoria che rappresenti una minaccia per lo spazio Schengen, la Commissione dovrebbe poter adottare una decisione di esecuzione per stabilire che la situazione in un particolare tratto delle frontiere esterne richiede un intervento urgente a livello europeo. Ciò dovrebbe permettere all'Agenzia di intervenire, dispiegando le squadre della guardia costiera e di frontiera europea, per assicurare l'azione sul campo anche quando uno Stato membro non può o non vuole adottare le misure necessarie.

La proposta prevede infine il rafforzamento del mandato dell’Agenzia per quanto riguarda le attività di rimpatrio.

 

 

 

Il Vertice UE-Turchia

Il 7 marzo scorso, i Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea si sono riuniti con il Primo ministro turco Davutoglu, dando seguito all'analogo Vertice del 29 novembre 2015 e alla Dichiarazione ivi approvata e discutendo in particolare della situazione in materia di migrazione, con riferimento alla rotta dei Balcani occidentali. A conclusione della riunione è stata approvata una nuova Dichiarazione nella quale Unione europea e Turchia convengono, tra l'altro, sulla necessità di "far rientrare, a spese dell'Unione, tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche"; di assicurare che, "per ogni siriano che la Turchia riammette dalle isole greche, un altro siriano sia reinsediato dalla Turchia negli Stati membri dell'UE"; di accelerare l'erogazione dei 3 miliardi di euro inizialmente stanziati e di prendere una decisione "in merito a un ulteriore finanziamento destinato allo strumento per i rifugiati siriani"; di "prepararsi alla decisione di aprire quanto prima nuovi capitoli dei negoziati di adesione con la Turchia". Spetterà al Presidente del Consiglio europeo portare avanti tali proposte e definirne i dettagli con la controparte turca "prima del Consiglio europeo di marzo"

 

 


L’evoluzione della crisi libica: cronologia degli avvenimenti[6]

Il 13 settembre, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non seguiva per lungo tempo l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie candidature.

Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei dintorni del Medical Center di Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa provocava accuse alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese. Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.

 

La posizione del Governo italiano di fronte alle ipotesi d’intervento internazionale in Libia

L’Italia non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.

Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon.

Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.

Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominano Tripoli definiva l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.

Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri dell’Unione europea -, e gli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar ed altri.

Il 19 ottobre il parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava  recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima.

Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti della dialogo proposto dall’ONU.

Nel prolungarsi dello stallo negoziale libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi (conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione accuratamente pianificata dal Pentagono.

Il ruolo oggettivamente preminente dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla la firma diretta dell’intesa.

Tale impostazione era il frutto anche del nuovo approccio del mediatore delle Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.

 

L’accordo di Skhirat

La Conferenza di Roma si dimostrava un passo decisivo, e finalmente il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. Al Consiglio di presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità libiche.

Il giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale si sollecita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dall’ISIS o da al-Qaida.

 

I tentativi per la creazione di un esecutivo di unità nazionale

In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari. Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi, dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione anti-ISIS, ribadiva la disponibilità dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia, purché richieste in tal senso vengano dalle autorità di quel paese e purché il processo di stabilizzazione venga operato congiuntamente dall’Italia e dai suoi alleati.

Tuttavia cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di ministri. Un’altra mozione, inoltre, votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk,  ha bloccato anche il via libera all’accordo politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di fatto interamente l’influente generale Khalifa Haftar.

In tal modo la grande maggioranza dei membri del parlamento di Tobruk sembra aver ribadito la propria vicinanza alle posizioni di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero territorio libico.

In questo scenario indubbiamente, dilatandosi i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, sono state rilanciate le voci, già numerose nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrerebbe orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Irritazione negli ambienti francesi della difesa ha destato quanto diffuso il 24 febbraio dal quotidiano Le Monde sulla presenza di forze francesi in Cirenaica impegnate da diverse settimane a combattere in maniera clandestina il “Califfato”.

Per ciò che concerne il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, va rilevato anzitutto come nell’incontro a Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio Mattarella l’Italia abbia avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca che gli Stati Uniti si trovano in consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Intanto il 14 febbraio, ancora una volta a Skhirat in Marocco, era stata stilata la lista di una nuova compagine di governo, assai più leggera della precedente, con 13 ministri e cinque ministri di Stato: tra essi tre donne. Mentre nei dicasteri della difesa e dell’interno sono stati confermati rispettivamente al-Burghuthi e al-Khouja, agli esteri è stato nominato un ex ministro della cooperazione in carica negli ultimi anni del regime di Gheddafi, Mohammed Sayala. In particolare, il premier incaricato Serraj ha fatto leva sulla conferma di al-Burghuthi alla difesa come possibile punto di mediazione, in quanto pur essendo stato questi agli ordini di Haftar,  risulterebbe gradito a varie milizie filo islamiche della fazione di Tripoli, così come il ministro dell’interno in pectore al-Khouja, già attivo nella stessa carica proprio a Tripoli.

La nuova lista di ministri ha trovato però nuovamente nel Consiglio di presidenza l’opposizione di due esponenti favorevoli al generale Haftar, al-Qatrani e al-Aswad, non l’hanno sottoscritta. Proprio al-Qatrani avrebbe lasciato intendere la pregiudiziale opposizione di una parte significativa del parlamento di Tobruk al ministro della difesa designato, e ha accusato il Consiglio di presidenza di essere controllato dai Fratelli Musulmani.

Il 19 febbraio si era poi verificato un raid aereo statunitense contro postazioni dell’ISIS nella cittadina di Sabrata, a una settantina di km. da Tripoli: l’attacco aereo ha avuto come obiettivo un campo di addestramento di appartenenti allo “Stato islamico”, e avrebbe provocato una quarantina di vittime, senza peraltro poter escludere la morte di diversi civili - accertata purtroppo invece la morte di due cittadini serbi, dipendenti dell’ambasciata di Belgrado in Libia e rapiti nel novembre 2015.

Nel raid probabilmente ha perso la vita Noureddine Chouchane, ritenuto l’ideatore degli attacchi ai turisti in Tunisia al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Sabrata risultava da alcuni mesi il bastione più occidentale del “Califfato” in Libia: i jihadisti si erano dapprima accordati con le tribù locali per occupare parti della città, poi, grazie anche ai traffici di migranti, sarebbero stati in grado di creare campi di addestramento. Per tutta risposta, comunque, circa 150 miliziani dell’ISIS occupavano nei giorni seguenti il quartier generale della sicurezza di Sabrata: i miliziani venivano successivamente respinti, ma non prima di aver decapitato una decina di agenti di sicurezza libici.

Sul fronte del cammino politico-istituzionale della Libia, il 24 febbraio 101 parlamentari di Tobruk hanno firmato una petizione a sostegno del nuovo esecutivo proposto da Serraj, un fatto che, pur non significando ancora il via libera di Tobruk, ha costituito uno snodo potenzialmente importante nella questione.

Infatti il 1° marzo il Ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, a colloquio a New York con l’incaricato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Martin Kobler - che il giorno dopo avrebbe riferito al Consiglio di sicurezza dell’ONU - avanzava la proposta italiana di far leva sul pronunciamento dei 101 parlamentari di Tobruk per considerare espressa e formalizzata la volontà della maggioranza di quel consesso parlamentare - ove peraltro, come emerso da una lettera del vicepresidente Hamuhu a Martin Kobler, un libero dibattito sarebbe stato più volte impedito anche con la violenza.

L’urgenza di sbloccare la situazione istituzionale libica è emersa sempre più pressante anche in rapporto allo stato avanzato dei preparativi per quello che potrebbe essere un secondo intervento internazionale nel paese nordafricano, per il quale intanto veniva istituito a Roma il centro di coordinamento della coalizione. Le difficoltà della situazione libica si confermavano tuttavia il 4 marzo, quando colpi di granate anticarro raggiungevano a Tripoli la sede del Partito della patria, il giorno dopo che più di 50 deputati del Congresso nazionale generale di Tripoli a quel partito riferentisi avevano dichiarato il proprio appoggio al nascente governo unitario.

Per di più alcuni deputati di Tobruk avevano frattanto negato di aver apposto la propria firma alla petizione del 24 febbraio, ponendo in ulteriore difficoltà i piani di Martin Kobler e anche la proposta avanzata dal nostro Paese - diversi media libici hanno tra l’altro protestato contro l’escamotage[7] fatto proprio da Kobler, qualificato alla stregua di un tentativo di aggiramento della maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione del parlamento di Tobruk della nuova lista dei ministri. Per uscire dall’impasse è emersa da parte dell’inviato speciale delle Nazioni Unite la prospettazione di una possibile ripresa del dialogo politico libico, per affidare nuovamente a un formato extraparlamentare la riconciliazione nazionale e il via libera a un nuovo esecutivo, superando i blocchi e i veti incrociati delle varie minoranze del paese. Su questo obiettivo di Kobler un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha espresso convinto sostegno.

 

Le rivelazioni del Wall Street Journal sull’impiego della base aerea di Sigonella per operazioni di bombardamento con droni

Una polemica interna allo schieramento politico italiano si è aperta dopo le rivelazioni del 22 febbraio del Wall Street Journal, secondo le quali dal mese di gennaio decollerebbero dalla base NATO italiana di Sigonella droni armati statunitensi per operazioni di bombardamento contro l’ISIS in Libia e in altre località del Nordafrica. Il Ministero della difesa italiano ha confermato l’accordo tra Washington e Roma per l’utilizzo della base di Sigonella, negando tuttavia che siano già in corso voli finalizzati a tali missioni, e precisando che ogni singola missione dovrà essere sottoposta all’autorizzazione del Governo italiano. Inoltre l’accordo non riguarderebbe tanto la Libia, e quindi un’accelerazione della possibilità di intervento militare nel paese nordafricano, quanto profili più generali di protezione e sicurezza del personale impegnato nella lotta contro l’ISIS in tutti gli scenari in cui il “Califfato” è presente.

Le opposizioni parlamentari hanno lamentato di non essere state adeguatamente informate dal Governo su tali sviluppi, a loro dire particolarmente preoccupanti alla luce del più volte manifestato allarme degli Stati Uniti per la crescente presenza dell’ISIS in Libia, con la richiesta di una maggior cooperazione agli alleati europei.

Tutte queste questioni sono state affrontate il 25 febbraio dal Consiglio supremo di difesa presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, dal quale è emersa la disponibilità italiana a intervenire, ma solo su richiesta di un’autorità libica ricostituita unitariamente, per una missione di supporto che vedrebbe impegnato un numero limitato di militari, con compiti di addestramento delle forze locali e sorveglianza di siti particolarmente sensibili, come ambasciate e palazzi istituzionali.

Parallelamente al crescere della pressione statunitense sulle autorità italiane - con il Segretario alla difesa USA Ashton Carter che in una conferenza stampa del 29 febbraio al Pentagono esplicitamente ha ribadito spettare all’Italia il ruolo guida per un intervento in Libia -; è emerso come anche l’Italia abbia già dispiegato una quarantina di agenti operativi del servizio segreto esterno (AISE), e si trovi nell’imminenza di inviare una cinquantina di appartenenti al reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin.

Questa forma di intervento è stata possibile in ragione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio, oggetto di secretazione, che avrebbe avocato al Dipartimento per la sicurezza - cui fa capo il coordinamento dei due servizi italiani di intelligence - e quindi alla Presidenza del Consiglio, la responsabilità in ordine ad operazioni per gravi crisi all’estero. In base al citato DPCM, con gli agenti dell’AIE sarà possibile la collaborazione di militari di alcuni corpi speciali, in via diretta e al di fuori della normale catena di comando - che naturalmente farebbe invece capo al Ministero della difesa.

Nell’espletare queste funzioni gli appartenenti ai corpi speciali della difesa godrebbero dell’estensione delle normali garanzie funzionali a favore degli agenti dell’AISE, estensione già disposta nel decreto-legge di rinnovo della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali della fine del 2015 (D.L. 174/2015, art. 7-bis, nel quale pure si riscontra la base legislativa del DPCM del 10 febbraio).

Va comunque segnalato che lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, anche nel clima di costernazione destato dall’uccisione dei due tecnici italiani in Libia e prima del rientro dei due colleghi superstiti, ha espresso forte irritazione per ogni accelerazione mediatica in ordine a un possibile intervento del nostro Paese nello scenario libico, definita quale atto di irresponsabilità. Matteo Renzi ha ribadito che la priorità dell’Italia è diplomatica, e mira anzitutto alla formazione di un governo libico unitario, ed effettivamente gran parte dell’arco politico-parlamentare è sembrato convergere sulla cautela del Presidente Renzi, sulla quale sono apparse altresì quasi perfettamente sintoniche fonti dell’Eliseo, in vista dell’incontro dell’8 marzo tra Matteo Renzi e il Presidente francese Hollande. Lo stesso ambasciatore americano a Roma John Phillips è sembrato assai più cauto quando è tornato sull’argomento dell’impegno italiano in Libia, sottolineando di aver fatto riferimento, nell’intervista di tre giorni prima al Corriere della Sera, al contingente italiano di 5.000 uomini per la Libia in base a precedenti indicazioni della stessa Italia, e non come forma di suggerimento da parte degli USA, consapevoli che si tratta di decisioni ancora da adottare.

L’incontro italo-francese di Venezia dell’8 marzo ha visto la convergenza tra i due Governi sulla priorità della formazione del governo unitario in Libia, pur sottolineando l’urgenza di addivenire a una soluzione dell’intricato problema istituzionale - come sostenuto in particolare dal presidente francese Hollande, alludendo alla presenza ormai ben radicata del terrorismo dell’ISIS in Libia. Il riferimento alle notizie riportate nella stessa giornata dal New York Times in merito a piani statunitensi già messi a punto per un’ondata di raid aerei contro alcune decine di obiettivi dell’ISIS in diverse zone della Libia, che dovrebbe precedere l’intervento di terra delle milizie libiche filoccidentali, il Presidente del Consiglio Renzi ha evidenziato l’importanza di una visione di lungo periodo dei problemi del paese nordafricano, disinnescando pertanto nell’immediato le tensioni in ordine all’intervento militare a breve termine. Un’incognita fondamentale anche nei rapporti tra i paesi occidentali rimane però quella della tempistica dell’intervento militare contro l’ISIS, che da parte degli Stati Uniti e, par di comprendere, della Francia, si correla alla necessità di impedire un eccessivo rafforzamento delle milizie del “Califfato”, che rischierebbe di vanificare l’intervento militare su scala limitata attualmente nei piani generali.

Le posizioni dell’Italia sono state ribadite in Parlamento nella giornata del 9 marzo, anzitutto con l’intervento del Ministro degli esteri Gentiloni alla Camera e al Senato: il Ministro ha ribadito la linea di prudenza sull’intervento militare in Libia, un teatro, ha ricordato, nel quale oltre ad almeno cinquemila combattenti dell’ISIS vi sarebbero circa duecentomila uomini armati, inquadrati in varie milizie o gruppi tribali. Il Governo italiano, ha proseguito il Ministro Gentiloni, tenta di favorire la formazione di un governo libico unitario, consentendo alla maggioranza del parlamento di Tobruk favorevole al premier designato Fayez Serraj di esprimersi anche al di fuori del consesso parlamentare, per superare le minacce da parte delle frange più estremiste. Dal canto suo la Ministra della difesa Roberta Pinotti, intervenendo nella stessa giornata in seno al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) ha reiterato analoghe dichiarazioni, precisando che solo su richiesta libica potrà dispiegarsi una missione di tipo militare, e in ogni caso dopo il via libera del Parlamento italiano – la Ministra Pinotti ha poi precisato  non esservi al momento forze speciali militari italiane in Libia.

Il 10 marzo si è svolta peraltro Tunisi la preannunciata riunione del dialogo politico libico - la via alternativa scelta dalle forze interessate alla formazione di un governo unitario in Libia per aggirare il veto finora rappresentato dal parlamento di Tobruk nei confronti del nuovo esecutivo -, subito inceppata da complicate procedure di insediamento del Comitato di dialogo. Per di più, il presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh l’8 marzo aveva dichiarato che una fiducia accordata al nuovo esecutivo al di fuori del parlamento non avrebbe alcun valore.

 

L’assassinio di due ostaggi italiani e la liberazione degli altri due connazionali rapiti

Il 2 marzo purtroppo si era intanto avuta notizia dell’uccisione di Salvatore Failla e Fausto Piano - due dei quattro ostaggi italiani, tecnici dell’azienda Bonatti, rapiti in Libia nel luglio 2015 - che perdevano la vita nel corso di un attacco a Sabrata delle milizie fedeli a Tripoli nei confronti di gruppi ritenuti vicini all’ISIS. Nel caos di Sabrata è stato particolarmente difficile nelle prime ore ricostruire gli eventi, anche per la delicatezza della situazione, che sembrava far immaginare la volontà delle autorità cittadine di trattenere i due ostaggi superstiti – Gino Pollicardo e Filippo Calcagno -, alla ricerca di una qualche forma di riconoscimento politico di Tripoli, cui le autorità di Sabrata risultano collegate. Fortunatamente all’alba del 6 marzo ha potuto atterrare all’aeroporto di Ciampino l’aereo che riportato a casa i due tecnici superstiti, che già in tarda mattinata sono stati ascoltati dai magistrati in una caserma del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri.

Nelle sei ore di colloquio sarebbe emerso come, unitamente ai due colleghi deceduti, Pollicardo e Calcagno abbiano patito durante gli otto mesi di prigionia violenze fisiche e psicologiche da parte della banda criminale che li aveva in ostaggio. Quanto alla loro liberazione, sarebbe avvenuta il 4 marzo, dopo la scomparsa dei loro carcerieri, i quali due giorni prima avevano prelevato Failla e Piano, che non avrebbero più rivisto i propri colleghi di lavoro e di prigionia.

Sulla vicenda tra l’altro il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha asserito il 6 marzo la necessità di comprendere come mai i quattro tecnici italiani siano entrati in Libia quando già era stato posto un esplicito divieto da parte delle autorità del nostro Paese: al Presidente del Consiglio ha replicato il numero uno della società Bonatti, Paolo Ghirelli, dicendo che la sua azienda aveva rispettato tutti gli obblighi di legge e i quattro tecnici si trovavano in Libia per uno scopo di lavoro ben preciso.

Solo nella notte tra il 9 e il 10 marzo le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano hanno potuto far rientro in Italia, accolte all’aeroporto di Ciampino dai familiari e dal Ministro degli esteri Gentiloni - particolarmente amareggiata la reazione della moglie di Salvatore Failla, che ha detto di non volere funerali di Stato per il marito, per il quale la strategia consigliata dalle autorità italiane si sarebbe rivelata fatale. La vedova Failla ha poi rivelato la presenza tra i sequestratori di un soggetto in grado di parlare seppur stentatamente in italiano, in occasione della telefonata con cui i sequestratori le avevano fatto ascoltare un messaggio registrato in cui il marito chiedeva aiuto e le diceva di rivolgersi ai mezzi di comunicazione italiani. L’avvocato della famiglia Failla, dal canto suo, ha stigmatizzato l’autopsia effettuata in Libia, qualificandola alla stregua di una macelleria: in particolare, il prelievo di parte dei tessuti corporei ha reso impossibile l’identificazione della dinamica esatta dell’uccisione dei due tecnici italiani. Tuttavia, l’autopsia subito effettuata al Policlinico Gemelli di Roma dopo l’arrivo delle salme in Italia ha evidenziato come i colpi mortali per Failla e Piano siano stati in parti del corpo non compatibili con la versione di una esecuzione da parte dei rapitori prima del blitz delle milizie libiche, a differenza di quanto ancora il 10 marzo dichiarato dal sindaco di Sabrata. Altra questione su cui c’è dissenso tra le autorità italiane e i libici è quella dell’appartenenza all’ISIS dei carcerieri di Failla e Piano, data per scontata delle autorità libiche ed esclusa invece nettamente dall’intelligence italiana.

 


Profili biografici
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali)


Norbert Röttgen
Presidente della Commissione
Affari esteri del Bundestag

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato il 2 luglio 1965 a Meckenheim. Cattolico, sposato con tre figli.

 

Consegue la maturità nel 1984. Dal 1984 al 1989 studia giurisprudenza all’Università di Bonn.

Nel 1993 consegue l’abilitazione ad esercitare la professione di avvocato presso il Tribunale regionale di Colonia. Nel 2001 consegue il dottorato in Giurisprudenza.

Nel 1999 consegue l’abilitazione ad esercitare presso la Corte d’appello di Colonia.

Carriera politica

Dal 1982 membro del Partito democratico-cristiano CDU.

Dal 1984 al 2010: Membro del Direttivo locale della CDU per la circoscrizione Rhein-Sieg.

Dal 1992 al 1996: Presidente regionale della Giovane Unione (Gruppo giovanile) del Nord Reno Vestfalia.

Dal 1994: Deputato al Bundestag.

Dal 2001 al 2009: Presidente del Gruppo di lavoro federale dei giuristi democratico-cristiani.

Dal novembre 2009 all’ottobre 2011: Presidente dell’Associazione della CDU del Distretto Mittelrhein.

Dal novembre 2010 al giugno 2012: Presidente della CDU per il Nord Reno Vestfalia.

Dal novembre 2010 al dicembre 2012: Vice Presidente federale della CDU.

Dal febbraio 2005 all’ottobre 2009: Primo Responsabile del Gruppo parlamentare CDU/CSU.

Dall’ottobre 2009 al maggio 2012: Ministro federale per l’Ambiente, la Tutela della Natura e la Sicurezza dei Reattori.

Dal maggio 2012 al settembre 2013: Membro della Commissione Esteri del Bundestag.

Da gennaio 2014: Presidente della Commissione Esteri del Bundestag.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Kadri Veseli, Presidente dell’Assemblea del Kosovo

Kadri  Veseli

 

Nato a Mitrovica il 31 maggio 1967, è stato uno dei leader delle associazioni studentesche impegnate per l’indipendenza del suo paese. Ha svolto studi universitari dapprima in Albania poi presso l’Università di Sheffield dove ha conseguito un master in Business Administration.

Prima di diventare Presidente del parlamento kosovaro, Veseli è stato membro dell’Esercito di liberazione del Kosovo (KLA), comandante del controspionaggio del Servizio segreto kosovaro (KIS) e, nella veste di consigliere di politica estera, ha preso parte ai negoziati che hanno portato agli accordi di Rambouillet (1999).

Sposato, padre di quattro figli, parla inglese, tedesco e serbo.

 

 

 

 


Pubblicistica

 


Nuovi aspetti dell’antisemitismo

 



I rapporti tra la Germania e l’Unione europea

 


 

 

 


Documentazione allegata


Dichiarazione di Londra -
The London Declaration on Combating Antisemitism,
Lancaster House, 17 February 2009


 

Preamble

We, Representatives of our respective Parliaments from across the world, convening in London for the founding Conference and Summit of the Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism, draw the democratic world’s attention to the resurgence of antisemitism as a potent force in politics, international affairs and society.

We note the dramatic increase in recorded antisemitic hate crimes and attacks targeting Jewish persons and property, and Jewish religious, educational and communal institutions.

We are alarmed at the resurrection of the old language of prejudice and its modern manifestations in rhetoric and political action -against Jews, Jewish belief and practice and the State of Israel.

We are alarmed by Government-backed antisemitism in general, and state-backed genocidal antisemitism, in particular.

We, as Parliamentarians, affirm our commitment to a comprehensive programme of action to meet this challenge.

We call upon national governments, parliaments, international institutions, political and civic leaders, NGOs, and civil society to affirm democratic and human values, build societies based on respect and citizenship and combat any manifestations of antisemitism and discrimination.

We today in London resolve that:

 

Challenging Antisemitism

1.       Parliamentarians shall expose, challenge, and isolate political actors who engage in hate against Jews and target the State of Israel as a Jewish collectivity;

2.       Parliamentarians should speak out against antisemitism and discrimination directed against any minority, and guard against equivocation, hesitation and justification in the face of expressions of hatred;

3.       Governments must challenge any foreign leader, politician or public figure who denies, denigrates or trivialises the Holocaust and must encourage civil society to be vigilant to this phenomenon and to openly condemn it;

4.       Parliamentarians should campaign for their Government to uphold international commitments on combating antisemitism -including the OSCE Berlin Declaration and its eight main principles;

5.       The UN should reaffirm its call for every member state to commit itself to the principles laid out in the Holocaust Remembrance initiative including specific and targeted policies to eradicate Holocaust denial and trivialisation;

6.       Governments and the UN should resolve that never again will the institutions of the international community and the dialogue of nation states be abused to try to establish any legitimacy for antisemitism, including the singling out of Israel for discriminatory treatment in the international arena, and we will never witness – or be party to -another gathering like the United Nations World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and other related Intolerances in Durban in 2001;

7.       The OSCE should encourage its member states to fulfil their commitments under the 2004 Berlin Declaration and to fully utilise programmes to combat antisemitism including the Law Enforcement programme LEOP;

8.       The European Union, inter-state institutions, multilateral fora and religious communities must make a concerted effort to combat antisemitism and lead their members to adopt proven and best practice methods of countering antisemitism;

9.       Leaders of all religious faiths should be called upon to use all the means possible to combat antisemitism and all types of discriminatory hostilities among believers and society at large;

10.    The EU Council of Ministers should convene a session on combating antisemitism relying on the outcomes of the London Conference on Combating Antisemitism and using the London Declaration as a basis.

 

Prohibitions

11.    Governments should fully reaffirm and actively uphold the Genocide Convention, recognising that where there is incitement to genocide signatories automatically have an obligation to act. This may include sanctions against countries involved in or threatening to commit genocide, referral of the matter to the UN Security Council, or initiation of an interstate complaint at the International Court of Justice;

12.    Parliamentarians should legislate effective Hate Crime legislation recognising “hate aggravated crimes” and, where consistent with local legal standards, “incitement to hatred” offences and empower law enforcement agencies to convict;

13.    Governments that are signatories to the Hate Speech Protocol of the Council of Europe ‘Convention on Cybercrime’ (and the ‘Additional Protocol to the Convention on cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems’) should enact domestic enabling legislation;

Identifying the threat

14.    Parliamentarians should return to their legislature, Parliament or Assembly and establish inquiry scrutiny panels that are tasked with determining the existing nature and state of antisemitism in their countries and developing recommendations for government and civil society action;

15.    Parliamentarians should engage with their governments in order to measure the effectiveness of existing policies and mechanisms in place and to recommend proven and best practice methods of countering antisemitism;

16.    Governments should ensure they have publicly accessible incident reporting systems, and that statistics collected on antisemitism should be the subject of regular review and action by government and state prosecutors and that an adequate legislative framework is in place to tackle hate crime;

17.    Governments must expand the use of the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform policy of national and international organisations and as a basis for training material for use by Criminal Justice Agencies;

18.    Police services should record allegations of hate crimes and incidents -including antisemitism -as routine part of reporting crimes;

19.    The OSCE should work with member states to seek consistent data collection systems for antisemitism and hate crime.

 

Education, awareness and training

20.    Governments should train Police, prosecutors and judges comprehensively. The training is essential if perpetrators of antisemitic hate crime are to be successfully apprehended, prosecuted, convicted and sentenced. The OSCE’s Law enforcement Programme LEOP is a model initiative consisting of an international cadre of expert police officers training police in several countries;

21.    Governments should develop teaching materials on the subjects of the Holocaust, racism, antisemitism and discrimination which are incorporated into the national school curriculum. All teaching materials ought to be based on values of comprehensiveness, inclusiveness, acceptance and respect and should be designed to assist students to recognise and counter antisemitism and all forms of hate speech;

22.    The Council of Europe should act efficiently for the full implementation of its ‘Declaration and Programme for Education for Democratic Citizenship based on the Rights and Responsibilities of the Citizens’, adopted on 7 May 1999 in Budapest;

23.    Governments should include a comprehensive training programme across the Criminal Justice System using programmes such as the LEOP programme;

24.    Education Authorities should ensure that freedom of speech is upheld within the law and to protect students and staff from illegal antisemitic discourse and a hostile environment in whatever form it takes including calls for boycotts.

Community Support

25.    The Criminal Justice System should publicly notify local communities when antisemitic hate crimes are prosecuted by the courts to build community confidence in reporting and pursuing convictions through the Criminal Justice system;

26.    Parliamentarians should engage with civil society institutions and leading NGOs to create partnerships that bring about change locally, domestically and globally, and support efforts that encourage Holocaust education, inter-religious dialogue and cultural exchange.

 

Media and the Internet

27.    Governments should acknowledge the challenge and opportunity of the growing new forms of communication;

28.    Media Regulatory Bodies should utilise the EUMC ‘Working Definition of antisemitism’ to inform media standards;

29.    Governments should take appropriate and necessary action to prevent the broadcast of antisemitic programmes on satellite television channels, and to apply pressure on the host broadcast nation to take action to prevent the transmission of antisemitic programmes;

30.    The OSCE should seek ways to coordinate the response of member states to combat the use of the internet to promote incitement to hatred;

31.    Law enforcement authorities should use domestic “hate crime”, “incitement to hatred” and other legislation as well as other means to mitigate and, where permissible, to prosecute “Hate on the Internet” where racist and antisemitic content is hosted, published and written;

32.    An international task force of Internet specialists comprised of parliamentarians and experts should be established to create common metrics to measure antisemitism and other manifestations of hate online and to develop policy recommendations and practical instruments for Governments and international frameworks to tackle these problems.

 

Inter-parliamentary Coalition for Combating Antisemitism

33.    Participants will endeavour to maintain contact with fellow delegates through the working group framework, communicating successes or requesting further support where required;

34.    Delegates should reconvene for the next ICCA Conference in Canada in 2010, become an active member of the Inter-parliamentary Coalition and promote and prioritise the London Declaration on Combating Antisemitism.

 


XVI legislatura, Commissione riunite I e III della Camera, Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo, 6 ottobre 2011



(…)

 

 

 

 

 

 

 



[1]     La Convenzione fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 1965;  la ratifica dell’Italia è stata effettuata a seguito della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

[2]     La giornata in memoria dell’Olocausto è stata fissata per il 27 gennaio di ogni anno dalla Risoluzione dell’A.G. delle Nazioni unite n. 60/7 del 21 Novembre 2005.

[3]    La più recente risoluzione annuale è del 17 dicembre 2015: A global call for concrete action for the total elimination of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance and the comprehensive implementation of and follow-up to the Durban Declaration and Programme of Action (A/RES/70/140). Si segnala anche la risoluzione, in pari data, sulla lotta al neonazismo e ad altre pratiche che alimentano il razzismo, la discriminazione razziale, la xenophobia e l’intolleranza (A/RES/70/139).

 

[4]     Nel Summit di Budapest del 1994, è stato deciso che la CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) cambiasse la sua denominazione in OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), per riflettere l’avvenuta trasformazione in istituzione stabile.

[5]     Porto, dicembre 2002, e Maastricht, dicembre 2003.

[6]     Aggiornata al 10 marzo 2016

[7]     va però ricordato che secondo alcuni osservatori si tratterebbe di un legittimo ricorso all'articolo 64 dell'accordo di Skhirat, che espressamente prevede la riconvocazione del dialogo politico libico in in caso di gravi violazioni dell'accordo, e tali sarebbero le intimidazioni denunciate da deputati di Tobruk nell'imminenza di concedere la fiducia all'esecutivo di Fayez Serraj.