Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: 59a Sessione della Commissione ONU sullo stato delle donne - (New York, 6-10 marzo 2015)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 156
Data: 04/03/2015
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

59a Sessione della Commissione ONU sullo stato delle donne

(New York, 6-10 marzo 2015)

 

 

 

 

 

 

n. 156

 

 

 

4 marzo 2014

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Affari Esteri

( 066760-4172 / 066760-4939 – * st_esteri@camera.it

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e uffici:

Servizio Rapporti internazionali

( 066760-3948 / 066760-9515 – * cdrin1i@camera.it

Senato della Repubblica:

Servizio Affari Internazionali

( 066706- 2989– * segreteriaaaii@senato.it

 

 

 

 

 

 

 

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File: es0331.doc

 


INDICE

 

Schede di lettura

La 59a sessione della Commissione ONU sullo stato delle donne  (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 3

§  Premessa  3

§  La 59a sessione  3

Il contrasto alla violenza contro le donne nell’ordinamento italiano (a cura del Servizio Studi) 19

§  Le disposizioni penali applicabili alle ipotesi di violenza contro le donne  20

§  I maltrattamenti in famiglia  20

§  I reati di violenza sessuale  22

§  Lo stalking  27

§  Approfondimento statistico sul reato di stalking  29

§  Le mutilazioni genitali femminili 29

§  La ratifica della Convenzione di Istanbul 30

§  I contenuti della Convenzione  31

§  Lo stato dei fondi per il contrasto alla violenza di genere  37

La partecipazione delle donne alla vita politica  e istituzionale (a cura del Servizio Studi) 41

§  L'Italia secondo gli indici internazionali 41

§  Le donne nelle istituzioni 42

§  I princìpi costituzionali 48

§  Giurisprudenza costituzionale  50

§  A livello nazionale  51

§  A livello comunale  54

§  A livello di città metropolitane e province  56

§  A livello regionale  57

§  Le quote di genere nei sistemi elettorali: una analisi comparata  60

La risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 1325 (2000) su donne, pace e sicurezza quindici anni dopo (a cura del Servizio Studi) 65

§  La risoluzione 1820 del 2008  66

§  Le risoluzioni 1960 (2010) e 1888 (2009) 67

§  Il Rappresentante Speciale ONU per le violenze sessuali in situazioni di conflitto  67

§  Il Team of Experts on the Rule of Law/Sexual Violence in Conflict - TOE  68

§  L’UN Action Against Sexual Violence  68

§  Gli sviluppi più recenti 69

Le iniziative internazionali per la lotta  ai matrimoni precoci e forzati (a cura del Servizio Studi) 71

§  I matrimonio forzati in Italia  72

La cooperazione parlamentare  nell’ambito delle Nazioni Unite (a cura del Servizio Rapporti Internazionali) 75

§  Incontri 75

§  La partecipazione di parlamentari italiani alle sessioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite  76

§  La partecipazione di parlamentari italiani alle principali Conferenze ONU   77

 


Schede di lettura

 


La 59a sessione della Commissione ONU
sullo stato delle donne

(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[1]

Premessa

La 59a Sessione della Commissione sullo stato delle donne (CSW) si svolgerà a New York, nella sede delle Nazioni Unite, dal 9 al 20 marzo 2015[2]. Alla sessione parteciperanno rappresentanti degli Stati membri, organismi delle Nazioni Unite ed organizzazioni non governative (ONG) accreditate presso l'ECOSOC da tutte le regioni del mondo.

La CSW è una Commissione funzionale del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) ed è la principale sede politica mondiale dedicata esclusivamente all’eguaglianza di genere e all’emancipazione della donna. E' composta da 45 Stati membri delle Nazioni Unite, eletti dal Consiglio economico e sociale per quattro anni, sulla base del principio dell’equa distribuzione geografica. La composizione attuale prevede 13 membri dall’Africa, 11 dall’Asia, 9 dall’America Latina e Caraibi, 8 dall’Europa occidentale e altri Stati, 4 dall’Europa orientale. I Paesi che non fanno parte della Commissione partecipano a tutte le fasi del dibattito e del negoziato, con diritto di parola ma non di voto.

Nella preparazione delle riunioni annuali, la CSW è assistita da un Bureau, i cui membri sono in carica per due anni. Questi incontri sono un'occasione per valutare i progressi, identificare le sfide, definire gli standard e formulare politiche concrete per promuovere l’eguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Per tali attività la CSW si avvale del supporto di UN Women, organismo delle Nazioni unite per l’eguaglianza di genere e l’empowerment femminile.

 

La 59a sessione

La sessione del marzo 2015 non sarà strutturata, come di consueto, su un tema prioritario ed uno emergente, ma sarà interamente focalizzata sulla revisione e valutazione dell'attuazione della Dichiarazione di Pechino, del Programma di azione e degli esiti della 23a sessione speciale delle Nazioni Unite.

a) Dichiarazione di Pechino e Piattaforma d'azione

 La Conferenza di Pechino (1995) è stata la quarta di una serie di conferenze mondiali sulle donne organizzate dalle Nazioni Unite ed ha rappresentato la conclusione di un lungo processo preparatorio, internazionale e regionale, al termine del quale sono state adottate la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma d'Azione per l'uguaglianza, lo sviluppo e la pace.

 Non si tratta di documenti giuridicamente vincolanti ma di impegni politici, assunti dagli Stati firmatari, a lavorare verso l'uguaglianza tra uomini e donne e l'emancipazione femminile. In particolare, la Piattaforma è stata definita, anche dopo 20 anni, "l'impegno internazionale più ambizioso, per quanto incompiuto, per realizzare l'uguaglianza di genere e l'empowerment delle donne"[3].

 La Piattaforma d'azione contiene un approccio completo verso l'autonomia delle donne che ribadisce il principio fondamentale in base al quale i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali. La Piattaforma, infatti, mira a promuovere e tutelare il pieno godimento di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali di tutte le donne durante l'intero ciclo di vita.

 Il documento contiene tre capitoli iniziali (Obiettivi, contesto mondiale, aree critiche). Le dodici "aree critiche" sono quindi illustrate in dettaglio (povertà; istruzione e formazione; salute; violenza di genere; conflitti armati; disparità in economia; disuguaglianza nei processi decisionali; meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne; diritti fondamentali; donne e media; donne e ambiente; le bambine). Per ognuna di esse viene effettuata un'analisi del problema e vengono elencati gli obiettivi strategici che Governi, organizzazioni internazionali e società civile dovrebbero perseguire.

Revisioni del livello di attuazione della piattaforma sono state condotte regolarmente ogni cinque anni:

1)     Pechino +5, nel 2000, in occasione della 23a sessione speciale dell’Assemblea generale dell’ONU. Ha costituito un'occasione per misurare i progressi compiuti a 5 anni dall’approvazione della Piattaforma d’azione. I Governi hanno approvato una Dichiarazione politica nella quale hanno ribadito il proprio impegno verso gli obiettivi contenuti nella Piattaforma di Pechino ed hanno accolto con favore i progressi compiuti. In considerazione del mancato, completo raggiungimento degli obiettivi medesimi hanno, però, concordato ulteriori azioni ed iniziative al livello locale, nazionale, regionale ed internazionale. La risoluzione Azioni e iniziative per dare attuazione alla Dichiarazione e alla Piattaforma di Pechino contiene un'analisi puntuale dei risultati ottenuti e degli ostacoli riscontrati per ognuna delle dodici aree critiche. In particolare, tra le tematiche su cui concentrare ulteriori sforzi, figurano: la partecipazione delle donne alla vita politica e alle decisioni in materia di politica economica; la violenza domestica; alcune pratiche tradizionali quali le mutilazioni genitali, i matrimoni precoci, la mortalità materna; varie priorità sanitarie quali la prevenzione di gravidanze indesiderate, di malattie oncologiche e a trasmissione sessuale.

2)     nel marzo 2005 una valutazione dell'attuazione della Dichiarazione di Pechino è stata condotta all'interno della 49a sessione della CSW. In un rapporto ("Pechino a 10 anni ed oltre") si lamentano "l'ampia divergenza tra le politiche e la loro attuazione" e "i progressi solo limitati (...) nell'attuare l'impegno all'integrazione della prospettiva di genere" (p. 1, Introduzione). Accanto ad un'analisi puntuale di ognuna delle aree critiche, il rapporto mette in luce l'importanza di maggiori sforzi per coinvolgere uomini e ragazzi, il potenziale di effettiva collaborazione tra i governi e le associazioni femminili e la necessità di riconoscere ed agire sui bisogni specifici di alcuni gruppi di donne ad esempio sulla base dell'età, della razza, della cultura o di eventuali disabilità, nonché la necessità di migliorare la disponibilità, la qualità e l'uso delle statistiche di genere[4];

3)     Pechino +15, nel 2010: il 1° e 2 marzo 2015 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha commemorato il quindicesimo anniversario dell'adozione della Dichiarazione di Pechino[5]. Una revisione dell'attuazione ha di nuovo avuto luogo all'interno della 54a sessione della CSW. Nell'ottica di superare gli ostacoli restanti e le nuove sfide, si è enfatizzato l'aspetto relativo alla condivisione di esperienze e buone prassi, con una serie di eventi paralleli, che hanno creato opportunità di scambio di informazioni e di buone prassi. Un questionario è stato somministrato agli Stati membri al fine di verificare puntualmente il livello di attuazione della Dichiarazione e della Piattaforma nelle singole realtà nazionali. Le risposte fornite dal Governo italiano sono contenute in un rapporto.

L'ulteriore valutazione da condurre a New York in occasione della 59a sessione della CSW dovrebbe prendere atto della lentezza dei progressi e del persistere di ostacoli e divari importanti nell'attuazione delle 12 aree critiche, nonché delle nuove sfide emerse nell'eliminazione della discriminazione contro donne e ragazze. Dovrebbe contenere l'impegno degli Stati membri a conseguire dapprima risultati misurabili, quindi a realizzare pienamente l'uguaglianza di genere, l'empowerment delle donne e i diritti umani di donne e ragazze entro una data precisa. E' possibile che un impegno preciso venga assunto anche per il sostegno, anche in termini di risorse, di organizzazioni femminili e della società civile a livello locale, nazionale, regionale, e globale.

       Negli scorsi anni gli sforzi per l'attuazione della Dichiarazione di Pechino e della Piattaforma di azione sono stati affiancati da quelli compiuti, dalla Comunità internazionale, per il conseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del millennio, contenuti nella dichiarazione delle Nazioni Unite del Millennio nel settembre 2000. Si tratta di otto obiettivi che 191 Stati si sono impegnati a realizzare, entro il 2015, al fine di rispondere ai bisogni dei più poveri. Particolarmente vicini alle finalità ed allo spirito della Dichiarazione di Pechino sono gli obiettivi n. 3 (Promuovere l'uguaglianza di genere e l'autonomia delle donne) e n. 5 ("migliorare la salute materna")[6].

       La discussione sugli obiettivi di sviluppo del millennio proseguirà a New York il prossimo settembre, in occasione del Vertice sullo sviluppo sostenibile post 2015, durante il quale è previsto il lancio di un'ambiziosa agenda post-2015. E' dunque possibile che le valutazioni avanzate in occasione della 59a sessione della CSW abbiano un'eco anche in occasione del vertice di settembre.

 

b) La giornata parlamentare

Durante i lavori della 59a sessione si svolgerà, come di consueto, una giornata parlamentare, promossa dall'Unione interparlamentare e da UN Women. L'evento avrà luogo nella sala dell'Ecosoc, presso la sede delle Nazioni Unite.

I lavori si svolgeranno in tre sessioni, dedicate rispettivamente a:

I) Pechino e oltre: cosa serve ancora per realizzare l'uguaglianza di genere?

 Partendo dal presupposto che gli impegni contenuti nella dichiarazione di Pechino e nella Piattaforma d'azione sono stati onorati solo parzialmente, la sessione si propone di esaminare le conquiste più importanti e gli ostacoli che ancora persistono nell'attuazione.

A seguito degli interventi di alcuni esperti, i Parlamentari saranno invitati a rispondere ad alcune domande:

Quali sono le conquiste più importanti dopo Pechino, anche in termini di partecipazione delle donne alla politica?

Uno studio del Parlamento europeo[7], relativo agli obiettivi di sviluppo del millennio, cita tra i progressi più visibili l'accesso all'istruzione primaria, con la parità tra i due generi raggiunta in numerosi paesi, per quanto disparità rimangano nell'educazione secondaria e terziaria. Un rapporto dell'OCSE riporta, anzi, che "le ragazze oggi ottengono risultati migliori dei ragazzi in determinati settori dell'educazione ed è meno probabile che abbandonino il ciclo di studi"[8]. In quel medesimo rapporto, del resto, si afferma la necessità di continuare ad "assicurare il continuo miglioramento della qualità dell'educazione"[9].

Il rapporto dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere (EIGE) rileva, però, che anche con una formazione accademica simile, le traiettorie di carriera di uomini e donne variano sensibilmente, lasciando aperta la questione se le donne siano in grado di capitalizzare sulla propria educazione nello stesso modo degli uomini. Il rapporto conclude che "tale asimmetria rappresenta un grande spreco di risorse e di talento"[10].

Altro importante risultato raggiunto, a giudizio dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere, è l'incremento di produzione e divulgazione di statistiche disaggregate per sesso nonché la creazione di strutture specifiche dedicate all'uguaglianza di genere, tra cui lo stesso EIGE.

Si ricorda che proprio l'Istituto europeo ha elaborato l'indice di uguaglianza di genere, lanciato nel 2013. Si tratta di uno strumento di misurazione statistica che sintetizza la complessità dell'uguaglianza di genere come concetto multidimensionale.

Il Governo italiano[11], nell'elencare le più importanti conquiste nel nostro paese, ha citato:

1.     l'adozione di alcuni testi legislativi. Innanzitutto il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (decreto legislativo n. 198/2006), che ha riunito undici testi legislativi sulle pari opportunità in un unico decreto di 59 articoli. Una normativa ad hoc è poi stata adottata in materia di attuazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura (legge n. 196/2007, attuazione di una direttiva comunitaria);

2.     la creazione di vari organismi e meccanismi istituzionali stabiliti sull'uguaglianza di genere (il Ministro per le pari opportunità, il Dipartimento per le pari opportunità all'interno della presidenza del Consiglio dei ministri, nonché la Consigliera nazionale di parità, che promuove e verifica la discriminazione di genere ed assume iniziative per il rispetto del principio di non discriminazione nell'ambiente di lavoro);

3.     la disponibilità di specifiche risorse finanziarie, a valere sia sul budget nazionale che su quello dell'Unione europea;

4.     l'approvazione della legge n. 120/2011 (Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati), che regola la rappresentanza femminile minima da garantire negli organi di amministrazione e controllo delle società a partecipazione pubblica.

Con specifico riferimento alla partecipazione alla politica, il Governo italiano riporta che, sebbene l'Italia sia - per motivi principalmente culturali -  un paese in cui la percentuale di donne in posizioni decisionali è bassa, uno sviluppo positivo è stato registrato negli ultimi anni. Nel 2000 la percentuale di donne parlamentari si attestava all'1,3 per cento alla Camera dei deputati ed all'8 per cento in Senato. Dai dati relativi alla corrente XVII Legislatura (2013) si evince invece che la rappresentanza femminile costituisce il 28,35 per cento al Senato della Repubblica ed il 30,95 per cento alla Camera dei deputati.

In materia, tra l'altro, nel 2004 è stata approvata la legge n. 90 ("Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004"), in cui si stabilisce che in quei procedimenti elettorali nessuno dei due sessi possa rappresentare nelle liste dei candidati una percentuale eccedente i due terzi del totale di lista. Nella corrente Legislatura si ricorda poi la legge 22 aprile 2014, n. 65, che ha apportato modifiche alla legge n. 18 del 1979 (recante norme per l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia), tra l’altro allo scopo di introdurre ulteriori garanzie per la rappresentanza di genere.

Per quanto concerne il Governo, vi sono sei Ministri donna su quindici totali[12].

In ambito europeo uno studio del Parlamento europeo (2014) conferma che le donne sono ancora sotto-rappresentate non solo in politica - con un lieve incremento in parte dovuto al ricorso al sistema delle quote - ma anche nel sistema giudiziario, al livello governativo e nella pubblica amministrazione. Analoga situazione - come evidenziato dal rapporto dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere - si registra negli organi decisionali delle istituzioni economiche e finanziarie, con una significativa prevalenza maschile nelle banche centrali e nelle principali compagnie a partecipazione pubblica.

Si vedano anche, in merito, le statistiche dell'Unione interparlamentare e del Database della Commissione europea sulle donne e gli uomini in posizioni decisionali.

Quali azioni specifiche devono essere ancora compiute a partire dalla piattaforma di Pechino?

UN Women ha affrontato, nel proprio Rapporto annuale 2012-2013, il tema delle prospettive post-2015 proponendo l'adozione al livello internazionale di un obiettivo autonomo, radicato nei diritti umani e finalizzato ad affrontare l'ineguaglianza nelle relazioni di potere. Tramite un approccio integrato, esso dovrebbe permettere di affrontare tre temi critici della disuguaglianza di genere, ovvero: la libertà da violenze per donne e ragazze, l'uguaglianza di genere nella distribuzione delle capacità e l'uguaglianza di genere nel sistema decisionale, in istituzioni sia pubbliche che private. Il Governo italiano ha dichiarato di condividere questo approccio[13].

In termini generali, tenendo presente la realtà europea, il rapporto dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere ha individuato le seguenti, principali sfide alla realizzazione degli obiettivi strategici:

1)     gli stereotipi basati sul genere, l'enfasi relativamente bassa data agli atteggiamenti sociali collegati al genere e il basso livello di priorità riconosciuto alle relative questioni;

2)     la mancanza di chiarezza delle politiche di uguaglianza di genere, senza obiettivi strategici chiari e misurabili né finalità specifiche da raggiungere entro scadenze specificate;

3)     il circolo vizioso in virtù del quale le donne sono svantaggiate nel mercato del lavoro soprattutto in termini di differenza di remunerazione, il che porta le madri a svolgere il ruolo primario di assistenza alla famiglia, una scelta che le espone ad un maggiore rischio di povertà negli anni successivi;

4)     incidere sulla violenza contro le donne dettata da motivi di genere;

5)     eliminare lo squilibrio di genere nelle posizioni decisionali.

Le seguenti azioni specifiche vengono dunque proposte:

1)     elaborazione di misure per evitare la povertà nelle giovani donne (16-24 anni) e nelle madri single, considerate particolarmente a rischio;

2)     affrontare il gap di genere delle pensioni che, a giudizio dei ricercatori dell'EIGE, assomma in sé la discriminazione di genere nel corso della vita;

3)     affrontare gli stereotipi nell'educazione e nella scelta della carriera;

4)     coinvolgere gli uomini nella lotta alla violenza contro le donne;

5)     promuovere politiche family friendly e porre in essere misure che possano incidere sulla tradizionale distribuzione dei compiti domestici;

6)     incidere sulle norme, gli stereotipi e gli atteggiamenti che contribuiscono a far sì che le donne siano sotto-rappresentate nelle posizioni decisionali.

 

Quali nuove norme sociali e culturali si sono sviluppate nel corso degli ultimi 20 anni, impedendo la piena attuazione della Piattaforma d'azione?

 L'importanza del contesto sociale ed economico di riferimento è affermato in maniera inequivoca dall'OSCE ("le questioni sono complesse e affrontarle con successo vuol dire cambiare il modo in cui le nostre società ed economie funzionano"[14]).

 Anche il rapporto dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere conferma che un passo importante è costituito dalla comprensione delle norme, gli atteggiamenti e gli stereotipi che impediscono di realizzare l'uguaglianza di genere. A tal fine si ritiene fondamentale "coinvolgere gli uomini nell'impegnarsi per una società che sia più uguale ed inclusiva" in quanto "trasformare l'uguaglianza di genere in una realtà richiede l'impegno di tutti".

Si segnala in proposito una ricerca curata dall'OSCE nel 2010, dal titolo Atlas of Gender and Development: How Social Norms Affect Gender Equality in Non-OECD Countries. Questo rapporto mette in luce le questioni particolarmente problematiche nelle principali regioni del mondo, come ad esempio la preferenza per i figli maschi o i diritti di proprietà. Contiene inoltre informazioni sui singoli paesi, le istituzioni sociali che li interessano e la loro composizione demografica.

 

Quali sono le aree di maggiore priorità che richiedono attenzione in futuro per realizzare l'uguaglianza di genere?

 Il Governo afferma la necessità di un impegno significativo sul versante occupazione, nell'ottica di migliorare le politiche di riconciliazione tra lavoro e famiglia. Nella propria relazione riconosce come "l'onere sostenuto dai due sessi in Italia non è ancora uguale", con le donne che sopportano il peso maggiore del lavoro domestico e della cura dei bambini e degli anziani. L' OSCE conferma che "le donne ancora portano il peso dei compiti della vita familiare, non pagati ma inevitabili, come la cura dei bambini e il lavoro domestico"[15].

Aspetti di questa problematica generale, evidenziati dal Questionario del Governo, sono: l'assunzione di lavori non qualificati da parte delle donne, soprattutto nel Meridione, per fronteggiare la recente crisi economica; l'ampliamento di modelli di lavoro part-time voluti dalle aziende e non legati ad esigenze di riconciliazione; la persistenza di una "segregazione orizzontale" (partecipazione al mercato del lavoro concentrata nel settore dei servizi, in ambiti considerati "femminili") accanto a quella "verticale (difficoltà ad accedere ai livelli più alti della scala gerarchica[16]); la persistenza del "gender pay gap" - che nel 2013 l'ISTAT aveva quantificato in una differenza pari all'11,5 per cento della paga oraria - nonostante la legislazione in vigore contro la discriminazione; l'insufficienza di strutture formali di cura per l'infanzia; l'assenza di attività di bilancio di genere al livello nazionale analoghe a quelle poste in essere, invece, da numerosi enti locali; l'assenza di una strategia nazionale specifica di mainstreaming di genere.

Il rapporto divulgato dallo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze" dopo la propria missione in Italia fa riferimento alla prassi di far firmare alle lavoratrici dimissioni in bianco prima dell'assunzione (p. 20).

Il Parlamento europeo segnala, ancora, la sovrarappresentazione delle donne nell'economia informale, che comporta un guadagno basso e un accesso limitato alla protezione sociale.

Per quanto concerne l'educazione, si lamenta la scarsa presenza delle donne nei campi di studio scientifici e tecnologici e la loro conseguente sottorappresentazione nelle rispettive carriere. Questo elemento - non limitato solo all'esperienza italiana - è ritenuto dall'OCSE[17] preoccupante in virtù della maggiore disponibilità di posti di lavoro in quel settore, delle migliori prospettive di carriera e di salario, nonché per le ripercussioni che quelle carriere hanno in termini di innovazione e crescita.

Del resto le aspirazioni educative ed occupazionali possono essere influenzate notevolmente da stereotipi di genere, anche se somministrati in tenera età[18]. Progetti specifici sono stati finanziati dalla Commissione europea al fine di migliorare il ruolo delle donne nelle istituzioni di ricerca scientifica (tra queste i programmi PRAGES e STAGES).

Altro tema particolarmente sensibile è quello della violenza sulle donne, soprattutto in ambito familiare[19]. Il rapporto dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere definisce la violenza sulle donne come "la più forte manifestazione dell'ineguaglianza di genere e una fondamentale violazione dei diritti umani".

Nel 2012 lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze ha effettuato una missione in Italia. Dal rapporto divulgato dopo la visita emerge che proprio quella domestica è la forma più pervasiva di violenza che le donne italiane soffrono. Il fatto che queste forme di violenza siano in larga parte invisibili, e non vengano denunciate, è attribuito al contesto di società patriarcale, in cui la violenza domestica non è sempre considerata un crimine, le vittime sono spesso economicamente dipendenti dai propri aguzzini e persiste la percezione di una risposta delle autorità inadeguata.

Tra le varie iniziative assunte per fronteggiare il fenomeno, il Governo italiano riporta una serie di finanziamenti per progetti per la creazione e rafforzamento di reti locali anti violenza, per alloggi di emergenza per le vittime e per iniziative di formazione per operatori della sanità sull'assistenza di primo soccorso alle vittime. Tramite un intervento legislativo ad hoc, poi, il crimine di stalking è stato introdotto nel sistema giuridico italiano (art. 612-bis del codice penale).

Strettamente correlato a questo fenomeno è il costante aumento delle vittime di femminicidio[20]. Per contrastare il fenomeno è stato approvato il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 ("Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province").

       Un'attenzione specifica il Governo italiano ha dedicato alla lotta al traffico di esseri umani e le misure adottate per la protezione delle vittime, con il rilascio di titoli di soggiorno e la conseguente assistenza.

 

II) Partenariati per l'uguaglianza di genere

L'esperienza maturata dopo la Piattaforma di azione ha dimostrato che la creazione di partenariati strategici è in grado di realizzare progressi più rapidi e sostenibili. Su questo argomento verranno effettuate presentazioni di alcuni esperti, seguite da un dibattito. Nel corso di quest'ultimo i Parlamentari saranno invitati a rispondere ad alcune domande, tra le quali:

 

Quali azioni hanno intrapreso i Parlamentari uomini al fine di realizzare l'uguaglianza di genere?

 Quanto alle iniziative legislative sul tema, intraprese alla Camera dei Deputati nella corrente XVII Legislatura, ed aventi come primo firmatario un deputato, si segnalano :

1.     on. Aniello Formisano, Disposizioni per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e domestica, istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta e delega al Governo in materia di risarcimenti alle vittime (A.C. 2742) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0028250.pdf

2.     on. Massimiliano Fedriga, Proroga della durata del regime sperimentale di accesso al trattamento pensionistico di anzianità in favore delle lavoratrici mediante opzione per il calcolo secondo il sistema contributivo, di cui all'articolo 1, comma 9, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (A.C. 2046) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0019510.pdf

3.     on. Cesare Damiano, Statuto dei lavori autonomi. Delega al Governo in materia di semplificazione degli adempimenti, pagamenti, garanzia del credito, tutela della maternità, revisione dei contributi previdenziali e ammortizzatori sociali (A.C. 2017)

4.     on. Pino Pisicchio, Disposizioni per il riconoscimento dell'endometriosi come malattia sociale e istituzione dell'Osservatorio nazionale sull'endometriosi (A.C. 1760) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0017550.pdf

5.     on. Pierpaolo Vargiu, Norme in materia di medicina di genere (A.C. 1485) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0010340.pdf

6.     on. Marco Carra, Disposizioni in materia di raccolta, conservazione e utilizzazione di cellule staminali da sangue del cordone ombelicale a fini terapeutici e di ricerca (A.C. 1274) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0010350.pdf

7.     on. Ricardo Antonio Merlo, Modifica all'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di reintegrazione della cittadinanza in favore delle donne che l'hanno perduta a seguito del matrimonio con uno straniero e dei loro discendenti (A.C. 1269) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0006160.pdf

8.     on. Sandro Gozi, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di rinvio dell'esecuzione della pena, di custodia cautelare in case-famiglia protette e di detenzione domiciliare, per favorire i rapporti tra detenute madri e figli minori (A.C. 1141) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0010390.pdf

9.     on. Nicola Molteni, Nuove norme in materia di Servizio civile nazionale (A.C. 928) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0008940.pdf

10.  on. Ricardo Antonio Merlo, Modifiche alla legge 23 ottobre 2003, n. 286, concernente la disciplina dei Comitati degli italiani all'estero (A.C. 827)

https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0007330.pdf

11.  on. Gerolamo Grassi, Disposizioni in materia di tutela dei diritti della famiglia e istituzione dell'Autorità garante della famiglia (A.C. 683) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0004830.pdf

12.  on. Marco Fedi, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di riacquisto della cittadinanza (A.C. 604)

https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0006380.pdf

13.  on. Enrico Costa, Modifica all'articolo 11 del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155, in materia di proroga dell'entrata in vigore di disposizioni concernenti la riorganizzazione della distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio (A.C. 449)

https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0003020.pdf

14.  on. Edmondo Cirielli, Delega al Governo per l'istituzione di un Servizio nazionale militare di volontari per la mobilitazione (A.C. 46)https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0000440.pdf

15.  on. Paolo Russo, Disposizioni per la prevenzione e il trattamento dell'endometriosi (A.C. 139)

16.  on. Luigi Bobba, Disposizioni per la promozione di un sistema di benessere sociale mediante la valorizzazione dell'investimento familiare e generazionale, nonché delega al Governo per la riforma degli istituti di sostegno al reddito delle famiglie con figli e per la promozione dell'autonomia finanziaria dei giovani (A.C. 170) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0003900.pdf

Con riguardo all'attività di iniziativa legislativa posta in essere dai Senatori della Repubblica nel corso della corrente legislatura, si segnalano i seguenti disegni di legge che riguardano la condizione della donna ed aventi come primo firmatario un senatore uomo:

1)     sen. Consiglio, Disposizioni per favorire lo sviluppo dell'imprenditoria giovanile e femminile (A.S. 1032);

2)     sen. Longo, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di riacquisto della cittadinanza da parte delle donne che l'hanno perduta a seguito del matrimonio con uno straniero e dei loro discendenti (A.S. 994);

3)     sen. Nencini, Interventi per il sostegno dell'occupazione giovanile e femminile e delega al Governo in materia di regime fiscale agevolato (A.S. 719);

4)     sen. Barani, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, per favorire i rapporti tra detenute madri e figli minori e per l'istituzione di case-famiglia protette (A.S. 700);

5)     sen. De Poli, Disposizioni in materia di tutela dei diritti della famiglia e istituzione dell'Autorità garante della famiglia (A.S. 478);

6)     sen. De Poli, Norme per la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della salute della partoriente e del neonato (A.S. 346);

7)     sen. Barani, Disciplina dei centri pubblici e privati di raccolta, conservazione e distribuzione del sangue da cordone ombelicale e istituzione della loro rete nazionale (A.S. 289);

8)     Sen. Ichino ed altri, Misure fiscali a sostegno della partecipazione al lavoro delle donne (A.S. 247);

9)     Sen. Zeller, Disposizioni in favore delle madri lavoratrici in materia di età pensionabile (A.S. 24).

Dal punto di vista dell’attività non legislativa vanno anzitutto ricordate le mozioni discusse a approvate dalla Camera il 13 ottobre e l’11 novembre 2014, concernenti iniziative a sostegno delle politiche di genere.

Per quanto concerne l’attività in Commissione, va segnalata la risoluzione dell’on. Spadoni sul rispetto dei diritti dell’infanzia e delle donne in Iraq in riferimento alla questione delle spose bambine, la cui discussione da parte della Commissione Affari Esteri il 22 ottobre 2014 si è conclusa con l’approvazione della risoluzione conclusiva n. 8-00083.

Vanno infine richiamati alcuni atti di sindacato ispettivo in Assemblea, tutti concernenti il Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, sia dal punto di vista del finanziamento, che della definizione e dell’avvio del Piano medesimo: si tratta in dettaglio delle interpellanze urgenti n. 2-00538 dell’on. Pannarale ed altri, n. 2-00544 dell’on. Roberta Agostini, n. 2-00579 dell’on. Giuliani ed altri e n. 2-00648 dell’on. Roberta Agostini ed altri, svolte rispettivamente dalla Camera nelle date del 16 e 30 maggio, 19 giugno e 8 settembre 2014.

 

III) Guidare il cambiamento globale: la leadership delle donne nelle riunioni internazionali

Le domande sottoposte all'attenzione dei Parlamentari sono le seguenti: 

In che modo i Parlamentari sono riusciti a coinvolgere efficacemente le organizzazioni della società civile e le associazioni femminili per dare attuazione alle dodici aree critiche?

Per quanto attiene alla Camera dei deputati, si rammenta che in seno alla Commissione Affari esteri viene istituito, ormai da molte Legislature, un Comitato permanente sui diritti umani nell’ambito del quale hanno voce anche associazioni, esperti e soggetti attivi nella promozione e tutela dell’uguaglianza di genere.   [21]Il 25 novembre 2014 la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è stata celebrata in Assemblea alla Camera con una serie di interventi di parlamentari, inaugurata da quello della Presidente Laura Boldrini

Presso il Senato della Repubblica è attiva la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani la quale, nell'attuazione dei compiti di "studio, osservazione, iniziativa" attribuitile dalla mozione che l’ha istituita nel 2008, si è nel corso degli anni spesso avvalsa del contributo di esponenti della società civile attivi nella promozione dell'uguaglianza di genere e della difesa dei diritti delle donne.

 

In che modo i Parlamentari hanno sostenuto, e contribuito, al mainstreaming di genere nei dialoghi e nelle risoluzioni internazionali più importanti come quelli sulla pace e sulla sicurezza, sulla popolazione e lo sviluppo, o sul cambiamento climatico?

L'Assemblea parlamentare della NATO si è interessata a più riprese di donne, pace e sicurezza. Nel 2012, in particolare, è stata svolta un'inchiesta sull'attuazione, nei paesi membri NATO, della risoluzione 1325 (2000) del Consiglio di sicurezza dell'ONU (sulla quale si veda il successivo par. 3.a). Sul sito dell'Assemblea parlamentare è disponibile l'intera documentazione  relativa a tale inchiesta. Della medesima inchiesta è stato promosso un aggiornamento nel 2013, senza però che ne siano stati pubblicati gli esiti.

       Sempre l'Assemblea parlamentare della NATO ha approvato la risoluzione n. 381 del 2010, in cui si è rivolto l'invito ai Governi membri, ma anche ai Parlamenti nazionali ed alle istituzioni NATO, a lavorare per l'attuazione della risoluzione medesima, cooperando strettamente con le organizzazioni della società civile e sviluppando una prospettiva di genere in tutte le proprie attività.

       Sensibile all'uguaglianza di genere è l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, in seno alla quale opera la Commissione uguaglianza e non discriminazione. Nel corso della sua attività la Commissione ha adottato un gran numero di dichiarazioni e decisioni.

Il Consiglio d'Europa ha anche dato vita alla rete interparlamentare "donne libere dalla violenza", in cui l'Italia è rappresentata dalla deputata Deborah Bergamini. La rete è attiva dal 2006 ed ha cercato di innalzare gli standard per la prevenzione della violenza sulle donne, la protezione delle vittime e l'effettiva prosecuzione dei colpevoli. Dal 2011 si è posta l'obiettivo primario di promuovere la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica – della Convenzione è stata poi autorizzata la ratifica con la legge 27 giugno 2013, n. 77.

Anche l'Unione interparlamentare ha lanciato una campagna per porre fine alla violenza contro le donne, illustrata sul sito dell'organizzazione.

 

Quali sono gli ostacoli all'inclusione delle donne nelle riunioni internazionali ad alto livello e quali strategie possono essere utilizzate per aggirare tali ostacoli (ad esempio, misure speciali temporanee per la partecipazione delle donne alla leadership globale, percorsi preferenziali di promozione, ecc)

       Un documento dell'Organizzazione internazionale per il lavoro (OIL)[22] illustra le strategie poste in essere dagli Stati membri le cui delegazioni presso l'ente hanno raggiunto la parità di genere. Tra queste si citano:

1)     l'adozione di strutturate politiche di genere nazionali;

2)     l'adozione di piani di azione e di legislazione specifica;

3)     la presenza di Ministeri di alto livello per la parità di genere;

4)     l'adozione di quote per la rappresentazione delle donne: nei Parlamenti, nell'Esecutivo, nei partiti politici;

5)     l'istituzione di comitati parlamentari di donne e di commissioni per l'uguaglianza di genere;

6)     la predisposizione di supporto specifico per donne assieme a un training di sensibilizzazione per gli uomini;

7)     attività di lobbying da parte dei commissioni per l'uguaglianza sui partiti politici;

8)     impegno con la società civile;

9)     strutture istituzionali rinforzate, campagne nei confronti dell'opinione pubblica, formazione per associazioni datoriali e sindacati.

Gli Stati che hanno raggiunto tale risultato sono, comunque, una minoranza: l'OIL "non ha ancora raggiunto il target (...) di una massa critica del 30 per cento (di presenza femminile) negli organi decisionali". Secondo le stime della stessa organizzazione, "al livello attuale di progresso (...) la parità non sarà raggiunta se non tra il 2064 e il 3014". Al fine di promuovere una più significativa partecipazione femminile, dunque, sono state illustrate le seguenti strategie:

1)     l'inclusione, nelle comunicazioni inviate agli Stati membri prima delle sessioni, ma anche in altri documenti dell'organizzazione, di specifici paragrafi che illustrano l'importanza della parità di genere;

2)     il contatto diretto con gli Stati membri le cui delegazioni, in occasione non raggiungessero il target minimo del 30 per cento di presenza femminile;

3)     l'organizzazione, da parte dell'OIL, di una conferenza pratica di una mezza giornata, a cui sono stati invitati tutti gli Stati membri con rappresentanza a Ginevra. In questa occasione si è focalizzata l'attenzione sulle buone prassi: gli Stati membri che hanno raggiunto la parità di genere nelle proprie delegazioni hanno condiviso la propria esperienza, le sfide affrontate e gli ostacoli superati.

 

 

 


Il contrasto alla violenza contro le donne
nell’ordinamento italiano
(a cura del Servizio Studi)

L'ordinamento italiano non prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente in danno di donne, nè prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti abbiano la donna come vittima.

Per il nostro diritto penale, se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo (e conseguentemente non è stato fino ad oggi censito nelle statistiche giudiziarie). La mancanza di dati statistici ufficiali ed aggiornati sul numero di delitti commessi a danno di donne è stata negli ultimi anni più volte stigmatizzata: solo negli ultimi mesi le statistiche ufficiali hanno iniziato a censire il genere della persona offesa e solo nel mese di marzo 2014, il ministero dell'Interno ha diffuso i dati sul c.d. femminicidio (omicidio con vittima di sesso femminile).

 

 

 

Le disposizioni penali applicabili alle ipotesi di violenza contro le donne

Per quanto l'ordinamento italiano non preveda specifiche aggravanti quanto i delitti sono commessi contro le donne, è indubitabile che vittime di una serie specifica di delitti siano principalmente le donne (si pensi ai reati a sfondo sessuale).

Di seguito si dà dunque conto delle principali fattispecie penali astrattamente applicabili in presenza di una violenza contro le donne.

Si tratta di disposizioni sulle quali è anche recentemente intervenuto il legislatore, proprio con l'intento di rafforzare gli strumenti penali di contrasto della violenza di genere.

 

I maltrattamenti in famiglia

Essendo la violenza familiare prevalentemente violenza di genere, una rassegna delle fattispecie penali in danno delle donne non può che partire dall'esame degli strumenti di tutela contro la violenza che si sviluppa in ambito familiare, sia attraverso interventi di diritto penale sostanziale (si pensi al delitto di maltrattamenti in famiglia) che mediante misure di protezione della potenziale vittima (come gli ordini di protezione contro gli abusi familiari).

L'articolo 572 del codice penale, Maltrattamenti contro familiari e conviventi, come novellato da ultimo dal decreto-legge 93/2013, punisce con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque maltratta una persona della famiglia o un convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da 4 a 9 anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da 7 a 15 anni; se ne deriva la morte, la reclusione da 12 a 24 anni.

La norma non precisa i soggetti passivi del reato ovvero le persone della famiglia cui l'art. 572 fa riferimento. Secondo la giurisprudenza dominante, tuttavia, per famiglia non deve farsi riferimento al solo coniuge, figli, consanguinei, adottati, ecc. bensì alla famiglia in senso lato ovvero ogni consorzio di persone tra cui, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione.

Quanto alle misure di protezione della vittima, la legge n. 154 del 2001, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari, ha introdotto un sistema di tutela contro il fenomeno della violenza domestica basato sull'impiego di strumenti penalistici e civilistici.

In sede penale, il legislatore ha introdotto la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.): chi subisce la misura (coniuge, convivente o altro componente del nucleo familiare) deve lasciare immediatamente la casa e solo il giudice può concedere l'autorizzazione al rientro. Con lo stesso provvedimento il giudice può prescrivere il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia d'origine o dei congiunti più prossimi).

L'applicazione della misura cautelare si pone come un'alternativa alla custodia in carcere ma non la esclude: nei casi più gravi, infatti, può anche essere disposta la misura privativa della libertà. Come tutte le misure cautelari, anche questa richiede l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, il pericolo di reiterazione di delitti, il criterio della proporzionalità tra gravità del fatto e misura prescelta. La norma è generalmente applicabile ai procedimenti per delitti puniti con pena superiore, nel massimo, a tre anni; tale limite di pena non si applica quando si procede per alcuni particolari delitti in danno dei prossimi congiunti o del convivente (violazione degli obblighi di assistenza familiare; abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; lesioni aggravate, delitti di tratta, delitti di sfruttamento sessuale di minori, violenza sessuale e atti persecutori).

Da ultimo, il decreto-legge n. 93 del 2013 ha inserito nel codice di procedura anche l'art. 384-bis, Allontanamento d'urgenza dalla casa familiare, che consente alla polizia, previa autorizzazione anche per le vie brevi del pubblico ministero, di disporre l'allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, di colui che sia colto in flagranza di uno dei particolari delitti in danno dei prossimi congiunti o del convivente (v. sopra), se vi sia pericolo di una reiterazione delle condotte.

In sede civile sono stati introdotti dalla legge 154/2001 gli articoli 342-bis (Ordini di protezione contro gli abusi familiari) e 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione) del codice civile: si tratta di misure volte ad ottenere la tutela della vittima anche quando sussista soltanto una accertata situazione di tensione e non necessariamente un reato.

Diversamente dalla misura penalistica, le cui condizioni di applicabilità sono fissate in vi generale per tutte le misure cautelari, il presupposto positivo che legittima l'adozione dell'ordine in sede civile consiste, infatti, nel "grave pregiudizio all'integrità fisica e moral ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente". L'ordine di protezione è u provvedimento d'urgenza che il giudice adotta con decreto, su istanza di parte, per un durata massima di un anno (prorogabile su istanza di parte soltanto se ricorrono grav motivi e per il tempo strettamente necessario), con cui sono ordinati la cessazione della condotta e l'allontanamento dalla casa familiare con eventuale ordine di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante; sono altresì dettate le specifiche modalità d adempimento ed è eventualmente disposto l'intervento dei servizi sociali o di un centro d mediazione familiare nonché il pagamento periodico di un assegno (art. 342-ter c.c.).

Chiunque violi l'ordine di protezione (ma anche analoghi provvedimenti assunti nei procedimenti di separazione e di divorzio) è soggetto alla pena della reclusione fino a 3 anni o della multa da 103 a 1.032 euro, incorrendo nella mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.).

 

I reati di violenza sessuale

Il codice penale inquadra i reati di violenza sessuale tra i delitti contro la libertà personale. Tali reati sono disciplinati dagli articoli da 609-bis a 609-undecies.

L'art. 609-bis (Violenza sessuale) punisce con la reclusione da 5 a 10 anni chi, con violenza o minaccia o abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.

La stessa pena si applica a chi costringe taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità, la pena può essere diminuita in misura non eccedente i due terzi. Il legislatore non definisce il concetto di "atti sessuali", rimettendo la specificazione della condotta alla giurisprudenza.

L'art. 609-ter disciplina alcune circostanze aggravanti del reato di violenza sessuale, prevedendo la pena della reclusione da 6 a 12 anni nei seguenti casi: violenza sessuale su minore di 14 anni; uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa; fatto commesso da persona travisata o da persona che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio; fatto commesso su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale; violenza sessuale commessa nei confronti di un minorenne, della quale il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore; fatto commesso all'interno o nelle immediate vicinanze di istituti di istruzione o di formazione frequentati dalle persone offese; fatto commesso nei confronti di persona in stato di gravidanza; fatto commesso nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.

La pena è invece della reclusione da 7 a 14 anni se la violenza sessuale è commessa ai danni di persona che non ha compiuto 10 anni.

La violenza sessuale di gruppo è punita dall'art. 609-octies del codice penale, che la definisce come partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale.

Mentre è necessario che costoro partecipino all'esecuzione materiale del reato, non occorre che tutti compiano atti di violenza sessuale (Cass., Sez. III, 5 aprile 2000). La pena è della reclusione da 6 a 12 anni ed è aumentata se concorre taluna delle circostanze aggravanti precedentemente descritte, contemplate dall'art. 609-ter. Sono, inoltre, previste alcune circostanze attenuanti specifiche: viene infatti stabilito che la pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato. La pena è altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato in ipotesi di sudditanza psicologica (numeri 3) e 4) del primo comma e dal terzo comma dell'articolo 112 c.p.).

Per quanto riguarda il profilo inerente alla tutela dei minori, l'art. 609-quater (Atti sessuali con minorenne) prevede "al di fuori dei casi di violenza sessuale" la non punibilità del minore che compia atti sessuali con persona che abbia compiuto 13 anni, purché la differenza di età tra i soggetti non sia superiore a 3 anni.

Al di fuori di questa ipotesi, viene mantenuto fermo il principio per il quale si presume che il minorenne sino a 14 anni non possa avere rapporti sessuali consensuali; qualora vi sia violenza, minaccia o abuso di autorità su persona minore di anni 14 si ha un'ipotesi di violenza sessuale aggravata (ai sensi dell'art. 609-ter), mentre se sussiste il consenso del minore di 14 anni si rientra nel reato di atti sessuali con minorenne, punito con le stesse pene previste dall'art. 609-bis.

Per quanto riguarda i minori di 16 anni, il codice penale stabilisce che la punibilità è limitata agli atti sessuali commessi da chi sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il di lui convivente, il tutore ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore sia affidato o che abbia con il minore una relazione di convivenza. Non sono, quindi, punibili gli atti sessuali con minore di 16 anni consenziente commessi da un soggetto "estraneo" al minore, ossia che non si trovi in quelle relazioni speciali per le quali l'art. 609-quater ritiene che vi sia uno stato di sudditanza psicologica tale da escludere valore al consenso prestato. Costituisce, invece, violenza sessuale aggravata l'ipotesi in cui i fatti di cui all'articolo 609-bis siano commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni 16, della quale il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore.

L'art. 609-quater specifica, inoltre, che al di fuori dei casi di cui all'articolo 609-bis, l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, o il tutore che, con l'abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre a sei anni.

Per tutte le fattispecie di atti sessuali con minorenni, la pena è ridotta fino a due terzi nei casi di minore gravità.

L'art. 609-quinquies punisce con la reclusione da 1 a 5 anni la corruzione di minorenne, ovvero il compimento di atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere. La disposizione prevede la medesima pena anche a carico di chiunque faccia assistere un infraquattordicenne al compimento di atti sessuali, ovvero gli mostri materiale pornografico al fine di indurlo a compiere o a subire atti sessuali e introduce un'aggravante (pena aumentata fino alla metà) nell'ipotesi in cui il delitto sia commesso da una persona legata da rapporti particolari con il minore: un ascendente, un genitore (anche adottivo), il convivente del genitore, il tutore o chiunque altro al quale il minore sia affidato (per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia), o chiunque conviva stabilmente con il minore.

L'art. 609-sexies precisa che quando i delitti di violenza sessuale sono commessi in danno di un minorenne il colpevole non puòl invocare, a propria scusa, l'ignoranza dell'età della persona offesa.

L'art. 609-undecies punisce con la reclusione da 1 a 3 anni l'adescamento di minorenni, ovvero la condotta di chiunque adeschi un minore di 16 anni, ovvero compia atti idonei a carpire la fiducia attraverso artifici, lusinghe o minacce, anche attraverso l'utilizzazione della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione. La condotta deve essere finalizzata alla commissione di uno dei seguenti delitti: riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600); prostituzione minorile (art. 600-bis); pornografia minorile (art. 600-ter); detenzione di materiale pedopornografico, anche virtuale (artt.  600-quater e 600-quater. 1); turismo sessuale (art. 600-quinquies); violenza sessuale (art. 609-bis); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies); violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies).

Dal punto di vista processuale, l'art. 609-septies del codice penale prevede che i reati di violenza sessuale, anche aggravati, e gli atti sessuali con minorenne siano punibili a querela della parte offesa e che la querela, una volta proposta, sia irrevocabile. Si procede, tuttavia, d'ufficio nei seguenti casi:

se il fatto è commesso nei confronti di persona minore di anni diciotto;

se il fatto è commesso dall'ascendente, dal genitore, anche adottivo, dal di lui convivente, dal tutore o da un soggetto cui il minore sia affidato per ragioni di custodia, cura, educazione, vigilanza, istruzione o che abbia con esso una relazione di convivenza;

se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle proprie funzioni;

se il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di minore di anni dieci consenziente;

se si tratta di violenza sessuale di gruppo.

Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi (secondo comma).

L'art. 609-decies sancisce inoltre che per i delitti di sfruttamento sessuale dei minori e di violenza sessuale in danno di minori, sia data comunicazione, a cura del procuratore della Repubblica, al tribunale per i minorenni. L'autorità giudiziaria procedente cura che il minore, in sede processuale, sia assistito, dal punto di vista affettivo e psicologico, dai genitori o da persona idonea indicata dal minore, da gruppi, fondazioni, associazioni, organizzazioni non governative purché presentino le seguenti caratteristiche: abbiano comprovata esperienza nel settore dell'assistenza e del supporto alle vittime dei reati a sfondo sessuale in danno di minori; siano iscritti in un apposito elenco; ricevano il consenso del minorenne.

Peraltro, anche la presenza di questi soggetti dovrà essere ammessa dall'autorità giudiziaria. Inoltre, la disposizione precisa che quando si procede per un delitto di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale aggravata o stalking, commessi in danno di un minorenne o da uno dei genitori di un minorenne in danno dell'altro genitore, la comunicazione al Tribunale per i minorenni opera anche al fine di consentire all'autorità giudiziaria di valutare le proprie scelte in termini di affidamento del minore e eventuale decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Per quanto riguarda le pene accessorie e gli altri effetti penali, di cui tratta l'art. 609-nonies, è previsto che la condanna o il patteggiamento della pena per uno dei reati di violenza sessuale comporti le seguenti pene accessorie:

la perdita della potestà dei genitori, quando la qualità di genitore sia elemento costitutivo del reato o circostanza aggravante;

l'interdizione perpetua dagli uffici di tutore, curatore e amministratore di sostegno;

la perdita del diritto agli alimenti e l'incapacità successoria nei confronti della persona offesa;

l'interdizione dai pubblici uffici se il condannato ha abusato della propria funzione;

la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte.

La disposizione prevede inoltre che la condanna o il patteggiamento, per alcuno dei delitti di violenza sessuale, anche aggravata, e di violenza sessuale di gruppo, se commessi nei confronti di un minorenne, di atti sessuali con minorenne e di corruzione di minorenne, comporta in ogni caso l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori.

Con la legge n. 172/2012, di ratifica della Convenzione di Lanzarote, sono state introdotte in questa disposizione misure di sicurezza personali a carico di colui che sia stato condannato per delitti di natura sessuale in danno di minorenni; in particolare, dopo l'esecuzione della pena e per i successivi 5 anni al reo sono applicate le seguenti misure: restrizioni alla libertà di circolazione; divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati da minori; divieto di svolgere lavori che comportino un contatto abituale con i minori; obbligo di aggiornare le autorità sui propri spostamenti.

Quanto alle statistiche, nel 2011 (ultima elaborazione disponibile), l'analisi dell'ISTAT sulle caratteristiche demografiche delle vittime dei delitti denunciati dalle forze di polizia all'autorità giudiziaria, individua in:

425 le donne vittime di violenze sessuali (erano 387 nel 2010 e 405 nel 2009);

243 le donne vittime di atti sessuali con minorenne (erano 229 nel 2010 e 202 nel 2009);

95 le donne vittime del reato di corruzione di minorenne (erano 86 nel 2010 e 62 nel 2009).

A livello europeo, secondo i dati elaborati dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE, si stima che siano circa 13 milioni le donne che, nel corso dei dodici mesi precedenti i rilevamenti, hanno subito una qualche forma di violenza fisica, e tra di esse 3,7 milioni hanno subito una violenza sessuale.

Un terzo circa delle donne residenti nell’UE ha sperimentato, a partire dall’età di 15 anni, una qualche forma di violenza sessuale o un altro genere di violenza fisica. La grande maggioranza di esse (circa il 78%) ha subito tali violenze dal partner. Una significativa percentuale degli abusi perpetrati è ascrivibile al partner o  ex partner: una donna su sei tra le vittime della violenza del partner afferma che tali atti sono avvenuti a seguito della rottura della relazione.

Un terzo delle vittime di violenza da parte del partner (33%) e un quarto delle vittime di violenza perpetrata da altro soggetto (26%) ha contattato la polizia o qualche altra organizzazione, come ad esempio una organizzazione di assistenza e supporto per le vittime. Solo il 14% di queste donne ha dichiarato di aver denunciato tali episodi alle autorità competenti nel caso in cui il perpetrante era il proprio partner, e solo il 13% di essersi rivolte alle autorità nel caso di un aggressore diverso dal partner.

Una donna su tre (32%) ha sperimentato un comportamento psicologicamente abusivo da un partner, attuale o precedente. La lista dei comportamenti che rientrano in questa definizione comprende l’umiliazione in pubblico o in privato, restrizioni alla mobilità delle donne e alla loro possibilità di intervenire nella sfera pubblica al di fuori delle proprie case, atti intimidatori e minacce all’integrità fisica e psicologica della donna e di altre persone a lei vicine.

Complessivamente, il 43% delle donne ha subito qualche forma di violenza psicologica da parte di un partner, tra cui il controllo del comportamento e della frequenza delle visite alla famiglia d’origine, la limitazione della possibilità di vedere amici e conoscenti, oppure pressioni tese a scoraggiare la ricerca di un impiego fuori casa.

Secondo le stime sono da 83 a 102 milioni le donne (tra il 45% e il 55% del totale) che hanno subito qualche forma di molestie sessuali a partire dall’età di 15 anni. Riferendosi a solo sei fattispecie di violenza, le più minacciose, emerge che il 45% delle donne nell'UE le ha sperimentate almeno una volta nella vita. Tra le donne che hanno subito molestie sessuali almeno una volta dall’età di 15 anni, il 32% ha indicato come autore un soggetto proveniente dal contesto lavorativo

Lo stalking

Il decreto-legge n. 11 del 2009 ha introdotto nel codice penale l'articolo 612-bis, che disciplina il reato di "Atti persecutori" (cd. stalking).

Per la sussistenza della nuova fattispecie delittuosa si richiede la ripetitività della condotta, nonché l'idoneità dei comportamento a provocare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona alla medesima legata da relazione affettiva ovvero a costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è della reclusione da sei mesi a cinque anni (la pena massima è stata portata a 5 anni dal decreto-legge 78/2013, al fine di permettere l'applicazione della custodia cautelare in carcere).

Il delitto è aggravato nelle seguenti ipotesi:

il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa;

il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici;

il fatto è commesso a danno di un minore;

il fatto è commesso in danno di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità

il fatto è commesso con armi o da persona travisata.

Sul versante processuale, il delitto è punito a querela della persona offesa, che deve essere presentata entro sei mesi dai fatti. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità. Dopo un lungo dibattito in sede di conversione del decreto-legge n. 93 del 2013, il Parlamento ha confermato la procedibilità a querela del delitto ed ha negato l'irrevocabilità della querela stessa (originariamente richiesta dal Governo); il legislatore ha però specificato che l'eventuale remissione della querela può essere soltanto processuale e che l'irrevocabilità opera in relazione alle ipotesi più gravi (minacce reiterate da parte del coniuge, anche separato o divorziato, o di persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa; fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici).

Lo stesso decreto-legge n. 11 del 2009 prevede ulteriori misure in materia di stalking. In particolare, al fine di apprestare tutela nel periodo che intercorre tra il comportamento persecutorio e la presentazione della querela e allo scopo di dissuadere preventivamente il reo dal compimento di nuovi atti, introduce la possibilità per la persona offesa di avanzare al questore richiesta di ammonimento nei confronti dell'autore della condotta e disciplina l'esercizio di tale potere da parte del questore; modifica il codice di procedura penale, per estendere ai procedimenti per il nuovo reato alcune specifiche regole in materia probatoria; disciplina la misura coercitiva del divieto di avvicinamento dell'imputato ai luoghi frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, attraverso l'inserimento nel codice di procedura dell'art. 282-ter.

Il divieto può riguardare anche i luoghi frequentati da prossimi congiunti o da persone conviventi o comunque legate alla persona offesa da una relazione affettiva. prescrive specifici obblighi di comunicazione (nuovo art. 282-quater) all'autorità di pubblica sicurezza competente dei provvedimenti di cui al nuovo art. 282-ter nonché dell'art. 282-bis (allontanamento dalla casa familiare) ai fini dell'eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni.

Tali atti sono altresì comunicati alla parte offesa e ai servizi socio-assistenziali del territorio; pone a carico delle forze dell'ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia di reato di atti persecutori l'obbligo di fornire alla medesima tutte le informazioni relative ai Centri Antiviolenza presenti sul territorio ed eventualmente di metterla in contatto con tali strutture.

Istituisce, infine, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori, con compiti di assistenza psicologica e giuridica, nonché di comunicare gli atti persecutori

segnalati alle forze dell'ordine, nei casi d'urgenza e su richiesta della persona offesa.

 

Approfondimento statistico sul reato di stalking

La Direzione generale di statistica del Ministero della giustizia ha pubblicato lo scorso giugno un'indagine statistica sul delitto di stalking realizzata attraverso la lettura dei fascicoli dei procedimenti definiti con sentenze di primo grado negli anni 2010-2012.

Dall'indagine statistica emerge che il 92% dei processi trae origine da una denuncia della persona offesa, prevalentemente raccolta dalla polizia giudiziaria. In 7 casi su 100 la querela è stata conseguente all'arresto o al fermo dell'indagato in flagranza del reato di stalking o di reato connesso.

Nelle sentenze esaminate la richiesta di ammonimento al questore, precedente alla querela, è stata rilevata nel 5% dei casi.

Inoltre, nei casi esaminati è stata calcolata una durata media della persecuzione pari a 14,6 mesi, mentre il tempo medio trascorso tra l'inizio delle condotte di stalking e la prima denuncia è di 9,5 mesi. Con riferimento alla reiterazione, appare significativo che nel 64% dei casi alla prima denuncia ne siano seguite altre.

Per quanto riguarda il genere della persona offesa, la ricerca non desta sorprese: il 90% delle vittime sono infatti donne.

Nella maggior parte dei casi (73,9%) autore e vittima hanno intrattenuto nel corso della loro vita una relazione sentimentale, solo 5 volte su 100 non hanno avuto alcun rapporto pregresso.

Quanto all'esito in primo grado del procedimento penale per stalking, una vittima su quattro ritira la querela. Le condanne (42,5%) e i patteggiamenti (14,9%) sono più frequenti delle assoluzioni (11,5%).

Le mutilazioni genitali femminili

La legge n. 7 del 2006 detta le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile, quali violazioni dei diritti fondamentali all'integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine.

Tale legge in particolare ha introdotto nel codice penale un'autonoma fattispecie di reato (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, art. 583-bis) che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili (clitoridectomia, escissione, infibulazione ed altre analoghe pratiche).

Quando la mutilazione sia di natura diversa dalle precedenti e sia volta a menomare le funzioni sessuali della donna, la pena è la reclusione da 3 a 7 anni; una specifica aggravante (pena aumentata di un terzo) è prevista quando le pratiche siano commesse a danno di un minore ovvero il fatto sia commesso a fini di lucro.

L'art. 583-bis - previa richiesta del Ministro della giustizia - stabilisce la punibilità delle mutilazioni genitali femminili, anche se l'illecito è commesso all'estero da cittadino italiano (o da straniero residente in Italia) o in danno di cittadino italiano (o di straniero residente in Italia).

Pesanti pene accessorie sono previste dalla legge (nuovo art. 583-ter c.p.) nei confronti dei medici condannati per mutilazioni genitali:

interdizione dall'esercizio della professione per un periodo da 3 a 10 anni;

comunicazione della sentenza di condanna all'Ordine dei medici chirurgi e degli odontoiatri.

Attraverso l'inserimento dell'art. 25-quater.1 nel decreto legislativo n. 231 del 2001 (in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche derivante da reato) la legge ha disposto specifiche sanzioni interdittive e pecuniarie (da 300 a 700 quote) a carico degli enti nella cui struttura è commesso il delitto di cui all'art. 583-bis.

La medesima legge, inoltre, ha previsto campagne informative e di sensibilizzazione delle popolazioni in cui tali pratiche sono più diffuse nonché una più adeguata formazione del personale sanitario, oltre che l'istituzione di un numero verde volto sia a ricevere segnalazioni che a fornire informazioni e assistenza ai soggetti coinvolti nella pratica delle mutilazioni genitali femminili.

La ratifica della Convenzione di Istanbul

Partendo da un quadro normativo interno già ricco di strumenti di contrasto della violenza di genere, l'Italia ha nella scorsa legislatura firmato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l'11 maggio del 2011.

Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. La Convenzione interviene specificamente anche nell'ambito della violenza domestica, che non colpisce solo le donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali altrettanto si applicano le medesime norme di tutela.

La Convenzione è entrata in vigore il 1° agosto 2014.

L'Italia ha svolto un ruolo importante in questo percorso, essendo stata tra i primi paesi europei a fare propria la Convenzione, ratificandola con la legge 27 giugno 2013, n. 77. Allo stato la Convenzione, siglata da 36 Stati, è stata ratificata da 14 Stati (Turchia, Albania, Portogallo, Montenegro, Italia, Bosnia e Erzegovina, Austria, Serbia, Spagna, Andorra, Danimarca, Svezia, Francia, Malta).

La Convenzione (art. 3) precisa che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani ed è una forma di discriminazione contro le donne.

 

I contenuti della Convenzione

La Convenzione si compone di un Preambolo, di 81 articoli raggruppati in dodici

Capitoli, e di un Allegato.

Il Preambolo ricorda innanzitutto i principali strumenti che, nell'ambito del Consiglio d'Europa e delle Nazioni Unite, sono collegati al tema oggetto della Convenzione e sui quali quest'ultima si basa. Tra di essi riveste particolare importanza la CEDAW (Convenzione Onu del 1979 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne) e il suo Protocollo opzionale del 1999 che riconosce la competenza della Commissione sull'eliminazione delle discriminazioni contro le donne a ricevere e prendere in esame le denunce provenienti da individui o gruppi nell'ambito della propria giurisdizione.

Si ricorda che la CEDAW – universalmente riconosciuta come una sorta di Carta dei diritti delle donne – definisce "discriminazione contro le donne" "ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia l'effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo".

Si segnala che, sempre nell'ambito delle Nazioni Unite, nel 2009 è stato lanciato il

 database sulla violenza contro le donne, allo scopo di fornire il quadro delle misure adottate dagli Stati membri dell'Onu per contrastare la violenza contro le donne sul piano normativo e politico, nonché informazioni sui servizi a disposizione delle vittime.

Il Preambolo della Convenzione riconosce inoltre che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi ed aspira a creare un'Europa libera da questa violenza.

Gli Obiettivi della Convenzione sono elencati nel dettaglio dall'articolo 1. Oltre a quanto già esplicitato nel titolo della Convenzione stessa, appare importante evidenziare l'obiettivo di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne, nonché la cooperazione internazionale e il sostegno alle autorità e alle organizzazioni a questo scopo deputate.

Di rilievo inoltre la previsione che stabilisce l'applicabilità della Convenzione sia in tempo di pace sia nelle situazioni di conflitto armato, circostanza, quest'ultima, che da sempre costituisce momento nel quale le violenze sulle donne conoscono particolare esacerbazione e ferocia.

Contestualmente alla firma, l'Italia ha depositato presso il Consiglio d'Europa una nota verbale con la quale ha dichiarato che "applicherà la Convenzione nel rispetto dei princìpi e delle previsioni costituzionali". Tale dichiarazione interpretativa - apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 – è motivata dal fatto che la definizione di "genere" contenuta nella Convenzione - l'art. 3, lettera c) recita: "con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini" - è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano (si veda, al proposito, la relazione illustrativa al ddl di autorizzazione alla ratifica – A.S. 3654 - presentato dal Governo l'8 gennaio 2013).

L'articolo 4 della Convenzione sancisce il principio secondo il quale ogni individuo ha il diritto di vivere libero dalla violenza nella sfera pubblica e in quella privata. A tal fine le Parti si obbligano a tutelare questo diritto in particolare per quanto riguarda le donne, le principali vittime della violenza basata sul genere (ossia di quella violenza che colpisce le donne in quanto tali, o che le colpisce in modo sproporzionato).

Poiché la discriminazione di genere costituisce terreno fertile per la tolleranza della violenza contro le donne, la Convenzione si preoccupa di chiedere alle Parti l'adozione di tutte le norme atte a garantire la concreta applicazione del principio di parità tra i sessi corredate, se del caso, dall'applicazione di sanzioni.

I primi a dover rispettare gli obblighi imposti dalla Convenzione sono proprio gli Stati i cui rappresentanti, intesi in senso ampio, dovranno garantire comportamenti privi di ogni violenza nei confronti delle donne (art. 5).

L'articolo 5 prevede anche un risarcimento delle vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali, che può assumere forme diverse (riparazione del danno, indennizzo, riabilitazione, ecc.). L'indennizzo da parte dello Stato è disciplinato dall'art. 30, par. 2, della Convenzione ed è accordato alle vittime se la riparazione non è garantita da altre fonti.

Ampio spazio viene dato dalla Convenzione alla prevenzione della violenza contro le donne e della violenza domestica. La prevenzione richiede un profondo cambiamento di atteggiamenti e il superamento di stereotipi culturali che favoriscono o giustificano l'esistenza di tali forme di violenza. A tale scopo, la Convenzione impegna le Parti non solo ad adottare le misure legislative per prevenire la violenza, ma anche alla promozione di campagne di sensibilizzazione, a favorire nuovi programmi educativi e a formare adeguate figure professionali.

Altro punto fondamentale della Convenzione è la protezione delle vittime. Particolare enfasi viene posta sulla necessità di creare meccanismi di collaborazione per un'azione coordinata tra tutti gli organismi, statali e non, che rivestono un ruolo nella funzione di protezione e sostegno alle donne vittime di violenza, o alle vittime di violenza domestica.

Per proteggere le vittime è necessario che sia dato rilievo alle strutture atte al loro accoglimento, attraverso un'attività informativa adeguata che deve tenere conto del fatto che le vittime, nell'immediatezza del fatto, non sono spesso nelle condizioni psico-fisiche di assumere decisioni pienamente informate.

I servizi di supporto possono essere generali (es. servizi sociali o sanitari offerti dalla pubblica amministrazione) oppure specializzati. Fra questi si prevede la creazione di case rifugio e quella di linee telefoniche di sostegno attive notte e giorno. Strutture ad hoc sono inoltre previste per l'accoglienza delle vittime di violenza sessuale.

La Convenzione stabilisce l'obbligo per le Parti di adottare normative che permettano alle vittime di ottenere giustizia, nel campo civile, e compensazioni, in primo luogo dall'offensore, ma anche dalle autorità statali se queste non hanno messo in atto tutte le misure preventive e di tutela volte ad impedire la violenza (sui risarcimenti da parte dello Stato si è già detto più sopra).

La Convenzione individua anche una serie di reati (violenza fisica e psicologica, sessuale, stupro, mutilazioni genitali, ecc.), perseguibili penalmente, quando le violenze siano commesse intenzionalmente e promuove un'armonizzazione delle legislazioni per colmare vuoti normativi a livello nazionale e facilitare la lotta alla violenza anche a livello internazionale. Tra i reati perseguibili penalmente è inserito lo stalking, definito il comportamento intenzionale e minaccioso nei confronti di un'altra persona, che la porta a temere per la propria incolumità.

Quanto al matrimonio forzato, vengono distinti i casi nei quali una persona viene costretta a contrarre matrimonio da quelli nei quali una persona viene attirata con l'inganno in un paese estero allo scopo di costringerla a contrarre matrimonio; in quest'ultimo caso, è sanzionabile penalmente anche il solo adescamento,  pur in assenza di celebrazione del matrimonio.

La Convenzione torna in più punti sull'inaccettabilità di elementi religiosi o culturali, tra i  quali il cosiddetto "onore" a giustificazione delle violenze chiedendo tra l'altro alle Parti di introdurre le misure, legislative o di altro tipo, per garantire che nei procedimenti penali intentati per crimini rientranti nell'ambito della Convenzione, tali elementi non possano essere invocati come attenuante.

In materia di sanzioni, la Convenzione chiede alle Parti di adottare misure per garantire che i reati in essa contemplati siano oggetto di punizioni efficaci, proporzionate e dissuasive, commisurate alla loro gravità.

La Convenzione contiene poi un ampio capitolo di previsioni che riguardano le inchieste giudiziarie, i procedimenti penali e le procedure di legge, a rafforzamento delle disposizioni che delineano diritti e doveri nella Convenzione stessa.

Un Capitolo apposito è dedicato alle donne migranti, incluse quelle senza documenti, e alle donne richiedenti asilo, due categorie particolarmente soggette a violenze di genere.

La Convenzione mira ad introdurre un'ottica di genere nei confronti della violenza di cui sono vittime le migranti, ad esempio accordando ad esse la possibilità di ottenere uno status di residente indipendente da quello del coniuge o del partner. Inoltre, viene stabilito l'obbligo di riconoscere la violenza di genere come una forma di persecuzione (ai sensi della Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati) e ribadito l'obbligo di rispettare il diritto del non-respingimento per le vittime di violenza contro le donne.

La Convenzione istituisce infine un Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO) costituito da esperti indipendenti, incaricati di monitorare l'attuazione della Convenzione da parte degli Stati aderenti. Il monitoraggio avverrà attraverso questionari, visite, inchieste e rapporti sullo stato di conformità degli ordinamenti interni agli standard convenzionali, raccomandazioni generali, ecc.).

I privilegi e le immunità dei membri del GREVIO sono oggetto dell'Allegato alla Convenzione.

Come detto, il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul, approvando la legge 27 giugno 2013, n. 77.

Per una consapevole scelta del legislatore, la legge n. 77 non detta norme di adeguamento del nostro ordinamento interno motivate dal pieno rispetto della Convenzione.

Ciò in quanto è prevalsa l'esigenza di privilegiare la rapida ratifica della Convenzione, essenziale a consentirne l'entrata in vigore; rapida ratifica che sarebbe stata ostacolata da un contenuto normativo più complesso. Concluso però questo adempimento, Governo e Parlamento hanno tentato di riempire di contenuti questa ratifica con il decreto-legge n. 93 del 2013 e la sua conversione in legge.

 

Il decreto-legge n. 93/2013

Il Governo ha emanato tale intervento d’urgenza con la finalità - esplicitata nella relazione illustrativa  del disegno di conversione, di attuare la Convenzione di Istanbul, con riguardo ai principali profili considerati necessari. Dopo una veloce calendarizzazione, il Parlamento ha convertito il provvedimento d'urgenza – che presenta peraltro un contenuto non circoscritto alla sola violenza di genere - con la legge 15 ottobre 2013, n. 119.

Il Capo I del decreto-legge, composto dagli articoli da 1 a 5-bis, è dedicato al contrasto e alla prevenzione della violenza di genere. In particolare, il provvedimento approvato:

·        interviene sul codice penale, introducendo un'aggravante comune (art. 61, n. 11-quinquies) per i delitti contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori;

·        novella il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), prevedendo un'aggravante quando il fatto è commesso con mezzi informatici o telematici e modificando il regime della querela di parte.

·        In particolare, rispetto alla formulazione originaria del decreto-legge, che qualifica la querela come irrevocabile, la Camera ha circoscritto le ipotesi di irrevocabilità ai casi più gravi, prevedendo comunque che l'eventuale remissione possa avvenire soltanto in sede processuale;

·        interviene sul codice di procedura penale, consentendo anche quando si indaga per stalking di disporre intercettazioni;

·        introduce la misura di prevenzione dell'ammonimento del questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking;

·        sempre per tutelare le vittime, inserisce alcune misure relative all'allontanamento - anche d'urgenza - dalla casa familiare e all'arresto obbligatorio in flagranza dell'autore delle violenze. In merito, la Camera ha introdotto la possibilità di operare anche un controllo a distanza (c.d. braccialetto elettronico) del presunto autore di atti di violenza domestica;

·        prevede specifici obblighi di comunicazione da parte dell'autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria alla persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonché modalità protette di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti particolarmente vulnerabili;

·        modifica le disposizioni di attuazione del codice di procedura, inserendo i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d'udienza;

·        estende alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili l'ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito;

·        stabilisce chela relazione annuale al Parlamento sull'attività delle forze di polizia e sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica debba contenere un'analisi criminologica della violenza di genere;

·        riconosce agli stranieri vittime di violenza domestica la possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno;

·        demanda al Ministro per le pari opportunità l'elaborazione di un Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per il quale è previsto un finanziamento di 10 milioni di euro per il 2013, prevedendo azioni a sostegno delle donne vittime di violenza (sul finanziamento del piano v. ultra).

 

I profili di inattuazione della Convenzione di Istanbul

A seguito della ratifica della Convenzione di Istanbul, per quanto riguarda specificamente il diritto penale e processuale, è tuttora da valutare se occorra introdurre ulteriori modifiche legislative con riguardo ai seguenti profili:

l'introduzione di specifiche misure per il supporto dei bambini testimoni di violenza (art. 26 della Convenzione);

il diritto della vittima di ottenere un risarcimento dallo Stato, a fronte di comportamenti delle autorità statali che abbiano mancato al loro dovere di adottare le necessarie misure di prevenzione o di protezione nell'ambito delle loro competenze (art. 29), ovvero nei casi un cui un risarcimento non sia garantito dall'autore del reato (art. 30);

la previsione di una specifica fattispecie penale volta a punire le condotte di violenza psicologica (art. 33 della Convenzione), di matrimonio forzato (art. 37) e di molestia sessuale, quando perpetrata in forma esclusivamente verbale (art. 40);

la previsione di aggravanti quando i reati di violenza domestica abbiano provocato gravi danni fisici o psicologici alla vittima, considerazione che nel nostro ordinamento opera esclusivamente per il delitto di lesioni (art. 46 della Convenzione);

l'affermazione della giurisdizione italiana anche nelle ipotesi di reati di violenza commessi all'estero in danno di persona abitualmente residente in Italia nonché ai casi in cui il presunto autore di uno di tali reati, commesso all'estero, si trovi sul territorio italiano e non sia possibile procedere ad estradizione (art. 44 della Convenzione);

il riconoscimento della violenza contro le donne basata sul genere come forma di persecuzione che possa dare diritto alla concessione dello status di rifugiato (art. 62).

Una autonoma considerazione merita la questione della procedibilità d'ufficio dei delitti riconducibili alla violenza domestica, auspicata dalla Convenzione (art. 55). Sul punto nel corso della conversione in legge del decreto-legge 93/2013, il Parlamento ha confermato la scelta per questo tipo di delitti della procedibilità a querela, aumentando i casi nei quali, nelle ipotesi più gravi, la querela è irrevocabile e inducendo una remissione di querela esclusivamente processuale per il delitto di atti persecutori.

Lo stato dei fondi per il contrasto alla violenza di genere

La legge finanziaria per il 2008 (legge n. 244 del 2007) ha istituito un fondo, presso la Presidenza del Consiglio, per la realizzazione di un piano contro la violenza alle donne (cap. 496), stanziando a tal fine 20 milioni di euro per l'anno 2008.

Nel 2009 all'obiettivo di prevenzione della violenza si è affiancato quello di prevenzione e contrasto agli atti persecutori, con la conversione del decreto-legge 11/2009 che non solo ha introdotto nel codice penale l'art. 612-bis ma ha anche posto a carico delle forze dell'ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia di reato di atti persecutori l'obbligo di fornire alla medesima tutte le informazioni relative ai Centri antiviolenza presenti sul territorio ed eventualmente di metterla in contatto con tali strutture.

Il provvedimento ha istituito, infine, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori, con compiti di assistenza psicologica e giuridica, nonché di comunicare gli atti persecutori segnalati alle forze dell'ordine, nei casi d'urgenza e su richiesta della persona offesa.

Le somme destinate al Piano nazionale non sono state mai impegnate nel corso degli anni, fino al 2011 quando la Corte dei Conti ha dato il via libera al primo Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking. Nel novembre 2011, quando il Piano diventa operativo, il capitolo 496 del bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri recava uno stanziamento di 18.659.049 euro. Nel 2012 per il Piano vengono stanziati 5,1 milioni di euro.

Per il 2013 il bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedica 1,9 milioni di euro all'implementazione del Piano nazionale contro la violenza alle donne.

Si ricorda che la Presidenza del Consiglio, a differenza delle altre amministrazioni, può esercitare il cosiddetto istituto del «riporto» che consiste nella facoltà di mantenere in bilancio risorse non utilizzate in un determinato anno anche in quello successivo.

Da comunicazioni telefoniche con l'ufficio bilancio della Presidenza del Consiglio è infatti emerso che lo stanziamento di 1,9 milioni di euro per il 2013 è stato integrato con il riporto dell'avanzo dell'esercizio precedente; ad inizio XVII legislatura dunque sul capitolo 496 figuravano 4,5 milioni di euro.

Per il 2014 il bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedica al capitolo 496, Somme da destinare al piano contro la violenza alle donne, 18 milioni di euro.

Tali somme sono da ricondurre al decreto-legge n. 93 del 2013 (art. 5-bis) (art 5-bis), ovvero a interventi di sostegno delle vittime della violenza (centri antiviolenza) nella misura di 7 milioni di euro e alla legge di stabilità 2014 (legge n. 147 del 2013, art. 1, comma 217) nella misura di 10 milioni di euro.

Nella nota preliminare a bilancio di previsione (D.P.C.M. di approvazione del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 20 dicembre 2013), si specifica per il capitolo 496 sarà così ripartito:

·        10 milioni di euro per il miglioramento degli interventi delle istituzioni nel contrasto alla violenza sulle donne attraverso l'elaborazione di un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (la ripartizione delle risorse sarà approvata dalla Conferenza unificata);

·        7 milioni di euro all'attuazione dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 93/2013, relativo ad

·        interventi di assistenza e sostegno territoriale a donne vittime di violenza e ai loro figli (la ripartizione delle risorse sarà approvata dalla Conferenza Stato-Regioni);

·        300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati all'aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne nonché all'istituzione di una banca dati sui servizi offerti attraverso la rete collegata al numero di pubblica utilità 1522;

·        700.000 euro per la prosecuzione delle attività del servizio 1522 per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking.

Peraltro, nel 2014 lo stanziamento di 7 mln di euro è stato ridotto circa dell'8% in virtù delle riduzioni lineari delle spese dei ministeri.

Nel bilancio di previsione 2015, lo stato di previsione del Ministero dell'economia (tabella n. 5) individua i seguenti stanziamenti:

- 9,1 milioni di euro, per il Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (9 mln per il 2016 e per il 2017);

- 9,1 milioni di euro per gli interventi di assistenza e sostegno alle vittime (9 milioni per il 2016, ultimo anno finanziato).

Un ulteriore stanziamento, di circa 600 mila euro, è relativo al funzionamento del numero verde per le vittime di stalking, introdotto dal DL 11/2009.

Tali stanziamenti confluiscono sul cap. 2108 "Somme da corrispondere alla Presidenza del Consiglio dei ministri per le politiche delle pari opportunità".


La partecipazione delle donne alla vita politica
e istituzionale
(a cura del Servizio Studi)

L'Italia secondo gli indici internazionali

L'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE), agenzia autonoma dell'Unione europea, il 13 giugno 2013 ha pubblicato il primo Indice EIGE sull'uguaglianza di genere, frutto di tre anni di lavoro. Per la prima volta è stato elaborato un indicatore sintetico ma esaustivo delle disparità di genere nell'Unione europea e nei singoli Stati membri.

L'indice, che prende in considerazione 6 diversi settori (Lavoro, Denaro, Conoscenza, Tempo, Potere e Salute), ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere.

Nonostante più di 50 anni di politiche per l'uguaglianza di genere a livello europeo, il rapporto mostra come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione europea. Con un indice medio di 54.0, l'Unione europea è ancora a metà nel cammino per raggiungere l'uguaglianza.

Un dato significativo è la fortissima differenza tra gli indici dei singoli Stati membri, che vanno da un minimo di 35.3 (Romania) ad un massimo di 74.3 (Svezia), che attesta come gli Stati prestino una diversa attenzione al raggiungimento degli obiettivi della parità.

Particolarmente negativa è la posizione dell'Italia, che con un indice di 40.9 si attesta al 23° posto su 27 Stati membri, a parità con la Slovacchia e sopra solo alla Grecia, Bulgaria e Romania. In cima alla graduatoria spiccano i Paesi scandinavi, con valori superiori a 70, mentre il Regno Unito ha un indice di 60.4, la Francia di 57.1, la Spagna di 54.0 e la Germania di 51.6.

Analizzando la relazione tra l'indice dell'uguaglianza di genere e la ricchezza dei paesi, misurata attraverso il PIL per abitante (PPS), si nota altresì come l'Italia sia il più ricco tra i 13 paesi che hanno un indice inferiore a 45 (Repubblica Ceca, Lettonia, Polonia, Lituania, Cipro, Malta, Ungheria, Portogallo, Slovacchia, Italia, Grecia, Bulgaria e Romania).

Passando alla sfera specifica del Potere, inteso come potere decisionale sia politico che economico, si segnala che in questo settore l'indice dell'uguaglianza di genere evidenzia il valore più basso, con un valore medio europeo di 38.0.

Anche in tal caso la performance dell'Italia è piuttosto negativa, con un indice di 18.6, che la colloca al terzultimo posto tra i Paesi UE, sopra solo a Lussemburgo e Cipro.

A livello mondiale, secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global Gender Gap, nella graduatoria diffusa nel 2014, l'Italia si colloca al 69° posto su 142 Paesi (era al 71° nel 2013, all'80° nel 2012, al 74° nel 2011 e nel 2010, al 72° nel 2009, al 67° posto nel 2008, all'84° nel 2007 e al 77° nel 2006). L'aumento registrato dall'Italia nella graduatoria globale è determinato principalmente dal significativo aumento del numero delle donne in Parlamento (dal 22% nel 2012 al 31% nel 2013).

Nella graduatoria generale svettano i Paesi del Nord Europa; per quanto attiene agli altri Paesi europei, il Belgio si colloca al 10° posto, la Germania al 12°, la Francia al 16° ed il Regno Unito al 26° posto. L'indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e della salute.

Per ciò che attiene in particolare al settore della politica, il nostro Paese si colloca al 37° posto della graduatoria, risalendo dopo il brusco calo degli anni precedenti, che poteva probabilmente essere ascritto alla sostanziale staticità dell'Italia in questo campo, a fronte dei progressi registrati in altri paesi (l'Italia era al 44° posto, al 71° nel 2012, al 55° nel 2011, al 54° nel 2012 e al 45° nel 2009).

Il World economic forum redige periodicamente anche un rapporto sulla competitività dei paesi a livello globale ed è interessante notare come emerga una correlazione tra il gender gap di un paese e la sua competitività nazionale. Dal momento che le donne rappresentano la metà del talento potenziale di un paese, la competitività nel lungo periodo dipende significativamente dalla maniera in cui ciascun paese educa ed utilizza le sue donne.      

 

Le donne nelle istituzioni

I dati relativi alla presenza femminile negli organi costituzionali italiani hanno sempre mostrato una presenza contenuta nei numeri e molto limitata quanto alle posizioni di vertice.

In tale contesto, i risultati delle Parlamento del 24-25 febbraio 2013 presentano un segnale di inversione di tendenza: infatti, la media complessiva della presenza femminile nel Parlamento italiano, storicamente molto al di sotto della soglia del 30%, considerato valore minimo affinché la rappresentanza di genere sia efficace, è salita dal 19,5 della XVI legislatura al 30,1 per cento dei parlamentari eletti nella XVII legislatura (la media UE è il 27%).

Di seguito, due grafici mostrano l'andamento storico della presenza delle donne in entrambi i rami del Parlamento.

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Le prime donne elette alla Consulta nazionale sono state 14; della Consulta faceva parte un numero variabile di membri (circa 400) alcuni di diritto, altri di nomina governativa, su designazione partitica e di altre organizzazioni. Le donne elette all'Assemblea Costituente, composta da 556 membri, sono state 21 (3,8%).

Nella XII legislatura (la prima con il sistema elettorale maggioritario e con il sistema delle quote dichiarato poi illegittimo dalla Corte costituzionale) le donne elette alla Camera dei deputati sono state 95, di cui 43 elette con la quota maggioritaria e 52 con quella proporzionale, mentre nella XIII legislatura (senza l'applicazione del sistema delle quote) le donne elette alla Camera dei deputati sono scesa a 70 (rispettivamente 42 e 28). Al Senato sono state elette nella XIII legislatura 26 donne. Nella XIV legislatura le donne elette alla Camera sono state 73. Al Senato le donne elette sono state 25. Le donne elette alla Camera nella XV legislatura sono state 108 (17,1 per cento) e le donne senatrici 44 (13,6 per cento). Nella XVI legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 133 donne, al Senato 58. Nella XVII legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 198 donne (31,4 per cento), al Senato 92 donne (28,8 per cento).

Tra i senatori a vita, solo due volte, nel 2001 e più di recente nel 2013, è stata nominata una donna: la prof.ssa Rita Levi Montalcini e la prof.ssa Elena Cattaneo.

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Quanto alle Presidenza della Repubblica, del Senato e del Consiglio, posizioni di vertice, nessuna donna in Italia ha mai rivestito la carica di Capo dello Stato, di Presidente del Consiglio o di Presidente del Senato.

Attualmente, nell'Unione europea, la carica di Primo ministro o Presidente del Consiglio è ricoperta da donne in 5 Stati (Germania, Danimarca, Slovenia, Lettonia, Norvegia), mentre vi è solo una donna Capo dello Stato, in Lituania (non sono presi in considerazione gli ordinamenti monarchici).

La carica di Presidente della Camera è stata declinata al femminile nelle legislature VIII, IX e X, con l'elezione di Nilde Iotti, nella XII legislatura con l'elezione di Irene Pivetti e nell'attuale legislatura con l'elezione di Laura Boldrini.

Nonostante il significativo aumento della presenza femminile nei due rami del Parlamento, nella corrente Legislatura alla Camera è presieduta da una donna solo una Commissione permanente su 14 (Commissione giustizia, presieduta da Donatella Ferranti); al Senato sono presiedute da una donna 2 Commissioni permanenti su 14 (Commissione Affari costituzionali, presieduta da Anna Finocchiaro, e Commissione Igiene e sanità, presieduta da Emilia Grazia De Biasi).

Nella formazione dell'attuale Governo per la prima volta si è registrata una composizione paritaria: le donne ministro erano 8 su 16 ministri. Successivamente, a seguito delle dimissioni del Ministro degli esteri e del Ministro per gli affari regionali, il numero delle donne ministro è sceso a 6 (Roberta Pinotti, Ministro della difesa; Federica Guidi, Ministro dello sviluppo economico; Stefania Giannini, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca; Beatrice Lorenzin, Ministro della salute; Maria Elena Boschi, Ministro per le riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento; Maria Anna Madia, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione) su 15 ministri (circa il 40%).

Meno incisiva risulta la presenza femminile nelle posizioni di sottosegretario: le donne sottosegretario sono 10 su 44 (22,7%): Maria Teresa Amici (Rapporti con il Parlamento); Paola De Micheli (Economia e finanze); Simona Vicari (Sviluppo economico); Silvia Velo e Barbara Degani (Ambiente); Franca Biondelli e Teresa Bellanova (Lavoro e politiche sociali); Angela D'Onghia (Istruzione, università e ricerca); Francesca Barracciu e Ilaria Borletti Buitoni (Beni, attività culturali e turismo).

In ambito UE-28, la media della donne al Governo è del 27%, con risultati molto diversi tra gli Stati. In Finlandia, la donne presenti nella compagine governativa sono il 54%, mentre si registra la parità in Svezia (50%). Seguono la Francia (48%) e la Germania (43%).

Per quanto riguarda la composizione della Corte costituzionale dei quindi giudici costituzionali tre sono donne: Marta Cartabia, professore ordinario, nominata nel 2011; Silvana Sciarra e Daria De Petris, entrambe professore ordinario, nominate nel 2014.

Nella storia della Consulta ci sono state altre due giudici donne: Fernanda Contri, avvocato, giudice della Corte dal 1996 al 2005, e Maria Rita Saulle, professore ordinario, giudice dal 2005 al 2011.

Per quanto riguarda la presenza femminile nel Parlamento europeo Parlamento europeo, (PE) nelle prime cinque legislature le donne italiane elette risultavano sempre in percentuali inferiori al 15%. Come si rileva dal grafico, con l'introduzione delle quote di lista nel sistema elettorale nelle elezioni del 2004, il numero delle donne italiane elette al Parlamento europeo è aumentato della metà, passando da 10 donne nella V legislatura (1999-2004) a 15 nella VI (2004-2009).

Si consideri, inoltre, che il numero dei seggi spettanti all'Italia è diminuito, passando da 87 nella V legislatura a 78, in conseguenza dell'ingresso di 10 nuovi Paesi. In termini percentuali, la componente femminile è passata, dunque, nella VI legislatura dall'11,5 per cento al 19,2 per cento ed è salita ulteriormente nella VII legislatura (2009-2014), dove le donne elette al Parlamento europeo sono risultate 16 su 72 seggi spettanti all'Italia (pari al 22,2%).

Nelle ultime elezioni del 2014, al posto del sistema delle quote, è stata introdotta e applicata la c.d. 'tripla preferenza di genere, in base alla quale, nel caso in cui l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della terza preferenza. All'esito della consultazione elettorale, il numero delle donne italiane elette al PE risulta quasi raddoppiato, passando a 29 su 73 seggi spettanti all'Italia, pari al 39,7% (per la prima volta, sopra la media delle donne al Parlamento europeo, pari al 37%).

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Per quanto riguarda gli organi delle Enti territoriali, la presenza femminile nelle assemblee regionali italiane si attesta in media intorno al 15,8% e risulta dunque molto distante dalla media registrata a livello UE-28, pari al 32%. Più alto il dato nelle giunte regionali, dove le donne sono il 22% (la media UE negli esecutivi regionali è il 34%). Solo due donne (su 20 regioni) rivestono la carica di Presidente della regione (in Umbria e Friuli Venezia Giulia).

Di seguito, la tabella riporta, nel dettaglio, la consistenza numerica e percentuale delle donne nei consigli delle regioni e delle province autonome, al 28 luglio 2014 (i dati sono stati forniti dalla Segreteria della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome), ad eccezione dei dati relativi alle regioni Emilia Romagna e Calabria, aggiornati alle elezioni che si sono svolte nel mese di novembre 2014.

 

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Nell'ambito delle assemblee degli Enti locali, il dato della presenza femminile in Italia è pari al 27,9% nei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, al 21% nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (fonte: Anagrafe degli amministratori locali - Ministro dell'interno, dati aggiornati al 7 gennaio 2015). In ogni caso, la percentuale risulta inferiore al dato medio di presenza femminile nelle stesse assemblee rilevato in ambito UE-28, pari al 32%.

Più visibile la presenza delle donne nelle giunte degli enti locali, in quanto la percentuale di donne che riveste la carica di assessore è pari al 32% nei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, al 33,6% nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Le donne sindaco sono, in tutti i comuni di Italia, 1.050 su 7.823, pari al 13,4%.

Tra il 28 settembre e il 12 ottobre 2014 si sono svolte le prime elezioni con il sistema di secondo livello per i Consigli metropolitani di 8 Città metropolitane e per i Presidenti di Provincia e i Consigli provinciali di 64 province, in attuazione della riforma prevista dalla legge n. 56/2014 (c.d. legge Delrio). Per quanto concerne le città metropolitane sono stati eletti 162 consiglieri metropolitani, di cui 31 donne, pari al 19,1% del totale. In relazione alle province, tra i nuovi 64 presidenti di provincia, ci sono solo 7 donne, pari a circa l'11 per cento del totale.

 

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Minore rilievo ha la presenza delle donne a capo dei partiti politici: in Italia nessuno dei principali partiti politici è guidato da una donna e anche in Europa si registra un modesto 13%.

Nelle Autorità amministrative indipendenti, infine, su un totale di 42 componenti attualmente in carica, 12 sono donne (28,6%). Nessuna delle nove Autorità considerate è attualmente presieduta da una donna. Non sono presenti donne nell'Autorità per le garanzie delle comunicazioni (5 componenti). Solo nell'Autorità garante per la privacy, si registra una maggioranza di donne (3 su 4).

Tutti i dati relativi ai Paesi europei e alle medie UE, nonchè quelli sui partiti politici sono tratti dal Database della Commissione europea: Women and men in decision making.

 

 

I princìpi costituzionali

Norma fondamentale in tema di partecipazione alla vita politica è l'articolo 51, primo comma, della Costituzione, in base al quale tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

A seguito di una modifica del 2003 (L. Cost. n. 1/2003), dovuta anche ad un orientamento espresso dalla Corte costituzionale in una sentenza del 1995 (v. infra) è stato aggiunto un periodo secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

Si è in tal modo segnato un passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento uomo-donna alla prospettiva dinamica delle pari opportunità, nell'ottica del raggiungimento di un'uguaglianza sostanziale, come già riconosciuta dall'art. 3, e secondo lo spirito della Convenzione ONU per la eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) del 1979 e della Dichiarazione di Pechino del 1995, che mirano al raggiungimento di una parità de facto.

A livello sovranazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - che dopo il trattato di Lisbona ha assunto valore vincolante per il nostro ordinamento - prevede che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi e che il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (art. 23 inserito nel Capo III relativo all'uguaglianza.

L'articolo 117, settimo comma, Cost. (introdotto dalla L. Cost. n. 3/2001) prevede inoltre che "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive." Analogo principio è stato introdotto negli statuti delle regioni ad autonomia differenziata dalla legge costituzionale n. 2 del 2001.

Da segnalare altresì che la proposta di riforma costituzionale, approvata dal Senato e attualmente all'esame della Camera (A.C. 2613), introduce un nuovo secondo comma all'art. 55 Cost., in base al quale "le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l'equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza".

Tale disposizione specifica dunque, rafforzandolo, quanto già sancito dall'art. 51 Cost. e richiamato, con riferimento all'ordinamento regionale, dall'art 117. Cost. Viene infatti indicato come obiettivo dell'attività promozionale direttamente l'equilibrio tra donne e uomini.

 

 

 

Giurisprudenza costituzionale

Secondo un primo orientamento della Corte costituzionale risalente alla metà degli anni Novanta, espresso nella sentenza n. 422 del 1995, la previsione di quote di genere in campo elettorale si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, sancito dagli articoli 3 e 51 della Costituzione. Con tale sentenza, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale delle disposizioni normative che avevano introdotto le quote per le elezioni nazionali, regionali e locali, sulla base dell’assunto che, in campo elettorale, il principio di uguaglianza deve essere inteso in senso rigorosamente formale. In base a tale interpretazione i diritti di elettorato passivo sono rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali ed è esclusa qualsiasi differenziazione in base al sesso, sia che essa riguardi l’eleggibilità (quote di risultato, quali erano previste dalla legge elettorale nazionale) sia che riguardi la candidabilità (quote di lista, quali quelle previste dalla legge sulle elezioni amministrative).

Successivamente, il quadro costituzionale è mutato, anche in conseguenza della posizione espressa dalla Corte.

Come già visto, le riforme costituzionali del 2001 hanno riaffermato il principio della parità di accesso alle cariche elettive in ambito regionale e la legge costituzionale n. 1 del 2003 ha riconosciuto espressamente la promozione, con appositi provvedimenti, delle pari opportunità tra uomini e donne nella vita pubblica.

Nella sentenza n. 49 del 2003, dopo le riforme costituzionali del 2001 relative agli ordinamenti regionali ma prime della modifica dell’articolo 51, la Corte costituzionale dichiara infondata una questione di legittimità costituzionale relativa ad una disposizione della legge elettorale della Valle d’Aosta che impone l’obbligo di inserire nelle liste elettorali candidati di entrambi i sessi. Viene dunque superata la sentenza del 1995, che aveva affermato che il sesso non poteva essere rilevante ai fini della candidabilità.

Nell’ordinanza n. 39 del 2005, la Corte costituzionale affronta una questione sollevata dal Consiglio di Stato riguardante l’obbligo legislativamente previsto di inserire almeno un terzo di donne nelle Commissioni di concorso, quindi una vera quota di risultato sia pure prevista per un organo amministrativo. Il Consiglio di Stato richiama proprio la sentenza del 1995 a sostegno delle proprie argomentazioni nel senso dell’incostituzionalità della disposizione che prevedeva l’obbligo della presenza femminile. La Corte costituzionale ritiene peraltro che il richiamo alla sentenza del 1995 non è sufficiente alla luce della modifica dell’articolo 51 intervenuta nel 2003 e dichiara pertanto la questione manifestamente inammissibile per carenza di motivazione.

La pronuncia più rilevante sul tema è la sentenza n. 4 del 2010, con cui la Corte, richiamando il principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo relativa all’introduzione della ‘doppia preferenza di genere’ da parte della legge elettorale della Campania, in considerazione del carattere promozionale e della finalità di riequilibrio di genere della misura.

Secondo la Corte «il quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese. Preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali, i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale».                              

 

Quadro normativo

Nell’ordinamento italiano si rinvengono diverse norme, sia nazionali che regionali, finalizzate alla promozione della partecipazione delle donne alla politica e dell’accesso alle cariche elettive, emanate in attuazione dei già richiamati articoli 51, primo comma, e 117, settimo comma, Cost.                                                                                               

 

A livello nazionale

Il decreto-legge sull'abolizione del Partiti politicifinanziamento pubblico diretto ai partiti (D.L. 28 dicembre 2013, n. 149, conv. dalla L. n. 13/2014) disciplina i requisiti di trasparenza e democraticità richiesti ai partiti per accedere alle nuove forme di contribuzione previste (‘due per mille' sulla base delle scelte espresse dai cittadini e agevolazioni fiscali sulle liberalità), istituendo a tal fine un apposito registro.

Ai fini dell'iscrizione del registro, la legge prescrive una serie di requisiti per lo statuto dei partiti, tra i quali rientra l'indicazione delle "modalità per promuovere, attraverso azioni positive, l'obiettivo della parità tra i sessi negli organismi collegiali e per le cariche elettive, in attuazione dell'art. 51 Cost." (art. 3, comma 2, lett. f).

L'articolo 9 del D.L. n. 149/2013 del medesimo decreto disciplina espressamente la parità di accesso alle cariche elettive, sancendo innanzitutto il principio che i partiti politici promuovono tale parità.

In attuazione di tale principio, sono riprese e rafforzate due disposizioni contenute nella precedente legislazione sul finanziamento pubblico ai partiti (L. n. 157/1999, art. 3; L. n. 96/2012, art. 1, comma 7, e art. 9, comma 13).

In primo luogo, per riequilibrare l'accesso alle Candidature alle politiche ed europee candidature nelle elezioni, è prevista la riduzione delle risorse spettanti a titolo di ‘due per mille' nel caso in cui, nel numero complessivo dei candidati presentati da un partito per ciascuna elezione della Camera, del Senato e del Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40 per cento.

In particolare, la misura della riduzione è pari allo 0,5% per ogni punto percentuale al di sotto del 40 per cento, fino al limite massimo complessivo del 10% (art. 9, comma 2, D.L. n. 149/2013).

In secondo luogo, ai partiti politici che non abbiano destinato una quota pari ad almeno il 10 per cento delle somme ad essi spettanti a titolo di ‘due per mille' ad iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica, la Commissione di garanzia sui partiti politici applica una sanzione amministrativa pecuniaria pari a un quinto delle somme ad essi spettanti a titolo di ‘due per mille'. (art. 9, comma 3).

E' infine previsto un meccanismo premiale per i partiti che eleggono candidati di entrambi i sessi. Le risorse derivanti dall'applicazione delle due disposizioni esaminate confluiscono infatti in un apposito fondo, annualmente ripartito tra i partiti iscritti nell'apposito registro, per i quali la percentuale di eletti – e non di semplici candidati - del sesso meno rappresentato sia pari o superiore al 40 per cento (art. 9, commi 4 e 5).

A livello di legge elettorale nazionale, non si rinvengono ulteriori specifiche disposizioni, ad eccezione di una norma di principio, contenuta della legge elettorale del Senato, secondo cui il sistema elettorale deve favorire "l'equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini" (D.Lgs. n. 533/1993, art. 2 ).

Il progetto di legge di riforma elettorale, approvato dal Senato e ora di nuovo all'esame della Camera (A.C. 3 e abb. bis-B), detta alcune norme in favore della rappresentanza di genere per le elezioni della Camera (non viene modificato il sistema elettorale del Senato, in attesa della riforma costituzionale che dovrebbe superare la natura elettiva di questo organo).

Il nuovo sistema elettorale prevede un premio di maggioranza assegnato al partito che supera la soglia di sbarramento del 40 per cento o, in mancanza, a seguito di un ballottaggio tra i due partiti più votati. Il territorio nazionale è diviso in circoscrizioni, corrispondenti alle regioni, in cui i seggi sono attribuiti in collegi plurinominali di piccole dimensioni (da tre a nove seggi), sulla base di liste, composte da un candidato capolista (che è "bloccato") e da un elenco di candidati per i quali si possono esprimere una o due preferenze.

Esso introduce, a pena di inammissibilità, un obbligo di rappresentanza paritaria dei due sessi nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista (quindi, a livello regionale) e prevede che, nella successione interna delle singole liste nei collegi, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere (quindi 1-1). Inoltre è stabilito, a pena di inammissibilità della lista, che nel numero complessivo dei capolista nei collegi di ogni circoscrizione non può esservi più del 60 per cento di candidati dello stesso sesso. Infine, è introdotta la c.d. doppia preferenza di genere, ossia, in caso di espressione della seconda preferenza, l'elettore deve scegliere un candidato di sesso diverso rispetto al primo, a pena di nullità della seconda preferenza.

Per le elezioni del Parlamento europeo, la legge 22 aprile 2014, n. 65, ha introdotto nella legge elettorale europea disposizioni volte a rafforzare la rappresentanza di genere.

In considerazione del ravvicinato svolgimento delle elezioni europee (già indette per il 25 maggio), la legge reca una disciplina transitoria destinata ad applicarsi solo nelle elezioni del 2014 ed una più incisiva disciplina a regime che troverà applicazione dalle successive elezioni del 2019.

In particolare la proposta di legge introduce, limitatamente alle elezioni europee del 2014, la cd. ‘tripla preferenza di genere', prevedendo che, nel caso in cui l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della terza preferenza.

Per quanto riguardala disciplina a regime, destinata ad applicarsi dal 2019, viene prevista:

·         la composizione paritaria delle liste dei candidati, disponendosi che, all'atto della presentazione della lista, i candidati dello stesso sesso non possono essere superiori alla metà, a pena di inammissibilità; inoltre, i primi due candidati devono essere di sesso diverso;

·         la ‘tripla preferenza di genere', con una disciplina più incisiva rispetto a quella prevista in via transitoria per il 2014: le preferenze devono infatti riguardare candidati di sesso diverso non solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due preferenze. In caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, la seconda preferenza viene annullata; in caso di espressione di tre preferenze, sono annullate sia la seconda che la terza preferenza.

Sono poi disciplinate le verifiche dell'ufficio elettorale al fine di garantire il rispetto delle disposizioni sull'equilibrio di genere nelle liste, assicurando al tempo stesso, ove possibile, la conservazione della lista.

Nel caso in cui risulti violata la disposizione sulla presenza paritaria di candidati nelle liste, l'ufficio elettorale procede dunque alla cancellazione dei candidati del sesso sovrarappresentato, partendo dall'ultimo, fino ad assicurare l'equilibrio richiesto. Se, all'esito della cancellazione, nella lista rimane un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge, la lista è ricusata e non può conseguentemente partecipare alle elezioni.

Nel caso in cui risulti violata la disposizione sull'alternanza di genere tra i primi due candidati, l'ufficio elettorale modifica la lista, collocando dopo il primo candidato quello successivo di genere diverso.

Dalla modifica costituzionale dell'articolo 51 discendono anche le norme inserite nella legge finanziaria 2008, che, disponendo in tema di organizzazione del Governo, stabiliscono che la sua composizione deve essere coerente con il principio costituzionale delle pari opportunità nell'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 1, commi 376-377, L. 244/2007).

La legge n. 215/2012, modificando la legge sulla par condicio, ha infine introdotto una disposizione di principio, secondo cui i mezzi di informazione, nell'ambito delle trasmissioni per la comunicazione politica, sono tenuti al rispetto dei principi di pari opportunità tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione.                                                             

 

A livello comunale

In ordine alle elezioni comunali, di grande rilevanza è stata l'approvazione, sul finire della XVI legislatura, della legge 23 novembre 2012, n. 215, recante disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.

Per l'elezione dei consigli comunali, nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la legge, riprendendo un modello già sperimentato dalla legge elettorale della Regione Campania, contempla una duplice misura volta ad assicurare il riequilibrio di genere:

·         la previsione della cd. quota di lista: nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi. E' previsto l'arrotondamento all'unità superiore per il genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a 0,5.

·         l'introduzione della cd. doppia preferenza di genere, che consente all'elettore di esprimere due preferenze (anziché una, come previsto dalla normativa previgente) purché riguardanti candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della seconda preferenza. Resta comunque ferma la possibilità di esprimere una singola preferenza.

In caso di violazione delle disposizioni sulla quota di lista, è peraltro previsto un meccanismo sanzionatorio differenziato - a seconda che la popolazione superi o meno i 15.000 abitanti -, che di fatto rende la quota effettivamente vincolante solo nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti.

In particolare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, riduce la lista, cancellando i candidati del genere più rappresentato, partendo dall'ultimo, fino ad assicurare il rispetto della quota; la lista che, dopo le cancellazioni, contiene un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge è ricusata e, dunque, decade.

Nei comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, procede anche in tal caso alla cancellazione dei candidati del genere sovrarappresentato partendo dall'ultimo; la riduzione della lista non può però determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Ne deriva che l'impossibilità di rispettare la quota non comporta la decadenza della lista.

Per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti è comunque previsto che nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Tale disposizione ha particolare rilievo per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, nei quali non si applica la quota di lista.

La disposizione sulla presenza di entrambi i sessi nelle liste risulta peraltro priva di sanzione.

Le disposizioni per l'elezione dei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti volte a garantire la parità di accesso di donne e uomini alle cariche elettive si applicano anche alle elezioni dei consigli circoscrizionali, secondo le disposizioni dei relativi statuti comunali.

Il sistema è stato applicato per la prima volta nelle elezioni comunali del maggio 2013.

Uno studio sui risultati elettorali nei 16 comuni capoluogo che hanno votato evidenzia effetti molto positivi: in termini assoluti il numero di donne elette raddoppia, mentre in termini percentuali la presenza femminile è due volte e mezzo quella della precedente tornata nel complesso (dall'11,2 al 27,9%), e nel caso dei capoluoghi meridionali addirittura quadrupla (dal 7,3 al 28%).

Si segnala inoltre il dato di Roma capitale: nell'Assemblea capitolina, la presenza femminile è aumentata dal 7 per cento (con 4 consigliere su 60 componenti del consiglio) al 31 per cento (con 15 consigliere su 48 componenti).

Per gli esecutivi, la legge n. 215/2012 prevede inoltre che il sindaco nomina la giunta nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi. Uguale disposizione è inserita nell'ordinamento di Roma capitale, per quanto riguarda la nomina della Giunta capitolina.

La legge recentemente approvata su Città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni è intervenuta su questo punto introducendo una disposizione più incisiva: nelle giunte comunali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico; sono esclusi dall'ambito di applicazione della norma i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti.

La legge n. 215/2012 ha inoltre modificato la norma che disciplina il contenuto degli statuti comunali e provinciali con riferimento alle pari opportunità.

In particolare, è previsto che gli statuti stabiliscono norme per "garantire", e non più semplicemente "promuovere", la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.

Gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri statuti e regolamenti alle nuove disposizioni entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (ossia entro il 26 giugno 2013).  

 

 

A livello di città metropolitane e province

La legge 7 aprile 2014, n. 56, sull'istituzione delle Città metropolitane ed il riordino delle province ha eliminato l'elezione diretta dei consigli provinciali.

I consigli metropolitani (organi delle nuove città metropolitane) ed i consigli provinciali divengono organi elettivi di secondo grado; l'elettorato attivo e passivo spetta ai sindaci ed ai consiglieri comunali dei rispetti territori.

L'elezione di questi due organi avviene con modalità parzialmente differenti, che comunque prevedono l'espressione di un voto di preferenza e la ponderazione del voto (in base ad un indice rapportato alla popolazione complessiva della fascia demografica di appartenenza del comune).

Ai fini di promuovere la rappresentanza di genere, nelle liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all'unità superiore per i candidati del sesso meno rappresentato, a pena di inammissibilità. Tale disposizione troverà peraltro applicazione decorsi 5 anni dall'entrata in vigore della legge n. 215/2012, sulle rappresentanze di genere negli organi elettivi degli enti locali e quindi, di fatto, dalle elezioni del 2018 (art. 1, commi 27-28 e commi 71-72).

Non è prevista la possibilità della doppia preferenza di genere, in quanto ritenuta incompatibile con il sistema del voto ponderato.

Non è inoltre più prevista la giunta, ma un altro organo assembleare (consiglio metropolitano nelle città metropolitane e assemblea dei sindaci nelle province), composto da tutti i sindaci del territorio.

Agli statuti di città metropolitane e province sono inoltre applicabili le già esaminate disposizioni volte a garantire le pari opportunità negli organi collegiali non elettivi. Nelle prime elezioni svolte con il nuovo sistema elettorale (2014), il numero delle donne elette nei consigli delle città metropolitane è risultato pari al 19,1% del totale.                                    

 

A livello regionale

Dopo la modifica degli articoli 122 e 123 della Costituzione, che ha dato avvio al processo di elaborazione di nuovi statuti regionali e di leggi per l'elezione dei consigli nelle regioni a statuto ordinario, tutte le regioni che hanno adottato norme in materia elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche per favorire la parità di accesso alle cariche elettive, in attuazione dell'art. 117, settimo comma, Cost.

Le misure sono diverse e sono per lo più incentrate sulle cosiddette ‘quote di lista', ossia sull'obbligo di inserire nelle liste di candidati una quota minima di candidati del genere meno rappresentato, variabile tra un terzo e la metà. Le quote di lista sono applicate in sistemi elettorali proporzionali, con premio di maggioranza e con voto di preferenza. Una sola regione, la Campania, ha messo a punto uno strumento ulteriore, la cosiddetta ‘doppia preferenza di genere', misura successivamente ripresa dalla legge elettorale per i comuni.

Nel dettaglio, le regioni Lazio (L.R. 2/2005, art. 3), Puglia (L.R. 2/2005, art. 3, co. 3), Toscana (L.R. 25/2004, art. 8, co. 4), Marche (L.r. 27/2004, art. 9, comma 6), Campania (L.R. 4/2009, art. 10) e la regione Umbria (L.R. 2/2010, art. 3 comma 3) pongono il limite di due terzi alla presenza di candidati di ciascun sesso in ogni lista provinciale. Per la regione Abruzzo, la nuova disciplina elettorale dettata dalla L.R. 9/2013, dispone che in ogni lista circoscrizionale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60% dei candidati (in caso di quoziente frazionario si procede all'arrotondamento all'unità più vicina, art. 1, comma 4). Nella regione Lombardia (L.R. 17/2012. art. 1, comma 11) le liste devono essere composte seguendo l'ordine dell'alternanza di genere mentre la regione Veneto (L.R. 5/2012, art. 13, comma 6) dispone, che in ogni lista provinciale i rappresentanti di ciascun genere devono essere presenti in misura eguale ed i nomi dei candidati sono alternati per genere.

Nelle liste regionali (tra le regioni citate, presenti solo nella regione Lazio; si tratta del cd. 'listino') i candidati di entrambi i sessi devono essere invece in numero pari; nella regione Toscana, inoltre, in relazione alle candidature regionali, quando le liste indicano più candidati, ciascun genere deve essere rappresentato (art. 10, co. 2). Meno cogente la prescrizione della regione Calabria (L.R. 1/2005, art. unico, co. 6) per la quale nelle liste elettorali (provinciali e regionali) devono essere presenti candidati di entrambi i sessi.

Nella maggioranza dei casi l'inosservanza del limite è causa di inammissibilità; nelle regioni Lazio, Puglia e Umbria, invece, è causa di sanzione pecuniaria per le liste provinciali.

La legge della regione Campania, infine, contiene disposizioni sulla rappresentanza di genere anche in relazione ad altri ambiti, oltre quello della presentazione delle liste:

·         campagna elettorale: i soggetti politici devono assicurare la presenza paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di comunicazione politica e nei messaggi autogestiti (art. 10, comma 4, L.r. 4/2009);

·         voto di preferenza: poiché la legge regionale (art. 4, comma 3, L.r. 4/2009) prevede la possibilità per l'elettore di esprimere uno o due voti di preferenza, «nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l'altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l'annullamento della seconda preferenza».

Per quanto concerne le regioni a statuto speciale e le province autonome, anch'esse hanno adottato norme in materia elettorale, tra cui disposizioni per favorire l'accesso alle cariche elettive di entrambi i sessi, come disposto dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, relativa all'elezione diretta dei Presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano.

Le disposizioni sono diversificate, tutte contengono obblighi nella presentazione delle liste:

·         per la regione Valle d'Aosta, in ogni lista di candidati all'elezione del Consiglio regionale ogni genere non può essere rappresentato in misura inferiore al 20 per cento, arrotondato all'unità superiore (art. 3-bis, LR 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007); in sede di esame e ammissione delle liste, l'Ufficio elettorale regionale riduce al limite prescritto quelle contenenti un numero di candidati superiore al numero massimo prescritto, cancellando gli ultimi nomi; dichiara non valide le liste che non corrispondano alle predette condizioni (art. 9, comma 1, LR 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007);

·         per la regione Friuli-Venezia Giulia ogni lista circoscrizionale deve contenere, a pena di esclusione, non più del 60 per cento di candidati dello stesso genere; nelle liste i nomi dei candidati sono alternati per genere fino all'esaurimento del genere meno rappresentato; al fine di promuovere le pari opportunità, la legge statutaria prevede inoltre forme di incentivazione o penalizzazione nel riparto delle risorse spettanti ai gruppi consiliari (è considerato ‘sottorappresentato' quello dei due generi che, in Consiglio, è rappresentato da meno di un terzo dei componenti) e disposizioni sulla campagna elettorale. I soggetti politici devono assicurare la presenza paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di comunicazione politica offerti dalle emittenti radiotelevisive pubbliche e private e, per quanto riguarda i messaggi autogestiti previsti dalla vigente normativa sulle campagne elettorali, devono mettere in risalto con pari evidenza la presenza dei candidati di entrambi i generi nelle liste presentate dal soggetto politico che realizza il messaggio. (artt. 23, comma 2 e 32, L.R. 17/2007);

·         nella Regione siciliana, tutti i candidati di ogni lista regionale dopo il capolista devono essere inseriti secondo un criterio di alternanza tra uomini e donne; una lista provinciale non può includere un numero di candidati dello stesso sesso superiore a due terzi del numero dei candidati da eleggere nel collegio (art. 14, comma 1, L.R. 29/1951, come modificato dalla L.R. 7/2005);

·         nella Provincia autonoma di Trento, in ciascuna lista di candidati – a pena di inammissibilità - nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi del numero dei candidati della lista, con eventuale arrotondamento all'unità superiore (art. 25 co. 6-bis e art. 30 co. 1 L.P. 2/2003 come modificata dalla L.P. 8/2008).

·         nella regione Sardegna, la legge regionale statutaria n. 1 del 2013 stabilisce che in ciascuna lista circoscrizionale – a pena di esclusione - ciascuno dei due generi non può essere rappresentato in misura superiore ai 2/3 dei candidati, con arrotondamento all'unità superiore (Legge regionale statutaria n. 1/2013, art. 4); l'elettore esprime un voto di preferenza;

·         nella Provincia autonoma di Bolzano, in ciascuna lista di candidati nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi del numero dei candidati della lista, con eventuale arrotondamento all'unità più prossima; nella lista in cui non venga rispettata tale quota, sono cancellati i nominativi dei candidati che eccedono la quota prevista, a partire dall'ultima candidata/dall'ultimo candidato del genere che eccede la quota (art. 1, commi 13 e 15, L.P. 4/2003, come modificati dall' art. 1, commi 5 e 7, L.P. 8 maggio 2013, n. 5); (art. 1, comma 13 e 15, L.P. 4/2003, come modificati dall' art. 1, commi 5 e 7, L.P. 8 maggio 2013, n. 5); non ci sono norme, invece, concernenti la preferenza di genere (l'elettore può esprimere fino a 4 preferenze, D.P.G.R. 29-1-1987 n. 2/L, art. 49).

In generale, la presenza media delle donne nei consigli regionali è molto bassa, attestandosi intorno al 15%, sensibilmente al di sotto del dato delle elezioni nazionali.

Dall'analisi dei meccanismi elettorali emerge che le quote di lista determinano l'effetto di aumentare il numero donne candidate. Nelle regioni che prevedono quote, la percentuale di donne sul totale dei candidati è sempre superiore rispetto alle regioni che non le applicano; ma all'aumento del numero delle candidate non sempre corrisponde un aumento del numero delle elette. Ad esempio, nella in Lombardia, è previsto che le liste siano composte seguendo l'alternanza di genere, e quindi con il 50% di candidature riservate alle donne, ma le elette alla fine sono state meno del 19 per cento. Dove non è prevista neanche la misura minima della quota di lista, i risultati non sono brillanti, come in Basilicata, nel cui consiglio regionale non siede neanche una donna.

Un altro dato rilevante è che la presenza femminile è in generale maggiore nelle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud; questo dato molto probabilmente è dovuto a fattori di ordine culturale e sociale.

Anche se è proprio una regione del Sud, la Campania, che ha la più alta percentuale di donne elette al Consiglio regionale, il 23 per cento. Qui entra in gioco il sistema elettorale: la Campania, come visto, è l'unica regione che ha introdotto la doppia preferenza di genere. Questo dato dimostra come specifici strumenti elettorali possano determinare il superamento del gap tra i generi che sussiste a livello economico e sociale.

Per un quadro di sintesi, si rinvia alla tabella delle norme regionali e della presenza delle donne nei consigli regionali.                                                                                     

 

Le quote di genere nei sistemi elettorali: una analisi comparata

Il peso delle donne nelle assemblee rappresentative è un problema diffuso su scala planetaria e con cui tutti i paesi al momento, sia le democrazie consolidate che le democrazie emergenti, si stanno confrontando.

Per superare questa situazione e garantire l'accesso delle donne alle assemblee parlamentari, lo strumento più diffuso è l'introduzione delle quote di genere nei sistemi elettorali.

Attualmente nella maggior parte dei paesi del mondo funzionano le quote di genere in campo elettorale. Le quote possono essere previste a livello legislativo, a volta anche costituzionale, e questo accade in circa 75 paesi, o possono essere adottate dai partiti politici su base volontaria, come accade in circa 51 paesi.

La previsione di quote nella loro veste più vincolante, ossia con la previsione di seggi riservati alle donne, è diffusa soprattutto nelle nuove democrazie costituzionali dell'Africa e dell'Asia, nelle democrazie emergenti. In molti casi si è trattato di partire da zero nel riconoscimento dei diritti alle donne e per questi paesi l'introduzione delle quote è parte integrante del processo di democratizzazione in corso.

L'esempio più citato è quello dell'Afghanistan, in cui le donne occupano il 28 per cento dei seggi del Parlamento: questo grazie ad una previsione costituzionale.

Anche grazie ad un sistema di seggi riservati, nel 2008 il Ruanda si è affermato come unico paese in cui le deputate donne sono più dei deputati uomini (56%); il successo è stato replicato nelle recenti elezioni del 2013, quando le donne hanno raggiunto la stratosferica percentuale del 64% (51 seggi su 80).

Sistemi elettorali che prevedono a livello legislativo un sistema di quote, pur senza meccanismi così stringenti come quello dei seggi riservati, sono ampiamente diffusi in America Latina. In Argentina, ad esempio, le donne occupano il 37% dei seggi alla Camera.

Il caso dell'India. Nel 1993 l'India, allo scopo di aumentare la presenza femminile in politica, introduce una modifica costituzionale e riserva alle donne un terzo dei seggi in ogni amministrazione locale. Inoltre, nel West Bengal, oggetto di un recente studio, un terzo delle amministrazioni locali in ogni elezione viene casualmente selezionata per una leadership femminile, ossia per attribuire la posizione di consigliere capo –pradhan- ad una donna. Poiché i villaggi che hanno una leader donna sono selezionati casualmente, non ci dovrebbe essere nessuna differenza osservabile tra villaggi riservati o non riservati ad un pradhan donna, il che consente di individuare un effetto causale dello "sperimentare un capo donna".

La ricerca ha dimostrato che la percezione dei votanti sull'efficacia della leadership femminile è completamente diversa nei due gruppi di villaggi: gli elettori che sono stati "esposti" al capo consigliere donna per un periodo sufficientemente prolungato pensano che le donne siano dei leader competenti, a differenza degli abitanti dei villaggi che non hanno avuto questa esperienza. Ciò che è ancora più interessante è che la presenza di donne in posizione di leadership ha modificato le aspettative e le aspirazioni dei genitori per le loro figlie (senza ridurre quelle per i loro figli) e delle figlie stesse per il loro futuro. Il cambiamento nelle aspirazioni si è poi tradotto in una riduzione del gap in termini di istruzione, generalmente a favore dei ragazzi, e dell'asimmetria nella ripartizione dei compiti domestici, in cui tipicamente le ragazze sono maggiormente coinvolte.

Analizzando i dati dei Parlamenti europei, ad una prima sommaria analisi sembrerebbe non esserci una immediata relazione tra la previsione delle quote e la presenza di donne. Paesi che non hanno quote raggiungono una presenza femminile molto alta, mentre paesi che prevedono le quote a livello legislativo ottengono risultati meno significativi.

Tuttavia si consideri che nelle prime posizioni svettano, come noto, i Paesi del Nord Europa (Svezia 45%, Finlandia 43%, Islanda 40%, poi Norvegia e Danimarca con il 39%), in nessuno dei quali sono previste quote a livello legislativo; tutt'al più le quote sono introdotte a livello volontario dai partiti. Ma in Finlandia ed in Danimarca, ciò non accade; eppure la presenza femminile è molto alta.

Uno studio del Parlamento europeo offre una chiave di lettura di questo fenomeno. Nei paesi nordici, la parità è già stata raggiunta a livello sociale; il modello sociale consente di dire che si tratta di una parità effettiva, praticata nella quotidianità. Sono Paesi in cui esistono i servizi per la famiglia, in cui le responsabilità familiari sono equamente ripartite tra l'uomo e la donna, l'organizzazione della società e del lavoro tiene conto delle esigenze di conciliazione. In Paesi come questi, le quote attualmente non servono. E' vero che in alcuni casi i partiti le applicano, ma probabilmente a quegli stessi risultati si arriverebbe anche senza.

Bisogna però tener conto anche di un altro fattore, ossia dell'aspetto temporale. Il citato studio dimostra che per sfondare il 30 per cento della presenza femminile in politica, i paesi scandinavi hanno impiegato all'incirca 70 anni. Questi paesi hanno dunque percentuali molto alte di presenza femminile perché si sono posti il problema della parità molto prima degli altri e lo hanno affrontato con misure concrete già decine di anni fa, del resto facendo anche ricorso a strumenti come le quote.

Continuando ad analizzare le quote di genere in Belgio e Spagnadati sulla presenza delle donne nei parlamenti europei, si nota che in cima alla graduatoria, insieme ai Paesi nordici, ci sono due paesi con caratteristiche sociali diverse: il Belgio e la Spagna, con un 36-40% di presenza femminile. In entrambi i paesi – che votano con un sistema proporzionale con liste bloccate o semi-bloccate - sono state introdotte misure legislative per garantire la presenza di genere nelle liste.

Nel caso del Belgio, si rileva che fino alla metà degli anni Novanta, la percentuale di donne nelle varie assemblee elettive era molto bassa, circa il 5-10 per cento. Sotto la spinta del movimento femminile, nel 1994 è stata adottata la prime di legge per la parità tra uomini e donne in politica, con le quote, rafforzata poi nel 2002. Ebbene dalle percentuali molto basse (non superiori al 10 per cento) precedenti alla legge del 1994 si è arrivati nel 1999 al 35%, nel 2004 al 37% e nel 2010 a circa il 40%. Tutto questo nell'arco di circa 10-15 anni.

Più in generale, se si considerano i paesi in cui la presenza femminile è superiore ad un terzo dei componenti:

- o sono paesi nordici che sono molto avanti nella realizzazione della parità a livello sociale;

- o sono paesi in cui le quote sono previste a livello legislativo: Belgio, Spagna e Slovenia (33%);

- o sono paesi in cui le quote sono comunque praticate da pressoché tutti i partiti: Germania (36%).

Si segnala inoltre la posizione piuttosto bassa di due Paesi rilevanti, la Francia (27%) ed il Regno Unito (23%), che hanno un sistema elettorale di tipo maggioritario con collegi uninominali, a doppio turno in Francia e a turno unico nel Regno Unito. Si tratta infatti di un sistema elettorale particolarmente sfavorevole al riequilibrio della rappresentanza di genere.

 


La risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 1325 (2000) su donne, pace e sicurezza quindici anni dopo
(a cura del Servizio Studi)

Il 31 ottobre 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione 1325 su donne, pace e sicurezza, primo documento del Consiglio che menziona esplicitamente l’impatto dei conflitti armati sulle donne e sottolinea il contributo femminile per la risoluzione dei conflitti e per la costruzione di una pace durevole.

La risoluzione, considerata “madre” di risoluzioni ONU successive dal contenuto più specifico (per le quali si veda infra), delinea un sistema ampio di obiettivi a garanzia della prevenzione, della partecipazione e protezione delle donne nei contesti di conflitto (paradigma delle 3”P”), focalizzando tre elementi:

1.       le donne ed i fanciulli rappresentano i gruppi più colpiti dai conflitti armati;

2.       le donne svolgono un ruolo imprescindibile sia nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, sia nelle attività di ricostruzione della pace;

3.       gli Stati membri dell’Onu sono invitati ad assicurare una più ampia partecipazione delle donne a tutti i livelli decisionali, con particolare riferimento ai meccanismi di prevenzione, gestione e risoluzione del conflitto.

Il principio ispiratore della risoluzione - la “tolleranza zero” rispetto a tali forme di violenza che violano le norme internazionali e costituiscono comportamenti di rilievo penale - si applica ai militari, alle parti in conflitto nonché al personale militare e civile dell’Onu responsabile di abusi sessuali nelle aree di conflitto.

A fronte dell’ampiezza del mandato della risoluzione 1325 e della mancanza di indicazioni precettive in ordine all’attuazione delle sue disposizioni, e mentre si  continuavano a registrare numerosi casi di violenza sessuale nelle aree di conflitto armato e post conflitto, il Consiglio di Sicurezza ha previsto, nel Presidential Statement  del 28 ottobre 2004, la possibilità che gli Stati membri  proseguissero sulla strada dell’attuazione della Risoluzione 1325 anche attraverso lì adozione di “National Action Plans”.

Un rapporto del Segretario generale Onu dà conto ogni anno dei progressi compiuti.

Si segnala che nell’ultimo report (rilasciato il 2 ottobre 2012) viene evidenziato che 37 Stati membri (su un totale di 193, pari al 19%), tra i quali il nostro Paese, hanno adottato un piano d’azione nazionale.

In Italia, in particolare, un primo Piano di Azione Nazionale su “Donne Pace e Sicurezza” 2010-2013 è stato adottato il 23 dicembre 2010, mentre il secondo Piano nazionale, relativo al periodo 2014-2016, è stato ufficialmente presentato presso il Ministero degli Affari esteri e della cooperazione il 25 novembre scorso, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

In quella occasione il ministro Gentiloni ha ribadito il forte impegno internazionale del nostro Paese per contrastare la violenza contro le donne con campagne contro le pratiche lesive dei diritti fondamentali delle bambine e delle adolescenti, contro le mutilazioni genitali femminili (MGF) e contro i matrimoni precoci e forzati: un impegno che si attua anche attraverso numerose iniziative di cooperazione allo sviluppo volte alla tutela dei diritti e all’empowerment delle donne e realizzati in un’ampia area di paesi, tra cui il centro Mehwar nei Territori palestinesi, le iniziative di promozione dei diritti fondamentali delle donne in Afghanistan e la promozione del ruolo delle donne nei processi elettorali in Libano.

 

La risoluzione 1820 del 2008

La prima risoluzione delle Nazioni Unite dove si afferma che la violenza sessuale in situazioni di conflitto armato può costituire crimine di guerra, crimine contro l’umanità e prefigurare genocidio è la risoluzione 1820 adottata all’unanimità il 19 giugno 2008 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel corso del dibattito su donne, pace e sicurezza. L’Italia, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza nel biennio 2007-2008, aveva profuso un intenso impegno in fase negoziale, con particolare riguardo al riconoscimento del nesso tra sicurezza internazionale e violenza sessuale nei casi in cui questa viene impiegata come tattica di guerra.

La risoluzione 1820 del 2008 chiede a tutte le parti nei conflitti armati di cessare immediatamente e del tutto la violenza sessuale contro i civili evidenziando che, nonostante le reiterate condanne, la violenza e l’abuso sessuale di donne e bambini intrappolati in zone di guerra è praticata con un’ampiezza ed una sistematicità tali da configurare livelli di “spaventosa brutalità”. Il documento, stabilito che l’utilizzo della violenza sessuale come tattica di guerra può profondamente esacerbare i conflitti armati ed impedire il ripristino della pace e della sicurezza internazionale, afferma che lo stupro e le altre forme di violenza sessuale possono rappresentare crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed anche atti costitutivi di genocidio. Nella premessa, inoltre, il documento richiama l’inclusione di una serie di offese sessuali nello Statuto di Roma, atto fondativo della Corte penale internazionale dell’Aja.

La risoluzione, che prevede la possibilità di imporre sanzioni mirate contro fazioni che commettono stupri e altre forme di violenza contro donne e ragazze, chiedeva al Segretario generale Onu di dare conto del quadro della situazione e dell’attuazione della disposizioni in essa contenute entro il 30 giugno 2009, nonché di formulare proposte volte a “minimizzare la suscettibilità” delle donne e delle ragazze a tale violenza. Il Segretario era inoltre richiesto di sviluppare linee guida e strategie efficaci per migliorare le capacità delle operazioni di peacekeeping Onu nella protezione dei civili da ogni forma di violenza sessuale.

 

Le risoluzioni 1960 (2010) e 1888 (2009)

Una ulteriore risoluzione (1960/2010) è stata adottata all’unanimità il 16 dicembre 2010 dal Consiglio di Sicurezza il quale ha chiesto alle parti coinvolte in conflitti armati di assumere specifici impegni ed indicare precise scadenze della lotta alla violenza sessuale, sollecitandole sul lato della prevenzione a proibire tali crimini attraverso la somministrazione di ordini precisi alle catene di comando e l’imposizione di codici di condotta e, sul versante giudiziario, ad indagare i presunti abusi affidandone tempestivamente alla giustizia i responsabili. Il Segretario generale è tenuto a monitorare il perfezionamento di tali impegni nonché, sulla base di una analisi più approfondita, a favorire una migliore cooperazione tra tutti gli attori Onu finalizzata a fornire una risposta sistemica alla questione della violenza sessuale, nel frattempo procedendo a più nomine femminili tra i protection advisers delle missioni di peacekeeping.

Il complesso delle risoluzioni sopra richiamate, alle quali va aggiunta anche la risoluzione 1888 (2009) con la quale il Consiglio di Sicurezza tra le misure atte a fornire protezione a donne e bambini contro la violenza sessuale in situazioni di conflitto, individua la figura del rappresentante speciale del Segretario Generale Onu incaricato di dirigere e coordinare l’operato delle Nazioni Unite sul tema, rappresenta la cornice predisposta dal Consiglio per la prevenzione e repressione della violenza sessuale in relazione ai conflitti.

 

Il Rappresentante Speciale ONU per le violenze sessuali in situazioni di conflitto

La carica di Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per le violenze sessuali in situazioni di conflitto è ricoperta dal 22 giugno 2012 da Zainab Hawa Bangura, cittadina della Sierra Leone, che è subentrata a Margot Wallström.

I focal points del mandato della Rappresentante Speciale sono costituiti dal contrasto all’impunità dei responsabili, dall’empowerment delle donne colpite al fine di ristabilire il godimento dei loro diritti, dall’implementazione di politiche idonee a sostenere un approccio globale alla violenza sessuale, dall’armonizzazione su scala internazionale della risposta alle violenze e dal miglioramento della comprensione della violenza sessuale nella sua dimensione di tattica di guerra. La Rappresentante, inoltre, metterà in risalto la necessità che sia condotta a livello nazionale titolarità, leadership e responsabilità nel contrasto della violenza sessuale.

 

Il Team of Experts on the Rule of Law/Sexual Violence in Conflict - TOE

La risoluzione 1888 (2009), a fronte della mancanza di progressi sul contrasto alla violenza sessuale conflict-related ha istituito il Team of Experts on the Rule of Law/Sexual Violence in Conflict - TOE da dispiegare in presenza di situazioni di particolarmente gravi come strumento di assistenza per le autorità nazionali nel rafforzamento della rule of law. Nel novembre 2009 il comitato direttivo di UN Action Against Sexual Violence ha coinvolto nel progetto TOE  il Dipartimento delle Operazioni di Peacekeeping (DPKO), l'Ufficio dell'Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR) l’UNDP (United Nation Development Programme).

 

L’UN Action Against Sexual Violence

UN Action Against Sexual Violence unisce 13 organismi delle Nazioni Unite, con l'obiettivo di porre fine alla violenza sessuale nei conflitti in uno sforzo concertato per migliorare il coordinamento e la responsabilità, ampliare la programmazione e sostenere gli sforzi nazionali per prevenire la violenza sessuale, rispondendo in modo efficace alle esigenze dei sopravvissuti. E’ promotore della International Campaign to Stop Rape & Gender Violence in Conflict (http://www.stoprapenow.org/take-action/).

 

Gli sviluppi più recenti

Nel secondo rapporto sulla violenza sessuale nelle situazioni di conflitto[23], che monitora l’implementazione delle risoluzioni 1820 (2008) e 1888 (2009), presentato il 14 marzo 2013 e relativo al periodo dicembre 2011-dicembre 2012, il Segretario generale Ban Ki-moon ha sottolineato che nonostante i progressi nell’abbattimento del muro di silenzio che  circonda l’uso sistematico della violenza sessuale come tattica di guerra, questa persiste anche a lungo dopo la fine della fase in armi dei conflitti, con atti di violenza che colpiscono donne e ragazze in modo sproporzionato ma che si rivolgono anche contro uomini e ragazzi. D’accordo con la sostanza di tale analisi si è dichiarata anche la Rappresentante Speciale Zainab Hawa Bangura che ha sottolineato, tuttavia, la necessità che dal Consiglio di Sicurezza emerga un messaggio inequivocabile di intolleranza verso la violenza sessuale nei conflitti da parte di una Comunità internazionale pronta a dispiegarvi contro tutta la propria forza.

Il 24 giugno 2013 il Consiglio di sicurezza ha adottato all’unanimità la risoluzione 2106 (2013) specificamente focalizzata sul tema della violenza sessuale in situazioni di conflitto armato. Il documento aggiunge ulteriori dettagli operativi alle precedenti risoluzioni sul tema e ribadisce la necessità di sforzi più intensi da parte di tutti gli attori, non solo il Consiglio di Sicurezza e le parti di un conflitto armato, ma tutti gli Stati membri e gli enti delle Nazioni Unite, per l’attuazione dei mandati promananti dal complesso delle risoluzioni sul tema e per la lotta all’impunità per questi crimini.

Il Segretario generale dell’Onu ha presentato il 4 settembre 2013 il Rapporto su donne, pace e sicurezza[24], che fa il punto sull’implementazione della risoluzione 1325. Il Rapporto chiede maggiore attenzione all’intero spettro d minacce cui le donne e le ragazze sono sottoposte e sottolinea che il Consiglio di Sicurezza non sempre tiene in considerazione i legami tra sicurezza e partecipazione delle donne.

Sulla base delle persistenti lacune segnalate in questo Rapporto, il Consiglio di sicurezza ha adottato, il 18 ottobre 2013, la risoluzione 2122 (2013) volta a dirigere maggiore attenzione sulla leadership e la partecipazione delle donne nei processi di risoluzione dei conflitti e nel peacebuilding. La risoluzione esprime l’intenzione del Consiglio ad accrescere l’attenzione sull’agenda donne, pace e sicurezza in tutte le aree di intervento, con particolare attenzione a quelle della protezione dei civili nei conflitti armati, del peacebuilding, della promozione della rule of law, delle minacce alla pace internazionale causate da atti di terrorismo, ecc.


Le iniziative internazionali per la lotta
ai matrimoni precoci e forzati
(a cura del Servizio Studi)

L'espressione inglese "child marriage" (matrimonio precoce) descrive un'unione, legale o di consuetudine, tra individui, almeno uno dei quali ha un'età inferiore a 18 anni. Il fenomeno, diffuso nei paesi in via di sviluppo e soprattutto in ambienti rurali, interessa entrambi i sessi ma in misura di gran lunga maggiore le ragazze. Su queste ultime, del resto, il matrimonio ha significative conseguenze in termini non solo di negazione dell'infanzia ma anche di isolamento sociale, mancato accesso all'educazione, mancata possibilità di programmazione familiare.

Le stime dell'UNICEF più recenti indicano che globalmente (Cina esclusa) 70 milioni di donne tra i 20 e i 24 anni - circa una su tre - si sono sposate prima dei 18 anni: di queste, 23 milioni si sono sposate addirittura prima di aver compiuto 15 anni. A livello globale, quasi 400 milioni di donne di età compresa tra 20 e 49 anni (oltre il 40%, del totale) si sono sposate in minore età [25].

I matrimoni forzati anteriori al compimento del diciottesimo anno di età riguardano, secondo i dati Unicef del 2012, il 41% delle donne di età compresa tra i 20 e i 49 anni, con una maggiore incidenza del fenomeno in Africa orientale e sud-est asiatico.

Si tratta di una violazione dei diritti umani che si traduce in un forte rischio per la salute delle ragazze, sottoposte a gravidanze precoci e ripetute e a episodi di violenza domestica, con ricadute gravi sull’alfabetizzazione e sul livello di sviluppo socio-economico di interi Paesi. 

Il 18 dicembre 2013 l'Assemblea generale dell'ONU ha adottato, su stimolo e proposta della propria 3a Commissione (Sociale, umanitaria e culturale), una prima risoluzione sul matrimonio precoce e forzato. In questo testo si rinviava all'anno successivo (69a sessione) per un approfondimento sul tema.

Il 18 dicembre 2014 è stata adottata la risoluzione A/RES/69/156. Questo testo, per quanto non giuridicamente vincolante, è stato definito "storico" da osservatori ed operatori del settore[26]. Contiene un appello agli Stati perché si accertino che il matrimonio abbia luogo solo con il consenso informato, libero e pieno di entrambe le parti e perché sviluppino e pongano in essere risposte comprensive e coordinate per eliminare il matrimonio precoce e forzato (par. 1 e 2).

Una particolare enfasi viene posta sull'educazione femminile, ritenuta "uno dei modi più efficaci per evitare e porre termine ai matrimoni tra bambini, precoci e forzati e per aiutare le ragazze e le donne sposate a fare scelte più informate sulle loro vite" (par. 4).

Degno di menzione è il par. 5, in cui si sollecitano gli Stati a riconoscere e promuovere i diritti umani di tutte le donne, tra cui "il loro diritto ad avere il controllo e a decidere liberamente e responsabilmente su questioni relative alla propria sessualità, incluse la salute sessuale e riproduttiva, libere da coercizioni, discriminazioni e violenza".

Il nostro Paese ha fortemente sostenuto l’adozione di questa risoluzione,  aderendo al gruppo transregionale che promuove iniziative multilaterali volte all’adozione di risoluzioni dedicate al fenomeno ed alla “Carta internazionale” in materia di mutilazioni genitali femminili e matrimoni forzati finalizzata al summit di Londra tenutosi nel luglio 2014 sotto l’egida dell’UNICEF.

In occasione della 69 a Sessione ordinaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia ha promosso l’evento “Ending Child Marriage: Towards a More Gender Equitable World” per promuovere maggiore consapevolezza su un fenomeno che ha un impatto drammatico sulla popolazione femminile e sulle prospettive di sviluppo socio-economico.

L'Assemblea generale ha convenuto di riprendere di nuovo l'argomento in occasione della propria 71a Sessione, nel settembre 2016.

 

I matrimonio forzati in Italia

Si segnala che nel maggio scorso il Ministero delle Pari opportunità ha pubblicato nel maggio 2014 un rapporto di ricerca sul matrimonio forzato in italia, svolta nel 2014 dall’ONLUS Le Onde, dal titolo Il matrimonio forzato in Italia: conoscere, riflettere, proporre[27] in cui il fenomeno viene contestualizzato nelle culture ospiti del territorio italiano e vengono formulate specifiche raccomandazioni, tra cui quella di orientare le strategie e le misure di prevenzione e contrasto al matrimonio forzato al fine di favorire un approccio di genere al fenomeno, considerandolo come una forma di violenza domestica e verso le donne.

Il documento formula una serie di indicazioni praticabili per conoscere ed intervenire sul fenomeno in Italia: la prima delle quali riguarda la necessità di conoscere il fenomeno,  per quanto concerne le principali caratteristiche e la estensione sul nostro territorio. Ciò al fine di effettuare una stima del fenomeno a livello nazionale, sulla base di due diverse rilevazioni campionarie rivolte ai cittadini stranieri residenti in Italia, di elaborare indicazioni per la raccolta di dati “sentinella” e produzione di indicatori di rischio per il monitoraggio, attraverso:

·     dati e informazioni già correntemente raccolti dall’Istat provenienti dall’espletamento di attività istituzionali, elaborati e disaggregati ad hoc per intercettare eventuali fenomeni;

·     dati e informazioni provenienti dall’attività di servizi pubblici e no profit, centri antiviolenza, agenzie scolastiche, helpline nazionali sulla violenza verso le donne o sulla tratta o sulla violenza ai minori, che possano intercettare richieste di aiuto o individuare situazioni di rischio (attraverso l’introduzione di metodiche di rilevamento specifiche).

Strutturare un’indagine ad hoc per la stima del fenomeno e la conoscenza  sull’intero territorio nazionale delle caratteristiche e della prevalenza a livello regionale: un’Indagine sostanzialmente qualitativa, con eventuali ricadute quantitative riguardo alle presenze in Italia ed alle concentrazioni regionali, che potrebbe ispirarsi all’impianto di quelle realizzate in Francia, in Svizzera o in Gran Bretagna (già citate nel presente rapporto) per analizzare da un lato la percezione del fenomeno da parte di chi opera nel sistema di aiuto, dall’altro raccogliere storie e testimonianze di vittime o potenziali vittime.

La seconda indicazione riguarda l’armonizzazione delle misure e degli interventi in favore delle vittime di violenza di genere contro donne italiane e straniere nelle sue varie declinazioni, ivi compresa la tratta a scopo di sfruttamento sessuale. In questo quadro andrebbe inserito il Matrimonio Forzato, correlandolo anche al matrimonio precoce (che vede un focus specifico nelle politiche e nelle misure di protezione dei minori di età) e al matrimonio di convenienza. Un’ulteriore correlazione si pone con le politiche e le misure in favore degli immigrati e d’altro canto con la verifica  del  fenomeno dei  matrimoni e delle gravidanze precoci in Italia (anche per le  italiane in questo caso).

La terza riguarda il mantenere il focus di ogni misura e di ogni intervento fortemente gender oriented e declinato su un piano interculturale che veda gli stessi soggetti migranti come protagonisti , esigendo una programmazione adeguata in materia a livello regionale, ivi compresa quella delle regioni obiettivo convergenza

La quarta riguarda lo sviluppo di un insieme di azioni per migliorare il sistema che rendano maggiormente sensibile al tema e migliorino le competenze professionali di chi interviene nell’aiuto alle vittime di violenza di genere ed agli organismi che si occupano di migranti.

La quinta riguarda l’incardinamento concettuale del Matrimonio Forzato (in questo caso anche di quello precoce) nel quadro della violenza di genere contro le donne, assimilabile alla violenza nelle relazioni di intimità per le donne adulte ed alle violenze su bambini e bambine per i matrimoni precoci o infantili

Infine, il piano delle iniziative legislative, la ricerca sostiene l’esigenza di dare piena attuazione alla Convenzione di Istanbul, operando sui versanti della penalizzazione (attraverso la previsione di specifiche aggravanti ai reati già previsti nel nostro sistema penale), delle conseguenze civili dei matrimoni forzati (conferendo l’iniziativa processuale, non solo alla parte interessata, ma anche al Pubblico Ministero, purché in accordo con la persona costretta ed adottando norme di favore sul patrocinio gratuito nel giudizio).

Con riferimento allo status di residente, l’indicazione di Istanbul (art. 59) impone di intervenire “conformemente al diritto nazionale”. Il rapporto di ricerca auspica pertanto un adattamento del nostro ordinamento ai principi posti dalla Convenzione: a) per l’ottenimento di un titolo di soggiorno autonomo, rispetto alle vicende del vincolo coniugale; b) per la sospensione della espulsione; c) per l’ottenimento di un titolo di soggiorno rinnovabile per motivi umanitari o giudiziari; d)per favorire il rientro a pieno titolo nello stato di provenienza; 4) gli attuali ordini di protezione del giudice civile potrebbero esser espressamente e specificamente rimodulati sulla esigenza di tutelare le vittime dalle illecite pressioni.

 

 


La cooperazione parlamentare
nell’ambito delle Nazioni Unite
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali)

XVII LEGISLATURA

 

 

Il 12 maggio 2009 l’Italia ha presentato la propria candidatura al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2017-2018. Le elezioni si terranno nell'autunno 2016. Attualmente sono candidati, per i due posti a disposizione del nostro gruppo regionale, anche Paesi Bassi e Svezia.

 

 

Incontri

Il 20 novembre 2014, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.

Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a New York (a latere della   seconda riunione del Comitato preparatorio della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace, Hervé Ladsous, e il 18 novembre il Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.

L’11 novembre 2014, la Presidente Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma Alimentare Mondiale.

Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini è intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l'impatto umano. La prospettiva dell'UNRWA (Agenzia dell'ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli operatori dell'informazione".

Il 29 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.

Il 22 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila B. Keetharuth.

La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti d'America dal 20 al 23 maggio 2014, si è recata in visita, il 22 maggio, presso le Nazioni Unite, dove ha incontrato funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.

Il 14 novembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell'ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab Hawa Bangura.

Il 24 ottobre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore per la stabilità della regione", con il Commissario generale dell'Agenzia ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), Filippo Grandi.

Il 18 settembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.

La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha ricevuto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il 9 aprile 2013

 

Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della volontà popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.

 

La partecipazione di parlamentari italiani alle sessioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite è la principale sede di decisione e l'organo più rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale ordinaria dell'Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in qualità di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.

Nelle precedenti legislature, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si è recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale

Nella XVII legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni:

·        69ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione era composta dai deputati Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice Presidente della Commissione Esteri e Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della NATO.

·        68ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione era composta dai deputati Deborah Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed i rapporti con l’Unione europea, Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del Comitato permanente per i diritti umani.

 

La partecipazione di parlamentari italiani alle principali Conferenze ONU

Sotto l’egida dell'ONU, vengono organizzati summit, Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l'adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle questioni più delicate che l'ONU ha in agenda. La frequenza e l'importanza di tali appuntamenti sono tali da coinvolgere l'attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo, ma anche dei Parlamenti e della società civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell'Unione Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine delle Conferenze. 

Il Parlamento partecipa regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite sullo stato delle donne (CSW) ed alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP).

La Commissione sullo stato delle donne (CSW)

La Commissione sullo status delle donne (CSW) è stata istituita dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946, come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito principale della Commissione, il cui mandato è stato esteso nel 1987 (risoluzione ECOSOC 1987/22), è quello di elaborare rapporti e fornire raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo politico, economico, sociale e dell’istruzione.

La Commissione presenta, inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.

Nella XVII legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alla 58^ Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era composta dai deputati Valeria Valente (PD), Presidente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare.

 

La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della concentrazione in atmosfera dell'anidride carbonica. Più recentemente, nel 1997, è stato approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto. Esso è significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).

Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare i progressi e valutare il percorso da seguire per l'attuazione della Convenzione. Il Segretariato dell'UNFCCC supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L'Italia ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

 

Nella XVII legislatura si è tenuta a Varsavia dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualità di osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione Ambiente.

L'ultima Conferenza (COP20) si è tenuta a Lima, dal 6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente.

 



[1]     A cura del Servizio Affari internazionali del Senato, con integrazioni predisposte dal Servizio Studi della Camera.

[2]     Per un approfondimento sulla storia della CSW e sui risultati raggiunti negli ultimi decenni si rimanda all’Approfondimento dell’Osservatorio parlamentare curato dal Cespi.

[3]     Si veda il rapporto annuale 2013-2014 di UN Women, pag. 5. L'importanza degli obiettivi concordati al livello internazionale " per galvanizzare appoggio politico e risorse su una base coordinata" è, del resto, confermato in termini generali in uno studio del Parlamento europeo relativo agli obiettivi di sviluppo del millennio (p. 7).

[4]     Si segnala anche che la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del senato della Repubblica il 22 marzo 2005 ha dedicato una seduta alle indicazioni risultanti dai lavori della Conferenza sulla condizione delle donne ("Beijing + 10").

[5]     Si veda il Comunicato stampa dell'evento.

[6]     Per un'analisi delle sfide e dei risultati raggiunti, si rinvia al rapporto "Millenium Development Goals, 2014". Uno studio del Parlamento europeo del 2014, invece, è focalizzato sulle sfide e risultati raggiunti, per le donne e le ragazze, nell'attuazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio, nella prospettiva dell'Unione europea. UN Women è, comunque dell'opinione che gli obiettivi di sviluppo del millennio, pur avendo il merito di avere galvanizzato l'attenzione e l'azione globale, abbiano "fatto poco per tagliare le radici della discriminazione e la violenza contro le donne e le ragazze" (Rapporto annuale 2012-2013, p. 5).

[7]     Challenges and achievements in the implementation of the Millenium development goals for women and girls from a European Union perspective, p. 11.

[8]     OECD, "Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 13.

[9]     Ibidem, p. 14.

[10]   European Institute for gender equality, Beijing +20: the 4th review of the implementation of the Beijing platform for action in the EU member states, p. xiii.

[11]   Nella presente risposta e nelle successive le informazioni attribuite al "Governo italiano" sono tratte dal rapporto "Risposte fornite dal Governo italiano  al Questionario della Commissione economica delle Nazioni Unite sull'attuazione della Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di azione (1995) e sugli esiti della 23a Sessione speciale dell'Assemblea generale (2000)".

[12]   Il dato non comprende il Presidente del Consiglio Renzi e tiene conto delle dimissioni del ministro Maria Carmela Lanzetta a fine gennaio 2015.

[13]   Risposte fornite al Questionario della Commissione economica delle Nazioni Unite sull'attuazione della Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di azione (1995) e sugli esiti della 23a Sessione speciale dell'Assemblea generale (2000), pag. 59

[14]   OECD, "Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 13.

[15]   OECD, "Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 15.

[16]   Una differenza sostanziale tra i due generi riguardo il livello salariale e una persistente segregazione occupazionale sono confermate anche da uno studio del Parlamento europeo. In merito l'OSCE ricorda che "disuguaglianza di genere vuol dire non solo rinunciare a importanti contributi che le donne fanno all'economia ma anche sprecare anni di investimento nell'educare ragazze e giovani donne" senza che esse possano poi accedere ai livelli più alti della carriera.

[17]   OECD, "Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 14.

[18]   OECD, "Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 14: "Se i libri di testo forniscono esempi di infermiere donne e ingegneri maschi (...) quali attitudini svilupperanno gli alunni verso queste materie?"

[19]   In proposito si segnala il rapporto della European Union Agency for Human Rights "Violence against women: an EU-wide survey".

[20]   Nel rapporto dello special rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze si legge che "dall'inizio degli anni '90, il numero di omicidi in cui uomini hanno ucciso uomini è diminuito, mentre è aumentato il numero di donne uccise da uomini".

[21]   (https://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0338&tipo=stenografico#sed0338.stenografico.tit00050).

[22]   Participation of women in delegations to the International Labour Conference: update, marzo 2014.

[23] S/2013/149

[24]   S/2013/525

[25]   Per dati sull'incidenza del matrimonio precoce a livello mondiale ed un'introduzione alla tematica si rinvia ai rapporti dell'UNICEF ("Ending child marriage. Progress and prospects", 2013) e dell'United Nations Population Fund ("Marrying too young. End child marriage", 2012).

[26]   Si vedano, in questo senso, le dichiarazioni di associazioni quali Girls not brides e Plan.

[27]   http://www.pariopportunita.gov.it/images/ricerca_mf_2014.pdf