Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri |
Titolo: | 59a Sessione della Commissione ONU sullo stato delle donne - (New York, 6-10 marzo 2015) |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 156 |
Data: | 04/03/2015 |
Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari |
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
59a Sessione
della Commissione ONU sullo stato delle donne |
(New York,
6-10 marzo 2015) |
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n. 156 |
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4 marzo 2014 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Affari Esteri ( 066760-4172 / 066760-4939 – * st_esteri@camera.it |
Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e uffici: |
Servizio Rapporti
internazionali ( 066760-3948 / 066760-9515 – * cdrin1i@camera.it Senato
della Repubblica: Servizio Affari Internazionali ( 066706- 2989– * segreteriaaaii@senato.it |
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File:
es0331.doc |
INDICE
§ Premessa
Il contrasto alla violenza contro
le donne nell’ordinamento italiano (a cura del Servizio Studi)
§ Le disposizioni penali applicabili alle ipotesi di
violenza contro le donne
§ I maltrattamenti in famiglia
§ I reati di violenza sessuale
§ Approfondimento statistico sul reato di stalking
§ Le mutilazioni genitali femminili
§ La ratifica della Convenzione di Istanbul
§ I contenuti della Convenzione
§ Lo stato dei fondi per il contrasto alla violenza di
genere
La partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale (a cura del Servizio Studi)
§ L'Italia secondo gli indici internazionali
§ Giurisprudenza costituzionale
§ A livello di città metropolitane e province
§ Le quote di genere nei sistemi elettorali: una analisi
comparata
§ La risoluzione 1820 del 2008
§ Le risoluzioni 1960 (2010) e 1888 (2009)
§ Il Rappresentante Speciale ONU per le violenze sessuali
in situazioni di conflitto
§ Il Team
of Experts on the Rule of Law/Sexual Violence in Conflict - TOE
§ L’UN Action Against Sexual Violence
Le iniziative internazionali per la
lotta ai matrimoni precoci e forzati (a cura del Servizio Studi)
§ I matrimonio forzati in Italia
§ Incontri
§ La
partecipazione di parlamentari italiani alle sessioni dell'Assemblea generale
delle Nazioni Unite
§ La partecipazione
di parlamentari italiani alle principali Conferenze ONU
La 59a Sessione della Commissione sullo stato delle
donne (CSW)
si svolgerà a New York, nella sede delle Nazioni Unite, dal 9 al 20 marzo 2015[2]. Alla sessione parteciperanno rappresentanti degli Stati membri, organismi delle Nazioni Unite ed organizzazioni
non governative (ONG) accreditate presso l'ECOSOC da
tutte le regioni del mondo.
La CSW
è una Commissione funzionale del Consiglio economico e sociale delle Nazioni
Unite (ECOSOC) ed è la principale sede politica mondiale dedicata
esclusivamente all’eguaglianza di genere e all’emancipazione della donna. E'
composta da 45 Stati membri delle Nazioni Unite, eletti dal Consiglio economico
e sociale per quattro anni, sulla base del principio dell’equa distribuzione
geografica. La composizione
attuale prevede 13
membri dall’Africa, 11 dall’Asia, 9 dall’America Latina e Caraibi, 8
dall’Europa occidentale e altri Stati, 4 dall’Europa orientale. I Paesi che non
fanno parte della Commissione partecipano a tutte le fasi del dibattito e del
negoziato, con diritto di parola ma non di voto.
Nella
preparazione delle riunioni annuali, la CSW è assistita da un Bureau, i cui membri sono in carica per due anni. Questi incontri sono
un'occasione per valutare i progressi, identificare le sfide, definire gli standard
e formulare politiche concrete per promuovere l’eguaglianza di genere e
l’emancipazione femminile. Per tali attività la CSW si avvale del supporto di UN Women, organismo delle Nazioni unite per
l’eguaglianza di genere e l’empowerment femminile.
La
sessione del marzo 2015 non sarà strutturata, come di consueto, su un tema
prioritario ed uno emergente, ma sarà interamente focalizzata sulla revisione e
valutazione dell'attuazione della Dichiarazione di Pechino, del Programma di
azione e degli esiti della 23a sessione speciale delle Nazioni
Unite.
La
Conferenza di Pechino (1995) è stata la quarta di una serie di conferenze
mondiali sulle donne organizzate dalle Nazioni Unite ed ha rappresentato la
conclusione di un lungo processo preparatorio, internazionale e regionale, al
termine del quale sono state adottate la Dichiarazione di Pechino e la
Piattaforma d'Azione per l'uguaglianza, lo sviluppo e la pace.
Non
si tratta di documenti giuridicamente vincolanti ma di impegni politici,
assunti dagli Stati firmatari, a lavorare verso l'uguaglianza tra uomini e
donne e l'emancipazione femminile. In particolare, la Piattaforma è stata
definita, anche dopo 20 anni, "l'impegno
internazionale più ambizioso, per quanto incompiuto, per realizzare
l'uguaglianza di genere e l'empowerment delle donne"[3].
La
Piattaforma d'azione contiene un approccio completo verso l'autonomia delle
donne che ribadisce il principio fondamentale in base al quale i diritti umani
delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrale e indivisibile
dei diritti umani universali. La Piattaforma, infatti, mira a promuovere e
tutelare il pieno godimento di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali
di tutte le donne durante l'intero ciclo di vita.
Il documento contiene tre capitoli iniziali
(Obiettivi, contesto mondiale, aree critiche). Le dodici "aree
critiche" sono quindi illustrate in dettaglio (povertà; istruzione e formazione; salute; violenza
di genere; conflitti armati; disparità in economia; disuguaglianza nei processi
decisionali; meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne;
diritti fondamentali; donne e media;
donne e ambiente; le bambine). Per ognuna di esse viene effettuata un'analisi del problema e vengono elencati gli obiettivi
strategici che Governi, organizzazioni internazionali e società civile
dovrebbero perseguire.
Revisioni del livello di attuazione
della piattaforma sono state condotte regolarmente ogni cinque anni:
1)
Pechino
+5, nel 2000, in occasione della 23a sessione speciale
dell’Assemblea generale dell’ONU. Ha costituito un'occasione per
misurare i progressi compiuti a 5 anni dall’approvazione della Piattaforma
d’azione. I Governi hanno approvato una Dichiarazione politica nella quale hanno ribadito
il proprio impegno verso gli obiettivi contenuti nella Piattaforma di Pechino
ed hanno accolto con favore i progressi compiuti. In considerazione del
mancato, completo raggiungimento degli obiettivi medesimi hanno, però,
concordato ulteriori azioni ed iniziative al livello locale, nazionale,
regionale ed internazionale. La risoluzione Azioni e iniziative per dare attuazione alla Dichiarazione e alla
Piattaforma di Pechino contiene un'analisi
puntuale dei risultati ottenuti e degli ostacoli riscontrati per ognuna delle
dodici aree critiche. In particolare, tra le tematiche su cui concentrare
ulteriori sforzi, figurano: la partecipazione delle donne alla vita politica e
alle decisioni in materia di politica economica; la violenza domestica; alcune
pratiche tradizionali quali le mutilazioni genitali, i matrimoni precoci, la
mortalità materna; varie priorità sanitarie quali la prevenzione di gravidanze
indesiderate, di malattie oncologiche e a trasmissione sessuale.
2) nel marzo 2005 una
valutazione dell'attuazione della Dichiarazione di Pechino è stata condotta
all'interno della 49a sessione della CSW. In un rapporto
("Pechino a 10 anni ed oltre") si lamentano "l'ampia divergenza
tra le politiche e la loro attuazione" e "i progressi solo limitati
(...) nell'attuare l'impegno all'integrazione della prospettiva di genere"
(p. 1, Introduzione). Accanto ad un'analisi puntuale di ognuna delle aree critiche,
il rapporto mette in luce l'importanza di maggiori sforzi per coinvolgere
uomini e ragazzi, il potenziale di effettiva collaborazione tra i governi e le
associazioni femminili e la necessità di riconoscere ed agire sui bisogni
specifici di alcuni gruppi di donne ad esempio sulla base dell'età, della
razza, della cultura o di eventuali disabilità, nonché la necessità di
migliorare la disponibilità, la qualità e l'uso delle statistiche di genere[4];
3) Pechino +15,
nel 2010: il 1° e 2 marzo 2015 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha
commemorato il quindicesimo anniversario dell'adozione della Dichiarazione di
Pechino[5]. Una revisione dell'attuazione ha di nuovo avuto luogo all'interno
della 54a sessione della CSW. Nell'ottica di superare gli ostacoli
restanti e le nuove sfide, si è enfatizzato l'aspetto relativo alla
condivisione di esperienze e buone prassi, con una serie di eventi paralleli,
che hanno creato opportunità di scambio di informazioni e di buone prassi. Un
questionario è stato somministrato agli Stati membri al fine di verificare
puntualmente il livello di attuazione della Dichiarazione e della Piattaforma
nelle singole realtà nazionali. Le risposte fornite dal Governo
italiano sono contenute in un rapporto.
L'ulteriore
valutazione da condurre a New York in occasione della 59a sessione
della CSW dovrebbe prendere atto della lentezza dei progressi e del persistere
di ostacoli e divari importanti nell'attuazione delle 12 aree critiche, nonché
delle nuove sfide emerse nell'eliminazione della discriminazione contro donne e
ragazze. Dovrebbe contenere l'impegno degli Stati membri a conseguire dapprima
risultati misurabili, quindi a realizzare pienamente l'uguaglianza di genere,
l'empowerment delle donne e i diritti
umani di donne e ragazze entro una data precisa. E' possibile che un impegno
preciso venga assunto anche per il sostegno, anche in termini di risorse, di
organizzazioni femminili e della società civile a livello locale, nazionale,
regionale, e globale.
Negli
scorsi anni gli sforzi per l'attuazione della Dichiarazione di Pechino e della
Piattaforma di azione sono stati affiancati da quelli compiuti, dalla Comunità
internazionale, per il conseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del millennio, contenuti nella dichiarazione delle Nazioni Unite del
Millennio nel settembre 2000. Si tratta di otto obiettivi che 191 Stati si sono
impegnati a realizzare, entro il 2015, al fine di rispondere ai bisogni dei più
poveri. Particolarmente vicini alle finalità ed allo spirito della
Dichiarazione di Pechino sono gli obiettivi n. 3 (Promuovere l'uguaglianza di
genere e l'autonomia delle donne) e n. 5 ("migliorare la salute
materna")[6].
La discussione sugli obiettivi di
sviluppo del millennio proseguirà a New York il prossimo settembre, in
occasione del Vertice sullo sviluppo sostenibile post 2015, durante il
quale è previsto il lancio di un'ambiziosa agenda post-2015. E' dunque possibile che
le valutazioni avanzate in occasione della 59a sessione della CSW
abbiano un'eco anche in occasione del vertice di settembre.
Durante i lavori della 59a sessione si
svolgerà, come di consueto, una giornata parlamentare, promossa dall'Unione interparlamentare e da UN Women. L'evento
avrà luogo nella sala dell'Ecosoc, presso la sede delle Nazioni Unite.
I lavori si svolgeranno in tre sessioni, dedicate
rispettivamente a:
I)
Pechino e oltre: cosa serve ancora per realizzare l'uguaglianza di genere?
Partendo dal
presupposto che gli impegni contenuti nella dichiarazione di Pechino e nella
Piattaforma d'azione sono stati onorati solo parzialmente, la sessione si
propone di esaminare le conquiste più importanti e gli ostacoli che ancora
persistono nell'attuazione.
A seguito degli interventi di alcuni esperti, i
Parlamentari saranno invitati a rispondere ad alcune domande:
Quali
sono le conquiste più importanti dopo Pechino, anche in termini di
partecipazione delle donne alla politica?
Uno studio del Parlamento europeo[7], relativo
agli obiettivi di sviluppo del millennio, cita tra i progressi più visibili
l'accesso all'istruzione primaria, con la parità tra i due generi raggiunta in
numerosi paesi, per quanto disparità rimangano nell'educazione secondaria e
terziaria. Un rapporto dell'OCSE riporta, anzi, che "le ragazze oggi
ottengono risultati migliori dei ragazzi in determinati settori dell'educazione
ed è meno probabile che abbandonino il ciclo di studi"[8]. In quel
medesimo rapporto, del resto, si afferma la necessità di continuare ad
"assicurare il continuo miglioramento della qualità dell'educazione"[9].
Il rapporto dell'Istituto europeo
sull'uguaglianza di genere (EIGE) rileva, però, che
anche con una formazione accademica simile, le traiettorie di carriera di
uomini e donne variano sensibilmente, lasciando aperta la questione se le donne
siano in grado di capitalizzare sulla propria educazione nello stesso modo
degli uomini. Il rapporto conclude che "tale asimmetria rappresenta un
grande spreco di risorse e di talento"[10].
Altro importante risultato raggiunto, a giudizio
dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere, è
l'incremento di produzione e divulgazione di statistiche disaggregate per sesso
nonché la creazione di strutture specifiche dedicate all'uguaglianza di genere,
tra cui lo stesso EIGE.
Si ricorda che proprio l'Istituto europeo ha
elaborato l'indice di
uguaglianza di genere, lanciato nel 2013. Si tratta di uno strumento di
misurazione statistica che sintetizza la complessità dell'uguaglianza di genere
come concetto multidimensionale.
Il Governo italiano[11],
nell'elencare le più importanti conquiste nel nostro paese, ha citato:
1. l'adozione
di alcuni testi legislativi. Innanzitutto il Codice delle pari opportunità tra
uomo e donna (decreto legislativo n. 198/2006), che ha riunito undici testi
legislativi sulle pari opportunità in un unico decreto di 59 articoli. Una
normativa ad hoc è poi stata adottata
in materia di attuazione del principio della parità di trattamento tra uomini e
donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura (legge
n. 196/2007, attuazione di una direttiva comunitaria);
2. la
creazione di vari organismi e meccanismi istituzionali stabiliti
sull'uguaglianza di genere (il Ministro per le pari opportunità, il
Dipartimento per le pari opportunità all'interno della presidenza del Consiglio
dei ministri, nonché la Consigliera
nazionale di parità, che promuove e verifica la
discriminazione di genere ed assume iniziative per il rispetto del principio di
non discriminazione nell'ambiente di lavoro);
3. la
disponibilità di specifiche risorse finanziarie, a valere sia sul budget nazionale che su quello
dell'Unione europea;
4. l'approvazione
della legge n. 120/2011 (Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58,
concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo
delle società quotate in mercati regolamentati), che regola la rappresentanza
femminile minima da garantire negli organi di amministrazione e controllo delle
società a partecipazione pubblica.
Con specifico riferimento alla partecipazione alla
politica, il Governo italiano riporta che,
sebbene l'Italia sia - per motivi principalmente culturali - un paese in cui la percentuale di donne in
posizioni decisionali è bassa, uno sviluppo positivo è stato registrato negli
ultimi anni. Nel 2000 la percentuale di donne parlamentari si attestava
all'1,3 per cento alla Camera dei deputati ed all'8 per cento in Senato. Dai
dati relativi alla corrente XVII Legislatura (2013) si evince invece che la
rappresentanza femminile costituisce il 28,35 per cento al Senato della Repubblica ed il 30,95 per cento alla Camera dei deputati.
In materia, tra l'altro, nel 2004 è stata approvata
la legge n. 90 ("Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento
europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno
2004"), in cui si stabilisce che in quei procedimenti elettorali nessuno
dei due sessi possa rappresentare nelle liste dei candidati una percentuale
eccedente i due terzi del totale di lista. Nella corrente Legislatura si
ricorda poi la legge 22 aprile 2014, n. 65, che ha apportato modifiche alla
legge n. 18 del 1979 (recante norme per
l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia), tra l’altro allo scopo di
introdurre ulteriori garanzie per la rappresentanza di genere.
Per quanto concerne il Governo, vi sono sei
Ministri donna su quindici totali[12].
In ambito europeo uno studio del Parlamento europeo (2014)
conferma che le donne sono ancora sotto-rappresentate non solo in politica -
con un lieve incremento in parte dovuto al ricorso al sistema delle quote - ma
anche nel sistema giudiziario, al livello governativo e nella pubblica
amministrazione. Analoga situazione - come evidenziato dal rapporto dell'Istituto
europeo sull'uguaglianza di genere - si registra
negli organi decisionali delle istituzioni economiche e finanziarie, con una
significativa prevalenza maschile nelle banche centrali e nelle principali
compagnie a partecipazione pubblica.
Si vedano anche, in merito, le statistiche dell'Unione
interparlamentare e del Database della Commissione europea sulle
donne e gli uomini in posizioni decisionali.
Quali
azioni specifiche devono essere ancora compiute a partire dalla piattaforma di
Pechino?
UN Women ha
affrontato, nel proprio Rapporto annuale
2012-2013, il tema delle prospettive post-2015 proponendo
l'adozione al livello internazionale di un obiettivo autonomo, radicato nei
diritti umani e finalizzato ad affrontare l'ineguaglianza nelle relazioni di
potere. Tramite un approccio integrato, esso dovrebbe permettere di affrontare
tre temi critici della disuguaglianza di genere, ovvero: la libertà da violenze
per donne e ragazze, l'uguaglianza di genere nella distribuzione delle capacità
e l'uguaglianza di genere nel sistema decisionale, in istituzioni sia pubbliche
che private. Il Governo italiano ha dichiarato di condividere
questo approccio[13].
In termini generali, tenendo presente la realtà
europea, il rapporto dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere ha
individuato le seguenti, principali sfide alla realizzazione degli obiettivi
strategici:
1) gli
stereotipi basati sul genere, l'enfasi relativamente bassa data agli
atteggiamenti sociali collegati al genere e il basso livello di priorità
riconosciuto alle relative questioni;
2) la
mancanza di chiarezza delle politiche di uguaglianza di genere, senza obiettivi
strategici chiari e misurabili né finalità specifiche da raggiungere entro
scadenze specificate;
3) il
circolo vizioso in virtù del quale le donne sono svantaggiate nel mercato del
lavoro soprattutto in termini di differenza di remunerazione, il che porta le
madri a svolgere il ruolo primario di assistenza alla famiglia, una scelta che
le espone ad un maggiore rischio di povertà negli anni successivi;
4) incidere
sulla violenza contro le donne dettata da motivi di genere;
5) eliminare
lo squilibrio di genere nelle posizioni decisionali.
Le seguenti azioni specifiche vengono dunque
proposte:
1) elaborazione
di misure per evitare la povertà nelle giovani donne (16-24 anni) e nelle madri
single, considerate particolarmente a rischio;
2) affrontare
il gap di genere delle pensioni che,
a giudizio dei ricercatori dell'EIGE, assomma in sé la discriminazione di
genere nel corso della vita;
3) affrontare
gli stereotipi nell'educazione e nella scelta della carriera;
4) coinvolgere
gli uomini nella lotta alla violenza contro le donne;
5) promuovere
politiche family friendly e porre in
essere misure che possano incidere sulla tradizionale distribuzione dei compiti
domestici;
6) incidere
sulle norme, gli stereotipi e gli atteggiamenti che contribuiscono a far sì che
le donne siano sotto-rappresentate nelle posizioni decisionali.
Quali
nuove norme sociali e culturali si sono sviluppate nel corso degli ultimi 20
anni, impedendo la piena attuazione della Piattaforma d'azione?
L'importanza
del contesto sociale ed economico di riferimento è affermato in maniera
inequivoca dall'OSCE ("le questioni sono complesse e affrontarle
con successo vuol dire cambiare il modo in cui le nostre società ed economie
funzionano"[14]).
Anche il rapporto dell'Istituto
europeo sull'uguaglianza di genere conferma che un
passo importante è costituito dalla comprensione delle norme, gli atteggiamenti
e gli stereotipi che impediscono di realizzare l'uguaglianza di genere. A tal
fine si ritiene fondamentale "coinvolgere gli uomini nell'impegnarsi per una
società che sia più uguale ed inclusiva" in quanto "trasformare
l'uguaglianza di genere in una realtà richiede l'impegno di tutti".
Si segnala in proposito una ricerca curata dall'OSCE
nel 2010, dal titolo Atlas of Gender and Development:
How Social Norms Affect Gender Equality in Non-OECD Countries. Questo
rapporto mette in luce le questioni particolarmente problematiche nelle
principali regioni del mondo, come ad esempio la preferenza per i figli maschi
o i diritti di proprietà. Contiene inoltre informazioni sui singoli paesi, le
istituzioni sociali che li interessano e la loro composizione demografica.
Quali
sono le aree di maggiore priorità che richiedono attenzione in futuro per
realizzare l'uguaglianza di genere?
Il Governo afferma la necessità di un impegno significativo sul
versante occupazione, nell'ottica di migliorare le politiche di
riconciliazione tra lavoro e famiglia. Nella propria relazione riconosce come
"l'onere sostenuto dai due sessi in Italia non è ancora uguale", con
le donne che sopportano il peso maggiore del lavoro domestico e della cura dei
bambini e degli anziani. L' OSCE conferma che "le donne ancora portano il peso dei compiti della vita familiare, non
pagati ma inevitabili, come la cura dei bambini e il lavoro domestico"[15].
Aspetti di questa problematica generale, evidenziati
dal Questionario del Governo, sono: l'assunzione di lavori non qualificati da
parte delle donne, soprattutto nel Meridione, per fronteggiare la recente crisi
economica; l'ampliamento di modelli di lavoro part-time voluti dalle aziende e non legati ad esigenze di
riconciliazione; la persistenza di una "segregazione orizzontale"
(partecipazione al mercato del lavoro concentrata nel settore dei servizi, in
ambiti considerati "femminili") accanto a quella "verticale
(difficoltà ad accedere ai livelli più alti della scala gerarchica[16]); la
persistenza del "gender pay gap"
- che nel 2013 l'ISTAT aveva quantificato in una differenza pari all'11,5 per
cento della paga oraria - nonostante la legislazione in vigore contro la
discriminazione; l'insufficienza di strutture formali di cura per l'infanzia;
l'assenza di attività di bilancio di genere al livello nazionale analoghe a
quelle poste in essere, invece, da numerosi enti locali; l'assenza di una
strategia nazionale specifica di mainstreaming
di genere.
Il rapporto divulgato dallo Special Rapporteur delle Nazioni Unite
sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze" dopo la
propria missione in Italia fa riferimento alla prassi di far firmare alle
lavoratrici dimissioni in bianco prima dell'assunzione (p. 20).
Il Parlamento europeo segnala, ancora, la sovrarappresentazione
delle donne nell'economia informale, che comporta un guadagno basso e un
accesso limitato alla protezione sociale.
Per quanto concerne l'educazione, si lamenta la
scarsa presenza delle donne nei campi di studio scientifici e tecnologici e la
loro conseguente sottorappresentazione nelle rispettive carriere. Questo
elemento - non limitato solo all'esperienza italiana - è ritenuto dall'OCSE[17] preoccupante
in virtù della maggiore disponibilità di posti di lavoro in quel settore, delle
migliori prospettive di carriera e di salario, nonché per le ripercussioni che
quelle carriere hanno in termini di innovazione e crescita.
Del resto le aspirazioni educative ed occupazionali
possono essere influenzate notevolmente da stereotipi di genere, anche se
somministrati in tenera età[18]. Progetti
specifici sono stati finanziati dalla Commissione europea al fine di migliorare
il ruolo delle donne nelle istituzioni di ricerca scientifica (tra queste i
programmi PRAGES e STAGES).
Altro tema particolarmente sensibile è quello della violenza sulle
donne, soprattutto in ambito familiare[19]. Il rapporto
dell'Istituto europeo sull'uguaglianza di genere definisce la violenza
sulle donne come "la più forte
manifestazione dell'ineguaglianza di genere e una fondamentale violazione dei
diritti umani".
Nel 2012 lo Special Rapporteur
delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze
ha effettuato una missione in Italia. Dal rapporto divulgato dopo la visita emerge che proprio quella
domestica è la forma più pervasiva di violenza che le donne italiane soffrono.
Il fatto che queste forme di violenza siano in larga parte invisibili, e non
vengano denunciate, è attribuito al contesto di società patriarcale, in cui la
violenza domestica non è sempre considerata un crimine, le vittime sono spesso
economicamente dipendenti dai propri aguzzini e persiste la percezione di una
risposta delle autorità inadeguata.
Tra le varie
iniziative assunte per fronteggiare il fenomeno, il Governo italiano riporta una serie di finanziamenti per progetti
per la creazione e rafforzamento di reti locali anti violenza, per alloggi di
emergenza per le vittime e per iniziative di formazione per operatori della
sanità sull'assistenza di primo soccorso alle vittime. Tramite un intervento
legislativo ad hoc, poi, il crimine
di stalking è stato introdotto nel
sistema giuridico italiano (art. 612-bis
del codice penale).
Strettamente
correlato a questo fenomeno è il
costante aumento delle vittime di femminicidio[20]. Per contrastare il fenomeno è stato approvato il
decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 ("Disposizioni urgenti in materia di
sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di
protezione civile e di commissariamento delle province").
Un'attenzione specifica il Governo italiano ha dedicato alla lotta al traffico di esseri
umani e le misure adottate per la protezione delle vittime, con il rilascio di
titoli di soggiorno e la conseguente assistenza.
II)
Partenariati per l'uguaglianza di genere
L'esperienza maturata dopo la Piattaforma di azione
ha dimostrato che la creazione di partenariati strategici è in grado di
realizzare progressi più rapidi e sostenibili. Su questo argomento verranno
effettuate presentazioni di alcuni esperti, seguite da un dibattito. Nel corso di
quest'ultimo i Parlamentari saranno invitati a rispondere ad alcune domande,
tra le quali:
Quali
azioni hanno intrapreso i Parlamentari uomini al fine di realizzare
l'uguaglianza di genere?
Quanto alle iniziative
legislative sul tema, intraprese alla Camera dei Deputati nella corrente XVII
Legislatura, ed aventi come primo firmatario un deputato, si segnalano :
1. on.
Aniello Formisano, Disposizioni per la prevenzione e il contrasto della
violenza contro le donne e domestica, istituzione di una Commissione
parlamentare di inchiesta e delega al Governo in materia di risarcimenti alle
vittime (A.C. 2742) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0028250.pdf
2. on.
Massimiliano Fedriga, Proroga della durata del regime sperimentale di accesso
al trattamento pensionistico di anzianità in favore delle lavoratrici mediante
opzione per il calcolo secondo il sistema contributivo, di cui all'articolo 1,
comma 9, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (A.C. 2046) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0019510.pdf
3. on.
Cesare Damiano, Statuto dei lavori autonomi. Delega al Governo in materia di
semplificazione degli adempimenti, pagamenti, garanzia del credito, tutela
della maternità, revisione dei contributi previdenziali e ammortizzatori
sociali (A.C. 2017)
4. on.
Pino Pisicchio, Disposizioni per il riconoscimento dell'endometriosi come
malattia sociale e istituzione dell'Osservatorio nazionale sull'endometriosi
(A.C. 1760) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0017550.pdf
5. on.
Pierpaolo Vargiu, Norme in materia di medicina di genere (A.C. 1485) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0010340.pdf
6. on.
Marco Carra, Disposizioni in materia di raccolta, conservazione e utilizzazione
di cellule staminali da sangue del cordone ombelicale a fini terapeutici e di
ricerca (A.C. 1274) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0010350.pdf
7. on.
Ricardo Antonio Merlo, Modifica all'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n.
91, in materia di reintegrazione della cittadinanza in favore delle donne che
l'hanno perduta a seguito del matrimonio con uno straniero e dei loro
discendenti (A.C. 1269) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0006160.pdf
8. on.
Sandro Gozi, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla
legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di rinvio dell'esecuzione della pena,
di custodia cautelare in case-famiglia protette e di detenzione domiciliare,
per favorire i rapporti tra detenute madri e figli minori (A.C. 1141) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0010390.pdf
9. on.
Nicola Molteni, Nuove norme in materia di Servizio civile nazionale (A.C. 928) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0008940.pdf
10. on.
Ricardo Antonio Merlo, Modifiche alla legge 23 ottobre 2003, n. 286,
concernente la disciplina dei Comitati degli italiani all'estero (A.C. 827)
https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0007330.pdf
11. on.
Gerolamo Grassi, Disposizioni in materia di tutela dei diritti della famiglia e
istituzione dell'Autorità garante della famiglia (A.C. 683) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0004830.pdf
12. on.
Marco Fedi, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di
riacquisto della cittadinanza (A.C. 604)
https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0006380.pdf
13. on.
Enrico Costa, Modifica all'articolo 11 del decreto legislativo 7 settembre
2012, n. 155, in materia di proroga dell'entrata in vigore di disposizioni
concernenti la riorganizzazione della distribuzione degli uffici giudiziari sul
territorio (A.C. 449)
https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0003020.pdf
14. on.
Edmondo Cirielli, Delega al Governo per l'istituzione di un Servizio nazionale
militare di volontari per la mobilitazione (A.C. 46)https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0000440.pdf
15. on.
Paolo Russo, Disposizioni per la prevenzione e il trattamento dell'endometriosi
(A.C. 139)
16. on.
Luigi Bobba, Disposizioni per la promozione di un sistema di benessere sociale
mediante la valorizzazione dell'investimento familiare e generazionale, nonché
delega al Governo per la riforma degli istituti di sostegno al reddito delle
famiglie con figli e per la promozione dell'autonomia finanziaria dei giovani
(A.C. 170) https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0003900.pdf
Con riguardo all'attività di iniziativa
legislativa posta in essere dai Senatori della Repubblica nel corso della
corrente legislatura, si segnalano i seguenti disegni di legge che riguardano
la condizione della donna ed aventi come primo firmatario un senatore uomo:
1) sen.
Consiglio, Disposizioni per favorire lo sviluppo dell'imprenditoria giovanile e femminile (A.S. 1032);
2) sen. Longo,
Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di riacquisto della
cittadinanza da parte delle donne che l'hanno perduta a seguito del matrimonio
con uno straniero e dei loro discendenti (A.S. 994);
3) sen.
Nencini, Interventi per il sostegno dell'occupazione giovanile e femminile e
delega al Governo in materia di regime fiscale agevolato (A.S. 719);
4) sen. Barani,
Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354, per favorire i rapporti tra detenute madri e figli minori
e per l'istituzione di case-famiglia protette (A.S. 700);
5) sen. De
Poli, Disposizioni in materia di tutela dei diritti della famiglia e
istituzione dell'Autorità garante della famiglia (A.S. 478);
6) sen. De
Poli, Norme per la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della
salute della partoriente e del neonato (A.S. 346);
7) sen. Barani,
Disciplina dei centri pubblici e privati di raccolta, conservazione e
distribuzione del sangue da cordone ombelicale e istituzione della loro rete
nazionale (A.S. 289);
8) Sen. Ichino
ed altri, Misure fiscali a sostegno della partecipazione al lavoro delle donne
(A.S. 247);
9) Sen. Zeller,
Disposizioni in favore delle madri lavoratrici in materia di età pensionabile (A.S. 24).
Dal punto di vista dell’attività non
legislativa vanno anzitutto ricordate le mozioni discusse a approvate dalla
Camera il 13 ottobre e l’11 novembre 2014, concernenti iniziative a
sostegno delle politiche di genere.
Per quanto concerne l’attività in
Commissione, va segnalata la risoluzione dell’on. Spadoni sul rispetto dei
diritti dell’infanzia e delle donne in Iraq in riferimento alla questione
delle spose bambine, la cui discussione da parte della Commissione Affari
Esteri il 22 ottobre 2014 si è conclusa con l’approvazione della risoluzione
conclusiva n. 8-00083.
Vanno infine richiamati alcuni atti
di sindacato ispettivo in Assemblea, tutti concernenti il Piano nazionale
contro la violenza di genere e lo stalking,
sia dal punto di vista del finanziamento, che della definizione e dell’avvio
del Piano medesimo: si tratta in dettaglio delle interpellanze urgenti n.
2-00538 dell’on. Pannarale ed altri, n. 2-00544 dell’on. Roberta Agostini, n.
2-00579 dell’on. Giuliani ed altri e n. 2-00648 dell’on. Roberta Agostini ed
altri, svolte rispettivamente dalla Camera nelle date del 16 e 30 maggio, 19
giugno e 8 settembre 2014.
III)
Guidare il cambiamento globale: la leadership
delle donne nelle riunioni internazionali
Le domande sottoposte all'attenzione dei
Parlamentari sono le seguenti:
In che modo i
Parlamentari sono riusciti a coinvolgere efficacemente le organizzazioni della
società civile e le associazioni femminili per dare attuazione alle dodici aree
critiche?
Per quanto attiene alla Camera dei deputati, si rammenta che in
seno alla Commissione Affari esteri viene istituito, ormai da molte
Legislature, un Comitato permanente sui diritti umani nell’ambito del
quale hanno voce anche associazioni, esperti e soggetti attivi nella promozione
e tutela dell’uguaglianza di genere. [21]Il 25 novembre 2014 la
Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è
stata celebrata in Assemblea alla Camera con una serie di interventi di
parlamentari, inaugurata da quello della Presidente Laura Boldrini
Presso il Senato della Repubblica è attiva la Commissione
straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani la quale,
nell'attuazione dei compiti di "studio, osservazione, iniziativa"
attribuitile dalla mozione che l’ha istituita nel 2008, si è nel corso degli anni spesso avvalsa
del contributo di esponenti della società civile attivi nella promozione
dell'uguaglianza di genere e della difesa dei diritti delle donne.
In che
modo i Parlamentari hanno sostenuto, e contribuito, al mainstreaming di genere nei dialoghi e nelle risoluzioni
internazionali più importanti come quelli sulla pace e sulla sicurezza, sulla
popolazione e lo sviluppo, o sul cambiamento climatico?
L'Assemblea parlamentare della NATO si è interessata
a più riprese di donne, pace e sicurezza. Nel 2012, in particolare, è stata
svolta un'inchiesta
sull'attuazione, nei paesi membri NATO, della risoluzione 1325 (2000) del Consiglio di
sicurezza dell'ONU (sulla quale si veda il successivo
par. 3.a). Sul sito dell'Assemblea parlamentare è disponibile l'intera
documentazione relativa a tale inchiesta. Della medesima
inchiesta è stato promosso un aggiornamento nel 2013, senza però che ne siano
stati pubblicati gli esiti.
Sempre l'Assemblea parlamentare della NATO
ha approvato la risoluzione n. 381
del 2010, in cui si è rivolto l'invito ai Governi membri, ma
anche ai Parlamenti nazionali ed alle istituzioni NATO, a lavorare per
l'attuazione della risoluzione medesima, cooperando strettamente con le
organizzazioni della società civile e sviluppando una prospettiva di genere in
tutte le proprie attività.
Sensibile
all'uguaglianza di genere è l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, in seno
alla quale opera la Commissione uguaglianza e non discriminazione.
Nel corso della sua attività la Commissione ha adottato un gran numero di dichiarazioni e decisioni.
Il Consiglio d'Europa ha anche dato vita alla rete
interparlamentare "donne libere dalla violenza", in cui l'Italia
è rappresentata dalla deputata Deborah
Bergamini. La rete è attiva dal 2006 ed ha
cercato di innalzare gli standard per
la prevenzione della violenza sulle donne, la protezione delle vittime e
l'effettiva prosecuzione dei colpevoli. Dal 2011 si è posta l'obiettivo
primario di promuovere la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la
violenza domestica – della Convenzione è stata poi
autorizzata la ratifica con la legge 27 giugno 2013, n. 77.
Anche l'Unione interparlamentare ha lanciato
una campagna per porre
fine alla violenza contro le donne, illustrata sul
sito dell'organizzazione.
Quali
sono gli ostacoli all'inclusione delle donne nelle riunioni internazionali ad
alto livello e quali strategie possono essere utilizzate per aggirare tali
ostacoli (ad esempio, misure speciali temporanee per la partecipazione delle
donne alla leadership globale, percorsi preferenziali di promozione, ecc)
Un
documento dell'Organizzazione
internazionale per il lavoro (OIL)[22] illustra le
strategie poste in essere dagli Stati membri le cui delegazioni presso l'ente
hanno raggiunto la parità di genere. Tra queste si citano:
1) l'adozione
di strutturate politiche di genere nazionali;
2) l'adozione
di piani di azione e di legislazione specifica;
3) la
presenza di Ministeri di alto livello per la parità di genere;
4) l'adozione
di quote per la rappresentazione delle donne: nei Parlamenti, nell'Esecutivo,
nei partiti politici;
5) l'istituzione
di comitati parlamentari di donne e di commissioni per l'uguaglianza di genere;
6) la
predisposizione di supporto specifico per donne assieme a un training di sensibilizzazione per gli
uomini;
7) attività
di lobbying da parte dei commissioni
per l'uguaglianza sui partiti politici;
8) impegno
con la società civile;
9) strutture
istituzionali rinforzate, campagne nei confronti dell'opinione pubblica,
formazione per associazioni datoriali e sindacati.
Gli Stati che hanno raggiunto tale risultato sono,
comunque, una minoranza: l'OIL "non ha ancora raggiunto il target (...) di una massa critica del 30
per cento (di presenza femminile) negli organi decisionali". Secondo le
stime della stessa organizzazione, "al livello attuale di progresso (...)
la parità non sarà raggiunta se non tra il 2064 e il 3014". Al fine di
promuovere una più significativa partecipazione femminile, dunque, sono state
illustrate le seguenti strategie:
1) l'inclusione,
nelle comunicazioni inviate agli Stati membri prima delle sessioni, ma anche in
altri documenti dell'organizzazione, di specifici paragrafi che illustrano
l'importanza della parità di genere;
2) il
contatto diretto con gli Stati membri le cui delegazioni, in occasione non
raggiungessero il target minimo del
30 per cento di presenza femminile;
3) l'organizzazione,
da parte dell'OIL, di una conferenza pratica di una mezza giornata, a cui sono
stati invitati tutti gli Stati membri con rappresentanza a Ginevra. In questa
occasione si è focalizzata l'attenzione sulle buone prassi: gli Stati membri
che hanno raggiunto la parità di genere nelle proprie delegazioni hanno
condiviso la propria esperienza, le sfide affrontate e gli ostacoli superati.
L'ordinamento italiano non
prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte
violente in danno di donne, nè prevede specifiche aggravanti quando alcuni
delitti abbiano la donna come vittima.
Per il nostro diritto penale,
se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della
persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo (e
conseguentemente non è stato fino ad oggi censito nelle statistiche
giudiziarie). La mancanza di dati statistici ufficiali ed aggiornati sul
numero di delitti commessi a danno di donne è stata negli ultimi anni più volte
stigmatizzata: solo negli ultimi mesi le statistiche ufficiali hanno iniziato a
censire il genere della persona offesa e solo nel mese di marzo 2014, il
ministero dell'Interno ha diffuso i dati sul c.d. femminicidio (omicidio con
vittima di sesso femminile).
Le disposizioni penali applicabili alle ipotesi di violenza contro le donne
Per quanto l'ordinamento italiano non
preveda specifiche aggravanti quanto i delitti sono commessi contro le donne, è
indubitabile che vittime di una serie specifica di delitti siano principalmente
le donne (si pensi ai reati a sfondo sessuale).
Di seguito si dà dunque conto delle
principali fattispecie penali astrattamente applicabili in presenza di
una violenza contro le donne.
Si tratta di disposizioni sulle quali è
anche recentemente intervenuto il legislatore, proprio con l'intento di
rafforzare gli strumenti penali di contrasto della violenza di genere.
Essendo la violenza familiare
prevalentemente violenza di genere, una rassegna delle fattispecie penali in
danno delle donne non può che partire dall'esame degli strumenti di tutela
contro la violenza che si sviluppa in ambito familiare, sia attraverso
interventi di diritto penale sostanziale (si pensi al delitto di maltrattamenti
in famiglia) che mediante misure di protezione della potenziale vittima (come
gli ordini di protezione contro gli abusi familiari).
L'articolo 572 del codice
penale, Maltrattamenti contro familiari e conviventi, come novellato
da ultimo dal decreto-legge
93/2013, punisce con la
reclusione da 2 a 6 anni chiunque maltratta una persona della famiglia o un
convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per
l'esercizio di una professione o di un'arte. Se dal fatto deriva una lesione
personale grave, si applica la reclusione da 4 a 9 anni; se ne deriva una
lesione gravissima, la reclusione da 7 a 15 anni; se ne deriva la morte, la
reclusione da 12 a 24 anni.
La norma non precisa i
soggetti passivi del reato ovvero le persone della famiglia cui l'art. 572 fa
riferimento. Secondo la giurisprudenza dominante, tuttavia, per famiglia non
deve farsi riferimento al solo coniuge, figli, consanguinei, adottati, ecc.
bensì alla famiglia in senso lato ovvero ogni consorzio di persone tra cui, per
intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca
assistenza e protezione.
Quanto alle misure di
protezione della vittima, la legge
n. 154 del 2001, Misure contro la
violenza nelle relazioni familiari, ha introdotto un sistema di tutela
contro il fenomeno della violenza domestica basato sull'impiego di strumenti
penalistici e civilistici.
In sede penale, il
legislatore ha introdotto la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa
familiare (art. 282-bis c.p.p.): chi subisce la misura (coniuge,
convivente o altro componente del nucleo familiare) deve lasciare
immediatamente la casa e solo il giudice può concedere l'autorizzazione al
rientro. Con lo stesso provvedimento il giudice può prescrivere il divieto di
avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (il
luogo di lavoro, il domicilio della famiglia d'origine o dei congiunti più
prossimi).
L'applicazione della misura
cautelare si pone come un'alternativa alla custodia in carcere ma non la
esclude: nei casi più gravi, infatti, può anche essere disposta la misura
privativa della libertà. Come tutte le misure cautelari, anche questa richiede
l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, il pericolo di reiterazione di
delitti, il criterio della proporzionalità tra gravità del fatto e misura
prescelta. La norma è generalmente applicabile ai procedimenti per delitti
puniti con pena superiore, nel massimo, a tre anni; tale limite di pena non si
applica quando si procede per alcuni particolari delitti in danno dei prossimi
congiunti o del convivente (violazione degli obblighi di assistenza familiare;
abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; lesioni aggravate, delitti di
tratta, delitti di sfruttamento sessuale di minori, violenza sessuale e atti
persecutori).
Da ultimo, il decreto-legge n. 93 del 2013 ha
inserito nel codice di procedura anche l'art. 384-bis, Allontanamento
d'urgenza dalla casa familiare, che consente alla polizia, previa
autorizzazione anche per le vie brevi del pubblico ministero, di disporre
l'allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai
luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, di colui che sia colto in
flagranza di uno dei particolari delitti in danno dei prossimi congiunti o del
convivente (v. sopra), se vi sia pericolo di una reiterazione delle
condotte.
In sede civile sono
stati introdotti dalla legge 154/2001 gli articoli 342-bis (Ordini di protezione
contro gli abusi familiari) e 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione)
del codice civile: si tratta di misure volte ad ottenere la tutela della
vittima anche quando sussista soltanto una accertata situazione di tensione e non
necessariamente un reato.
Diversamente dalla misura
penalistica, le cui condizioni di applicabilità sono fissate in vi generale per
tutte le misure cautelari, il presupposto positivo che legittima l'adozione
dell'ordine in sede civile consiste, infatti, nel "grave pregiudizio
all'integrità fisica e moral ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente".
L'ordine di protezione è u provvedimento d'urgenza che il giudice adotta con
decreto, su istanza di parte, per un durata massima di un anno (prorogabile su
istanza di parte soltanto se ricorrono grav motivi e per il tempo strettamente
necessario), con cui sono ordinati la cessazione della condotta e
l'allontanamento dalla casa familiare con eventuale ordine di non avvicinarsi
ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante; sono altresì dettate le
specifiche modalità d adempimento ed è eventualmente disposto l'intervento dei
servizi sociali o di un centro d mediazione familiare nonché il pagamento
periodico di un assegno (art. 342-ter c.c.).
Chiunque violi l'ordine di
protezione (ma anche analoghi provvedimenti assunti nei procedimenti di
separazione e di divorzio) è soggetto alla pena della reclusione fino a 3 anni
o della multa da 103 a 1.032 euro, incorrendo nella mancata esecuzione dolosa
di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.).
Il codice penale inquadra i
reati di violenza sessuale tra i delitti contro la libertà personale. Tali
reati sono disciplinati dagli articoli da 609-bis a 609-undecies.
L'art. 609-bis (Violenza
sessuale) punisce con la reclusione da 5 a 10 anni chi, con violenza
o minaccia o abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti
sessuali.
La stessa pena si applica a
chi costringe taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle
condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del
fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole
sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore
gravità, la pena può essere diminuita in misura non eccedente i due terzi. Il
legislatore non definisce il concetto di "atti sessuali", rimettendo
la specificazione della condotta alla giurisprudenza.
L'art. 609-ter disciplina
alcune circostanze aggravanti del reato di violenza sessuale,
prevedendo la pena della reclusione da 6 a 12 anni nei seguenti casi: violenza
sessuale su minore di 14 anni; uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche
o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute
della persona offesa; fatto commesso da persona travisata o da persona che
simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio;
fatto commesso su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale;
violenza sessuale commessa nei confronti di un minorenne, della quale il
colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore; fatto
commesso all'interno o nelle immediate vicinanze di istituti di istruzione o di
formazione frequentati dalle persone offese; fatto commesso nei confronti di
persona in stato di gravidanza; fatto commesso nei confronti di persona della
quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui
che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza
convivenza.
La pena è invece della
reclusione da 7 a 14 anni se la violenza sessuale è commessa ai danni di
persona che non ha compiuto 10 anni.
La violenza sessuale di
gruppo è punita dall'art. 609-octies del codice penale, che la
definisce come partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di
violenza sessuale.
Mentre è necessario che
costoro partecipino all'esecuzione materiale del reato, non occorre che tutti
compiano atti di violenza sessuale (Cass., Sez. III, 5 aprile 2000). La pena è
della reclusione da 6 a 12 anni ed è aumentata se concorre taluna delle
circostanze aggravanti precedentemente descritte, contemplate dall'art. 609-ter.
Sono, inoltre, previste alcune circostanze attenuanti specifiche: viene infatti
stabilito che la pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto
minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato. La pena è
altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato in
ipotesi di sudditanza psicologica (numeri 3) e 4) del primo comma e dal terzo
comma dell'articolo 112 c.p.).
Per quanto riguarda il profilo
inerente alla tutela dei minori, l'art. 609-quater (Atti
sessuali con minorenne) prevede "al di fuori dei casi di
violenza sessuale" la non punibilità del minore che compia atti sessuali
con persona che abbia compiuto 13 anni, purché la differenza di età tra i
soggetti non sia superiore a 3 anni.
Al di fuori di questa ipotesi,
viene mantenuto fermo il principio per il quale si presume che il minorenne
sino a 14 anni non possa avere rapporti sessuali consensuali; qualora vi sia
violenza, minaccia o abuso di autorità su persona minore di anni 14 si ha
un'ipotesi di violenza sessuale aggravata (ai sensi dell'art. 609-ter), mentre se sussiste il consenso del
minore di 14 anni si rientra nel reato di atti sessuali con minorenne, punito
con le stesse pene previste dall'art. 609-bis.
Per quanto riguarda i minori
di 16 anni, il codice penale stabilisce che la punibilità è limitata agli atti
sessuali commessi da chi sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il di lui
convivente, il tutore ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di
educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore sia affidato o
che abbia con il minore una relazione di convivenza. Non sono, quindi, punibili
gli atti sessuali con minore di 16 anni consenziente commessi da un soggetto
"estraneo" al minore, ossia che non si trovi in quelle relazioni
speciali per le quali l'art. 609-quater
ritiene che vi sia uno stato di sudditanza psicologica tale da escludere valore
al consenso prestato. Costituisce, invece, violenza sessuale aggravata
l'ipotesi in cui i fatti di cui all'articolo 609-bis siano commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli
anni 16, della quale il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo,
il tutore.
L'art. 609-quater specifica, inoltre, che al di
fuori dei casi di cui all'articolo 609-bis,
l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, o il tutore
che, con l'abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti sessuali
con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione
da tre a sei anni.
Per tutte le fattispecie di
atti sessuali con minorenni, la pena è ridotta fino a due terzi nei casi di
minore gravità.
L'art. 609-quinquies punisce con la reclusione
da 1 a 5 anni la corruzione di minorenne, ovvero il compimento di atti
sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla
assistere. La disposizione prevede la medesima pena anche a carico di chiunque
faccia assistere un infraquattordicenne al compimento di atti sessuali, ovvero
gli mostri materiale pornografico al fine di indurlo a compiere o a subire atti
sessuali e introduce un'aggravante (pena aumentata fino alla metà)
nell'ipotesi in cui il delitto sia commesso da una persona
legata da rapporti particolari con il minore: un ascendente, un genitore
(anche adottivo), il convivente del genitore, il tutore o chiunque altro al
quale il minore sia affidato (per ragioni di cura, educazione, istruzione,
vigilanza o custodia), o chiunque conviva stabilmente con il minore.
L'art. 609-sexies precisa che quando i delitti
di violenza sessuale sono commessi in danno di un minorenne il colpevole non
puòl invocare, a propria scusa, l'ignoranza dell'età della persona offesa.
L'art. 609-undecies punisce con la reclusione
da 1 a 3 anni l'adescamento di minorenni, ovvero la condotta di chiunque
adeschi un minore di 16 anni, ovvero compia atti idonei a carpire la fiducia
attraverso artifici, lusinghe o minacce, anche attraverso l'utilizzazione della
rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione. La condotta deve essere
finalizzata alla commissione di uno dei seguenti delitti: riduzione o
mantenimento in schiavitù (art. 600); prostituzione minorile (art. 600-bis); pornografia minorile (art. 600-ter); detenzione di materiale
pedopornografico, anche virtuale (artt. 600-quater e 600-quater. 1); turismo sessuale (art. 600-quinquies); violenza sessuale (art. 609-bis); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies); violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies).
Dal punto di vista processuale,
l'art. 609-septies del codice
penale prevede che i reati di violenza sessuale, anche aggravati, e gli atti
sessuali con minorenne siano punibili a querela della parte offesa e che
la querela, una volta proposta, sia irrevocabile. Si procede, tuttavia, d'ufficio
nei seguenti casi:
se il fatto è commesso nei
confronti di persona minore di anni diciotto;
se il fatto è commesso
dall'ascendente, dal genitore, anche adottivo, dal di lui convivente, dal
tutore o da un soggetto cui il minore sia affidato per ragioni di custodia, cura,
educazione, vigilanza, istruzione o che abbia con esso una relazione di convivenza;
se il fatto è commesso da un
pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle
proprie funzioni;
se il fatto è connesso con
altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio se il fatto è commesso
nei confronti di minore di anni dieci consenziente;
se si tratta di violenza
sessuale di gruppo.
Il termine per la proposizione
della querela è di sei mesi (secondo comma).
L'art. 609-decies sancisce inoltre che per i
delitti di sfruttamento sessuale dei minori e di violenza sessuale in danno di
minori, sia data comunicazione, a cura del procuratore della Repubblica, al tribunale
per i minorenni. L'autorità giudiziaria procedente cura che il minore, in
sede processuale, sia assistito, dal punto di vista affettivo e psicologico,
dai genitori o da persona idonea indicata dal minore, da gruppi, fondazioni,
associazioni, organizzazioni non governative purché presentino le seguenti
caratteristiche: abbiano comprovata esperienza nel settore dell'assistenza e
del supporto alle vittime dei reati a sfondo sessuale in danno di minori; siano
iscritti in un apposito elenco; ricevano il consenso del minorenne.
Peraltro, anche la presenza di
questi soggetti dovrà essere ammessa dall'autorità giudiziaria. Inoltre, la
disposizione precisa che quando si procede per un delitto di maltrattamenti in famiglia,
violenza sessuale aggravata o stalking,
commessi in danno di un minorenne o da uno dei genitori di un minorenne in
danno dell'altro genitore, la comunicazione al Tribunale per i minorenni opera
anche al fine di consentire all'autorità giudiziaria di valutare le proprie scelte
in termini di affidamento del minore e eventuale decadenza dalla responsabilità
genitoriale.
Per quanto riguarda le pene
accessorie e gli altri effetti penali, di cui tratta l'art. 609-nonies, è previsto che la condanna o
il patteggiamento della pena per uno dei reati di violenza sessuale comporti le
seguenti pene accessorie:
la perdita della potestà dei
genitori, quando la qualità di genitore sia elemento costitutivo del reato o
circostanza aggravante;
l'interdizione perpetua dagli
uffici di tutore, curatore e amministratore di sostegno;
la perdita del diritto agli
alimenti e l'incapacità successoria nei confronti della persona offesa;
l'interdizione dai pubblici
uffici se il condannato ha abusato della propria funzione;
la sospensione dall'esercizio
di una professione o di un'arte.
La disposizione prevede
inoltre che la condanna o il patteggiamento, per alcuno dei delitti di violenza
sessuale, anche aggravata, e di violenza sessuale di gruppo, se commessi nei confronti
di un minorenne, di atti sessuali con minorenne e di corruzione di minorenne, comporta
in ogni caso l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni
ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre
strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori.
Con la legge n. 172/2012, di
ratifica della Convenzione di Lanzarote, sono state introdotte in questa
disposizione misure di sicurezza personali a carico di colui che sia
stato condannato per delitti di natura sessuale in danno di minorenni; in
particolare, dopo l'esecuzione della pena e per i successivi 5 anni al reo sono
applicate le seguenti misure: restrizioni alla libertà di circolazione; divieto
di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati da minori; divieto di
svolgere lavori che comportino un contatto abituale con i minori; obbligo di
aggiornare le autorità sui propri spostamenti.
Quanto alle statistiche,
nel 2011 (ultima elaborazione disponibile), l'analisi dell'ISTAT sulle
caratteristiche demografiche delle vittime dei delitti denunciati dalle
forze di polizia all'autorità giudiziaria, individua in:
425 le donne vittime di
violenze sessuali (erano 387 nel 2010 e 405 nel 2009);
243 le donne vittime di atti
sessuali con minorenne (erano 229 nel 2010 e 202 nel 2009);
95 le donne vittime del reato
di corruzione di minorenne (erano 86 nel 2010 e 62 nel 2009).
A livello europeo,
secondo i dati elaborati dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE, si stima che siano circa 13 milioni le donne che, nel corso dei
dodici mesi precedenti i rilevamenti, hanno subito una qualche forma di violenza
fisica, e tra di esse 3,7 milioni hanno subito una violenza sessuale.
Un terzo circa delle donne
residenti nell’UE ha sperimentato, a partire dall’età di 15 anni, una qualche
forma di violenza sessuale o un altro genere di violenza fisica. La grande
maggioranza di esse (circa il 78%) ha subito tali violenze dal partner. Una significativa
percentuale degli abusi perpetrati è ascrivibile al partner o ex partner: una donna su sei tra le vittime
della violenza del partner afferma che tali atti sono avvenuti a seguito della
rottura della relazione.
Un terzo delle
vittime di violenza da parte del partner (33%) e un quarto delle vittime di
violenza perpetrata da altro soggetto (26%) ha contattato la polizia o qualche altra organizzazione, come ad
esempio una organizzazione di assistenza e supporto per le vittime. Solo il 14%
di queste donne ha dichiarato di aver denunciato tali episodi alle autorità
competenti nel caso in cui il perpetrante era il proprio partner, e solo il 13%
di essersi rivolte alle autorità nel caso di un aggressore diverso dal partner.
Una donna su tre (32%) ha sperimentato
un comportamento psicologicamente abusivo da un partner, attuale o precedente.
La lista dei comportamenti che rientrano in questa definizione comprende
l’umiliazione in pubblico o in privato, restrizioni alla mobilità delle donne e
alla loro possibilità di intervenire nella sfera pubblica al di fuori delle
proprie case, atti intimidatori e minacce all’integrità fisica e psicologica
della donna e di altre persone a lei vicine.
Complessivamente, il 43% delle
donne ha subito qualche forma di violenza psicologica da parte di un partner, tra
cui il controllo del comportamento e della frequenza delle visite alla famiglia
d’origine, la limitazione della possibilità di vedere amici e conoscenti,
oppure pressioni tese a scoraggiare la ricerca di un impiego fuori casa.
Secondo le stime sono da 83 a 102 milioni le
donne (tra il 45% e il 55% del totale) che hanno subito qualche forma di
molestie sessuali a partire dall’età di 15 anni. Riferendosi a solo sei
fattispecie di violenza, le più minacciose, emerge che il 45% delle donne
nell'UE le ha sperimentate almeno una volta nella vita. Tra le donne che hanno subito molestie sessuali almeno una volta
dall’età di 15 anni, il 32% ha indicato come autore un soggetto proveniente dal
contesto lavorativo
Il decreto-legge n. 11 del
2009 ha introdotto nel codice penale l'articolo 612-bis, che disciplina
il reato di "Atti persecutori" (cd. stalking).
Per la sussistenza della nuova
fattispecie delittuosa si richiede la ripetitività della condotta,
nonché l'idoneità dei comportamento a provocare nella vittima un perdurante
e grave stato di ansia o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore
per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona alla
medesima legata da relazione affettiva ovvero a costringere la stessa ad
alterare le proprie abitudini di vita. La pena è della reclusione da sei mesi a
cinque anni (la pena massima è stata portata a 5 anni dal decreto-legge
78/2013, al fine di permettere l'applicazione della custodia cautelare in carcere).
Il delitto è aggravato nelle
seguenti ipotesi:
il fatto è commesso dal
coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da
relazione affettiva alla persona offesa;
il fatto è commesso attraverso
strumenti informatici o telematici;
il fatto è commesso a danno di
un minore;
il fatto è commesso in danno
di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità
il fatto è commesso con armi o
da persona travisata.
Sul versante processuale, il
delitto è punito a querela della persona offesa, che deve essere
presentata entro sei mesi dai fatti. Si procede d'ufficio se il fatto è
commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità. Dopo un
lungo dibattito in sede di conversione del decreto-legge n. 93 del 2013, il
Parlamento ha confermato la procedibilità a querela del delitto ed ha negato
l'irrevocabilità della querela stessa (originariamente richiesta dal Governo);
il legislatore ha però specificato che l'eventuale remissione della querela può
essere soltanto processuale e che l'irrevocabilità opera in relazione alle
ipotesi più gravi (minacce reiterate da parte del coniuge, anche separato o
divorziato, o di persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla
persona offesa; fatto è commesso attraverso strumenti informatici o
telematici).
Lo stesso decreto-legge n. 11
del 2009 prevede ulteriori misure in materia di stalking. In particolare, al fine di apprestare tutela nel periodo
che intercorre tra il comportamento persecutorio e la presentazione della
querela e allo scopo di dissuadere preventivamente il reo dal compimento di
nuovi atti, introduce la possibilità per la persona offesa di avanzare al questore
richiesta di ammonimento nei confronti dell'autore della condotta e disciplina
l'esercizio di tale potere da parte del questore; modifica il codice di
procedura penale, per estendere ai procedimenti per il nuovo reato alcune
specifiche regole in materia probatoria; disciplina la misura
coercitiva del divieto di avvicinamento dell'imputato ai luoghi frequentati
dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali
luoghi o dalla persona offesa, attraverso l'inserimento nel codice di procedura
dell'art. 282-ter.
Il divieto può riguardare
anche i luoghi frequentati da prossimi congiunti o da persone conviventi o
comunque legate alla persona offesa da una relazione affettiva. prescrive
specifici obblighi di comunicazione (nuovo art. 282-quater) all'autorità
di pubblica sicurezza competente dei provvedimenti di cui al nuovo art. 282-ter
nonché dell'art. 282-bis (allontanamento dalla casa familiare) ai fini
dell'eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni.
Tali atti sono altresì
comunicati alla parte offesa e ai servizi socio-assistenziali del territorio; pone
a carico delle forze dell'ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni
pubbliche che ricevono dalla vittima notizia di reato di atti persecutori
l'obbligo di fornire alla medesima tutte le informazioni relative ai Centri
Antiviolenza presenti sul territorio ed eventualmente di metterla in
contatto con tali strutture.
Istituisce, infine, presso il
Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio un numero
verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori, con compiti
di assistenza psicologica e giuridica, nonché di comunicare gli atti
persecutori
segnalati alle forze
dell'ordine, nei casi d'urgenza e su richiesta della persona offesa.
Approfondimento statistico sul reato di stalking
La Direzione generale di
statistica del Ministero della giustizia ha pubblicato lo scorso giugno un'indagine statistica sul delitto di stalking realizzata attraverso la lettura dei fascicoli dei
procedimenti definiti con sentenze di primo grado negli anni 2010-2012.
Dall'indagine statistica emerge
che il 92% dei processi trae origine da una denuncia della persona offesa,
prevalentemente raccolta dalla polizia giudiziaria. In 7 casi su 100 la querela
è stata conseguente all'arresto o al fermo dell'indagato in flagranza del reato
di stalking o di reato connesso.
Nelle sentenze esaminate la
richiesta di ammonimento al questore, precedente alla querela, è stata rilevata
nel 5% dei casi.
Inoltre, nei casi esaminati è
stata calcolata una durata media della persecuzione pari a 14,6 mesi, mentre il
tempo medio trascorso tra l'inizio delle condotte di stalking e la prima denuncia
è di 9,5 mesi. Con riferimento alla reiterazione, appare significativo che nel
64% dei casi alla prima denuncia ne siano seguite altre.
Per quanto riguarda il genere
della persona offesa, la ricerca non desta sorprese: il 90% delle vittime sono
infatti donne.
Nella maggior parte dei casi
(73,9%) autore e vittima hanno intrattenuto nel corso della loro vita una
relazione sentimentale, solo 5 volte su 100 non hanno avuto alcun rapporto pregresso.
Quanto all'esito in primo
grado del procedimento penale per stalking, una vittima su quattro ritira la
querela. Le condanne (42,5%) e i patteggiamenti (14,9%) sono più frequenti delle
assoluzioni (11,5%).
Le mutilazioni genitali femminili
La legge n. 7 del 2006 detta
le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione
genitale femminile, quali violazioni dei diritti fondamentali all'integrità
della persona e alla salute delle donne e delle bambine.
Tale legge in particolare ha
introdotto nel codice penale un'autonoma fattispecie di reato (Pratiche di mutilazione
degli organi genitali femminili, art. 583-bis) che punisce con la
reclusione da 4 a 12 anni chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche,
cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili (clitoridectomia,
escissione, infibulazione ed altre analoghe pratiche).
Quando la mutilazione sia di
natura diversa dalle precedenti e sia volta a menomare le funzioni sessuali della
donna, la pena è la reclusione da 3 a 7 anni; una specifica aggravante (pena
aumentata di un terzo) è prevista quando le pratiche siano commesse a danno di
un minore ovvero il fatto sia commesso a fini di lucro.
L'art. 583-bis - previa richiesta del Ministro
della giustizia - stabilisce la punibilità delle mutilazioni genitali femminili,
anche se l'illecito è commesso all'estero da cittadino italiano (o da straniero
residente in Italia) o in danno di cittadino italiano (o di straniero residente
in Italia).
Pesanti pene accessorie sono
previste dalla legge (nuovo art. 583-ter
c.p.) nei confronti dei medici condannati per mutilazioni genitali:
interdizione dall'esercizio
della professione per un periodo da 3 a 10 anni;
comunicazione della sentenza
di condanna all'Ordine dei medici chirurgi e degli odontoiatri.
Attraverso l'inserimento
dell'art. 25-quater.1 nel decreto legislativo n. 231 del 2001 (in materia di responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche derivante da reato) la legge ha
disposto specifiche sanzioni interdittive e pecuniarie (da 300 a 700 quote) a
carico degli enti nella cui struttura è commesso il delitto di cui all'art.
583-bis.
La medesima legge, inoltre, ha
previsto campagne informative e di sensibilizzazione delle popolazioni in cui
tali pratiche sono più diffuse nonché una più adeguata formazione del personale
sanitario, oltre che l'istituzione di un numero verde volto sia a ricevere
segnalazioni che a fornire informazioni e assistenza ai soggetti coinvolti
nella pratica delle mutilazioni genitali femminili.
La ratifica della Convenzione di Istanbul
Partendo da un quadro
normativo interno già ricco di strumenti di contrasto della violenza di genere,
l'Italia ha nella scorsa legislatura firmato la Convenzione
del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla
firma l'11 maggio del 2011.
Si tratta del primo strumento
internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo
completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. La Convenzione
interviene specificamente anche nell'ambito della violenza domestica, che non colpisce
solo le donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali
altrettanto si applicano le medesime norme di tutela.
La Convenzione è entrata in
vigore il 1° agosto 2014.
L'Italia ha svolto un ruolo
importante in questo percorso, essendo stata tra i primi paesi europei a fare
propria la Convenzione, ratificandola con la legge
27 giugno 2013, n. 77. Allo stato la Convenzione, siglata da 36 Stati, è stata ratificata da 14 Stati (Turchia, Albania, Portogallo,
Montenegro, Italia, Bosnia e Erzegovina, Austria, Serbia, Spagna, Andorra, Danimarca,
Svezia, Francia, Malta).
La Convenzione (art. 3)
precisa che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti
umani ed è una forma di discriminazione contro le donne.
La Convenzione si compone di
un Preambolo, di 81 articoli raggruppati in dodici
Capitoli, e di un Allegato.
Il Preambolo ricorda
innanzitutto i principali strumenti che, nell'ambito del Consiglio d'Europa
e delle Nazioni Unite, sono collegati al tema oggetto della Convenzione e sui
quali quest'ultima si basa. Tra di essi riveste particolare importanza la CEDAW
(Convenzione Onu del 1979 sull'eliminazione di ogni forma di
discriminazione contro le donne) e il suo Protocollo opzionale del 1999 che
riconosce la competenza della Commissione sull'eliminazione delle
discriminazioni contro le donne a ricevere e prendere in esame le denunce
provenienti da individui o gruppi nell'ambito della propria giurisdizione.
Si ricorda che la CEDAW –
universalmente riconosciuta come una sorta di Carta dei diritti delle donne –
definisce "discriminazione contro le donne" "ogni distinzione,
esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia l'effetto o lo scopo di
compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da
parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in
condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in
qualsiasi altro campo".
Si segnala che, sempre nell'ambito
delle Nazioni Unite, nel 2009 è stato lanciato il
database sulla violenza contro le donne, allo scopo di fornire il quadro delle misure adottate dagli
Stati membri dell'Onu per contrastare la violenza contro le donne sul piano normativo
e politico, nonché informazioni sui servizi a disposizione delle vittime.
Il Preambolo della Convenzione
riconosce inoltre che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti
di forza storicamente diseguali tra i sessi ed aspira a creare un'Europa
libera da questa violenza.
Gli Obiettivi della
Convenzione sono elencati nel dettaglio dall'articolo 1. Oltre a quanto già
esplicitato nel titolo della Convenzione stessa, appare importante evidenziare
l'obiettivo di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione
delle donne, nonché la cooperazione internazionale e il sostegno alle autorità
e alle organizzazioni a questo scopo deputate.
Di rilievo inoltre la
previsione che stabilisce l'applicabilità della Convenzione sia in tempo di
pace sia nelle situazioni di conflitto armato, circostanza,
quest'ultima, che da sempre costituisce momento nel quale le violenze sulle
donne conoscono particolare esacerbazione e ferocia.
Contestualmente alla firma,
l'Italia ha depositato presso il Consiglio d'Europa una nota verbale con
la quale ha dichiarato che "applicherà la Convenzione nel rispetto dei
princìpi e delle previsioni costituzionali". Tale dichiarazione
interpretativa - apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con
le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 – è motivata dal
fatto che la definizione di "genere" contenuta nella
Convenzione - l'art. 3, lettera c)
recita: "con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti,
attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società
considera appropriati per donne e uomini" - è ritenuta troppo ampia e
incerta e presenta profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano
(si veda, al proposito, la relazione illustrativa al ddl di autorizzazione alla
ratifica – A.S. 3654 - presentato dal Governo l'8 gennaio 2013).
L'articolo 4 della Convenzione
sancisce il principio secondo il quale ogni individuo ha il diritto di
vivere libero dalla violenza nella sfera pubblica e in quella privata. A
tal fine le Parti si obbligano a tutelare questo diritto in particolare per
quanto riguarda le donne, le principali vittime della violenza basata sul
genere (ossia di quella violenza che colpisce le donne in quanto tali, o che le
colpisce in modo sproporzionato).
Poiché la discriminazione di
genere costituisce terreno fertile per la tolleranza della violenza contro le
donne, la Convenzione si preoccupa di chiedere alle Parti l'adozione di tutte
le norme atte a garantire la concreta applicazione del principio di parità tra
i sessi corredate, se del caso, dall'applicazione di sanzioni.
I primi a dover rispettare gli
obblighi imposti dalla Convenzione sono proprio gli Stati i cui rappresentanti,
intesi in senso ampio, dovranno garantire comportamenti privi di ogni violenza
nei confronti delle donne (art. 5).
L'articolo 5 prevede anche un risarcimento
delle vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali, che può
assumere forme diverse (riparazione del danno, indennizzo, riabilitazione,
ecc.). L'indennizzo da parte dello Stato è disciplinato dall'art. 30,
par. 2, della Convenzione ed è accordato alle vittime se la riparazione non è
garantita da altre fonti.
Ampio spazio viene dato dalla
Convenzione alla prevenzione della violenza contro le donne e della
violenza domestica. La prevenzione richiede un profondo cambiamento di atteggiamenti
e il superamento di stereotipi culturali che favoriscono o giustificano l'esistenza
di tali forme di violenza. A tale scopo, la Convenzione impegna le Parti non
solo ad adottare le misure legislative per prevenire la violenza, ma anche alla
promozione di campagne di sensibilizzazione, a favorire nuovi programmi
educativi e a formare adeguate figure professionali.
Altro punto fondamentale della
Convenzione è la protezione delle vittime. Particolare enfasi viene
posta sulla necessità di creare meccanismi di collaborazione per un'azione coordinata
tra tutti gli organismi, statali e non, che rivestono un ruolo nella funzione
di protezione e sostegno alle donne vittime di violenza, o alle vittime di
violenza domestica.
Per proteggere le vittime è
necessario che sia dato rilievo alle strutture atte al loro accoglimento,
attraverso un'attività informativa adeguata che deve tenere conto del fatto che
le vittime, nell'immediatezza del fatto, non sono spesso nelle condizioni
psico-fisiche di assumere decisioni pienamente informate.
I servizi di supporto possono
essere generali (es. servizi sociali o sanitari offerti dalla pubblica
amministrazione) oppure specializzati. Fra questi si prevede la creazione di
case rifugio e quella di linee telefoniche di sostegno attive notte e giorno.
Strutture ad hoc sono inoltre previste per l'accoglienza delle vittime di
violenza sessuale.
La Convenzione stabilisce
l'obbligo per le Parti di adottare normative che permettano alle vittime di
ottenere giustizia, nel campo civile, e compensazioni, in primo luogo dall'offensore,
ma anche dalle autorità statali se queste non hanno messo in atto tutte le misure
preventive e di tutela volte ad impedire la violenza (sui risarcimenti da parte
dello Stato si è già detto più sopra).
La Convenzione individua anche
una serie di reati (violenza fisica e psicologica, sessuale, stupro,
mutilazioni genitali, ecc.), perseguibili penalmente, quando le violenze
siano commesse intenzionalmente e promuove un'armonizzazione delle legislazioni
per colmare vuoti normativi a livello nazionale e facilitare la lotta alla
violenza anche a livello internazionale. Tra i reati perseguibili penalmente è
inserito lo stalking, definito il comportamento intenzionale e minaccioso nei
confronti di un'altra persona, che la porta a temere per la propria incolumità.
Quanto al matrimonio
forzato, vengono distinti i casi nei quali una persona viene costretta a
contrarre matrimonio da quelli nei quali una persona viene attirata con
l'inganno in un paese estero allo scopo di costringerla a contrarre matrimonio;
in quest'ultimo caso, è sanzionabile penalmente anche il solo adescamento, pur in assenza di celebrazione del
matrimonio.
La Convenzione torna in più
punti sull'inaccettabilità di elementi religiosi o culturali, tra i quali il cosiddetto "onore"
a giustificazione delle violenze chiedendo tra l'altro alle Parti di introdurre
le misure, legislative o di altro tipo, per garantire che nei procedimenti
penali intentati per crimini rientranti nell'ambito della Convenzione, tali
elementi non possano essere invocati come attenuante.
In materia di sanzioni,
la Convenzione chiede alle Parti di adottare misure per garantire che i reati
in essa contemplati siano oggetto di punizioni efficaci, proporzionate e dissuasive,
commisurate alla loro gravità.
La Convenzione contiene poi un
ampio capitolo di previsioni che riguardano le inchieste giudiziarie, i
procedimenti penali e le procedure di legge, a rafforzamento delle disposizioni
che delineano diritti e doveri nella Convenzione stessa.
Un Capitolo apposito è
dedicato alle donne migranti, incluse quelle senza documenti, e alle
donne richiedenti asilo, due categorie particolarmente soggette a
violenze di genere.
La Convenzione mira ad
introdurre un'ottica di genere nei confronti della violenza di cui sono vittime
le migranti, ad esempio accordando ad esse la possibilità di ottenere uno status di residente indipendente da
quello del coniuge o del partner. Inoltre, viene stabilito l'obbligo di
riconoscere la violenza di genere come una forma di persecuzione (ai sensi della
Convenzione del 1951 sullo status dei
rifugiati) e ribadito l'obbligo di rispettare il diritto del non-respingimento
per le vittime di violenza contro le donne.
La Convenzione istituisce
infine un Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti
delle donne e la violenza domestica (GREVIO) costituito da esperti
indipendenti, incaricati di monitorare l'attuazione della Convenzione da parte
degli Stati aderenti. Il monitoraggio avverrà attraverso questionari, visite,
inchieste e rapporti sullo stato di conformità degli ordinamenti interni agli
standard convenzionali, raccomandazioni generali, ecc.).
I privilegi e le immunità dei
membri del GREVIO sono oggetto dell'Allegato alla Convenzione.
Come detto, il Parlamento
italiano ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul,
approvando la legge 27 giugno 2013, n. 77.
Per una consapevole scelta del
legislatore, la legge n. 77 non detta norme di adeguamento del nostro
ordinamento interno motivate dal pieno rispetto della Convenzione.
Ciò in quanto è prevalsa
l'esigenza di privilegiare la rapida ratifica della Convenzione, essenziale
a consentirne l'entrata in vigore; rapida ratifica che sarebbe stata ostacolata
da un contenuto normativo più complesso. Concluso però questo adempimento,
Governo e Parlamento hanno tentato di riempire di contenuti questa ratifica con
il decreto-legge n. 93 del 2013 e la sua conversione in legge.
Il decreto-legge n. 93/2013
Il Governo ha emanato tale
intervento d’urgenza con la finalità - esplicitata nella relazione illustrativa del disegno di conversione, di attuare la
Convenzione di Istanbul, con riguardo ai principali profili considerati necessari.
Dopo una veloce calendarizzazione, il Parlamento ha convertito il provvedimento
d'urgenza – che presenta peraltro un contenuto non circoscritto alla sola
violenza di genere - con la legge 15 ottobre 2013, n. 119.
Il Capo I del
decreto-legge, composto dagli articoli da 1 a 5-bis, è dedicato al contrasto
e alla prevenzione della violenza di genere. In particolare, il
provvedimento approvato:
·
interviene sul codice penale, introducendo un'aggravante
comune (art. 61, n. 11-quinquies) per i delitti contro la vita e
l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i
maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in
presenza di minori;
·
novella il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking),
prevedendo un'aggravante quando il fatto è commesso con mezzi informatici o
telematici e modificando il regime della querela di parte.
·
In particolare, rispetto alla formulazione originaria del
decreto-legge, che qualifica la querela come irrevocabile, la Camera ha
circoscritto le ipotesi di irrevocabilità ai casi più gravi, prevedendo
comunque che l'eventuale remissione possa avvenire soltanto in sede
processuale;
·
interviene sul codice di procedura penale, consentendo
anche quando si indaga per stalking
di disporre intercettazioni;
·
introduce la misura di prevenzione dell'ammonimento del
questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto
già previsto per il reato di stalking;
·
sempre per tutelare le vittime, inserisce alcune misure relative
all'allontanamento - anche d'urgenza - dalla casa familiare e all'arresto
obbligatorio in flagranza dell'autore delle violenze. In merito, la Camera ha
introdotto la possibilità di operare anche un controllo a distanza (c.d.
braccialetto elettronico) del presunto autore di atti di violenza domestica;
·
prevede specifici obblighi di comunicazione da parte
dell'autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria alla persona offesa dai
reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonché modalità protette
di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti
particolarmente vulnerabili;
·
modifica le disposizioni di attuazione del codice di procedura,
inserendo i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking
tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli
d'udienza;
·
estende alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali
femminili l'ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti
di reddito;
·
stabilisce chela relazione annuale al Parlamento sull'attività
delle forze di polizia e sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica
debba contenere un'analisi criminologica della violenza di genere;
·
riconosce agli stranieri vittime di violenza domestica la
possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno;
·
demanda al Ministro per le pari opportunità l'elaborazione di un
Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per il
quale è previsto un finanziamento di 10 milioni di euro per il 2013, prevedendo
azioni a sostegno delle donne vittime di violenza (sul finanziamento del
piano v. ultra).
I profili di inattuazione della Convenzione di Istanbul
A seguito della ratifica della
Convenzione di Istanbul, per quanto riguarda specificamente il diritto penale e
processuale, è tuttora da valutare se occorra introdurre ulteriori modifiche
legislative con riguardo ai seguenti profili:
l'introduzione di specifiche
misure per il supporto dei bambini testimoni di violenza (art. 26 della Convenzione);
il diritto della vittima di
ottenere un risarcimento dallo Stato, a fronte di comportamenti delle
autorità statali che abbiano mancato al loro dovere di adottare le necessarie
misure di prevenzione o di protezione nell'ambito delle loro competenze (art.
29), ovvero nei casi un cui un risarcimento non sia garantito dall'autore del
reato (art. 30);
la previsione di una specifica
fattispecie penale volta a punire le condotte di violenza psicologica (art.
33 della Convenzione), di matrimonio forzato (art. 37) e di molestia sessuale,
quando perpetrata in forma esclusivamente verbale (art. 40);
la previsione di aggravanti
quando i reati di violenza domestica abbiano provocato gravi danni fisici o
psicologici alla vittima, considerazione che nel nostro ordinamento opera
esclusivamente per il delitto di lesioni (art. 46 della Convenzione);
l'affermazione della giurisdizione
italiana anche nelle ipotesi di reati di violenza commessi all'estero in danno
di persona abitualmente residente in Italia nonché ai casi in cui il presunto
autore di uno di tali reati, commesso all'estero, si trovi sul territorio
italiano e non sia possibile procedere ad estradizione (art. 44 della
Convenzione);
il riconoscimento della violenza
contro le donne basata sul genere come forma di persecuzione che possa
dare diritto alla concessione dello status di rifugiato (art.
62).
Una autonoma considerazione
merita la questione della procedibilità d'ufficio dei delitti
riconducibili alla violenza domestica, auspicata dalla Convenzione (art. 55).
Sul punto nel corso della conversione in legge del decreto-legge 93/2013, il
Parlamento ha confermato la scelta per questo tipo di delitti della
procedibilità a querela, aumentando i casi nei quali, nelle ipotesi più gravi,
la querela è irrevocabile e inducendo una remissione di querela esclusivamente
processuale per il delitto di atti persecutori.
Lo stato dei fondi per il contrasto alla violenza di genere
La legge finanziaria per il
2008 (legge n. 244 del 2007) ha istituito un fondo, presso la Presidenza del
Consiglio, per la realizzazione di un piano contro la violenza alle donne (cap.
496), stanziando a tal fine 20 milioni di euro per l'anno 2008.
Nel 2009 all'obiettivo di
prevenzione della violenza si è affiancato quello di prevenzione e contrasto
agli atti persecutori, con la conversione del decreto-legge 11/2009 che
non solo ha introdotto nel codice penale l'art. 612-bis ma ha anche posto a
carico delle forze dell'ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni
pubbliche che ricevono dalla vittima notizia di reato di atti persecutori
l'obbligo di fornire alla medesima tutte le informazioni relative ai Centri antiviolenza
presenti sul territorio ed eventualmente di metterla in contatto con tali strutture.
Il provvedimento ha istituito,
infine, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del
Consiglio un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori,
con compiti di assistenza psicologica e giuridica, nonché di comunicare gli
atti persecutori segnalati alle forze dell'ordine, nei casi d'urgenza e su
richiesta della persona offesa.
Le somme destinate al Piano
nazionale non sono state mai impegnate nel corso degli anni, fino al 2011
quando la Corte dei Conti ha dato il via libera al primo Piano
nazionale contro la violenza di genere e lo stalking. Nel novembre 2011, quando il Piano diventa operativo,
il capitolo 496 del bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri recava
uno stanziamento di 18.659.049 euro. Nel 2012 per il Piano
vengono stanziati 5,1 milioni di euro.
Per il 2013 il bilancio
di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedica 1,9 milioni
di euro all'implementazione del Piano nazionale contro la violenza
alle donne.
Si ricorda che la Presidenza
del Consiglio, a differenza delle altre amministrazioni, può esercitare il
cosiddetto istituto del «riporto» che consiste nella facoltà di
mantenere in bilancio risorse non utilizzate in un determinato anno anche in
quello successivo.
Da comunicazioni telefoniche
con l'ufficio bilancio della Presidenza del Consiglio è infatti emerso che lo
stanziamento di 1,9 milioni di euro per il 2013 è stato integrato con il
riporto dell'avanzo dell'esercizio precedente; ad inizio XVII legislatura dunque
sul capitolo 496 figuravano 4,5 milioni di euro.
Per il 2014 il bilancio
della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedica al capitolo 496, Somme da
destinare al piano contro la violenza alle donne, 18 milioni di euro.
Tali somme sono da ricondurre
al decreto-legge n. 93 del 2013 (art. 5-bis)
(art 5-bis), ovvero a interventi di sostegno delle vittime della violenza
(centri antiviolenza) nella misura di 7 milioni di euro e alla legge di
stabilità 2014 (legge n. 147 del 2013, art. 1, comma 217) nella misura di 10 milioni di euro.
Nella nota preliminare a
bilancio di previsione (D.P.C.M. di approvazione del bilancio di previsione
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 20 dicembre 2013), si specifica
per il capitolo 496 sarà così ripartito:
·
10 milioni di euro per il miglioramento degli interventi delle
istituzioni nel contrasto alla violenza sulle donne attraverso l'elaborazione
di un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (la
ripartizione delle risorse sarà approvata dalla Conferenza unificata);
·
7 milioni di euro all'attuazione dell'art. 5-bis del
decreto-legge n. 93/2013, relativo ad
·
interventi di assistenza e sostegno territoriale a donne vittime
di violenza e ai loro figli (la ripartizione delle risorse sarà approvata dalla
Conferenza Stato-Regioni);
·
300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati
all'aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne nonché
all'istituzione di una banca dati sui servizi offerti attraverso la rete
collegata al numero di pubblica utilità 1522;
·
700.000 euro per la prosecuzione delle attività del servizio
1522 per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking.
Peraltro, nel 2014 lo
stanziamento di 7 mln di euro è stato ridotto circa dell'8% in virtù delle
riduzioni lineari delle spese dei ministeri.
Nel bilancio di previsione
2015, lo stato di previsione del Ministero dell'economia (tabella n. 5)
individua i seguenti stanziamenti:
- 9,1 milioni di euro, per il
Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (9 mln per
il 2016 e per il 2017);
- 9,1 milioni di euro per gli
interventi di assistenza e sostegno alle vittime (9 milioni per il 2016, ultimo
anno finanziato).
Un ulteriore stanziamento, di
circa 600 mila euro, è relativo al funzionamento del numero verde per le
vittime di stalking, introdotto dal
DL 11/2009.
Tali stanziamenti confluiscono
sul cap. 2108 "Somme da corrispondere alla Presidenza del Consiglio dei
ministri per le politiche delle pari opportunità".
L'Italia secondo gli indici internazionali
L'Istituto europeo
per l'uguaglianza di genere (EIGE), agenzia autonoma dell'Unione europea, il 13
giugno 2013 ha pubblicato il primo Indice EIGE sull'uguaglianza di genere,
frutto di tre anni di lavoro. Per la prima volta è stato elaborato un
indicatore sintetico ma esaustivo delle disparità di genere nell'Unione europea
e nei singoli Stati membri.
L'indice, che prende
in considerazione 6 diversi settori (Lavoro, Denaro, Conoscenza, Tempo, Potere
e Salute), ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di
genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere.
Nonostante più di 50
anni di politiche per l'uguaglianza di genere a livello europeo, il rapporto
mostra come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione
europea. Con un indice medio di 54.0, l'Unione europea è ancora a metà
nel cammino per raggiungere l'uguaglianza.
Un dato
significativo è la fortissima differenza tra gli indici dei singoli Stati
membri, che vanno da un minimo di 35.3 (Romania) ad un massimo di 74.3
(Svezia), che attesta come gli Stati prestino una diversa attenzione al
raggiungimento degli obiettivi della parità.
Particolarmente negativa
è la posizione dell'Italia, che con un indice di 40.9 si attesta al 23°
posto su 27 Stati membri, a parità con la Slovacchia e sopra solo alla
Grecia, Bulgaria e Romania. In cima alla graduatoria spiccano i Paesi
scandinavi, con valori superiori a 70, mentre il Regno Unito ha un indice di
60.4, la Francia di 57.1, la Spagna di 54.0 e la Germania di 51.6.
Analizzando la
relazione tra l'indice dell'uguaglianza di genere e la ricchezza dei paesi,
misurata attraverso il PIL per abitante (PPS), si nota altresì come l'Italia
sia il più ricco tra i 13 paesi che hanno un indice inferiore a 45 (Repubblica
Ceca, Lettonia, Polonia, Lituania, Cipro, Malta, Ungheria, Portogallo,
Slovacchia, Italia, Grecia, Bulgaria e Romania).
Passando alla sfera
specifica del Potere, inteso come potere decisionale sia politico che
economico, si segnala che in questo settore l'indice dell'uguaglianza di genere
evidenzia il valore più basso, con un valore medio europeo di 38.0.
Anche in tal caso la
performance dell'Italia è piuttosto negativa, con un indice di 18.6, che
la colloca al terzultimo posto tra i Paesi UE, sopra solo a Lussemburgo e
Cipro.
A livello mondiale,
secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global
Gender Gap, nella graduatoria diffusa nel 2014, l'Italia si colloca al 69°
posto su 142 Paesi (era al 71° nel 2013, all'80° nel 2012, al 74° nel 2011
e nel 2010, al 72° nel 2009, al 67° posto nel 2008, all'84° nel 2007 e al 77°
nel 2006). L'aumento registrato dall'Italia nella graduatoria globale è
determinato principalmente dal significativo aumento del numero delle donne in
Parlamento (dal 22% nel 2012 al 31% nel 2013).
Nella graduatoria
generale svettano i Paesi del Nord Europa; per quanto attiene agli altri Paesi
europei, il Belgio si colloca al 10° posto, la Germania al 12°, la Francia
al 16° ed il Regno Unito al 26° posto. L'indice tiene conto delle disparità di
genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e
della salute.
Per ciò che attiene
in particolare al settore della politica, il nostro Paese si colloca al 37°
posto della graduatoria, risalendo dopo il brusco calo degli anni
precedenti, che poteva probabilmente essere ascritto alla sostanziale staticità
dell'Italia in questo campo, a fronte dei progressi registrati in altri paesi
(l'Italia era al 44° posto, al 71° nel 2012, al 55° nel 2011, al 54° nel 2012 e
al 45° nel 2009).
Il World economic forum redige periodicamente
anche un rapporto sulla competitività dei paesi a livello globale ed è
interessante notare come emerga una correlazione tra il gender gap
di un paese e la sua competitività nazionale. Dal momento che le donne
rappresentano la metà del talento potenziale di un paese, la competitività nel
lungo periodo dipende significativamente dalla maniera in cui ciascun paese
educa ed utilizza le sue donne.
I dati relativi alla
presenza femminile negli organi costituzionali italiani hanno sempre
mostrato una presenza contenuta nei numeri e molto limitata quanto alle
posizioni di vertice.
In tale contesto, i
risultati delle Parlamento del 24-25 febbraio 2013 presentano un segnale di inversione
di tendenza: infatti, la media complessiva della presenza femminile nel
Parlamento italiano, storicamente molto al di sotto della soglia del 30%,
considerato valore minimo affinché la rappresentanza di genere sia efficace, è
salita dal 19,5 della XVI legislatura al 30,1 per cento dei parlamentari eletti
nella XVII legislatura (la media UE è il 27%).
Di seguito, due
grafici mostrano l'andamento storico della presenza delle donne in entrambi i
rami del Parlamento.
Le prime donne
elette alla Consulta nazionale sono state 14; della Consulta faceva
parte un numero variabile di membri (circa 400) alcuni di diritto, altri di
nomina governativa, su designazione partitica e di altre organizzazioni. Le
donne elette all'Assemblea Costituente, composta da 556 membri, sono
state 21 (3,8%).
Nella XII
legislatura (la prima con il sistema elettorale maggioritario e con il
sistema delle quote dichiarato poi illegittimo dalla Corte costituzionale) le
donne elette alla Camera dei deputati sono state 95, di cui 43 elette con la quota
maggioritaria e 52 con quella proporzionale, mentre nella XIII legislatura
(senza l'applicazione del sistema delle quote) le donne elette alla Camera dei
deputati sono scesa a 70 (rispettivamente 42 e 28). Al Senato sono state elette
nella XIII legislatura 26 donne. Nella XIV legislatura le donne elette
alla Camera sono state 73. Al Senato le donne elette sono state 25. Le donne
elette alla Camera nella XV legislatura sono state 108 (17,1 per cento)
e le donne senatrici 44 (13,6 per cento). Nella XVI legislatura sono
state elette alla Camera dei deputati 133 donne, al Senato 58. Nella XVII
legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 198 donne (31,4 per
cento), al Senato 92 donne (28,8 per cento).
Tra i senatori a
vita, solo due volte, nel 2001 e più di recente nel 2013, è stata nominata
una donna: la prof.ssa Rita Levi Montalcini e la prof.ssa Elena Cattaneo.
Quanto alle
Presidenza della Repubblica, del Senato e del Consiglio, posizioni di
vertice, nessuna donna in Italia ha mai rivestito la carica di Capo dello
Stato, di Presidente del Consiglio o di Presidente del Senato.
Attualmente,
nell'Unione europea, la carica di Primo ministro o Presidente del Consiglio è
ricoperta da donne in 5 Stati (Germania, Danimarca, Slovenia, Lettonia, Norvegia),
mentre vi è solo una donna Capo dello Stato, in Lituania (non sono presi in
considerazione gli ordinamenti monarchici).
La carica di Presidente
della Camera è stata declinata al femminile nelle legislature VIII, IX e X, con
l'elezione di Nilde Iotti, nella XII
legislatura con l'elezione di Irene
Pivetti e nell'attuale legislatura con l'elezione di Laura Boldrini.
Nonostante il
significativo aumento della presenza femminile nei due rami del Parlamento,
nella corrente Legislatura alla Camera è presieduta da una donna solo una
Commissione permanente su 14 (Commissione giustizia, presieduta da Donatella
Ferranti); al Senato sono presiedute da una donna 2 Commissioni permanenti su
14 (Commissione Affari costituzionali, presieduta da Anna Finocchiaro, e Commissione
Igiene e sanità, presieduta da Emilia Grazia De Biasi).
Nella formazione
dell'attuale Governo per la prima volta si è registrata una
composizione paritaria: le donne
ministro erano 8 su 16 ministri. Successivamente, a seguito delle
dimissioni del Ministro degli esteri e del Ministro per gli affari regionali,
il numero delle donne ministro è sceso a 6 (Roberta Pinotti, Ministro della
difesa; Federica Guidi, Ministro dello sviluppo economico; Stefania Giannini,
Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca; Beatrice Lorenzin,
Ministro della salute; Maria Elena Boschi, Ministro per le riforme
costituzionali e rapporti con il Parlamento; Maria Anna Madia, Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione) su 15 ministri (circa il 40%).
Meno incisiva
risulta la presenza femminile nelle posizioni di sottosegretario: le donne
sottosegretario sono 10 su 44 (22,7%): Maria Teresa Amici (Rapporti con il
Parlamento); Paola De Micheli (Economia e finanze); Simona Vicari (Sviluppo
economico); Silvia Velo e Barbara Degani (Ambiente); Franca Biondelli e Teresa
Bellanova (Lavoro e politiche sociali); Angela D'Onghia (Istruzione, università
e ricerca); Francesca Barracciu e Ilaria Borletti Buitoni (Beni, attività
culturali e turismo).
In ambito UE-28, la
media della donne al Governo è del 27%, con risultati molto diversi tra gli
Stati. In Finlandia, la donne presenti nella compagine governativa sono il 54%,
mentre si registra la parità in Svezia (50%). Seguono la Francia (48%) e la
Germania (43%).
Per quanto riguarda
la composizione della Corte costituzionale dei quindi giudici
costituzionali tre sono donne: Marta
Cartabia, professore ordinario, nominata nel 2011; Silvana Sciarra e Daria De
Petris, entrambe professore ordinario, nominate nel 2014.
Nella storia della
Consulta ci sono state altre due giudici donne: Fernanda Contri, avvocato,
giudice della Corte dal 1996 al 2005, e Maria Rita Saulle, professore
ordinario, giudice dal 2005 al 2011.
Per quanto riguarda
la presenza femminile nel Parlamento europeo Parlamento europeo,
(PE) nelle prime cinque legislature le donne italiane elette risultavano sempre
in percentuali inferiori al 15%. Come si rileva dal grafico, con l'introduzione
delle quote di lista nel sistema elettorale nelle elezioni del 2004, il numero
delle donne italiane elette al Parlamento europeo è aumentato della metà,
passando da 10 donne nella V legislatura (1999-2004) a 15 nella VI (2004-2009).
Si consideri,
inoltre, che il numero dei seggi spettanti all'Italia è diminuito, passando da
87 nella V legislatura a 78, in conseguenza dell'ingresso di 10 nuovi Paesi. In
termini percentuali, la componente femminile è passata, dunque, nella VI
legislatura dall'11,5 per cento al 19,2 per cento ed è salita ulteriormente
nella VII legislatura (2009-2014), dove le donne elette al Parlamento europeo
sono risultate 16 su 72 seggi spettanti all'Italia (pari al 22,2%).
Nelle ultime
elezioni del 2014, al posto del sistema delle quote, è stata introdotta e
applicata la c.d. 'tripla preferenza di genere, in base alla quale, nel caso in
cui l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare
candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della terza preferenza.
All'esito della consultazione elettorale, il numero delle donne italiane elette
al PE risulta quasi raddoppiato, passando a 29 su 73 seggi spettanti
all'Italia, pari al 39,7% (per la prima volta, sopra la media delle donne al
Parlamento europeo, pari al 37%).
Per quanto riguarda
gli organi delle Enti territoriali, la presenza femminile nelle assemblee
regionali italiane si attesta in media intorno al 15,8% e risulta dunque molto
distante dalla media registrata a livello UE-28, pari al 32%. Più alto il dato
nelle giunte regionali, dove le donne sono il 22% (la media UE negli esecutivi
regionali è il 34%). Solo due donne (su 20 regioni) rivestono la carica di
Presidente della regione (in Umbria e Friuli Venezia Giulia).
Di seguito, la
tabella riporta, nel dettaglio, la consistenza numerica e percentuale delle
donne nei consigli delle regioni e delle province autonome, al 28 luglio 2014
(i dati sono stati forniti dalla Segreteria della Conferenza dei Presidenti
delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome), ad
eccezione dei dati relativi alle regioni Emilia Romagna e Calabria, aggiornati
alle elezioni che si sono svolte nel mese di novembre 2014.
Nell'ambito delle
assemblee degli Enti locali, il dato della presenza femminile in Italia è pari
al 27,9% nei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, al 21% nei
comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (fonte: Anagrafe degli amministratori locali - Ministro dell'interno, dati
aggiornati al 7 gennaio 2015). In ogni caso, la percentuale risulta inferiore
al dato medio di presenza femminile nelle stesse assemblee rilevato in ambito
UE-28, pari al 32%.
Più visibile la
presenza delle donne nelle giunte degli enti locali, in quanto la percentuale
di donne che riveste la carica di assessore è pari al 32% nei comuni con
popolazione fino a 15.000 abitanti, al 33,6% nei comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti. Le donne sindaco sono, in tutti i comuni di
Italia, 1.050 su 7.823, pari al 13,4%.
Tra il 28 settembre
e il 12 ottobre 2014 si sono svolte le prime elezioni con il sistema di secondo
livello per i Consigli metropolitani di 8 Città metropolitane e per i
Presidenti di Provincia e i Consigli provinciali di 64 province, in attuazione
della riforma prevista dalla legge n. 56/2014 (c.d. legge Delrio). Per quanto
concerne le città metropolitane sono stati eletti 162 consiglieri
metropolitani, di cui 31 donne, pari al 19,1% del totale. In relazione alle province,
tra i nuovi 64 presidenti di provincia, ci sono solo 7 donne, pari a circa l'11
per cento del totale.
Minore rilievo ha la
presenza delle donne a capo dei partiti politici: in Italia nessuno dei principali partiti politici è guidato da una donna
e anche in Europa si registra un modesto 13%.
Nelle Autorità
amministrative indipendenti, infine, su un totale di 42 componenti
attualmente in carica, 12 sono donne (28,6%). Nessuna delle nove Autorità
considerate è attualmente presieduta da una donna. Non sono presenti donne
nell'Autorità per le garanzie delle comunicazioni (5 componenti). Solo
nell'Autorità garante per la privacy, si registra una maggioranza di
donne (3 su 4).
Tutti i dati relativi ai Paesi europei e alle medie
UE, nonchè quelli sui partiti politici sono tratti dal Database della
Commissione europea: Women and men in decision making.
Norma fondamentale
in tema di partecipazione alla vita politica è l'articolo 51, primo
comma, della Costituzione, in base al quale tutti i cittadini dell'uno o
dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive
in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
A seguito di una
modifica del 2003 (L. Cost. n. 1/2003), dovuta anche ad un orientamento espresso dalla
Corte costituzionale in una sentenza del 1995 (v. infra) è stato aggiunto un
periodo secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le
pari opportunità tra donne e uomini.
Si è in tal modo
segnato un passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento
uomo-donna alla prospettiva dinamica delle pari opportunità, nell'ottica del
raggiungimento di un'uguaglianza sostanziale, come già riconosciuta dall'art.
3, e secondo lo spirito della Convenzione ONU per la eliminazione di ogni
forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) del 1979 e della Dichiarazione
di Pechino del 1995, che mirano al raggiungimento di una parità de
facto.
A livello
sovranazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea -
che dopo il trattato di Lisbona ha assunto valore vincolante per il nostro
ordinamento - prevede che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata
in tutti i campi e che il principio della parità non osta al
mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a
favore del sesso sottorappresentato (art. 23 inserito nel Capo III relativo
all'uguaglianza.
L'articolo 117,
settimo comma, Cost. (introdotto dalla L. Cost. n. 3/2001) prevede
inoltre che "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la
piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed
economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche
elettive." Analogo principio è stato introdotto negli statuti delle
regioni ad autonomia differenziata dalla legge costituzionale n. 2 del 2001.
Da segnalare altresì
che la proposta di riforma costituzionale, approvata dal Senato e
attualmente all'esame della Camera (A.C. 2613), introduce un nuovo secondo
comma all'art. 55 Cost., in base al quale "le leggi che
stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l'equilibrio tra
donne e uomini nella rappresentanza".
Tale disposizione
specifica dunque, rafforzandolo, quanto già sancito dall'art. 51 Cost. e
richiamato, con riferimento all'ordinamento regionale, dall'art 117. Cost.
Viene infatti indicato come obiettivo dell'attività promozionale direttamente
l'equilibrio tra donne e uomini.
Secondo un primo orientamento della Corte
costituzionale risalente alla metà degli anni Novanta, espresso nella
sentenza n. 422 del 1995, la previsione di quote di genere in campo elettorale
si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, sancito dagli articoli 3
e 51 della Costituzione. Con tale sentenza, la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni normative che avevano introdotto le quote per
le elezioni nazionali, regionali e locali, sulla base dell’assunto che, in
campo elettorale, il principio di uguaglianza deve essere inteso in senso
rigorosamente formale. In base a tale interpretazione i diritti di elettorato
passivo sono rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in
quanto tali ed è esclusa qualsiasi differenziazione in base al sesso, sia che
essa riguardi l’eleggibilità (quote di risultato, quali erano previste dalla
legge elettorale nazionale) sia che riguardi la candidabilità (quote di lista,
quali quelle previste dalla legge sulle elezioni amministrative).
Successivamente, il quadro costituzionale è mutato, anche in conseguenza della posizione
espressa dalla Corte.
Come già visto, le
riforme costituzionali del 2001 hanno riaffermato il principio della parità di
accesso alle cariche elettive in ambito regionale e la legge costituzionale n.
1 del 2003 ha riconosciuto espressamente la promozione, con appositi
provvedimenti, delle pari opportunità tra uomini e donne nella vita pubblica.
Nella sentenza n.
49 del 2003, dopo le riforme costituzionali del 2001 relative agli
ordinamenti regionali ma prime della modifica dell’articolo 51, la Corte
costituzionale dichiara infondata una questione di legittimità costituzionale
relativa ad una disposizione della legge elettorale della Valle d’Aosta che
impone l’obbligo di inserire nelle liste elettorali candidati di entrambi i
sessi. Viene dunque superata la sentenza del 1995, che aveva affermato
che il sesso non poteva essere rilevante ai fini della candidabilità.
Nell’ordinanza n. 39
del 2005, la Corte costituzionale affronta una questione sollevata dal
Consiglio di Stato riguardante l’obbligo legislativamente previsto di inserire
almeno un terzo di donne nelle Commissioni di concorso, quindi una vera quota
di risultato sia pure prevista per un organo amministrativo. Il Consiglio di
Stato richiama proprio la sentenza del 1995 a sostegno delle proprie
argomentazioni nel senso dell’incostituzionalità della disposizione che
prevedeva l’obbligo della presenza femminile. La Corte costituzionale ritiene
peraltro che il richiamo alla sentenza del 1995 non è sufficiente alla luce della
modifica dell’articolo 51 intervenuta nel 2003 e dichiara pertanto la questione
manifestamente inammissibile per carenza di motivazione.
La pronuncia più
rilevante sul tema è la sentenza n. 4 del 2010, con cui la Corte,
richiamando il principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale, ha
dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Governo relativa all’introduzione della ‘doppia preferenza di genere’ da
parte della legge elettorale della Campania, in considerazione del carattere
promozionale e della finalità di riequilibrio di genere della misura.
Secondo la Corte «il
quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio
fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza
politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma,
Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di
fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini
all’organizzazione politica del Paese. Preso atto della storica
sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a
preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori
culturali, economici e sociali, i legislatori costituzionale e statutario
indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un
principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente
realizzato nella prassi politica ed elettorale».
Nell’ordinamento italiano si rinvengono diverse norme,
sia nazionali che regionali, finalizzate alla promozione della partecipazione
delle donne alla politica e dell’accesso alle cariche elettive, emanate in
attuazione dei già richiamati articoli 51, primo comma, e 117, settimo comma,
Cost.
Il decreto-legge
sull'abolizione del Partiti politicifinanziamento pubblico diretto ai partiti (D.L. 28 dicembre 2013, n. 149, conv. dalla L. n. 13/2014) disciplina i requisiti di
trasparenza e democraticità richiesti ai partiti per accedere alle nuove forme
di contribuzione previste (‘due per mille' sulla base delle scelte espresse dai
cittadini e agevolazioni fiscali sulle liberalità), istituendo a tal fine un
apposito registro.
Ai fini dell'iscrizione
del registro, la legge prescrive una serie di requisiti per lo statuto dei
partiti, tra i quali rientra l'indicazione delle "modalità per
promuovere, attraverso azioni positive, l'obiettivo della parità tra i sessi
negli organismi collegiali e per le cariche elettive, in attuazione dell'art. 51 Cost." (art. 3, comma 2, lett. f).
L'articolo 9 del D.L.
n. 149/2013 del medesimo decreto disciplina espressamente la parità
di accesso alle cariche elettive, sancendo innanzitutto il principio che i
partiti politici promuovono tale parità.
In attuazione di
tale principio, sono riprese e rafforzate due disposizioni contenute nella
precedente legislazione sul finanziamento pubblico ai partiti (L. n. 157/1999,
art. 3; L. n. 96/2012, art. 1, comma 7,
e art. 9, comma 13).
In primo luogo, per
riequilibrare l'accesso alle Candidature alle politiche ed europee candidature
nelle elezioni, è prevista la riduzione delle risorse spettanti a titolo di
‘due per mille' nel caso in cui, nel numero complessivo dei candidati
presentati da un partito per ciascuna elezione della Camera, del Senato e del
Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore
al 40 per cento.
In particolare, la
misura della riduzione è pari allo 0,5% per ogni punto percentuale al di sotto
del 40 per cento, fino al limite massimo complessivo del 10% (art. 9, comma 2, D.L. n. 149/2013).
In secondo luogo, ai
partiti politici che non abbiano destinato una quota pari ad almeno il 10
per cento delle somme ad essi spettanti a titolo di ‘due per mille' ad iniziative
volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica, la
Commissione di garanzia sui partiti politici applica una sanzione
amministrativa pecuniaria pari a un quinto delle somme ad essi spettanti a
titolo di ‘due per mille'. (art. 9, comma 3).
E' infine previsto
un meccanismo premiale per i partiti che eleggono candidati di entrambi
i sessi. Le risorse derivanti dall'applicazione delle due disposizioni
esaminate confluiscono infatti in un apposito fondo, annualmente ripartito tra
i partiti iscritti nell'apposito registro, per i quali la percentuale di eletti
– e non di semplici candidati - del sesso meno rappresentato sia pari o
superiore al 40 per cento (art. 9, commi 4 e 5).
A livello di legge
elettorale nazionale, non si rinvengono ulteriori specifiche disposizioni,
ad eccezione di una norma di principio, contenuta della legge elettorale del
Senato, secondo cui il sistema elettorale deve favorire "l'equilibrio
della rappresentanza tra donne e uomini" (D.Lgs. n. 533/1993, art. 2 ).
Il progetto di
legge di riforma elettorale, approvato dal Senato e ora di nuovo all'esame
della Camera (A.C. 3 e abb. bis-B),
detta alcune norme in favore della rappresentanza di genere per le elezioni
della Camera (non viene modificato il sistema elettorale del Senato, in attesa
della riforma costituzionale che dovrebbe superare la natura elettiva di questo
organo).
Il nuovo sistema
elettorale prevede un premio di maggioranza assegnato al partito che supera la
soglia di sbarramento del 40 per cento o, in mancanza, a seguito di un
ballottaggio tra i due partiti più votati. Il territorio nazionale è diviso in
circoscrizioni, corrispondenti alle regioni, in cui i seggi sono attribuiti in
collegi plurinominali di piccole dimensioni (da tre a nove seggi), sulla base
di liste, composte da un candidato capolista (che è "bloccato") e da
un elenco di candidati per i quali si possono esprimere una o due preferenze.
Esso introduce, a
pena di inammissibilità, un obbligo di rappresentanza paritaria dei due sessi
nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista (quindi, a
livello regionale) e prevede che, nella successione interna delle singole liste
nei collegi, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere
(quindi 1-1). Inoltre è stabilito, a pena di inammissibilità della lista, che
nel numero complessivo dei capolista nei collegi di ogni circoscrizione non può
esservi più del 60 per cento di candidati dello stesso sesso. Infine, è
introdotta la c.d. doppia preferenza di genere, ossia, in caso di espressione
della seconda preferenza, l'elettore deve scegliere un candidato di sesso
diverso rispetto al primo, a pena di nullità della seconda preferenza.
Per le elezioni
del Parlamento europeo, la legge 22 aprile 2014, n. 65, ha introdotto nella legge elettorale europea
disposizioni volte a rafforzare la rappresentanza di genere.
In considerazione
del ravvicinato svolgimento delle elezioni europee (già indette per il 25
maggio), la legge reca una disciplina transitoria destinata ad applicarsi solo
nelle elezioni del 2014 ed una più incisiva disciplina a regime che troverà
applicazione dalle successive elezioni del 2019.
In particolare la
proposta di legge introduce, limitatamente alle elezioni europee del 2014,
la cd. ‘tripla preferenza di genere', prevedendo che, nel caso in cui
l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare
candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della terza preferenza.
Per quanto
riguardala disciplina a regime, destinata ad applicarsi dal 2019,
viene prevista:
·
la composizione paritaria delle liste dei
candidati, disponendosi che, all'atto della presentazione della lista, i
candidati dello stesso sesso non possono essere superiori alla metà, a pena di
inammissibilità; inoltre, i primi due candidati devono essere di sesso diverso;
·
la ‘tripla preferenza di genere', con una
disciplina più incisiva rispetto a quella prevista in via transitoria per il
2014: le preferenze devono infatti riguardare candidati di sesso diverso non
solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due preferenze. In caso di
espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, la seconda
preferenza viene annullata; in caso di espressione di tre preferenze, sono
annullate sia la seconda che la terza preferenza.
Sono poi
disciplinate le verifiche dell'ufficio elettorale al fine di garantire
il rispetto delle disposizioni sull'equilibrio di genere nelle liste,
assicurando al tempo stesso, ove possibile, la conservazione della lista.
Nel caso in cui
risulti violata la disposizione sulla presenza paritaria di candidati nelle
liste, l'ufficio elettorale procede dunque alla cancellazione dei candidati del
sesso sovrarappresentato, partendo dall'ultimo, fino ad assicurare l'equilibrio
richiesto. Se, all'esito della cancellazione, nella lista rimane un numero di
candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge, la lista è ricusata e
non può conseguentemente partecipare alle elezioni.
Nel caso in cui
risulti violata la disposizione sull'alternanza di genere tra i primi due
candidati, l'ufficio elettorale modifica la lista, collocando dopo il primo
candidato quello successivo di genere diverso.
Dalla modifica
costituzionale dell'articolo 51 discendono anche le norme inserite nella legge
finanziaria 2008, che, disponendo in tema di organizzazione del Governo,
stabiliscono che la sua composizione deve essere coerente con il
principio costituzionale delle pari opportunità nell'accesso agli uffici
pubblici e alle cariche elettive (art. 1, commi 376-377, L. 244/2007).
La legge n. 215/2012, modificando la legge sulla par condicio, ha
infine introdotto una disposizione di principio, secondo cui i mezzi di
informazione, nell'ambito delle trasmissioni per la comunicazione politica,
sono tenuti al rispetto dei principi di pari opportunità tra donne e uomini
sanciti dalla Costituzione.
In ordine alle
elezioni comunali, di grande rilevanza è stata l'approvazione, sul finire della
XVI legislatura, della legge 23 novembre 2012, n. 215, recante
disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei
consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.
Per l'elezione dei consigli
comunali, nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la
legge, riprendendo un modello già sperimentato dalla legge elettorale della
Regione Campania, contempla una duplice misura volta ad assicurare il
riequilibrio di genere:
·
la previsione della cd. quota di lista: nelle
liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
superiore a due terzi. E' previsto l'arrotondamento all'unità superiore per il
genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a 0,5.
·
l'introduzione della cd. doppia preferenza di
genere, che consente all'elettore di esprimere due preferenze (anziché una,
come previsto dalla normativa previgente) purché riguardanti candidati di sesso
diverso, pena l'annullamento della seconda preferenza. Resta comunque ferma la
possibilità di esprimere una singola preferenza.
In caso di
violazione delle disposizioni sulla quota di lista, è peraltro previsto
un meccanismo sanzionatorio differenziato - a seconda che la popolazione superi
o meno i 15.000 abitanti -, che di fatto rende la quota effettivamente
vincolante solo nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
In particolare, nei
comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la Commissione
elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, riduce la lista,
cancellando i candidati del genere più rappresentato, partendo dall'ultimo,
fino ad assicurare il rispetto della quota; la lista che, dopo le
cancellazioni, contiene un numero di candidati inferiore al minimo prescritto
dalla legge è ricusata e, dunque, decade.
Nei comuni con
popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti, la Commissione
elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, procede anche in tal caso
alla cancellazione dei candidati del genere sovrarappresentato partendo
dall'ultimo; la riduzione della lista non può però determinare un numero di
candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Ne deriva che
l'impossibilità di rispettare la quota non comporta la decadenza della
lista.
Per i comuni con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti è comunque previsto che nelle liste dei
candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Tale
disposizione ha particolare rilievo per i comuni con popolazione inferiore a
5.000 abitanti, nei quali non si applica la quota di lista.
La disposizione
sulla presenza di entrambi i sessi nelle liste risulta peraltro priva di
sanzione.
Le disposizioni per
l'elezione dei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti
volte a garantire la parità di accesso di donne e uomini alle cariche elettive
si applicano anche alle elezioni dei consigli circoscrizionali, secondo
le disposizioni dei relativi statuti comunali.
Il sistema è stato
applicato per la prima volta nelle elezioni comunali del maggio 2013.
Uno studio sui risultati elettorali nei 16 comuni
capoluogo che hanno votato
evidenzia effetti molto positivi: in termini assoluti il numero di donne elette
raddoppia, mentre in termini percentuali la presenza femminile è due volte e mezzo
quella della precedente tornata nel complesso (dall'11,2 al 27,9%), e nel caso
dei capoluoghi meridionali addirittura quadrupla (dal 7,3 al 28%).
Si segnala inoltre
il dato di Roma capitale: nell'Assemblea capitolina, la presenza femminile è
aumentata dal 7 per cento (con 4 consigliere su 60 componenti del consiglio) al
31 per cento (con 15 consigliere su 48 componenti).
Per gli esecutivi,
la legge n. 215/2012 prevede inoltre che il sindaco nomina la giunta nel
rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la
presenza di entrambi i sessi. Uguale disposizione è inserita nell'ordinamento
di Roma capitale, per quanto riguarda la nomina della Giunta capitolina.
La legge
recentemente approvata su Città metropolitane, province, unioni e fusioni di
comuni è intervenuta su questo punto introducendo una disposizione più
incisiva: nelle giunte comunali, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento
aritmetico; sono esclusi dall'ambito di applicazione della norma i comuni
con popolazione fino a 3.000 abitanti.
La legge n. 215/2012
ha inoltre modificato la norma che disciplina il contenuto degli statuti
comunali e provinciali con riferimento alle pari opportunità.
In particolare, è previsto
che gli statuti stabiliscono norme per "garantire", e non più
semplicemente "promuovere", la presenza di entrambi i sessi nelle
giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della
provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti.
Gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri
statuti e regolamenti alle nuove disposizioni entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della legge (ossia entro il 26 giugno 2013).
A livello di città metropolitane e province
La legge 7 aprile 2014, n. 56, sull'istituzione delle Città metropolitane ed
il riordino delle province ha eliminato l'elezione diretta dei consigli
provinciali.
I consigli
metropolitani (organi delle nuove città metropolitane) ed i consigli
provinciali divengono organi elettivi di secondo grado; l'elettorato attivo
e passivo spetta ai sindaci ed ai consiglieri comunali dei rispetti territori.
L'elezione di questi
due organi avviene con modalità parzialmente differenti, che comunque prevedono
l'espressione di un voto di preferenza e la ponderazione del voto (in base ad
un indice rapportato alla popolazione complessiva della fascia demografica di
appartenenza del comune).
Ai fini di
promuovere la rappresentanza di genere, nelle liste nessuno dei due sessi
può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, con
arrotondamento all'unità superiore per i candidati del sesso meno
rappresentato, a pena di inammissibilità. Tale disposizione troverà peraltro
applicazione decorsi 5 anni dall'entrata in vigore della legge n. 215/2012,
sulle rappresentanze di genere negli organi elettivi degli enti locali e
quindi, di fatto, dalle elezioni del 2018 (art. 1, commi 27-28 e commi 71-72).
Non è prevista la
possibilità della doppia preferenza di genere, in quanto ritenuta incompatibile
con il sistema del voto ponderato.
Non è inoltre più
prevista la giunta, ma un altro organo assembleare (consiglio metropolitano
nelle città metropolitane e assemblea dei sindaci nelle province), composto da
tutti i sindaci del territorio.
Agli statuti di città metropolitane e province sono
inoltre applicabili le già esaminate disposizioni volte a garantire le pari
opportunità negli organi collegiali non elettivi. Nelle prime elezioni svolte
con il nuovo sistema elettorale (2014), il numero delle donne elette nei
consigli delle città metropolitane è risultato pari al 19,1% del totale.
Dopo la modifica
degli articoli 122 e 123 della Costituzione, che ha dato avvio al processo di
elaborazione di nuovi statuti regionali e di leggi per l'elezione dei consigli
nelle regioni a statuto ordinario, tutte le regioni che hanno adottato
norme in materia elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche per
favorire la parità di accesso alle cariche elettive, in attuazione
dell'art. 117, settimo comma, Cost.
Le misure sono
diverse e sono per lo più incentrate sulle cosiddette ‘quote di lista', ossia
sull'obbligo di inserire nelle liste di candidati una quota minima di candidati
del genere meno rappresentato, variabile tra un terzo e la metà. Le quote di
lista sono applicate in sistemi elettorali proporzionali, con premio di
maggioranza e con voto di preferenza. Una sola regione, la Campania, ha messo a
punto uno strumento ulteriore, la cosiddetta ‘doppia preferenza di genere',
misura successivamente ripresa dalla legge elettorale per i comuni.
Nel dettaglio, le
regioni Lazio (L.R. 2/2005, art. 3), Puglia (L.R. 2/2005, art. 3,
co. 3), Toscana (L.R. 25/2004, art. 8, co. 4), Marche (L.r.
27/2004, art. 9, comma 6), Campania (L.R. 4/2009, art. 10) e la regione Umbria
(L.R. 2/2010, art. 3 comma 3) pongono il limite di due terzi alla presenza di
candidati di ciascun sesso in ogni lista provinciale. Per la regione Abruzzo,
la nuova disciplina elettorale dettata dalla L.R. 9/2013, dispone che in ogni
lista circoscrizionale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
superiore al 60% dei candidati (in caso di quoziente frazionario si procede
all'arrotondamento all'unità più vicina, art. 1, comma 4). Nella regione Lombardia
(L.R. 17/2012. art. 1, comma 11) le liste devono essere composte seguendo
l'ordine dell'alternanza di genere mentre la regione Veneto (L.R.
5/2012, art. 13, comma 6) dispone, che in ogni lista provinciale i
rappresentanti di ciascun genere devono essere presenti in misura eguale ed i
nomi dei candidati sono alternati per genere.
Nelle liste
regionali (tra le regioni citate, presenti solo nella regione Lazio; si
tratta del cd. 'listino') i candidati di entrambi i sessi devono essere invece
in numero pari; nella regione Toscana, inoltre, in relazione alle
candidature regionali, quando le liste indicano più candidati, ciascun genere
deve essere rappresentato (art. 10, co. 2). Meno cogente la prescrizione della
regione Calabria (L.R. 1/2005, art. unico, co. 6) per la quale nelle
liste elettorali (provinciali e regionali) devono essere presenti candidati di
entrambi i sessi.
Nella maggioranza dei
casi l'inosservanza del limite è causa di inammissibilità; nelle regioni Lazio,
Puglia e Umbria, invece, è causa di sanzione pecuniaria per le liste
provinciali.
La legge della regione
Campania, infine, contiene disposizioni sulla rappresentanza di genere
anche in relazione ad altri ambiti, oltre quello della presentazione delle
liste:
·
campagna elettorale: i soggetti politici devono assicurare la presenza
paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di comunicazione
politica e nei messaggi autogestiti (art. 10, comma 4, L.r. 4/2009);
·
voto di preferenza: poiché la legge regionale (art. 4, comma 3, L.r.
4/2009) prevede la possibilità per l'elettore di esprimere uno o due voti di
preferenza, «nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un
candidato di genere maschile e l'altra un candidato di genere femminile della
stessa lista, pena l'annullamento della seconda preferenza».
Per quanto concerne
le regioni a statuto speciale e le province autonome, anch'esse hanno
adottato norme in materia elettorale, tra cui disposizioni per favorire
l'accesso alle cariche elettive di entrambi i sessi, come disposto dalla legge
costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, relativa all'elezione diretta dei
Presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento
e Bolzano.
Le disposizioni sono
diversificate, tutte contengono obblighi nella presentazione delle liste:
·
per la regione Valle d'Aosta, in ogni lista di
candidati all'elezione del Consiglio regionale ogni genere non può essere
rappresentato in misura inferiore al 20 per cento, arrotondato all'unità
superiore (art. 3-bis, LR 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007);
in sede di esame e ammissione delle liste, l'Ufficio elettorale regionale
riduce al limite prescritto quelle contenenti un numero di candidati superiore
al numero massimo prescritto, cancellando gli ultimi nomi; dichiara non valide
le liste che non corrispondano alle predette condizioni (art. 9, comma 1, LR
3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007);
·
per la regione Friuli-Venezia Giulia ogni lista
circoscrizionale deve contenere, a pena di esclusione, non più del 60 per cento
di candidati dello stesso genere; nelle liste i nomi dei candidati sono
alternati per genere fino all'esaurimento del genere meno rappresentato; al
fine di promuovere le pari opportunità, la legge statutaria prevede inoltre
forme di incentivazione o penalizzazione nel riparto delle risorse spettanti ai
gruppi consiliari (è considerato ‘sottorappresentato' quello dei due generi
che, in Consiglio, è rappresentato da meno di un terzo dei componenti) e
disposizioni sulla campagna elettorale. I soggetti politici devono assicurare
la presenza paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di
comunicazione politica offerti dalle emittenti radiotelevisive pubbliche e
private e, per quanto riguarda i messaggi autogestiti previsti dalla vigente
normativa sulle campagne elettorali, devono mettere in risalto con pari
evidenza la presenza dei candidati di entrambi i generi nelle liste presentate
dal soggetto politico che realizza il messaggio. (artt. 23, comma 2 e 32, L.R.
17/2007);
·
nella Regione siciliana, tutti i candidati di
ogni lista regionale dopo il capolista devono essere inseriti secondo un
criterio di alternanza tra uomini e donne; una lista provinciale non può
includere un numero di candidati dello stesso sesso superiore a due terzi del
numero dei candidati da eleggere nel collegio (art. 14, comma 1, L.R. 29/1951,
come modificato dalla L.R. 7/2005);
·
nella Provincia autonoma di Trento, in ciascuna
lista di candidati – a pena di inammissibilità - nessuno dei due generi può
essere rappresentato in misura superiore a due terzi del numero dei candidati
della lista, con eventuale arrotondamento all'unità superiore (art. 25 co.
6-bis e art. 30 co. 1 L.P. 2/2003 come modificata dalla L.P. 8/2008).
·
nella regione Sardegna, la legge regionale
statutaria n. 1 del 2013 stabilisce che in ciascuna lista circoscrizionale – a
pena di esclusione - ciascuno dei due generi non può essere rappresentato in
misura superiore ai 2/3 dei candidati, con arrotondamento all'unità superiore
(Legge regionale statutaria n. 1/2013, art. 4); l'elettore esprime un voto di
preferenza;
·
nella Provincia autonoma di Bolzano, in
ciascuna lista di candidati nessuno dei due generi può essere rappresentato in
misura superiore a due terzi del numero dei candidati della lista, con
eventuale arrotondamento all'unità più prossima; nella lista in cui non venga
rispettata tale quota, sono cancellati i nominativi dei candidati che eccedono
la quota prevista, a partire dall'ultima candidata/dall'ultimo candidato del
genere che eccede la quota (art. 1, commi 13 e 15, L.P. 4/2003, come modificati
dall' art. 1, commi 5 e 7, L.P. 8 maggio 2013, n. 5); (art. 1, comma 13 e 15, L.P.
4/2003, come modificati dall' art. 1, commi 5 e 7, L.P. 8 maggio 2013, n. 5);
non ci sono norme, invece, concernenti la preferenza di genere (l'elettore può
esprimere fino a 4 preferenze, D.P.G.R. 29-1-1987 n. 2/L, art. 49).
In generale, la presenza media delle donne nei consigli
regionali è molto bassa, attestandosi intorno al 15%, sensibilmente al di
sotto del dato delle elezioni nazionali.
Dall'analisi dei meccanismi elettorali emerge che le
quote di lista determinano l'effetto di aumentare il numero donne candidate. Nelle regioni che prevedono quote, la percentuale di
donne sul totale dei candidati è sempre superiore rispetto alle regioni che non
le applicano; ma all'aumento del numero delle candidate non sempre corrisponde
un aumento del numero delle elette. Ad esempio, nella in Lombardia, è previsto
che le liste siano composte seguendo l'alternanza di genere, e quindi con il
50% di candidature riservate alle donne, ma le elette alla fine sono state meno
del 19 per cento. Dove non è prevista neanche la misura minima della quota di
lista, i risultati non sono brillanti, come in Basilicata, nel cui consiglio
regionale non siede neanche una donna.
Un altro dato rilevante è che la presenza femminile è
in generale maggiore nelle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud; questo dato molto probabilmente è dovuto a fattori
di ordine culturale e sociale.
Anche se è proprio
una regione del Sud, la Campania, che ha la più alta percentuale di donne
elette al Consiglio regionale, il 23 per cento. Qui entra in gioco il sistema
elettorale: la Campania, come visto, è l'unica regione che ha introdotto la
doppia preferenza di genere. Questo dato dimostra come specifici strumenti
elettorali possano determinare il superamento del gap tra i generi che
sussiste a livello economico e sociale.
Per un quadro di sintesi, si rinvia alla tabella
delle norme regionali e della presenza delle donne nei consigli regionali.
Le quote di genere nei sistemi elettorali: una analisi comparata
Il peso delle donne
nelle assemblee rappresentative è un problema diffuso su scala planetaria e con
cui tutti i paesi al momento, sia le democrazie consolidate che le democrazie
emergenti, si stanno confrontando.
Per superare questa
situazione e garantire l'accesso delle donne alle assemblee parlamentari, lo
strumento più diffuso è l'introduzione delle quote di genere nei sistemi
elettorali.
Attualmente nella
maggior parte dei paesi del mondo funzionano le quote di genere in campo
elettorale. Le quote possono essere previste a livello legislativo, a volta
anche costituzionale, e questo accade in circa 75 paesi, o possono essere
adottate dai partiti politici su base volontaria, come accade in circa 51
paesi.
La previsione di
quote nella loro veste più vincolante, ossia con la previsione di seggi
riservati alle donne, è diffusa soprattutto nelle nuove democrazie
costituzionali dell'Africa e dell'Asia, nelle democrazie emergenti. In molti
casi si è trattato di partire da zero nel riconoscimento dei diritti alle donne
e per questi paesi l'introduzione delle quote è parte integrante del processo
di democratizzazione in corso.
L'esempio più citato
è quello dell'Afghanistan, in cui le donne occupano il 28 per cento dei seggi
del Parlamento: questo grazie ad una previsione costituzionale.
Anche grazie ad un
sistema di seggi riservati, nel 2008 il Ruanda si è affermato come unico paese
in cui le deputate donne sono più dei deputati uomini (56%); il successo è
stato replicato nelle recenti elezioni del 2013, quando le donne hanno
raggiunto la stratosferica percentuale del 64% (51 seggi su 80).
Sistemi elettorali
che prevedono a livello legislativo un sistema di quote, pur senza meccanismi
così stringenti come quello dei seggi riservati, sono ampiamente diffusi in
America Latina. In Argentina, ad esempio, le donne occupano il 37% dei seggi
alla Camera.
Il caso dell'India.
Nel 1993 l'India, allo scopo di aumentare
la presenza femminile in politica, introduce una modifica costituzionale e
riserva alle donne un terzo dei seggi in ogni amministrazione locale. Inoltre,
nel West Bengal, oggetto di un recente studio, un terzo delle amministrazioni
locali in ogni elezione viene casualmente selezionata per una leadership
femminile, ossia per attribuire la posizione di consigliere capo –pradhan-
ad una donna. Poiché i villaggi che hanno una leader donna sono
selezionati casualmente, non ci dovrebbe essere nessuna differenza osservabile
tra villaggi riservati o non riservati ad un pradhan donna, il che
consente di individuare un effetto causale dello "sperimentare un capo
donna".
La ricerca ha
dimostrato che la percezione dei votanti sull'efficacia della leadership
femminile è completamente diversa nei due gruppi di villaggi: gli elettori che
sono stati "esposti" al capo consigliere donna per un periodo
sufficientemente prolungato pensano che le donne siano dei leader
competenti, a differenza degli abitanti dei villaggi che non hanno avuto questa
esperienza. Ciò che è ancora più interessante è che la presenza di donne in
posizione di leadership ha modificato le aspettative e le aspirazioni dei
genitori per le loro figlie (senza ridurre quelle per i loro figli) e delle
figlie stesse per il loro futuro. Il cambiamento nelle aspirazioni si è poi
tradotto in una riduzione del gap in termini di istruzione, generalmente a
favore dei ragazzi, e dell'asimmetria nella ripartizione dei compiti domestici,
in cui tipicamente le ragazze sono maggiormente coinvolte.
Analizzando i dati dei Parlamenti europei, ad una
prima sommaria analisi sembrerebbe non esserci una immediata relazione tra la
previsione delle quote e la presenza di donne. Paesi che non hanno quote
raggiungono una presenza femminile molto alta, mentre paesi che prevedono le
quote a livello legislativo ottengono risultati meno significativi.
Tuttavia si
consideri che nelle prime posizioni svettano, come noto, i Paesi del Nord
Europa (Svezia 45%, Finlandia 43%, Islanda 40%, poi Norvegia e Danimarca con il
39%), in nessuno dei quali sono previste quote a livello legislativo; tutt'al
più le quote sono introdotte a livello volontario dai partiti. Ma in Finlandia
ed in Danimarca, ciò non accade; eppure la presenza femminile è molto alta.
Uno studio del Parlamento europeo offre una chiave di lettura di questo fenomeno. Nei
paesi nordici, la parità è già stata raggiunta a livello sociale; il modello
sociale consente di dire che si tratta di una parità effettiva, praticata nella
quotidianità. Sono Paesi in cui esistono i servizi per la famiglia, in cui le
responsabilità familiari sono equamente ripartite tra l'uomo e la donna,
l'organizzazione della società e del lavoro tiene conto delle esigenze di
conciliazione. In Paesi come questi, le quote attualmente non servono. E' vero
che in alcuni casi i partiti le applicano, ma probabilmente a quegli stessi
risultati si arriverebbe anche senza.
Bisogna però tener
conto anche di un altro fattore, ossia dell'aspetto temporale. Il citato studio
dimostra che per sfondare il 30 per cento della presenza femminile in politica,
i paesi scandinavi hanno impiegato all'incirca 70 anni. Questi paesi hanno
dunque percentuali molto alte di presenza femminile perché si sono posti il
problema della parità molto prima degli altri e lo hanno affrontato con misure
concrete già decine di anni fa, del resto facendo anche ricorso a strumenti
come le quote.
Continuando ad
analizzare le quote di genere in Belgio e Spagnadati sulla presenza delle donne
nei parlamenti europei, si nota che in cima alla graduatoria, insieme ai Paesi
nordici, ci sono due paesi con caratteristiche sociali diverse: il Belgio e la
Spagna, con un 36-40% di presenza femminile. In entrambi i paesi – che votano
con un sistema proporzionale con liste bloccate o semi-bloccate - sono state
introdotte misure legislative per garantire la presenza di genere nelle liste.
Nel caso del Belgio,
si rileva che fino alla metà degli anni Novanta, la percentuale di donne nelle
varie assemblee elettive era molto bassa, circa il 5-10 per cento. Sotto la
spinta del movimento femminile, nel 1994 è stata adottata la prime di legge per
la parità tra uomini e donne in politica, con le quote, rafforzata poi nel
2002. Ebbene dalle percentuali molto basse (non superiori al 10 per cento)
precedenti alla legge del 1994 si è arrivati nel 1999 al 35%, nel 2004 al 37% e
nel 2010 a circa il 40%. Tutto questo nell'arco di circa 10-15 anni.
Più in generale, se
si considerano i paesi in cui la presenza femminile è superiore ad un terzo dei
componenti:
- o sono paesi nordici che sono molto avanti nella
realizzazione della parità a livello sociale;
- o sono paesi in cui le quote sono previste a livello
legislativo: Belgio, Spagna e Slovenia (33%);
- o sono paesi in cui le quote sono comunque praticate
da pressoché tutti i partiti: Germania (36%).
Si segnala inoltre la posizione piuttosto bassa di due Paesi rilevanti, la Francia (27%) ed il Regno Unito (23%), che hanno un sistema
elettorale di tipo maggioritario con collegi uninominali, a doppio turno in
Francia e a turno unico nel Regno Unito. Si tratta infatti di un sistema
elettorale particolarmente sfavorevole al riequilibrio della rappresentanza di
genere.
Il 31
ottobre 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato
all’unanimità la risoluzione 1325 su
donne, pace e sicurezza, primo
documento del Consiglio che menziona esplicitamente l’impatto dei conflitti armati sulle donne e sottolinea il
contributo femminile per la risoluzione dei conflitti e per la costruzione di
una pace durevole.
La risoluzione, considerata “madre” di
risoluzioni ONU successive dal contenuto più specifico (per le quali si veda infra), delinea un sistema ampio di obiettivi
a garanzia della prevenzione, della partecipazione e protezione delle donne nei
contesti di conflitto (paradigma delle 3”P”), focalizzando tre elementi:
1.
le
donne ed i fanciulli rappresentano i gruppi più colpiti dai conflitti armati;
2.
le
donne svolgono un ruolo imprescindibile sia nella prevenzione e risoluzione dei
conflitti, sia nelle attività di ricostruzione della pace;
3.
gli
Stati membri dell’Onu sono invitati ad assicurare una più ampia partecipazione
delle donne a tutti i livelli decisionali, con particolare riferimento ai
meccanismi di prevenzione, gestione e risoluzione del conflitto.
Il principio ispiratore della risoluzione -
la “tolleranza zero” rispetto a tali forme di violenza che violano le norme
internazionali e costituiscono comportamenti di rilievo penale - si applica ai
militari, alle parti in conflitto nonché al personale militare e civile dell’Onu
responsabile di abusi sessuali nelle aree di conflitto.
A fronte dell’ampiezza del mandato della risoluzione 1325 e della mancanza di
indicazioni precettive in ordine all’attuazione delle sue disposizioni, e
mentre si continuavano a registrare
numerosi casi di violenza sessuale nelle aree di conflitto armato e post
conflitto, il Consiglio di Sicurezza ha previsto, nel Presidential Statement del
28 ottobre 2004, la possibilità che gli Stati membri proseguissero sulla strada dell’attuazione
della Risoluzione 1325 anche attraverso lì adozione di “National Action Plans”.
Un rapporto del Segretario generale Onu dà
conto ogni anno dei progressi compiuti.
Si segnala che nell’ultimo report
(rilasciato il 2 ottobre 2012) viene evidenziato che 37 Stati membri (su un
totale di 193, pari al 19%), tra i quali il nostro Paese, hanno adottato un
piano d’azione nazionale.
In Italia, in particolare, un primo Piano di Azione Nazionale su “Donne Pace e
Sicurezza” 2010-2013 è stato adottato il 23 dicembre 2010, mentre il
secondo Piano nazionale, relativo al periodo 2014-2016, è stato ufficialmente
presentato presso il Ministero degli Affari esteri e della cooperazione il 25
novembre scorso, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle
donne.
In quella occasione il ministro Gentiloni ha ribadito il forte impegno
internazionale del nostro Paese per contrastare la violenza contro le donne con
campagne contro le pratiche lesive dei diritti fondamentali delle bambine e
delle adolescenti, contro le mutilazioni genitali femminili (MGF) e contro i
matrimoni precoci e forzati: un impegno che si attua anche attraverso numerose
iniziative di cooperazione allo sviluppo volte alla tutela dei diritti e all’empowerment delle donne e realizzati in
un’ampia area di paesi, tra cui il centro Mehwar nei Territori palestinesi, le
iniziative di promozione dei diritti fondamentali delle donne in Afghanistan e
la promozione del ruolo delle donne nei processi elettorali in Libano.
La prima risoluzione delle Nazioni Unite
dove si afferma che la violenza sessuale
in situazioni di conflitto armato può costituire crimine di guerra, crimine contro l’umanità e prefigurare genocidio è la risoluzione 1820 adottata
all’unanimità il 19 giugno 2008 dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel corso del dibattito su donne,
pace e sicurezza. L’Italia, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza
nel biennio 2007-2008, aveva profuso un intenso impegno in fase negoziale, con
particolare riguardo al riconoscimento del nesso
tra sicurezza internazionale e violenza sessuale nei casi in cui questa
viene impiegata come tattica di guerra.
La risoluzione
1820 del 2008 chiede a tutte le parti nei conflitti armati di cessare
immediatamente e del tutto la violenza sessuale contro i civili evidenziando
che, nonostante le reiterate condanne, la violenza e l’abuso sessuale di donne
e bambini intrappolati in zone di guerra è praticata con un’ampiezza ed una
sistematicità tali da configurare livelli di “spaventosa brutalità”. Il documento, stabilito che l’utilizzo della violenza sessuale come
tattica di guerra può profondamente esacerbare i conflitti armati ed
impedire il ripristino della pace e della sicurezza internazionale, afferma che
lo stupro e le altre forme di violenza sessuale possono rappresentare crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed anche atti costitutivi di genocidio. Nella premessa, inoltre, il
documento richiama l’inclusione di una serie di offese sessuali nello Statuto
di Roma, atto fondativo della Corte penale internazionale dell’Aja.
La risoluzione, che prevede la
possibilità di imporre sanzioni mirate
contro fazioni che commettono
stupri e altre forme di violenza contro donne e ragazze, chiedeva al Segretario generale Onu di
dare conto del quadro della situazione e dell’attuazione della disposizioni in
essa contenute entro il 30 giugno 2009, nonché di formulare proposte volte a “minimizzare la suscettibilità” delle
donne e delle ragazze a tale violenza. Il Segretario era inoltre richiesto di
sviluppare linee guida e strategie efficaci per migliorare le capacità delle
operazioni di peacekeeping Onu nella
protezione dei civili da ogni forma di violenza sessuale.
Le risoluzioni 1960 (2010) e 1888 (2009)
Una ulteriore risoluzione (1960/2010) è stata adottata all’unanimità il 16
dicembre 2010 dal Consiglio di Sicurezza il quale ha chiesto alle parti
coinvolte in conflitti armati di assumere specifici
impegni ed indicare precise scadenze
della lotta alla violenza sessuale, sollecitandole sul lato della prevenzione a
proibire tali crimini attraverso la somministrazione di ordini precisi alle
catene di comando e l’imposizione di codici di condotta e, sul versante
giudiziario, ad indagare i presunti abusi affidandone tempestivamente alla
giustizia i responsabili. Il Segretario generale è tenuto a monitorare il
perfezionamento di tali impegni nonché, sulla base di una analisi più
approfondita, a favorire una migliore cooperazione tra tutti gli attori Onu
finalizzata a fornire una risposta
sistemica alla questione della violenza sessuale, nel frattempo procedendo
a più nomine femminili tra i protection
advisers delle missioni di peacekeeping.
Il complesso delle risoluzioni sopra
richiamate, alle quali va aggiunta anche la risoluzione 1888 (2009) con la quale il Consiglio di Sicurezza tra
le misure atte a fornire protezione a donne e bambini contro la violenza
sessuale in situazioni di conflitto, individua la figura del rappresentante speciale del Segretario
Generale Onu incaricato di dirigere e coordinare l’operato delle Nazioni Unite
sul tema, rappresenta la cornice predisposta dal Consiglio per la prevenzione e repressione della violenza
sessuale in relazione ai conflitti.
Il Rappresentante Speciale ONU per le violenze sessuali in situazioni di conflitto
La carica di Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per le violenze sessuali in
situazioni di conflitto è ricoperta dal 22 giugno 2012 da Zainab Hawa Bangura, cittadina della
Sierra Leone, che è subentrata a Margot Wallström.
I focal
points del mandato della Rappresentante Speciale sono costituiti dal
contrasto all’impunità dei responsabili, dall’empowerment delle donne colpite al fine di ristabilire il godimento
dei loro diritti, dall’implementazione di politiche idonee a sostenere un
approccio globale alla violenza sessuale, dall’armonizzazione su scala
internazionale della risposta alle violenze e dal miglioramento della
comprensione della violenza sessuale nella sua dimensione di tattica di guerra.
La Rappresentante, inoltre, metterà in risalto la necessità che sia condotta a livello nazionale titolarità, leadership e
responsabilità nel contrasto della violenza sessuale.
Il Team of Experts on the Rule of Law/Sexual
Violence in Conflict - TOE
La risoluzione 1888 (2009), a fronte della
mancanza di progressi sul contrasto alla violenza sessuale conflict-related ha istituito il Team of Experts on the Rule of
Law/Sexual Violence in Conflict - TOE da dispiegare in presenza di
situazioni di particolarmente gravi come strumento di assistenza per le
autorità nazionali nel rafforzamento della rule
of law. Nel novembre 2009 il comitato direttivo di UN Action Against Sexual
Violence ha coinvolto nel
progetto TOE il Dipartimento delle
Operazioni di Peacekeeping (DPKO), l'Ufficio dell'Alto Commissario per i
diritti umani (OHCHR) l’UNDP (United Nation Development Programme).
L’UN Action Against Sexual Violence
UN Action
Against Sexual Violence unisce 13 organismi delle Nazioni Unite, con
l'obiettivo di porre fine alla violenza sessuale nei conflitti in uno sforzo
concertato per migliorare il coordinamento e la responsabilità, ampliare la
programmazione e sostenere gli sforzi nazionali per prevenire la violenza
sessuale, rispondendo in modo efficace alle esigenze dei sopravvissuti. E’
promotore della International Campaign
to Stop Rape & Gender Violence in Conflict (http://www.stoprapenow.org/take-action/).
Nel secondo rapporto sulla violenza sessuale
nelle situazioni di conflitto[23], che
monitora l’implementazione delle risoluzioni 1820 (2008) e 1888 (2009),
presentato il 14 marzo 2013 e
relativo al periodo dicembre 2011-dicembre 2012, il Segretario generale Ban Ki-moon ha sottolineato che nonostante i progressi
nell’abbattimento del muro di silenzio che
circonda l’uso sistematico della violenza sessuale come tattica di
guerra, questa persiste anche a lungo dopo la fine della fase in armi dei
conflitti, con atti di violenza che colpiscono donne e ragazze in modo
sproporzionato ma che si rivolgono anche contro uomini e ragazzi. D’accordo con
la sostanza di tale analisi si è dichiarata anche la Rappresentante Speciale Zainab Hawa Bangura che ha
sottolineato, tuttavia, la necessità che dal Consiglio di Sicurezza emerga un
messaggio inequivocabile di intolleranza
verso la violenza sessuale nei conflitti da parte di una Comunità internazionale
pronta a dispiegarvi contro tutta la propria forza.
Il 24
giugno 2013 il Consiglio di sicurezza ha adottato all’unanimità la risoluzione 2106 (2013) specificamente
focalizzata sul tema della violenza sessuale in situazioni di conflitto armato.
Il documento aggiunge ulteriori dettagli operativi alle precedenti risoluzioni sul tema e ribadisce la necessità di
sforzi più intensi da parte di tutti gli attori, non solo
il Consiglio di Sicurezza e le parti di un conflitto armato, ma tutti gli Stati membri e gli enti delle
Nazioni Unite, per l’attuazione dei mandati promananti dal complesso
delle risoluzioni sul tema e per la lotta all’impunità per
questi crimini.
Il Segretario generale
dell’Onu ha presentato il 4
settembre 2013 il Rapporto su donne,
pace e sicurezza[24], che
fa il punto sull’implementazione della risoluzione 1325. Il Rapporto chiede
maggiore attenzione all’intero spettro d minacce cui le donne e le ragazze sono
sottoposte e sottolinea che il Consiglio di Sicurezza non sempre tiene in
considerazione i legami tra sicurezza e partecipazione delle donne.
Sulla base delle persistenti
lacune segnalate in questo Rapporto, il Consiglio di sicurezza ha adottato, il 18 ottobre 2013, la risoluzione 2122 (2013) volta a dirigere maggiore attenzione sulla leadership
e la partecipazione delle donne nei processi di risoluzione dei conflitti e nel
peacebuilding. La risoluzione
esprime l’intenzione del Consiglio ad accrescere l’attenzione sull’agenda
donne, pace e sicurezza in tutte le aree di intervento, con particolare
attenzione a quelle della protezione dei civili nei conflitti armati, del peacebuilding, della promozione della
rule of law, delle minacce alla pace internazionale causate da atti di
terrorismo, ecc.
L'espressione inglese "child marriage" (matrimonio precoce) descrive un'unione,
legale o di consuetudine, tra individui, almeno uno dei quali ha un'età
inferiore a 18 anni. Il fenomeno, diffuso nei paesi in via di sviluppo e
soprattutto in ambienti rurali, interessa entrambi i sessi ma in misura di gran
lunga maggiore le ragazze. Su queste ultime, del resto, il matrimonio ha
significative conseguenze in termini non solo di negazione dell'infanzia ma
anche di isolamento sociale, mancato accesso all'educazione, mancata possibilità
di programmazione familiare.
Le stime
dell'UNICEF più recenti indicano che globalmente (Cina esclusa) 70 milioni di donne
tra i 20 e i 24 anni - circa una su tre - si sono sposate prima dei 18 anni: di
queste, 23 milioni
si sono sposate addirittura prima di aver compiuto 15 anni. A livello globale,
quasi 400 milioni di
donne di età compresa tra 20 e 49 anni (oltre il 40%, del
totale) si sono sposate in minore età [25].
I
matrimoni forzati anteriori al
compimento del diciottesimo anno di età riguardano, secondo i dati Unicef del
2012, il 41% delle donne di età compresa
tra i 20 e i 49 anni, con una maggiore incidenza del fenomeno in Africa
orientale e sud-est asiatico.
Si tratta di una
violazione dei diritti umani che si traduce in un forte rischio per la salute
delle ragazze, sottoposte a gravidanze precoci e ripetute e a episodi di
violenza domestica, con ricadute gravi sull’alfabetizzazione e sul livello di
sviluppo socio-economico di interi Paesi.
Il 18 dicembre 2013 l'Assemblea generale
dell'ONU ha adottato, su stimolo e proposta della propria 3a Commissione (Sociale, umanitaria e culturale), una prima risoluzione sul matrimonio precoce e forzato. In questo testo si rinviava all'anno successivo (69a
sessione) per un approfondimento sul tema.
Il 18 dicembre 2014 è stata adottata la
risoluzione A/RES/69/156. Questo
testo, per quanto non giuridicamente vincolante, è stato definito
"storico" da osservatori ed operatori del settore[26]. Contiene un
appello agli Stati perché si accertino che il matrimonio abbia luogo solo con
il consenso informato, libero e pieno di entrambe le parti e perché sviluppino
e pongano in essere risposte comprensive e coordinate per eliminare il
matrimonio precoce e forzato (par. 1 e 2).
Una
particolare enfasi viene posta sull'educazione femminile, ritenuta
"uno dei modi più efficaci per evitare e porre termine ai matrimoni tra
bambini, precoci e forzati e per aiutare le ragazze e le donne sposate a fare
scelte più informate sulle loro vite" (par. 4).
Degno di menzione è il par. 5, in cui si sollecitano
gli Stati a riconoscere e promuovere i diritti umani di tutte le donne, tra cui
"il loro diritto ad avere il controllo e a decidere liberamente e
responsabilmente su questioni relative alla propria sessualità, incluse la
salute sessuale e riproduttiva, libere da coercizioni, discriminazioni e
violenza".
Il nostro Paese ha fortemente sostenuto
l’adozione di questa risoluzione,
aderendo al gruppo transregionale che promuove iniziative multilaterali
volte all’adozione di risoluzioni dedicate al fenomeno ed alla “Carta internazionale” in materia di
mutilazioni genitali femminili e matrimoni forzati finalizzata al summit di Londra tenutosi nel luglio
2014 sotto l’egida dell’UNICEF.
In occasione della
69 a
Sessione ordinaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia ha promosso l’evento “Ending Child Marriage: Towards a More Gender
Equitable World” per promuovere maggiore consapevolezza su un fenomeno che
ha un impatto drammatico sulla popolazione femminile e sulle prospettive di
sviluppo socio-economico.
L'Assemblea generale ha convenuto di riprendere di
nuovo l'argomento in occasione della propria 71a Sessione, nel settembre
2016.
I matrimonio forzati in Italia
Si segnala che nel maggio scorso il Ministero delle
Pari opportunità ha pubblicato nel maggio 2014 un rapporto di ricerca sul matrimonio forzato in italia, svolta nel
2014 dall’ONLUS Le Onde, dal titolo Il
matrimonio forzato in Italia: conoscere, riflettere, proporre[27] in cui il
fenomeno viene contestualizzato nelle culture ospiti del territorio italiano e
vengono formulate specifiche raccomandazioni, tra cui quella di orientare le
strategie e le misure di prevenzione e contrasto al matrimonio forzato al fine
di favorire un approccio di genere al fenomeno, considerandolo come una forma
di violenza domestica e verso le donne.
Il documento formula una serie di indicazioni praticabili per
conoscere ed intervenire sul fenomeno in Italia: la prima
delle quali riguarda la necessità di conoscere
il fenomeno, per quanto concerne le
principali caratteristiche e la estensione sul nostro territorio. Ciò al fine
di effettuare una stima del fenomeno a livello nazionale, sulla
base di due diverse rilevazioni campionarie rivolte ai cittadini stranieri
residenti in Italia, di elaborare indicazioni per la raccolta di dati
“sentinella” e produzione di indicatori di rischio per il monitoraggio,
attraverso:
·
dati
e informazioni già correntemente raccolti dall’Istat provenienti
dall’espletamento di attività istituzionali, elaborati e disaggregati ad hoc
per intercettare eventuali fenomeni;
·
dati
e informazioni provenienti dall’attività di servizi pubblici e no profit, centri antiviolenza, agenzie
scolastiche, helpline nazionali sulla
violenza verso le donne o sulla tratta o sulla violenza ai minori, che possano
intercettare richieste di aiuto o individuare situazioni di rischio (attraverso
l’introduzione di metodiche di rilevamento specifiche).
Strutturare un’indagine ad hoc per la stima del
fenomeno e la conoscenza sull’intero
territorio nazionale delle caratteristiche e della prevalenza a livello
regionale: un’Indagine sostanzialmente qualitativa, con eventuali ricadute
quantitative riguardo alle presenze in Italia ed alle concentrazioni regionali,
che potrebbe ispirarsi all’impianto di quelle realizzate in Francia, in
Svizzera o in Gran Bretagna (già citate nel presente rapporto) per analizzare
da un lato la percezione del fenomeno da parte di chi opera nel sistema di
aiuto, dall’altro raccogliere storie e testimonianze di vittime o potenziali
vittime.
La seconda indicazione riguarda l’armonizzazione delle misure e degli
interventi in favore delle vittime di violenza di genere contro donne
italiane e straniere nelle sue varie declinazioni, ivi compresa la tratta a
scopo di sfruttamento sessuale. In questo quadro andrebbe inserito il
Matrimonio Forzato, correlandolo anche al matrimonio precoce (che vede un focus
specifico nelle politiche e nelle misure di protezione dei minori
di età) e al matrimonio di convenienza. Un’ulteriore correlazione si pone con
le politiche e le misure in favore degli immigrati e d’altro canto con la
verifica del fenomeno dei
matrimoni e delle gravidanze precoci in Italia (anche per le italiane in questo caso).
La terza riguarda il mantenere il focus di
ogni misura e di ogni intervento
fortemente gender oriented e
declinato su un piano interculturale che veda gli stessi soggetti migranti
come protagonisti , esigendo una programmazione adeguata in materia a livello
regionale, ivi compresa quella delle regioni obiettivo convergenza
La quarta riguarda lo sviluppo di un insieme di
azioni per migliorare il sistema che rendano maggiormente sensibile al tema e
migliorino le competenze professionali
di chi interviene nell’aiuto alle vittime di violenza di genere ed agli
organismi che si occupano di migranti.
La quinta riguarda l’incardinamento
concettuale del Matrimonio Forzato (in questo caso anche di quello precoce) nel
quadro della violenza di genere contro le donne, assimilabile alla violenza
nelle relazioni di intimità per le donne adulte ed alle violenze su bambini e
bambine per i matrimoni precoci o infantili
Infine, il piano
delle iniziative legislative, la ricerca sostiene l’esigenza di dare piena
attuazione alla Convenzione di Istanbul, operando sui versanti della penalizzazione (attraverso la
previsione di specifiche aggravanti ai reati già previsti nel nostro sistema
penale), delle conseguenze civili dei
matrimoni forzati (conferendo l’iniziativa processuale, non solo alla parte
interessata, ma anche al Pubblico Ministero, purché in accordo con la persona
costretta ed adottando norme di favore sul patrocinio gratuito
nel giudizio).
Con riferimento
allo status
di residente, l’indicazione di Istanbul (art. 59) impone di intervenire
“conformemente al diritto nazionale”. Il rapporto di ricerca auspica pertanto
un adattamento del nostro ordinamento ai principi posti dalla Convenzione: a)
per l’ottenimento di un titolo di soggiorno autonomo, rispetto alle vicende del
vincolo coniugale; b) per la sospensione della espulsione; c) per l’ottenimento
di un titolo di soggiorno rinnovabile per motivi umanitari o giudiziari; d)per
favorire il rientro a pieno titolo nello stato di provenienza; 4) gli attuali
ordini di protezione del giudice civile potrebbero esser espressamente e
specificamente rimodulati sulla esigenza di tutelare le vittime dalle illecite
pressioni.
XVII LEGISLATURA
Il 12 maggio
2009 l’Italia ha presentato la propria candidatura al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2017-2018. Le
elezioni si terranno nell'autunno 2016. Attualmente sono candidati, per i due
posti a disposizione del nostro gruppo regionale, anche Paesi Bassi e Svezia.
|
Il 20
novembre 2014, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha partecipato
alla Seconda Conferenza Internazionale
sulla Nutrizione in svolgimento presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.
Il 17
novembre 2014 la Vice Presidente della Camera, Marina Sereni, ha incontrato
presso la sede delle Nazioni Unite a New York (a latere della seconda
riunione del Comitato preparatorio della IV Conferenza UIP dei Presidenti di
Parlamento, cui ha partecipato in rappresentanza della Presidente Laura
Boldrini) il Sottosegretario Generale
per le operazioni di mantenimento della pace, Hervé Ladsous, e il 18 novembre il Vice Segretario Generale per
i diritti umani, Ivan Simonovic.
L’11
novembre 2014, la Presidente
Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma
Alimentare Mondiale.
Il 9
ottobre 2014 la Presidente Boldrini è intervenuta al Convegno "Le
crisi a Gaza e in Siria: l'impatto umano. La prospettiva dell'UNRWA (Agenzia
dell'ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli operatori
dell'informazione".
Il 29 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il
Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony
Lake.
Il 22 settembre 2014, la Presidente
Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei
diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila
B. Keetharuth.
La Presidente Boldrini, nel
corso della sua visita ufficiale
negli Stati Uniti d'America dal 20 al 23 maggio 2014, si è recata in visita, il 22 maggio, presso le Nazioni
Unite, dove ha incontrato funzionari
italiani consegnando due onorificenze OMRI.
Il
14 novembre 2013, la Presidente
della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell'ONU
sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab
Hawa Bangura.
Il
24 ottobre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore
per la stabilità della regione", con il
Commissario generale dell'Agenzia ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi
(UNRWA), Filippo Grandi.
Il
18 settembre 2013, la Presidente
della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni
Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.
Ban
Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la
Presidente Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla
sua recente elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi
sottolineato il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle
assemblee parlamentari, espressione della volontà popolare. Tra i temi sollevati
da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario
generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.
La partecipazione di parlamentari italiani alle sessioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite
L'Assemblea generale delle Nazioni Unite è la
principale sede di decisione e l'organo più rappresentativo, composto da
rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno.
La sessione annuale ordinaria dell'Assemblea inizia il terzo martedì di
settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi
partecipano, invitate, in qualità di osservatori, delegazioni parlamentari
degli Stati membri.
Nelle precedenti
legislature, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione
Affari esteri si è recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in
concomitanza con la settimana ministeriale
Nella XVII
legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria
delegazione alle seguenti sessioni:
·
69ma
sessione dell’Assemblea Generale ONU
(New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione era composta dai deputati Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC) Presidente
della Commissione Affari esteri, Alessandro
Di Battista (M5S), Vice Presidente della Commissione Esteri e Andrea
Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri e Presidente della
Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della NATO.
·
68ma
sessione dell’Assemblea Generale ONU
(New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione era composta dai deputati Deborah Bergamini (PdL) Presidente del
Comitato permanente sulla politica estera ed i rapporti con l’Unione europea, Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente
della Commissione Esteri, e Mario
Marazziti (SCPI), Presidente del Comitato permanente per i diritti umani.
La partecipazione di parlamentari italiani alle principali Conferenze ONU
Sotto l’egida dell'ONU, vengono organizzati summit,
Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali,
tramite l'adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle
questioni più delicate che l'ONU ha in agenda. La frequenza e l'importanza di
tali appuntamenti sono tali da coinvolgere l'attenzione e le attese, non solo
dei Governi di tutto il mondo, ma anche
dei Parlamenti e della società civile, coinvolta in primo piano tramite le
ONG e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo
dell'Unione Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di
tali iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine
delle Conferenze.
Il Parlamento partecipa regolarmente alle riunioni
annuali della Commissione delle Nazioni Unite sullo stato delle donne (CSW) ed alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP).
La Commissione
sullo stato delle
donne (CSW)
La Commissione sullo status delle donne (CSW) è stata istituita dal Consiglio
Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC)
con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946,
come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito
principale della Commissione, il cui mandato è stato esteso nel 1987
(risoluzione ECOSOC 1987/22), è quello di elaborare rapporti e fornire
raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo
politico, economico, sociale e dell’istruzione.
La Commissione presenta, inoltre,
raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti che
richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.
Nella
XVII legislatura, la Camera dei
deputati ha partecipato alla 58^
Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione
femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era
composta dai deputati Valeria Valente
(PD), Presidente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli
obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione
interparlamentare.
La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici
La
Convenzione Quadro delle
Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel
1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a
livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della concentrazione in
atmosfera dell'anidride carbonica. Più recentemente, nel 1997, è stato
approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto.
Esso è significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche
procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente
vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto
stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra
(anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi,
perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).
Annualmente
si svolgono Conferenze - dette Conferenze
delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare
delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi
firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare i progressi e valutare il
percorso da seguire per l'attuazione della Convenzione. Il
Segretariato dell'UNFCCC supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo
di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro
Uffici di presidenza. L'Italia
ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di
Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.
Nella XVII
legislatura si è tenuta a Varsavia
dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX
Sessione della Conferenza delle Parti (COP19)
relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici
(UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualità di
osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa
(M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima
Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero
Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione
Ambiente.
L'ultima
Conferenza (COP20)
si è tenuta a Lima, dal
6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella Bianchi (PD), entrambi
componenti della Commissione Ambiente.
[1] A cura del Servizio Affari internazionali
del Senato, con integrazioni predisposte dal Servizio Studi della Camera.
[2] Per un
approfondimento sulla storia della CSW e sui risultati raggiunti negli ultimi
decenni si rimanda all’Approfondimento dell’Osservatorio parlamentare curato dal Cespi.
[3] Si veda il rapporto annuale 2013-2014 di UN Women, pag. 5. L'importanza degli obiettivi concordati al
livello internazionale " per galvanizzare appoggio politico e risorse su
una base coordinata" è, del resto, confermato in termini generali in uno studio del Parlamento europeo relativo agli obiettivi di sviluppo del millennio
(p. 7).
[4] Si segnala anche che la Commissione straordinaria per la tutela e la
promozione dei diritti umani del senato della Repubblica il 22 marzo 2005 ha
dedicato una seduta alle indicazioni risultanti dai lavori della Conferenza
sulla condizione delle donne ("Beijing + 10").
[5] Si veda il Comunicato stampa dell'evento.
[6] Per un'analisi
delle sfide e dei risultati raggiunti, si rinvia al rapporto "Millenium Development Goals, 2014". Uno studio del Parlamento europeo del 2014, invece, è focalizzato
sulle sfide e risultati raggiunti, per le donne e le ragazze, nell'attuazione
degli Obiettivi di sviluppo del millennio, nella prospettiva dell'Unione
europea. UN Women è, comunque dell'opinione che gli obiettivi di sviluppo del
millennio, pur avendo il merito di avere galvanizzato l'attenzione e l'azione
globale, abbiano "fatto poco per tagliare le radici della discriminazione
e la violenza contro le donne e le ragazze" (Rapporto annuale 2012-2013, p. 5).
[7] Challenges
and achievements in the implementation of the Millenium development goals for
women and girls from a European Union perspective, p. 11.
[8] OECD,
"Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 13.
[9] Ibidem, p.
14.
[10] European
Institute for gender equality, Beijing
+20: the 4th review of the implementation of the Beijing platform
for action in the EU member states, p. xiii.
[11] Nella presente risposta e nelle successive le
informazioni attribuite al "Governo italiano" sono tratte dal
rapporto "Risposte fornite dal Governo italiano al Questionario della Commissione economica
delle Nazioni Unite sull'attuazione della Dichiarazione di Pechino e la
Piattaforma di azione (1995) e sugli esiti della 23a Sessione
speciale dell'Assemblea generale (2000)".
[12] Il dato non comprende il Presidente del
Consiglio Renzi e tiene conto delle dimissioni del ministro Maria Carmela
Lanzetta a fine gennaio 2015.
[13] Risposte fornite al Questionario della
Commissione economica delle Nazioni Unite sull'attuazione della Dichiarazione
di Pechino e la Piattaforma di azione (1995) e sugli esiti della 23a
Sessione speciale dell'Assemblea generale (2000), pag. 59
[14] OECD,
"Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 13.
[15] OECD,
"Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 15.
[16] Una differenza sostanziale tra i due generi riguardo il livello salariale
e una persistente segregazione occupazionale sono confermate anche da uno studio del Parlamento europeo. In merito l'OSCE
ricorda che "disuguaglianza di genere vuol dire non solo rinunciare a
importanti contributi che le donne fanno all'economia ma anche sprecare anni di
investimento nell'educare ragazze e giovani donne" senza che esse possano
poi accedere ai livelli più alti della carriera.
[17] OECD,
"Closing the gender gap, 2012, Executive summary", pag. 14.
[18] OECD, "Closing the gender gap, 2012,
Executive summary", pag. 14: "Se i libri di testo forniscono esempi
di infermiere donne e ingegneri maschi (...) quali attitudini svilupperanno gli
alunni verso queste materie?"
[19] In proposito si
segnala il rapporto della European Union Agency for Human Rights "Violence
against women: an EU-wide survey".
[20] Nel rapporto dello special rapporteur
delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze
si legge che "dall'inizio degli anni '90, il numero di omicidi in cui
uomini hanno ucciso uomini è diminuito, mentre è aumentato il numero di donne
uccise da uomini".
[21]
(https://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0338&tipo=stenografico#sed0338.stenografico.tit00050).
[22] Participation of women in delegations to the International Labour
Conference: update, marzo 2014.
[23] S/2013/149
[24] S/2013/525
[25] Per dati sull'incidenza del matrimonio precoce
a livello mondiale ed un'introduzione alla tematica si rinvia ai rapporti dell'UNICEF ("Ending child marriage. Progress and
prospects", 2013) e dell'United Nations Population Fund ("Marrying too young. End child marriage", 2012).
[26] Si vedano, in questo senso, le dichiarazioni
di associazioni quali Girls not brides e Plan.
[27] http://www.pariopportunita.gov.it/images/ricerca_mf_2014.pdf