Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Il conflitto israelo-palestinese: cronologia degli ultimi avvenimenti
Serie: Note di politica internazionale    Numero: 64
Data: 14/10/2014
Descrittori:
ISRAELE   PALESTINA
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


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Il conflitto israelo-palestinese: cronologia degli ultimi avvenimenti"

14 ottobre 2014


Indice

Introduzione|


Introduzione

Il conflitto israelo-palestinese: cronologia degli ultimi avvenimenti

 

La nuova guerra di Gaza.

Il 15 maggio l'annuale celebrazione della Naqba - la "Catastrofe" che per i palestinesi rappresenta la nascita dello Stato d'Israele e la dispersione di centinaia di migliaia di essi - era segnata dall'uccisione di due giovani palestinesi nei pressi di Ramallah durante violenti scontri con l'esercito israeliano, a seguito dei quali vi sarebbero stati anche tre feriti tra i manifestanti. La giornata della Naqba ha registrato numerose manifestazioni in tutta la Cisgiordania e nella Striscia di Gaza: proprio a Ramallah hanno avuto luogo le commemorazioni ufficiali con esponenti di tutte le fazioni dell'Autorità nazionale palestinese, e anche in altre località si sono verificati scontri tra manifestanti ed esercito israeliano.

Nei giorni successivi i fatti del 15 maggio mettevano in serio imbarazzo il governo israeliano poiché un video ripreso da una telecamera di sorveglianza in possesso dell'organizzazione non governativa DCI-Palestine mostrava sostanzialmente l'uccisione a freddo dei due giovanissimi palestinesi. L'esercito israeliano veniva pertanto accusato di aver utilizzato in modo sproporzionato proiettili veri contro i manifestanti, contrariamente a quanto assicurato dagli ambienti militari - i quali peraltro non sembravano attribuire veridicità al filmato divulgato, contrariamente però a un'altra organizzazione non governativa, B'tselem, pacifista e israeliana. L'imbarazzo israeliano era accresciuto dalla richiesta degli Stati Uniti e dell'ONU di accertare pienamente le circostanze, mentre l'Unione europea esprimeva dal canto suo preoccupazione per l'accaduto.

Inoltre, nell'imminenza della visita del Papa in Terrasanta, destava preoccupazione anche l'onda montante degli atti vandalici e blasfemi perpetrati da estremisti ebrei contro musulmani e cristiani, tanto che l'esecutivo israeliano, allertato dai servizi segreti, prospettava la possibilità di un'ampia utilizzazione della detenzione amministrativa per bloccare sul nascere le iniziative dei coloni estremisti.

Il 25 maggio, dopo la visita in Giordania del giorno precedente – nella quale in primo piano erano stati i ripetuti appelli alla pace nella regione mediorientale e all'aiuto umanitario -, aveva luogo la giornata più importante del viaggio del Papa in Terrasanta, nel corso del quale il Pontefice, constatando il grave stallo del dialogo tra israeliani e palestinesi, esortava le parti a rinnovati sforzi per giungere a un'intesa sulla base della soluzione dei due Stati.

Con un'iniziativa che sembrava riscuotere ampio consenso anche da parte degli osservatori internazionali il Papa invitava il presidente israeliano Shimon Peres e il suo omologo palestinese Abu Mazen a un incontro di preghiera in Vaticano a favore del processo di pace - incontro successivamente fissato per l'8 giugno. Inoltre il Papa, nel viaggio mattutino a Betlemme per celebrare una messa sulla Piazza della Mangiatoia, compiva un gesto di raccoglimento e preghiera proprio a ridosso del muro di separazione tra Betlemme il territorio israeliano, destando in questo caso approvazione solo da parte palestinese.

Il 29 maggio il premier in carica dell'Autorità nazionale palestinese Rami Hamdallah riceveva dal presidente Abu Mazen l'incarico ufficiale per formare il governo di unità nazionale previsto dopo la riconciliazione del 23 aprile tra al-Fatah e Hamas. Il mandato di Hamdallah riguarda la formazione di un esecutivo di transizione con il compito principale di organizzare le elezioni generali palestinesi entro la fine del 2014: il nuovo governo doveva essere composto da una quindicina di ministri scelti tra personalità indipendenti.

Il 2 giugno giurava il nuovo esecutivo palestinese derivato dall'accordo di riconciliazione, composto da tecnici ma con l'appoggio esterno di al Fatah e di Hamas. Il giorno successivo il nuovo esecutivo palestinese riceveva vasto appoggio internazionale, a cominciare da quello statunitense - per la verità manifestato già nella serata del 2 giugno -, cui si accompagnavano sollecitamente i consensi delle Nazioni Unite e dell'Unione europea, come anche di Cina, India e Russia.

Tra i paesi europei si distinguevano in particolare la Francia e la Gran Bretagna: per quanto concerne l'Italia il Ministro degli esteri Mogherini assicurava l'appoggio del nostro paese al nuovo governo palestinese in base alle garanzie fornite dal presidente Abu Mazen in ordine al rifiuto del terrorismo, al riconoscimento di Israele, al mantenimento degli accordi internazionali e della disponibilità al negoziato. L'isolamento in cui governo israeliano sembrava trovarsi provocava la reazione dura di Netanyahu, che si diceva profondamente turbato dall'atteggiamento della Comunità internazionale, e preannunciava che Israele avrebbe impedito il libero transito dei nuovi ministri tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, oltre a bloccare il trasferimento ai palestinesi delle tasse per loro conto raccolte dall'amministrazione israeliana.

Nei giorni successivi la reazione israeliana si concretizzava nell'annuncio del via libera a progetti per 2900 nuove costruzioni a favore dei coloni in Cisgiordania e 400 nuove abitazioni a Gerusalemme est: queste decisioni, oltre a provocare il preannuncio palestinese di un ricorso formale alle Nazioni Unite contro di esse, destavano malumore anche nella parte centrista del governo israeliano, in particolare da parte del ministro della giustizia TzipiLivni, che parlava di una mossa capace solo di accrescere l'isolamento di Israele sulla scena internazionale.

L'8 giugno, mentre il governo israeliano ignorava sostanzialmente la partecipazione del presidente Peres all'incontro di preghiera in Vaticano, anche il leader centrista Yair Lapid, ministro delle finanze, si dissociava dalla rigida linea dell'esecutivo nei confronti dei palestinesi. Cionondimeno, Netanyahu decideva di autorizzare la presentazione al parlamento di un emendamento volto a restringere la possibilità di concessione della grazia presidenziale a detenuti riconosciuti colpevoli di gravi fatti di sangue - una mossa evidentemente volta a contrastare la recente prassi della liberazione di prigionieri in cambio di israeliani rapiti dalle milizie palestinesi. Va segnalato che il presidente Shimon Peres coglieva l'occasione di trovarsi a Roma per consegnare personalmente la Medaglia d'onorificenza presidenziale al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, quale figura guida in Europa nella lotta al negazionismo e all'antisemitismo, e personalità sempre attenta alle ragioni e all'esistenza dello Stato di Israele. Dal canto suo il presidente Napolitano rinnovava un forte appello a chiudere il sanguinoso conflitto israelo-palestinese incontrando al quirinale Abu Mazen e lo stesso Peres, idealmente rafforzando la portata del momento di preghiera consumato in Vaticano il giorno precedente.

Il 10 giugno Netanyahu poteva esultare per il compattamento di tutta la destra parlamentare a favore di Reuven Rivlin, eletto alla Presidenza della Repubblica proprio in sostituzione dell'uscente Peres - va tuttavia ricordato che Rivlin era stato lungo osteggiato proprio da diversi esponenti della destra, incluso lo stesso Netanyahu, nei confronti del quale aveva avuto espressioni di asprezza dopo la sua mancata rielezione a presidente della Knesset all'inizio del 2013.

Il 12 giugno il quotidiano Haaretz riferiva di una parziale marcia indietro del governo israeliano sui progetti di nuove costruzioni in Cisgiordania, che sarebbe stata da correlare alle pressioni esercitate da diversi ambasciatori di paesi europei, inclusa l'Italia, nei confronti delle autorità di Tel Aviv. Ciò non serviva però a stemperare le tensioni, che il giorno dopo venivano drammaticamente riaccese dalla notizia della scomparsa di tre giovani appartenenti ai gruppi di coloni ebrei nella Cisgiordania meridionale, nei pressi di Hebron: i tre, studenti sedicenni di un collegio rabbinico, erano scomparsi nella notte precedente mentre facevano l'autostop sulla strada di collegamento tra Gerusalemme e Hebron. Immediatamente veniva formulata l'ipotesi di un loro rapimento ad opera di un commando palestinese, ed effettivamente vi erano diverse manifestazioni di entusiasmo da parte di ambienti legati a Hamas - mentre la fazione palestinese, peraltro, si diceva estranea all'accaduto.

Le forze di sicurezza israeliane facevano scattare una vasta operazione di blocco attorno a Hebron e a Gaza, per impedire il trasferimento dei tre giovani da parte dei loro presunti rapitori. Il governo israeliano intanto addossava apertamente a Hamas la responsabilità del rapimento, e disponeva il richiamo di un numero limitato di riservisti. L'attribuzione a Hamas della scomparsa dei tre studenti rabbinici veniva corroborata anche dal segretario di Stato americano John Kerry. Il blocco di Hebron e delle zone circostanti della Cisgiordania era accompagnato da vaste retate che portavano all'arresto nei giorni successivi di centinaia di militanti di Hamas, tra cui molti dirigenti e lo stesso presidente del Parlamento palestinese Aziz Dweik.

Il portavoce del nuovo esecutivo di unità palestinese nazionale palestinese a Ramallah rifiutava peraltro la responsabilità della scomparsa dei tre studenti, in quanto la zona ove era avvenuta non sarebbe stata soggetta al controllo di forze palestinesi, e nel contempo condannava quella che definiva una punizione collettiva dei palestinesi attuata con il blocco e le retate in Cisgiordania. La crescente tensione tra le forze israeliane e gli abitanti della Cisgiordania iniziava a dare luogo a gravi incidenti: in uno di questi perdeva la vita il 16 giugno un giovane palestinese di 19 anni. Il giorno successivo l'Unione europea, pur in contrasto con la politica israeliana degli insediamenti, esprimeva tramite l'ambasciatore in loco Andersen il sostegno al popolo israeliano e la richiesta di una liberazione senza condizioni dei tre giovani rapiti.

Il 18 giugno, di fronte all'aggravarsi della pressione israeliana sulla Cisgiordania e della tensione tra i palestinesi il presidente dell'ANP Abu Mazen invocava il rilascio dei tre studenti, definendo interesse dei palestinesi la cooperazione di sicurezza con Israele. A questa presa di posizione replicava con durezza Hamas, un cui esponente la definiva contraria allo spirito della recente riconciliazione tra i palestinesi.

Il 20 giugno si apprendeva dell'uccisione la notte precedente di altri due palestinesi, tra i quali un ragazzo di appena 14 anni. Anche in Cisgiordania, intanto, la disponibilità di Abu Mazen a collaborare con Israele provocava forti accuse e anche manifestazioni di derisione del presidente dell'ANP, mentre saliva progressivamente la resistenza dei palestinesi ai controlli sempre più serrati dell'esercito israeliano – il 22 giugno si aveva notizia di altri due morti palestinesi nella notte precedente, uno a Nablus e l'altro a Ramallah, dove la notizia della morte dell'attivista della Jihad islamica Mahmud Tarifi, di trent'anni, provocava nuovi tumulti, durante i quali i manifestanti si scontravano anche con forze di sicurezza della stessa Autorità nazionale palestinese. In questa situazione Abu Mazen, recependo lo scontento palestinese, definiva ingiustificata la grande operazione messa in piedi per ritrovare i tre ragazzi israeliani, asserendo anche non esservi alcuna informazione attendibile sulla responsabilità di Hamas per il rapimento-su questo punto il premier israeliano Netanyahu ribadiva tuttavia con forza di essere in possesso di prove incontrovertibili. Inoltre Netanyahu, sfruttando le oggettive nuove difficoltà nei rapporti tra al-Fatah e Hamas, provocava Abu Mazen a trarre le conclusioni dall'atteggiamento di Hamas.

Mentre iniziavano a circolare voci sull'identificazione di due membri di Hamas ben conosciuti a Hebron, resisi entrambi irreperibili dal giorno della scomparsa dei tre studenti rabbinici israeliani; il 30 giugno i corpi dei tre giovani venivano ritrovati nelle vicinanze di Hebron. Le prime indagini rivelavano che i tre giovani sarebbero stati uccisi subito dopo il sequestro. Il ritrovamento dei corpi dei tre giovani era stato preceduto già nella notte da una nuova impennata di violenze tra il territorio meridionale di Israele e la Striscia di Gaza, da cui partivano una ventina di razzi, con la risposta dell'artiglieria israeliana che provocava tra l'altro la morte di un miliziano di Hamas - i combattenti della fazione islamica avevano infatti proprio in questo frangente ripreso a partecipare ai combattimenti e ai lanci di razzi contro Israele.

L'inizio di luglio confermava la progressiva crescita della tensione tra coloni e palestinesi, mentre il governo israeliano registrava notevoli divisioni al proprio interno sul tipo di risposta da dare al rapimento e assassinio dei tre giovani studenti del collegio rabbinico: il premier Netanyahu cercava comunque di tener ferma la barra sull'obiettivo di una dura punizione di Hamas, ritenuta colpevole del triplice omicidio. Nella notte fra 30 giugno e 1° luglio un ragazzo palestinese veniva ucciso a Jenin dai militari israeliani, secondo i quali era stato colpito dal fuoco di reazione mentre lanciava un ordigno esplosivo.

Il 2 luglio un nuovo grave fatto di sangue moltiplicava le tensioni: veniva infattirapito e ucciso a Gerusalemme est un giovane arabo di 17 anni, Mohammed Khdeir, e i palestinesi interpretavano logicamente l'accaduto come vendetta da parte dei coloni. Netanyahu definiva l'uccisione del giovane palestinese un crimine abominevole, disponendo tramite il ministro dell'interno un'immediata inchiesta, mentre a Gerusalemme est si verificavano lunghi scontri tra la popolazione e l'esercito di Tel Aviv.

Secondo i palestinesi già nella serata del 1° luglio, dopo i funerali dei tre studenti rabbinici, centinaia di coloni avevano dato luogo a manifestazioni di aggressività e intolleranza antiaraba, e avrebbero inoltre tentato di rapire un bambino nelle vicinanze del campo di Shufat, dove poi sarebbe stato sequestrato il giovane diciassettenne successivamente assassinato. In questo difficile contesto continuavano i colpi di mortaio e i lanci di razzi dal territorio di Gaza verso Israele.

Nei due giorni successivi continuavano gli scontri a Gerusalemme est, che si estendevano anche a Ramallah, mentre il territorio israeliano continuava ad essere bersagliato da razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, dove l'aviazione di Tel Aviv iniziava a colpire i primi obiettivi.

Quando il 5 luglio il procuratore generale palestinese rendeva noto che le prime risultanze dell'autopsia sul giovane Mohammed Khdeir indicavano che sarebbe stato bruciato vivo, i lanci di razzi e gli scontri con le forze di sicurezza israeliane crescevano ulteriormente: tuttavia nella mattinata del 6 luglio venivano tratti in arresto sei giovani estremisti ebrei, anch'essi come i tre rapiti e uccisi in giugno appartenenti agli ambienti dei collegi rabbinici, ritenuti responsabili dell'assassinio di Mohammed Khdeir– e probabilmente del fallito sequestro del bambino presso Shufat. Il 7 luglio arrivavano le prime confessioni, che implicavano la formulazione delle accuse più gravi per tre degli arrestati, mentre gli altri sarebbero stati perseguiti principalmente per complicità. Dagli ambienti rabbinici e dei coloni giungevano durissime parole di condanna verso gli arrestati.

Ma proprio il 7 luglio si verificava una escalation nei lanci di razzi, sia per il numero che per il raggio d'azione, che raggiungeva la zona centrale di Israele: la rivendicazione era stavolta aperta, da parte del braccio militare di Hamas. Il governo israeliano disponeva un limitato richiamo di riservisti e un progressivo incremento dei raid aerei su Gaza, ma i disaccordi interni portavano alla rottura dell'alleanza elettorale tra il ministro degli esteri Lieberman e il premier Netanyahu – Lieberman restava comunque nell'esecutivo, pur criticando aspramente la linea da lui giudicata troppo debole del governo (su posizioni analoghe si schierava anche il ministro dell'economia Naftali Bennett, vicino ai coloni). L'Egitto, pur mantenendo cautela, condannava gli attacchi aerei su Gaza e quella che definiva – in accordo con quanto sostenuto nei giorni precedenti dalla leadership palestinese – una punizione collettiva.

Nella notte tra 7 e 8 luglio Israele lanciava l'operazione "Margine Protettivo", dando il via a decine di raid aerei su Gaza in risposta al continuo lancio di razzi dalla Striscia contro il territorio israeliano. 40.000 riservisti venivano inoltre richiamati dal governo di Tel Aviv in vista di una possibile offensiva di terra. Cautelativamente, a Tel Aviv e Gerusalemme venivano aperti decine di rifugi pubblici per proteggere la popolazione dai razzi provenienti da Gaza, mentre le rotte dei voli in arrivo e in partenza da Tel Aviv venivano fatte spostare più a nord.

Il premier israeliano Netanyahu affermava inoltre di ritenere Hamas responsabile per le vittime collaterali dei raid aerei sulla Striscia di Gaza, poiché deliberatamente dissemina armamenti e rampe di lancio in mezzo alla popolazione civile, trattata alla stregua di scudi umani. La reazione dell'Autorità nazionale palestinese era immediata: il presidente Abu Mazen chiedeva a Israele di porre fine immediatamente alla nuova operazione militare, mentre la Lega Araba richiedeva una urgente riunione delle Nazioni Unite.

Il 9 luglio i lanci di razzi da Gaza raggiungevano in pratica tutto il territorio israeliano, minacciando Tel Aviv, Gerusalemme e persino Haifa, posta nell'estremo Nord: venivano infatti impiegati missili a più lunga gittata, gli M302, secondo Israele forniti a Hamas dall'Iran. Mentre il sistema antimissile Iron Dome intercettava i razzi diretti in zone più densamente abitate, due di questi puntavano alla centrale nucleare di Dimona, ma venivano ugualmente distrutti in volo. Il presidente Abu Mazen accusava Israele di vero e proprio genocidio, mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon richiamava Tel Aviv alla moderazione nella reazione. D'altra parte lo stesso presidente uscente di Israele, Shimon Peres, notoriamente moderato, ammoniva Hamas a porre fine ai lanci di razzi, pena l'invasione di terra della Striscia. Vi erano intanto i primi contatti delle diplomazie occidentali con le parti in conflitto per giungere a una tregua, mentre l'Egitto si manteneva ancora cauto, pur richiamando Israele alla moderazione e condannando i raid su Gaza. La Lega Araba, peraltro, si spingeva a chiedere agli USA di costringere Israele a porre fine agli attacchi aerei.

Lo stesso Ban Ki-moonil 10 luglio, aprendo la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell'ONU, chiedeva l'immediato cessate il fuoco, riscontrando peraltro un diniego da parte di Netanyahu. Il bilancio delle vittime superava a Gaza il numero di 90, mentre più di 800 raid erano stati ormai compiuti sulla Striscia dall'aviazione israeliana e circa 500 razzi avevano raggiunto il territorio israeliano, senza peraltro provocare vittime, anche per l'intercettazione di quelli più pericolosi da parte del sistema antimissilistico Iron Dome. Dopo giorni di diniego, l'Egitto apriva finalmente il valico di Rafah per consentire l'afflusso di palestinesi feriti e bisognosi di cure in territorio egiziano. Si moltiplicavano gli appelli per una tregua immediata: in particolare, gli USA chiedevano a Israele di non invadere la Striscia, mentre Ban Ki-moon definiva non tollerabile un eccessivo uso della forza da parte israeliana.

L'11 luglio i morti a Gaza superavano il centinaio, con più di 500 feriti. Ciononostante Hamas annunciava di voler continuare i lanci di razzi e avvertiva le compagnie aeree straniere di sospendere i voli da e per Tel Aviv. Ulteriori 210 raid aerei punteggiavano la giornata, a fronte di quasi duecento nuovi razzi palestinesi lanciati da Gaza. Due razzi lanciati dal Libano meridionale cadevano in territorio israeliano a nord della città di Kiryat Shmona: il responsabile, membro di un gruppo estremista, rimaneva ferito nel tentativo di lanciare un terzo razzo e veniva prontamente arrestato dalle autorità libanesi. Ciò consentiva a Hizbollah di dissociarsi apertamente dall'accaduto, richiamando indirettamente sui pericoli rappresentati dal jihadismo sunnita, pur ribadendo il proprio sostegno politico e morale alla resistenza palestinese.

Il 12 luglio la prosecuzione dei combattimenti faceva salire a 150 il numero delle vittime a Gaza, e a più di mille i feriti: nelle stesse ore oltre 60 razzi colpivano il territorio centrale meridionale di Israele senza provocare vittime, e alcuni di essi raggiungevano anche zone fortunatamente disabitate della Cisgiordania palestinese, nei pressi di Hebron e di Betlemme.

La rappresentanza palestinese alle Nazioni Unite denunciava che quattro quinti delle vittime di Gaza erano civili. In questo contesto si moltiplicavano affannosamente gli sforzi diplomatici, e il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava all'unanimità una dichiarazione per un rientro progressivo della situazione alla normalità, citando in particolare la ripresa del cessate il fuoco che aveva posto fine nel novembre 2012 alla Seconda guerra di Gaza. L'appello del Consiglio di sicurezza esprimeva profonda preoccupazione per la crisi in corso a Gaza e per i civili di entrambe le parti, richiamando al rispetto del diritto umanitario internazionale - con particolare riguardo alle norme per la protezione dei civili -, nonché il sostegno per la ripresa di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Cresceva intanto il ruolo di mediazione dell'Egitto, che si faceva attore della presentazione alle parti di una bozza di documento per il raggiungimento di una tregua. Sul terreno tuttavia assumeva sempre maggiore probabilità l'ipotesi di un imminente ingresso delle truppe di terra israeliane nella Striscia, che veniva progressivamente accerchiata: ripetuti messaggi venivano indirizzati dalle forze armate israeliane alla popolazione di Beit Lahya, nella parte settentrionale di Gaza, ad abbandonare rapidamente le proprie case, che in breve si sarebbero trovate in zona di combattimento.

Il giorno successivo, 13 luglio, la popolazione palestinese - nonostante i contrordini di Hamas - sembrava dare credito agli avvertimenti israeliani, sgomberando in massa Beit Lahya. Frattanto a Vienna i rappresentanti di Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti si riunivano per discutere del conflitto in atto, e in serata il segretario di Stato americano John Kerry, in una conversazione telefonica con il premier israeliano Netanyahu, offriva la disponibilità degli USA ad un'azione di facilitazione del cessate il fuoco, per il ripristino dell'accordo del 2012, agendo nel contempo per arrestare i lanci di razzi contro Israele. I combattimenti intanto portavano il totale delle vittime palestinesi a quasi 170, mentre Israele nella sola giornata del 13 luglio riceveva oltre 70 razzi sul proprio territorio, ancora una volta senza vittime né feriti: il totale dei raid aerei superava la cifra di 1300. In questo contestoil presidente palestinese Abu Mazen chiedeva alle Nazioni Unite di porre la Palestina sotto protezione internazionale nei confronti dell'azione militare israeliana su Gaza, giudicata di portata eccessiva.

La gravità del conflitto in atto emergeva in tutta la sua drammaticità il 14 luglio, quando il numero delle vittime a Gaza superava quello della crisi del 2012, con più di 180 morti e oltre 1.100 feriti. Nella stessa giornata un centinaio di razzi raggiungevano da Gaza lo spazio aereo israeliano, accompagnati anche da colpi di mortaio diretti soprattutto nel sud del paese – nel Negev una bambina veniva ferita in modo grave. Dal territorio siriano inoltre alcuni razzi raggiungevano la zona delle alture del Golan occupata da Israele, e dal Libano un altro razzo cadeva nel Nord di Israele, nei pressi della cittadina di Nahariya. Una novità era rappresentata da alcuni droni di Hamas che sorvolavano il territorio israeliano, uno dei quali veniva abbattuto sui cieli di Ashdod. D'altra parte proseguivano incessanti i raid aerei dell'aviazione israeliana sulla Striscia.

Sul fronte diplomatico l'Egitto lanciava una proposta di tregua, dicendosi disposto ad accogliere dopo l'eventuale stipula di essa delegazioni delle parti in lotta ad alto livello per un'apertura di negoziato.

Nella mattinata del 15 luglio Israele sospendeva gli attacchi aerei su Gaza in risposta alla proposta egiziana di tregua: tuttavia, dopo circa cinque ore gli attacchi riprendevano, dopo la constatazione della non adesione di Hamas alla tregua, con il proseguire incessante dei lanci di razzi sul territorio israeliano. Nell'esecutivo di Tel Aviv, peraltro, anche la sospensione degli attacchi aveva incontrato la consueta opposizione di Lieberman e Naftali Bennett. La giornata registrava poi la prima vittima israeliana, un civile ucciso da colpi di mortaio sparati in prossimità del valico di Erez tra Israele e Gaza. Complessivamente le vittime nella Striscia toccavano ormai quasi il numero di 200, e i feriti quello di 1.400.

In serata il ministro degli esteri italiano Federica Mogherini, in visita in Israele, si incontrava con il presidente dell'ANP Abu Mazen, esprimendo apprezzamento per il supporto del presidente palestinese alla proposta egiziana di tregua. In precedenza la Mogherini, accompagnata nel sud d'Israele, aveva espresso con chiarezza la posizione italiana favorevole alla cessazione immediata delle ostilità anche al ministro degli esteri israeliano Lieberman.

Intanto, dopo che nella notte tra 14 e 15 luglio altri razzi avevano raggiunto il territorio israeliano dal Sinai e dal Libano - provocando le consuete risposte dell'artiglieria israeliana -, all'alba un attacco aereo israeliano sul Golan siriano provocava nei pressi di Quneitra quattro vittime, in risposta ai razzi che il giorno precedente avevano raggiunto la porzione del Golan occupata dalle truppe israeliane.

Il 16 luglio la recrudescenza dei combattimenti portava il numero delle vittime a Gaza a più di 220: particolarmente tragica appariva la morte di sei bambini, quattro dei quali colpiti da aerei israeliani mentre si davano alla fuga su una spiaggia per quello che successivamente Israele definiva un errore di identificazione, sul quale era disposta un'inchiesta. La situazione veniva fotografata dal capo negoziatore israeliano Tzipi Livni incontrando il ministro degli esteri italiano Mogherini: la Livni affermava che in mancanza dell'accettazione, da parte di Hamas, della tregua promossa dall'Egitto, Israele sarebbe stato costretto a una risposta ancora più forte - alla quale sembrava alludere il richiamo di ulteriori 8.000 riservisti nelle forze armate, probabile preludio di un massiccio ingresso di forze di terra nella Striscia. La determinazione di Israele veniva ribadita al ministro Mogherini anche dal premier Netanyahu, in un incontro di un'ora e mezza.

Nella giornata un altro centinaio di razzi venivano diretti verso il territorio israeliano, compresi i cieli di Tel Aviv. La situazione umanitaria nella Striscia si aggravava progressivamente, anche in ragione dello sgombero almeno parziale di interi quartieri nelle cittadine settentrionali di Gaza dopo avvisi israeliani di imminenti bombardamenti per la presenza in quei rioni di massicci arsenali di armi.

Il 17 luglio al Cairo i mediatori egiziani incontravano separatamente esponenti israeliani e palestinesi - incluso Hamas - ma, dopo uno spiraglio positivo, proprio dal movimento islamico egemone a Gaza arrivava un nuovo stop, con la motivazione di apportare ulteriori modifiche al piano di pace egiziano.

In serata, dopo una nuova serie di raid aerei e colpi di artiglieria, si verificava un massiccio ingresso di forze di terra israeliane nella Striscia di Gaza, appoggiate da pezzi d'artiglieria e mezzi corazzati, mentre in parallelo sbarcavano truppe anfibie sulla costa di Gaza. L'obiettivo dichiarato di Israele erano le installazioni da cui venivano lanciati i razzi e soprattutto, in un primo tempo, la distruzione dei tunnel nei quali Hamas aveva occultato ingenti armamenti e che tra l'altro consentivano ai terroristi di infiltrarsi persino in territorio israeliano - come avvenuto all'alba, quando un commando palestinese era riuscito a sbucare oltre le linee israeliane, a circa un chilometro da un kibbutz di frontiera, ma era stato neutralizzato dalle forze di sicurezza israeliane. Intanto il bilancio delle vittime a Gaza toccava la cifra di 240.

Il 18 luglio il pur limitato ingresso nel territorio di Gaza provocava ulteriori vittime, portando il totale ormai a quasi trecento, e 2.200 feriti. Perdeva la vita anche il primo soldato israeliano, probabilmente vittima di fuoco amico. Di fronte a questa tragica situazione il segreto generale dell'ONU richiamava Israele a una maggiore attenzione nei confronti di civili, con una pronta protesta del premier Netanyahu. Su iniziativa turca il Consiglio di sicurezza era convocato con urgenza nella serata del 18 luglio. Anche il Papa telefonava ai due protagonisti dell'incontro di preghiera tenutosi a Roma all'inizio di giugno, Shimon Peres e Abu Mazen, esternando le sue gravissime preoccupazioni sugli sviluppi del conflitto.

L'ingresso di truppe di terra israeliane a Gaza accresceva il panico della popolazione in cerca di scampo, che andava ad affollare oltremisura le strutture umanitarie dell'ONU presenti a Gaza. Peraltro ben lungi dall'esaurirsi sembravano i lanci di razzi sul territorio israeliano, che mantenevano un numero costante.

Sul piano degli sforzi diplomatici per giungere a un cessate il fuoco non giovava certo la dura polemica turca nei confronti dell'Egitto, accusato di fare sostanzialmente il gioco di Israele, e anzi addirittura di agire d'intesa con Tel Aviv, come dimostrerebbe il fatto che Israele aveva prontamente accettato la proposta di tregua egiziana. Nelle ore precedenti, del resto, il ministro degli esteri egiziano Shoukri aveva dal canto suo accusato Turchia e Qatar di sabotaggio deliberato degli sforzi di mediazione egiziani, ai quali del resto non sembrava giovare la posizione abbastanza defilata degli Stati Uniti nei confronti delle autorità egiziane.

L'Egitto, preso atto dei contrasti di notevole portata con la Turchia e il Qatar, provava a sorpresa a rilanciare il piano negoziale, richiedendo il sostegno di Teheran durante un colloquio telefonico tra il ministro degli esteri egiziano e l'omologo iraniano Zarif. Nell'iniziativa egiziana non va dimenticato il recente processo di riavvicinamento tra Hamas e l'Iran, i cui legami si erano invece allentati temporaneamente nel periodo in cui l'Egitto aveva visto la presidenza di Morsi, esponente di primo piano della Fratellanza musulmana: probabilmente la richiesta di sostegno all'Iran potrebbe produrre secondo il Cairo opportune pressioni su Hamas per un via libera al piano di pace egiziano. A riprova della volontà di premere su Hamas va ricordato anche l'invito al capo politico in esilio del movimento islamico Meshaal a recarsi in Egitto per negoziati diretti sul cessate il fuoco.

La posizione cruciale dell'Egitto negli sforzi diplomatici internazionali restava comunque forte in ragione di vasti appoggi, a partire dalla Lega araba e dal presidente dell'ANP Abu Mazen. Il sostegno italiano è stato ribadito al ministro degli esteri egiziano nell'incontro del 19 luglio al Cairo con l'omologo italiano Mogherini, nonché dal collega francese Fabius.

Il 19 luglio proseguiva l'offensiva di terra israeliana, sempre diretta prevalentemente contro i tunnel sotterranei di Hamas: dei 34 scoperti, cinque erano finalizzati proprio a raggiungere il territorio israeliano - e proprio contrastando uno di questi tentativi perdevano la vita due soldati israeliani, oltre a un civile colpito da un razzo nella parte meridionale di Israele. Proseguivano intanto anche i raid aerei sulla Striscia e i lanci di razzi da Gaza, uno dei quali feriva un soldato egiziano distanza nel Sinai. Il bilancio delle vittime a Gaza superava intanto la cifra di 340, con quasi 3.300 feriti, mentre il numero degli sfollati era salito a 55.000, e nuovi flussi di profughi si annunciavano in seguito all'ordine dell'esercito israeliano di sgomberare diversi campi profughi del territorio di Gaza, prossime zone di combattimento.

Frattanto in Europa la situazione di Gaza cominciava a provocare manifestazioni di piazza, la principale delle quali si svolgeva pacificamente a Londra, in analogia a quanto avvenuto anche a Bruxelles. Più problematica la situazione francese, dove un corteo vietato per i rischi di attacchi contro istituzioni ebraiche nella capitale si svolgeva ugualmente con la partecipazione di centinaia di manifestanti, che si scontravano con le forze dell'ordine, con un bilancio di diversi feriti e una trentina di arresti. Il giorno successivo, 20 luglio, nuovi incidenti si registravano nella periferia settentrionale di Parigi, fortemente caratterizzata dalla presenza ebraica, mentre altre manifestazioni pacifiche si svolgevano ad Amsterdam e a Vienna. In Marocco la protesta si allineava alla presa di posizione delle autorità che già avevano condannato l'escalation militare israeliana contro Gaza, destinando alla popolazione palestinese urgenti aiuti umanitari: a Rabat un corteo unitario si è diretto pacificamente verso il Parlamento.

Il 20 luglio la situazione faceva registrare nuove gravi tragedie, con le vittime di Gaza che superavano il numero di 430, con oltre 3.000 feriti. Nel solo rione di Sajaya, limitrofo di Gaza City, perdevano la vita sotto i bombardamenti più di 60 persone, la metà delle quali donne e bambini. I fatti di Sajaya provocavano unanime condanna del mondo arabo: dalla capitale del Qatar Abu Mazen, impegnato in sforzi diplomatici, sollecitava una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell'ONU, mentre il segretario generale della Lega Araba el-Araby definiva barbari i bombardamenti israeliani, qualificati altresì come crimine di guerra contro i civili. L'aggravarsi dei combattimenti veniva testimoniato anche dalla parte israeliana, con la perdita nella sola giornata del 20 luglio di 13 soldati, e con il giallo legato alla scomparsa di un carrista del quale Hamas rivendicava la cattura, rinnovando i fantasmi della vicenda di Gilad Shalit del 2006.

Rispetto ai fatti di Sajaya Israele reiterava l'accusa a Hamas usare i civili come scudi umani, poiché dal rione bombardato sarebbero partiti dall'inizio del conflitto ben 140 razzi verso il territorio israeliano, e comunque gli abitanti erano stati più volte avvisati dell'imminente bombardamento. Sempre difficile la posizione statunitense che, a fronte dell'appoggio al diritto di Israele all'autodifesa, prospettavano al premier Netanyahu la necessità immediata di un cessate il fuoco sulla base della tregua mediata nel 2012 con un ruolo determinante dell'Egitto.

Sul piano umanitario si presentava sempre più grave la situazione dei profughi civili, che secondo alcune fonti potevano aver raggiunto ormai la cifra di 80.000, stipati in edifici dell'Agenzia umanitaria delle Nazioni Unite in Palestina. In questo contesto l'Egitto procedeva a riaprire il valico di Rafah come segno di solidarietà verso la popolazione di Gaza.

Infine l'asilo-mensa e ambulatorio pediatrico della cooperazione italiana "Terra dei bimbi", secondo l'Organizzazione non governativa incaricata della gestione di esso,"Vento di terra", veniva raso al suolo da bulldozer dell'esercito israeliano nel quadro di altre demolizioni programmate: la distruzione dell'asilo sarebbe stata completamente priva di motivazione, e veniva chiesto un passo deciso dei principali finanziatori del progetto umanitario (il Ministero italiano degli esteri, l'Unione europea e la CEI) nei confronti del governo israeliano.

Il 21 luglio il conflitto assumeva forme sempre più ravvicinate fra le parti in lotta: colpi di artiglieria israeliani centravano un ospedale nella parte centrale della Striscia e un grattacielo a Gaza City, in entrambi i casi con vittime civili. D'altra parte nella mattinata un tentativo di infiltrazione nel Negev attraverso un tunnel portava allo scontro ravvicinato tra forze di sicurezza israeliane e commando palestinesi, con la morte di 10 miliziani e quattro soldati israeliani. Altri tre soldati perdevano la vita a Gaza proseguendo nella caccia ai tunnel nascosti. Saliva così a 25 il numero dei militari israeliani morti dall'inizio dell'operazione di terra a Gaza, a fronte di circa 150 miliziani palestinesi.

Nelle città arabe in territorio israeliano l'Alto comitato di controllo arabo indiceva uno sciopero in varie forme contro l'azione militare israeliana a Gaza: in Cisgiordania, come anche a Nazaret e altre piccole città vi erano proteste, con sospensione di attività e chiusura negozi: a Nazaret si svolgeva anche una manifestazione con incidenti che portavano all'arresto di 10 persone.

Il 22 luglio le vittime a Gaza avevano superato la cifra di 600, mentre continuava un imponente sfollamento dal nord della Striscia per sfuggire all'artiglieria israeliana: le forze di sicurezza di Israele registravano altre tre vittime, oltre a non avere ancora notizie del carrista scomparso il 20 luglio. Proseguiva intanto il collasso umanitario, con ormai oltre 130.000 sfollati che le strutture dell'ONU a Gaza non riuscivano più a contenere, e che quindi si sparpagliavano anche per le strade e nei giardini pubblici.

Un discorso a parte merita la situazione dei bambini: oltre alle 121 vittime denunciate dall'Unicef, la più giovane delle quali aveva appena cinque mesi, e 80 meno di 12 anni, oltre 900 bambini palestinesi erano ormai stati feriti dall'inizio della nuova guerra di Gaza, e decine di migliaia di essi risultavano traumatizzati dalle tragiche vicende che stavano vivendo. Più in generale, sulla popolazione pesavano carenze di prestazioni ospedaliere e di medicinali, mentre problematico per oltre un milione di persone era ormai l'accesso all'acqua, con gravi conseguenze sul piano igienico-sanitario.

Peraltro Israele registrava un successo quando il segretario generale delle Nazioni Unite pronunciava una condanna verso Hamas per l'utilizzazione di siti civili a scopi militari, con il coinvolgimento nei combattimenti di scuole, ospedali e moschee: in tal modo Ban Ki-moon dava ragione alle ripetute accuse del governo israeliano verso Hamas di usare civili come scudi umani, per comprovare le quali il 21 luglio erano state anche pubblicate fotografie aeree nelle quali si vedevano lanci di razzi dalle immediate vicinanze di moschee, ospedali, cimiteri e anche campi giochi per bambini.

Il 23 luglio, nel protrarsi del conflitto di Gaza frammezzo alla sostanziale sterilità degli sforzi diplomatici internazionali, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite approvava una risoluzione che dispone per un'indagine su presunti crimini di guerra e contro l'umanità commessi a Gaza: nella risoluzione si condanna la vasta, sistematica violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali derivante dall'operazione militare israeliana nei territori palestinesi occupati dal 13 giugno. Il documento era approvato da 29 dei 47 membri del Consiglio ONU per i diritti umani, mentre riceveva il voto contrario degli Stati Uniti e 17 astensioni, tra le quali quella del nostro Paese. Al documento replicava seccamente il premier israeliano Netanyahu, definendolo una parodia da rigettare, e invitando polemicamente piuttosto a indagare sulle violazioni commesse da Hamas sia con i lanci di razzi verso Israele che con l'occultamento di armamenti in luoghi abitati da civili.

Mentre sul fronte palestinese sembrava che il leader palestinese Abu Mazen si avvicinasse alle richieste di Hamas per una tregua - al proposito il leader in esilio di Hamas Meshaal aveva posto come condizione preliminare la rimozione del blocco israeliano sulla Striscia -, la tragicità dello scontro a Gaza non accennava a diminuire: era infatti bombardato l'ospedale al-Wafa, nelle vicinanze di Sajaya, con la motivazione che da tale sito sarebbero partiti colpi di artiglieria palestinesi contro i soldati israeliani.

Hamas poteva invece salutare come vittoria la moratoria di fatto dei voli internazionali sull'aeroporto principale di Israele, lo scalo Ben Gurion di Tel Aviv, dopo che le compagnie aeree europee e americane avevano confermato per ulteriori 24 ore la sospensione dei voli da e per l'aeroporto di Tel Aviv.

Il 24 luglio i combattimenti raggiungevano anche una scuola dell'Agenzia umanitaria delle Nazioni Unite a Gaza, nella quale si trovavano numerosissimi profughi palestinesi, con un bilancio di 17 morti e un centinaio di feriti, tra i quali alcuni membri dello staff dell'ONU. Il bilancio delle vittime superava ormai nella Striscia la cifra di 760, con più di 4.000 feriti e una situazione umanitaria sempre più grave. Dall'altro lato i soldati israeliani morti erano saliti a 32, mentre proseguiva, anche se attenuata, la pioggia di razzi su Israele. Un parziale successo per Tel Aviv era la riapertura dei voli sull'aeroporto Ben Gurion. In serata si verificavano violenti scontri tra forze di sicurezza israeliane e i palestinesi anche a Gerusalemme est e nella località cisgiordana di Qalandia, dove perdeva la vita un manifestante.

Il giorno successivo, 25 luglio, la tensione saliva ulteriormente, e cinque palestinesi erano uccisi in Cisgiordania durante manifestazioni di solidarietà con la popolazione di Gaza degenerate in violenti scontri con le forze di sicurezza israeliane. La tensione si manteneva alta anche nella Città vecchia di Gerusalemme, dove i fedeli musulmani erano giunti a forzare il blocco di polizia che impediva l'ingresso ai più giovani di cinquant'anni nella Spianata delle moschee, al fine di prevenire incidenti.

Intanto Israele dichiarava ufficialmente ucciso in combattimento il soldato di cui si era temuto il 20 luglio il rapimento - che Hamas aveva effettivamente rivendicato -, senza peraltro comunicarne il luogo di sepoltura.

Sul piano diplomatico va registrato il dissenso di Israele sulla proposta del segretario di Stato americano per un cessate il fuoco a Gaza, ritenuta insufficiente da Netanyahu soprattutto perché le truppe israeliane non erano disposte a lasciare il territorio di Gaza, ove intendevano continuare la distruzione dei tunnel scavati da Hamas a scopi militari. Ciò che era effettivamente accettato era una tregua umanitaria di 12 ore, dalle 7 alle 19 il 26 luglio, e su questa proposta Hamas dava parere favorevole.

In Europa il protrarsi del conflitto tra Israele e Gaza provocava il 25 luglio nuove manifestazioni di protesta contro l'occupazione israeliana di territori palestinesi: queste si svolgevano pacificamente in Germania - dove invece nei giorni precedenti si erano verificati alcuni episodi di stampo antisemita, messi in atto però soprattutto da dimostranti immigrati di religione islamica. Il giorno successivo, tuttavia, nel tardo pomeriggio nuovi scontri si verificavano a Parigi in occasione di un altro corteo, vietato dalle autorità, indetto per protestare contro l'operazione militare israeliana a Gaza. Senza incidenti invece altre manifestazioni a Lione, Marsiglia, Lilla e Tolosa. Una nuova manifestazione aveva luogo il 26 luglio anche a Londra, ove diecimila persone sfilavano pacificamente.

A Parigi poche ore prima dei nuovi incidenti si era svolto un vertice guidato dal ministro degli esteri francese con gli omologhi di altri paesi, tra i quali John Kerry e Federica Mogherini, dal quale usciva un appello per un prolungamento di 24 ore della tregua del 26 luglio, eventualmente rinnovabile. Alla proposta però replicava Hamas lanciando alcuni razzi su Israele nella serata, e in tal modo facendo cadere il prolungamento alla mezzanotte che Tel Aviv sembrava aver accettato. Frattanto il numero delle vittime a Gaza superava il migliaio, e gli sfollati raggiungevano la cifra di circa 165.000. Israele vedeva salire il numero dei militari morti a 40 e quello dei feriti a 138.

Il 27 luglio, nel proseguire dei combattimenti a minore intensità, emergeva più marcato il contrasto tra le proposte dell'Amministrazione americana e la risposta di Israele, che aveva per l'ennesima volta rifiutato le proposte del segretario di Stato John Kerry, definendo la mediazione egiziana l'unica possibile e accettabile: Israele infatti non vedeva adeguatamente considerate le questioni connesse alla sicurezza del proprio territorio, e vedeva inoltre gli Stati Uniti sbilanciati verso la mediazione prevalente di Turchia e Qatar, apertamente schierati con Hamas, mentre avrebbero trascurato il ruolo dell'Egitto e dell'ala palestinese moderata incarnata da Abu Mazen. A queste posizioni di Israele reagiva il presidente Barack Obama, chiedendo con nettezza al premier israeliano, in una conversazione telefonica, un cessate il fuoco umanitario immediato e incondizionato, accennando tuttavia anche la necessità della smilitarizzazione di Gaza e del disarmo dei gruppi terroristici che nella Striscia erano attivi.

Nella notte tra 27 e 28 luglio il Consiglio di sicurezza dell'ONU adottava una Dichiarazione unanime per chiedere un "cessate il fuoco umanitario immediato e senza condizioni" a Gaza. Nella Dichiarazione si invitano Israele e Hamas a una piena applicazione della tregua per tutta la durata della festa musulmana dell'Eid al Fitr (la fine del Ramadan) ed oltre. Si richiede inoltre il "pieno rispetto del diritto umanitario internazionale, in particolare per quanto riguarda la protezione dei civili", nonché la protezione delle strutture civili e umanitarie, comprese quelle delle Nazioni unite. Il CdS esorta a rinnovati sforzi per "la messa in pratica di un cessate il fuoco duraturo e pienamente rispettato, basato sulla proposta egiziana" di mediazione.

Tuttavia la giornata del 28 luglio registrava il riaccendersi dei lanci di razzi su Israele e dei raid israeliani su Gaza, dove la fine del Ramadan dava ben poche occasioni per festeggiare: otto bambini erano uccisi da un razzo in un parco giochi a Shati, mentre esplodeva anche l'ambulatorio in disuso nei pressi dell'ospedale più grande della Striscia, quello di Shifa. In entrambi i casi Israele accusava però Hamas, dai cui razzi sarebbero stati colpiti i due siti - il portavoce militare di Tel Aviv segnalava infatti come dall'inizio delle ostilità a Gaza circa 200 razzi lanciati dalla Striscia sarebbero caduti all'interno del territorio di essa. Nel frattempo un commando di Hamas, infiltratosi nel Negev da un tunnel sotterraneo veniva neutralizzato, con la morte di cinque palestinesi.

La difficoltà nei rapporti tra Israele e gli Stati Uniti emergeva ulteriormente dalle parole di Netanyahu, per il quale il paese doveva prepararsi a una lunga operazione fino alla neutralizzazione a Gaza di tutti tunnel e dei siti per i lanci di razzi, in forte contrasto all'esortazione del presidente Obama, e in polemica con le proposte avanzate da John Kerry, che secondo Tel Aviv erano inaccettabili poiché ponevano sullo stesso piano Israele e Hamas - lo stesso Kerry in effetti sembrava aver avuto un momento di ripensamento sottolineando la necessità del disarmo di Hamas contestuale al cessate il fuoco, e rimettendo sul tappeto un riferimento al piano egiziano per la tregua, che Israele aveva accettato.

Il 29 luglio le voci di una possibile tregua lasciavano ancora il posto al prevalere dei combattimenti: dopo che nella giornata precedente numerosi razzi avevano nuovamente attinto lo spazio aereo e il territorio israeliani, Gaza veniva sottoposta a un forte bombardamento che provocava un centinaio di morti, portando il totale a quasi 1.200, e tra questi 230 bambini. Tra gli obiettivi dei bombardamenti l'unica centrale elettrica ancora attiva a Gaza, la cui disattivazione sicuramente contribuiva a ulteriori disagi per la popolazione civile, all'interno della quale erano ormai quasi 300.000 gli sfollati – non a caso iniziavano a verificarsi episodi di disperazione come l'assalto ad alcuni forni. Dal canto suo l'esercito israeliano arrivava a contare 53 soldati vittime del conflitto. Un nuovo tentativo di infiltrazione da un tunnel nel Nord della Striscia era sventato con l'uccisione di cinque palestinesi.

Sul fronte internazionale, oltre all'incessante proseguire del lavorio diplomatico soprattutto al Cairo, va segnalata la presa di posizione delle massime autorità iraniane, con la guida suprema Ali Khamenei che attaccava Israele, qualificato alla stregua di cane rabbioso che attaccava persone innocenti e bambini, e che stava commettendo un vero e proprio genocidio a Gaza. Khamenei esortava il mondo musulmano a compiere ogni sforzo per armare il popolo palestinese, il quale costituiva un esempio per tutti nella sua disperata resistenza nella ridotta di Gaza ormai in gran parte priva di acqua e di elettricità. Dal canto suo il presidente iraniano Rohani non era da meno, spingendosi a paragonare lo Stato ebraico a un tumore infetto, da combattere con lo stesso vigore con il quale Rohani aveva chiamato alla mobilitazione contro l'Isis, impegnato a stabilire il califfato nei territori a cavallo tra Iraq e Siria, e che nel frattempo massacrava musulmani in nome dell'Islam.

Il 30 luglio si verificava un nuovo gravissimo episodio che coinvolgeva i civili di Gaza: un colpo di artiglieria israeliano centrava una scuola dell'Agenzia umanitaria dell'ONU per i rifugiati a Jabaliya, provocando 23 morti e decine di feriti: l'episodio provocava una dura reazione del segretario generale dell'ONU, che definiva l'attacco ingiustificabile e vergognoso. Con toni più morbidi anche gli Stati Uniti condannavano l'attacco contro civili innocenti. Inoltre nel mercato di Sajaya, località già duramente colpita nei giorni precedenti, fonti palestinesi riferivano esservi stati altri 17 morti e 160 feriti. Il totale dei morti a Gaza dall'inizio del conflitto superava le 1.300 vittime e il numero dei feriti la cifra di 7.000. Frattanto nella giornata del 30 luglio l'esercito israeliano perdeva altri tre soldati nell'esplosione di un tunnel nella parte meridionale della Striscia, con un totale di 56: negli ospedali israeliani risultavano ricoverati oltre cento feriti per i lanci di razzi da Gaza, che proseguivano sul territorio israeliano.

A fronte dell'apparente volontà del governo di Tel Aviv di proseguire nell'azione militare a Gaza faceva spicco l'avviso contrario dell'ex presidente Shimon Peres, per il quale la soluzione del conflitto doveva tornare alla diplomazia, e l'opzione militare aveva esaurito la propria funzione: secondo Peres l'obiettivo doveva essere quello di ricondurre la leadership della Striscia di Gaza all'ala moderata dei palestinesi guidata da Abu Mazen.

Frattanto la situazione umanitaria a Gaza si avvicinava a quella che sembrava davvero una catastrofe, con circa 400.000 sfollati: l'Ufficio ONU per gli affari umanitari rendeva noto che i civili palestinesi a Gaza affollavano le strutture dell'Agenzia delle Nazioni Unite in misura quadrupla rispetto alla precedente crisi del novembre 2012.

In questo difficile contesto anche la diplomazia vaticana sembrava dare segnali di preoccupazione, con l'invio di una Nota verbale della Segreteria di Stato alle ambasciate accreditate presso la Santa sede, per richiamare gli appelli sul Medio Oriente che negli ultimi tempi il Papa aveva rivolto a più riprese.

Il 31 luglio Israele procedeva al richiamo di altri 16.000 riservisti, segnale indiretto di una non imminente cessazione dell'operazione a Gaza, dove intanto il precipitare della situazione umanitaria induceva il presidente palestinese Abu Mazen a dichiarare Gaza area disastrata, per la quale veniva richiesta la protezione dell'ONU.

Su un altro versante, l'Alto commissario ONU per i diritti umani Navi Pillay tornava ad accusare Israele, che deliberatamente avrebbe violato il diritto internazionale, e per di più sarebbe stato fortemente appoggiato dagli Stati Uniti con forniture di artiglieria pesante. Secondo l'Alto commissario peraltro anche Hamas avrebbe commesso gravi violazioni dei diritti umani, fino a sfiorare (come Israele) i crimini contro l'umanità. La responsabile per gli affari umanitari delle Nazioni Unite Valerie Amos richiamava le parti in conflitto agli obblighi derivanti dal diritto internazionale umanitario, in margine ad un'ennesima riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza. Mentre Israele per bocca del proprio rappresentante all'ONU respingeva vibratamente le accuse, il portavoce della Casa Bianca Earnest rincarava la dose sulla condanna del giorno precedente, definendo il bombardamento di edifici dell'ONU stipati di civili inaccettabile e indifendibile. Il primo ministro turco Erdogan si spingeva a paragonare l'operazione militare israeliana a quelle dei nazisti.

Nella notte fra 31 luglio e 1° agosto il segretario di Stato USA Kerry e il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon concordavano con le parti in lotta una tregua di 72 ore, a partire dalle h. 8 del mattino successivo: la tregua veniva però violata quasi subito da miliziani palestinesi che, infiltratisi attraverso un tunnel in territorio israeliano provocavano la morte di due soldati e ne rapivano un terzo – secondo l'ipotesi formulata dalle forze di sicurezza israeliane e nonostante la veemente reazione di queste.

Le delegazioni israeliana e palestinese al Cairo riuscivano comunque ad accordarsi per una tregua di tre giorni a partire dal 5 agosto, mentre da parte israeliana si erano già registrati segni di un diminuzione della frequenza dei bombardamenti. Tuttavia, esattamente allo scadere della tregua, alle otto del mattino dell'8 agosto partivano nuovi attacchi da Gaza sul sud d'Israele, con il lancio di numerosi razzi, suscitando l'immediata reazione dell'artiglieria e dell'aviazione israeliane. Una nuova tregua veniva concordata per 72 ore, includendo i giorni dall'11 al 13 agosto: tuttavia proprio il 13 agosto, mentre riprendeva a Gaza le operazioni di disinnesco di un ordigno israeliano inesploso da parte di artificieri palestinesi, veniva coinvolto dalla deflagrazione della bomba e perdeva la vita il videoreporter italiano Simone Camilli, di 35 anni, che si trovava a Gaza per conto dell'agenzia statunitense Associated Press.

Intanto però una nuova tregua di cinque giorni dava l'impressione di un'imminenza dell'accordo per un cessate il fuoco finalmente durevole: tuttavia il 19 agosto i combattimenti riprendevano con asprezza da entrambe le parti, e i razzi di Hamas solcavano i cieli di Tel Aviv e Gerusalemme mentre la delegazione di negoziatori israeliani lasciava Il Cairo. Lo scontro armato proseguiva senza sostanziali novità fino al 26 agosto, quando si annunciava il raggiungimento di un accordo per una tregua più duratura, in vista di un accordo politico più comprensivo da perseguire con negoziati a partire dalla fine di settembre – purché naturalmente la tregua non fosse stata nel frattempo infranta. Per l'intanto comunque l'accordo raggiunto prevedeva anche la riapertura dei valichi di accesso alla Striscia dal territorio israeliano e da quello egiziano: in tal modo doveva essere possibile un massiccio afflusso di aiuti umanitari di emergenza e di materiali per avviare la ricostruzione a Gaza. La Striscia otteneva inoltre l'ampliamento da tre a sei miglia marine del braccio di mare ove poter esercitare la pesca.

L'intesa per la fine delle ostilità segnava un successo diplomatico per l'Egitto del presidente al-Sisi, la cui mediazione contribuiva a porre fine al più lungo intervento militare israeliano a Gaza, durato 50 giorni con un bilancio di oltre 2.100 vittime palestinesi, mentre da parte israeliana hanno perso la vita 64 soldati e 5 civili: nel conflitto il territorio israeliano sarebbe stato raggiunto da oltre 4.500 tra razzi e colpi di mortaio, mentre l'aviazione di Tel Aviv avrebbe colpito oltre 5.200 obiettivi nella Striscia.

 

I più recenti sviluppi.

Nei primi giorni successivi all'accordo del 26 agosto emergevano alcuni distinguo, suscettibili di sviluppi, tra l'Autorità nazionale palestinese e Hamas - che prima dell'inizio della nuova guerra di Gaza, si ricorda, erano in procinto di varare un governo di unità nazionale palestinese: in particolare, il presidente dell'ANP Abu Mazen si spingeva a criticare i festeggiamenti in atto nella Striscia dopo il raggiungimento della tregua, accusando i loro protagonisti di dimenticarsi delle migliaia di vittime e delle immani distruzioni, che, sembrava suggerire Abu Mazen, si sarebbero potute evitare accettando assai prima la tregua cui invece si era acconsentito solo il 26 agosto. Qualche giorno prima il rappresentante palestinese alla Commissione diritti umani dell'ONU aveva definito esplicitamente i razzi lanciati da Hamas contro Israele alla stregua di crimini contro l'umanità, poiché diretti contro civili. Queste schermaglie intrapalestinesi proseguivano ai primi di settembre con la diffusione di un piano di pace predisposto dal presidente palestinese Abu Mazen, anticipato da un suo collaboratore ad un importante quotidiano della Giordania: secondo il piano andava lanciata al più presto una sessione negoziale di tre mesi per definire i futuri confini della Palestina in un contesto di congelamento della colonizzazione da parte di Israele e di liberazione di molti detenuti palestinesi. Successivamente si dovrebbero affrontare i nodi più difficili del negoziato, dando poi ad Israele un periodo triennale per il completamento della ridislocazione di forze militari e cittadini in base alle intese eventualmente raggiunte. A fronte di questo rilancio di iniziativa da parte di Abu Mazen, sondaggi condotti tra i palestinesi sembravano dimostrare al contrario una grande popolarità del leader di Hamas Ismail Haniyeh, dato addirittura per vincente in un'elezione generale palestinese - ovvero non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania -; gli stessi curatori del sondaggio rilevavano tuttavia come esso fosse stato condotto forse troppo a ridosso della conclusione della crisi di Gaza, che da molti palestinesi è stata considerata alla stregua di una vittoria. Anche il governo di Israele peraltro riceveva nuove forti critiche da Nazioni Unite, Stati Uniti e Unione europea in relazione alla volontà di trasformare in terra demaniale 400 ettari nella periferia sud-occidentale di Betlemme per edificarvi una cittadina coloniale dedicata alla memoria dei tre ragazzi ebrei uccisi in giugno in Cisgiordania.

Assai più promettente era invece quanto trapelato il 7 settembre, ovvero la possibilità di un'apertura israeliana all'ipotesi di una forza internazionale di pace da dislocare a ridosso della striscia di Gaza dalla parte del valico di Rafah, lungo i 14 km che separano Gaza dal Sinai: la proposta, già avanzata ufficiosamente dal Ministero degli esteri israeliano al Gabinetto di sicurezza il 21 agosto, sembra propendere per una composizione europea della forza multinazionale, probabilmente proprio perché europea era l'idea originale formulata già durante il conflitto che divampava a Gaza - i maggiori paesi della UE avevano infatti caldeggiato un ampliamento della missione europea EUBAM a presidio del valico di Rafah. La proposta israeliana proseguiva articolatamente, prevedendo preliminarmente al dispiegamento della forza multinazionale una risoluzione apposita del Consiglio di sicurezza dell'ONU dopo un'intesa tra Israele, Autorità nazionale palestinese, Egitto, Stati Uniti e Unione europea. L'assenza di Hamas fa comprendere agevolmente come lo scopo principale della proposta israeliana risiedesse proprio nel desiderio di aumentare le garanzie contro un riarmo delle fazioni palestinesi più radicali. Intanto Abu Mazen, forte del sostegno del presidente egiziano al-Sisi, alzava i toni contro Hamas, di cui diceva di non poter ulteriormente accettare il potere esercitato a Gaza in presenza del governo di unità nazionale palestinese in carica già da alcuni mesi.

Il 16 settembre, nonostante l'apprensione destata da un isolato colpo di mortaio sparato da Gaza verso la zona meridionale Israele - che rinnovava le preoccupazioni nelle comunità israeliane più vicine al territorio della Striscia, ma rispetto al quale Hamas si dichiarava estraneo, confermando l'impegno a rispettare la tregua – le Nazioni Unite annunciavano il raggiungimento di un accordo tra Israele e l'Autorità nazionale palestinese per la ricostruzione di Gaza sotto monitoraggio ONU e con la guida dell'ANP, quale rassicurazione nei confronti di Israele di un utilizzo dei materiali per la ricostruzione non diretto a scopi di riallestimento della rete di tunnel e dell'infrastruttura militare a disposizione dei miliziani delle varie fazioni di Gaza.

Il 23 settembre iniziava al Cairo la prevista presa di contatto tra le delegazioni israeliana e palestinese per la negoziazione di una tregua duratura a Gaza e per affrontare gli enormi problemi posti dalla ricostruzione indispensabile della Striscia, dove anche a un mese dalla fine delle ostilità si contavano circa 100.000 senzatetto e 70.000 alloggiati in maniera assai precaria. L'inizio del negoziato è caduto inoltre in un periodo di ricorrenti festività tanto ebraiche quanto musulmane, (Capodanno ebraico, Kippur, Festa del sacrificio), alla fine delle quali solamente la trattativa potrà entrare nel vivo. Nel frattempo veniva reso noto che era stato firmato un accordo da Nazioni Unite, governo palestinese unitario di Ramallah guidato da Rami Hamdallah e rappresentanti delle autorità militari israeliane al fine di poter introdurre nel territorio della Striscia di Gaza materiali da costruzione sotto il controllo dell'ONU - così da impedire che Hamas possa riutilizzarli a fini di preparativi militari -: l'accordo avrebbe previsto l'ingresso nella Striscia di 80 camion ogni giorno, una quantità ritenuta dai palestinesi peraltro irrisoria. Gli stessi palestinesi tuttavia sembravano avere problemi altrettanto gravi nelle persistenti divisioni tra il fronte che fa capo ad Abu Mazen e le forze che seguono sostanzialmente Hamas: non a caso nessun ministro del teoricamente insediato governo di unità nazionale palestinese con sede a Ramallah era ancora comparso nel territorio di Gaza, dove, per sovrammercato, Hamas aveva già chiarito che non avrebbe garantito la sicurezza dei ministri. Anche da parte israeliana si precisava che i ministri di Ramallah non avrebbero potuto transitare nel territorio della Striscia dalla parte di Israele, ma solo dal valico di Rafah, che collega Gaza con l'Egitto. Va segnalato che nel periodo precedente alla riunione del Cairo del 23 settembre Abu Mazen aveva perfino accusato Hamas di avere ispirato un tentativo di colpo di Stato contro di lui in Cisgiordania, nonché di avere preteso somme di denaro da centinaia di disperati i quali, imbarcatisi dall'Egitto, sarebbero poi naufragati nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere le coste europee.

Frattanto, nella notte precedente alla riunione delle delegazioni israeliana e palestinese al Cairo le forze di sicurezza israeliane riuscivano a chiudere la questione della caccia ai responsabili dell'uccisione dei tre giovani seminaristi ebrei alla fine di giugno, individuando due giovani palestinesi ritenuti con sicurezza autori del crimine, ed eliminandoli dopo un breve conflitto a fuoco in una falegnameria dove avevano trovato rifugio nel rione al-Joumia di Hebron. L'uccisione di due palestinesi, che il governo israeliano, nonostante continuasse la prudenza di Hamas al proposito, ha sempre indicato come facenti parte di una cellula dell'organizzazione islamista maggioritaria a Gaza, è stata criticata dal governatore di Hebron, poiché a suo dire i due avrebbero potuto essere catturati vivi. Vi sono stati inoltre in occasione dei loro funerali scontri con le forze di sicurezza israeliane, con decine di feriti.

Un nuovo "effetto collaterale" del conflitto siriano interessava intanto, sempre nella giornata del 23 settembre, la parte delle alture del Golan sotto il controllo di Tel Aviv, quando un jet militare di Damasco impegnato in combattimenti contro i jihadisti che hanno sostanzialmente occupato il Golan siriano sconfinava nello spazio aereo israeliano e in pochi secondi veniva abbattuto. In questo modo il Golan, zona per decenni estremamente calma in relazione al resto della regione, assisteva nuovamente al fatto eclatante dell'abbattimento di un aereo siriano da parte israeliana.

Nel pomeriggio del 25 settembre le delegazioni palestinesi impegnati al Cairo nei colloqui con la controparte israeliana annunciavano quella che appariva una svolta rispetto al clima delle settimane precedenti: veniva infatti illustrato l'accordo tra al-Fatah e Hamas per il passaggio dei poteri del nuovo governo unitario palestinese anche a Gaza, della quale i ministri guidati da Hamdallah avrebbero dovuto prendere l'immediato controllo – in effetti Hamdallah poteva recarsi a Gaza già il 9 ottobre. Non va dimenticato comunque che oltre all'obiettivo di facilitare i negoziati con Israele, l'accordo rinnovato tra le fazioni palestinesi è apparso anche finalizzato a tranquillizzare la Conferenza dei paesi donatori del successivo 12 ottobre, di importanza cruciale per le prospettive di ricostruzione della Striscia di Gaza. Corollario del rinnovato accordo intrapalestinese sarebbe poi la determinazione di Hamas ad appoggiare il rilancio del piano di Abu Mazen per giungere in seno alle Nazioni Unite finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese internazionalmente riconosciuto entro i confini del 1967 (ossia prima della Guerra dei sei giorni).

La questione degli insediamenti ebraici tornava d'attualità il 1° ottobre, in occasione dell'incontro a New York tra il premier Netanyahu e il presidente americano Obama: dopo che già il giorno precedente un gruppo di un centinaio di coloni ebrei aveva preso possesso a titolo strettamente privato (dopo regolare acquisto) di undici palazzine residenziali di un rione a larga prevalenza palestinese di Gerusalemme est – il rione di Silwan, assai vicino alla Moschea di al-Aqsa -; proprio il 1° ottobre veniva reso noto il placet del governo israeliano alla costruzione di oltre duemila nuove unità abitative in un altro insediamento di Gerusalemme est, provvedimento ancora una volta suscettibile di ostacolare la formazione di un futuro Stato palestinese bloccandone il collegamento con i sobborghi di Gerusalemme est. Come già in passato, poi, l'annuncio veniva proprio in occasione di un incontro delle autorità israeliane con il maggiore alleato, destando nuovamente irritazione percepibile nell'Amministrazione americana. Netanyahu dal canto suo ribatteva ricordando il nuovo clima in atto dopo la conclusione dell'operazione militare a Gaza, in particolare l'emergere di una comunanza di interessi tra Israele e importanti Stati arabi, rilanciando inoltre l'allarme sulla possibilità che l'Iran arrivi in breve a dotarsi di armamenti nucleari, in ciò cercando di mettere palesemente in imbarazzo la strategia degli Stati Uniti nei confronti di Teheran.

Dopo solo un paio di giorni il diffondersi delle notizie sull'autorizzazione del nuovo insediamento a Gerusalemme est provocava una nuova drastica presa di posizione dell'Unione europea. In particolare il Servizio diplomatico dell'Unione condannava i nuovi appalti autorizzati da Tel Aviv come un ulteriore passo dannoso, tale da mettere in dubbio la sincerità dell'impegno di Israele per una soluzione pacifica delle controversie con i palestinesi. Nonostante il tentativo di giustificazione da parte di Netanyahu, che attribuiva la questione degli insediamenti a una dimensione meramente privatistica, la diplomazia europea rincarava la dose ribadendo di non voler riconoscere alcuna modifica rispetto ai confini precedenti al 1967, e chiarendo che il futuro delle stesse relazioni dell'Unione europea con Israele dipenderà dall'impegno israeliano a muoversi effettivamente verso la possibilità di una pace duratura basata sulla soluzione a due Stati. Pienamente in consonanza con queste prese di posizione dell'Unione europea era anche quella italiana, espressa dalla Farnesina.

Poche ore dopo la presa di posizione europea giungeva forse ancor più incisivo l'annuncio del nuovo esecutivo socialdemocratico svedese di essere pronto al riconoscimento a tutti gli effetti della Palestina come Stato: in questo la Svezia si aggiungeva a Malta e a Cipro, nonché ad alcuni paesi dell'Europa centro-orientale precedentemente sotto l'influenza sovietica, i quali avevano proceduto al riconoscimento molto tempo prima. L'Unione europea prendeva atto della presa di posizione svedese, ricordando come il riconoscimento di altri Stati rimanga comunque nelle competenze dei singoli Stati membri. Diversa era invece la reazione americana, con la Casa Bianca che criticava Stoccolma per il carattere a suo dire prematuro di un riconoscimento dello Stato palestinese. Si ricorda comunque che a tutt'oggi 120 paesi di tutti i continenti hanno riconosciuto la Palestina nei confini del 1967 come Stato a tutti gli effetti: va altresì segnalato però come per quanto concerne la zona europea il riconoscimento da parte di alcuni Stati dell'Europa centro-orientale, evidentemente avvenuto quando ancora essi gravitavano nell'orbita di Mosca, non corrisponda all'atteggiamento attuale di questi paesi: infatti, in occasione della votazione all'Assemblea generale dell'ONU della risoluzione 67/19 - la cui approvazione ha conferito alla Palestina lo status di Osservatore permanente come Stato non membro presso l'Assemblea generale dell'ONU, agguagliando la Palestina alla Santa sede - tutti gli stati dell'Europa centro-orientale che risultano aver riconosciuto la Palestina si erano astenuti, mentre la Repubblica ceca aveva addirittura espresso voto contrario. Si ricorda poi che l'Unione europea, nei principali paesi, aveva mostrato in quella occasione le consuete divisioni, poiché Francia, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna avevano votato a favore, mentre Germania, Regno Unito e Paesi Bassi si erano espressi per l'astensione.

La presa di posizione della Svezia provocava forti irritazione da parte israeliana, con la convocazione da parte del ministro degli esteri Lieberman dell'ambasciatore svedese in Israele per comunicargli la protesta di Tel Aviv: posizione comune tra Lieberman e Netanyahu era quella di attirare l'attenzione sul fatto che nessun atto unilaterale, neppure da parte di altri Stati, può essere suscettibile di favorire i progressi negoziali israelo-palestinesi. Naturalmente di sapore del tutto opposto erano le reazioni palestinesi, incentrate sull'entusiasmo per il coraggio di Stoccolma nell'annunciare il riconoscimento della Palestina.

Il 7 ottobre il Golan tornava al centro delle tensioni, stavolta nella parte delle cosiddette Fattorie di Shebaa, un territorio incastonato tra Siria, Libano e parte del Golan controllata da Israele, nei pressi delle quali una pattuglia israeliana veniva colpita da appartenenti alla milizia libanese sciita Hizbollah, suscitando l'immediata reazione dell'artiglieria di Tel Aviv che ne colpiva le postazioni. L'esercito israeliano già due giorni prima aveva denunciato di aver intercettato e aperto il fuoco contro persone che tentavano di infiltrarsi in territorio israeliano dal Libano. Dal canto suo il ministro israeliano della difesa Yaalon ha significativamente ricordato la responsabilità dello Stato libanese anche per le azioni di Hizbollah.