Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | Recenti sviluppi della crisi politica in Ucraina - II Edizione | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 92 | ||
Data: | 24/02/2014 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Recenti sviluppi della crisi politica in Ucraina |
II Edizione |
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n. 92 |
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24 febbraio 2014 |
Servizi
responsabilI: |
Servizio
Studi – Dipartimento Affari esteri ( 066760-4172 –
* st_affari_esteri@camera.it |
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File: es0159.doc |
INDICE
I recenti sviluppi della
crisi politica in Ucraina
§
Premessa
§
Le tentate aperture
filo-europee dell’esecutivo ucraino e le reazioni di Mosca
§
L’avvio delle
manifestazioni di protesta
§
Le manifestazioni di
dicembre
§
Le reazioni
internazionali all’ondata di proteste
§
Verso una escalation delle violenze. Il pacchetto
di provvedimenti anti-opposizione
§
La diffusione della
contestazione nel Paese ed il fallimento dei negoziati
§
La ripresa degli scontri
di piazza
Selezione di pubblicistica
§
G. Pallone ’Ucraina:
‘eurorivoluzione’, nazionalismo e fattore russo’, in: www.aspeninstitute.it/aspenia-online 3 febbraio
2014
§
S. Grazioli ‘Russia
o Europa? Rivoluzioni, oligarchi e il futuro dell’Ucraina’, in: Limes
online, 3 febbraio 2014
§
J. Andruchovych ‘Il popolo dell’Ucraina sta versando il sangue per i valori europei’,
in: Limes online, 5 febbraio 2014
§
L. Colantoni ‘In
Ucraina si gioca anche la partita energetica tra Russia e UE ’, in: Limes
online, 19 febbraio 2014
§
N. Locatelli ‘Gli
scontri a Kiev e la battaglia per l’Ucraina, nel contesto’, in: Limes
online, 20 febbraio 2014
§
B.H. Lévy ‘L’Ucraina
e l’Europa’, in: Affari esteri, n. 173/2014
§ N. Shapovalova ‘Ukraine: protests without leadership’, in: Fride Commentary, n.
2/gennaio 2014
§ N. Shapovalova ‘Ukraine’s new pro-democracy movement’, in: Fride Commentary, n.
3/febbraio 2014
§ J, Mankoff ‘Ukraine on the Brink’, in: http://csis.org,
30 gennaio 2014
§ M. Emerson ‘Preparing for a post-Yanukovich Ukraine’, in: CEPS Commentary, 3
febbraio 2014
§ M. kalb ‘Up Front’ , in: Brookings Institution, 6 febbraio 2014
§ S. Pifer ‘Up Front’ , in: Brookings Institution, 19 febbraio 2014
§ S. Pifer ‘A Ukraine in Crisis Between Russia and the West’, in: Brookings
Institution, 31 gennaio 2014
§ R. Kahn ‘File Finalcial Questions for Ukraine’ in: Council on Foreign
Relations, 10 febbraio 2014
§ A. Wilson ‘Can Europe protect the Euromaidan?’ in: European Council on
Foreign Relations, 24 gennaio 2014
§ A. Wilson ‘Time for new elections to break the deadlock in Ukraine’ in:
European Council on Foreign Relations, 31 gennaio 2014
§ A. Gardner ‘Nuland is from Mars’, in: www.europeanvoice.com,
7 febbraio 2014
§ A. Paul e V. Filipchuk ‘Ukraine in deadlock – What next?’, in:
European Policy Center, 12 febbraio 2014
§ Russia and Regional Developments -
Analysis e Opinion Poll, in : Russian Analytical Digest, 6 febbraio 2014
(stralci)
§ V. Kalnysh ‘Who is fighting whom in Ukraine – and why’, in: Open Democracy,
free thinking for the world - 4 febbraio 2014
§ O. Andreyev ‘Power and money in Ukraine’, in: Open Democracy, free thinking for
the world - 12 febbraio 2014
§ N. Nikolov ‘From Kiev to Kosovo: a critical juncture’, in: Open Democracy,
free thinking for the world - 12 febbraio 2014
§ A. Wilson ‘Ukraine’s 2014: a belated 1989 or another failed 2004?’, in: Open
Democracy, free thinking for the world - 18 febbraio 2014
§ O. Butsenko ‘Ukraine: what next?’, in: Open Democracy, free thinking for the
world - 20 febbraio 2014
§ Analysis ‘Ukraine: the opposition Faces a New Threat from the Ukrainian Front’,
in: www.stratfor.com, 12 febbraio 2014
§ Geopolitical Diary ‘Ukraine: the Crisis Sees Its Deadliest Day
Yet’, in: www.stratfor.com, 18 febbraio
2014
§ Geopolitical Diary ‘Protesters in Lviv Raise the Stakes in
Ukraine’s Crisis’, in: www.stratfor.com,
19 febbraio 2014
§ Analysis ‘Russia Urges to Delegate More Power to Its Regions’, in: www.stratfor.com, 19 febbraio 2014
§ Analysis ‘In Ukraine, a Military Reshuffle Raises Questions‘, in: www.stratfor.com, 19 febbraio 2014
§ Analysis ‘In Ukraine, Fighting Shatters a Truce‘, in: www.stratfor.com, 20 febbraio 2014
La grave crisi politica che da novembre 2013 scuote
l’Ucraina si inserisce nel
quadro di un paese fortemente diviso sia
dal punto di vista delle opzioni internazionali che dal punto di vista
culturale e linguistico: il principale problematico che condizione l’identità
dell’Ucraina risiede nella contrapposizione di due gruppi di popolazione,
pressoché equivalenti sotto il profilo demografico, con una prevalenza filo-russa nelle regioni orientali ed un orientamento
filo-europeo in quelle occidentali.
Non mancano in ciascuna delle due aree controspinte
importanti. Inoltre, anche
la stessa classe dirigente economica del paese si presenta divisa, con il
grande finanziatore del Partito delle Regioni del presidente Ianukovich, Akhmetov, fortemente interessato alle relazioni con l’Unione
europea, laddove la maggioranza degli industriali ucraini sembrerebbe
propendere per un rafforzamento dei legami con Mosca, e comunque almeno per un
differimento cospicuo dell'associazione economica dell’Ucraina alla UE.
La situazione
attuale va poi comunque fatta risalire al “rapporto
speciale” dell’Ucraina dapprima con
la Russia zarista e poi con l'Unione sovietica, rapporto nel quale, a
fronte delle rivendicazioni nazionalistiche del paese - in passato fortemente
legato anche alla Polonia - da parte russa vi è sempre stato l’atteggiamento di
considerare l’Ucraina, come significato dalla sua stessa denominazione,
null'altro che una propaggine della Russia verso i confini occidentali.
Su questo sfondo
si rendono maggiormente comprensibili le vicende del paese all'inizio del nuovo
millennio, quando la cosiddetta “rivoluzione arancione” incarnata da
Yushenko sembrò spostare decisamente il paese verso istituzioni di stampo
liberale e occidentale, per poi lentamente ricadere, anche sotto il peso di
lotte intestine nel fronte filo-occidentale e di numerosi scandali con al
centro la personalità della leader liberale
Iulia Timoshenko, nell’orbita di
Mosca, orientamento incarnato dall'attuale presidente Ianukovich.
Proprio
dall'ascesa al potere di Ianukovich la parte politica a lui avversa veniva
colpita da numerosi provvedimenti
giudiziari: su tutti, la principale vittima è apparsa Iulia Timoshenko, che
nell'ottobre del 2011 veniva condannata a sette anni di reclusione con l'accusa
di malversazioni in merito a contratti di fornitura di gas con la Russia.
Sul capo della Timoshenko, peraltro, pendono altri processi, e se dovesse essere
riconosciuta colpevole come mandante dell'omicidio del deputato Sherban,
rischierebbe anche l'ergastolo.
La prospettiva dell'integrazione europea aveva in qualche modo costretto l’Ucraina ad
attenuare queste misure, con alcune limitate riforme giudiziarie e la
liberazione di vari ex esponenti del
governo Timoshenko dalle accuse loro mosse. Anche in considerazione delle
precarie condizioni di salute della Timoshenko, l'Unione europea si è fatta decisamente avanti per ottenerne il
trasferimento in Germania, onde poter ottenere migliori cure.
In questo quadro, all'inizio di ottobre 2013 il
presidente Ianukovich sosteneva esservi le basi per una rapida soluzione del
caso Timoshenko, evidentemente nella prospettiva
di una firma imminente dell'Accordo di associazione e libero scambio di Kiev con
l'Unione europea. Dunque nonostante l’orientamento filo-russo di
Ianukovich, il peggioramento della situazione economica sembrava in quel
momento consigliare un deciso riorientamento verso l'Occidente, considerato
anche l'Unione europea è divenuta il primo
partner commerciale del paese e
che l'avvicinamento all'Europa avrebbe potuto moderare lo scontento di vaste
fasce della popolazione per la crisi economica. Inoltre, anche il governo
ucraino filo-russo non aveva mancato negli ultimi tempi di far notare come il prezzo pagato per il gas russo fosse da
considerare spropositato.
Mosca ha reagito
ventilando l’adozione di misure
protezionistiche nel caso di un’adesione ucraina al progetto d’integrazione
europea di Kiev: tale adesione implicherebbe infatti il definitivo tramonto del
progetto di unione doganale tra Russia,
Bielorussia, Ucraina e Kazakhstan. Concepito da Putin come primo passo di
una strategia di recupero dell'ex repubbliche sovietiche all'influenza
moscovita.
I rapporti russo-ucraini precipitavano
rapidamente quando Gazprom, il
gigante russo del gas, richiedeva all’Ucraina l’immediato saldo dei debiti
contratti, pena il pagamento anticipato delle future forniture di gas – che
assai difficilmente Kiev potrebbe permettersi. Si delineava così la minaccia di una nuova guerra del gas
che, in ragione del fatto che buona parte di quello diretto all’Europa
occidentale transita proprio per l'Ucraina, sarebbe suscettibile di conseguenze
negative anche per il mercato europeo. Nei giorni successivi l'escalation proseguiva, e l’Ucraina
interrompeva l'importazione di gas russo.
Alla metà di novembre il braccio di ferro sembrava
tuttavia già risolversi a favore della Russia: infatti il Parlamento di Kiev faceva slittare il
voto sull'eventuale permesso alla Timoshenko di recarsi in Europa, pur
consapevole che ciò avrebbe pregiudicato i rapporti con la UE. Ianukovich, che
intanto aveva riservatamente incontrato il presidente russo Putin, sembrava
inizialmente temporeggiare in vista del possibile differimento della firma
dell'Accordo di associazione con la UE.
Ben presto però il Presidente ucraino appariva assai più
deciso, mettendo in dubbio la convenienza economica dell’integrazione europea,
che avrebbe costi troppo alti per l'adeguamento agli standard imposti da Bruxelles - anche qui però poteva esservi
il retropensiero della richiesta di un contributo europeo finalizzato.
Immediatamente l'atteggiamento di Gazprom
si ammorbidiva, ipotizzando la possibilità di uno scaglionamento nel pagamento
dei debiti ucraini per il gas russo.
Il 18 novembre il compromesso russo-ucraino era
cosa fatta, e sempre più
lontano appariva ormai l’Accordo di associazione di Kiev con l'Unione europea. Il 21 novembre, un nuovo diniego del
Parlamento ucraino alla liberazione della Timoshenko rafforzava l'impressione
del tramonto della prospettiva di integrazione europea, nonostante le
rassicurazioni di Ianukovich in senso contrario.
Nel frattempo, numerosi attivisti ucraini filoeuropei iniziavano a radunarsi nella
piazza Maidan, nel centro di Kiev, per protestare contro la sospensione
dell'Accordo di associazione con la UE.
La presa di
posizione sostanzialmente filorussa del governo ucraino provocava il 24 novembre una grande manifestazione di
protesta da parte dei filo-europeisti che a decine di migliaia scendevano
in piazza nel cuore della capitale: si verificavano anche dei tafferugli con la
polizia quando alcuni dimostranti cercavano di fare irruzione nella sede del
governo. La protesta si annunciava di
lungo periodo, poiché molti manifestanti montavano delle tende nella piazza
Maidan, già simbolo della rivoluzione arancione del 2004; come allora,
principale bersaglio dei manifestanti era il presidente Ianukovich, stavolta
accusato di aver fatto naufragare in
extremis la firma dell'Accordo di associazione con l'Unione europea.
La protesta proseguiva anche il giorno successivo con presìdi nelle piazze Maidan ed Europa, e un
migliaio di persone a protestare davanti alla sede del governo, dove si verificavano
nuovi scontri con la polizia. I
manifestanti ricevevano l'appoggio del leader del partito Udar, il campione di pugilato Vitali Klitschko – tuttora
detentore del titolo dei pesi massimi WBC -, che li raggiungeva e li esortava a
non abbandonare la lotta fino al raggiungimento dell'obiettivo, ovvero la firma
dell'Accordo di associazione con la UE.
Tra i dimostranti peraltro emergevano anche alcune frange
ultranazionaliste del partito Svoboda, che in molti accusano di razzismo, omofobia ed
antisemitismo, che adducevano a giustificazione delle proprie reazioni una
provocazione delle forze dell'ordine. Nella stessa giornata Iulia Timoschenko annunciava uno sciopero
della fame ad oltranza a sostegno dei manifestanti europeisti, che a
migliaia tornavano ad affollare le piazze del centro della capitale ucraina.
Il governo di Kiev intanto s'impegnava in una
diatriba con l'Unione europea, che aveva
disapprovato l'ipoteca russa sulle scelte ucraine, criticando la pochezza degli
aiuti che Bruxelles l'avrebbe offerto a Kiev a compensazione dei danni
economici che deriverebbero dal peggioramento dei rapporti con Mosca. Secondo il premier ucraino Azarov l'adeguamento agli standard europei costerebbe a Kiev 160 miliardi di euro di
investimenti in 10 anni.
Il 28 e 29 novembre si svolgeva nella capitale
lituana Vilnius il previsto vertice tra i 28 Stati membri della UE e i paesi
del Partenariato orientale, tra i quali
l’Ucraina: diveniva così palese l'impossibilità della firma dell'Accordo di
associazione tra Kiev e l’Unione europea, con l’Ucraina impegnata a caldeggiare
la necessità di un tavolo a tre con la
Russia, nettamente rifiutato dall'Unione europea, che più volte aveva
criticato l'ingerenza di Mosca nei rapporti con Kiev.
Inoltre, Bruxelles rifiutava il rilancio ucraino
sugli aiuti contestuali all'eventuale firma dell'Accordo di associazione, sia perché le cifre prospettate
sarebbero assolutamente esagerate, sia perché comunque sarebbe il Fondo
monetario internazionale a fornire la più gran parte delle risorse finanziarie.
L’unico risultato per l’Ucraina del vertice di Kiev è stata la firma
dell'intesa sullo spazio aereo comune, mentre intanto i manifestanti
s'affollavano a migliaia nel centro di Kiev, dando vita anche ad una catena
umana in direzione, significativamente, dell'Europa.
Nella notte fra il 29 e il 30 novembre, tuttavia,
la polizia procedeva allo sgombero della piazza Maidan, con un deciso uso della
forza, provocando decine di feriti e non meno di 35 arresti. Gli Stati Uniti e l’Unione europea condannavano
decisamente l'intervento della polizia, mentre la Timoshenko, impegnata nel sesto giorno di sciopero della fame,
esortava a continuare la lotta fino all'abbattimento del regime al potere.
Il capogruppo
parlamentare della formazione di Iulia Timoshenko, “Patria”, e Vitali Klitschko, dal canto loro, si
spingevano a chiedere elezioni presidenziali e legislative anticipate, previe
dimissioni del presidente Ianukovich e del ministro dell'interno, nel mentre
preparavano uno sciopero generale nel paese. I capi dell'opposizione
incontravano anche gli ambasciatori di alcuni paesi dell'Unione europea,
proseguendo altresì nella raccolta di firme sulla petizione per chiedere agli
Stati Uniti sanzioni personali contro Ianukovich ed i membri del suo governo.
Dal canto suo il presidente Ianukovich manteneva un atteggiamento apparente
equilibrato, richiedendo un'indagine obiettiva sull'intervento della polizia e
dicendosi indignato per le violenze. La protesta, comunque, si riorganizzava
subito nella capitale, poco distante da piazza Maidan.
Il 1º dicembre vasti assembramenti di persone si
creavano negli spazi antistanti vari palazzi del potere di Kiev: una stima approssimativa quantificava in 400.000 il numero dei manifestanti,
prevalentemente riversatisi in piazza Maidan. Il carattere essenzialmente
pacifico della manifestazione non impediva violenti
scontri con polizia davanti al palazzo presidenziale, con il ferimento di decine di agenti e
dimostranti. Inoltre venivano occupati il municipio di Kiev e la sede dei
sindacati. La direzione delle manifestazioni prendeva peraltro le distanze
dalle violenze, attribuite a provocatori.
La grande dimostrazione si è svolta a dispetto del
divieto di manifestare nelle zone
centrali della città imposto nella notte precedente da un tribunale
amministrativo ucraino.
Il 3 dicembre il premier Azarov, scusandosi per le violenze dei giorni precedenti,
si diceva disposto al dialogo con i manifestanti, ma solo dopo la fine della mobilitazione e
soprattutto dell'occupazione di alcuni luoghi chiave della capitale. Peraltro il Parlamento respingeva la mozione di
sfiducia al governo, nonostante molte defezioni nei banchi della
maggioranza.
A fronte dell'onda
montante della contestazione, la Russia concedeva frattanto un rinvio alla primavera 2014 dei pagamenti
del gas importato nell'ultimo trimestre del 2013, proseguendo abilmente nel
pressing sui Kiev per un prossimo
auspicato ingresso nell'unione doganale
capeggiata da Mosca. Su un altro versante, quello degli rapporti con l’Alleanza atlantica, l'atteggiamento
russo non era meno proattivo, con accuse ai Ministri degli esteri della NATO -
che il 3 dicembre avevano auspicato il dialogo tra tutte le parti in causa e
condannato l'eccessivo uso della forza – di ingerenza negli affari interni
dell’Ucraina.
Nelle stesse ore la stessa Ucraina sembrava
peraltro voler continuare a giocare su più tavoli, inviando delegazioni sia a Mosca che a Bruxelles
– e subito dopo Ianukovich si recava in
visita a Pechino, sempre in cerca di nuovi finanziamenti.
Nella piazza emergeva intanto progressivamente la
figura di Vitali Klitschko come potenziale
nuovo leader della contestazione a Ianukovich al posto di Iulia Timoshenko: la
figura di Klitschko appariva più capace di conquistare il favore dei
manifestanti rispetto al reggente del partito “Patria” Iatseniuk e anche al leader ultranazionalista Tiaghnibok.
Il 5 dicembre anche Iulia Timoschenko
rivolgeva agli Stati Uniti e all'Unione europea un pressante appello per
l'imposizione di sanzioni personali contro Ianukovich. Per converso, le
autorità ucraine imponevano ai manifestanti un ultimatum di cinque giorni
per sgomberare il municipio e la sede dei sindacati, e togliere l'assedio
di fatto ad alcuni palazzi istituzionali. Ritornando dalla Cina, il presidente
Ianukovic trovava Kiev ancora invasa dalle manifestazioni e con i lavori
parlamentari bloccati dalle opposizioni.
L'8 dicembre si svolgeva una manifestazione ancora
più vasta delle precedenti, sfiorando il mezzo milione di persone, con un
massiccio riversamento di nuovo in piazza Maidan. Tra le parole d'ordine dei manifestanti emergeva
tuttavia sempre più forte anche la rivendicazione
della fine del potere di Ianukovich. Non contribuiva al miglioramento del
clima una sorta di avvertimento lanciato dai servizi speciali ucraini, che
davano conto di essere impegnati in un'inchiesta sul tentativo di presa del
potere da parte di alcuni uomini politici.
Il 9 dicembre centinaia di poliziotti
veniva convogliati nelle strade prospicienti la piazza Maidan, iniziando
altresì a smontare una parte delle barricate erette vicino alla sede del
governo. Intanto però il presidente Ianukovich si diceva favorevole al
compromesso, e annunciava di aver accettato la proposta dei suoi tre
predecessori Kuchma, Kravciuk e Yushenko per una tavola rotonda nazionale con i
rappresentanti dell'opposizione.
Il 10 dicembre, mentre arrivava a Kiev il capo della
diplomazia europea Ashton per una missione
di due giorni, già al mattino si contavano una dozzina di feriti per gli
scontri notturni tra polizia e manifestanti filo europei. Il pressing occidentale era
completato dall'arrivo a Kiev nelle stesse ore del sottosegretario agli esteri
USA, Victoria Nuland.
A fronte dell'atteggiamento più cedevole di
Ianukovich, disposto anche a
favorire la scarcerazione dei manifestanti arresta su cui non pesassero gravi
accuse, l'opposizione rimaneva assai
dura e intransigente, e infatti i suoi rappresentanti non partecipavano
alla tavola rotonda organizzata dai tre ex
presidenti ucraini - dalla quale peraltro usciva il consiglio di sostituire
il premier Azarov e aprire in qualche modo la strada ad una compartecipazione
dell'opposizione al governo (in tal senso sembrava pronunciarsi anche il
capogruppo parlamentare del Partito Patria, ventilando la possibilità della
formazione di un governo tecnico).
Nella nottata tra il
10 e l’11 dicembre reparti di
polizia in piazza Maidan, si
scontravano con i manifestanti europeisti, ma in breve tempo venivano
ricacciati sulle loro posizioni dai dimostranti che si davano poi a rafforzare
le barricate. Uguale insuccesso registrava un tentativo delle forze speciali di
irrompere nel municipio di Kiev occupato: in questo caso per lo più le teste di
cuoio non riuscivano neanche a scendere dai propri blindati, circondati da
migliaia di manifestanti.
Il 12 dicembre il Parlamento europeo approvava una
risoluzione con l'avallo di tutti gli schieramenti politici, di condanna delle pressioni politiche ed
economiche esercitate dalla Russia sull’Ucraina al fine di allontanarla
dall'Unione europea. Tra le contromisure preconizzate dall'Europarlamento
figura anche la possibilità di ricorsi all’Organizzazione mondiale del
commercio per violazione da parte russa delle norme sul commercio
internazionali a mero fine di influenza politica.
Circa 200.000 manifestanti rinnovavano le proteste
il 15 dicembre riversandosi nella piazza Maidan: alla manifestazione prendeva parte eccezionalmente
l'esponente di vertice del Partito repubblicano USA John McCain, che in un discorso ribadiva l'appoggio degli Stati
Uniti alla causa filoccidentale ucraina. Nella
stessa giornata, nelle vicinanze della piazza Maidan si svolgeva anche una
contromanifestazione di appoggio al governo, i cui partecipanti andavano oltre
le posizioni dello stesso Ianukovich, dicendosi tutti francamente contrari
all'integrazione europea del paese.
Peraltro, con
mossa subito dopo criticata e giudicata inopportuna, il Commissario europeo all'allargamento Stefan Füle sosteneva di
non voler prendere in considerazione le eccessive richieste economiche ucraine
per firmare l'Accordo di associazione, il quale pertanto era da considerarsi
sospeso.
La questione
ucraina il 16 dicembre era al centro di un difficile
Consiglio dei ministri degli affari esteri UE a Bruxelles, nel corso del
quale i contatti con il ministro degli esteri russo Lavrov non portavano ad alcun
miglioramento della situazione. Sullo sfondo dell'incontro, peraltro, vi era
che la rinnovata tensione creata dall'ammissione russa di aver schierato dei
missili nell'exclave russa di
Kaliningrad (in territorio europeo, tra Polonia e Lituania), mossa criticata
tuttavia dalla NATO, in quanto tale da non contribuire alla sicurezza
euroatlantica.
Del resto la Russia rilanciava immediatamente sul
piano economico, quando il 17
dicembre a Mosca, durante l'incontro con Ianukovich, Putin annunciava che Mosca
avrebbe praticato un forte sconto sul prezzo del gas all’Ucraina, che sarebbe
sceso da 400 a 265 dollari per 1000 metri cubi, e avrebbe investito 15 miliardi
di dollari in titoli di Stato dell’Ucraina. A completare il regime di favore
verso Kiev una serie di accordi in vari
settori, volti alla rimozione di ostacoli commerciali che fino a quel
momento avevano svantaggiato l’Ucraina.
Alludendo
indirettamente ai sacrifici che il Fondo
monetario internazionale avrebbe certamente imposto all'Ucraina in cambio
di un sostanzioso prestito, Putin poteva
affermare che le condizioni di favore accordate a Kiev rientravano nel
carattere strategico che il paese riveste per la Russia, al di fuori di
ogni specifica condizione. È evidente che eventuali condizioni non sarebbero state
comunque rese note in un momento di grande effervescenza della piazza ucraina,
poiché avrebbero potuto immediatamente provocare tumulti e disordini.
Nell’immediato la Russia si dimostrava assai più proattiva
dell'Unione Europea nel rispondere alle pressanti richieste di assistenza
finanziaria di Kiev: in tal senso si
esprimeva esplicitamente il premier Azarov, mentre ministro degli esteri di
Mosca difendeva con le unghie gli accordi del giorno precedente, criticando il
nuovo tentativo occidentale di premere sull’Ucraina nonostante li avesse appena
firmati.
Dopo un periodo di
apparente calma, i disordini in Ucraina si riaccendevano a partire dagli scontri della notte tra 10 e 11 gennaio
nei pressi di un tribunale della capitale, con il ferimento sia di agenti che
di dimostranti. Nella circostanza pativa una commozione cerebrale l'ex ministro dell'interno del gabinetto
Timoshenko, Iuri Lutsenko.
Gli scontri erano stati cagionati dalla condanna a
sei anni di carcere di tre nazionalisti, ma facenti parte dello schieramento di destra
antigovernativo, con l'accusa di aver progettato di far saltare in aria una
statua di Lenin. Il 12 gennaio 50.000 persone tornavano ad affollare la piazza
Maidan e a richiedere a USA e UE sanzioni personali contro i membri del
governo.
Il 16 gennaio si verificava una svolta
capace di innescare un ulteriore escalation
negli scontri: il Parlamento ucraino, in una forma irrituale priva di dibattito
e per alzata di mano – al fine di superare l’ostruzionismo attivo delle
opposizioni -, approvava prima la legge di bilancio, e poi un pacchetto di provvedimenti evidentemente
rivolti a colpire le opposizioni di piazza, come ad esempio quelli contro
gli attacchi a monumenti sovietici, ovvero l'inasprimento delle pene per
disordini di piazza e occupazione di edifici pubblici, come anche per chi
allestisce tende senza autorizzazione in un'area pubblica e per chi manifesta a
volto coperto. Veniva inoltre deciso di conferire alle organizzazioni non
governative finanziate dall'estero lo status
di agenti stranieri.
Tra il 19 e il 20 gennaio la protesta europeista
dilagava nuovamente nel centro di Kiev,
e anche nel resto del paese: gli scontri nella capitale provocavano circa 150
feriti, equamente divisi tra poliziotti e manifestanti. Le violenze erano
scoppiate nella serata del 19 gennaio con l'attacco da parte di alcune migliaia
di dimostranti a cordoni di polizia che difendevano alcuni palazzi
istituzionali.
L'opposizione al governo in carica condannava le violenze e cercava di
distinguersene, ma in un tentativo invero piuttosto debole, poiché i
protagonisti degli scontri con le forze dell'ordine erano parecchie migliaia. L'eterogeneità delle forze di opposizione
si mostra proprio in questi imbarazzi degli elementi più moderati, che però si
trovano del tutto d'accordo con i facinorosi nella condanna irrevocabile delle
recenti leggi giudicate liberticide - entrate in vigore comunque alla
mezzanotte del 21 gennaio.
Proprio in
concomitanza dell’entrata in vigore delle leggi restrittive sulle
manifestazioni di piazza si registravano i
primi morti della vicenda ucraina degli ultimi mesi: infatti il 22 gennaio
veniva ammessa dalle autorità il decesso di almeno due manifestanti, mentre per
gli oppositori erano almeno cinque, nella prosecuzione degli scontri iniziati
19 gennaio.
Il 23 gennaio Ianukovich annunciava una seduta straordinaria del Parlamento
per il 28 gennaio per esaminare le eventuali dimissioni del governo Azarov e
l'abrogazione delle leggi contro le proteste approvate una settimana prima.
Nulla veniva invece concesso all'opposizione per quanto riguarda l'eventuale
anticipo delle elezioni presidenziali e legislative. Il negoziato
apparentemente apertosi si chiudeva subito con la delusione dell'opposizione,
cui veniva prospettata solo la liberazione dei 75 dimostranti arrestati dopo il
19 gennaio.
Nella piazza si
riaccendeva la violenza, e sull'onda del movimento di protesta veniva formulata
dal presidente Ianukovich una clamorosa
proposta alle opposizioni, ovvero quella di sostituire Azarov alla guida del governo, occupando i posti di premier e di vicepremier. Per quanto concerne le leggi liberticide recentemente
approvate, e l'anticipo delle elezioni presidenziali legislative, la posizione
Ianukovich e delle autorità di Kiev si manteneva tuttavia contraria.
Frattanto si
assisteva al dilagare della rivolta in
tutto il paese, con particolare violenza nella parte occidentale,
maggiormente filoeuropea e di lingua ucraina, ove nell'arco di poche ore i
palazzi del potere erano nelle mani dei manifestanti in 14 delle 25 regioni, e
la polizia talvolta si schierava addirittura dalla parte degli occupanti. Nella capitale venivano occupati il
Ministero dell’energia e quello dell'agricoltura. Il grave problema dell'occupazione di palazzi istituzionali induceva
Ianukovich a promettere un’amnistia per tutti i partecipanti alle proteste in
cambio dello sgombero, ma anche una revisione costituzionale per ridurre poteri
presidenziali e tornare sostanzialmente a una forma di parlamentarismo.
Il 26 gennaio, dopo il rifiuto dell'opposizione
della proposta di assumere la guida del governo – che in presenza di un Parlamento favorevole a
Ianukovich non avrebbe avuto alcun significato concreto -, l'Ucraina appariva davvero sull'orlo della guerra civile, mentre nelle
regioni sudorientali russofone e vicine a Mosca si cominciava a prospettare la
possibilità di dare vita ad uno Stato federativo legato alla Russia.
Intanto l’occupazione del Ministero della giustizia nella capitale,
successivamente sgomberato dalle forze di polizia, rendeva chiaro come le
istituzioni fossero completamente incapaci di controllare il proliferare delle
manifestazioni.
Segnali di un rientro dalla escalation di violenze che sembravano fuori controllo si avevano il 27 ed il 28 gennaio: infatti - dopo il
raggiungimento di un accordo di massima tra governo e opposizione per
l'abrogazione delle contestate leggi antiproteste e per un'amnistia ai dimostranti
in cambio dell’abbandono definitivo delle piazze e dei presidi o occupazioni di
palazzi istituzionali - il 28 gennaio si
registravano le dimissioni del premier
Azarov, dallo stesso presentate quale gesto volto a facilitare il
raggiungimento di un compromesso per il bene del paese.
Nella stessa giornata la Rada, il Parlamento ucraino, abrogava effettivamente le leggi
antiprotesta, facendo seguito agli accordi del giorno precedente.
Il clima di distensione proseguiva
apparentemente nella tarda serata del 29 gennaio, quando il Parlamento
approvava una legge di amnistia nei
confronti dei manifestanti nei giorni precedenti, subordinando l'applicazione
di essa, tuttavia, allo sgombero degli edifici pubblici e delle strade e piazze
occupati. Le opposizioni in Parlamento si astenevano nel voto sull'amnistia, in
quanto avrebbero desiderato che il provvedimento di clemenza fosse emanato
senza alcuna condizione.
In realtà,
nell'atteggiamento delle opposizioni traspariva l'intenzione di fondo di costringere all'abbandono del potere il
presidente Ianukovich, aprendo la strada ad elezioni legislative
presidenziali anticipate. dalla parte opposta, invece, il consigliere
presidenziale di Putin Serghiei Glaziev ammoniva le autorità ucraine a far
fronte con fermezza alla ribellione, pena l’affermazione del caos totale nel
paese.
Sul versante
internazionale, alla conferenza annuale
sulla sicurezza di Monaco di Baviera il segretario di Stato USA John Kerry
incontrava alcuni leader
dell'opposizione ucraina, schierandosi apertamente dalla loro parte, quali
attori di un futuro democratico ed europeo del paese. Del tutto contraria la
presa di posizione del ministro degli esteri russo Lavrov, che invitava l'Unione europea e gli Stati Uniti a
condannare piuttosto le violenze degli insorti.
Frattanto la situazione economica del paese
peggiorava costantemente: va ricordato che
il 28 gennaio l’agenzia Standard and
Poor’s aveva ulteriormente declassato il
rating finanziario dell’Ucraina,
e ai primi di febbraio il debito contratto con la Russia per l'acquisto del
metano aveva raggiunto 3,35 miliardi di dollari - nonostante il forte sconto
concesso dai russi a dicembre.
Proprio dai russi venivano peraltro pesanti accuse
verso gli Stati Uniti: il già citato
consigliere Glaziev, in un'intervista ad un quotidiano russo, sosteneva il
coinvolgimento americano in tentativi di colpo di Stato a Kiev, quantificando
addirittura in 20 milioni di dollari a settimana i finanziamenti ai ribelli,
che verrebbero anche riforniti di armi. Glaziev,
inoltre, si esprimeva favore di una trasformazione federale dell’Ucraina,
che parrebbe l'anticamera di un maggior controllo di Mosca sulle regioni
sudorientali e prevalentemente russofone del paese.
Intanto il Parlamento europeo richiedeva sanzioni
rapide e mirate contro
funzionari, parlamentari e oligarchi loro sostenitori ritenuti responsabili
della dura repressione delle manifestazioni in Ucraina.
Il 14 febbraio la scarcerazione di 234 manifestanti antigovernativi
arrestati nelle ultime settimane in tutto il paese sembrava porre le basi di un ulteriore allentamento delle tensioni:
tuttavia, le opposizioni manifestavano scontento in relazione alla
trasformazione della detenzione in arresti domiciliari per molti detenuti, il
cui destino giudiziario in definitiva dipende dall'applicazione dell'amnistia,
che però è condizionata allo sgombero dei presidi dei manifestanti.
Nondimeno, il 16
febbraio il Procuratore generale ucraino annunciava il soddisfacimento delle
condizioni per l'applicazione della
legge di amnistia per i manifestanti antigovernativi: l'annuncio veniva in
serata, dopo che era stato sgomberato pacificamente il municipio di Kiev e
altrettanto pacificamente consentito l'abbattimento di una parte delle
barricate erette nella capitale ucraina. Uguale scenario si svolgeva nei
palazzi del potere regionale a Leopoli, Ternopil, e Poltava.
A questo punto ciò
che veramente sembrava ancora animare le opposizioni era la richiesta di elezioni presidenziali e
legislative anticipate, parallelamente ad una riforma costituzionale per
limitare i poteri del Capo dello Stato. Proprio queste aspirazioni
dell'opposizione devono essere state alla base della ripresa abbastanza imprevista, il 18 febbraio, di violenti scontri
con un elevato numero di vittime. Le violenze iniziavano in mattinata quando la
polizia impediva a migliaia di dimostranti di avvicinarsi al Parlamento, ove
era prevista la discussione dell’auspicata riforma costituzionale. Gli scontri
ivi divampati si propagavano presto in altri punti della città, ma erano
particolarmente violenti proprio davanti al Parlamento. Negli scontri sembra
che anche gli insorti abbiano fatto uso di armi da fuoco.
La situazione si aggravava in serata, quando intorno alle 19 ora italiana le forze
dell'ordine iniziavano lo sgombero della piazza Maidan. Corredavano il quadro
la rioccupazione del municipio di Kiev e l'uccisione di un impiegato del
Partito delle regioni di Ianukovich, morto in seguito a un attacco a colpi di
bottiglie molotov alla sede del partito. Altre
violenze venivano segnalate nella roccaforte occidentale dell'opposizione
nazionalista, Leopoli, prossima al
confine polacco.
La mattina
del 19 febbraio registrava un'ulteriore aggravamento del bilancio dei
morti, salito ormai ad almeno 25, mentre anche
nella parte occidentale del paese si allargava la protesta – a Leopoli
venivano assaltate la sede della polizia e quella dei servizi speciali, nonché
un deposito militare; a Ternopil veniva attaccato a colpi di molotov un
commissariato di polizia.
Nella capitale, sovrastata da colonne di
fumo proveniente dalla piazza Maidan e anche dal palazzo dei sindacati
(divenuto una sorta di quartiere generale dell'opposizione), le autorità procedevano a chiudere la
metropolitana e le scuole. In questo contesto si levava con forza la voce
della Russia, per denunciare un
tentativo di colpo di Stato da parte delle forze estremiste dell'opposizione,
sostenute, secondo Mosca, irresponsabilmente dai paesi occidentali. Tra le
vittime degli scontri del 18 e 19 febbraio figurano 10 poliziotti, 1
giornalista due militanti del partito al governo, mentre la restante metà si
presume siano manifestanti antigovernativi. L'elevato numero di vittime tra le
forze di polizia sembra indirettamente dimostrare l'uso di armi da fuoco anche
da parte dei manifestanti, o meglio di alcune frange più estremiste di essi.
Nella stessa giornata del 19 febbraio,
reagendo a voci del ministero della difesa ucraino di un possibile intervento
del forze armate nella crisi, il
segretario generale della NATO Rasmussen invitava con forza il governo di
Kiev ad astenersi da ulteriori violenze contro i manifestanti, e soprattutto
dall'impiego delle forze armate, che comprometterebbe seriamente i rapporti con
l'Alleanza atlantica. Dal canto loro gli Stati Uniti decidevano di includere 20
alti funzionari ucraini, ritenuti responsabili delle violenze degli ultimi
giorni a Kiev, in un elenco di persone non gradite negli USA, negando quindi
loro il visto di ingresso.
La
mattina del 20 febbraio vedeva riaccendersi i
combattimenti nel centro di Kiev, con le forze dell'ordine costrette
nuovamente ad arretrare dalle posizioni appena riconquistate in piazza Maidan,
mentre venivano evacuati i palazzi del parlamento e del governo. La giornata si
rivelava poi assolutamente tragica, e in
serata si contavano decine di morti e centinaia di feriti, la maggior parte
per colpi di arma da fuoco. In mattinata intanto i ministri degli esteri di
Germania, Polonia e Francia avevano incontrato a Kiev il presidente Ianukovich
e tre leader moderati dell’opposizione di piazza, nell’attesa del Consiglio straordinario dei ministri degli
esteri della UE, che poche ore dopo decideva di procedere con rapidità
all'interdizione dei visti e al blocco delle attività finanziarie nel
territorio europeo nei confronti di quanti in Ucraina si siano resi
responsabili di violenze in relazione agli scontri in corso.
Il Consiglio straordinario stabiliva altresì
l’embargo verso l’Ucraina dei prodotti in qualche modo utilizzabili per la
repressione contro i manifestanti. Ianukovich
veniva indicato quale primo responsabile della tragica situazione del paese,
la quale non mancava di riflettersi anche sulla delegazione ucraina alle
Olimpiadi invernali di Sochi, ove solo la mediazione del prestigioso presidente
del comitato olimpico nazionale Serghiei
Bubka scongiurava il ritorno in patria di metà degli atleti ucraini.
Il
21 febbraio, dopo
negoziati-fiume tra la UE – rappresentata dai tre ministri degli esteri -, la
Russia e le parti in lotta, veniva
raggiunto un accordo per porre fine alle violenze, incentrato sulla
convocazione di nuove elezioni presidenziali entro il 2014, precedute da una
riforma costituzionale volta a ridurre i poteri del capo dello Stato e dalla
formazione di un governo di unità nazionale.
Inoltre il parlamento ucraino approvava un’amnistia senza condizioni per tutti i
dimostranti e procedeva a rimuovere il ministro dell’interno Zakharcenko,
evidentemente responsabile della gestione dell’ordine pubblico nei giorni
precedenti. Modifiche al codice penale prontamente apportate miravano di tutta
evidenza a scagionare Iulia Timoschenko
dalle accuse che la tenevano in carcere, rendendone possibile la liberazione.
Questi atti del parlamento venivano facilitati dal progressivo assottigliarsi della rappresentanza parlamentare del
Partito delle regioni del presidente Ianukovich, con numerose defezioni.
Alcuni
gruppi di opposizione, come Euromaidan, non firmavano tuttavia l’accordo, e
rilanciavano con la richiesta di immediate dimissioni di Ianukovich.
Significativo l’atteggiamento della Russia, che in qualche modo ha mirato a
tenersi le mani libere non sottoscrivendo l’accordo, ma nel contempo
sottolineando di vedere con favore il raggiungimento di un compromesso –
posizione confermata da Putin in un colloquio telefonico del giorno successivo
con Barack Obama. Del resto la Russia
continua ad agire anche sul piano delle potenti leve economiche di cui
dispone nei confronti di Kiev. Il 21 febbraio infatti il ministro russo
delle finanze Siluanov dichiarava che Mosca non avrebbe erogato la tranche di 2
miliardi di dollari – parte dei 15 miliardi promessi all’atto della rinuncia
ucraina all’Accordo di associazione con la UE -, in considerazione della
precaria situazione finanziaria dell’Ucraina e dell’incertezza politica a Kiev,
che potrebbe far giungere gli aiuti in mani indesiderate dalla Russia.
A conferma dei timori russi va comunque
ricordato l’ulteriore declassamento del
rating finanziario ucraino da parte di Standard
& Poor’s, appena un gradino sopra il livello di default, in
conseguenza del quale la più importante banca russa, la Sberbank, sospendeva l’erogazione di prestiti personali in Ucraina.
Ancor più preoccupante rimane, sullo sfondo, l’ipotesi di un intervento
militare nella crisi ucraina, che fonti russe di alto livello avrebbero
ventilato in caso di spaccatura del paese, anzitutto per “proteggere” la
penisola di Crimea, a maggioranza russa, storicamente legata a doppio filo a Mosca
e nella quale i russi mantengono tuttora la base navale di Sebastopoli.
Il
22 febbraio, mentre il suo fedelissimo Ribak, presidente del Parlamento, si
dimetteva, Ianukovich aveva già lasciato la capitale per recarsi a Kharkiv, nella parte orientale
dell’Ucraina, a lui più favorevole. Nel giro di pochi minuti l’impressione di una clamorosa caduta del
presidente si spargeva a Kiev, e i dimostranti, oltre a occupare il palazzo
presidenziale, facevano irruzione nella sontuosa residenza di Ianukovich nei
dintorni della capitale.
Intanto Oleksandr
Turcinov, ex braccio destro della
Timoshenko e già capo dei servizi segreti ucraini, veniva eletto nuovo presidente del parlamento, dopo che nella
stessa sede i capi delle opposizioni
avevano chiesto elezioni presidenziali entro il 25 maggio. Il parlamento
approvava tale richiesta, e per di più dichiarava decaduto Ianukovich per
aver violato i diritti umani nel corso della repressione dei giorni precedenti.
Di fronte a questi sviluppi Ianukovich, intervistato da una
televisione locale, denunciava un colpo
di Stato in atto, perpetrato a suo dire da banditi e vandali: l’Ucraina
sarebbe come la Germania del 1933, ma il
presidente non si sarebbe dimesso né avrebbe lasciato il paese.
Nel pomeriggio si diffondeva la notizia
della liberazione di Iulia Timoshenko,
che lasciava in automobile l’ospedale di Kharkiv dove era ricoverata da
detenuta. Giunta a Kiev, in serata
veniva accolta trionfalmente nella piazza Maidan, dove, ancora su una sedia
a rotelle, proclamava la “fine della
dittatura” ed esortava i manifestanti a non smobilitare fino alla fine
della liberazione del paese.
Il 23 gennaio il ministro dell’interno ad interim Avakov annunciava la liberazione
di 64 manifestanti arrestati nei giorni precedenti, nonché l’avvio di
un’inchiesta sulle violenze della polizia contro i manifestanti. Il Parlamento nominava il proprio presidente Turcinov capo
dello Stato ad interim.
Intanto il partito delle Regioni assecondava questi sviluppi indicando Ianukovich e i suoi più stretti collaboratori come responsabili delle violenze di Kiev, oltre che di malversazioni, tradendo di fatto il paese.
Le preoccupazioni in ordine a un possibile dissolvimento dell’Ucraina, con i connessi pericoli di intervento armato russo, venivano alimentate dalle voci di una mobilitazione di massa dei russofoni di Crimea che starebbero organizzando brigate popolari contro le nuove autorità di Kiev, mentre manifestazioni a Sebastopoli le accusavano apertamente di fascismo e di voler privare i russi in Ucraina dei loro diritti e della cittadinanza.