Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: L'evoluzione della crisi in Siria - Cronologia degli avvenimenti più recenti
Serie: Note di politica internazionale    Numero: 23
Data: 09/09/2013
Descrittori:
SIRIA     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


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L'evoluzione della crisi in Siria

9 settembre 2013
Cronologia degli avvenimenti più recenti




Dopo due anni il tragico conflitto in corso in Siria non sembra offrire facili prospettive di soluzione: le iniziali caratteristiche di sollevazione popolare contro il regime dittatoriale di Bashar al Assad hanno via via lasciato il passo a uno scontro tra diverse fazioni armate, che riflette, a spese del popolo siriano, contrasti regionali di politica internazionale nei quali sono coinvolte grandi e medie potenze, e che in buona parte sembrano seguire anche linea di faglia religiose all'interno dell'Islam - il clan alawita degli Assad sembra oggi in effetti spalleggiato soprattutto da forze sciite come gli Hizbollah libanesi, che hanno ammesso di combattere in Siria ormai da settimane, e dal loro principale sostegno, l'Iran, non sottacendo la simpatia della maggioranza sciita al governo dell'Iraq. Per contro, i ribelli siriani risultano maggiormente collegati a potenze sunnite come la Turchia, l'Arabia Saudita e l'attivissimo Qatar. A livello ancora più alto non sfugge a nessuno l'appoggio che al regime di Assad forniscono la Cina e soprattutto la Russia, mentre la ribellione fa riferimento senz'altro alle potenze occidentali, pur se queste si mantengono prudenti rispetto alle matrici ideologico-religiose dei suoi protagonisti. A questo quadro già di per sé complesso e terribile, la questione del possibile intervento armato americano contro il regime di Assad – accusato di aver utilizzato armi chimiche nel conflitto – non fa che aggiungere profili di ulteriore gravità.

Con il protrarsi del conflitto siriano questo sembra aver allungato i propri tentacoli anche nei paesi vicini, anzitutto sul piccolo Libano, che ha già accolto un milione di profughi siriani, ovvero un quarto della propria popolazione, che, frantumata com'è in una miriade di religioni e di etnie, rischia un fatale squilibrio dall'impatto della crisi siriana. Non va dimenticato poi che anche la parte alawita della Turchia, posta proprio al confine con la Siria, ha reagito con durezza all'afflusso di profughi sunniti siriani: le stesse contestazioni che hanno squassato le città turche, pur apparentemente partite da questioni prettamente interne, potrebbero essere collegate all'erosione del prestigio internazionale di Erdogan, determinata proprio dal venir meno dell'alleanza con la Siria - paese su cui il premier turco aveva puntato in modo assai cospicuo per la propria politica estera neo-ottomana. Inoltre l'opinione pubblica turca potrebbe aver innescato una reazione preventiva contro i pericoli di guerra al vicino a siriano, che la grande maggioranza dei turchi sembrerebbe non accettare.

Marzo 2013

Va ricordato in sintesi che i giorni dal 19 al 21 marzo 2013 registravano reciproche accuse tra i ribelli e il regime siriano sull'utilizzazione di armi chimiche contro i civili: era però soprattutto il regime di Assad a richiedere insistentemente un'inchiesta dell'ONU, sostenendo che i ribelli avrebbero utilizzato armi chimiche uccidendo 25 persone. Dopo aver ricevuto lettere dalla Francia e dal Regno Unito, il segretario generale dell'ONU annunciava il 21 marzo lo svolgimento di un'indagine congiunta con l'Organizzazione mondiale della sanità e l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Il 21 marzo, inoltre, si verificava anche una strage in una moschea di Damasco, con la morte di 42 persone, tra cui lo sceicco al Buti, ultranovantenne, da sempre avversario delle fazioni jihadiste che si oppongono al regime di Assad.

Il 24 marzo fonti dei ribelli lamentavano l'uso di bombe al fosforo – che attaccano il sistema nervoso producendo squilibrio e perdita di conoscenza - nella cittadina di Adra, a nordest di Damasco, con la morte di due persone. Frattanto la Coalizione nazionale siriana otteneva un notevole successo intervenendo alla riunione della Lega araba del 26 marzo a Doha, in Qatar: qui infatti ai ribelli veniva offerto il seggio che nell'Organizzazione in precedenza occupava la Siria di Assad, e inoltre era ufficialmente riconosciuto il diritto dei paesi arabi di rifornire di armi gli elementi della rivolta siriana. In questo contesto sembravano rientrare le dimissioni annunciate appena poche ore prima dal capo della Coalizione nazionale siriana al-Khatib, spia delle persistenti divisioni all'interno del fronte dei ribelli.

Aprile 2013

Sembravano man mano assumere sempre maggiore concretezza gli allarmi sulla sporadica utilizzazione di armi chimiche da parte del regime di Assad – che sarebbe risultata tra l'altro da analisi dell'intelligence britannica su una porzione di terreno, come anche da prove delle quali parlavano ambienti diplomatici occidentali interni al Palazzo di Vetro. In particolare, il 13 aprile l'Osservatorio siriano sui diritti umani accusava il regime di avere impiegato bombe contenenti gas contro i ribelli ad Aleppo, provocando due morti e diversi feriti.

Il 17 aprile il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon rendeva noto che la Siria, in disaccordo sull'ampiezza dell'indagine da condurre sul suo territorio, ne aveva bloccato l'inizio. Il giorno successivo il Regno Unito e la Francia informavano le Nazioni Unite di essere in possesso di prove su attacchi con armi chimiche condotti dal governo siriano su Homs, su Aleppo e forse anche a Damasco.

Intanto nella regione di Idlib nove bambini perdevano la vita il 21 aprile nel bombardamento di una scuola, mentre in un sobborgo sudoccidentale di Damasco, Jdaidet Fadel, si rinvenivano centinaia di cadaveri di civili uccisi al culmine di cinque giorni di duri combattimenti per il controllo dell'area.

Il 23 aprile l'intelligence israeliana aggiungeva la propria voce al coro di accuse contro il regime di Assad per l'utilizzazione seppur limitata di armi chimiche nel conflitto in corso nel paese: da parte statunitense, tuttavia, perdurava uno scetticismo di fondo, anche perché lo stesso premier israeliano Netanyahu si diceva impossibilitato nell'immediato a confermare le accuse.

Il 25 aprile, anche sulla scorta di informazioni provenienti dagli ambienti dell'intelligence, diverse autorità statunitensi cominciavano ad ammettere senz'altro l'utilizzazione limitata di armi chimiche nel conflitto siriano, rispetto alla quale sostenevano tuttavia doversi ulteriormente approfondire le osservazioni. Il 29 aprile un elicottero governativo lanciava sulla cittadina di Saraqeb bidoni contenenti probabilmente agenti chimici, che provocavano sintomi tipici in una decina di persone, una delle quali più tardi moriva.

Emergeva così sempre più chiaramente la possibilità che effettivamente nel conflitto siriano fossero utilizzate armi chimiche in limitata quantità: assai rilevante al proposito era comunque la presa di posizione di Mosca, per la quale la denuncia ripetuta sulla possibile utilizzazione in Siria di armi chimiche da parte del regime serviva solo a creare un alibi per aprire la strada ad interventi internazionali: la serietà della questione imponeva invece secondo la Russia l'immediato accertamento della veridicità di questi sospetti, onde intervenire prontamente per neutralizzare i gravissimi rischi tanto per la sicurezza delle popolazioni quanto per la stabilità dell'intera regione.

In tutto ciò l'Amministrazione americana sembrava trovarsi progressivamente in difficoltà, anche perché crescevano da parte congressuale le richieste di aumentare il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto siriano, vuoi da parte democratica - con un forte incremento degli aiuti umanitari e degli equipaggiamenti militari non letali ai ribelli - vuoi da parte repubblicana, con alcuni esponenti parlamentari che si spingevano a richiedere l'imposizione di no fly zones sui cieli della Siria. Oltre alla ferma volontà di non lasciarsi coinvolgere nuovamente in un conflitto per decisione unilaterale e senza un consenso ampio della Comunità internazionale, sembrava che a frenare gli USA contribuisse non poco la valutazione della grande efficienza delle difese antiaeree siriane, che avrebbero raggiunto negli ultimi anni un altissimo livello grazie a progressive forniture russe.

Maggio 2013

La situazione di tensione innescata dal conflitto siriano conosceva un ulteriore aggravamento nella notte tra il 2 e il 3 maggio, e poi nella notte fra il 4 e il 5, con due diversi raid aerei israeliani in territorio siriano, il primo dei quali presumibilmente contro armamenti missilistici in procinto di lasciare il territorio siriano in direzione del Libano, mentre il secondo aveva come obiettivo un centro di ricerche militari di Damasco nel quale probabilmente si trovavano comunque altri armamenti di tipo missilistico. Israele come di consueto non confermava di aver effettuato gli attacchi, ma faceva intendere che il suo obiettivo primario era quello di scongiurare l'arrivo nelle mani di elementi ostili ad Israele di sistemi missilistici come lo Scud-D o lo Yakhont antinave, particolarmente pericolosi per la sicurezza israeliana.

L'11 maggio il sud della Turchia veniva colpito dall'esplosione di due autobomba, per la precisione in un viale centrale della cittadina di Reyhanli, che provocavano la morte di una cinquantina di persone e il ferimento di almeno il doppio. L'attentato portava alle stelle la tensione già alta tra Damasco e Ankara, con la Siria che negava ogni coinvolgimento, accusando il premier Erdogan di cercare soltanto pretesti per un intervento militare nel conflitto siriano. L'attentato inoltre provocava duri attacchi dell'opposizione turca al governo in carica, accusato di aver bruciato con la sua politica favorevole agli oppositori siriani ogni possibilità di futuro rapporto diplomatico con un paese, la Siria, di decisiva importanza per la Turchia. Va poi precisato che la zona meridionale turca oggetto degli attentati (regione di Antiochia/Hatay), è abitata in buona parte da popolazioni alawite (dunque correligionarie di Assad), che non vedono affatto di buon occhio i numerosi profughi siriani ivi rifugiati, tutti sunniti e appartenenti all'opposizione al regime siriano, tant'è vero che vi sono stati anche diversi scontri di piccola entità tra le due comunità.

La fine di maggio vedeva rinnovarsi le ambiguità da parte dell'Unione europea, che rimuoveva l'embargo sulla fornitura di armi ai ribelli siriani, disponendone tuttavia la proroga fino al 1º agosto. Nel clima di una probabile iniziativa unilaterale franco-inglese per rifornire di armi i ribelli, volta anche a esercitare pressioni interventiste sugli Stati Uniti, il viceministro degli esteri russo preannunciava un'imminente fornitura a Damasco di missili antiaerei S-300. Tra maggio e giugno la Turchia e la Francia convergevano nell'affermare con sicurezza l'uso di armi chimiche da parte del regime di Assad.

Giugno 2013

L'8 giugno le sorti del conflitto sembravano volgere nuovamente a favore di Assad e dei suoi alleati libanesi di Hizbollah, con la caduta di Qusayr, nella regione a sud-ovest di Homs, ove gli Hizbollah erano stati particolarmente efficaci anche in ragione del fatto che l'alta valle della Bekaa libanese, nella quale sono da sempre istallati, confina proprio con la regione di Qusayr.

Alla metà di giugno anche gli Stati Uniti affermavano che le forze lealiste siriane avrebbero usato nel conflitto armi chimiche, superando la più volte richiamata linea rossa: l'intelligence USA si spingeva a stimare tra 100 e 150 (per difetto) il numero delle vittime di agenti chimici nel corso del conflitto siriano - quasi un mese dopo, peraltro, l'ambasciatore russo presso le Nazioni Unite ribaltava le accuse dell'intelligence occidentale, attribuendo ai ribelli l'uso di armi chimiche, lanciate attraverso razzi rudimentali. Pertanto gli Stati Uniti si dicevano pronti a rifornire di armi i ribelli impegnati nel conflitto.

A parte le riserve di questi ultimi sulla possibilità che gli armamenti fossero di tipo leggero, e quindi sostanzialmente inutili, va rilevata la decisa presa di posizione russa: Mosca infatti metteva in guardia da un'escalation assai probabile del conflitto in caso di ulteriore afflusso di armamenti ai ribelli, mentre Damasco in ogni caso con espressioni molto forti rigettava le accuse di aver utilizzato armi chimiche. Nemmeno il Vertice G8 nell'Irlanda del Nord (17-18 giugno) registrava alcun riavvicinamento nelle posizioni russe e americane sul conflitto siriano. La Russia tuttavia, per bocca del vice ministro degli esteri Bogdanov faceva trapelare la propria visione per la soluzione del conflitto siriano, che Mosca vorrebbe affidare ad un compromesso simile a quello che nel 1990 pose fine alla guerra civile libanese.

La riunione degli Amici della Siria di Doha (22 giugno), con la partecipazione di 11 Paesi tra arabi e occidentali, conferiva impulso alla ricerca di una soluzione negoziata del tragico conflitto attraverso la Conferenza di pace già più volte evocata ("Ginevra 2"): a tale scopo si decideva di rafforzare il sostegno ai ribelli sul terreno, mentre disaccordo si registrava ancora in ordine alla possibilità di passare alla fornitura di armamenti letali agli insorti, sempre per il pericolo di armare in tal modo anche elementi del terrorismo islamico la cui presenza nelle file dei ribelli è ormai ampiamente comprovata. Le nubi sulla via di "Ginevra 2" non si diradavano nemmeno in occasione del secondo incontro russo-americano a Ginevra, mediato dal rappresentante ONU per la Siria Lakhdar Brahimi.

Frattanto la morsa dell'azione congiunta delle forze lealiste e degli Hizbollah libanesi conduceva alla caduta di un'altra città, Talkalakh, la cui conquista era completa al 26 giugno: Talkalakh deve la sua importanza alla sua posizione strategica nei pressi dell'autostrada che collega la città di Homs con il porto di Tartus. Tre giorni dopo le forze lealiste attaccavano pesantemente la stessa città di Homs, alcuni quartieri della quale erano nelle mani dei ribelli. Assad salutava inoltre con favore, all'inizio di luglio, la deposizione in Egitto di Mohammed Morsi, considerata la fine dell'Islam politico, che in Siria minaccerebbe, assieme ad altre componenti come quelle jihadiste, il regime alawita ma non confessionale – va ricordato che la Fratellanza musulmana in Siria venne posta fuori legge nel 1980 dal padre di Bashar Assad, Hafez, e i suoi appartenenti sono passibili della pena di morte.

Luglio 2013

Il 9 luglio il conflitto siriano echeggiava in Libano, quando nel cuore della capitale Beirut esplodeva un'autobomba che ha provocato più di 50 feriti: il collegamento con la situazione siriana era nel fatto che l'attentato era stato perpetrato in un quartiere meridionale considerato roccaforte del movimento Hizbollah, ed era quasi sicuramente da considerare una ritorsione per l'intervento in Siria del movimento sciita libanese.

Il 15 luglio gli scontri incessanti vedevano una nuova accelerazione, con un attacco pesantissimo delle forze pro Assad contro i villaggi della provincia di Idlib, con un bilancio complessivo di una trentina di morti, fra cui otto donne e sei bambini. Nella stessa giornata, inoltre, il sobborgo di Qabun, roccaforte degli insorti nella capitale Damasco, veniva pesantemente cannoneggiato e attaccato dagli aerei del regime siriano: subito dopo una parte del sobborgo era occupata dai soldati lealisti. Frattanto sembrava profilarsi tra gli insorti una fatale resa dei conti tra la parte laica che fa capo all'Esercito libero siriano e le componenti integraliste e qaidiste, soprattutto dopo l'uccisione il 12 luglio di un comandante dell'Esercito libero siriano, Kamal Hamami, perpetrata a Latakia da miliziani qaidisti. Il 29 luglio il regime segnava un altro successo con la riconquista del quartiere Khaldiyeh della città di Homs.

Le accuse sempre più frequenti, da entrambe le parti, di utilizzazione nel conflitto siriano di armi chimiche, provocavano intanto una accelerazione dell'iniziativa di marzo delle Nazioni Unite, con il capo degli ispettori, lo svedese Ake Sellstrom, che si recava a Damasco e, come reso noto alla fine di luglio, raggiungeva un accordo sulle procedure di ispezione in vari siti sospettati di essere stati teatro dell'uso di armamenti chimici. Il 18 agosto, dopo ulteriori lunghe trattative, Assad consentiva alla missione ONU di entrare in Siria per condurre indagini su tre possibili casi di utilizzazione di armi chimiche, senza peraltro poter indagare sugli autori. Solo con tali limitazioni, del resto, il regime aveva finito per acconsentire alla conduzione dell'indagine.

Intanto all'inviato de La Stampa Domenico Quirico, scomparso il 9 aprile e il cui ultimo contatto era stato il 6 giugno con una breve telefonata alla moglie, si aggiungeva il 28 luglio il gesuita Paolo Dall'Oglio, personaggio assai conosciuto in Siria dopo trent'anni di permanenza in quel paese, che nel 2012 era stato espulso dal regime, contro il quale si era apertamente schierato nella sua attività di ricerca di una soluzione pacifica al conflitto. Paolo Dall'Oglio rappresenta una figura piuttosto eterodossa tra i cristiani operanti in Siria, poiché la sua ricerca di dialogo si è estesa per sua stessa ammissione anche alle correnti più estremiste dell'integralismo islamico, mentre non ha mai risparmiato le critiche al regime di Assad - che invece molti cristiani considerano tuttora come il male minore per la loro sopravvivenza in un mondo a larga maggioranza musulmana. Il gesuita sarebbe rientrato più volte in Siria sempre alla ricerca di soluzioni per il conflitto, ma sarebbe stato sequestrato nel Nord del paese proprio da un movimento legato ad al-Qaida, lo Stato islamico dell'Iran e della Siria, che aveva fatto la sua apparizione ufficiale in aprile per opera del capo qaidista iracheno al-Baghdadi.

Agosto 2013

Il 7 agosto nei pressi della cittadina di Adra, una quarantina di km. a nordest della capitale siriana, un'imboscata lealista provocava la morte di 62 miliziani anti-regime, come riferito dall'Osservatorio siriano sui diritti umani – che segnalava altresì l'uccisione di un'altra cinquantina di oppositori armati il 21 luglio nella stessa località. La stessa fonte riportava il 10 agosto la notizia della morte di sette bambini per lo sganciamento nella città settentrionale di Raqqa di bidoni esplosivi da parte di elicotteri governativi. Si avvicinava intanto al calor bianco la tensione tra le milizie jihadiste antiregime e i curdi siriani del nordest, da settimane impegnati in combattimenti per il controllo della provincia di al-Hasakah, tanto che le autorità del Kurdistan iracheno giungevano a minacciare un intervento delle milizie peshmerga a difesa dei curdi siriani, che a migliaia riparavano in quei giorni nella regione autonoma curda dell'Iraq.

Il 21 agosto ambienti dei ribelli riferivano di un attacco chimico su larga scala a Ghouta, nei dintorni della capitale, nel contesto di un'offensiva delle forze lealiste contro gli oppositori che occupavano il sito. A quanto riferito vi sarebbero stati oltre mille morti, tra i quali centinaia di civili, tutti colpiti dai tipici sintomi dell'intossicazione da gas nervino. Nella circostanza agenti statunitensi avrebbero intercettato convulse conversazioni telefoniche tra ufficiali siriani, nelle quali emergeva lo sgomento per l'attacco con armi chimiche. Immediatamente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riuniva in sessione di emergenza, formulando la richiesta di ulteriori chiarimenti sull'accaduto. Scattava inoltre una fitta serie di consultazioni tra i paesi occidentali in vista della risposta all'attacco chimico, in caso di conferma di esso.

Le reazioni ufficiali americane alla notizia si mantenevano su un tono di cautela pur sottolineando la gravità del fatto se confermato. Immediatamente si manifestava da parte degli USA e della UE l'esigenza che la missione di ispettori dell'ONU già in Siria da tre giorni si attivasse per effettuare le necessarie verifiche nei luoghi interessati - a questa richiesta si univa anche il ministro degli esteri Emma Bonino. Da parte siriana e russa, peraltro, non si mancava di sottolineare l'illogicità di un attacco governativo con armi chimiche proprio in presenza della missione di controllo delle Nazioni Unite: si sarebbe trattato semmai di una provocazione ben pianificata dai ribelli per screditare il regime di Assad. La Lega Araba tuttavia accusava il regime di un crimine odioso, senza attendere ulteriori approfondimenti. Il giorno successivo, 22 agosto, Francia Turchia già premevano per un intervento armato contro il regime siriano, mentre ambienti israeliani confermavano di aver constatato l'utilizzazione di armi chimiche, che del resto in Siria era già avvenuta a loro dire altre volte. L'Europa ancora una volta si mostrava divisa, con la Germania assolutamente contraria ad un intervento armato.

Negli Stati Uniti, pur perdurando la cautela iniziale, ferveva il lavoro di preparazione delle opzioni militari, con il riposizionamento necessario delle forze e l'intensificazione della presenza navale USA nel Mediterraneo: contemporaneamente, si studiavano i presupposti giuridici per la conduzione di un'azione militare prevedibilmente al difuori della cornice ONU, vista la posizione di Russia e Cina. A proposito del fronte pro-Assad, l'Iran interveniva ammonendo le potenze occidentali a non attaccare la Siria, poiché vi sarebbe il rischio di una conflagrazione dell'intera regione, della quale la prima vittima sarebbe Israele. Anche secondo Teheran, del resto, sarebbero stati i ribelli ad usare armi chimiche.

Il 23 agosto organizzazioni umanitarie internazionali riferivano di oltre tremila pazienti negli ospedali della capitale che lamentavano sintomi di intossicazione neurologica. La gravità della situazione induceva il 25 agosto anche il Papa a indirizzare al mondo un appello per fermare i combattimenti in Siria e ogni nuovo eventuale conflitto, operando comunque sulla base del dialogo.

Nella stessa giornata il presidente Peres, il premier Netanyahu e il ministro della difesa israeliano Yaalon insistevano sulla necessità di eliminare le ami chimiche dalla Siria - compito della Comunità internazionale secondo Peres -, mentre Israele, in grado comunque di difendersi, segue con attenzione tutti gli sviluppi. Secondo il ministro della difesa di Tel Aviv ciò che comunque Israele non consentirà è che le armi chimiche siriane vengano trasferite agli Hizbollah libanesi o ad altri gruppi terroristici, oltre naturalmente a non permettere alcuna violazione della propria sovranità territoriale. Nel paese comunque si registrava un'impennata nelle richieste di maschere antigas.

Frattanto l'Amministrazione USA manifestava sempre meno dubbi sulla responsabilità del regime siriano in ordine all'uso di armi chimiche. Il 25 agosto il regime siriano acconsentiva finalmente a che la missione di ispettori dell'ONU già nel paese potesse visitare il sito dell'attacco chimico nei sobborghi della capitale, accettando di fermare i combattimenti nel corso dell'ispezione. Tuttavia il convoglio degli ispettori il 26 agosto veniva fatto segno dal fuoco di cecchini, che pur non provocando vittime o feriti, riducevano di molto la piena operatività della missione. Nella stessa giornata il segretario di Stato USA John Kerry asseriva non esservi più alcun dubbio sensato sulla veridicità dell'attacco chimico del 21 agosto, che sarebbe ricaduto su Assad e sul suo regime come un'"oscenità morale". Un importante oppositore dell'Amministrazione Obama, il senatore repubblicano Mc Cain, accusava intanto la timidezza del presidente sulla questione siriana, che Assad avrebbe interpretato come un via libera ad ogni iniziativa aberrante. La Russia, nella persona del presidente Putin, si spingeva invece, all'opposto, a porre in dubbio la stessa veridicità dell'attacco chimico.

La posizione italiana veniva chiarita tra il 26 e il 28 agosto, dapprima con una riunione a Palazzo Chigi del premier Letta con i ministri degli esteri Bonino e della difesa Mauro, e il giorno seguente con l'intervento del ministro degli esteri nella riunione straordinaria delle Commissioni Esteri di Camera e Senato, cui faveva seguito un colloquio telefonico del premier Letta con l'omologo britannico Cameron. Secondo l'Italia il regime di Assad ha oltrepassato, con l'uso di armi chimiche, il punto di non ritorno della sua crisi: tuttavia l'Italia chiariva di non poter prendere parte a nessuna iniziativa al di fuori di un mandato chiaro del Consiglio di sicurezza dell'ONU, anche in considerazione del fatto che l'Italia risulta già straordinariamente impegnata sul fronte delle missioni militari in diversi contesti internazionali.

Il Ministro degli esteri, in particolare, paventava un'estensione imprevedibile del conflitto in caso di attacco armato alla Siria. Il 28 agosto i ministri Bonino e Mauro chiarivano ulteriormente come, anche in caso di via libera da parte del Consiglio di sicurezza dell'ONU, la partecipazione dell'Italia ad operazioni contro la Siria sarebbe stata subordinata alla discussione e all'approvazione del Parlamento, così come anche la mera eventuale concessione dello spazio aereo e delle basi militari italiane. Questo atteggiamento di estrema prudenza fa comprendere, come del resto sottolineato dallo stesso ministro degli esteri, che il governo italiano, pur comprendendo le ragioni di chi vorrebbe rispondere all'esecrabile uso di armi chimiche da parte siriana, non crede alla soluzione meramente militare della questione.

Il 27 agosto va segnalata anche una dichiarazione della Lega Araba, che condannava la Siria per l'attacco chimico, ma demandava alle Nazioni Unite ogni decisione su possibili rappresaglie. Il 28 agosto, mentre si svolgeva una seconda riunione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, lo stesso presidente Obama si diceva ormai assolutamente certo sulla responsabilità del regime di Assad nell'attacco chimico del 21 agosto, senza peraltro sbilanciarsi su possibili rappresaglie di carattere militare contro la Siria. In ogni modo il presidente americano chiariva che l'utilizzazione di armi chimiche da parte della Siria non solo aveva infranto norme internazionali fondamentali, ma aveva anche posto a rischio interessi nazionali degli Stati Uniti. Alla sua voce si univa nello stesso giorno quella del segretario generale della NATO Rasmussen, che invocava la necessità di una risposta all'inaccettabile uso delle armi chimiche da parte siriana. Dall'altro lato l'Iran tornava ad ammonire contro le conseguenze disastrose di un attacco alla Siria, e stavolta era la Guida Suprema in persona, Ali Khamenei, a spendersi per la causa di Assad – frattanto l'Agenzia internazionale dell'energia atomica lanciava un nuovo allarme sulla proliferazione nucleare in Iran, per l'aumento delle capacità di arricchimento dell'uranio nell'impianto di Natanz.

Ambienti cristiani mediorientali, tra i quali il patriarca greco-cattolico di Antiochia e il patriarca di Babilonia dei Caldei, ammonivano a loro volta a non ripetere il tragico errore dell'Iraq nel 2003, e a non scatenare un nuovo devastante conflitto nella regione con un attacco alla Siria dalle imprevedibili conseguenze. L'unica via per un superamento del conflitto siriano – come sostenuto autorevolmente anche dal cardinal Sandri, prefetto vaticano della Congregazione per le Chiese orientali – risiede nella ricerca del dialogo e della riconciliazione delle parti in conflitto, e nella collaborazione delle diverse religioni.

Dopo che il 28 agosto una bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU sull'uso della forza contro la Siria, presentata dal Regno Unito, era naufragata per l'opposizione russa e cinese; il 29 agosto il fronte interventista contro la Siria toccava una grave sconfitta, quando la Camera dei Comuni respingeva una mozione governativa, ancorché "ammorbidita" rispetto ai tempi della risposta militare, a sostegno del coinvolgimento del Regno Unito in attacchi contro la Siria, minando in tal modo le speranze americane di dar vita a un'ampia coalizione internazionale anche al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'ONU, praticamente impossibile per il veto sicuro della Russia della Cina.

Nella stessa giornata si mostrava ormai come la diplomazia della Santa Sede fosse attivamente al lavoro per scongiurare il nuovo conflitto mediorientale: il Pontefice riceveva infatti il re Abdallah di Giordania e la regina Rania, ribadendo la via del dialogo e dei negoziati come unica strada per uscire dal conflitto siriano: proprio la Giordania potrebbe essere la base per il lancio di un attacco contro la Siria, ed è inoltre già pesantemente coinvolta dall' enorme quantità di profughi (circa un milione e mezzo) siriani affluiti nel paese.

Alla già di per sé grave incrinatura della "relazione speciale" tra Stati Uniti e Regno Unito, che dopo la Seconda Guerra mondiale, con l'eccezione del Vietnam, aveva visto sempre la partecipazione comune agli interventi armati sulla scena mondiale; faceva riscontro negli Stati Uniti un umore dei militari tutt'altro che entusiasta in ordine all'intervento contro la Siria, che potrebbe comportare per molti di loro la necessità di una forte escalation dei bombardamenti aerei e missilistici – qualora il regime di Assad dovesse resistere oltre il previsto -, per di più in un periodo in cui lo stesso Pentagono ha subito in un biennio pesanti riduzioni di stanziamento.

Al dietro-front britannico del 29 agosto faceva riferimento il giorno successivo il ministro degli esteri Emma Bonino, inquadrando la presa di posizione della Camera dei Comuni nella consueta fragilità della politica estere europea, anche in questa circostanza incapace di anticipare le prese di posizione nazionali con consultazioni almeno tra i principali Stati membri della UE. Il Ministro, comunque, dimostrava di condividere la prudenza del Parlamento inglese quando dichiarava che l'attacco alla Siria potrebbe avere conseguenze devastanti non solo sul piano regionale, ma addirittura far correre il rischio di una conflagrazione mondiale.

In senso contrario continuavano però a remare gli Stati Uniti, dove il segretario di Stato John Kerry, in una dichiarazione assai dura, presentava un dossier dell'intelligence statunitense basato soprattutto sulle intercettazioni di un alto esponente del regime, dalle quali emergerebbe effettivamente l'uso di armi chimiche il 21 agosto. Secondo Kerry, più di 1.400 persone, tra cui più di 400 bambini, avrebbero perso la vita a causa dei gas letali, e il segretario di Stato ribadiva l'assoluta affidabilità delle informazioni riportate.

Anche all'interno della Lega Araba aumentava il numero dei paesi contrari a un intervento contro il regime di Assad: tra questi si annoveravano Egitto, Algeria, Libano, Tunisia e Iraq, nonché la dirigenza palestinese di al-Fatah, per la quale un interven to armato sarebbe un atto di tipo criminale. La stessa Francia cominciava a registrare dubbi e dissensi sull'intervento in Siria, ben diversamente da quanto accaduto all'inizio dell'anno per gli attacchi contro i ribelli maliani: certamente, il no britannico e la decisione statunitense di sottoporre al benestare del Congresso l'azione armata aumentavano le preoccupazioni e il senso di isolamento dei francesi. Se ne aveva un riflesso anche nei richiami alla cautela da parte dell'opposizione di centrodestra, che richiedeva di demandare alle risultanze dell'indagine degli ispettori dell'ONU ogni ulteriore iniziativa.

Frattanto assumeva sempre maggiore consistenza l'attribuzione dell'uso dei gas il 21 agosto non ad una decisione meditata del regime siriano, ma ad un'azione estemporanea del fratello di Bashar Assad, Maher, che dopo una lite motivata dall'insoddisfazione per la lentezza delle operazioni di riconquista dei sobborghi di Damasco, avrebbe impartito l'ordine di sparare munizioni contenenti gas. Questa pista avrebbe una sua credibilità anche perché le armi chimiche risulterebbero custodite a cura della Quarta divisione corazzata dell'esercito siriano, comandata proprio da Maher Assad.

Il 31 agosto emergeva la decisione abbastanza inattesa del presidente USA Obama di sottoporre all'autorizzazione del Congresso il previsto intervento armato contro la Siria: in effetti la War Powers Resolution del 1973, approvata nonostante il veto posto dall'allora presidente Nixon, prevede che, salvo il caso di un attacco contro gli Stati Uniti o le loro forze armate, il presidente possa mandare truppe in combattimento solo dopo una dichiarazione di guerra del Congresso. Anche nel caso di emergenza, entro 48 ore le decisioni del presidente dovranno essere sottoposte al Congresso, il cui assenso avrà comunque valore solo per 60 giorni, salvo ulteriori proroghe. La War Powers Resolution, tuttavia, non è stata quasi mai applicata, se non nel 2003, quando George W. Bush ottenne il sì del Congresso per l'invasione dell'Iraq. Va comunque tenuto presente che la decisione di Obama, oltre a creare spiazzamento nelle opposizioni siriane impegnate nei combattimenti contro il regime di Assad, veniva interpretata come un ennesimo segno di debolezza, e parecchi consiglieri del presidente si sarebbero in effetti detti contrari al coinvolgimento del Congresso.

Settembre 2013

Il 1º settembre, mentre le Nazioni Unite mostravano di non porre al primo posto della propria agenda la questione siriana, gli Stati Uniti rendevano noti i risultati dei test su campioni di sangue e capelli raccolti dai primi soccorritori dopo l'attacco del 21 agosto nei sobborghi di Damasco: il segretario di Stato John Kerry confermava in diversi interventi televisivi nazionali l'effettivo uso del Sarin nel conflitto siriano.

La decisione degli Stati Uniti di sottoporre al Congresso l'autorizzazione per l'intervento armato veniva considerata in Siria come una grave debolezza dell'Amministrazione USA, che sarebbe stata addirittura ridicolizzata. Per quanto concerne l'Iran, invece, l'atteggiamento del ministero degli esteri di Teheran si mostrava in questa fase più cauto. La coalizione delle opposizioni siriane, facendo appello al Congresso perché approvasse la proposta di Obama, aggiungeva l'assoluta necessità della fornitura di armi agli oppositori impegnati nei combattimenti sul terreno, senza di che l'attacco al regime sarebbe praticamente inutile.

Il tragico bilancio del conflitto siriano veniva ulteriormente aggiornato dall'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, con oltre 110.000 vittime, dei quali 40.000 civili e quasi 6.000 bambini. Tra le vittime vi sarebbero inoltre circa 20.000 ribelli e oltre 45.000 membri di forze armate e milizie lealiste. Molti stranieri sarebbero morti nel conflitto siriano, sia nelle file dei jihadisti oppositori che tra i lealisti, dove spiccano 171 appartenenti a Hizbollah. Frattanto la Francia, rimasta apparentemente sola a propugnare un rapido intervento militare, vedeva anch'essa le prime crepe nel fronte interventista, con dubbi formulati da ambienti del centrodestra, e lo stesso Eliseo consapevole che un intervallo di tempo troppo lungo dall'attacco chimico del 21 agosto e l'intervento militare avrebbe fatalmente indebolito la portata di quest'ultimo.

Papa Francesco, sempre più attivo, si faceva artefice di un'iniziativa a carattere religiose, ma di grande significato diplomatico: all'Angelus del 1º settembre infatti il Pontefice faceva sentire con forza la sua voce contro le ipotesi d'intervento bellico, invitando nuovamente a privilegiare in ogni modo il dialogo, il negoziato e la riconciliazione. Il Papa annunciava inoltre un'iniziativa davvero importante per la giornata di giovedì 7 settembre, ovvero una veglia di digiuno e preghiera per la pace in Medio Oriente e nell'intero pianeta, da svolgere con adunanza serale in Piazza San Pietro, alla quale chiamava a partecipare anche i seguaci di altre religioni e i non credenti.

Sempre il 1º settembre si svolgeva il vertice dei ministro degli esteri della Lega Araba nella capitale egiziana, che si chiudeva con un sostanziale nulla di fatto, poiché gli appelli interventisti dell'Arabia Saudita cadevano nel vuoto e gran parte della dei paesi appartenenti alla Lega Araba si rimettevano alle Nazioni Unite. Particolare evidenza assumeva la presa di posizione dell'Egitto, che si spingeva a ipotizzare la ripresa delle iniziative per una conferenza sulla Siria, la cosiddetta Ginevra 2: il Cairo mostrava così di volersi completamente svincolare dalle precedenti prese di posizione della Fratellanza Musulmana al governo, e riacquistare per intero il tradizionale profilo di grande paese mediatore. In tal senso si spiega quindi la polemica assai forte con il premier turco Erdogan, il quale aveva tacciato di inaffidabilità le dichiarazioni della più alta autorità teologica sunnita, il gran imam di al-Azhar, egiziano, accusato di aver sostenuto il golpe militare nel paese e quindi di non avere alcun titolo a svolgere il ruolo di mediatore nella crisi siriana. A questo proposito, peraltro, la posizione di al-Azhar sembrava stigmatizzare con forza i progetti americani di intervento armato contro la Siria.

Il 2 settembre, in preparazione del vertice G20 di San Pietroburgo, la posizione russa emergeva con grande nettezza in senso assolutamente contrario a un intervento armato delle potenze occidentali contro la Siria, come sottolineato dal ministro degli esteri Lavrov, per il quale le prove fornite alla Russia si rivelavano del tutto insufficienti, e alla richiesta di Mosca di avere ulteriori dettagli sarebbe stato opposto il più assoluto riserbo. I russi considerano assurdo che i siriani possano avere effettivamente usato gas letali, trattandosi invece piuttosto di una provocazione interessata delle opposizioni.

Si ampliava intanto il ventaglio delle adesioni all'iniziativa di preghiera e di digiuno del 7 settembre, mentre il Vaticano, nella persona dell'arcivescovo Toso, segretario del Dicastero giustizia e pace, tornava ad avvertire sull'estrema pericolosità del conflitto siriano, che più di altri conterrebbe gli ingredienti per estendersi a una guerra di dimensioni mondiali. Tra le adesioni faceva spicco soprattutto quella del leader spirituale dell'Islam in Siria, il gran muftì Hassou, che esprimeva addirittura il desiderio di poter fisicamente intervenire alla veglia di preghiera di San Pietro. L'iniziativa del Papa suscitava perfino esplicita adesione in Cina, ma anche da ambienti non credenti, come precisato dal ministro degli esteri Emma Bonino, che parlava di una probabile adesione dei radicali.

In Francia intanto le autorità, con un dossier pubblicato sui siti Internet della Presidenza della Repubblica e del governo, precisavano le accuse contro Damasco: l'attacco del 21 agosto sarebbe senz'altro partito da postazioni lealiste, come dimostrato da una serie di immagini satellitari, in un'offensiva massiccia e coordinata impossibile da parte delle opposizioni. Secondo l'intelligence francese, vi sarebbero poi le prove di altri due attacchi chimici più limitati compiuti in aprile nei pressi di Idlib e in un altro sobborgo di Damasco, Jobbar, e il carattere di questi attacchi sarebbe stato confermato da analisi di laboratorio su campioni di sangue e urine di persone intossicate, nonché su resti di munizioni. Sullo scenario politico interno francese, intanto, crescevano le richieste di voto parlamentare sull'eventuale intervento armato di Parigi, che non è previsto come necessario dalla Costituzione, ma che i sostenitori del pronunciamento parlamentare vedono come opportuno soprattutto ricordando il precedente dell'intervento francese contro Saddam Hussein nella Prima Guerra del Golfo del 1991, che venne effettivamente approvato con un'ampia maggioranza dal Parlamento francese.

Frattanto l'offensiva della Casa Bianca verso il Congresso per mettersi al sicuro nei confronti del voto dei prossimi giorni sull'attacco alla Siria segnava un punto a proprio favore quando lo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner del Partito repubblicano, e altri suoi compagni di partito, si schieravano dalla parte del presidente Obama; a questi era sempre più chiaro che per guadagnare l'appoggio di altre parti importanti dello schieramento repubblicano è necessario dare all'intervento armato connotati tali da colpire con durezza il regime siriano, come esplicitamente richiesto dall'importante senatore John Mc Cain. In effetti, il presidente americano iniziava parlare di un'azione militare bensì limitata, ma nel quadro di una più ampia strategia per rafforzare l'opposizione siriana, che potrebbe anche prevedere la fornitura di armi pesanti ai ribelli, come ad esempio le armi anticarro.

Inoltre gli Stati Uniti chiarivano come i raid contro il regime di Assad vadano interpretati come avvertimento anche per altri paesi violatori delle regole internazionali: in tal senso il capo del Pentagono Chuck Hagel collegava esplicitamente il livello di efficacia nell'attacco alla Siria con la credibilità degli Stati Uniti nella richiesta all'Iran di fermare la corsa verso la proliferazione nucleare. A remare contro, tuttavia, si poneva il segretario generale delle Nazioni Unite, secondo il quale un attacco alla Siria rischierebbe di amplificare in modo intollerabile il gravissimo problema già attuale dei rifugiati siriani nei paesi limitrofi

Il 4 settembre il presidente americano registrava un nuovo successo, con la piena adesione di Hillary Clinton - probabile candidata alla corsa alla Casa Bianca del 2016 - alla sua linea interventista sulla Siria. Nella stessa giornata, al termine di una maratona parlamentare, il presidente incassava il sì della Commissione esteri del Senato per l'intervento armato, seppure con una maggioranza di soli tre voti. Questo parziale successo veniva ottenuto in capo ad una lunga discussione, nella quale il senatore Mc Cain riusciva a far passare alcuni suoi emendamenti, in base ai quali lo scopo degli attacchi americani deve essere quello di sovvertire le sorti della battaglia in corso in Siria a favore dei ribelli.

Per il resto, la risoluzione approvata dalla Commissione esteri del Senato manteneva l'impianto della sua formulazione iniziale, ovvero il carattere limitato nel tempo dell'intervento (non più di 90 giorni) e l'esclusione assoluta di un intervento americano con truppe di terra. Un fattore suscettibile di compromettere gli sforzi del presidente Obama nei confronti del Congresso potrebbe essere la vicinanza della data dell'11 settembre, la quale, richiamando l'attenzione sulla necessità della lotta al terrorismo internazionale, getterebbe un'ulteriore luce negativa sull'attacco al regime di Assad, che potrebbe indirettamente favorire le numerose correnti jihadiste certamente presenti nell'opposizione che combatte sul terreno - del resto questo concetto di fondo guidava anche la missiva indirizzata dal presidente dell'Assemblea del popolo siriano al suo omologo statunitense, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, la cui attenzione veniva soprattutto attirata sul nemico comune che Siria e Stati Uniti avrebbero nell'ideologia di Al-Qaeda dei movimenti ad essa affiliati.

Il 4 settembre si svolgeva anche un dibattito (conclusosi senza voto finale) all'Assemblea nazionale francese, con al centro la questione siriana: nel corso della discussione il premier Ayrault, pur dicendosi d'accordo sul fatto che la situazione della Siria potrà trovare solo uno sbocco politico, vedeva l'intervento militare come presupposto indispensabile per ogni altro seguito - va rimarcato tuttavia che l'appoggio internazionale cercato a Parigi si mostrava ancora carente, con solamente Croazia, Danimarca, Grecia, Lettonia, Romania e Cipro favorevoli comunque un intervento armato anche al di fuori della cornice ONU.

Cresceva frattanto sempre di più la dimensione dell'iniziativa vaticana per la veglia di preghiera e digiuno del 7 settembre: infatti all'iniziativa aderivano via via esponenti del mondo politico italiano, ambienti ebrei e musulmani del paese, la Massoneria italiana ma anche i buddisti (Soka Gakkai) del nostro paese, come pure esponenti sindacali e del mondo sportivo, organizzazioni femminili, attori e cantanti. L'evento veniva poi preparato accuratamente dal Vaticano mobilitando tutte le proprie diramazioni a livello mondiale, incluse le Conferenze episcopali nazionali. Il Preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Adolfo Nicolás, si pronunciava contro l'intervento militare americano in termini assolutamente drastici, chiedendo alle autorità americana di cessare di esercitare una sorta di polizia a livello mondiale, che si configurerebbe invece come prevaricazione ai danni membri più deboli della Comunità internazionale.

Intanto l'Italia adottava misure precauzionali, disponendo lo spostamento del cacciatorpediniere "Andrea Doria" verso le coste libanesi, sia per esercitare funzioni di protezione della missione UNIFIL, sia per l'eventuale evacuazione dei nostri militari. Veniva inoltre disposto che anche la fregata "Maestrale" raggiungesse in breve termine l'"Andrea Doria".

Il 5 settembre veniva reso noto che il Papa aveva indirizzato al presidente russo, in occasione dell'imminente vertice G20 di San Pietroburgo, una missiva con un appello ai leader mondiali ad evitare assolutamente una soluzione militare, e ad agire con determinatezza per porre fine all'inutile massacro in corso in quel paese.

Nella stessa giornata si svolgeva in Vaticano l'incontro di una settantina di rappresentanti diplomatici accreditati presso la Santa Sede, durante la quale mons. Mamberti esponeva i piani del Vaticano per la pacificazione della Siria e del Medio Oriente, chiarendo anche la portata della veglia di preghiera indetta per il 7 settembre. In particolare, il punto di vista della Santa Sede comprende la necessità di fare ogni sforzo per il ripristino del dialogo tra le parti e la riconciliazione in Siria, per preservare l'integrità territoriale del paese, e per fornire infine ogni garanzia alle numerose minoranze etniche e religiose siriane.

Frattanto, come prevedibile, la situazione umanitaria in Siria si aggravava soprattutto verso il confine con la Giordania, dove si ammassavano decine di migliaia di civili in fuga anche per le possibili conseguenze di un attacco americano. Nel frattempo non era certo facile la situazione dei profughi siriani già numerosissimi in Iraq e in Libano, e l'agenzia dei rifugiati dell'ONU nella capitale libanese annunciava inoltre che in ottobre avrebbe dovuto depennare, per mancanza di fondi, oltre un quarto della popolazione rifugiata siriania in Libano dalla lista dei beneficiari degli aiuti.

Anche il premier italiano Enrico letta sentiva il bisogno di intervenire, anzitutto per chiarire lo stato dei rapporti con Washington: l'Italia infatti rimane alleato strategico per gli Stati Uniti, e pur nell'approccio diverso rispetto all'intervento armato contro la Siria esprime comprensione delle ragioni che muovono gli Stati Uniti. Pur non seguendo gli USA nell'azione armata, l'Italia pertanto non condannerà l'uso della forza. Per il nostro paese, piuttosto, si dovrebbe ripartire dal G8 tenutosi nell'Irlanda del Nord, quando si era tracciata una sorta di road map incentrata sulla fine del regime di Assad, la Conferenza di Ginevra 2, la formazione di un governo transitorio e le sanzioni per punire l'eventuale utilizzazione di armi chimiche. L'Italia inoltre si dichiarava impegnata a ricercare una posizione comune in seno all'Unione europea.

Va notato come nel Mediterraneo orientale proseguiva intanto lo spiegamento di unità navali, che nel complesso dovrebbero raggiungere il numero di 12 statunitensi, 11 russe, 5 britanniche e una francese - non dimenticando anche il nostro cacciatorpediniere "Andrea Doria" già menzionato.

Al G20 di San Pietroburgo (5/6 settembre) l'inizio dei lavori segnava un certo isolamento degli Stati Uniti, che non riuscivano assolutamente ad ampliare il fronte dei paesi disposti a impegnarsi nell'attacco armato alla Siria, a parte i già noti Francia – tuttavia sempre più titubante -, Turchia ed alcuni paesi arabi; e per converso vedevano raccogliersi attorno alla leadership del padrone di casa Vladimir Putin i tradizionali alleati cinesi, i nuovi paesi emergenti, le Nazioni Unite - ancora impegnate a convocare una "Ginevra 2"-, la stessa Unione Europea e anche, in certo qual modo, la stessa Santa Sede. Nella seconda giornata dei lavori il clima mutava leggermente in meglio per gli Stati Uniti, i quali comunque tornavano ad attaccare la sostanziale sterilità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e riuscivano a far convergere su una propria dichiarazione nove nazioni del G20, oltre alla Spagna, che non è membro del consesso internazionale ma osservatore.

La dichiarazione, sulla quale concordavano per l'esattezza gli Stati Uniti, l'Australia, il Canada, la Francia, l'Italia, il Giappone, la Corea del sud, l'Arabia Saudita, la Spagna, la Turchia e il Regno Unito - condanna con forza l'uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, sulla cui responsabilità non si nutrono dubbi, richiedendo una risposta forte, pur senza spingersi all'esplicito appoggio ad un'azione militare o ancor più alla partecipazione ad essa. Gli Stati Uniti ottenevano comunque in questo modo un appoggio politico di fondo.

Al proposito va notato come l'altro grande paese disposto sin dall'inizio ad un'azione militare, ossia la Francia, sembrava moderare progressivamente il proprio umore, soprattutto per la consapevolezza della netta contrarietà dell'opinione pubblica nazionale ad un coinvolgimento di Parigi: il presidente Hollande si spingeva ad affermare che un'azione armata francese non sarebbe comunque avvenuta prima della presentazione del rapporto degli ispettori dell'ONU incaricati di investigare sull'utilizzazione di armi chimiche nel conflitto siriano. Hollande specificava inoltre che i raid dovrebbero concentrarsi su obiettivi veramente militari, senza mirare alla caduta del regime di Assad come esito politico. In caso poi di verdetto negativo del Congresso statunitense, Hollande anticipava che la Francia si sarebbe posta su un altro piano, moltiplicando gli sforzi per appoggiare la Coalizione nazionale siriana, senza più intervenire direttamente nel conflitto.

Il nervosismo del presidente francese emergeva anche dalle aspre critiche da lui rivolte al quotidiano Le Figaro per la pubblicazione di un'intervista al presidente Assad, nella quale il rais siriano affermava che un attacco alla Siria avrebbe avuto ripercussioni negative anche sugli interessi francesi.

Il 6 e 7 settembre si svolgeva a Vilnius l'incontro informale dei ministri degli esteri dell'Unione europea, conclusosi con il raggiungimento di un accordo fondato su tre punti: anzitutto la condanna dell'uso di armi chimiche, poi la sottoposizione al giudizio della Corte penale internazionale dei responsabili, e infine la necessità di attendere le risultanze del lavoro degli ispettori dell'ONU, in omaggio alla dimensione multilaterale dei rapporti internazionali, che verrebbe posta a rischio da iniziative di singoli paesi. Il segretario di Stato americano John Kerry è intervenuto a Vilnius nella seconda giornata del vertice, ottenendo un risultato rilevante, ovvero l'allinearsi della Germania alla dichiarazione firmata il giorno prima da dieci paesi del G20 e dalla Spagna, nella quale, è opportuno ricordare, si riconosce la necessità di una risposta forte ad Assad, senza tuttavia spingersi all'approvazione di un intervento militare al di fuori della cornice delle Nazioni Unite.

Negli Stati Uniti vi era intanto un forte pressing degli ambienti cattolici sul Parlamento, perché respingesse la risoluzione presidenziale per ottenere l'autorizzazione all'intervento armato in Siria: la Conferenza episcopale americana si rivolgeva direttamente con un appello al presidente Obama, mentre i cardinali, vescovi e arcivescovi scrivevano a singoli membri del Congresso, chiedendo loro di schierarsi contro la risoluzione.

Di segno opposto era naturalmente l'offensiva dispiegata dalla Casa Bianca e dagli ambienti del governo statunitense, non ultimo l'appello del presidente americano alla nazione perché, in considerazione delle caratteristiche degli Stati Uniti d'America, non sfuggisse di fronte alle immagini sconvolgenti dell'utilizzazione di armi chimiche e consentisse agli Stati Uniti di ricoprire quello che secondo il presidente americano sarebbe il loro ruolo nel mondo.

Il Presidente metteva inoltre in evidenza come le azioni della Siria rappresentino una seria minaccia anche per la sicurezza nazionale statunitense, soprattutto se si considera che le armi chimiche potrebbero finire nelle mani di terroristi desiderosi di colpire nuovamente l'America – in tal modo il presidente USA si esponeva però a una sorta di autogol, in quanto proprio il regime siriano, in una lettera allo speaker della Camera dei Rappresentanti, aveva in qualche modo messo in guardia proprio da questa eventualità, considerando che tra gli oppositori al proprio predominio si trovano numerosi jihadisti e qaidisti. Comunque, una parte essenziale del pressing della Casa Bianca sui parlamentari statunitensi dovrebbero essere alcuni video in possesso della CNN, e di cui l'intelligence garantisce la pressoché certa autenticità, nei quali si vedono le immagini tremende di uomini e bambini appena colpiti dai gas, e ormai moribondi.

Nella serata del 7 settembre si teneva anche l'annunciata veglia di preghiera e di digiuno per la pace in piazza San Pietro: qui il Papa svolgeva una meditazione a cavallo tra dimensione profetica e analisi antropologica, davanti ad oltre centomila partecipanti, tra i quali molti i non cattolici, in particolare islamici, e alcuni non credenti. Il carattere globale dell'evento, come già più volte notato, si realizzava poi con le numerosissime iniziative contemporanee in corso in tutte le parti del mondo.

L'8 settembre, mentre i servizi di intelligence tedeschi sostenevano che l'uso di armi chimiche sarebbe avvenuto in Siria, probabilmente, senza aver ottenuto il permesso del presidente Assad – confermando le ipotesi di un "impazzimento" della catena di comando già emerse in riferimento al ruolo del fratello di Assad, Maher -; in un'intervista alla rete televisiva americana CBS il rais siriano confermava di non aver mai autorizzato l'uso di armi chimiche contro la sua gente, e preannunciava ritorsioni da parte degli alleati della Siria in caso di attacchi contro Damasco. Per contro, il segretario di Stato USA Kerry reiterava le accuse ad Assad, specificando che le informazioni sempre più precise permettevano ormai di attribuire al regime siriano ben undici attacchi chimici.

L'8 settembre finalmente giungeva dalla Siria una notizia positiva, con l'avvenuta liberazione dell'inviato de La Stampa Domenico Quirico, scomparso in aprile nel nord della Siria: Quirico è subito rientrato in Italia, dichiarando di non aver subito maltrattamenti, ma riferendo dello scivolamento della ribellione siriana su posizioni assai pericolose di estremismo islamista.