Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | L'ondata di proteste in Turchia | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 29 | ||
Data: | 24/06/2013 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
L’ondata di
proteste in Turchia |
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n. 29 |
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24 giugno 2013 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi –
Dipar timento Affari esteri ( 066760-4939 /
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File: es0051.doc |
INDICE
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Le elezioni politiche
del 2011
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Il quadro regionale e la
politica estera di Ankara. Sviluppi della questione curda
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I recenti interventi per
l’islamizzazione del paese
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L’avvio delle proteste
di piazza
§
L’intransigenza del
premier Erdogan
Pubblicistica
§
U. Profazio ‘Israele:
rapporti con la Turchia alla prova del nuovo Medio Oriente’, in: Equilibri,
www.equilibri.net/nuovo, 6 maggio 2013
§
V. Talbot ‘Dall’Ue
alla Sco: la Turchia guarda a Oriente’, in: ISPI Commentary, 6 maggio 2013
§
E. Alessandri ‘’Stati Uniti e Turchia davanti al bivio mediorientale’, in:
Affarinternazionali.it, 10 maggio 2013
§
Summary ’The
Risks of Turkey’s Policy in Syria’, in: Stratfor Global Intelligence, 13
maggio 2013
§
A. Remiddi ‘La
Turchia ritorna nei Balcani’, in: Limes, 23 maggio 2013
§
S. M. Torelli ‘Fin quando Ankara rimarrà a guardare?’, in: ISPI Commentary, 30
maggio 2013
§
A. Zaman ‘Turkey’s
Syria Reset’, in: GMF (The German Marshall Fund), 30 maggio 2013
§
Summary ’Turkey’s
Violent Protests in Context’, in: Stratfor Global Intelligence, 2 giugno
2013
§
S. Ülgen
‘Erdogan’s Dilemma’, in: Carnegie
Europe, 2 giugno 2013
§
F. Mat ‘Occupy
Gezi, la Turchia grida ‘no’ ad Erdogan’, in: Osservatorio Balcani e Caucaso,
3 giugno 2013
§
B. Momani ‘Turkey’s
Summer of Discontent’, in: Brookings Institution, 3 giugno 2013
§
S. Freizer ‘Turchia:
reclamare il proprio spazio’, in: Osservatorio Balcani e Caucaso, 3 giugno
2013
§
M. Colombo ‘Turchia:
le ragioni della protesta’, in: ISPI Commentary, 3 giugno 2013
§
D. Bechev ‘Turkey’s
people power tide’, in: European Council on Foreign Relations, 3 giugno
2013
§
S. M. Torelli ‘Turchia: la deriva autoritaria e le falle sistemiche’, in: ISPI
Commentary, 3 giugno 2013
§
L. Posocco ‘Turchia,
il Gezi Park di Istanbul è soltanto un pretesto’, in: Limes, 3 giugno 2013
§
R. Menotti
‘Turchia, democrazia alla prova piu’ dura’, in: www.aspeninstitute.it/aspenia-online,
4 giugno 2013
§
M. Akyol e H. Hellyer ‘For Turkey this can be a renewal rather than a spring’, in: Guardian,
4 giugno 2013
§
F. F. Milan ‘Le
due concezioni democratiche che si scontrano in Turchia’, in: www.aspeninstitute.it/aspenia-online, 5 giugno
2013 (
§
L.
Ozzano ‘Turkey’s domestic battle lines:
beyond Islam, ‘majoritarian democracy’, in: www.aspeninstitute.it(aspenia-online,
5 giugno 2013
§
J. Lagendijk ‘Erdogan,
attento alle percezioni’, in: Osservatorio Balcani e Caucaso, 5 giugno 2013
§
L. Caracciolo ‘Erdogan, la primavera della Turchia e l’ironia della storia’, in:
6 giugno 2013
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F. Mat ‘Turchia,
il popolo di Taksim si guarda allo specchio’¸in: Osservatorio Balcani e
Caucaso, 6 giugno 2013
§
A, Tetta ‘Turchia:
Twitter conteso’, in: Osservatorio Balcani e Caucaso, 7 giugno 2013
§
E. Pergolizzi ‘An Uncertain Road to Peace: Domestic and Regional Challenges in the
Turkish-Kurdish Process’¸in: IAI Working Papers, giugno 2013
§
G. Bacik ‘The
Taksim Protests: The Return of Secular Low Politics?’, in: TMF (The German
Marshall Fund), 7 giugno 2013
§
D. Cristiani ‘Il
problema in Turchia non è l’islamismo, è l’egemonia’, in: Limes, 10 giugno
2013
§
H.
Grabbe ‘Turkey’s Twitter generation is
its European Future’, in: Center for Euyropean Reform, www.cer.org.uk, 19 giugno 2013
§
V. Talbot ‘Turkey-GCC
Relations in a Transforming Middle East’, in: ISPI, Analysis, n. 178,
giugno 2013
§
N. Tocci ‘Proteste
in Turchia – Erdogan è davvero finito?’, in: www.affarinternazionali.it ,
10 giugno 2013
§
V. Talbot ‘Il
‘modello’ turco alla prova della piazza’, in: ISPI Commentary, 11 giugno
2013
§
F. Pongiluppi ‘Turchia: L’eterogeneità dell’elettorato Akp, forza e debolezza per
Erdogan’, in: Equilibri, www.equilibri.net/nuovo,
12 giugno 2013
§
I. Yilmaz ‘Turchia:
le tensioni all’interno dell’AKP’¸in: Osservatorio Balcani e Caucaso, 13
giugno 2013
§
A. Fais ‘Il
corto circuito della strategia turca’, in: www.affarinternazionali.it,
15 giugno 2013
§
E. Pergolizzi, N. Tocci ‘Le due anime della Turchia’, in: www.affarinternazionali.it,
18 giugno 2013
Scheda di sintesi
Sotto il profilo politico interno, la situazione della Turchia è quella che deriva dalle elezioni del 12 giugno 2011, che hanno visto il rinnovo del Parlamento unicamerale turco: in queste elezioni si è avuta la riconferma netta del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del primo ministro Erdogan, che rispetto alle precedenti elezioni del 2007 ha incrementato i propri voti del 3,2%, giungendo a sfiorare la metà dei consensi (49,8%).
Meno brillante è stato il risultato dell’AKP per quanto concerne i seggi, che sono stati 326 contro i 341 delle precedenti elezioni, e ciò in ragione delle particolari caratteristiche del sistema elettorale turco. In tal modo l’elettorato è sembrato comunque premiare l’impostazione di confessionalismo moderato che il partito di ispirazione islamica guidato da Erdogan ha impresso negli ultimi anni alla politica turca. Fino a quel momento, inoltre, le prospettive “neo-ottomane” della politica estera di Erdogan - basata meno sul rapporto con l’Europa e più su forti legami con i paesi circostanti - non sembravano in crisi, per cui il successo dell’AKP si spiega anche per questo verso.
Le elezioni del 2011 hanno altresì premiato il Partito repubblicano del popolo, di sinistra e al tempo stesso di ispirazione kemalista, che ha incrementato i propri consensi del 5%, aggiudicandosi poco più di un quarto dei voti e 135 seggi, ovvero 23 in più rispetto alla precedente consultazione.
Nel 2011 hanno guadagnato 10 seggi rispetto al 2007 anche gli indipendenti – che in realtà ruotano attorno al Partito indipendentista curdo - la cui rappresentanza parlamentare è salita a 36 seggi. In leggero arretramento invece il Partito della destra nazionalista, che visto calare dell’1,3% i propri voti e di 18 il numero dei seggi, che sono così scesi a 53. I risultati elettorali nel complesso hanno delineato per l’AKP la possibilità di formare nuovamente un esecutivo monocolore, negandogli però la quantità di seggi (367, pari a due terzi dei componenti la Grande Assemblea Nazionale) necessaria ad apportare modifiche costituzionali senza dover consultare il corpo elettorale tramite referendum.
Per quanto più specificamente concerne la politica estera e la situazione regionale proprio il periodo successivo alle elezioni del giugno 2011 ha visto una progressiva erosione delle prospettive “neo-ottomane” della Turchia: se infatti la Primavera araba per qualche verso aveva fatto ipotizzare la possibilità che la Turchia costituisse un modello per i paesi del Mediterraneo meridionale usciti dalle rivoluzioni contro le varie autocrazie al potere, la crisi siriana, con caratteri affatto diversi, anzitutto ha fatto venire meno l’alleanza della Turchia con un paese su cui Ankara aveva negli ultimi anni puntato molto per la stabilità regionale.
La Turchia non è stata solo spettatrice del mutamento, ma progressivamente ha assunto un atteggiamento contrario alla permanenza al potere di Assad, appoggiando, così come altri grandi paesi sunniti quali l’Arabia saudita, la sollevazione armata contro il regime di Damasco.
In questo contesto la tensione con la Siria è cresciuta progressivamente attraverso una serie di episodi, come l’abbattimento di un jet turco nelle acque territoriali siriane, l’appoggio dato dalla Turchia ai ribelli siriani ospitandoli anche in appositi campi alla frontiera, alcuni sconfinamenti di artiglieria e anche attentati nel territorio turco a seguito di furiosi combattimenti in corso sul suolo siriano.
Tutto ciò ha portato più volte a temere l’avvio di un conflitto turco-siriano – alla fine di gennaio del 2013 erano operativi i primi missili intercettori Patriot installati dalla NATO in territorio turco -, con importanti riflessi nella politica interna turca, dove l’opposizione a più riprese ha apertamente accusato il governo Erdogan di avventurismo.
Un’ulteriore complicazione per Erdogan è insorta nei rapporti con gli alawiti turchi, presenti in gran numero proprio nelle zone di confine con la Siria, che non vedono favorevolmente il sostegno turco ai ribelli sunniti siriani. L’unico spiraglio positivo nelle relazioni regionali è venuto in aprile, con l’avvio di colloqui per risolvere la grave controversia con Israele in atto dal 2010, quando una flottiglia civile turca diretta a Gaza venne attaccata dalla marina israeliana, con un bilancio di nove morti: la decisiva mediazione del presidente USA Obama in visita in Israele ha indotto i due Paesi a intavolare trattative, anche per un risarcimento alle famiglie delle vittime, dopo che il premier israeliano ha presentato le scuse al governo di Ankara.
Segnali incoraggianti si colgono invece sul versante della questione curda in Turchia: sullo sfondo della necessità dell’appoggio parlamentare da parte del Partito curdo per le riforme istituzionali in senso presidenzialista caldeggiate da Erdogan, nonché del forte miglioramento dei rapporti tra Turchia e governo autonomo curdo del Nord dell’Iraq veicolato dalle robuste forniture di gas verso la Turchia, a partire dal dicembre 2012 sono state avviate trattative segrete tra il leader curdo turco del PKK Abdullah Ocalan - da quattordici anni all’ergastolo in un’isola del Mar di Marmara - ed i servizi segreti di Ankara.
Il negoziato è sfociato nella formulazione da parte dello stesso Ocalan di un piano, finora puntualmente messo in atto, per una soluzione del problema curdo in Turchia, a partire da una tregua scattata il 21 marzo 2013, e seguita l’8 maggio dall’inizio del ritiro dei combattenti curdi in territorio turco, che hanno iniziato a ripiegare nel Kurdistan iracheno.
Il ritiro dei combattenti curdi dovrebbe complettarsi entro l’autunno 2013, mentre da parte del governo turco dovrebbero esservi ampie concessioni all’autonomia della regione sudorientale del paese.
Lo scatenamento a Istanbul delle proteste alla fine di maggio 2013 è stato preceduto da una serie di critiche a quello che è sembrato un lento avvicinamento del partito filoislamico di governo all’ideale di una Turchia più aderente a stili di vita ispirati alla morale coranica, a partire dal superamento dei divieti imposti nell’epoca della laicizzazione voluta da Ataturk. In tal senso va letta ad esempio la vicenda relativa al turban, traduzione turca del termine arabo hijab, che indica il velo islamico non integrale.
Il divieto del turban nel corso degli anni è progressivamente caduto prima per le studentesse universitarie, e successivamente per le insegnanti, per le hostess della compagnia di bandiera Turkish Airlines e anche per le alunne delle scuole elementari e medie nelle ore dedicate all’insegnamento del Corano.
All’inizio di febbraio 2013 il ministro per la famiglia e le politiche sociali, Fatma Sahin, ha ventilato la possibilità che il divieto del velo islamico cada anche per le deputate alla Grande Assemblea Nazionale. Nei giorni a seguire ulteriori polemiche sono nate dopo la circolazione di indiscrezioni e foto sulle nuove divise delle assistenti di volo della Turkish e sul divieto di somministrare alcol nei voli interni al paese. Frattanto il carattere confessionale dell’AKP continuava ad emergere anche in questioni apparentemente collaterali come la richiesta di restituzione alla Turchia di alcuni bambini adottati in Europa da coppie cristiane o di orientamento omosessuale.
In aprile si verificavano i prodromi della contestazione, anche allora in rapporto a questioni legate all’assetto della città di Istanbul: infatti all’inizio del mese partivano i lavori per la costruzione di una monumentale moschea sulla collina di Camlica (sulla sponda asiatica della città), avversata da qualificati urbanisti e architetti perché suscettibile di modificare irreversibilmente il panorama di Istanbul.
Frattanto anche il consumo delle bevandea alcoliche diveniva motivo di scontro: dopo il pronunciamento di Erdogan contro l’alcool ed a favore dell’ayran – yogurt salato diluito in acqua – quale bevanda nazionale da indicare anche alle nuove generazioni, il Parlamento approvava nella seconda metà di maggio a tempo di record una serie di ulteriori forti restrizioni alla vendita e al consumo di alcolici, incentrate soprattutto sul divieto assoluto di pubblicizzarli, come anche di venderli tra le 22 e le 6 del mattino. Gli alcolici non potranno inoltre essere venduti o consumati nel raggio di cento metri dalle moschee e dalle scuole, e saranno del tutto vietati nelle residenze studenteschi, così come negli ospedali e nei locali delle associazioni a carattere sportivo.
Alla fine di maggio iniziava l’ondata di proteste tuttora in corso, con epicentro nella Piazza Taksim di Istanbul, punto nevralgico della zona europea della città. La scintilla è stata offerta dal rifiuto della decisione del Governo di eliminare il parco Gezi nel cuore della città, polmone verde con circa seicento alberi, per far posto a un nuovo grande centro commerciale, a una moschea e ad altri interventi di edilizia volti al recupero della memoria ottomana del paese. Le proteste erano cominciate il 28 maggio con poche centinaia di persone radunate a difesa del parco, che si trova vicino alla storica piazza Taksim: il 31 maggio si verificavano i primi scontri consistenti, con un centinaio di feriti e 63 arresti.
La polizia faceva largo impiego di lacrimogeni, spray urticanti e cannoni ad acqua. Il giorno successivo gli incidenti si aggravavano, con un uso ancor più massiccio di lacrimogeni contro i dimostranti, che rispondevano con lanci di pietre e bottiglie. Mentre i tumulti coinvolgevano altre città, arrivando fino alla capitale Ankara, il governo ritirava provvisoriamente la polizia da piazza Taksim, non recedendo peraltro dai progetti edilizi oggetto di contestazione.
Il 2 giugno era Ankara a vedere gli scontri più violenti; mentre la
contestazione assumeva pertanto contorni ben più generali, Erdogan – che pure
preannunciava un dialogo del sindaco di Istanbul con i manifestanti – attaccava
con durezza i social media, e in
particolare Twitter, definito strumento
di disinformazione e catastrofe sociale al servizio del vandalismo dei
dimostranti. Nonostante la difficile situazione interna, il 3 giugno il leader
turco partiva per la prevista visita di
quattro giorni nell’Africa settentrionale, dicendosi fiducioso in un rapido
ritorno alla normalità: peraltro, gli scontri non accennavano a diminuire, e
veniva riferito da ambienti medici di una
vittima il giorno precedente, investita da un’auto lanciata sulla folla, che si aggiungeva al manifestante colpito
alla testa da un colpo di pistola qualche giorno prima.
Il presidente Abdullah Gul cercava una mediazione con la piazza indirizzando un messaggio conciliante ai dimostranti. Frattanto la gestione delle forze di sicurezza cominciava a destare critiche generalizzate in Turchia e fuori, e dopo consultazioni con il capo dello Stato Gul il vicepremier Arinc ammetteva il 4 giugno alcuni errori iniziali nell’affrontare la protesta nel parco Gezi, e si scusava con i manifestanti: se le proteste sembravano attenuarsi, erano invece divampate ancora la notte precedente, e ad Antiochia un giovane aveva perso la vita dopo essere stato colpito da un candelotto lacrimogeno alla testa.
Dopo nuovi scontri nella notte in tutto il paese, il 5 giugno migliaia di insegnanti, medici e bancari in sciopero in tutta la Turchia chiedevano le dimissioni di Erdogan: nella capitale Arinc incontrava una delegazione di manifestanti, che gli chiedevano di porre termine all’uso di lacrimogeni e urticanti da parte delle forze dell’ordine, provvedendo altresì alla rimozione di alcuni ufficiali di polizia coinvolti nella repressione.
Nella notte tra 5 e 6 giugno moriva nella città meridionale di Adana un poliziotto caduto da un ponte in costruzione mentre inseguiva alcuni manifestanti.
Nelle stesse ore i tumulti proseguivano ad Ankara, a fronte di una relativa calma finalmente registrata a Istanbul. Sul piede di partenza per il rientro in patria, Erdogan dichiarava frattanto a Tunisi che nelle proteste – che già il premier aveva attribuito in parte a non precisati elementi stranieri – erano attivi elementi dell’estremismo, alcuni dei quali addirittura collegati ad ambienti terroristici. Il bilancio degli scontri in tutto il paese, secondo l’Unione nazionale dei medici turchi, era fino a quel momento di oltre 4.700 persone ferite, una cinquantina delle quali in modo grave, oltre alle sopra ricordate vittime. Intanto l’indice borsistico turco faceva registrare una discesa superiore al 16% in meno di due settimane.
Il ritorno di Erdogan (7 giugno) confermava la sua posizione intransigente, mentre migliaia di sostenitori lo salutavano in aeroporto: reiterando la richiesta di un’immediata cessazione delle proteste, il premier rigettava con forza le critiche statunitensi ed europee per un uso eccessivo della forza, sul quale peraltro il Commissario UE all’allargamento chiedeva di condurre una rapida inchiesta proprio durante una conferenza stampa tenuta in Turchia alla presenza dello stesso Erdogan. Dopo una giornata di calma, l’8 giugno decine di migliaia di manifestanti tornavano a riunirsi senza incidenti in piazza Taksim, e fra loro apparivano i simboli delle tifoserie delle tre grandi squadre di calcio della città – elemento che ha ricordato il ruolo delle tifoserie nella rivoluzione egiziana del 2011.
Ad Ankara, tuttavia, diecimila dimostranti venivano affrontati dalla polizia con l’uso di lacrimogeni, mentre un altro vicepremier, Huseyn Celic, escludeva la possibilità di elezioni anticipate. Dal canto suo il Sindaco di Istanbul ritirava di fatto il progetto del centro commerciale che doveva sorgere in luogo del parco Gezi, ma confermava la ricostruzione delle caserme ottomane.
La tregua precaria scricchiolava intanto sempre più, con raduni di oppositori in tutte le principali città e duri scontri proprio nella capitale Ankara, mentre Erdogan esortava i propri sostenitori a dare una lezione ai contestatori votando massicciamente per l’AKP nelle elezioni amministrative del 2014, e ammoniva sul limite che la pazienza del governo stava per raggiungere. Del resto solo a piazza Taksim, sotto gli occhi dei media internazionali, la situazione si manteneva tranquilla, mentre nel resto del paese gli scontri si susseguivano e la polizia procedeva a diverse ondate di arresti delle persone colpevoli di aver diffuso via Twitter appelli alla mobilitazione.
In questo contesto il nervosismo si impadroniva della leadership dell’AKP, dato in grande discesa da alcuni sondaggi, e per di più, nella prospettiva delle presidenziali del 2014, potenzialmente lacerato dal conflitto tra il capo dello Stato in carica, Abdullah Gul e lo stesso Erdogan – sintomatici sono stati i tentativi del primo di ammorbidire i toni dello scontro durante l’assenza del premier in visita nel Maghreb.
Non a caso Erdogan si rendeva finalmente disponibile ad incontrare i manifestanti, ma nel contempo la notte tra 11 e 12 giugno vedeva un drammatico riaccendersi degli scontri di fronte all’intransigenza del governo nel voler proseguire nei progetti di distruzione del parco Gezi. Il 12 giugno aumentavano le critiche occidentali al comportamento del governo turco, mentre i manifestanti asserivano che il previsto incontro del pomeriggio di Erdogan era stato organizzato con una delegazione di comodo scelta dalle stesse autorità. Nel corso della giornata Erdogan faceva trapelare la proposta di un referendum sul progetto del parco Gezi, che però i manifestanti dovevano in ogni caso sgomberare.
Il 13 giugno, nel crescere della preoccupazione internazionale, e in particolare del Parlamento europeo, per la repressione delle manifestazioni in Turchia Erdogan replicava con inusitata durezza, rigettando le prese di posizione dell’Europarlamento, a suo dire lesive del prestigio della democrazia turca, e rincarando la dose sul presunto complotto internazionale politico-finanziario che convergerebbe in questi giorni sulla Turchia: ai manifestanti Erdogan intimava di lasciare l’area del parco Gezi entro 24 ore, ma di fronte alla loro resistenza il 14 giugno si impegnava a sospendere l’opera delle ruspe fino ad una definitiva decisione giudiziaria, nonché a indire il promesso referendum cittadino anche in caso di via libera da parte dei tribunali al progetto edilizio.
Mentre i manifestanti ignoravano in tutto il paese le intimazioni del governo, e nella capitale Ankara si svolgeva un primo grande raduno a sostegno del premier, nella serata del 15 giugno Erdogan rompeva gli indugi, ordinando a Istanbul la rimozione delle postazioni dei dimostranti nel parco Gezi, che le forze dell’ordine eseguivano con grande spiegamento di mezzi e provocando numerosi feriti. L’azione della polizia provocava lo spostamento dei manifestanti sui viali di accesso alla piazza Taksim e nel parco Kugulu, con prolungati scontri, mentre veniva indetta una grande manifestazione per il giorno successivo, in concomitanza con il previsto raduno dei seguaci di Erdogan a Istanbul.
La veemenza dell’azione della polizia nel parco Gezi, dove sarebbero stati feriti anche alcuni bambini, scatenava la durissima reazione dell’opposizione di sinistra, il cui leader parlamentare Kilicdaroglu giungeva a parlare di crimine contro l’umanità e ad accusare Erdogan di aspirazioni dittatoriali. La polizia veniva anche accusata tra l’altro di aver mescolato all’acqua degli idranti un agente chimico gravemente irritante, il Jenix, e in tutto il paese ricominciano le dimostrazioni di protesta con l’utilizzo di pentole ed il suono di clacson.
Il 16 giugno riprendevano gli scontri tra i manifestanti che convergevano verso il centro di Istanbul e la polizia in assetto antisommossa, mentre due grandi sindacati di sinistra, il Kesk e il Disk, proclamavano lo sciopero generale a partire dal 17 giugno. Nella stessa giornata del 16 giugno Istanbul vedeva lo svolgimento di una grande manifestazione di sostenitori di Erdogan, il quale nel comizio spiegava i motivi della decisione di intervenire nel parco Gezi, tornando ad inveire contro il complotto internazionale politico e finanziario, e minacciando chiunque abbia solidarizzato con le proteste. Nella giornata del 17 giugno, mentre proseguivano gli scontri in diversi focolai, si aveva notizia dell’arresto di un fotoreporter livornese freelance, Daniele Stefanini, coinvolto in qualche modo nei tumulti e percosso dalla polizia, che dopo un primo soccorso lo stratteneva in stato di fermo: la vicenda, anche per l’interessamento delle locali autorità consolari italiane, si risolveva rapidamente, e Stefanini poteva raggiungere Livorno già nella serata del 18 giugno. Anche altri otto giornalisti sono stati arrestati durante gli scontri dei giorni precedenti, come denunciato da Reporters sans Frontières, mentre più di venti sarebbero quelli feriti negli incidenti.
Lo sviluppo degli incidenti e le recise prese di posizione di Erdogan aprivano forti contrasti con il Parlamento e altre istituzioni europee, con il rinvio di appuntamenti già fissati. Una nuova forma di protesta, prendeva piede subito dopo la “pacificazione” di Istanbul – e mentre ad Ankara vi erano ancora tumulti -, con migliaia di persone le quali, imitando l’”Uomo in piedi” (il giovane coreografo Erdem Gunduz che domenica avena “lanciato” questa forma di protesta pacifica), sostavano anche per intere ore immobili e in silenzio nelle piazze, negli uffici e nelle strade di molte città della Turchia, in aperta sfida alla repressione in atto.