Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | Gli sviluppi della crisi in Darfur | ||
Serie: | Note di politica internazionale Numero: 8 | ||
Data: | 30/04/2013 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari |
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Gli sviluppi della crisi in Darfur
30 aprile 2013
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Il conflitto nel Darfur, scoppiato con violenza nel febbraio 2003 – ma sotto traccia già da tempo e mai del tutto risolto - è riconducibile prevalentemente a rivalità tra etnie che vedono opposti da un lato arabi, pastori tradizionalmente nomadi, e, dall'altro, tribù di neri africani, sedentari, agricoltori o allevatori.
Contrariamente a quanto accade nel resto del paese, dove al Nord prevale la religione musulmana e al Sud quella cristiano-animista, nel Darfur la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana.
I principali gruppi etnici non arabi nel Darfur sono i Fur – i più numerosi, che danno il nome alla regione (Darfur significa terra dei Fur) e - tra i quali prevale l'agricoltura stanziale e forme di artigianato; gli Zagawa, allevatori di greggi e di cammelli ma anche agricoltori; i Masalit, in prevalenza agricoltori.
Il conflitto nella regione del Darfur non è mai stato centrato unicamente sulla competizione tra pastori e allevatori per il controllo del territorio, tesi questa da sempre sostenuta dal governo sudanese, appoggiato dalle etnie arabe. Al centro del conflitto, secondo i leader delle tribù non arabe, si pone invece una precisa strategia governativa diretta ad "arabizzare" l'intera regione, con lo spopolamento dei villaggi e il conseguente trasferimento dei terreni nelle mani dei pastori nomadi.
I feroci attacchi contro la popolazione civile erano infatti condotti dai Janjaweed, i "diavoli a cavallo", di origine e di lingua araba, reclutati fra i membri delle locali tribù nomadi dei Baggara.
Oltre alle brutali repressioni, le tribù non arabe denunciavano una loro marginalizzazione da parte del governo, rivendicando sia una presenza nell'economia del paese, sia uno spazio di negoziazione di accordi per l'autodeterminazione; per tali ragioni queste tribù hanno dato vita ad organizzazioni per l'autodifesa, prima fra tutte il Darfur Liberation Front, divenuto nel 2003 il Sudan Liberation Movement e Sudan Liberation Army (SLM/SLA), ed il Justice for Equality Movement (JEM).
Gli attori del conflitto
I due gruppi (SLM/A e JEM) hanno origini e presupposti ideologici alquanto differenti.
La nascita dell'SLM/A affonda le radici nei tumulti che attraversarono il Darfur nel 1989. Nel 1987, dopo una carestia devastante, fu creata un'alleanza araba - che ricevette incoraggiamenti ufficiali – che aveva l'obiettivo di contrastare la presenza delle comunità di agricoltori africani formate da Fur, Zagawa e Masalit. In quell'occasione il governo sudanese cominciò a fornire armi agli arabi, ordinando al contempo il disarmo degli africani neri. L'SLA fece le sue prime reclute tra i gruppi che i Fur avevano creato per la propria autodifesa, mentre gli Zagawa entrarono a far parte della milizia solo più tardi. I leader Fur sostenevano l'idea di un "Nuovo Sudan" democratico e decentrato, e vedevano la propria ribellione come essenzialmente antigovernativa. La maggior parte degli Zaghawa, invece, si erano organizzati militarmente per combattere non tanto il governo quanto le milizie arabe con le quali erano in competizione nel nord Darfur su una serie di interessi, ad esempio il commercio di cammelli.
In una Dichiarazione politica del 14 marzo 2003, firmata da Minni Arkou Minnawi, leader di etnia Zaghawa, allora segretario generale dell'SLM/A, il governo di Khartoum venne accusato di incoraggiare "la pulizia etnica e il genocidio" in Darfur e di strumentalizzare a tale scopo alcune tribù arabe, costringendo la popolazione ad organizzarsi politicamente e militarmente per garantirsi la sopravvivenza. Lungi dal proclamare propositi secessionisti (che erano invece alla base del Darfur Liberation Front), la Dichiarazione affermava la fondamentale importanza dell'unità del Sudan che avrebbe dovuto poggiarsi sul riconoscimento e l'accettazione delle diversità etniche, culturali, sociali e politiche. La lotta armata veniva considerata solo uno dei mezzi a disposizione dell'SLM/A, che dichiarava di voler raggiungere accordi con le forze di opposizione (politiche o armate) per rovesciare il regime dittatoriale. L'SLM/A era sostenuto dall'Eritrea.
La diversa composizione etnica ha portato in seguito ad una divisione dell'organizzazione dalla quale sono emerse due componenti: la fazione Fur, guidata da Abdel Wahid, con un largo consenso tra i rifugiati nei campi profughi della regioni delle montagne Jebel Marra, contraria a colloqui di pace senza il disarmo delle milizie Janjaweed; la fazione Zaghawa, minoritaria, guidata da Minni Minnawi, l'unica che ha firmato l'accordo di Abuja del 2006 (v. infra); nel 2010, tuttavia, Minnawi si è ritirato dall'accordo di pace e la sua formazione si è nuovamente unita a quella di Wahid e alle altre forze in campo per resistere agli attacchi delle Forze armate sudanesi nelle aree controllate dai ribelli.
Il Justice and Equality Movement (JEM) è stato fondato da musulmani del Darfur sostenitori del leader integralista Hassan al-Turabi. Al-Turabi, protagonista insieme al presidente al-Bashir del golpe del 1989 che rovesciò il governo di Sadeq al-Mahdi (regolarmente eletto), nel 1999 venne imprigionato con il sospetto di avere cospirato proprio contro al-Bashir.
Il leader di Jem, Khalil Ibrahim Muhammad, è uno dei seguaci di al-Turabi ed è anche noto per aver pubblicato nel 2000 un libro intitolato "The Black Book" nel quale accusa le tribù nilotiche arabe di avere una rappresentanza sproporzionata in tutte le posizioni-chiave del potere governativo e nell'amministrazione del paese.
Il 23 febbraio 2010, a Doha, è stato siglato un accordo di cessate il fuoco tra il governo di Khartum ed il JEM, che ha aperto la strada a negoziati per la conclusione di un accordo di pace non ancora raggiunto tra le due parti. Il Jem è stato anzi accusato dal governo del Sudan di appoggiare l'esercito Sud sudanese nel corso del conflitto tra i due Sudan del 2012 (originato dalla mancata definizione dei confini tra i due paesi e dai contrasti sulla questione della spartizione dei proventi del petrolio).
L'intervento delle Nazioni Unite
Con la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU 1564 del 14 settembre 2004 è stata decisa la creazione di una Commissione di inchiesta, presieduta da Antonio Cassese, con il compito di indagare sulle denunce di violazione di diritti umani e di determinare se fosse o meno ravvisabile l'ipotesi di genocidio, identificando eventualmente i responsabili di tali crimini.
All'inizio del 2003 l'SLM/A (raggiunto poi anche dal Jem) aveva iniziato una serie di attacchi contro obiettivi governativi per protestare contro la passività del governo sudanese nel proteggere le famiglie degli agricoltori del Darfur vittime di scontri tribali. La risposta del governo fu caratterizzata da uno spropositato uso della forza, anche con bombardamenti aerei su città e villaggi. Contestualmente cominciarono ad operare le milizie locali dei Janjaweed, che si resero responsabili di feroci attacchi contro la popolazione civile.
Nel suo primo rapporto (1° febbraio 2005) la Commissione di inchiesta stimava l'esistenza di 1,65 milioni di sfollati interni e di 200.000 rifugiati in Ciad, e testimoniava della distruzione su vasta scala di villaggi in tutti e tre gli Stati che compongono il Darfur.
La Commissione concludeva però che il Governo del Sudan non stava perseguendo una politica di genocidio, nonostante la violazione di diritti umani perpetrata dalle sue truppe e dalle milizie sotto il suo controllo.
Nonostante la firma dell'accordo di cessate-il-fuoco di N'djamena (aprile 2004) e il dispiegamento della missione di peacekeeping dell'Unione Africana, AMIS, gli attacchi e le violenze sui civili (uccisioni, distruzione di case e villaggi, stupri di massa, torture - come riferito anche da Human Rights Watch -, sono continuate a lungo. Nel marzo 2005 il Consiglio di sicurezza dell'ONU decise di deferire la situazione del Darfur alla Corte Penale Internazionale che, in seguito, ha emesso i mandati di arresto per il ministro Ahmed Harun e il comandante Janjaweed Ali Kushayb, dei quali il governo del Sudan ha sempre rifiutato la consegna.
Nonostante la disponibilità delle Nazioni Unite, il governo del Sudan ha inizialmente opposto un diniego all'accoglimento nel Darfur di una missione di pace condotta dall'ONU, così come ha a lungo vietato l'ingresso ad organizzazioni umanitarie nella regione.
Il 5 maggio 2006 ad Abuja (Nigeria) è stato raggiunto un accordo (Darfur Peace Agreement - DPA), con la mediazione dell'Unione africana, tra il Governo sudanese e la fazione dell'SLM/A di Minni Minnawi. Il punto debole dell'accordo, che ne ha in seguito rivelato tutta la fragilità, stava però proprio nella mancanza di assenso degli altri due movimenti della guerriglia: Abdel Wahid chiedeva una maggiore partecipazione dell'SLM/A nell'attuazione degli accordi sulla sicurezza, oltre a mostrare insoddisfazione per le previsioni del DPA circa la rappresentanza politica e il fondo per le ricompense alle vittime; il Jem sosteneva che i protocolli sulla ripartizione del potere e della ricchezza avrebbero mantenuto la situazione di sostanziale iniquità che aveva dato origine alle ribellioni del 2003.
Il 31 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato la risoluzione 1706, che prevedeva l'espansione della consistenza e del mandato della UNMIS, inizialmente (marzo 2005) insediata per il monitoraggio sul rispetto dell'Accordo di pace globale tra il governo sudanese e il movimento di liberazione del sud del Paese guidato da John Garang. L'espansione del mandato della UNMIS aveva lo scopo di assicurare anche nel Darfur una presenza internazionale quanto mai necessaria. La risoluzione precisava tuttavia che le truppe (fino a 22.500 uomini) non sarebbero state dislocate senza un esplicito assenso da parte del governo di Khartoum (il mandato di UNMIS è stato da ultimo esteso al 9 luglio 2011 dalla risoluzione del CdS n. 1978 del 27 aprile 2011).
Un peggioramento della situazione si è verificato verso la fine del 2006 quando, nella corsa all'accaparramento delle terre, si sono moltiplicati gli attacchi ai civili e ai cooperanti. Il 2006 segna peraltro anche l'inizio di sanguinose incursioni dei Janjaweed nel confinante Ciad a danno non solo dei rifugiati, ma anche di cittadini ciadiani appartenenti alle medesime etnie.
Dopo mesi di violenze (tra truppe governative e ribelli, ma anche tra diversi gruppi di ribelli) il governo di Khartum ha accettato il dispiegamento in Darfur di una forza ibrida AU/UN (UNAMID), autorizzata dal CdS con la risoluzione 1769 del 31 luglio 2007. Il mandato è rinnovato annualmente: da ultimo, la risoluzione 2063 del 2012 lo ha prorogato al 31 luglio 2013.
Occorre tuttavia considerare che il contingente di UNAMID – che prevedeva una forza di 26.000 uomini, prevalentemente africani – non è mai stato interamente schierato, a causa dell'indisponibilità di alcuni dei paesi contributori. Il personale militare di UNAMID, ammontava a circa 20.800 unità nel mese di febbraio 2013. La risoluzione 2063/2012 ha deciso un ridimensionamento della forza per i prossimi 12-18 mesi: 16.200 militari (contro i 26.000 decisi inizialmente) e 2.310 unità di polizia.
Il ruolo della Corte penale Internazionale
Dal 2005 la Corte penale internazionale indaga sui crimini nel conflitto del Darfur, a seguito della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu 1593/2005 che ha deferito la situazione al Procuratore generale della Corte.
Nel mese di luglio 2008, il Procuratore generale Luis Moreno Ocampo, ha fatto richiesta di arresto del Presidente sudanese Bashir con le accuse di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità commessi in Darfur. Il 4 marzo dell'anno successivo la Corte penale internazionale ha accolto la richiesta di mandato d'arresto per crimini di guerra nel Darfur, escludendo però l'accusa di genocidio. In seguito all'accoglimento di un ricorso del procuratore Ocampo, il 12 luglio 2010 è stato emesso un secondo mandato di cattura nel quale compaiono nuovamente le accuse di genocidio.
Oltre a quello per il presidente Bashir, la Corte ha emesso mandati di cattura per Ahmad Muhammad Harun, che aveva ricoperto le cariche di ministro dell'interno e di ministro per gli affari umanitari; Ali Kushayb, presunto leader dei Janjaweed; Abdel Raheem Muhammad Hussein, ministro della Difesa nazionale in carica.
Sono inoltre comparsi dinanzi alla Corte Abdallah Banda Abakaer Nourain e Saleh Mohammed Jerbo Jamus, rispettivamente comandante in capo del Jem ed ex capo di stato maggiore dell'SLA, poi passato al Jem, sui quali pendono 3 capi d'accusa riguardanti crimini di guerra. Il loro processo è previsto che inizi il 5 maggio 2014.
Gli sviluppi più recenti
Nel corso degli ultimi due anni, la questione del Darfur ha perso visibilità internazionale per lasciare il posto all'altra vicenda che ha attraversato e ancora interessa la regione: il referendum che ha decretato l'indipendenza del Sudan meridionale e gli scontri tra il Sudan e il nuovo stato.
Mentre sono continuate le ostilità tra il Governo del Sudan e: 1) il Sudan Liberation Army, Minni Minawi Faction (SLA/MM); 2) il Sudan Liberation Army, Abdul Wahid faction (SLA/AW); e 3) il Jem (Justice and Equality Movement), dopo mesi di negoziati, il 14 luglio 2011 a Doha è stato firmato un accordo di pace tra il governo sudanese e il Mjl (Movimento per la giustizia e la liberazione) che prevede l'adozione del Documento di Doha (Doha Document for Peace in Darfur - DDPD) come base per lo sviluppo del processo di pace.
L'accordo, firmato cinque giorni dopo la proclamazione dell'indipendenza del Sud Sudan, prevede tra l'altro, meccanismi di integrazione dei ribelli e la loro partecipazione politica a livello del governo centrale e nelle istituzioni regionali. L'accordo di Doha era sostenuto anche dalla Lega araba, dall'Unione africana, dall'Etiopia e dalla Organizzazione della Conferenza Islamica.
All'accordo non avevano però aderito i due gruppi di ribelli più rilevanti, il Jem e il Sudan Liberation Army (nelle due componenti SLA-AW e SLA-MM che fanno capo, rispettivamente, ad Abdel Wahid e a Minni Minnawi). Il Jem, in particolare, che aveva condotto colloqui con il governo sudanese nei mesi precedenti, aveva rifiutato l'accordo in quanto le compensazioni e il meccanismo di implementazione dell'accordo di pace non offrivano sufficienti garanzie.
Il DDPD ha disposto tra l'altro la creazione di due nuovi stati nel Darfur: il Darfur orientale e quello centrale, creati con decreto nel 2012, cosicché ora il Darfur è formato di cinque stati. L'assegnazione delle nuove cariche di governatore e la sostituzione di alcuni dei governatori degli stati già esistenti è stato ulteriore motivo di scontento fra i ribelli che, per voce di Minni Minawi, hanno ribadito che la deposizione delle armi potrà avvenire solo dopo la caduta di Bashir.
Solo di recente, il 6 aprile 2013, una componente del Jem guidata da Mohamed Bashar (Jem-Bashar, nata da una scissione del Jem nel settembre 2012) ha sottoscritto l'accordo di Doha.
Il 7 e l'8 aprile 2013 si è svolta a Doha una conferenza internazionale di donatori sullo sviluppo del Darfur, devastato da dieci anni di guerra, che ha visto la partecipazione di centinaia di esponenti di vari governi, esperti Onu e rappresentanti di organizzazioni non governative. Il Qatar, che ha ospitato la conferenza, ha promesso aiuti per 500 milioni di dollari; complessivamente i fondi promessi ammontano a 3,6 miliardi di dollari.
La conferenza è stata contestata dai principali gruppi di ribelli del Darfur, e in particolare da Abdel Wahid Mohammed Al Nour, leader di una fazione del Sudan Liberation Movement (SLM/AW) e da Jibril Adam Bilal, leader del Jem.
La conferenza di Doha fa seguito all'accordo di pace del 14 luglio 2011 tra il governo sudanese e il MIL (Mouvement pour la Justice et la Liberté).
L'emergenza umanitaria
E' difficile calcolare esattamente le conseguenze della crisi: secondo alcune fonti (Nazioni Unite) avrebbe prodotto circa 2,7 milioni di sfollati e rifugiati (in particolare nel Ciad, dove si contano circa mezzo milione di rifugiati), nonché tra le 180.000 e le 300.000 vittime; la maggior parte delle ONG stima invece un numero totale di morti vicino ai 400.000, su una popolazione calcolata allora in circa 6 milioni di persone. Secondo il governo sudanese, invece, il conflitto del Darfur sarebbe terminato e avrebbe prodotto "solo" 10.000 morti.
Secondo un rapporto dell'Onu (Sudan - United Nations and Partners Work Plan 2013), vi sono in Darfur circa 3,4 milioni di persone che dipendono dagli aiuti umanitari (su una popolazione calcolata oggi in 7,5 milioni di individui): di questi, 1, 4 milioni vivono nei campi profughi. Solo 200.000 persone hanno potuto fare ritorno alle proprie case negli ultimi due anni. Il coordinamento degli aiuti umanitari è affidato all'OCHA (United Nations Office for the coordination of humanitarian affairs).
Human Rights Watch riferisce che vaste aree del Darfur sono tuttora interdette ai peacekeepers di UNAMID e agli operatori umanitari. Nonostante le affermazioni del governo sudanese, il permanere di questa situazione è dovuto in gran parte alle restrizioni poste dalle stesse autorità governative, particolarmente a seguito del mandato di arresto spiccato contro il presidente Bashir.
I combattimenti iniziati il 6 aprile tra l'esercito sudanese e il Sudan Liberation Army – Minni Minawi (SLA-MM) a Muhajeria e Labado (Darfur orientale) ha causato lo sfollamento di circa 40.000 persone. Muhajeria, secondo alcune agenzie presenti sul posto, sarebbe stata completamente abbandonata dai suoi abitanti. La maggior parte degli sfollati sono stati temporaneamente ospitati in due sedi di UNAMID, la missione congiunta Unione Africana e Onu in Darfur.
Il Rapporto 2012 di Amnesty International rende noto che nel corso di tutto lo scorso anno, "in tutto il Darfur sono rimaste diffuse le violazioni dei diritti umani. Gli attacchi comprendevano bombardamenti aerei da parte delle forze governative, compresa la polizia riservista centrale, la forza di difesa popolare (Popular Defense Force – Pdf) e le milizie alleate del governo, così come attacchi da terra da parte di gruppi armati di opposizione all'interno e nelle vicinanze di città e villaggi, compresi i campi per sfollati interni". Anche Amnesty International riferisce delle restrizioni all'accesso imposte ad Unamid e alle organizzazioni umanitarie.