Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Ufficio Rapporti con l'Unione Europea | ||||
Titolo: | Riunione della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo "Verso il vertice NATO di Varsavia" e "Conflitti nella regione MENA" - Bruxelles, 23 febbraio 2016 | ||||
Serie: | Documentazione per le Commissioni - Riunioni interparlamentari Numero: 54 | ||||
Data: | 19/02/2016 | ||||
Descrittori: |
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Documentazione per le Commissioni
ESAME DI ATTI E DOCUMENTI DELL’UE
Riunione della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo
"Verso il vertice NATO di Varsavia" e "Conflitti nella regione MENA"
Bruxelles, 23 febbraio 2016
Senato della Repubblica Servizio Studi Dossier europei n. 21 |
Camera dei deputati Ufficio Rapporti con l’Unione europea n. 54 |
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Dossier europei n. 21
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INDICE
Ordine del giorno 3
VERSO IL VERTICE NATO DI VARSAVIA
La NATO in vista del Vertice di Varsavia (a cura del MAE)
Relazioni NATO - Russia: ultimi sviluppi (a cura del MAE)
L’evoluzione del quadro libico (a cura del Servizio Studi della Camera)
I più recenti sviluppi della crisi siriana (a cura del Servizio Studi della Camera)
La questione israelo-palestinese: recenti sviluppi (a cura del Servizio Studi della Camera)
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2014 - 2019 |
Committee on Foreign Affairs
INTERPARLIAMENTARY COMMITTEE MEETING
IN PRESENCE OF NATIONAL PARLIAMENTS
On "Toward the NATO Summit in Warsaw" and
"Conflicts in the MENA region"
Tuesday,
23 February 2016,
11:30 to 18:30 pm
European Parliament
Brussels — József Antall Building, room JAN 2Q2
Draft agenda
11.30 - 12.30 Exchange of views with VP/HR Ms Federica Mogherini
12.30 - 14.00 Working lunch with the participation of the UN Special Representative for Libya, Mr Martin Kobler (Committee chairs only)
Buffet lunch (for the other members of the delegations)
15.00 - 16.00 Exchange of views with Mr Nabih Berri, Speaker of the Lebanese Parliament
16.00 - 17.30 Exchange of views with the Secretary-General of NATO, Mr Jens Stoltenberg
(in association with the Subcommittee on Security and Defence and with the Delegation for Relations with the NATO Parliamentary Assembly)
17.30 - 18.30 Exchange of views with the UN Special Representative for Libya, Mr Martin Kobler
1. Evoluzione dei rapporti UE-NATO
I rapporti tra UE e NATO sono contrassegnati, da più di quindici anni, da un percorso di avvicinamento reciproco, tanto in termini di membership (22 membri comuni) quanto a livello di condivisione di obiettivi strategici e di funzioni e potenziale raggio d'azione. Le organizzazioni svolgono ruoli complementari e di reciproco sostegno per la tutela della pace e della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
L'istituzionalizzazione
delle relazioni tra UE e NATO è stata avviata nel 2001, in larga parte a
seguito della crisi dei Balcani, che rese manifesta l'urgenza per l'UE di
dotarsi di un'autonoma capacità logistica per la gestione delle situazioni di
crisi, portando all'avvio della riflessione per la creazione di una politica
comune di sicurezza e difesa (PESD, oggi PSDC). In occasione del Consiglio europeo di Helsinki
del 1999 vennero definiti degli obiettivi - Headline Goals - per
dotare l'Unione di capacità militari credibili con cui attuare le missioni di
Petersberg: vale a dire, missioni umanitarie o di evacuazione, missioni intese
al mantenimento della pace, nonché missioni costituite da forze di
combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino
della pace.
La NATO a sua volta, in occasione del Summit di Washington dell'aprile 1999, aveva manifestato la propria disponibilità a rendere fruibili le risorse strategiche dell'Alleanza per operazioni a guida UE, anche in contesti per i quali la competenza NATO non sarebbe prevista.
La partnership
operativa tra UE e NATO è stata confermata in una dichiarazione congiunta sulla
PESD (del dicembre 2002) per poi venire formalizzata nel marzo 2003 con gli Accordi Berlin Plus, che
consentono all'Unione europea di accedere alle capacità di pianificazione e di
comando della NATO e di utilizzarne i mezzi per realizzare missioni di gestione
delle crisi, e che sono stati attivati nello stesso 2003 in Macedonia
(Operazione Concordia) e l'anno successivo in Bosnia (Operazione Eufor
Althea).
Sotto il profilo istituzionale, la partnership si concretizza in una intelaiatura organizzativa leggera, che si articola in due incontri annuali a livello di Ministri degli esteri e in tre incontri NAC-COPS, riunioni congiunte per ogni turno semestrale di Presidenza dell'UE degli Ambasciatori accreditati rispettivamente presso il Consiglio Atlantico e il Comitato Politico e di Sicurezza dell'UE, nonché in eventuali incontri dei Comitati militari delle due istituzioni e in riunioni periodiche di taluni organi sussidiari.
Il riparto
delle competenze nell'ambito degli accordi è improntato al criterio della
flessibilità. Viene
data per acquisita - in base alla cd. presumption of availability - la
disponibilità a favore dell'UE di capacità e assetti comuni preidentificati
della NATO, a fini di impiego in operazioni a guida UE nelle quali la
NATO stessa non sia direttamente impegnata. A garanzia del coordinamento tra le
due organizzazioni, al Deputy Supreme Allied Commander Europe
(D-SACEUR), parte integrante dello staff militare della NATO, vengono
attribuite funzioni di supervisione su tali operazioni.
2. Gli ultimi sviluppi sul versante NATO
Il nuovo Concetto strategico della NATO, approvato
in occasione del Vertice
di Lisbona del novembre 2010, ha fatto del rilancio dei rapporti con
l'Unione europea un pilastro dell'azione dell'Alleanza atlantica per il
decennio successivo. Vi si stabilisce chiaramente, infatti, che un'UE attiva ed
efficiente contribuisce alla sicurezza globale dell'area euro-atlantica.
L'obiettivo di una più stretta cooperazione tra le due organizzazioni va
perseguito attraverso:
- Il rafforzamento della partnership strategica tra NATO e UE, nello spirito di una piena reciproca apertura, trasparenza, complementarietà e rispetto per l'autonomia e l'integrità istituzionale di entrambe;
- Il miglioramento della cooperazione pratica nelle operazioni, attraverso tutto lo spettro delle crisi, dal coordinamento in sede di pianificazione al supporto reciproco sul campo;
- Un'estensione delle consultazioni politiche così da includere tutte le questioni di comune interesse e approdare a una piena condivisione di decisioni e prospettive;
- Una più completa cooperazione nello sviluppo delle capacità, per minimizzare le duplicazioni e massimizzare l'efficienza in termini di costi.
In tale contesto, una stretta cooperazione tra NATO e UE si pone come ulteriore tassello per lo sviluppo di un comprehensive approach, un approccio globale internazionale alla gestione delle crisi (principio ribadito dal Vertice di Chicago del 2012) che richiede l'applicazione effettiva sia di strumenti militari che civili (come nel caso dell'Afghanistan, dove il contributo dell'UE alla missione ISAF è finalizzato soprattutto al rafforzamento della statualità).
In linea con gli orientamenti espressi a Lisbona e
confermati a Chicago, le Conclusioni
del Vertice di Newport del 2014 hanno ribadito che gli sforzi
della NATO e dell'UE tesi al rafforzamento delle capacità di difesa sono
complementari e che la NATO continuerà a lavorare a stretto contatto con l'UE per far sì che l'iniziativa Smart
Defense e quella dell'UE denominata Pooling and Sharing siano
complementari e di reciproco sostegno e per sostenere lo sviluppo delle
capacità e dell'interoperabilità nell'ottica di evitare inutili duplicazioni e
di massimizzare il rapporto costi-benefici. Nelle
Conclusioni viene inoltre confermato e rilanciato l'impegno a lavorare fianco a
fianco nelle operazioni di gestione delle crisi e ad allargare le consultazioni
politiche (già estese a sfide alla sicurezza come la minaccia cibernetica, la
proliferazione delle armi di distruzione di massa, la lotta al terrorismo e la
sicurezza energetica) ad altre aree quali la sicurezza marittima, la
difesa e capacity building in materia di sicurezza e le minacce ibride.
3. Gli ultimi sviluppi sul versante UE
Sul versante dell'Unione europea, l'evoluzione e il rafforzamento dei rapporti con la NATO appaiono legati a doppio filo:
- Da un lato, all'evoluzione della riflessione sulla nuova PSDC, in base al mandato e alle linee d'azione tracciate dal Consiglio europeo di dicembre 2013;
- Dall'altro, all'esito dei lavori in vista della definizione della nuova Strategia di sicurezza dell'Unione, annunciata per il prossimo mese di giugno.
a.
Le iniziative per il rilancio
della PSDC: evoluzione e stato dell'arte
Il Consiglio europeo di dicembre 2013, a conclusione di un processo avviato dalla comunicazione della Commissione "Verso un settore delle difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente (COM (2013) 542), ha adottato un quadro di azioni e iniziative volte a rilanciare la PSDC suddiviso in tre grandi clusters:
- Aumento dell'efficacia, della visibilità e dell'impatto della PSDC;
- Potenziamento dello sviluppo delle capacità militari;
- Rafforzamento dell'industria europea della difesa.
Tale quadro,
esplicitato in una specifica roadmap, è entrato in fase attuativa a
partire dal 2014; il Consiglio europeo si era altresì impegnato a valutare i
progressi concreti su ciascuno dei clusters nel giugno 2015. Sulla roadmap
la Commissione ha presentato una relazione nel giugno 2014 (COM (2014)
387), soffermandosi in particolare sui seguenti obiettivi:
- Un mercato interno della difesa in cui le imprese europee possano operare liberamente e senza discriminazioni in tutti gli Stati membri;
- Una condizione di sicurezza dell'approvvigionamento su tutto il territorio dell'Unione, che dia alle forze armate la certezza di ricevere forniture sufficienti in ogni circostanza, a prescindere dallo Stato membro in cui ha sede il fornitore;
- Un'azione preparatoria sulla ricerca connessa con la PSDC, per esplorare le potenzialità di un programma di ricerca europeo che in futuro possa riguardare sia la sicurezza che la difesa;
- Una politica industriale che favorisca la competitività delle industrie europee.
Al processo
di preparazione del Consiglio europeo di giugno 2015 ha contribuito in primo
luogo il Consiglio dell'UE, che, nella sua formazione "Difesa", ha
adottato specifiche
conclusioni il 18 novembre 2014 e il 18 maggio 2015. Tra i temi
e gli spunti emersi dai lavori del Consiglio si segnalano:
- La necessità di aumentare l'efficacia della PSDC ricorrendo a una cooperazione e un coordinamento sistematici tra Istituzioni e Stati membri e a un uso coerente ed efficace degli strumenti e delle politiche dell'Unione, e di potenziare lo sviluppo e/o il mantenimento delle capacità di difesa degli Stati membri, avvalendosi di una base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB) più integrata, sostenibile, innovativa e competitiva;
- L'importanza della cooperazione con i partner, in particolare ONU, NATO, OSCE e Unione Africana, nonché con i partner strategici e i paesi del Vicinato;
- Un rinnovato impegno nel perseguimento di talune misure particolarmente urgenti, dal piano d'azione per l'attuazione della strategia di sicurezza marittima al rafforzamento del coordinamento tra sicurezza interna ed esterna (attraverso una maggior cooperazione con gli attori dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia);
- L'invito all'Alta Rappresentante a presentare un quadro congiunto inclusivo di proposte immediatamente realizzabili e che contribuisca ad affrontare le minacce ibride.
Molte delle
considerazioni svolte in sede di Consiglio Difesa sono state fatte proprie e
ribadite - con toni più critici - dal Parlamento europeo, che, nella sua
risoluzione del 21 maggio 2015 sull'attuazione della PSDC ha espresso il
proprio rammarico per il fatto che lo slancio politico impresso nel 2013 non
abbia portato a un rafforzamento della cooperazione né all'attuazione effettiva
e rapida "di misure pratiche commisurate ai livelli dichiarati di
ambizione", e per
i continui problemi in termini di costruzione della forza registrati in
occasione dell'avvio delle missioni militari, che, ad
eccezione dell'EUTM Mali, non hanno mai coinvolto più di sei Stati membri.
Il Parlamento europeo si è soffermato in particolare sugli effetti della crisi economica e finanziaria del 2008, sottolineando come essi abbiano comportato una riduzione delle spese nazionali per la difesa e come i tagli siano stati operati senza il minimo coordinamento tra gli Stati membri, mettendo a repentaglio l'autonomia strategica dell'Unione e la capacità degli Stati membri di far fronte al fabbisogno di capacità delle loro forze armate. Nel sottolineare l'importanza di stabilire una pianificazione preventiva per gli investimenti strategici nell'acquisto e nel rinnovamento di materiali tra gli Stati membri, il Parlamento europeo ha comunque invitato l'Unione perché incoraggi gli Stati membri "a conseguire gli obiettivi di capacità della NATO, che richiedono una spesa di difesa minima del 2% del PIL, e la destinazione di almeno il 20% della spesa di difesa alle principali esigenze in materia di equipaggiamenti, ivi compresi ricerca e sviluppo".
Tra i
contributi in vista del Consiglio europeo di giugno 2015 va menzionata altresì
la relazione,
presentata dall'Alta Rappresentante l'8 maggio 2015, sulle iniziative in corso
per aumentare l'efficacia, l'impatto e la visibilità della PSDC, che
include il seguente ventaglio di valutazioni e proposte:
- Le missioni e le operazioni in ambito PSDC costituiscono la parte più concreta e visibile dell'azione dell'UE, ma esse sono efficaci se gli Stati membri vi destinano le risorse necessarie e se sono basate su una forte volontà politica e su chiari mandati e obiettivi;
- È fondamentale, a lungo termine, rafforzare la capacità dei paesi partner e delle organizzazioni regionali di assumere direttamente le responsabilità per la prevenzione e gestione delle crisi;
- L'UE deve ulteriormente ampliare i partenariati in ambito PSDC, in particolare attraverso il dialogo politico e la partecipazione di Stati terzi alle sue missioni e operazioni;
- Il mutato contesto geostrategico fornisce uno stimolo ulteriore al rafforzamento della cooperazione tra l'UE e la NATO, in particolare per quanto riguarda gli strumenti di pianificazione, la sicurezza marittima, la cooperazione con gli Stati terzi, le minacce ibride, la comunicazione strategica, la cibersicurezza, le forze di intervento rapido;
- Occorre promuovere una cooperazione sistematica e a lungo termine tra gli Stati membri nel settore della difesa, che deve diventare la regola e non l'eccezione, sfruttando a pieno le disposizioni presenti nel Trattato di Lisbona.
Rispetto
all'intenso lavoro preparatorio svoltosi nel 2014 e nella prima metà del 2015,
le Conclusioni
del Consiglio europeo di giugno contengono una formulazione
assai stringata (e ritenuta da alcuni Stati membri e da molti osservatori ed
esperti un passo indietro significativo rispetto alle ambizioni di dicembre
2013).
Constatati i cambiamenti radicali nel contesto europeo della sicurezza, il Consiglio europeo rileva la necessità di concentrare gli interventi in tre settori:
- La prosecuzione dei lavori sulla rinnovata strategia di sicurezza interna dell'Unione, con priorità alla piena attuazione degli orientamenti in materia di lotta al terrorismo (secondo un processo che ha subito un'ulteriore accelerazione a seguito degli attentati di Parigi, sui quali si è integralmente concentrato il Consiglio Difesa di novembre);
- La continuazione, da parte dell'Alta Rappresentante, del processo di riflessione strategica al fine di preparare una strategia globale dell'UE in materia di politica estera e di sicurezza, in stretta cooperazione con gli Stati membri, da sottoporre al Consiglio europeo entro giugno 2016;
- La prosecuzione dei lavori verso una PSDC più efficace, visibile e orientata ai risultati.
In tema di PSDC, il Consiglio europeo ha ricordato la necessità:
- Che gli Stati membri destinino un livello sufficiente di spese per la difesa, puntando altresì a un utilizzo il più possibile efficace delle risorse;
- Che il bilancio dell'UE assicuri finanziamenti adeguati all'azione preparatoria sulla ricerca connessa alla PSDC, aprendo la strada a un eventuale futuro programma di ricerca e tecnologia nel settore della difesa;
- Di promuovere una cooperazione europea in materia di difesa rafforzata e più sistematica, al fine di creare le capacità chiave e ricorrendo anche a fondi dell'Unione;
- Di mobilitare tutti gli strumenti dell'UE che possano contribuire a contrastare le minacce ibride;
- Di intensificare i partenariati con ONU, NATO, OSCE e Unione Africana;
- Di mettere i partner in condizione di prevenire e gestire le crisi, anche attraverso concreti progetti di sviluppo di capacità in un ambito geografico flessibile.
Il Consiglio europeo di giugno ha infine espresso la determinazione a mantenere regolarmente la PSDC all'ordine del giorno dei suoi lavori.
b. Verso la nuova Strategia di sicurezza dell'Unione europea
Uno step significativo
sulla via della predisposizione della nuova Strategia di sicurezza dell'UE è
stato predisposto in occasione del Consiglio europeo del 25 e 26 giugno 2015,
con la presentazione del documento di riflessione The European Union in a changing
global environment. In esso l'Alta Rappresentante, dopo aver individuato
nella connettività
globale senza precedenti, nella complessità (legata al
tramonto dell'epoca del predominio di un singolo paese o di una singola area e
nell'emergere di nuove potenze) e nel sensibile aumento della conflittualità le
caratteristiche portanti dei nuovi scenari internazionali, individua cinque
grandi categorie di sfide e opportunità per l'Unione europea:
- Un nuovo impulso alla politica nei confronti dei paesi del vicinato, al fine di contrastare il declino del soft power esercitato dall'UE negli anni passati;
- Un ripensamento dell'approccio dell'UE verso i Paesi del Nord-Africa e del Medio Oriente;
- La ridefinizione del rapporto con l'Africa, attraverso un mix equilibrato di politiche per la sicurezza e per l'integrazione economica;
- Il rilancio dei partenariati tra le due sponde dell'Atlantico, da realizzare, in ambito NATO, attraverso un rafforzamento della cooperazione nella gestione delle crisi e nella lotta contro le minacce ibride;
- Una strategia bilanciata nei confronti dell'Asia, che massimizzi le opportunità economiche di relazioni rafforzate e consenta all'UE di collocarsi quale attore propositivo nella dimensione politica e di sicurezza della regione.
Per dare attuazione agli obiettivi sopra elencati, il documento di riflessione individua cinque ambiti nei quali occorre migliorare l'approccio dell'UE:
1. Dotare l'azione esterna di una più forte e chiara direzione politica, al fine di massimizzare l'influenza dell'UE;
2. Conferire maggiore flessibilità all'azione dell'Unione;
3. Promuovere maggiormente l'effetto leva nella dimensione esterna delle varie politiche dell'UE, con particolare riferimento alla politica commerciale e alla politica di vicinato;
4. Dotare l'azione dell'Unione di maggiore efficacia, tramite un più alto livello di coordinamento e coesione tra le istituzioni europee e tra i singoli Stati membri, con particolare riferimento alla politica europea di difesa, alla politica energetica con rilevanza esterna, alla cibersicurezza, alla politica di sviluppo;
5. Migliorare le capacità esterne dell'UE, in particolare per quanto riguarda le gestione dei fenomeni migratori, per i quali è necessario assegnare maggiori risorse alle agenzie e integrare la gestione delle dimensione interna delle migrazioni con quella esterna, e la PSDC, eliminando le attuali difficoltà nella generazione di capacità militare dell'UE, migliorando l'accesso a procedure per il finanziamento comune delle spese per le operazioni di gestione delle crisi, utilizzando le possibilità offerte dall'art. 44 del TUE in merito alla cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa e facendo maggiore ricorso ai Battlegroups.
4. Gli ultimi sviluppi: la riunione di dicembre dei Ministri degli esteri NATO a Bruxelles
In occasione della riunione dei Ministri degli Esteri della NATO tenutasi a Bruxelles il 1° e 2 dicembre 2015, il Segretario Generale della NATO, Stoltenberg, e l'Alta Rappresentante Mogherini hanno tenuto una Conferenza stampa congiunta nella quale sono tornati sul tema dello sviluppo e rafforzamento della cooperazione UE-NATO.
Dopo aver
sottolineato i progressi già realizzati, con particolare riferimento alla capacity building nel settore della difesa e al
supporto fornito congiuntamente ai paesi dei partenariati orientale e
meridionale, Stoltenberg e Mogherini, anche nella prospettiva del
Vertice NATO di Varsavia, hanno individuato tre aree nelle quali il potenziale
per un ulteriore sviluppo della cooperazione appare più promettente:
- Le modalità con le quali affrontare le minacce ibride, a partire dalla Strategia NATO in materia, approvata proprio durante la riunione dei Ministri degli Esteri di dicembre;
- Un impegno comune per sostenere gli sforzi dei partner in Europa, nel Medio Oriente e in Nordafrica, volti a garantire e rafforzare la rispettiva sicurezza interna;
- Lo sforzo per potenziare la capacità di difesa dei Paesi europei, dando seguito alla decisione del Vertice di Newport tesa a portare al 2% del PIL le spese nazionali per il settore e incoraggiando un processo già parzialmente avviato, visto che in diversi Stati membri dell'UE si è registrata un'inversione di tendenza, dai tagli a un rilancio, seppure prudente, degli investimenti.
Nel suo intervento, l'Alta Rappresentante si è soffermata sulle questioni connesse al Vicinato meridionale, con particolare riferimento alle situazioni in Libia e Siria e alla lotta contro il Da'esh; ha ricordato il successo significativo della cooperazione UE-NATO nei Balcani occidentali, in Afghanistan e nella lotta contro la pirateria sulla costa somala; ha sottolineato come, unitamente alla Commissione europea, stia predisponendo un quadro di misure contro le minacce ibride da sottoporre all'approvazione degli Stati membri; ha richiamato le Conclusioni del Consiglio europeo di giugno in tema di difesa e sviluppo di capabilities e posto l'accento sulla presentazione a giugno, poche settimane prima del Vertice di Varsavia, della nuova Strategia di sicurezza dell'Unione europea, all'interno della quale "il partenariato tra Unione e NATO reciterà un ruolo rilevante".
I Ministri della Difesa dei paesi della NATO si sono riuniti a Bruxelles per il Vertice ministeriale il 10 ed 11 febbraio 2016. Tra gli argomenti affrontati, oltre alla difesa collettiva della NATO e il suo potenziamento ai confini orientali, le misure da intraprendere per far fronte agli attacchi informatici, le situazioni in Afghanistan, Georgia e Siria, una particolare rilevanza è stata dedicata alla crisi dei migranti e dei rifugiati provenienti dal Vicino Oriente.
Il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha dichiarato al termine del Vertice che i Ministri hanno concordato che l'Alleanza contribuirà agli sforzi internazionali per fornire supporto alle attività di assistenza ai migranti e al contrasto al traffico di essere umani nel mare Egeo, al fine di fronteggiare quella che ha definito "la più grande crisi di migranti e rifugiati in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale".
La decisione è stata assunta su richiesta congiunta di Germania, Grecia e Turchia e all'indomani dei colloqui del 9 febbraio ad Ankara fra il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il primo ministro della Turchia, Ahmet Davutoglu, in cui è stata evocata la partecipazione della NATO alle operazioni di sorveglianza del mare. La visita del Cancelliere tedesco ha avuto l'obiettivo di definire il ruolo turco nella gestione dell'emergenza migratoria e si è svolta nel contesto del Piano d'azione tra Turchia e UE finalizzato a migliorare la cooperazione per il sostegno ai rifugiati siriani e alle comunità che li ospitano in Turchia e a impedire i flussi migratori irregolari verso l'UE. Il piano prevede lo stanziamento di 3 miliardi di euro in due anni a favore della Turchia.
Va ricordato che solo pochi giorni prima il governo turco aveva bloccato l'ingresso sul territorio nazionale a migliaia di profughi provenienti dalla Siria in seguito agli ultimi attacchi nella regione di Aleppo da parte delle forze siriane del presidente Bashar el-Assad contro i ribelli al regime.
Il 2° Gruppo marittimo permanente della NATO, che è attualmente dispiegato nella regione, verrà utilizzato per operazioni di riconoscimento, monitoraggio e sorveglianza dei transiti illegali nel mare Egeo, in diretto collegamento con Frontex, l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati UE. Il 2° Gruppo marittimo, che si è mosso immediatamente per dare avvio alla missione, è sotto comando tedesco e conta 5 unità navali basate a Cipro, ma diversi alleati, come ha dichiarato il Segretario generale, hanno già annunciato che forniranno ulteriori unità navali alla missione.
Il Segretario Generale ha sottolineato che la missione non è finalizzata a bloccare o a rimandare indietro le imbarcazioni dei rifugiati, ma a garantire informazioni rilevanti e sorveglianza per aiutare il contrasto al traffico di essere umani e alle reti criminali. Nell'accordo è previsto che la NATO coopererà strettamente con le guardie costiere nazionali e con l'Unione europea. Contestualmente è stato deciso dalla NATO di intensificare le attività di intelligence, sorveglianza e riconoscimento lungo il confine turco-siriano.
I dettagli della missione sono in via di definizione a cura delle autorità militari[1]. L'intervento della NATO nell'emergenza migratoria nel mare Egeo ha anche la funzione di rassicurare la Turchia che si è detta disponibile a riammettere sul proprio territorio i migranti che saranno recuperati dalle imbarcazioni dell'Alleanza. La missione mira anche a sostenere la Grecia che è sottoposta a una forte pressione di flussi di profughi sulle proprie isole. Alcuni commentatori hanno evidenziato quale implicazione strategica che l'intervento sulla questione migratoria della NATO avviene in una zona in cui la Russia è molto attiva.
Nel Vertice ministeriale è stato inoltre deciso, su richiesta degli Stati Uniti, di rafforzare il supporto della NATO alla Coalizione internazionale contro ISIS/DAESH. Saranno quindi utilizzati gli aerei di sorveglianza AWACS (Airborne Warning And Control System) della NATO per supportare le analoghe capacità nazionali. Una decisione che secondo la NATO aumenterà l'abilità della Coalizione di indebolire e distruggere il comune nemico terrorista.
L'Alleanza ha inoltre concordato sull'esigenza di rafforzare le attività di intelligence e sorveglianza necessarie a fronteggiare le "minacce ibride" che provengono da sud e da est. L'obiettivo è migliorare l'abilità a identificare e riconoscere le azioni ibride e a rispondere rapidamente agli attacchi che possono essere portati in diverse sfere quali la continuità del governo, le risorse energetiche, le risorse alimentari e idriche, le reti telematiche, il sistema dei trasporti. La NATO e l'Unione europea coopereranno più strettamente per contrastare le minacce ibride e supporteranno in questo ambito gli stati nazionali.
La posizione italiana. Secondo le dichiarazioni rilasciate alla stampa dal Ministro della Difesa Roberta Pinotti l'intervento dell'Alleanza "può venire incontro all'esigenza che la NATO abbia un impegno a Sud più forte", ma occorre che sia "un impegno ragionato e coordinato con le diverse esigenze dei paesi dell'Alleanza", e che, eventualmente, copra tutto il Mediterraneo.
Ricordando il contributo italiano alla missione della NATO Active Endeavour, il Ministro ha ricordato che "il Mediterraneo è ampio: c'è sicuramente la parte dell'Egeo, ma anche la parte più prospiciente all'Italia". All'inizio, ha osservato Pinotti, "quando abbiamo dovuto gestire la questione migratoria, lo abbiamo fatto per un po' affrontando solo a livello nazionale il peso della situazione", successivamente, ha ricordato il ministro della Difesa, "siamo riusciti a mobilitare l'Europa, con la missione EuNavFor Med dove l'impegno dell'Italia è molto elevato". "Nel lavoro che stiamo facendo tra NATO ed Europa - ha proseguito Pinotti - stiamo cercando di rendere sempre più coerente la nostra azione sulla sicurezza. Per questo ritengo che si possa interpellare la NATO, ma che ci voglia una coerenza con quelle che sono le decisioni che prendiamo a livello europeo".
Sul contrasto al traffico di esseri umani il Ministro italiano ha aggiunto: "Credo che la lotta agli scafisti sia unanimemente condivisa", ma, ha sottolineato, "dobbiamo armonizzare gli strumenti perché siano i più efficaci". "Ricordo - ha detto Pinotti - che per questo ci siamo impegnati tutti sulla missione europea EuNavFor Med, proprio per la lotta agli scafisti e ai trafficanti, in particolare per quanto riguarda le coste prospicienti alla Libia, ma non solo. Quindi credo che si tratti di ragionare e comunque di armonizzare e rendere coerenti le operazioni: bisogna - ha concluso il ministro- mettere insieme EuNavForMed e l'opera di Frontex, che si occupa del controllo e della gestione dei confini".
EUNAVFOR MED operation Sophia. L’operazione EuNavForMed operation Sophia è stata attivata in base alla decisione del Consiglio Europeo che, il 18 maggio 2015, ha stabilito uno sforzo sistematico al fine di catturare e distruggere le navi utilizzate dagli scafisti e trafficanti di uomini, al fine di evitare ulteriori perdite di vite umane nel Mediterraneo centro-meridionale.
L’Italia, nel contesto dell’Unione Europea, si è proposta come Nazione Leader dell’operazione che è condotta al livello strategico-operativo dal Quartier Generale Europeo Italiano (IT EU-OHQ), presso la sede del Comando Operativo di vertice Interforze (COI) - di Roma Centocelle -, sotto il comando dell’Ammiraglio di Divisione Enrico Credendino, Operation Commander (OpCdr).
I mezzi navali e aerei di EuNavForMed Sophia hanno raggiunto tutti gli obiettivi prefissati della prima fase, raccogliendo le informazioni necessarie a comprendere appieno il modus operandi dei trafficanti e contrabbandieri di esseri umani per essere pronti, una volta iniziata la seconda fase, a contrastare la loro attività in mare. Lo scorso 7 ottobre, EuNavForMed Sophia è ufficialmente entrata nella seconda fase, volta a interdire il network delle reti criminali associato al traffico e sfruttamento di migranti attraverso il Mediterraneo e ridurre il flusso migratorio via mare (a un livello tale da poter esser gestito con le capacità intrinseche degli stati costieri) in conformità al diritto internazionale applicabile, incluse la United Nations Convention of the Law of the Sea (UNCLOS) e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’operazione EuNavForMed Sophia potrà ora procedere a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in acque internazionali di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico o la tratta di esseri umani.
Lo scorso 26 ottobre l’Operazione ha ufficialmente assunto il nome di “EUNAVFOR MED, operazione Sophia” dal nome dato alla bambina nata sulla nave dell'operazione che ha salvato la madre il 22 agosto 2015 al largo delle coste libiche. All’operazione al momento aderiscono 22 nazioni europee (Italia, Belgio, Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Regno Unito, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria).
L'operazione EuNavForMed intende contribuire al contrasto al business dei trafficanti di uomini nel Mediterraneo nel quadro di un comprehensive approach dell'UE che include, sul fronte dell'azione esterna, le seguenti azioni:
- Rafforzamento della partnership con l'Unione Africana (in vista del summit di Malta in autunno) e con le organizzazioni regionali africane, con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, con l'Organizzazione internazionale per le Migrazioni e l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite;
- Sostegno dell'UE ai processi di Rabat e Khartoum;
- Accresciuta presenza dell'UE nel Mediterraneo, tramite le operazioni Triton e Poseidon di FRONTEX nel Mediterraneo;
- Accresciuto sostegno alla gestione dei confini nella regione, anche attraverso missioni PSDC, in particolare rafforzando EUCAP SAHEL Niger;
- Affrontare le cause remote (povertà, crisi e conflitti) anche tramite il miglioramento delle situazioni della sicurezza, umanitarie e dei diritti umani e delle condizioni socio-economiche nei Paesi di origine;
- Cooperazione con i Paesi di transito per il controllo dei flussi e per un contrasto efficace dei trafficanti;
- Costruzione di capacità
Missione Active Endeavour. L’Operazione Active Endeavour della NATO nasce nell’ottobre 2001 come missione di pattugliamento marittimo nel Mediterraneo per il contrasto al terrorismo, sostanzialmente con attività di ispezione di carichi sospetti. Nel corso degli anni, l’Operazione si è evoluta da platform-based (con navi permanentemente assegnate) a network-based (con navi che potevano essere di volta in volta attivate con l’assegnazione dei compiti previsti dalla missione). Di fronte all’evolversi delle minacce nel Mediterraneo, gli Alleati valuteranno la possibilità di un riesame del mandato dell’operazione, aggiungendovi anche compiti di situational awareness e conferendole la facoltà di interagire con altre operazioni navali nel Mediterraneo (ivi compresa, in teoria, EuNavForMed Sophia).
L’annessione da parte russa della Crimea e il conflitto nell’Ucraina Orientale hanno marcato un cambiamento dell’agenda della NATO, una revisione dei rapporti con la Federazione Russa e l’avvio di un processo di pianificazione militare volto a rassicurare gli Alleati Orientali che si sentono maggiormente minacciati dalla rinnovata assertività di Mosca (in primis Baltici, Polonia, Bulgaria, Romania). Questa linea ha trovato la propria consacrazione con le decisioni adottate in occasione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo a Celtic Manor nel settembre 2014, e ha certamente influenzato la decisione di accettare l’offerta di Varsavia di ospitare il prossimo Summit l’8-9 luglio del 2016.
In questo contesto è stato varato il Readiness Action Plan (RAP), in risposta alla richiesta degli Alleati dell’Europa Centrale e Orientale di misure volte a rafforzare le misure di difesa e fungere da deterrenza contro possibili aggressioni. Il RAP è in estrema sintesi composto da “misure di rassicurazione” e “misure di adattamento”: tra le prime figurano il rafforzamento delle attività di pattugliamento aereo e marittimo e attraverso un’intensificazione del programma di esercitazioni; tra le seconde figurano il potenziamento delle Forze di Reazione NATO (NRF), la creazione di una Task Force Congiunta ad Altissima Prontezza (VJTF), lo stabilimento di otto Unità di Integrazione delle Forze NATO (NFIUs) che serviranno a sostenere l’eventuale spiegamento delle VJTF.
Da parte italiana, pur partecipando al consenso sul RAP e sulle misure da esso derivanti, e alla revisione dei rapporti tra la NATO e la Russia, si è nell’ultimo anno lavorato per evitare che l’agenda dell’Alleanza venisse eccessivamente dominata dal tema della rassicurazione degli Alleati Orientali: si è quindi lavorato assieme ai principali like-minded per guidare le Autorità Militari e il Segretariato verso un’attività di analisi e pianificazione che tenesse in debito conto anche le minacce affrontate dagli Alleati del “fianco sud”.
Sono già chiare alcune delle priorità USA per il Vertice: ottenere il rinnovato impegno degli Alleati al sostegno (militare, ma anche finanziario) dell’Afghanistan, dichiarare la Capacità Operativa Intermedia (IOC) della Difesa Missilistica NATO, ribadire in qualche forma il defence investment pledge per la destinazione alle spese militari del 2% del PIL. Non è da escludere però – e qualche segnale si è intravisto già alla Ministeriale Esteri – che il dossier iraniano e la comune minaccia del DAESH possano indurre Washington ad aprire a rinnovate forme di dialogo anche con Mosca.
Dopo quasi due anni di interruzione, congelato dopo l’occupazione della Crimea e l’inizio della crisi ucraina, il Consiglio NATO-Russia (a livello Ambasciatori) dovrebbe riunirsi nuovamente nel corso del mese di febbraio. Tale positivo cambiamento di prospettiva dell’Alleanza nei confronti di Mosca si è registrato lo scorso dicembre all’ultima Ministeriale Esteri della NATO, grazie alle posizioni espresse soprattutto da Italia, Germania e Francia. Da parte statunitense, al tempo stesso, sembra registrarsi piena consapevolezza dell’importanza prioritaria di Mosca nel contrasto a Da’esh e nella stabilizzazione della Siria.
L’ordine del giorno della riunione del Consiglio NATO-Russia non dovrebbe tuttavia toccare questi argomenti, ma essere prevalentemente dedicato alla questione ucraina, e ad una discussione su strumenti efficaci di prevenzione degli incidenti, riduzione del rischio, trasparenza – tema emerso a seguito della vicenda verificatesi lo scorso novembre dell’abbattimento da parte turca di un aereo russo.
Dal punto di vista operativo, l’Alleanza resta peraltro impegnata in iniziative di rassicurazione degli Alleati orientali, attraverso il programma di pattugliamento dello spazio aereo baltico (cui, fino ad agosto, ha partecipato anche l’Italia), di attuazione del Readiness Action Plan attraverso il rafforzamento della Forza di Reazione NATO (NRF), la creazione della Task Force Congiunta ad Elevata Prontezza (VJTF), lo spiegamento in Europa Centrale e Orientale di sei Force Integration Units (NFIUs). Tali processi continueranno nei mesi che ci separano dal Vertice di Varsavia, ma potranno – è questo l’auspicio italiano, condiviso anche da altri, a partire dalla Germania - essere affiancati dalla ripresa del dialogo politico con Mosca, o comunque non assumere un’importanza dominante nella narrativa NATO.
Siria
Il Consiglio dell’UE
nella riunione del 18 gennaio 2016 ha discusso della Siria
e degli sviluppi nella regione esprimendo pieno sostegno alla risoluzione
2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che approva una
"tabella di marcia" per un processo di pace in Siria e definisce un
calendario per i colloqui.
Il Parlamento
europeo ha adottato lo scorso 4 febbraio una risoluzione
nella quale si sollecita la comunità internazionale a intraprendere azioni
immediate per combattere il sistematico sterminio di massa delle minoranze
religiose perpetrato dal cosiddetto Stato Islamico in Iraq e in Siria (ISIS) o
Da’esh.
In particolare, il Parlamento europeo:
· condanna le violazioni dei diritti umani da parte dell'ISIS/Da’esh, nei confronti delle minoranze religiose dei cristiani, yazidi, turkmeni, sciiti, shabak, sabei, Kaka’e e sunniti, che non condividono la loro interpretazione dell'Islam;
· ricorda che, secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI), queste violazioni equivalgono a "crimini di guerra", "crimini contro l'umanità" e "genocidio";
· chiede all'UE di nominare un Rappresentante speciale permanente per la libertà di religione e di credo e chiede a tutti i Paesi della comunità internazionale di impedire crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidi all'interno dei propri territori;
· invita gli Stati membri dell'UE ad aggiornare i loro sistemi giuridici e legislativi al fine di impedire che i loro cittadini partano per unirsi all'ISIS/Da’esh e ad altre organizzazioni terroristiche. Gli Stati dovrebbero, inoltre, assicurare che i loro cittadini che dovessero unirsi alle organizzazioni terroristiche siano sottoposti il prima possibile a procedimenti penali.
Si ricorda che la Commissione europea e l’Alto rappresentante il 6 febbraio 2015 avevano presentato una comunicazione congiunta in merito strategia regionale dell’UE per la Siria, l’Iraq e la minaccia dell’ISIL/Da’esh (Join(2015)2).
Nella comunicazione si evidenziava come la risposta dell'Unione europea dovesse essere volta a:
- individuare gli interessi dell'UE e definirne il contributo al più ampio impegno internazionale per la pace e la sicurezza in Siria, in Iraq e nella regione nel suo complesso e per lottare contro la minaccia rappresentata dal Da’esh;
- garantire la complementarità fra l'azione dell'UE e quella dei suoi Stati membri, attraverso una titolarità congiunta della strategia e l'individuazione di obiettivi comuni;
- evitare il contagio a livello regionale e rafforzare la sicurezza alle frontiere;
- affrontare gli aspetti comuni delle crisi in Iraq e in Siria, in particolare, la minaccia terroristica e le gravi ripercussioni umanitarie provocate da queste crisi;
- incoraggiare e sostenere i paesi della regione ad assumersi responsabilità nel porre fine alla crisi e combattere l'estremismo violento del Da’esh e degli altri gruppi terroristici;
- impegno duraturo e globale che affronti le dinamiche sottese del conflitto attraverso il dialogo diplomatico e un sostegno a lungo termine delle riforme politiche, dello sviluppo socioeconomico e della riconciliazione etnosettaria.
Per realizzare tali obiettivi la Commissione ha proposto un pacchetto di aiuti per un importo di 1 miliardo di euro sul bilancio UE degli anni 2015 e 2016.
Il Consiglio
dell’UE, ha poi adottato delle conclusioni
in merito nella riunione del 16 marzo 2015, con le quali ha adottato
la strategia regionale e sottolineato in particolare che:
- una transizione politica inclusiva in Siria e una governance politica inclusiva in Iraq sono essenziali per una pace e una stabilità sostenibili nella regione;
- la lotta contro l'ISIL/Da'esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature e che l'azione militare è necessaria ma non sufficiente per sconfiggere l'ISIL/Da'esh.
- l'aiuto umanitario e l'assistenza a lungo termine resteranno pilastri importanti della risposta dell'UE alle conseguenze della crisi. L'assistenza umanitaria deve restare separata dalle operazioni militari e raggiungere tutte le popolazioni in stato di bisogno;
- l'UE resta pienamente consapevole delle immense sfide sul piano della sicurezza che le crisi pongono alla regione, in particolare al Libano e alla Giordania.
Per quanto
riguarda l’assistenza finanziaria prestata dall’UE in risposta alla crisi
siriana, e in particolare per i rifugiati, si ricorda che l’UE è il più
grande donatore a livello internazionale, con oltre 5 miliardi di euro stanziati
dall’UE e dagli Stati membri singolarmente. Il sostegno dell’UE si è
indirizzato sia alla popolazione residente in Siria sia ai rifugiati nei paesi
limitrofi: Libano, Giordania, Turchia e Iraq.
Dal 2011, l’UE ha stanziato 2.6 miliardi di euro per aiuti umanitari di emergenza e intervertenti di sostegno a medio termine (come ad esempio istruzione, accesso a servizi di base, salute). A partire dal dicembre 2014, l’UE ha istituito il fondo EU Regional Trust Fund (cosiddetto MADAD Fund), attraverso il quale canalizzare gli interventi di sostegno a medio termine (non quindi l’aiuto umanitario), che ha fino ad ora ha mobilitato fondi per 645 milioni di euro.
Per
quanto riguarda l’assistenza per i rifugiati siriani ospitati in paesi
limitrofi, l’UE ha stanziato 583 milioni di euro in Giordania,
552 milioni di euro in Libano, 104 milioni di euro in
Iraq, 352 milioni di euro in Turchia (si ricorda che nel
novembre 2015 il Consiglio europeo ha deciso lo stanziamento aggiuntivo di 3
miliardi per il sostegno ai rifugiati siriani da parte della Turchia. Lo
stanziamento è ripartito in 1 miliardo a carico del bilancio dell’UE e 2
miliardi a carico dei bilanci nazionali. Lo stanziamento a carico di bilanci
nazionali sarà ripartita in proporzione al rispettivo Reddito nazionale lordo
(RNL). La quota italiana, dovrebbe pari ad una quota del’11,25% corrispondente
a circa 225 milioni di euro.)
Da ultimo,
in occasione della conferenza internazionale dei donatori per gli aiuti alla
Siria, che si è svolta a Londra il 4 febbraio scorso, l’UE si
è impegnata a versare un stanziamento di circa 3 miliardi di euro, sui
10 miliardi complessivi di impegno raccolti nel corso della conferenza.
Nell’ambito della conferenza l’Italia si è impegnata a stanziare 400 milioni di
euro.
Per maggiori dettagli si rimanda alla nota della Commissione europea EU support in response to the Syrian crisis.
Libia
Il Consiglio dell’UE
ha adottato il 18 gennaio 2016 delle conclusioni sulla Libia
nelle quali in particolare:
· sostiene l'accordo politico libico firmato il 17 dicembre 2015 e accoglie con favore la formazione del Consiglio di presidenza presieduto da Fayyez al-Sarraj. L'UE sosterrà il governo di intesa nazionale (GIN) quale unico governo legittimo della Libia;
· sottolinea la titolarità libica del processo politico e l'importanza di mantenerne il carattere inclusivo, attraverso la partecipazione delle donne, della società civile e degli attori politici e locali;
· ribadisce il sostegno all'attività della missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) e del Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite;
· invita ad adottare tempestivamente l'emendamento alla dichiarazione costituzionale del 2011 ed esorta il Consiglio di presidenza a formare il GIN, da sottoporre all'approvazione della Camera dei rappresentanti, come previsto dall'accordo politico libico;
· condanna i recenti attentati terroristici, nonché qualsiasi tentativo di ostacolare la stabilizzazione del paese e indica che l'UE è pronta a sostenere la Libia nella lotta contro l'estremismo violento;
· ricorda che l'UE ha predisposto un pacchetto di sostegno immediato per un totale di 100 milioni di EUR. L'UE continuerà a fornire aiuti attraverso le organizzazioni umanitarie, nonché assistenza alla popolazione libica in stato di bisogno. L'UE è pronta a prendere in considerazione un sostegno alle autorità libiche, qualora ne facciano richiesta, per la riforma del settore della sicurezza, in particolare mediante formazione e consulenza;
· chiede a tutte le parti di garantire l'accesso umanitario senza restrizioni e la sicurezza degli operatori umanitari.
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Il Parlamento europeo ha adottato lo scorso 4 febbraio una risoluzione sulla situazione in Libia nella quale, in particolare:
· accoglie con favore l'Accordo politico libico siglato il 17 dicembre 2015 e sostiene il governo d'intesa nazionale di recente formazione;
· esprime preoccupazione circa le ripercussioni del conflitto libico sulla sicurezza in Egitto e, in modo particolare, in Tunisia, oltre che in Algeria e nei suoi giacimenti petroliferi e sottolineano il ruolo del conflitto libico nell'esacerbare l'estremismo in Tunisia;
· ritiene che la crescente presenza di organizzazioni e di movimenti estremisti in Libia costituisca la principale minaccia alla stabilità e alla sicurezza dell'intera regione;
· chiede che l'UE e la comunità internazionale continuino a fornire assistenza umanitaria, finanziaria e politica per far fronte alla situazione umanitaria in Libia, alle difficoltà degli sfollati interni e dei rifugiati e a quelle dei civili che affrontano l'interruzione dell'accesso ai servizi di base.
Si ricorda, che il Consiglio
affari esteri dell’UE, nella riunione del 22 giugno 2015, ha deciso l’avvio
dell’operazione navale militare, denominata EUNAVFOR MED “Sophia”, volta
a contribuire a smantellare le reti del traffico e della tratta di esseri umani
nel Mediterraneo centromeridionale.
Gli Stati membri che attualmente partecipano alla missione sono 22, oltre all’Italia, partecipano i seguenti Stati membri: Belgio, Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Repubblica ceca, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria. Austria e Portogallo hanno recentemente annunciato di voler partecipare alla missione, portando così a 24 il numero degli Stati membri partecipanti.
Il comando operativo di EUNAVFOR MED ha sede a Roma e comandante dell'operazione è stato nominato l'ammiraglio di divisione Enrico Credendino. La missione ha una durata iniziale di 2 mesi per la fase preparatoria e 12 mesi per quella operativa.
La missione EUNAVFOR MED è condotta in 3 fasi:
· in una prima fase, sostiene l'individuazione e
il monitoraggio delle reti di migrazione attraverso la raccolta d'informazioni
e il pattugliamento in alto mare conformemente al diritto internazionale;
· in una seconda fase,
- a) procede a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani, alle condizioni previste dal diritto internazionale applicabile, in particolare UNCLOS e protocollo per combattere il traffico di migranti e alle condizioni previste dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU;
- b) conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato, procede a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto mare o nelle acque territoriali e interne di tale Stato, di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani;
· in una terza fase,
conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato, adotta tutte le
misure necessarie nei confronti di un'imbarcazione e relativi mezzi,
anche eliminandoli o rendendoli inutilizzabili, che sono sospettati di
essere usati per il traffico e la tratta di esseri umani, nel territorio di
tale Stato, alle condizioni previste da detta risoluzione o detto consenso.
Per la piena operatività della missione nella
seconda fase e nella terza fase sarà necessario un mandato internazionale
attraverso una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 9 ottobre 2015, ha approvato la risoluzione 2240 (2015) che autorizza gli Stati membri e la UE ad effettuare, per il periodo di un anno, fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani (v. sopra seconda fare, punto a). Le fasi successive della missione dovranno essere autorizzate da successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza, e sarà necessario il consenso del Governo libico.
Il 28 settembre 2015 il Comitato politico e di sicurezza dell’UE[2] ha deciso di avviare la prima parte della seconda fase (v. sopra punto a) a partire dal 7 ottobre 2015 ed ha approvato delle regole di ingaggio.
La transizione alle fasi successive sarà oggetto di un’ ulteriore valutazione da parte del Consiglio dell’UE e decisione del Comitato politico e di sicurezza.
La missione coopera con le pertinenti autorità degli Stati membri ed è previsto prevede un meccanismo di coordinamento con le agenzie dell’Unione Frontex, Europol, Eurojust, Ufficio europeo di sostegno all’asilo e le altre missioni PSDC.
Il 22 dicembre 2015 è stato firmato un memorandum di intesa volto a rafforzare la cooperazione tra la missione EUNAVFOR MED e Europol, in particolare al fine di individuare e smantellare la rete criminali convolti nel traffico di rifugiati nel sud del Mediterraneo.
Al 4 febbraio 2016, la missione ha contribuito a soccorrere più di 9000 persone, sequestrare 56 imbarcazioni e a consegnare alle autorità italiane 43 persone accusate di traffico di migranti.
L'importo di riferimento finanziario
per i costi comuni della missione è stato stimato pari a 11,82
milioni di EUR.
Si ricorda che nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune dell’UE è operativa la missione civile EUBAM Libia, istituita nel maggio 2013 con un mandato di due anni. La missione ha l'obiettivo di sostenere le autorità libiche a migliorare e sviluppare la sicurezza delle frontiere terrestri, marittime ed aeree del paese. Per l’evolversi della situazione politica e di sicurezza interna alla Libia, a partire dall’agosto del 2014 la missione ha la sua base operativa in Tunisia, ma ha sostanzialmente sospeso la sua attività.
Il Consiglio dell’UE, in vista di una ripresa delle attività della missione, con una decisione del 2 febbraio 2016 ha esteso il mandato della missione EUBAM Libia alla assistenza a un processo globale di pianificazione della riforma del settore della sicurezza civile nella prospettiva di preparare un'eventuale missione civile di gestione delle crisi relativamente a sviluppo di capacità e assistenza.
Nell’ambito dello strumento europeo di vicinato (ENI), il programma finanziario di sostegno ai paesi del vicinato, per quanto riguarda la Libia si prevede uno stanziamento compreso in una forchetta tra 126 e 154 milioni di euro per l’intero periodo di 2014-2020.
Processo di pace in Medio Oriente
Il Consiglio affari
esteri dell’UE il 18 gennaio 2016 ha adottato delle conclusioni
sul processo di pace in Medio Oriente nelle quali, in particolare, indica che
l’UE:
· nutre profonda preoccupazione per le gravi perdite di vite umane verificatesi negli ultimi mesi e condanna gli attentati terroristici, le violenze e i decessi di minori. Invita i leader politici a collaborare mediante azioni visibili per affrontare le cause profonde delle tensioni. L'UE rammenta la particolare importanza dei luoghi santi e invita a mantenere lo status quo introdotto nel 1967 nel Monte del Tempio/Haram al-Sharif, in linea con le precedenti intese e con riguardo al ruolo speciale della Giordania.
· esorta tutte le parti ad astenersi da azioni che possano aggravare la situazione mediante istigazione alla violenza o provocazioni e a condannare gli attacchi al loro verificarsi, nonché ad attenersi rigorosamente ai principi di necessità e proporzionalità nell'uso della forza. L'UE invita inoltre entrambe le parti a contrastare l'istigazione e l'incitamento all'odio,
· esprime il convincimento che solo con il ripristino di un orizzonte politico e la ripresa del dialogo sarà possibile fermare le violenze e che occorra affrontare le cause profonde del conflitto. L'UE auspica un cambiamento radicale della politica di Israele riguardo al territorio palestinese occupato, in particolare il settore C, che possa rafforzare la stabilità e la sicurezza;
· è unita nell'impegno volto ad individuare una soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati, che risponda ai bisogni di sicurezza israeliani e palestinesi e alle aspirazioni dei palestinesi alla statualità e alla sovranità, ponga fine all'occupazione iniziata nel 1967. È fortemente contraria a qualsiasi azione che comprometta la fattibilità della soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati;
· ritiene che, al fine di garantire una pace giusta e duratura, si richiederà un aumento dello sforzo internazionale comune. L'UE collaborerà attivamente con tutte le parti interessate al fine di conseguire un rinnovato approccio multilaterale al processo di pace. La creazione di un gruppo di sostegno internazionale e un'ulteriore conferenza internazionale costituiscono strade possibili per contribuire al raggiungimento di tale obiettivo;
· ricorda che il diritto internazionale dei diritti umani rappresenta un punto chiave per la pace e la sicurezza nella regione. L'UE esorta a tutelare i minori, anche garantendo il diritto all'istruzione;
· ribadisce la sua ferma opposizione alla politica in materia di insediamenti di Israele, che invita a porre fine a tutte le attività di insediamento e a smantellare gli avamposti costruiti dopo il marzo 2001. Le attività d’insediamento a Gerusalemme est mettono gravemente a rischio la possibilità che Gerusalemme funga da futura capitale di entrambi gli Stati;
· continuerà a distinguere, in modo inequivocabile, Israele da tutti i territori occupati da Israele nel 1967, garantendo fra l'altro la non applicabilità di tutti gli accordi dell'UE con lo Stato di Israele a tali territori. L'UE e i suoi Stati membri sono uniti nell'impegno ad assicurare un'attuazione coerente, piena ed efficace della normativa vigente dell'Unione europea e degli accordi bilaterali applicabili ai prodotti degli insediamenti;
La Commissione europea ha pubblicato l’11 novembre 2015 una comunicazione interpretativa relativa all’indicazione di origine delle merci dei territori occupati da Israele dal giugno del 1967, nella quale, in particolare, si indica che i prodotti provenienti dai territori della Palestina occupati da Israele devono essere etichettati in maniera chiara, distinguerli chiaramente da quelli provenienti da aziende collocate all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti dello Stato di Israele. Si ricorda che l’Unione europea non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati dal giugno del 1967, ossia alture del Golan, striscia di Gaza e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est.
· sollecita tutte le fazioni palestinesi a impegnarsi in buona fede nel processo di riconciliazione, elemento importante per giungere a una soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati;
· chiede di adottare iniziative rapide per consentire un cambiamento radicale della situazione politica, economica e di sicurezza nella striscia di Gaza, inclusa la revoca della chiusura dei valichi e una loro totale apertura, tenendo conto nel contempo delle preoccupazioni legittime di Israele in materia di sicurezza. L'UE invita le parti palestinesi a fare della ricostruzione di Gaza una priorità nazionale fondamentale, in particolare per quanto riguarda la sanità, l'energia e l'accesso all'acqua. L’Autorità palestinese deve riprendere appieno le sue funzioni di governo nella striscia di Gaza. L'UE ritiene che al fine di consentire il processo di ricostruzione e la prestazione dei servizi di base, sia necessario eliminare le restrizioni alla circolazione di persone, servizi e beni, in particolare quelli designati come "prodotti a duplice uso". L'UE invita tutte le parti, attori statali e non statali, a garantire l'accesso umanitario senza restrizioni a Gaza;
· ribadisce l'offerta a
entrambe le parti, in caso di un accordo di pace definitivo, di un pacchetto
di sostegno politico, economico e in materia di sicurezza e di un
partenariato privilegiato speciale con l’Unione europea, che offrano vantaggi
sostanziali alle due parti.
Il 13 settembre, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non seguiva per lungo tempo l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie candidature.
Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei dintorni del Medical Center di Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa provocava accuse alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese. Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.
L’Italia non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.
Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon. Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.
Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominano Tripoli definiva l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.
Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri dell’Unione europea -, e gli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar e altri.
Il 19 ottobre una nuova doccia fredda raggelava le speranze della Comunità internazionale, quando il parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima. Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti della dialogo proposto dall’ONU.
Nel prolungarsi dello stallo negoziale libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi (conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione accuratamente pianificata dal Pentagono.
Il ruolo oggettivamente preminente dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla la firma diretta dell’intesa.
Tale impostazione era il frutto anche del nuovo approccio del mediatore delle Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.
La Conferenza di Roma si dimostrava un passo decisivo, e finalmente il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. Al Consiglio di presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità libiche.
Il giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale si sollecita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dall’ISIS o da al-Qaida.
In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari. Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi, dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione anti-ISIS, ribadiva la disponibilità dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia, purché richieste in tal senso vengano dalle autorità di quel paese e purché il processo di stabilizzazione venga operato congiuntamente dall’Italia e dai suoi alleati.
Tuttavia cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di ministri. Un’altra mozione, inoltre, votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk, ha bloccato anche il via libera all’accordo politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di fatto intermanete l’influente generale Khalifa Haftar.
In tal modo la grande maggioranza dei membri del arlamento di Tobruk sembra aver ribadito la propria vicinanza alle posizioni di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero territorio libico.
In questo scenario indubbiamente, dilatandosi i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, sono state rilanciate le voci, già numerose nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrerebbe orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Va tuttavia rilevato come nell’incontro a Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio Mattarella l’Italia abbia avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca che gli Stati Uniti si trovano in consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
L’intervento russo nello scenario siriano
Un dato indubbiamente nuovo e importante degli ultimi mesi è stato l’intervento russo nello scenario siriano: dopo alcune indirette aperture a questa ipotesi, la realtà dei fatti riscontrava in margine ai lavori dell’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU un contrasto piuttosto duro tra le posizioni russe e quelle americane. I rispettivi presidenti, che tra l’altro avevano anche un incontro diretto nella serata del 28 settembre, si trovavano in contrasto soprattutto in merito al ruolo del presidente Assad e del suo regime, che per Obama doveva essere quanto prima sostituito, dopo lo scontro frontale con la popolazione siriana in corso dal 2011, mentre per Putin la rinuncia preventiva a un ruolo di Assad nella soluzione della questione siriana sarebbe un grave errore.
Il 30 settembre la Russia avviava i raid aerei sul territorio siriano, entrando subito in contrasto con gli Stati Uniti, che accusavano Mosca di non aver coordinato le mosse con le forze americane già impegnate nella coalizione contro l’ISIS e di aver colpito a Homs soprattutto basi degli oppositori moderati al regime di Assad, più che dello “Stato islamico”. L’intervento russo era stato autorizzato dalla Camera alta del parlamento, competente ad autorizzare gli interventi militari fuori dai confini nazionali della Federazione, in risposta a una richiesta scritta del presidente siriano Assad. Oltre a quanto denunciato dall’opposizione siriana, ovvero che i primi raid russi avrebbero provocato una quarantina di morti tra i civili, sarebbe emerso l’equivoco di fondo di una Russia impegnata in azioni militari contro formazioni che il suo alleato Assad definisce comunque terroristiche, e quindi non solo e non prevalentemente contro l’ISIS.
Peraltro Putin confermava quanto immediatamente prima chiarito dal capo dell’amministrazione presidenziale Ivanov, ovvero che l’intervento di Mosca sarebbe stato limitato solo all’invio di forze aeree per il tempo dell’offensiva delle forze governative siriane; quanto ad Assad, il presidente russo si augurava che da parte sua si arrivasseprima o poi ad accettare un compromesso per il bene della Siria. Va rilevato come una determinante non secondaria dell’intervento russo potrebbe essere stato l’allarme destato dalle rivelazioni dell’intelligence di Mosca sull’esodo nello scenario siriano di migliaia di militanti dall’Asia centrale e dal Caucaso, che potrebbero poi tornare nella Federazione russa come foreign fighters e costituire un gravissimo pericolo.
Nessun avvicinamento tra la posizione della Russia e quelle occidentali in merito allo scenario siriano si registrava nell’incontro di Parigi del 2 ottobre, principalmente dedicato all’evoluzione dello scenario ucraino, ma nel quale la Siria non poteva non avere un ruolo centrale. Il presidente francese sottolineava la necessità del coinvolgimento di esponenti moderati dell’attuale regime siriano, ma ritenendo assolutamente indispensabile l’uscita di scena di Assad; peraltro secondo Hollande molti degli attacchi aerei russi in Siria sarebbero stati finalizzati non a colpire le basi dell’ISIS ma quelle dei ribelli al regime di Assad. La Germania per bocca della cancelliera Merkel si manteneva prudente, ma escludendo divergenze con Parigi sul destino del presidente Assad. Da parte statunitense, con l’appoggio di Gran Bretagna, Francia, Germania, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, si poneva l’accento sulla necessità che la Russia attaccasse esclusivamente obiettivi dell’ISIS, perché in caso contrario invece si sarebbe rafforzato lo “Stato islamico” colpendo gli oppositori di Assad. Nel vertice di Parigi la posizione della Russia veniva espressa direttamente dal presidente Putin, per il quale la permanenza al potere di Assad sarebbe fondamentale proprio nella lotta allo “Stato islamico”, contro cui unicamente sarebbero stati diretti i raid di Mosca - che effettivamente poteva vantare l’attacco diretto alla roccaforte dell’ISIS di Raqqa, al terzo giorno dall’inizio dell’azione militare in Siria.
Assai importante per l’evoluzione dello scenario siriano e per la questione dei grandi flussi di profughi in fuga dal paese era la visita del presidente turco Erdogan a Bruxelles: qui il 5 ottobre Erdogan ha gettato sul piatto della bilancia la strategicità del suo paese - che peraltro dall’inizio della crisi siriana ha accolto centinaia di migliaia di profughi, arrivando a un totale attuale di circa 2 milioni - per il quale ha richiesto l’assistenza finanziaria dell’Unione europea, riscontrando l’assenso delle autorità di Bruxelles. Non è però sfuggito che la Turchia nel trattare della questione siriana ha mantenuto ben fermo il proprio proposito di evitare la costituzione di qualunque forte entità territoriale a base curda, e non a caso non solo ha combattuto l’opposizione curda interna del PKK, ma ha anche mantenuto un atteggiamento quanto meno distaccato rispetto ai curdi siriani impegnati nella lotta contro l’ISIS. Si spiega in tal modo l’insistenza turca sulla creazione di una vasta fascia di sicurezza in territorio siriano prospiciente al confine turco, non solo e non tanto per il contenimento dell’ondata di profughi, quanto piuttosto per inserire un cuneo nelle dinamiche militari in corso, impedendo il costituirsi di un forte arco territoriale a direzione curda.
Il 3 ottobre si era intanto verificato il primo episodio preoccupante a partire dall’intervento russo nello scenario siriano, quando un jet di Mosca sarebbe sconfinato nello spazio aereo turco. Relativamente blande le proteste di Ankara, che tuttavia sottotraccia si trovava in contrasto potenziale assai forte con l’azione militare russa, avendo sempre costantemente appoggiato le correnti jihadiste contrarie al presidente Assad e ispirate alla Fratellanza islamica, le quali costituivano uno degli obiettivi dell’azione militare russa, anche se non dichiarato. In ogni modo l’ambasciatore russo ad Ankara era convocato presso il ministero degli esteri per esprimere la protesta per la violazione dello spazio aereo. Da parte della NATO, invece, dopo una riunione di emergenza dei rappresentanti dei 28 Stati membri, veniva una forte condanna sia della violazione dello spazio aereo turco sia degli attacchi contro l’opposizione e i civili siriani da parte dei jet russi.
Il 7 ottobre un’ulteriore escalation caratterizzava l’intervento russo nello scenario siriano: navi ubicate nel Mar Caspio lanciavano 26 missili, asseritamente contro le posizioni dell’ISIS, i quali avrebbero colpito tutti i loro bersagli. A fronte di ciò gli Stati Uniti tornavano ad accusare la Russia di sostenere ad oltranza il regime di Assad e di colpire tutti i suoi nemici, quindi non solo l’ISIS - come sarebbe emerso dall’offensiva lanciata il 7 ottobre dall’esercito siriano nella provincia di Hama, nella quale l’ISIS era praticamente assente. La Russia ha ribattuto che in un anno di attacchi anche la coalizione a guida occidentale non avrebbe sempre colpito l’ISIS.
L’8 ottobre la NATO tornava a reagire con forza alle iniziative russe, nella riunione ministeriale dell’Alleanza tenuta a Bruxelles: la NATO si è detta pronta a difendere il territorio turco, il cui spazio aereo era stato già violato dagli aviogetti russi, e contestualmente a rafforzare la propria presenza nell’Europa orientale. I pericoli dell’intervento russo sarebbero stati suffragati secondo il governo americano da un ulteriore errore, poiché quattro dei missili lanciati dal Mar Caspio sarebbero finiti in Iran invece che in Siria. La Russia ha tuttavia smentito questa circostanza.In ogni modo, anche con notevoli divisioni tra i paesi orientali dell’Alleanza atlantica e i paesi, tra cui l’Italia, attenti all’instabilità sul fronte meridionale della NATO; l’Alleanza ha deciso di raddoppiare il numero di effettivi della forza d’intervento NATO Response Force, che è così salita a 40.000 unità, parte dei quali dispiegabili rapidamente in 48 ore ovunque vi sia una minaccia. Il segretario generale Stoltenberg ha parlato al proposito del più importante rafforzamento dell’apparato di difesa della NATO dalla fine della Guerra Fredda.Particolare allarme destava comunque nuovamente il 9 ottobre l’avvicinamento di due velivoli americani e due jet russi a distanza di puntamento.
Sul terreno, nonostante la sottolineatura della Russia di aver aumentato la pressione proprio nei confronti dell’ISIS, i combattenti dell’opposizione al regime di Assad tornavano a sostenere che gli attacchi russi avevano indirettamente rafforzato lo “Stato islamico”, colpendo proprio in prevalenza l’opposizione ad Assad. A riprova di ciò lo “Stato islamico” si impadroniva di alcuni villaggi dei dintorni di Aleppo, arrivando in qualche modo a minacciare la grande città siriana, non più difesa dai ribelli al regime di Assad, impegnati a contrastare le azioni del regime e dei russi nella zona di Hama.
Quanto all’Unione europea, il 12 ottobre il vertice ministeriale tenutosi in Lussemburgo pronunciava una chiara condanna dell’intervento russo, rivolto non solo contro l’ISIS ma anche contro l’opposizione moderata, auspicandone l’immediata cessazione, a pena di prolungare il conflitto, pregiudicare l’eventuale soluzione politica di esso e aggravare la situazione umanitaria. L’appoggio dei ministri europei all’azione di mediazione delle Nazioni Unite nei confronti di Assad non ha completamente nascosto le consuete divergenze in merito al ruolo dell’attuale capo del regime siriano, che per la Francia dovrà comunque essere sollecitamente rimosso, mentre paesi come la Germania e l’Italia hanno dimostrato di temere maggiormente il vuoto di potere che potrebbe seguire alla dipartita di Assad, configurando anche per la Siria uno scenario di tipo libico.
Il percorso negoziale ed il Gruppo di sostegno internazionale alla Siria
Il combinato disposto della consapevolezza internazionale dell’insostenibilità di una ulteriore prosecuzione del conflitto siriano, unitamente a un “ammorbidimento” della posizione statunitense nei confronti del regime di Assad e al ruolo di primo piano che la Russia ha ritenuto di avere acquisito con il proprio intervento nel conflitto hanno reso possibile il costituirsi di un panel negoziale internazionale con i maggiori protagonisti, ma allargato anche ad altri Paesi: in tal modo è nato il Gruppo di sostegno internazionale alla Siria (ISSG), riunitosi a Vienna alla fine di ottobre del 2015 con la partecipazione dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, della stessa ONU, dell’Unione europea, della Lega araba, di protagonisti indiretti ma decisivi del conflitto siriano come Iran, Arabia Saudita, Turchia, e di altri paesi come Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Giordania, Libano, Oman, Qatar, Italia e Germania.
Il 30 ottobre 2015 l’ISSG, in una dichiarazione congiunta alla fine dei lavori di Vienna, ha ribadito la necessità di salvaguardare l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Siria, assicurando nel contempo la sopravvivenza delle istituzioni statali in un ambito politico non settario, tale da assicurare il rispetto dei diritti di tutti i siriani; il documento sostiene inoltre l’assoluta necessità di sconfiggere lo “Stato islamico” e altri gruppi di azione terroristica, consentendo l’accesso umanitario nel paese e il sostegno ai rifugiati, in vista dell’accelerazione degli sforzi diplomatici per porre fine in via definitiva al conflitto.
In particolare, secondo il documento redatto da Vienna, si dovrà procedere a misure di de-escalation per giungere a un completo cessate il fuoco su scala nazionale: in parallelo, si dovrà riavviare il dialogo politico tra governo e opposizione vista della formazione di un governo inclusivo, della redazione di una nuova Costituzione e dello svolgimento di libere elezioni sotto l’egida dell’ONU.
L’ISSG è tornato a riunirsi a Vienna il 14 novembre - il giorno dopo, si ricorda, dei tragici attentati perpetrati dall’ISIS a Parigi -, rilanciando sull’obiettivo del cessate il fuoco a livello nazionale, contestuale all’inizio delle tappe verso la transizione avviate congiuntamente dai rappresentanti del regime siriano e delle opposizioni. Mentre è rimasta ancora sullo sfondo la questione del futuro politico di Assad, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno assunto l’impegno per una risoluzione volta allo stabilimento di una missione di sorveglianza del cessate il fuoco in Siria - dal quale beninteso saranno escluse le operazioni militari contro lo “Stato islamico” e contro Jabat al-Nusra ed altri gruppi terroristici, individuati dal Consiglio di sicurezza sulla base del lavoro intrapreso in particolare dalla Giordania per una identificazione condivisa di gruppi e individui qualificabili come terroristi prima del decollo del processo politico guidato dalle Nazioni Unite.
L’incontro di novembre ha inoltre fissato l’avvio entro il 1° gennaio 2016 di negoziati ufficiali diretti tra il governo siriano e le forze di opposizione, per giungere a formare entro sei mesi un esecutivo di transizione e a convocare entro 18 mesi elezioni politiche generali.
Le nuovi risoluzioni del Consiglio di sicurezza e le posizioni assunte da alcuni Stati occidentali
Il 20 novembre 2015 è stata approvata all’unanimità - soprattutto per iniziativa della Francia impegnata nella risposta ai fatti di Parigi - la risoluzione 2249 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che ha preso atto degli ultimi sviluppi negoziali e ha fatto appello agli Stati membri affinché adottino tutte le misure necessarie sul territorio controllato dall’ISIS in Siria e Iraq per un coordinamento degli sforzi volti a combattere lo “Stato islamico” e gli altri gruppi terroristici.
A testimonianza della potenziale esplosività internazionale del conflitto siriano, va ricordato che il 24 novembre le ripetute tensioni tra Russia e Turchia dopo l’intervento dell’aviazione di Mosca in Siria culminavano nell’abbattimento di un aereo militare russo da parte di due caccia F-16 turchi: il velivolo russo avrebbe effettivamente violato, anche se soltanto per pochi secondi, lo spazio aereo turco, mentre era impegnato nei cieli della Siria.
All’inizio di dicembre, a seguito dell’azione diplomatica francese impegnata nella risposta ai tragici attacchi terroristici del 13 novembre, anche la Germania si è unita alla coalizione contro l’ISIS in territorio siriano, dicendosi disponibile a impegnare circa 1.200 uomini per il dispiegamento di una nave da guerra, di sei tornado da ricognizione e di vari satelliti: la decisione del governo tedesco ha tuttavia bisogno del via libera da parte del Bundestag. Anche il premier israeliano Netanyahu ha riferito di un intervento in territorio siriano per evitare la saldatura di un fronte anti-israeliano sul Golan, catalizzato dall’Iran.
Il 2 dicembre, dopo un dibattito-fiume alla Camera dei Comuni, il governo Cameron ha avuto il via libera per l’effettuazione di attacchi aerei contro l’ISIS in territorio siriano, paralleli a quelli che il Regno Unito conduce da un anno in territorio iracheno. L’acceso dibattito ha visto una spaccatura interna ai laburisti, con diverse decine di deputati favorevoli al nuovo coinvolgimento militare britannico, che hanno più che compensato i pochi conservatori contrari.
Il premier Cameron ha caldeggiato la decisione parlamentare favorevole sottolineando con forza il legame tra l’ISIS e quasi tutte le trame terroristiche scoperte nel Regno Unito negli ultimi mesi. Sul fronte opposto il leader laburista Corbyn si è detto fortemente contrario al nuovo coinvolgimento militare non il nome del pacifismo, ma del buon senso: alla gran parte dei laburisti si sono associati anche gli scozzesi dello Scottish National Party, e, nella Camera dei Lord, la figura apicale della Chiesa anglicana, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby.
A seguito della decisione della Camera Dei Comuni, già il 3 dicembre aviogetti britannici decollati dalla base della Royal Air Force di Cipro hanno colpito obiettivi dell’ISIS in Siria. Accanto alle scontate minacce di ritorsioni dell’ISIS, l’iniziativa ha riscontrato il plauso del presidente francese Hollande: la Russia dal canto suo ha dato il benvenuto ad ogni azione volta a combattere il terrorismo, ma il regime siriano, da Mosca fortemente sostenuto, ha criticato l’intervento della Royal Air Force, avvenuto senza l’autorizzazione formale di Damasco.
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU il 18 dicembre ha approvato all’unanimità la risoluzione 2254, sostenuta con forza dai partecipanti al Gruppo di sostegno internazionale alla Siria, per l’avvio del processo di pace e il cessate il fuoco. La risoluzione impegna il Segretario generale Ban Ki-moon, per mezzo del suo inviato speciale in Siria Staffan de Mistura, a convocare i rappresentanti del regime siriano e dell’opposizione per l’inizio di negoziati formali su un processo di transizione politica urgente, da prevedere a partire dal mese di gennaio del 2016. Lo stesso Ban Ki-moon ha constatato l’importanza del documento, trattandosi della prima risoluzione del Consiglio di sicurezza riguardante direttamente il processo politico in Siria.
La risoluzione, tuttavia, non fa alcuna menzione del futuro politico del presidente siriano Assad, che costituisce un punto di indubbia frizione con la Russia, così come l’individuazione in corso, per iniziativa soprattutto giordana, delle organizzazioni da considerare terroristiche - e quindi al di fuori del cessate il fuoco - e la composizione delle delegazioni dell’opposizione che dovranno partecipare ai negoziati.
Altrettanto suscettibile di accrescere i contrasti con la Russia è quanto emerso il 23 dicembre da un rapporto presentato da Amnesty International, che denuncia la morte di centinaia di civili siriani a seguito degli attacchi aerei russi su obiettivi residenziali, moschee e perfino ospedali, durante i quali sarebbero state utilizzate anche bombe a grappolo - su quest’ultimo punto anche Human Rights Watch aveva attirato l’attenzione una settimana prima. Se anche gli attacchi della coalizione a guida occidentale in 13 mesi avrebbero provocato la morte di più di 200 civili (secondo cifre diffuse dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria), in soli due mesi l’intervento russo avrebbe provocato un pari numero di vittime, e si ricorda in particolare il bombardamento su un mercato nella provincia di Idlib e su un edificio residenziale nella provincia di Homs, in cui avrebbero perso la vita complessivamente 81 civili, tra cui molte donne e bambini. Secondo Amnesty International questi attacchi potrebbero configurare da parte di Mosca crimini di guerra, in quanto gli obiettivi civili sarebbero stati colpiti deliberatamente.
La Russia sarebbe stata poi, al di là della rivendicazione da parte del regime siriano, anche alla base dell’uccisione del capo di un’importante formazione islamista di opposizione al regime di Assad, l’”Esercito dell’Islam”, avvenuta il 25 dicembre alle porte di Damasco. Ispirata a un’ideologia fondamentalista ed accusata di violenze contro gli alawiti, l’”Esercito dell’Islam” aveva tuttavia partecipato qualche tempo prima a una riunione nella capitale saudita per preparare la strategia delle forze di opposizione ad Assad in previsione dei colloqui sotto l’egida dell’ONU, che l’uccisione di Zahran Allush - questo il nome del capo dell’”Esercito dell’Islam” - sarebbe stata un tentativo di boicottare.
Alla metà di gennaio, nonostante il dispiegarsi di una controffensiva su vasta scala da parte delle forze del regime coadiuvate dai bombardamenti aerei russi, l’ISIS ha fornito una prova di forza nell’area di Dayr az Zor, il polo petrolifero siriano quasi completamente nelle mani dello “Stato islamico”: i miliziani dell’ISIS hanno attaccato alcuni sobborghi vicini a un aeroporto militare, prendendo di mira soprattutto famiglie di militari e paramilitari filogovernativi, e provocando circa 300 morti, molti dei quali decapitati. Un numero ancora maggiore di persone sarebbero state sequestrate.
Mentre proseguiva incessante l’avanzata verso nord-ovest delle forze governative siriane con l’appoggio russo, sono emerse tutte le difficoltà dell’avvio della trattativa mediata dalle Nazioni Unite: infatti la Russia ha richiesto la formazione di una delegazione alternativa delle opposizioni, diversa da quella in via di costituzione a Riad, mentre la Turchia si è detta contraria alla partecipazione al tavolo di Ginevra delle milizie siriane di ispirazione curda. Sul terreno, queste controversie sono state confermate dal fatto che gran parte degli attacchi lealisti e russi hanno colpito gruppi armati sostenuti da Turchia ed Arabia Saudita, e solo marginalmente territori controllati dall’ISIS.
La conferenza dei donatori per la Siria e l’accordo del 12 febbraio
La presa d’atto delle difficoltà dei negoziati è avvenuta all’inizio di febbraio, quando De Mistura ha annunciato una loro sospensione fino al 25 febbraio. Intanto il progredire dell’offensiva lealista ha consentito alle forze del regime di Assad di occupare una zona tra il confine turco e le aree di Aleppo controllate dagli oppositori, probabilmente in previsione di un attacco decisivo alla seconda città della Siria per riconquistarla integralmente. In questo contesto importanza necessariamente minore ha rivestito il pur evidente successo della Conferenza dei donatori per la Siria svoltasi a Londra, che il 4 febbraio ha registrato impegni per oltre 10 miliardi di dollari, al di sopra dei 9 miliardi previsti. La Russia, in particolare, ha accusato la Turchia di preparare un’invasione del territorio siriano contiguo al confine con la Turchia, allo scopo di neutralizzare le formazioni curdo-siriane. In questo scenario anche l’Arabia Saudita si è spinta a ipotizzare un proprio intervento diretto nel conflitto siriano.
Si aggravava frattanto la situazione della regione siriana tra il confine turco e Aleppo: con la Turchia che ha proceduto a chiudere i posti di frontiera, consentendo solo accessi strettamente controllati, è aumentato il numero di civili siriani in fuga dai bombardamenti aerei russi e dai combattimenti provocati dalla controffensiva del regime siriano: le Nazioni Unite hanno paventato il rischio di una nuova tragedia umanitaria , con oltre 300.000 persone intrappolate ad Aleppo e prive di accesso agli aiuti umanitari, qualora le forze del regime fossero riuscite ad accerchiare la città.
La Russia è stata intanto accusata dalla NATO e dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk di essere la causa diretta, con gli attacchi aerei su vasta scala, della nuova emergenza umanitaria: in particolare, secondo la NATO, Mosca corre il rischio di minare gli sforzi per una soluzione politica del conflitto siriano. Anche la Turchia e la cancelliera tedesca Merkel, in visita ad Ankara l’8 febbraio, hanno denunciato la valenza negativa degli attacchi aerei russi.
Ciononostante il 12 febbraio, in margine all’appuntamento annuale di Monaco di Baviera per la Conferenza sulla sicurezza, un tavolo negoziale di 17 Stati ha raggiunto un accordo per la cessazione delle ostilità in Siria entro una settimana e un accesso sollecito degli aiuti umanitari ancor prima della scadenza del 19 febbraio. Come sostenuto dal Ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni in dichiarazioni alla stampa, l’intesa presenta caratteri di grande fragilità, pur suscitando speranze in un contesto estremamente difficile.
La prima verifica riguarderà proprio la possibilità di un immediato accesso degli aiuti umanitari, che dovrà essere seguito non da un cessate il fuoco, ma da una più prudente formulazione di “cessazione delle ostilità”. Gentiloni non ha nascosto la difficoltà di mantenere l’azione militare contro lo “Stato islamico” e Jabat al-Nusra, vista la contiguità dei territori da essi controllati rispetto a quelli interessati dalla fine dei combattimenti. Quanto all’intervento russo, l’accentuazione di esso nelle ultime due settimane, secondo Gentiloni, non ha certo contribuito a risolvere la crisi politica e umanitaria in Siria, e anche Mosca dovrà adottare un atteggiamento più costruttivo.
La prudenza del capo della diplomazia italiana è stata confermata dalle immediate reazioni all’intesa di Monaco, con il presidente siriano Assad che ha asserito di voler continuare a combattere fino alla vittoria totale, mentre per converso l’Arabia Saudita ha dichiarato quale proprio obiettivo qualificante la destituzione di Assad. Le opposizioni siriane in esilio, a loro volta, hanno rifiutato la proposta di tregua, esattamente perché non menziona il destino di Assad.
Effettivamente nelle ore successive la tensione sul terreno si è accentuata, nonostante il contatto telefonico diretto tra il presidente USA Obama e il presidente russo Putin, che hanno dato il via a contatti stretti e diretti tra i rispettivi ministeri della difesa in funzione anti-ISIS. È stata anche ribadita la volontà di contribuire con le proprie strutture all’attuazione dell’intesa del 12 febbraio, senza però che Obama si astenesse dall’ammonire Putin a porre fine agli attacchi aerei contro le forze dell’opposizione moderata in Siria.
L’offensiva governativa siriana è intanto proseguita in direzione della capitale dell’ISIS in territorio siriano, Raqqa, mentre la Turchia ha proceduto a bombardare le postazioni curdo-siriane attestate in una base aerea 30 km a nord di Aleppo. Al proposito Damasco ha accusato i turchi di aver colpito con questi bombardamenti anche postazioni dell’esercito regolare siriano, nonché di aver sconfinato con un centinaio di soldati a bordo di veicoli leggeri. Peraltro il premier turco Davutoglu, accusando i curdo-siriani di essere legati ai terroristi del PKK turco, ha annunciato la prosecuzione dei bombardamenti. Si sono anche rafforzati i segnali di un possibile coinvolgimento militare di Riad nel conflitto siriano, con l’arrivo di alcuni velivoli militari sauditi nella base turca di Incirlik e con l’intensificarsi dei preparativi per un possibile intervento di terra in territorio siriano, che, com’è evidente, avrebbe obiettivi completamente opposti rispetto a quelli della Russia, impegnata a puntellare il regime di Assad.
L'evoluzione
dei rapporti tra Israele e Palestina è stata segnata a fondo, e
fortemente rallentata, dalla crisi nella Striscia di Gaza e dalla sospensione
dei negoziati per un accordo di pace, avvenuta a fine aprile 2014. Anche sui
rispettivi fronti interni, le ultime evoluzioni politico-istituzionali disegnano
un quadro complesso.
In Israele, le elezioni tenutesi il 17 marzo 2015 hanno visto una sostanziale affermazione del Likud, il partito del premier Netanyahu, che ha ottenuto, con il 23,4% dei voti, una maggioranza più ampia rispetto a quanto i sondaggi non facessero prevedere, ma non sufficiente a governare in autonomia. È stato pertanto formato un governo di coalizione, insediatosi il 14 maggio 2015, che comprende altri quattro partiti: Kulanu, partito di centro destra di recente formazione; Habayit Hayehudi, formazione di destra; il partito religioso Shas e l'ultra ortodosso United Torah Judaism. Nell'insieme, la coalizione dispone di una maggioranza numericamente esigua (61 seggi su 120) che non sembra deporre a favore della stabilità.
In Palestina, particolare rilievo ha assunto lo scioglimento del governo di unità nazionale che si era insediato il 2 giugno 2014, appena cinque settimane dopo la firma di un accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Tale accordo sembrava aver posto fine a una divisione durata per sette anni e seguita a una breve guerra civile in cui Hamas aveva assunto il controllo della Striscia di Gaza, mentre l'Autorità palestinese in mano a Fatah aveva continuato ad amministrare la maggior parte delle aree urbane della Cisgiordania (il controllo del territorio non urbanizzato, come della parte orientale di Gerusalemme, restava invece nelle mani di Israele).
Concepito come esecutivo transitorio in vista dello svolgimento di nuove elezioni legislative, il governo è stato sciolto dal Presidente Abbas il 17 giugno 2015. Contestualmente, è stato dato l'incarico al premier Hamdallah di formare un nuovo esecutivo. La decisione è stata motivata con l'impossibilità per l'esecutivo di imporre la propria autorità sulla Striscia di Gaza, di fatto sotto il perdurante controllo di Hamas, che a sua volta ha rigettato la dissoluzione unilaterale del governo di unità nazionale, ascrivendola alla volontà di Fatah di evitare le elezioni - che secondo diversi sondaggi darebbero un esito favorevole a Hamas anche in Cisgiordania.
Al quadro politico interno, incerto per entrambe le parti in causa, si sommano la complessità dello scenario internazionale e la forte instabilità dell'area. Tra i fattori di maggiore rilievo si segnalano:
- gli effetti della cosiddetta "Intifada diplomatica" portata avanti da Abbas per ottenere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, e culminata, tra l'altro, nell'adesione, ad aprile 2015, dell'ANP alla Corte penale internazionale, nella decisione della Corte di giustizia dell'UE che ha annullato, per motivi procedurali, la decisione del Consiglio che manteneva Hamas nella lista europea delle organizzazioni terroristiche, e nella firma, il 26 giugno, dell'Accordo globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina, entrato in vigore all’inizio del 2016.
- la presentazione lo scorso 29 giugno, al Consiglio per i diritti umani dell'ONU, di un rapporto sul conflitto di Gaza del luglio 2014, rigettato da entrambe le parti in causa, che, nell'affermare che crimini di guerra sono stati commessi tanto da Israele quanto da gruppi armati palestinesi, evidenzia forti responsabilità dello Stato ebraico, soffermandosi sulla sproporzione tra le vittime (2.251palestinesi a fronte di 67 israeliani);
- l'accordo raggiunto a Vienna lo scorso 14 luglio sul nucleare iraniano tra i sei paesi negoziatori (USA, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) e l'Iran, che ha incontrato l'unanime dissenso delle forze politiche israeliane, che considerano la prospettiva di un Iran nuclearizzato alla stregua di una fondamentale minaccia all'esistenze stessa dello Stato ebraico;
- la guerra civile siriana, cui Israele ha reagito accogliendo con sostanziale favore l'indebolimento del regime di Assad, ma anche con rafforzati timori per l'accrescersi della minaccia qaidista e l'avanzata dell'ISIS.
A partire dal mese di ottobre 2015, il quadro mediorientale è stato segnato da una nuova ondata di tensioni, culminata in quella che è stata definita, con termine efficace giornalisticamente, la "Intifada dei coltelli", per i numerosi episodi di accoltellamento di ebrei, a Gerusalemme come in altre città, da parte di palestinesi o arabi israeliani, quasi sempre poi uccisi da polizia o esercito.
La causa scatenante di queste nuove tensioni è stata la marcia sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme - luogo sacro dell'Islam sunnita e "Monte del Tempio" per gli ebrei - da parte di Uri Ariel, ministro dell'edilizia ed esponente del partito sionista "La Casa Ebraica", insieme ad altri esponenti politici di destra. Lo stesso Ariel, nel mese di luglio, aveva auspicato la ricostruzione del Tempio nel punto dove oggi sorge la Moschea di Al-Aqsa. Il gesto di Ariel, considerato alla stregua di una grave provocazione, ha causato una serie di scontri nella Città vecchia di Gerusalemme e sulla Spianata, con decine di feriti tra manifestanti e forze dell'ordine, seguita dall'uccisione di due coloni israeliani nei pressi di Nablus il 1° ottobre e di due ebrei ortodossi nella Città vecchia di Gerusalemme.
Tali episodi, cui è seguita una reazione molto violenta e decisa da parte delle forze di sicurezza israeliane, hanno sostanzialmente compattato maggioranza e opposizione in un sostegno deciso al governo Netanyahu, mentre Abbas ha incitato a una pacifica protesta popolare in difesa della Moschea di Al-Aqsa, intimando al governo israeliano di "stare alla larga dai luoghi sacri all'Islam e ai cristiani". Tale linea, sostanzialmente moderata, si scontra con un processo di radicalizzazione in atto nei Territori occupati, cui non è probabilmente estraneo, nell'ambito di una comune matrice jihadista, il potere attrattivo esercitato dall'ISIS.
L'azione svolta dall'Alto Rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini è stata tutta mirata a un rilancio del dialogo tra le parti: in tale contesto vanno inquadrati gli incontri con entrambi gli attori di governo (Netanyahu a Berlino, il 21 ottobre, e Abu Mazen a Bruxelles, il 26 ottobre), finalizzati alla ricerca "di passi concreti sul territorio che possano migliorare la vita del popolo palestinese, rafforzando l'Autorità nazionale non solo sul piano economico ma anche su quello politico e della sicurezza e garantendo così, al contempo, la sicurezza del popolo israeliano".
Tra i due incontri con i leader israeliano e palestinese, l'Alto Rappresentante ha partecipato a Vienna, il 23 ottobre, alla riunione del Quartetto (USA, Russia, Unione europea e Nazioni Unite), che si è conclusa con una Dichiarazione comune nella quale:
- viene espressa grande preoccupazione per l'escalation incessante delle tensioni tra israeliani e palestinesi e si condannano tutti gli atti di terrore e di violenza contro i civili;
- si auspica il ritorno della calma e si chiede alle parti di evitare qualunque dichiarazione o azione che possa suonare provocatoria;
- si incoraggia Israele a lavorare di concerto con la Giordania per tutelare lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme;.
Il Quartetto ha altresì annunciato l'invio di propri rappresentanti nella regione, che si confronteranno direttamente con le parti in causa, con l'obiettivo di incoraggiarle "a intraprendere azioni concrete, in linea con i precedenti accordi, per dimostrare un impegno autentico verso la soluzione basata su due Stati sovrani".
Gli ultimi mesi hanno visto rinnovate polemiche dell’esecutivo israeliano con l’Unione Europea, le Nazioni Unite e la Svezia, a partire da quando alla metà di novembre del 2015 sono state approvate le linee-guida europee volte a distinguere i prodotti provenienti da Israele da quelli realizzati nelle colonie dei Territori occupati, colonie che l’Unione europea considera illegali dal punto di vista del diritto internazionale. L’impatto delle linee-guida europee appare limitato, se si pensa che i prodotti provenienti dai Territori occupati sono all’incirca l’1% del totale delle esportazioni israeliane verso il territorio dell’Unione europea: sembra inoltre difficile una identificazione univoca della provenienza dei prodotti, stante il fatto che nelle colonie si produrrebbero in prevalenza componenti.
La reazione del governo israeliano è consistita nella sottolineatura dei danni che la decisione europea provocherà soprattutto ai palestinesi impiegati nelle fabbriche israeliane dei Territori occupati. Inoltre secondo il governo di Tel Aviv la decisione europea sarebbe stata presa su base politica e discriminatoria, e potrebbe addirittura essere accusata di antisemitismo. La reazione israeliana è giunta anche con la convocazione al ministero degli esteri di Tel Aviv dell’ambasciatore dell’Unione europea Lars Faaborg-Andersen.
Alla metà di gennaio 2016 il ministro degli esteri svedese, signora Margot Wallstrom, aveva accennato alla possibilità di un’indagine per accertare eventuali esecuzioni extragiudiziali di palestinesi perpetrate da Israele in risposta all’ondata di attentati contro civili e militari israeliani negli ultimi mesi.
Accusando il capo della diplomazia di Stoccolma di presentare in modo distorto la realtà, Israele ha comunicato all’ambasciatore svedese la volontà di escludere Stoccolma da ogni futuro ruolo nelle mediazioni internazionali tra Israele e i palestinesi. Tra l’altro a caldo il ministero degli esteri israeliano aveva definito le parole della Wallstrom un incoraggiamento alla violenza e al terrorismo. Va poi ricordato come il governo svedese avesse già suscitato l’irritazione di Israele quando nell’ottobre 2015 aveva proceduto a riconoscere direttamente lo Stato di Palestina, laddove numerosi altri paesi occidentali avevano utilizzato per questo scopo atti parlamentari di indirizzo.
Alla fine di gennaio la polemica si è accesa invece tra Israele e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon: dopo il tentativo di alcuni coloni, appoggiati dal Likud, di insediarsi a Hebron forzando i tempi dei permessi governativi, e dopo l’attribuzione della qualifica di terre demaniali ad una vasta zona a sud della città di Gerico, il ministero della difesa israeliano ha approvato la costruzione di 153 nuove case per i coloni in Cisgiordania.
La reazione di Ban Ki-moon è stata immediata, qualificando il nuovo insediamento quale affronto per il popolo palestinese e per la Comunità internazionale, suscettibile di pregiudicare per sempre l’opzione dei due Stati. Alludendo poi ai rinnovati sporadici lanci di razzi da Gaza verso il territorio israeliano e ai toni esasperati di alcuni mezzi di comunicazione palestinesi in consonanza con la rivolta nei Territori, Ban Ki-moon, pur dicendosi assai preoccupato, ha in qualche modo giustificato le reazioni palestinesi all’occupazione: pertanto il premier israeliano Netanyahu ha accusato il segretario generale delle Nazioni Unite di offrire con le sue parole incoraggiamento e giustificazione per il terrorismo.
[1] Alcuni commentatori hanno rilevato un possibile "effetto perverso" della missione, ovvero che i trafficanti, consapevoli che la presenza delle imbarcazioni militari consenta maggiori possibilità di recupero dei migranti in mare, siano non dissuasi ma stimolati a far partire le loro imbarcazioni (Le Monde, 13 febbraio2016).
[2] Il Comitato politico e di sicurezza (CPS) è una formazione permanente del Consiglio dell'Unione europea (UE). Esso contribuisce all'elaborazione e all'attuazione della politica estera e di sicurezza comune (PESC) e della politica europea di sicurezza e di difesa (PESD). Il CPS, presieduto in permanenza dal servizio europeo per l'azione esterna, è composto da un ambasciatore per ogni Stato membro, un rappresentante permanente della Commissione europea, un rappresentante del Comitato militare dell’UE, un rappresentante del segretariato del Consiglio dell'UE e uno del servizio giuridico del Consiglio.