Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Conferenza interparlamentare sulle politiche estera e di sicurezza e di difesa comuni (PESC-PSDC) - Dublino, 24-25 marzo 2013
Serie: Documentazione per le Commissioni - Riunioni interparlamentari    Numero: 1
Data: 22/03/2013
Descrittori:
CONSIGLIO EUROPEO   DIFESA E SICUREZZA INTERNAZIONALE
POLITICA ESTERA     
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Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

 

 

 

 

Documentazione per le Commissioni

riunioni interparlamentari

 

 

 

 

 

 

Conferenza interparlamentare sulle politiche estera

e di sicurezza e di difesa comuni (PESC-PSDC)

Dublino, 24-25 marzo 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 1

 

22 marzo 2013

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dossier è stato curato dall’Ufficio rapporti con l’Unione europea
(' 066760.2145 - * cdrue@camera.it)

Alla redazione del dossier ha collaborato il Servizio Studi, Dipartimento Affari esteri (' 066760.4939)

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I N D I C E

Schede di lettura   1

·         La Conferenza interparlamentare per il controllo sulla PESC/PSDC   3

PESC e PSDC - lavorare per la pace, la sicurezza e lo sviluppo in africa   5

·        L’Unione europea e l’Africa  7

-        Strategia comune UE-Africa  7

-        Accordo di Cotonou  9

-        Le missioni dell’UE attive in Africa nell’ambito della PSDC   12

Le proposte all’esame della Conferenza   15

·        Le proposte delle Presidenze irlandese e cipriota  17

Prevenzione dei conflitti - l’UE come peace maker   19

·        L’UE e la prevenzione dei conflitti 21

-        Mediazione e dialogo  22

-        Lo strumento per la stabilità  23

L’approccio globale all’instabilità in Africa - l’esperienza del Corno d’Africa   25

·        L’approccio dell’UE al Corno d’Africa  27

-        L’impegno dell’UE verso la regione  28

-        Orientamenti futuri 31

·        La crisi politica ed umanitaria nel Corno d’Africa (a cura del Servizio Studi) 36

Il processo di pace in Medio Oriente – il ruolo dell’UE   43

·        L’Unione europea e il Medio Oriente  45

-        La posizione dell’UE in merito al conflitto in Medio Oriente  45

-        Le iniziative dell’UE in favore del processo di pace  48

·        Recenti sviluppi del conflitto arabo-israeliano (a cura del Servizio Studi) 51

Il Consiglio europeo 2013 sulla difesa   57

·        La Politica di sicurezza e difesa comune  59

-        Il Trattato di Lisbona  59

-        Le conclusioni di dicembre 2011 e i successivi sviluppi 61

-        Lo sviluppo delle capacità militari 65

Appendice - La primavera araba   73

·        L’Unione europea e la primavera araba  75

-        Le iniziative verso i singoli paesi 80

·        Rivolgimenti nel Mediterraneo e "primavere arabe" (a cura del Servizio Studi) 89

-        I più recenti interventi legislativi 89

-        L'attività di controllo e d'indirizzo  89

-        L'attività conoscitiva  90

·        Il nuovo quadro politico tunisino all’indomani delle “primavere arabe” (a cura del Servizio Studi) 92

-        L’affermazione degli islamisti e le contraddizioni di Ennahdha  92

·        L’Egitto del dopo Mubarak- i più recenti avvenimenti (a cura del Servizio Studi) 97

·        La difficile stabilizzazione del quadro politico in Libia (a cura del Servizio Studi) 102

-        Sulla via del consolidamento istituzionale  102

-        Gli sviluppi più recenti 107

·        Recenti sviluppi della crisi siriana (a cura del Servizio Studi) 109

-        La formazione della Coalizione nazionale delle forze di opposizione siriane  109

Documenti 113

§               Conclusioni della Conferenza interparlamentare per la Politica estera e di sicurezza comune e la Politica di sicurezza e difesa comune - Pafo, 9-10 settembre 2012    115

§               Regolamento della Conferenza interparlamentare per la Politica estera e di sicurezza comune e la Politica di sicurezza e difesa comune                                                   119

§               Progetto di proposta della Presidenza irlandese per l’istituzione di una Commissione ad hoc per il riesame della Conferenza interparlamentare per la Politica estera e di sicurezza comune e la Politica di sicurezza e difesa comune                                                   123

§               Proposta della Camera dei rappresentanti della Repubblica di Cipro riguardo a una missione conoscitiva nel vicinato mediterraneo meridionale e orientale              127

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Schede di lettura


 
La Conferenza interparlamentare per il controllo sulla PESC/PSDC

Il 9 e 10 settembre 2012 si è tenuta a Paphos (Cipro) la prima Conferenza per il controllo parlamentare sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC).

Nel corso della riunione inaugurale è stato adottato il regolamento della conferenza, in linea con le decisioni adottate dalla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea (UE) alle riunioni di Bruxelles il 4-5 aprile 2011 e di Varsavia il 20-21 aprile 2012.

L’accordo sull’istituzione della Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC e sulla PSDC è stato raggiunto dalla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE che si è svolta a Varsavia il 19-21 aprile 2012.

Sulla base dei principi istitutivi successivamente fissati dalla conclusioni della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti di Varsavia, il regolamento della Conferenza stabilisce le seguenti disposizioni:

·         la Conferenza interparlamentare per la PESC/PSDC è composta da delegazioni dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell'Unione europea e del Parlamento europeo, e sostituisce le riunioni dei Presidenti delle Commissioni affari esteri dei Parlamenti dell’UE (COFACC) e dei Presidenti delle Commissioni difesa (CODAC);

·         ogni Parlamento decide autonomamente sulla composizione della sua delegazione. I Parlamenti nazionali sono rappresentati da delegazioni composte da 6 membri. Per i Parlamenti bicamerali il numero dei membri potrà essere distribuito con accordi interni. Il Parlamento europeo è rappresentato da una delegazione di 16 membri. I Parlamenti dei paesi candidati all’adesione ed i Parlamenti di paesi europei membri della NATO potranno partecipare con una delegazione composta da 4 osservatori. Si tratta di Croazia (in procinto di divenire membro dell’UE), ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Islanda, Montenegro, Serbia e Turchia in quanto candidati all’adesione e Norvegia e Albania, in quanto Paesi europei membri della NATO;

·         la Conferenza si riunisce due volte l'anno nel Paese che esercita la Presidenza semestrale del Consiglio o presso il Parlamento europeo a Bruxelles. La decisione spetta alla Presidenza. La Conferenza può tenere riunioni straordinarie in caso di necessità o urgenza;

·         la Presidenza delle riunioni è esercitata dal Parlamento nazionale dello Stato membro che ricopre la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo;

·         Il Segretariato della Conferenza è esercitato dal Parlamento nazionale dello Stato membro che esercita la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo, e dei Parlamenti nazionali della precedente e successiva Presidenza di turno dell’UE;

·         l'Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza è invitato alle riunioni della Conferenza per esporre le linee d’indirizzo e le strategie della politica estera e di difesa comune dell'Unione;

·         la Conferenza può adottare per consenso conclusioni non vincolanti.

La Conferenza dei Presidenti di Varsavia ha, inoltre, previsto che al termine di due anni dalla prima riunione della Conferenza interparlamentare si procederà ad una revisione della formula adottata per la sua composizione.

Nelle conclusioni adottate in occasione della riunione di Paphos di settembre 2012, la Conferenza ha espresso la volontà di potenziare l’impegno democratico nel campo della PESC e della PSDC dell’Unione promuovendo uno scambio d’informazioni più sistematico, cadenzato e tempestivo sui vari aspetti e implicazioni della PESC e della PSDC a livello nazionale ed europeo e ovviando alle manchevolezze della PESC e della PSDC in campo decisionale, in stretta cooperazione con l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza. La conferenza si prefigge inoltre un periodico riesame delle missioni dell’Unione in corso nel quadro della PSDC, nonché del ruolo e delle attività dell’Agenzia europea per la difesa. 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

PESC e PSDC - Lavorare per la pace, la sicurezza e lo sviluppo in Africa



L’Unione europea e l’Africa

L'Unione europea ha concluso con quasi tutti i paesi africani accordi di associazione basati su tre pilastri fondamentali (dialogo politico, scambi commerciali e cooperazione allo sviluppo) e ha avviato iniziative di cooperazione a livello regionale, che si svolgono prevalentemente nel contesto dell'accordo di Cotonou (vedi infra) e del processo di Barcellona.

I paesi nordafricani sono coinvolti anche nella politica di vicinato, che l’UE ha inaugurato nel 2003.

Tali relazioni hanno acquistato una dimensione pienamente continentale soltanto alla fine degli anni ‘90, con il primo Vertice UE-Africa, tenutosi al Cairo nell'aprile 2000, al quale ha partecipato la totalità dei paesi africani e tutti gli Stati membri dell'UE[1].

Dopo tale evento, la creazione del NEPAD (New Partnership for Africa’s Development) nel 2001 e l'istituzione dell'Unione africana nel 2002 hanno dato un significativo impulso alla dimensione panafricana, richiedendo un riesame dei contenuti e delle modalità del dialogo tra UE e Africa[2].

Strategia comune UE-Africa

Il quadro delle relazioni tra Unione europea e Africa è rappresentato dalla Strategia comune UE-Africa - adottata in occasione del secondo Vertice UE-Africa tenutosi a Lisbona l’8 e 9 dicembre 2007 - che propone una visione di lungo termine attraverso un partenariato strategico tra le parti.

Sulla base delle proposte avanzate dalla comunicazione, la strategia comune ha lo scopo di perseguire quattro obiettivi politici principali:

-              rafforzare e migliorare il partenariato politico UE-Africa, rendendolo un autentico partenariato tra pari;

-              continuare a promuovere la pace e la sicurezza, il buon governo e i diritti umani, il commercio e l'integrazione regionale e continentale in Africa, e altre questioni fondamentali attinenti allo sviluppo;

-              affrontare insieme le sfide globali;

-              agevolare e promuovere un partenariato ampio, diversificato e basato sull'individuo per tutte le popolazioni dell'Africa e dell'Europa.

A partire dal 2007, la strategia ha considerevolmente esteso il dialogo politico e la cooperazione UE-Africa e condotto a risultati tangibili, anche grazie all’apertura della delegazione UE presso l’Unione Africana ad Addis Abeba, il coinvolgimento di attori quali il Parlamento europeo e quello pan africano, la società civile e il settore privato e l’ampliamento degli obiettivi del fondo africano per la pace (vedi infra)

La strategia comune viene attuata attraverso successivi piani d’azione che consentono di progredire in otto partenariati Africa-UE: pace e sicurezza; governance democratica e diritti umani; commercio e integrazione regionale (compresa l'attuazione del partenariato UE-Africa per le infrastrutture, varato nel 2006[3]); obiettivi di sviluppo del millennio; energia; cambiamenti climatici; migrazione, mobilità e occupazione; scienza, società dell'informazione e spazio.

Il piano d’azione per il periodo 2011-2013 (il secondo) è stato approvato nel corso del terzo Vertice UE-Africa che si è tenuto a Tripoli il 29 e 30 novembre 2010.  Il Vertice ha enfatizzato la necessità di un collegamento più stretto tra cooperazione economica ed integrazione, sottolineato l’importanza di un maggior impegno del settore privato e richiesto una cooperazione più avanzata nel campo della ricerca scientifica e della società dell’informazione per creare una economia globalmente competitiva e basata su una conoscenza più inclusiva.

A partire dal Vertice, UE e Africa sono state impegnate nell’attuazione del secondo piano di azione. Tra i maggiori progressi si segnalano:

·         Il programma di sostegno all’Unione Africana (UA). Nell’ambito del programma l’UE ha allocato 55 milioni di euro dal Fondo europeo per lo sviluppo per fornire sostegno alle istituzioni dell’UA, in particolare per assistere la Commissione dell’UA nel velocizzare il processo di riforma istituzionale. Tale sostegno ha aiutato la Commissione a svolgere efficacemente il suo ruolo di motore del processo di integrazione africano e a facilitare l’approfondimento del partenariato con l’UE.

·         Il fondo africano per la pace. Si tratta di uno strumento operativo del partenariato UE-Africa in materia di pace e sicurezza. Attraverso questo strumento, l’UE sostiene l’UA e le organizzazione africane regionali nel trovare “una soluzione africana ai problemi africani”. Le missioni di pace finanziate dal fondo sono infatti condotte da africani. A partire dalla sua istituzione, l’UE ha impegnato più di 1 miliardo di euro. Le due operazioni di pace in corso sono AMISOM (la missione dell’UA in Somalia) e MICOPAX (la missione per il consolidamento della pace nella Repubblica africana centrale). Il Consiglio affari esteri del 17 gennaio 2013 ha annunciato che 50 milioni di euro sono stati riservati nell’ambito del fondo africano per la pace a sostegno della missione internazionale a guida africana in Mali (AFISMA). La missione dovrebbe contribuire ad aiutare il paese a ricostruire la propria integrità territoriale.

·         Il Meccanismo africano di revisione tra pari (APRM). Gli obiettivi dell’iniziativa sono principalmente favorire l’adozione di politiche, standard e pratiche che conducano alla stabilità politica, all’alta crescita economica, allo sviluppo sostenibile e all’integrazione economica regionale attraverso la condivisione di esperienze e migliori pratiche, l’identificazione delle lacune e la valutazione delle esigenze. A partire dal 2009, la Commissione europea ha contribuito con 2 milioni di euro al sostegno del segretariato dell’APRM.

·         Il programma globale di sviluppo dell’agricoltura africana (CAADP). Nell’ambito del FES, dello strumento di cooperazione allo sviluppo e del programma tematico per la sicurezza alimentare, l’UE ha fornito 15 milioni di euro a sostegno delle istituzioni africane che si occupano dell’attuazione del programma a livello continentale, regionale e nazionale.

·         Il fondo per le infrastrutture UE-Africa. È una pietra angolare della strategia UE-Africa e si prefigge di incrementare gli investimenti europei ed africani nel settore delle infrastrutture e dei servizi ad esse connessi. Mette insieme prestiti e contributi per incrementare l’ammontare totale destinato a progetti infrastrutturali a scala regionale. La sua dotazione totale è di 392.7 milioni di euro (di cui 308.7 milioni da parte della Commissione e i rimanenti 84 milioni come contributi degli Stati membri partecipanti)

·         Il programma Clima per lo sviluppo in Africa (CLIMDEV Africa). L’UE ha contributo con 8 milioni di euro al CLIMDEV Africa, in collaborazione con la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa. Questa iniziativa continentale si prefigge di preparare meglio la popolazione africana alle sfide poste dal clima (eventi meteorologici estremi, siccità, forti precipitazioni) adattando gli ecosistemi, gestendo meglio le risorse idriche, preservando la variabilità genetica delle specie locali, migliorando l’accesso alle informazioni da parte di decision-maker e soggetti interessati.

Accordo di Cotonou

L’altra importante cornice delle relazioni dell’UE con il continente africano è rappresentata dall’Accordo di Cotonou, che sostituisce la IV Convenzione di Lomè, scaduta a febbraio 2000. L’accordo riunisce in una nuova partnership l’Unione europea e 77 paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP). Firmato il 23 giugno 2000 dopo un complesso negoziato, l’Accordo è entrato in vigore il 1° aprile 2003, a seguito del deposito degli strumenti di ratifica da parte della Comunità europea presso il segretariato dei paesi ACP. L'intento dell’Accordo è quello di stimolare e accelerare lo sviluppo economico, sociale e culturale degli Stati ACP, di contribuire alla pace e alla sicurezza e di favorire un clima politico stabile e democratico.

L'Accordo, che definisce il quadro della cooperazione finanziaria e getta le basi per la creazione di una serie di aree di libero scambio entro vent'anni, si fonda su cinque orientamenti politici:

Sul piano finanziario sono stati stanziati globalmente, per il periodo dal 2000 al 2007, 15.200 milioni di euro, di cui 13.500 provenienti dal 9° FES (Fondo europeo di sviluppo)[4] e 1700 milioni forniti dalla Banca europea per gli investimenti (BEI). Per il periodo 2008-2013 il 10° Fondo europeo di sviluppo (FES) costituisce il quadro finanziario, con una dotazione di 22,7 miliardi di euro.

L'Accordo contiene disposizioni per favorire il dialogo politico tra le Parti e prevede una clausola relativa al rispetto dei diritti umani, dei principi democratici e dello Stato di diritto, che consente di prendere i provvedimenti opportuni nei confronti del paese interessato, senza l'obbligo di consultazioni preliminari.

L'Unione europea, in vista della creazione di una zona di libero scambio, si impegna ad aiutare i Governi dei paesi partner ad adeguarsi alle dinamiche dell'economia mondiale, in cambio anche di impegni sul fronte dell'immigrazione e del rispetto dei diritti umani.

L’accordo prevede una revisione quinquennale, la prima delle quali si è conclusa il 25 giugno 2005, con la firma dell’accordo rivisto. La seconda, che aggiorna la cooperazione UE ACP sulla base delle nuove sfide: cambiamento climatico, sicurezza alimentare, integrazione regionale, fragilità degli stati e efficacia degli aiuti, è stata firmata il 23 giugno 2010 ed è entrata in vigore su base transitoria il 1° novembre 2010. In particolare la seconda revisione:

·         riflette la crescente importanza dell’integrazione regionale nei paesi ACP e nella cooperazione UE-ACP ed enfatizza il suo ruolo nella promozione di cooperazione, pace, sicurezza e crescita economica. Viene anche riconosciuta la dimensione continentale e l’Unione africana diventa un partner della relazione UE-ACP;

·         sottolinea l’interdipendenza tra sicurezza e sviluppo e affronta congiuntamente le minacce alla sicurezza. Un’attenzione particolare è posta ai temi della costruzione della pace e della prevenzione dei conflitti. Un approccio generale – che combina diplomazia, sicurezza e cooperazione allo sviluppo - è sviluppato per gli stati fragili;

·         sottolinea l’importanza della sicurezza alimentare, della lotta all’HIV/AIDS e della sostenibilità della pesca per favorire sviluppo sostenibile, crescita economica e riduzione della povertà;

·         per la prima volta UE e ACP riconoscono la sfida globale del cambiamento climatico come un argomento prioritario per il loro partenariato e si impegnano ad elevare il profilo della cooperazione in materia di cambiamento climatico;

·         riconosce chiaramente il ruolo dei parlamenti nazionali, delle autorità locali, della società civile e del settore privato;

·         mette in pratica i principi dell’efficacia degli aiuti concordati a livello internazionale, in particolare puntando al coordinamento dei donatori, e riconosce per la prima volta il ruolo delle altre politiche dell’UE per lo sviluppo dei paesi ACP e l’impegno dell’UE a migliorare la loro coerenza;

·         il capitolo del commercio riflette le nuove relazioni commerciali e la fine delle preferenze commerciali, riaffermando il ruolo degli accordi di partenariato economico (vedi infra) per favorire lo sviluppo economico e l’integrazione nell’economia mondiale e sottolinea l’importanza delle strategie di adattamento degli scambi e dell’aiuto al commercio.

Gli APE

Il 17 giugno 2002 il Consiglio dell’Unione ha autorizzato la Commissione a negoziare accordi di partenariato economico (APE) con gli Stati aderenti all’Accordo di Cotonou[5]. Gli APE riguarderanno i temi del commercio e dello sviluppo e sono destinati a sostituire le previsioni in materia contenute nell’Accordo di Cotonou, perché queste ultime rappresentano una deroga temporanea alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.

I negoziati sono stati aperti ufficialmente a settembre 2002 a Bruxelles. Dopo una prima fase di colloqui con tutti i paesi ACP, che ha portato il 2 ottobre 2003 ad un’intesa preliminare sui temi generali, sono stati avviati i negoziati a livello regionale che si sono conclusi soltanto con i paesi dei Caraibi che hanno firmato gli APE con l’UE nell’ottobre 2008. Essendo la deroga scaduta con il 1° gennaio 2008 e in assenza di un’alternativa compatibile con le regole dell’OMC, a fine 2007 la Commissione ha siglato APE ad interim con tutti gli altri gruppi regionali con l’obiettivo di trasformarli in accordi complessivi e definitivi.

Le missioni dell’UE attive in Africa nell’ambito della PSDC

Le missioni e le operazioni dell’UE sono l'espressione tangibile della politica di sicurezza e difesa comune in azione. Negli ultimi otto anni l'UE ha schierato 24 missioni e operazioni a titolo della PSDC, con il coinvolgimento di 80 000 persone.

In più occasioni il Consiglio ha sottolineato l'impatto concreto delle missioni e operazioni PSDC in loco. L'impegno operativo dell'Unione tramite la PSDC è un'espressione assai tangibile dell'impegno dell'UE nel contribuire a promuovere e a mantenere la pace e la stabilità, rafforzando la capacità globale dell'UE di far fronte alle sfide inerenti alla sicurezza mediante strumenti di gestione delle crisi civili e militari.

In una risoluzione concernente la Strategia di sicurezza interna dell’Unione europea approvata il 22 maggio 2012, il Parlamento europeo ha sottolineato inoltre l'apporto delle missioni della PSDC in termini di promozione del rispetto dello Stato di diritto e del mantenimento della pace e della sicurezza nel vicinato dell'UE e nel mondo, contribuendo ad eliminare le «zone franche» per le attività criminali e terroristiche transnazionali.

Per quanto riguarda l’Africa, nel settore della gestione delle crisi sono attualmente operative, nell’ambito della PSDC, le seguenti missioni dell’UE:

·         la missione civile di sostegno alla riforma del settore della sicurezza nella Repubblica democratica del Congo (EUSEC Congo), istituita con azione comune 2005/355/PESC del 2 maggio 2005 e lanciata il 12 giugno 2006. Il mandato della missione scade al momento il 30 settembre 2013;

·         la missione militare navale EUNAVFOR-Atalanta, istituita con l’azione comune 2008/851/PESC del 10 novembre 2008 per contrastare le azioni di pirateria al largo della costa somala, a sostegno delle risoluzioni 1814 (2008), 1816 (2008) e 1838 (2008) del Consiglio di sicurezza. La missione è chiamata a proteggere le navi noleggiate dal Programma alimentare mondiale - anche con la presenza di elementi armati di Atalanta a bordo delle navi interessate - in particolare quando incrociano nelle acque territoriali della Somalia - nonché le navi mercantili sulla base di una valutazione di necessità effettuata caso per caso. Il Consiglio dell’8 dicembre 2009 ha esteso il mandato della missione per consentire alla forza navale dell’UE di contribuire al monitoraggio delle attività di pesca nell’area. Il mandato scade il 31 dicembre 2014;

·         Il 31 marzo 2010 – con procedura scritta – il Consiglio ha adottato la decisione 2010/197/PESC fissando per il 7 aprile 2010 il lancio della missione militare dell'Unione europea volta a contribuire alla formazione delle forze di sicurezza somale (EUTM Somalia). L’obiettivo generale di EUTM Somalia è quello di contribuire al rafforzamento del Governo federale di transizione e di favorire lo sviluppo sostenibile del settore di sicurezza somalo. La missione ha sede in Uganda - dove le forze somale vengono già addestrate - anche per facilitare il coordinamento delle azioni UE con la missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM). La missione è condotta in stretto coordinamento con gli altri partner, inclusi il Governo di transizione somalo, l’Uganda, le Nazioni Unite e gli USA;

·         il Consiglio del 12 dicembre 2011 ha approvato una nuova missione,  EUCAP Nestore, nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune, per rafforzare la capacità degli Stati della regione del Corno d’africa e dell’Oceano indiano occidentale a gestire efficacemente le loro acque territoriali. La missione è parte dell’approccio complessivo dell’UE alla lotta alla pirateria e all’instabilità della regione e si inserisce nel quadro strategico dell’UE per il Corno d’Africa recentemente adottato. EUCAP Nestore sarà una missione civile, accresciuta da expertise militare, pienamente compatibile con le altre missioni dell’UE nell’area, vale a dire Atalanta e EUTM Somalia. Avrà un mandato iniziale di due anni, con una valutazione strategica dopo un anno. Per eseguire questa missione, l’UE ha stabilito partenariati con l’Organizzazione marittima internazionale, con l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine e con il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo; sarà inoltre cruciale la complementarietà con altri programmi finanziati dall’UE, tra i quali in particolare il Programma percorsi marittimi critici, in corso dal 2009 nell’ambito dello strumento di stabilità per aumentare le capacità marittime nella regione dell’oceano indiano occidentale, concentrandosi su formazione e condivisione delle informazioni. Anche il sostegno fornito nell’ambito del Fondo europeo di sviluppo per assistere Africa orientale e meridionale darà un importante contributo agli sforzi dell’UE nel settore;

·         il 18 giugno 2012, il Consiglio ha dato il via libera ad una nuova missione di Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) dell’UE, volta a rafforzare la sicurezza aerea presso l’aeroporto internazionale di Juba, nel Sud Sudan. La missione, denominata EUAVSEC Sud Sudan, si inserisce nell’ambito dell'approccio globale dell'UE e si pone l’obiettivo di rendere il Sud Sudan - che è senza sbocco sul mare e fortemente dipendente dal traffico aereo - uno Stato stabile e prospero. Il miglioramento della sicurezza aerea consentirà di incrementare il flusso di persone e beni. In particolare, EUAVSEC Sud Sudan formerà i servizi di sicurezza locali e fornirà assistenza tecnica in materia di sicurezza aerea. La missione avrà una durata di 19 mesi, a partire dal prossimo mese di settembre, il suo quartier generale sarà a Juba e saranno impiegate fino a 64 unità di personale. Il budget stanziato è di 12,5 milioni di euro;

·         il 16 luglio 2012 il Consiglio ha autorizzato una nuova missione civile nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), la EUCAP SAHEL Niger, il cui obiettivo è sostenere le autorità nigerine nello sviluppo di capacità proprie di lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo nel Sahel. Le attività riguarderanno inizialmente il Niger. Secondo l'alto rappresentante dell'UE, Catherine Ashton: "L'intensificarsi delle attività terroristiche e le conseguenze del conflitto in Libia hanno aumentato in maniera drammatica l'insicurezza nel Sahel. La nuova missione contribuirà a rafforzare la capacità locale di lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Gli esperti europei formeranno le forze di sicurezza nigerine affinché migliorino il controllo del territorio e la cooperazione regionale” La missione avrà un ruolo di formazione, controllo, consulenza ed assistenza per rafforzare le capacità della gendarmeria nigerina, della polizia nazionale e della guardia nazionale; essa migliorerà inoltre il coordinamento regionale nel Sahel per far fronte alle sfide comuni in materia di sicurezza. Non svolgerà alcuna funzione esecutiva. EUCAP SAHEL Niger ha un mandato iniziale di due anni. Il personale, composto di circa 50 membri internazionali e 30 locali, sarà basato presso il comando della missione a Niamey (Niger), con ufficiali di collegamento a Bamako (Mali) e Nouakchott (Mauritania). Per il primo anno è stata stanziata una dotazione di 8,7 milioni di euro. La missione prenderà avvio all'inizio di agosto 2012.

 


Le proposte all’esame della Conferenza



Le proposte delle Presidenze irlandese e cipriota

La I Conferenza interparlamentare di Paphos del 9 e 10 settembre 2012 ha adottato il proprio regolamento dopo un’ampia discussione - che ha impegnato la prima giornata di lavoro della Conferenza - e stabilito che tutti gli emendamenti presentati dai Parlamenti nazionali e non accolti sarebbero stati riesaminati da una Commissione ad hoc. A tal fine la Conferenza ha invitato la subentrante Presidenza irlandese a sottoporre una proposta in merito alla composizione della commissione di riesame, in vista della riunione di Dublino (24 e 25 marzo 2013). In data 5 marzo 2013 ai Parlamenti dell’UE è stata trasmessa:

·         la proposta della Presidenza irlandese per l’istituzione della Commissione di riesame ad hoc (cfr documenti allegati).

Si prevede che la Commissione ad hoc per la valutazione di tutti gli emendamenti alla proposta di regolamento della Conferenza presentati e non accolti a Paphos si componga di un rappresentante per ciascuna della delegazioni dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell’UE e del Parlamento europeo e sia presieduta dal Parlamento che detiene la Presidenza di turno, in stretta cooperazione con i Parlamenti nazionali del Trio di Presidenza (Irlanda, Lituania e Grecia), il Parlamento europeo e Cipro. Si prevede, inoltre, tra l’altro, l’istituzione di un gruppo di lavoro composto di un rappresentante per ciascuna delle delegazioni dei Parlamenti nazionali del Trio di Presidenza, del Parlamento europeo e di Cipro. Esso si riunirà in occasione della Conferenza interparlamentare in Lituania, ma, al pari della Commissione ad hoc, potrà riunirsi di comune accordo in qualunque momento. Secondo la tabella di marcia indicata nella proposta, l’esame delle raccomandazioni della Conferenza interparlamentare da parte della Conferenza dei segretari generali e quello delle raccomandazioni della Conferenza Interparlamentare da parte della Conferenza dei presidenti dovranno avere luogo a Roma, rispettivamente a febbraio e ad aprile 2015.

Con riguardo a tale proposta si segnala l’opportunità di valutare se suggerire l’integrazione del gruppo di lavoro includendo anche l’Italia secondo la formula del “trio plus”, di cui alla sezione 11 delle conclusioni della riunione dei Segretari generali di Stoccolma del 30 marzo 2010, considerato che la pronuncia definitiva sugli emendamenti dovrebbe essere adottata dalla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE, che si svolgerà sotto la Presidenza italiana dell’UE.

Va, inoltre, considerato che la convocazione di riunioni del gruppo di lavoro potrebbe comportare oneri per missioni.

 

Nelle richiamate conclusioni della I Conferenza, inoltre, al punto 8 e 9, si fa riferimento alla necessità di potenziare il monitoraggio dei processi democratici nel vicinato meridionale e orientale dell’Unione e di favorire il coordinamento attraverso iniziative comuni e un miglior scambio di informazioni, nonché attività parlamentari a sostegno di quei Paesi. La Conferenza ha dunque formulato la richiesta alla Presidenza di elaborare proposte a tal fine prima della riunione di Dublino del 24 e 25 marzo. Pertanto, in data 5 marzo 2013 è stata trasmessa ai Parlamenti dell’UE:

·         la proposta della Presidenza cipriota di istituire una missione conoscitiva per il monitoraggio dei processi democratici nel vicinato mediterraneo meridionale e orientale dell’UE (cfr documenti allegati).

Si prospetta lo svolgimento di una missione conoscitiva, che si recherebbe in visita nei paesi della Primavera araba per poi riferire alla Conferenza. Alla missione potrebbe partecipare un massimo di 8 componenti, selezionati ad invito dalla Conferenza; all’interno del gruppo potrà essere designato un coordinatore e la composizione dello stesso potrà essere prolungata sino alla Conferenza successiva e anche ulteriormente prorogata. Le funzioni di segreteria potranno essere assicurate dal Parlamento di cui fa parte il coordinatore, in cooperazione con la Troika presidenziale e il Parlamento europeo. Dei costi delle missioni potranno farsi carico i Parlamenti partecipanti.

Un’accurata valutazione sulla praticabilità della proposta dovrà considerare i seguenti diversi elementi:

a)      per un verso, l’interesse del Parlamento italiano ad approfondire le questioni prospettate in relazione allo svolgimento di un’indagine conoscitiva sulla materia da parte della III Commissione nella XVI legislatura;

b)      per altro verso, l’esigenza di evitare duplicazioni e sovrapposizioni con analoghe iniziative adottate nell’ambito della cooperazione interparlamentare, con particolare riferimento all’Unione per il Mediterraneo (UPM);

c)      infine, l’impossibilità, allo stato, di quantificare gli oneri che potrebbero derivarne per le Camere interessate a partecipare, anche in relazione alla durata del mandato della missione che nella proposta cipriota potrebbe essere prorogata e che, in ogni caso, sembrerebbe durare fino alla prossima Conferenza.

 


Prevenzione dei conflitti - L’UE come peace maker

 



 

L’UE e la prevenzione dei conflitti

Mantenere la pace, evitare che i conflitti sfocino nella violenza e rafforzare la sicurezza internazionale sono elementi importanti dell'azione esterna dell'Unione europea, come stabilito all’articolo 21 del Trattato sull’Unione europea.

L’UE rivendica lo svolgimento di un ruolo importante nella promozione della pace, in considerazione del peso esercitato a livello mondiale negli scambi commerciali e in qualità di donatore di aiuti, nonché di importante contributore delle organizzazioni internazionali e significativo fornitore di sicurezza in proprio e in cooperazione con i partner strategici.

L'Unione europea ha sviluppato un'ampia serie di strumenti per azioni di prevenzione sia a breve sia a lungo termine. Tra questi ultimi figurano, oltre alla cooperazione allo sviluppo e al commercio, le politiche in materia di controllo degli armamenti, diritti umani e ambiente, nonché il dialogo politico. L'Unione europea dispone altresì di strumenti diplomatici e umanitari per la prevenzione a breve termine. I rappresentanti speciali dell’UE svolgono un importante ruolo nell'opera di prevenzione dei conflitti.

Le capacità di prevenzione dei conflitti dell'UE sono state inoltre rafforzate attraverso lo sviluppo, nell'ambito della Politica di sicurezza e difesa comune, di strutture e capacità per la gestione civile e militare delle crisi, compresi i pool per lo spiegamento rapido e la riforma del settore della sicurezza, e la creazione dello strumento per la stabilità.

Le linee guida dell’azione dell’UE in materia di prevenzione dei conflitti sono state delineate dal Consiglio del giugno 2001, che ha approvato il cosiddetto programma di Göteborg, identificando alcuni importanti elementi:

Il programma resta ancora oggi una base valida per il proseguimento dell'azione dell'Unione europea nel settore della prevenzione dei conflitti, come stabilito dal Consiglio del giugno 2011. Nelle sue conclusioni il Consiglio ricorda che sono stati compiuti notevoli progressi nell'attuazione del programma e vi sono vari esempi positivi del successo delle azioni preventive. Ciò nonostante si rendono necessari un rafforzamento e una combinazione più efficace degli strumenti a disposizione.

Il Consiglio ritiene in particolare che l'allarme tempestivo debba essere ulteriormente rafforzato in ambito UE, integrando meglio le capacità esistenti e i dati provenienti da tutte le fonti, compresi gli Stati membri, e attingendo più ampiamente alle informazioni ottenute in loco dalle delegazioni dell'UE e dagli attori della società civile, al fine di dare un fondamento più solido alle analisi dei rischi di conflitto. Potenziare l'allarme tempestivo consentirà inoltre all'UE di operare più efficacemente con i partner in relazione alla responsabilità di proteggere la popolazione civile e tutelare i diritti umani.

Maggiore enfasi deve inoltre essere posta sull'adozione di azioni rapide per attenuare i rischi di insorgenza dei conflitti e del loro reiterarsi, per esempio mediante l'utilizzo efficace delle analisi dei rischi di conflitto. Vi è un margine per il rafforzamento da parte dell'UE e degli Stati membri della loro capacità di elaborare opzioni di azione preventiva praticabili, operative, coerenti e realistiche. Una forma di azione rapida è la mediazione: l'UE consoliderà il "concetto sul potenziamento delle capacità di dialogo e di mediazione dell'UE" del 2009, rafforzerà le capacità di mediazione fornendo sostegno e formazione ai mediatori e al loro personale e migliorerà la loro preparazione. Il Consiglio accoglie con favore il sostegno del Parlamento europeo al riguardo. L'UE continuerà a sostenere i partner locali, regionali e internazionali, le organizzazioni non governative e le istituzioni rilevanti per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti e il rafforzamento degli sforzi di pace, ove necessario.

Il Consiglio sottolinea inoltre che, per consentire all'Unione europea di operare con successo nel settore della prevenzione strutturale a lungo termine dei conflitti per integrare la gestione delle crisi a breve termine e le operazioni di sostegno alla pace, sarà necessario rafforzare ulteriormente i partenariati sinergici vantaggiosi e sostenibili con i partner fondamentali quali le Nazioni Unite, l'OSCE, la NATO, la Banca mondiale, l'Unione africana e altri attori internazionali e singoli paesi, quali gli USA.

Mediazione e dialogo

La mediazione è parte della diplomazia preventiva dell’UE sul territorio ed è vista come una componente importante dell’ampia gamma degli strumenti a disposizione dell’UE nell’area della prevenzione dei conflitti e della costruzione della pace.

La capacità di mediazione dell’UE è stata sviluppata a partire dal Concetto di potenziamento delle capacita di dialogo e di mediazione dell'UE, adottato nel novembre 2009, in cui sono individuati i principi dell’attività: coerenza politica e inserimento dell’iniziativa nel più ampio contesto dell’azione esterna dell’UE; complementarietà con gli altri strumenti dell’UE nel settore della prevenzione dei conflitti; valutazione dei rischi; sforzi di mediazione pienamente in linea con i principi del diritto internazionale in materia di diritti umani; promozione della partecipazione delle donne.

Attori come rappresentanti speciali dell’UE, delegazioni e missioni PSDC sono frequentemente impiegati in sforzi di mediazione, che vanno dal dialogo ad alto livello politico alle iniziative di capacity building per i soggetti interessati in loco.

L’UE è anche attiva nel processi di dialogo con le organizzazioni della società civile a livello locale, in particolare attraverso lo strumento di stabilità (vedi infra), nonché attraverso l’African Peace Facility. Quest’ultimo fornisce tra l’altro sostengo alle iniziative di mediazione dell’Unione africana e delle organizzazioni africane subregionali. In tale ambito, con l’obiettivo di assicurare un accesso rapido e flessibile ai finanziamenti nei primi stadi delle iniziative di mediazione a guida africana, è stato istituito un meccanismo di risposta rapida.

Una divisione specifica dedicata a "Strumenti di Prevenzione dei conflitti, peace building e mediazione” nel SEAE sostiene i servizi geografici, le delegazioni UE, i rappresentanti speciali e i dirigenti del servizio nel prendere decisioni per perseguire la pace e la prevenzione dei conflitti.

Lo strumento per la stabilità

Con il lancio dello strumento di stabilità nel 2007, la Commissione ha intensificato il suo lavoro nell’area della prevenzione dei conflitti e del peace building. In caso di situazione di crisi o al delinearsi di una crisi, soprattutto nei casi a rischio di evoluzione in un conflitto armato, lo strumento per la stabilità intende contribuire alla protezione della democrazia, dell'ordine pubblico e della sicurezza delle persone, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

La dotazione finanziaria dello strumento di stabilità per il periodo 2007-2013 è pari a 2 miliardi di euro. L'assegnazione proposta per lo strumento di stabilità relativamente alle prospettive finanziarie 2014-2020 e di 2,8 miliardi di euro.

I progetti di risposta alle crisi sotto lo strumento di stabilità riguardano un’ampia gamma di settori: sostegno alla mediazione, confidence building, creazione di amministrazioni transitorie, rafforzamento dello stato di diritto, smobilitazione e reintegrazione degli ex combattenti nella società, misure a favore dei bambini soldato e riabilitazione delle vittime; ruolo delle risorse naturali nei conflitti. Nell’ambito dello strumento di stabilità, tali attività possono essere sostenute tempestivamente in periodi di crisi quando l’aiuto finanziario dell’UE non può essere fornito tramite altre fonti.

Lo strumento è stato utilizzato per finanziare un largo numero di risposte alla crisi nel mondo. La più ampia percentuale di fondi è andata a progetti in Africa, nell’Asia del Pacifico, nei Balcani, seguiti da Medio Oriente, America latina e Caraibi.

Innovativa parte dello strumento è il Partenariato per la costruzione della pace, istituito per rafforzare le capacità della società civile nelle attività di peace-building.

Le organizzazioni della società civile – soprattutto quelle con un’estensiva presenza sul territorio - costituiscono infatti una fonte inestimabile di expertise in questo ambito, sia nel fornire informazioni e analisi tempestive della situazione e degli incipienti conflitti sia nell’affrontare le conseguenze sul terreno.

Il Partenariato per la costruzione della pace si prefigge di migliorare le capacità delle organizzazioni rilevanti nelle situazioni pre-crisi, mettendole in grado di sviluppare sistemi di allarme rapido, fornire mediazione e servizi di riconciliazione, affrontare le tensioni tra comunità.

Il tipo di organizzazioni che possono ottenere sostegno sotto questo strumento sono principalmente organizzazioni non governative, tuttavia in alcuni casi il sostegno può andare anche alla cooperazione tra UE e agenzie delle Nazioni Unite o organizzazioni regionali come l’Unione Africana o agenzie degli Stati membri.


L’approccio globale all’instabilità in Africa - L’esperienza del Corno d’Africa



L’approccio dell’UE al Corno d’Africa

Nell’ultima decade, l’UE ha progressivamente sviluppato un approccio globale al Corno d’Africa[6], inclusi interventi di sviluppo a lungo termine intesi a creare sicurezza, costruire la pace e migliorare la governance democratica della regione.

Tale approccio è stato formalizzato a novembre 2011, quando il Consiglio ha adottato un quadro strategico per guidare l'impegno dell'UE nella regione.

Come indicato nel quadro strategico, l'impegno a lungo termine dell'UE nei confronti del Corno d'Africa trova le sue radici nell'importanza geostrategica della regione, nel desiderio dell'UE di contribuire al benessere della popolazione del Corno d'Africa e di aiutare a sollevarla dalla povertà per passare ad una crescita economica autonoma. L'instabilità della regione rappresenta una sfida crescente non solo per la sicurezza delle popolazioni che vi abitano, ma anche per il resto del mondo. Il contributo costante dell'UE sosterrà sia iniziative a livello regionale, anche attraverso l'Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD)[7] e l'Unione africana (UA), sia iniziative di carattere nazionale volte ad ottenere una pace duratura, sicurezza e giustizia, un buon governo basato sui principi democratici dell'inclusione, lo stato di diritto e rispetto per i diritti umani.

Il quadro strategico riconosce altresì la necessità di proteggere i cittadini europei dalle minacce che emanano da alcune parti delle regione, fra cui il terrorismo, la pirateria e la proliferazione delle armi. Individua inoltre una serie di sfide comuni, quali i cambiamenti climatici e la migrazione.

Contestualmente all’adozione del quadro strategico. è stato nominato un Rappresentante speciale dell’UE per il Corno d’Africa (RSUE), con l’obiettivo di contribuire attivamente agli sforzi regionali ed internazionali volti a raggiungere una pace duratura, la sicurezza e lo sviluppo nella regione. Inoltre, l’RSUE punta a rafforzare la qualità, l’intensità e l’impatto degli svariati aspetti dell’impegno dell’UE nel Corno d’Africa. Inizialmente, è stato dato carattere prioritario alla Somalia e alla dimensione regionale del conflitto, nonché alla pirateria, che trova le proprie radici nell’instabilità della Somalia. Attualmente, e fino al 30 giugno 2013, l’incarico è ricoperto da Alexander RONDOS.

L’impegno dell’UE verso la regione

Come ricordato dal Consiglio, l'UE è già fortemente impegnata nella regione e il suo coinvolgimento è incentrato nei seguenti settori principali: il partenariato per lo sviluppo, le relazioni commerciali, il dialogo politico, la risposta umanitaria, la risposta alle crisi e la gestione delle stesse.

Il fondamento istituzionale delle relazioni dell'UE con la maggior parte dei paesi della regione è l'accordo di Cotonou[8]. Esso prevede un partenariato per lo sviluppo con sostegno finanziario attraverso il Fondo europeo di sviluppo (FES) ai singoli paesi in forma di dotazioni finanziarie nazionali e regionali. Il 10° FES, in corso di attuazione, prevede un totale di 2 miliardi di euro per il sostegno bilaterale ai paesi del Corno d'Africa e attraverso una quota di 645 milioni di euro messi a disposizione di quattro organizzazioni regionali, inclusa l'IGAD per progetti regionali. I programmi indicativi nazionali sono negoziati con i singoli paesi e comprendono il sostegno a sviluppo rurale e agricoltura, infrastrutture, governance, istruzione, attori non statali, commercio e sviluppo del settore privato nonché sostegno macroeconomico.

Le relazioni commerciali tra i paesi appartenenti all'IGAD e l'UE sono disciplinate principalmente dalle disposizioni "Tutto tranne le armi" del sistema di preferenze generalizzate (SPG)[9] che prevedono l'accesso in esenzione da dazi ai mercati dell'UE per quasi tutti i prodotti provenienti dai paesi meno sviluppati (vale a dire tutti tranne il Kenya). L'UE negozia inoltre accordi di partenariato economico (APE)[10] con i paesi appartenenti all'IGAD tramite la Comunità dell'Africa orientale (EAC) e l'Africa orientale e australe (ESA).

Il dialogo politico è previsto all'articolo 8 dell'accordo di Cotonou, ma il dialogo politico dell'UE con i paesi del Corno d'Africa va oltre il dialogo formale, come previsto in altre parti dell'accordo.

In Somalia l'UE ha guidato la regione del Somaliland verso un processo democratico più solido, mentre nella Somalia centro-meridionale l'UE ha svolto un ruolo chiave nell'incoraggiare un percorso verso un regime costituzionale. L'UE ha regolarmente fornito sostegno ai processi elettorali nei paesi del Corno d'Africa, attraverso l'assistenza alle commissioni elettorali nonché mediante missioni di osservazione elettorale, fornendo altresì sostegno tecnico e in materia di formazione al quadro istituzionale dello Stato - tribunali, giustizia, amministrazione, gestione finanziaria e governance. La necessità di rafforzare lo stato di diritto, obiettivo a lungo termine della strategia comune Africa-UE, è un elemento fondamentale del dialogo politico con la regione ed è anche alla base del riconoscimento nell'accordo di Cotonou del fatto che la Corte penale internazionale (CPI) è parte integrante del quadro internazionale per la costruzione della pace e della giustizia. L'UE crede fermamente che la CPI debba svolgere un ruolo fondamentale nell'incoraggiare norme di comportamento internazionali nei conflitti come pure la prevenzione dei conflitti.

Riguardo alla risposta umanitaria, l'UE sta fornendo aiuti umanitari in base alle esigenze delle persone colpite da siccità e conflitti, inclusi gli sfollati interni e i profughi, pienamente in linea con i principi umanitari di neutralità, imparzialità e indipendenza. L'entità degli aiuti umanitari supera attualmente i 760 milioni di euro per la regione nel suo insieme. Il Consiglio sottolinea tuttavia l'esigenza di affrontare le cause dell'attuale crisi umanitaria, in particolare l'insicurezza alimentare strutturale, la siccità ricorrente ed i conflitti. L'UE continuerà a sostenere i paesi della regione nel rafforzamento delle loro capacità nazionali mediante strategie di riduzione del rischio di catastrofi e programmi di cooperazione allo sviluppo a lungo termine nei settori della preparazione alla siccità, dell'agricoltura, dello sviluppo rurale e della sicurezza alimentare.

La risposta alle crisi e gestione delle stesse è stato il settore di impegno dell'UE a crescita più rapida. Questa attività è svolta attraverso la politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) e lo strumento per la stabilità[11] e prevede negoziati, sforzi di mediazione, rafforzamento dello stato di diritto, sostegno diretto a referendum, sostegno delle capacità locali di risposta alle crisi e gestione delle stesse per rendere effettiva l'architettura africana di pace e di sicurezza. È attualmente il caso della Somalia.

Oltre al sostegno umanitario, l'UE fornisce finanziamenti per le istituzioni federali di transizione, attraverso attività di cooperazione nel settore della governance gestite dalle Nazioni Unite e dalla società civile, e per la missione dell'Unione africana (AMISOM) attraverso il Fondo per la pace in Africa. A quest’ultimo proposito si segnala che – come ricordato nella risoluzione del Parlamento europeo del 15 gennaio 2013 – di recente l’UE ha deciso di fornire sostengo supplementare alla missione, per consentirle di raggiungere una forza militare di oltre 17.000 unità. L’UE svolge inoltre nel paese due missioni militari della PSDC - l'operazione navale ATALANTA che contribuisce a reprimere la pirateria nell'Oceano Indiano occidentale e la missione di formazione dell'UE (EUTM Somalia) in Uganda che sostiene la formazione alle forze di sicurezza nazionali somale in partenariato con l'Uganda e gli Stati Uniti. La pirateria al largo delle coste somale continua infatti ad avere ripercussioni negative sulla sicurezza marittima internazionale e sulle attività economiche regionali ed internazionali. In tale contesto, si ricorda che il Consiglio del 12 dicembre 2011 ha approvato una nuova missione,  EUCAP Nestore, nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune, per rafforzare la capacità degli Stati della regione del Corno d’Africa e dell’Oceano indiano occidentale a gestire efficacemente le loro acque territoriali. Peraltro si ricorda che con la decisione del 23 marzo 2012 il Consiglio ha attivato un centro operativo dell’UE a sostegno delle tre missioni nel Corno d’Africa, vale a dire l’Operazione Atalanta, l’EUTM Somalia e la missione civile EUCAP Nestore, al fine di aumentarne l’efficienza, la coerenza e le sinergie. In particolare, il centro operativo dell’UE contribuisce a facilitare lo scambio di informazioni, a migliorare il coordinamento e a rafforzare le sinergie tra sfera civile e militare.

Analogamente, in Sudan e Sud Sudan, l'UE ha fornito sostegno di emergenza e ha accompagnato il processo politico all'origine dell'accordo globale di pace (CPA). Il rappresentante speciale dell'UE (RSUE) per il Sudan e il Sud Sudan ha lavorato in particolare a sostegno dell'attuazione del CPA e per una soluzione pacifica del conflitto nel Darfur. L'UE ha fornito sostegno finanziario attraverso il Fondo per la pace in Africa alla missione dell'Unione Africana in Sudan (AMIS) e ha contribuito anche alla sicurezza e alla stabilizzazione nel Darfur attraverso l'operazione PSDC, EUFOR Tchad/RCA. Da quando il Sud Sudan è diventato indipendente, l'UE mobilita risorse in comune e in cooperazione con altri donatori principali per assicurare quanto più possibile la coerenza e l'efficacia del sostegno internazionale al nuovo Stato.

Per integrare e sostenere le operazioni di lotta contro la pirateria, l'UE ha concordato con paesi terzi (Kenya, Seychelles e, dal 16 luglio 2011, Maurizio) il trasferimento di persone sospettate di pirateria catturate dall'operazione Atalanta. L'UE fornisce, attraverso lo strumento per la stabilità, sostegno a pubblici ministeri, giudici, polizia e amministrazione carceraria nei tre paesi.

Riguardo alla lotta contro il terrorismo, l'UE partecipa attivamente al dialogo con i partner chiave e all'istituzione di un forum globale antiterrorismo (GCTF), comprendente un gruppo di lavoro sul Corno d'Africa.

In risposta alla migrazione, l'UE fornisce sostegno al programma di protezione regionale dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), in Kenya, a Gibuti e nello Yemen. Il programma di protezione regionale mira a rafforzare la protezione e ad aumentare l'assistenza ai rifugiati e ai richiedenti asilo, assicurando nel contempo la sicurezza alle frontiere e protezione contro la tratta di esseri umani. L'UE fornisce inoltre un sostegno significativo a Dadaab in Kenya, il campo di rifugiati più grande al mondo. L'UE tiene inoltre un dialogo con la regione per intensificare la cooperazione sulla migrazione, nel quadro dell'articolo 13 dell'accordo di Cotonou.

Nel 2007 l'UE ha lanciato l'iniziativa per il Corno d’Africa, volta a promuovere la cooperazione regionale aiutando i paesi del Corno d'Africa a collaborare per affrontare congiuntamente le sfide comuni dello sviluppo, che sono alla radice di molti conflitti. La prima fase dell'iniziativa consiste in programmi di infrastrutture di interconnessione in materia di energia, trasporti e gestione delle risorse idriche.

Orientamenti futuri

Sulla base di questo impegno e sfruttando le opportunità offerte dall'entrata in vigore del trattato di Lisbona - la nomina dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e l'istituzione del servizio europeo per l'azione esterna (SEAE) -, l'UE mira a rendere la sua azione più visibile ed efficace attraverso un approccio globale al Corno d'Africa che riunisca tutti gli indirizzi delle politiche dell'UE.

Per affrontare le sfide interconnesse e conseguire l'obiettivo della pace, della sicurezza, dello sviluppo e di un governo responsabile nel Corno d'Africa, l'UE agirà nei seguenti settori:

1) Strutture statali democratiche e responsabili

Lo sviluppo di istituzioni e processi democratici in grado di contribuire alla sicurezza umana e alla responsabilizzazione sarà sostenuto attraverso:

-     la promozione del rispetto delle norme costituzionali, dello stato di diritto, dei diritti umani e della parità di genere tramite la cooperazione e il dialogo con i partner del Corno d'Africa;

-     il sostegno alla riforma del settore della sicurezza e alla creazione di organismi di vigilanza civili per istituzioni della sicurezza responsabili nei paesi del Corno d'Africa;

-     l'attuazione nella regione della politica dell'UE in materia di diritti umani;

-     il controllo del seguito dato alle raccomandazioni della missione di osservazione elettorale e, se del caso, il sostegno alla loro attuazione;

-     la lotta alla corruzione mediante il sostegno alle riforme nel settore della gestione delle finanze pubbliche;

-     il sostegno ad una società civile indipendente in grado di formulare agende sociali.

 

2) Pace, sicurezza, prevenzione e risoluzione dei conflitti

L'insicurezza nella regione e le minacce per la pace derivanti dal conflitto violento in Somalia, dal conflitto in parti del Sudan, compreso il Darfur, e nel Sud Sudan, nonché dai conflitti latenti tra paesi quali l'Etiopia e l'Eritrea o anche all'interno dei paesi per via, spesso, di una cultura dell'impunità o di risentimenti etnici, clanici o regionali e/o per motivi di accesso al potere richiedono:

-     la collaborazione con la regione stessa e con i partner internazionali per affrontare le cause alla base dei conflitti;

-     il sostegno agli sforzi di mediazione locali, regionali o internazionali per risolvere i conflitti in corso, in particolare in Somalia e Sudan;

-     l'assistenza all'instaurazione della sicurezza in Somalia e nel Sud Sudan;

-     la collaborazione con i partner per creare buone e pacifiche relazioni di vicinato a sostegno del programma "Frontiere" dell'UA;

-     l'incoraggiamento della cooperazione tra Etiopia e Eritrea e il sostegno alla piena attuazione dell'accordo di Algeri;

-     il monitoraggio del traffico d'armi nella regione, in particolare verso la Somalia, il Sudan e il Sud;

-     la lotta contro l'accumulo di armi di piccolo calibro;

-     la lotta all'impunità mediante il sostegno alle istituzioni transitorie della giustizia e alle organizzazioni della società civile;

-     la promozione della partecipazione delle donne ai processi di pace e agli sforzi di mediazione.

3) Mitigazione degli effetti di insicurezza nella regione

Affrontare, attraverso l'insieme degli strumenti pertinenti, gli effetti negativi della pirateria nonché di altre forme di criminalità organizzata (p.e. traffico di esseri umani, di armi e di droga) e del terrorismo, ma anche gli effetti della migrazione irregolare - tutti frutto della povertà e dell'insicurezza nella regione - richiede:

-     il sostegno attivo allo sviluppo di capacità regionali nei settori marittimo e giudiziario;

-     la collaborazione e il coordinamento a livello regionale con l'Organizzazione marittima internazionale (IMO) per rendere operativi la strategia e il piano d'azione di lotta contro la pirateria per la regione dell'Africa orientale e meridionale e dell'Oceano indiano;

-     la conclusione di accordi di trasferimento con paesi terzi disposti ad accettare il trasferimento di persone sospettate di pirateria catturate dall'operazione Atalanta;

-     il coordinamento con i partner attraverso il forum globale antiterrorismo (GCTF) per quanto riguarda le misure di sviluppo delle capacità e la lotta alla radicalizzazione in Somalia e Yemen nonché per quanto riguarda le misure antiterrorismo regionali (attività di contrasto, stato di diritto, giustizia penale, lotta alla radicalizzazione e finanziamento del terrorismo) in Kenya e Uganda; lo sviluppo del collegamento tra aspetti esterni ed interni della sicurezza dell'UE nell'intento di attuare la sua strategia di sicurezza interna, concorrere alla sicurezza globale e promuovere la strategia globale contro il terrorismo dell'ONU.

4) Riduzione della povertà, crescita economica e prosperità

Sostenere istituzioni migliori, trasparenti e responsabili e lo sviluppo e l'attuazione di politiche adeguate può apportare benefici alle popolazioni del Corno d'Africa:

-     semplificando la programmazione degli aiuti a livello di paesi gestita dalla Commissione e dagli Stati membri;

-     contribuendo a mezzi di sussistenza alternativi attraverso la creazione di posti di lavoro e l'istruzione (compresa quella dei profughi a lungo termine nei campi);

-     rafforzando la capacità di reagire alle catastrofi, con collegamento tra aiuto di emergenza, risanamento e sviluppo in una prospettiva di lungo termine;

-     integrando i cambiamenti climatici nelle strategie di sviluppo per settori con l'obiettivo di sostenere l'aiuto all'adattamento e la cooperazione tecnica in materia di sicurezza alimentare, preparazione alla siccità e gestione delle risorse idriche, promozione di attività di sostentamento pastorali nelle zone aride, ricerca per lo sviluppo di colture e allevamenti resistenti alla siccità e ad alto rendimento, sostegno ad appropriate fonti energetiche rinnovabili;

-     ricorrendo a nuove risorse di finanziamento e di entrata (p.e. sistemi di entrate fiscali) e a partenariati tra settore pubblico e privato;

-     sostenendo le telecomunicazioni/tecnologie dell'informazione; potenziando le capacità commerciali e attribuendo al commercio una funzione propiziatrice degli obiettivi di sviluppo generali.

5) Cooperazione regionale

Al fine di favorire l'integrazione regionale, l'integrazione della regione nell'economia globale e la cooperazione regionale per affrontare gli ostacoli comuni allo sviluppo, l'UE:

-     coordinerà i dialoghi nazionali e regionali tra i paesi del Corno d'Africa;

-     collaborerà con l'IGAD, il Mercato comune dell'Africa orientale e australe (COMESA) e la Comunità dell’Africa orientale per promuovere la loro iniziativa per un processo "tripartito" di integrazione politica e commerciale con la Comunità per lo sviluppo dell'Africa australe (SADC) e fornirà sostegno all'integrazione e alla crescita regionali attraverso gli accordi partenariato economico;

-     rafforzerà il collegamento istituzionale delle comunità regionali con l'UA e con il meccanismo di coordinamento della forza di pronto intervento dell'Africa orientale (EASFCOM) per la cooperazione per la pace e la sicurezza;

-     concorrerà all'organizzazione di una conferenza di donatori/investitori per attuare i programmi di interconnessione dell'iniziativa per il Corno d'Africa, p.e. il corridoio di Berbera;

-     si adopererà per estendere l'iniziativa per il Corno d'Africa ad altri settori di cooperazione transfrontaliera;

-     si avvarrà della piattaforma regionale per le risorse idriche creata dall'iniziativa per il Corno d'Africa per promuovere la cooperazione nella gestione delle acque del Nilo nonché la cooperazione per gli investimenti nel settore dell'energia idroelettrica e per l'irrigazione dei paesi rivieraschi.

L'UE perseguirà i suoi obiettivi nella regione rafforzando una serie di partenariati esistenti e instaurandone di nuovi:

·         con i paesi della regione e la società civile - attraverso l'accordo di Cotonou, il commercio, la politica di sicurezza e difesa comune e la mediazione -  ma anche con i paesi della penisola araba, in particolare con lo Yemen, la cui prossimità e i cui legami storici con la regione del Corno d'Africa fanno sì che gli sviluppi e le sfide si riversino su tutto lo stretto di Bab-el-Mandeb;

·         con i paesi terzi relativamente allo sviluppo delle capacità in materia di stato di diritto, giustizia penale, lotta alla radicalizzazione, finanziamento del terrorismo nella regione e risoluzione dei conflitti;

·         con le organizzazioni regionali e internazionali per quanto riguarda la cooperazione regionale, ad esempio, in materia di commercio, prevenzione dei conflitti e altri settori di interesse comune; con il Segretariato dell'iniziativa per il Bacino del Nilo per quanto riguarda la gestione delle risorse; con la Lega degli Stati arabi, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale nonché con la Banca africana di sviluppo e le organizzazioni non governative per quanto riguarda le questioni legate allo sviluppo e alla costruzione della pace, con l'IMO, l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC), l'Organizzazione internazionale della polizia criminale (Interpol), l'Ufficio europeo di polizia (Europol), il gruppo di contatto antipirateria al largo delle coste somale delle Nazioni Unite e, se del caso, la NATO per quanto riguarda la cooperazione in materia di lotta alla pirateria e stato di diritto.

 

Sulla strategia per il Corno d’Africa il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione il 15 gennaio 2013, in cui tra le altre cose:

·       invita la Commissione a considerare la fornitura di aiuto e sostegno a tutti i paesi africani che si sono impegnati militarmente a favore del mantenimento della pace nei paesi del Corno d'Africa, specialmente in Somalia;

·       deplora il fatto che, nonostante il sostegno fornito dall'UE a favore del rafforzamento dello Stato di diritto nella regione, gli accordi di trasferimento conclusi dall'Unione con alcuni paesi terzi (Kenya, Seychelles, Maurizio), gli accordi bilaterali tra le Seychelles, il Puntland e il Somaliland per il rimpatrio dei pirati condannati e i diversi quadri giuridici internazionali pertinenti, numerosi pirati e altri criminali non siano stati ancora arrestati, o siano stati arrestati e poi rilasciati per mancanza di prove certe o della volontà politica di perseguirli;

·       rinnova la richiesta rivolta agli Stati membri, in collaborazione con Europol e Interpol, di indagare e rintracciare i flussi di denaro, nonché di confiscare il denaro versato come riscatto ai pirati, giacché, secondo alcune indicazioni, i fondi in questione potrebbero essere trasferiti su conti bancari di tutto il mondo, anche nelle banche europee; chiede inoltre di individuare e smantellare le reti della criminalità organizzata che traggono profitto da tali azioni; invita il Consiglio ad agevolare l'ulteriore cooperazione tra UE NAVFOR, da un lato, ed Europol e Interpol, dall'altro;

·       sottolinea il bisogno di uno stretto coordinamento strategico tra tutti gli attori incaricati della sicurezza, in particolare UE NAVFOR ATALANTA, EUTM Somalia e EUCAP Nestor, nonché la NATO (operazione Ocean Shield), la task force guidata dagli Stati Uniti CTF-151, le Nazioni Unite e l'AMISOM; rileva l'esistenza di meccanismi di coordinamento internazionali quali il gruppo di contatto internazionale antipirateria al largo delle coste somale, con sede a New York, e il meccanismo SHADE (Shared Awareness and Deconfliction) con sede in Bahrain; plaude, pertanto, alla decisione del Consiglio del 23 marzo 2012 di attivare, per un periodo iniziale di due anni, il centro operativo dell'UE al fine di coordinare e rafforzare le sinergie tra le tre missioni PSDC nel Corno d'Africa e le strutture con sede a Bruxelles, nel quadro della strategia per il Corno d'Africa e in collegamento con il rappresentante speciale dell'Unione europea per il Corno d'Africa.


La crisi politica ed umanitaria nel Corno D’Africa

 

 

       Il 3 febbraio 2012 è stata ufficialmente decretata la fine dello stato di carestia in Somalia – il paese del Corno d’Africa più colpito dalla gravissima crisi alimentare la cui punta massima è stata raggiunta nell’estate del 2011, l’anno più secco dal 1950.

       Nel 2011 il Corno d’Africa è stato infatti investito da una devastante siccità che ha danneggiato milioni di persone. Le popolazioni delle regioni meridionali e centrali della Somalia sono state le più interessate. La combinazione di siccità, insicurezza alimentare e violazioni dei diritti umani hanno spinto centinaia di migliaia di somali, per lo più donne e bambini, ad abbandonare le proprie abitazioni per cercare rifugio nei paesi vicini.

       Secondo i dati forniti dall’UNHCR, nel mese di agosto 2012 i rifugiati somali nella regione del Corno d’Africa hanno superato la quota di un milione, anche se il flusso sta rallentando. Somalia, Afghanistan e Iraq, sono i paesi che danno origine alla maggiore quantità di profughi. Quelli in partenza dalla Somalia vengono ospitati in Kenya, Yemen, Egitto, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Tanzania e Uganda. A questi vanno aggiunti 1.360.000 somali sfollati interni. 

 

Il quadro politico somalo

       Dopo due decenni di guerra civile, però, la situazione in Somalia sembra finalmente giunta ad una svolta e la speranza di una pace duratura si fa più sostenuta. Dopo l’abbandono di Mogadiscio da parte degli Shebaab, migliaia di civili sono tornati in città, e la stessa cosa sta avvenendo in altre località della costa meridionale. Anche Kisimayo, ultima roccaforte del gruppo terrorista islamico, nonostante alcune sacche isolate di resistenza, è da qualche settimana sotto il controllo delle truppe regolari.

       A questo si accompagna l’insediamento delle nuove istituzioni, sostenute dalla comunità internazionale –dagli Stati Uniti in primis – e dal Kenya, le cui truppe hanno avuto un ruolo determinante nella sconfitta e nella dispersione degli Shebaab.

       Il nuovo Parlamento somalo, insediato nello scorso luglio e composto da 275 membri nominati dai membri anziani dei clan, ha eletto l’11 settembre il nuovo presidente della Somalia: si tratta di Hassan Sheikh Mohamud, accademico e fondatore, nel 2011, del Peace and Development Party (PDP). Il Parlamento lo ha preferito al Presidente in carica, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed.

       Secondo alcuni analisti Hassan Sheikh Mohamud rappresenta una speranza per il futuro del paese, grazie alla sua estraneità alla violenza e alla corruzione che da troppo tempo contraddistinguono la Somalia.

       Il Capo dello Stato somalo ha nominato Primo ministro un uomo d'affari, estraneo alla politica, Abdi Farah Shirdon Saaid, la cui nomina ha suscitato il plauso della comunità internazionale (ma non quello di al Shabaab che ha lanciato un appello alla popolazione somala affinché si unisca alla lotta contro il “governo di infedeli”).

       Il 5 novembre 2012 il nuovo premier somalo ha presentato ufficialmente il suo nuovo governo, composto di soli dieci ministri, che ha in seguito ricevuto la fiducia del Parlamento. Per la prima volta il ministero degli esteri è affidato ad una donna, Fauzia Yusuf Haji Adan, originaria del Somaliland. Il nuovo governo ha portato un po’ di ottimismo nei giudizi degli osservatori internazionali circa il futuro del paese, grazie al fatto che sembra aver intrapreso una direzione che taglia i legami con aspetti del passato molto critici.

       Il nuovo Esecutivo deve far fronte a molte sfide, a cominciare dalla presenza degli Shebaab[12] che, nonostante il loro arretramento, controllano ancora una vasta area della Somalia meridionale e centrale. L’attentato suicida del 29 gennaio 2013 nel quale hanno perso la vita due guardie della sicurezza nei pressi degli uffici del primo ministro, provano che gli Shebaab sono ancora una temibile minaccia. Il programma del governo Shirdon - in linea con la “Politica dei Sei Pilastri” del Presidente Mohamud – pone al centro della sua azione i progressi nelle aree della sicurezza e dell’economia, la ricostruzione delle istituzioni pubbliche del paese e le relazioni con il Puntland e il Somaliland.

       Il percorso verso la normalizzazione della Somalia è ancora in corso ma, anche grazie al sostegno delle forze del Kenya, dell’Etiopia e dell’Unione africana[13], la dilagante presenza degli Shabaab, come accennato, è stata notevolmente arginata, consentendo la riconquista di Mogadiscio prima, di Kisimayo e di altre importanti città poi. Il territorio non è però ancora del tutto sotto il controllo dello stato, ragione per la quale il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha approvato il 7 novembre la risoluzione che proroga il mandato della missione Amisom fino al 7 marzo 2013.

       Sebbene infatti la milizia degli Shabaab sia ora dispersa in piccoli gruppi, ha ancora la forza di condurre attacchi a sorpresa, operazioni che mette in atto occasionalmente specialmente nella capitale.

 

La crisi umanitaria

       Ai cambiamenti sul piano istituzionale non si affiancano però ancora grossi avanzamenti sul piano umanitario, dove l’allarme rimane ancora elevato. Le troppe stagioni consecutive di siccità nel Corno d’Africa hanno determinato la necessità di continuare ad assistere milioni di persone. In Somalia la popolazione che ancora abbisogna di aiuti alimentari è stata calcolata dall’OCHA (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) intorno ai 2,12 milioni di persone (nel 2011 era stata toccata la cifra record di 4 milioni). Di questi – secondo un bollettino del 26 settembre del Food Security and Nutrition Analysis Unit report – circa 236 mila sono seriamente malnutriti e bisognosi di trattamenti specifici.

       Il quadro della povertà e dell’estrema arretratezza diviene ancora più chiaro se si prendono in considerazione i dati forniti dal Somalia Human Development Report 2012 curato dall’UNDP (United Nations Development Programme): l’indice di sviluppo umano è stato calcolato essere pari a 0,285, laddove il valore ideale è 1. Se, come ipotizza il Rapporto, fossero disponibili  dati confrontabili relativi all’indice di sviluppo umano di tutti i paesi del mondo, la Somalia probabilmente si collocherebbe quasi al fondo della classifica, al 165° posto su 170 paesi (previsioni del 2010). La speranza di vita è di 50 anni (era di 47 anni nel 2001).

       L’ineguaglianza di genere è fortissima, superata solo in pochissimi altri paesi al mondo. Le donne patiscono una forte esclusione e una condizione di ineguaglianza che interessa tutte e tre le dimensioni prese in considerazione dall’Indice di Ineguaglianza di Genere (GII): la salute, l’occupazione e la partecipazione al mercato del lavoro. Le ragazze somale sono costrette a sposarsi molto giovani e le violenze contro le donne e le ragazze sono diffusissime. Le leggi tradizionali, usate in luogo di quelle dello Stato, sono altamente discriminatorie nei confronti del genere femminile.

       La popolazione maggiormente sofferente è quella nomade ed è considerata per il 99 per cento povera in tutte le dimensioni considerate.

       Infine, secondo il Rapporto dell’UNICEF State of the World’s Children 2012, la Somalia si colloca al primo posto per la mortalità infantile (bambini al di sotto dei cinque anni) a causa della scarsità di servizi sanitari e della loro scarsa qualità, del basso numero di vaccinazioni, della malnutrizione e del frequente scoppio di epidemie.

       Sul tema, il 27 luglio 2011, la Commissione Esteri della Camera ha approvato una risoluzione che impegna il governo a mettere a disposizione delle organizzazioni internazionali aiuti per fronteggiare la carestia; a contribuire alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica italiana su quella tragedia ; e a incrementare lo sforzo diplomatico per dare alle popolazioni del Corno d'Africa sistemi statuali e Governi stabili e democratici.

       Il 6 settembre dello stesso anno, l’Assemblea della Camera ha discusso alcune mozioni riguardanti le iniziative in relazione alla grave carestia nel Corno d’Africa. Il giorno successivo è stata approvata una mozione unitaria che, tra l’altro, impegna il Governo a  mettere a disposizione delle organizzazioni internazionali aiuti utili a fronteggiare l’emergenza-carestia; a incrementare gli interventi di cooperazione allo sviluppo soprattutto nei settori agricolo e sanitario; e ad adottare iniziative normative atte a semplificare il sistema di adozioni internazionali a favore dei bambini del Corno d'Africa.

 

La pirateria

       L’assenza di un apparato statale in Somalia ha consentito, oltre al radicamento della presenza degli Shabaab, anche il dilagare del fenomeno della pirateria marittima. Il ripetersi di attacchi su larga scala ha portato alla fine del 2008 al dispiegamento della missione Ocean Shield della NATO e della missione  Atalanta dell’Unione Europea. Altre misure di contrasto alla pirateria sono state prese da singoli governi e compagnie mercantili che hanno consentito l’imbarco di personale militare a bordo delle navi che attraversano il golfo di Aden e le altre acque infestate dai pirati.

       Si calcola che nel 2011 vi siano stati 439 atti di pirateria in tutto il mondo, ma oltre la metà di questi sono attribuiti ai pirati somali. Secondo il Piracy Reporting Centre dell’International Maritime Bureau, però, nel 2012 il numero degli attacchi è globalmente diminuito (da 439 a 297) grazie alla drastica riduzione degli episodi in Somalia e nel golfo di Aden, dove solo 75 navi hanno riportato attacchi nel 2012, contro le 237 dell’anno precedente.

       L'8 marzo 2012 la Commissione Difesa del Senato ha deliberato lo svolgimento di una indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della normativa sul contrasto della pirateria, con particolare riguardo alle acque del Corno d'Africa e dell'Oceano Indiano. L’indagine – i cui lavori non sono stati portati a termine - aveva il fine di acquisire in tempi rapidi elementi conoscitivi  sullo stato di attuazione, ed eventuali criticità, delle disposizioni di cui all'art. 5 del decreto-legge n. 107 del 2011, con particolare riferimento all'impiego di nuclei di protezione a bordo del naviglio civile che transita in acque colpite dal fenomeno della pirateria. 'impiego dei servizi di vigilanza privata sul naviglio battente bandiera italiana, vertente appunto sulle modalità attuative dell'impiego di guardie giurate a bordo del naviglio italiano contenute nel richiamato decreto-legge.

       Sul medesimo tema, la Commissione Difesa del Senato, nella seduta del 2 ottobre 2012, ha approvato una  risoluzione che vincola il Governo a numerosi e dettagliati impegni, fra i quali quello di ampliare la platea delle imbarcazioni possibili destinatarie dei servizi di protezione armata, ricomprendendovi anche il naviglio da pesca e a quello da trasporto passeggeri.

La situazione nei paesi confinanti

       Gli altri paesi della regione del Corno d’Africa che, come si è detto, continuano ad ospitare i numerosi profughi somali, sono a loro volta gravemente colpiti dalle conseguenze della siccità. Sempre secondo l’OCHA le persone che necessitano di assistenza umanitaria sono complessivamente in lieve diminuzione ma, ad esempio, assommano ancora a 2,1 milioni in Kenya (dati aggiornati al mese di settembre 2012) e 70 mila a Gibuti.

       I campi profughi del Kenya ospitano  532.660 somali (oltre 13 mila sono giunti solo nel 2012), quelli etiopi 214.167 (circa 25.500 dei quali arrivati nel 2012) e più di 29 mila quelli ugandesi. Un’altra meta dei profughi somali è lo Yemen che ne ospita 219 mila, 14 mila dei quali sono giunti nel 2012[14]. Il viaggio verso lo Yemen è il più pericoloso: durante l’attraversamento del golfo di Aden si verifica un numero incalcolabile di morti, mentre moltissimi cadono vittima dei trafficanti di esseri umani. Si calcola che  nel 2012 (fino ad ottobre) siano transitate attraverso il Golfo 80 mila persone, delle quali 17.500 circa erano somali.

       Dadaab, nel Kenya nordorientale è sorto tra il 1991 e il 1992 per ospitare i rifugiati a seguito della guerra civile culminata con il rovesciamento di Siad Barre. E’ il campo profughi più grande del mondo. In occasione del 63° comitato esecutivo dell’UNHCR, che si è svolto a Ginevra lo scorso ottobre, l’Ong Medici senza Frontiere ha denunciato che i rifugiati somali continuano a vivere in condizioni di estremo disagio (dovute alla riduzione degli aiuti e al conseguente peggioramento dei servizi di base) e in un clima di paura per l’assenza di sicurezza.

       Uccisioni ed episodi di violenza si susseguono con preoccupante frequenza, e riguardano civili, militari  e anche operatori umanitari. Per questa ragione MSF ha chiesto agli Stati Parte della Convenzione dell’Onu sui rifugiati di dare il proprio contributo al governo del Kenya e all’UNHCR affinché questi possano migliorare le tutele e l’assistenza ai rifugiati.

       Sebbene il Kenya imponga ai rifugiati somali di risiedere nei campi profughi, un consistente numero di essi vive ormai da anni in città come Garissa. Proprio a causa del diffondersi di una situazione di insicurezza e di violenze, il Commissario della contea di Garissa ha ordinato ai somali e agli altri stranieri non registrati di trasferirsi complesso di Dadaab, pena un dislocamento forzato. Della questione di Dadaab si è occupato anche il capo di stato keniano, Mwai Kibaki che, lo scorso settembre, ha esortato le agenzie dell’Onu e le altre organizzazioni internazionali a fornire assistenza umanitaria ai civili che vivono nelle zone liberate della Somalia.

       Anche Dollo Ado in Etiopia, un complesso di cinque campi, secondo solo a quello di Dadaab, soffre per la situazione di sovraffollamento che si verifica da ormai troppi anni. Ciascun campo contiene circa trentamila persone e i nuovi arrivati vengono trasferiti nei campi di Buramino (l’ultimo sorto) e di Kobe e Hillaweyn. I somali continuano a giungere a Dollo Ado, anche se il flusso è in calo: dai 2000 al giorno nel luglio 2011 a una media di 30 al giorno attualmente.

       Oltre a una devastante crisi umanitaria, l’esistenza di campi così vasti e sovraffollati ha anche creato un problema ambientale, dovuto in molti casi al depauperamento delle risorse, in particolare delle aree boschive, ormai trasformate in nuda terra.

 

 


 


Il processo di pace in Medio Oriente – il ruolo dell’Unione europea



L’Unione europea e il Medio Oriente

La risoluzione del conflitto arabo-israeliano è una priorità strategica per l’Unione europea.

L’obiettivo dell’UE è una soluzione a due Stati, con uno Stato palestinese indipendente e democratico, che coesista accanto ad Israele e agli altri vicini.

L’UE ritiene inoltre che la pace in Medio Oriente richieda una soluzione complessiva; ha dunque accolto con favore l’annuncio del maggio 2008 della ripresa di negoziati di pace tra Siria e Israele, con la mediazione turca, (al momento sospesi) e nel dicembre 2008 ha espresso la speranza che dialoghi di pace siano possibili anche tra Israele e Libano. L’UE ha inoltre molto apprezzato l’iniziativa araba di pace, come un passo ulteriore verso il processo di pace in Medio Oriente poiché offre la base di relazioni pacifiche e normalizzate tra Israele e tutti i 22 membri della Lega araba.

In tale contesto, l’Unione europea ha intrapreso diverse attività di natura politica e pratica a sostegno del processo di pace.

La posizione dell’UE in merito al conflitto in Medio Oriente

L’UE ritiene che il futuro Stato palestinese debba avere confini sicuri e riconosciuti. Ciò dovrebbe essere realizzato attraverso il ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967, se necessario con modificazioni minime e concordate, in conformità con le risoluzioni 242, 338, 1397, 1402 e 1515 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e i principi del processo di Madrid.

Nel dicembre 2008 l’UE ha confermato la sua preoccupazione per l’accelerazione dell’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Tale espansione pregiudica il risultato dei negoziati sullo status finale e minaccia il raggiungimento di una soluzione a due stati. L’UE ritiene che la costruzione di insediamenti ovunque nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme est, sia illegale alla luce del diritto internazionale.

Tale posizione è stata ribadita da ultimo nelle conclusioni del Consiglio di dicembre 2012, nelle quali si esprime la profonda indignazione dell’UE per l'intenzione annunciata da Israele di espandere gli insediamenti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e in particolare di sviluppare la zona E1. L’UE vi si oppone decisamente. Il piano relativo alla zona E1, se fosse attuato, comprometterebbe gravemente le possibilità di una soluzione negoziata del conflitto, mettendo a rischio la prospettiva di uno Stato palestinese contiguo e vitale e di Gerusalemme quale futura capitale di due Stati, e potrebbe comportare inoltre trasferimenti forzati della popolazione civile.

L’UE ritiene che i negoziati di pace dovrebbero includere la soluzione di tutte le questioni relative allo status di Gerusalemme. L’UE sostiene l’attività di institution building a Gerusalemme est, in particolare nei settori della salute, istruzione e giustizia.

L’UE sostiene una soluzione equa e concordata sulla questione dei rifugiati palestinesi. A partire dal 1971 l’UE ha fornito un significativo sostegno all’attività delle agenzie che garantiscono servizi vitali ai rifugiati palestinesi e si impegna ad adeguare tale sostegno in ragione della soluzione della questione.

Per quanto riguarda la sicurezza, l’Unione europea ha condannato in più occasioni senza riserve il terrorismo, la violenza o il suo incitamento, e ritiene che gli attacchi terroristici contro Israele non abbiano alcuna giustificazione.

A tale proposito si ricorda che l’UE ha incluso Hamas, Jahad islamica e altri gruppi palestinesi nelle liste di organizzazioni terroristiche al bando. L’Unione europea riconosce il diritto di Israele di proteggere i suoi cittadini da questi attacchi, ma sottolinea il fatto che il Governo israeliano nell’esercitare questo diritto dovrebbe agire nel rispetto del diritto internazionale, evitando di assumere iniziative che aggravino la situazione umanitaria e economica dei palestinesi. Secondo l’UE, l’assunzione della piena responsabilità della sicurezza da parte dell’Autorità palestinese nelle aree poste sotto la sua giurisdizione è un test importante per l’autorità stessa. Pertanto l’UE richiede che ciò avvenga urgentemente per dimostrare la determinazione dell’Autorità palestinese nella lotta contro la violenza estremista e gli attacchi terroristici pianificati e condotti da individui o gruppi.

Sugli specifici sviluppi del processo di pace in Medio Oriente si sono espresse in più occasioni le diverse istituzioni europee.

L’intervento più recente risale al 17 dicembre 2012 quando il Consiglio ha approvato conclusioni sul processo di pace in Medio Oriente, nelle quali manifesta la convinzione che sia giunto il momento di compiere passi concreti e coraggiosi verso la pace. Le parti devono avviare negoziati diretti e sostanziali senza condizioni preliminari per giungere ad una soluzione durevole del conflitto israelo-palestinese, che ponga fine a tutte le rivendicazioni.

Rammentando i suoi parametri per la ripresa dei negoziati tra le parti, definiti in precedenti conclusioni del Consiglio - anche nel dicembre 2009, dicembre 2010 e maggio 2011 - l'Unione europea ribadisce che non riconoscerà alcuna modifica dei confini anteriori al 1967, anche riguardo a Gerusalemme, che non sia stata concordata dalle parti. L'Unione europea esprime il suo impegno a far sì che, conformemente al diritto internazionale, tutti gli accordi tra lo Stato di Israele e l'Unione europea debbano indicare inequivocabilmente ed esplicitamente la loro inapplicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967, ossia le Alture del Golan, la Cisgiordania inclusa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.

L'Unione europea invita Israele ad evitare qualsiasi misura tale da pregiudicare la situazione finanziaria dell'Autorità palestinese. Qualunque iniziativa in tal senso da parte di Israele metterebbe infatti a repentaglio i meccanismi di cooperazione esistenti tra Israele e l'Autorità palestinese, influendo quindi negativamente sulle prospettive dei negoziati. Le obbligazioni contrattuali, segnatamente ai sensi del protocollo di Parigi, riguardanti il completo, tempestivo, prevedibile e trasparente trasferimento del gettito fiscale e doganale, devono essere rispettate.

Il 29 novembre l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a favore della risoluzione A/RES/67/19 per la concessione alla Palestina dello status di osservatore non membro in seno alle Nazioni Unite. L'Unione europea rivolge un appello alla leadership palestinese affinché si avvalga in maniera costruttiva di questo nuovo status e non intraprenda passi che possano aumentare la sfiducia e allontanare ulteriormente da una soluzione negoziata.

Nel riconoscere pienamente le legittime esigenze di sicurezza di Israele, il Consiglio continua a chiedere l’apertura incondizionata dei varchi per consentire l’accesso di aiuti umanitari, merci e persone da e verso la striscia di Gaza, la cui situazione è insostenibile fintanto che resta politicamente separata dalla Cisgiordania.

A tale proposito si segnala che, nelle citate conclusioni adottate il 23 maggio 2011, il Consiglio ha ribadito che l’UE è pronta a riattivare la missione di Rafah (vedi infra) appena le condizioni politiche e di sicurezza lo consentano, per assicurare all’UE il ruolo di parte terza al valico, come definito dell’Accordo del 2005 su movimenti ed accesso.

Il Parlamento europeo

Anche il Parlamento europeo si è espresso sulla questione approvando il 5 luglio 2012 una risoluzione sulla politica dell'UE in Cisgiordania e a Gerusalemme est in cui ribadisce la posizione dell’UE e sottolinea la necessità che i negoziati diretti tra Israele e Palestina, volti a raggiungere una soluzione fondata su due Stati, riprendano senza indugio nel rispetto del calendario auspicato dal Quartetto, al fine di superare l'inaccettabile situazione attuale.

Il PE chiede una piena ed effettiva attuazione della vigente legislazione dell'Unione e degli accordi bilaterali UE-Israele per garantire che il meccanismo di controllo dell'UE, ossia gli «accordi tecnici», non consenta ai prodotti degli insediamenti israeliani di essere importati nel mercato europeo alle condizioni preferenziali previste dall'accordo di associazione UE-Israele.

Nell’esprimere profonda preoccupazione per gli sviluppi sul terreno nel settore C della Cisgiordania e a Gerusalemme est, il PE invita il governo e le autorità israeliani a rispettare i loro obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario, in particolare:

-      a garantire l'immediata cessazione delle demolizioni di edifici, degli sfratti e dei trasferimenti forzati dei palestinesi,

-      ad agevolare le attività palestinesi di pianificazione e costruzione e la realizzazione dei progetti di sviluppo palestinesi,

-      ad agevolare l'accesso e la circolazione,

-      ad agevolare l'accesso dei palestinesi ai terreni agricoli e ai pascoli,

-      a garantire un'equa distribuzione delle risorse idriche per soddisfare le esigenze della popolazione palestinese,

-      a migliorare l'accesso della popolazione palestinese a servizi sociali e di assistenza adeguati, in particolare nei settori dell'istruzione e della sanità pubblica, nonché

-      ad agevolare le operazioni umanitarie nel settore C e a Gerusalemme Est.

Il Consiglio e la Commissione sono invitati a continuare a sostenere le istituzioni palestinesi e i progetti di sviluppo nel settore C e a Gerusalemme est e a fornire loro assistenza al fine di proteggere e rafforzare la popolazione palestinese. Il PE chiede un miglior coordinamento tra l'UE e gli Stati membri in questo campo e sottolinea la necessità che Israele metta fine alla pratica di trattenere le entrate doganali e fiscali appartenenti all'Autorità palestinese.

Il PE invita inoltre il Consiglio e la Commissione a continuare a trattare questi problemi a tutti i livelli nelle relazioni bilaterali dell'UE con Israele e l'Autorità palestinese, sottolineando che l'impegno di Israele a rispettare i propri obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario e in materia di diritti umani nei confronti della popolazione palestinese deve essere tenuto in piena considerazione nell'ambito delle relazioni bilaterali dell'UE con il paese.

Infine il PE esorta nuovamente l'UE e gli Stati membri a svolgere un ruolo politico più attivo, anche in seno al Quartetto, nell'ambito degli sforzi volti a conseguire una pace giusta e duratura tra israeliani e palestinesi. Il PE sottolinea ancora una volta il ruolo centrale del Quartetto e continua a sostenere gli sforzi dell'Alto rappresentate volti a dar vita a una prospettiva credibile per il rilancio del processo di pace.

Le iniziative dell’UE in favore del processo di pace

Il sostegno al processo di pace è fornito dall’UE attraverso diverse iniziative.

L’UE contribuisce a facilitare il processo di pace attraverso incontri regolari con i principali soggetti coinvolti e visite dei leader dell’UE in Medio Oriente nonché mediante le attività dell’Alto rappresentante, Catherine Ashton, e del Rappresentante speciale per il processo di pace[15].

Dal 24 al 26 gennaio 2012 l’AR è stata in visita in Israele e nei territori palestinesi allo scopo di incoraggiare le parti sulla strada di una soluzione negoziata.

Più di recente, l’8 e 9 luglio 2012 il Presidente della Commissione europea, José  Manuel Barroso, durante la sua visita in Medio Oriente, ha incontrato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il primo ministro palestinese, Salam Fayyad. In entrambi gli incontri il Presidente Barroso ha sollecitato una pronta ripresa dei negoziati, ritenendo che il processo di pace in Medio Oriente non possa diventare un orfano della primavera araba e che i significativi cambiamenti in corso in molti paesi della regione debbano costituire un incentivo e non un deterrente alla ripresa dei negoziati.

L’UE è uno dei partner del “Quartetto internazionale” (insieme a Stati Uniti, Federazione russa e Nazioni Unite) che il 30 aprile 2003 ha presentato la road map per il processo di pace formalmente accettata dal Governo israeliano e dall’Autorità palestinese.

L’UE è il maggior donatore dell’Autorità palestinese ed un importante partner economico di Israele, Egitto, Giordania, Libano e Siria. Le relazioni sono sostenute da accordi di associazione nel quadro del partenariato euro mediterraneo e da piani d’azione concordate nell’ambito della politica di vicinato. In particolare il partenariato euro mediterraneo serve come forum per il dialogo regionale e rimane l’unico contesto multilaterale, ad eccezione delle Nazioni Unite, dove tutte le parti in conflitto si incontrano e lavorano insieme.

La cooperazione bilaterale in campo economico e finanziario con tutte le parti coinvolte nel processo di pace, fornita nell’ambito di diversi strumenti di cooperazione, si prefigge di porre le condizioni per la pace, la stabilità e la prosperità della regione.

Missioni di peace-keeping

Tra le altre iniziative specifiche avviate dall’Unione europea si segnala, a partire dal novembre 2005 e dietro richiesta delle parti, la missione di controllo di frontiera al valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, EU BAM Rafah, istituita con l'azione comune 2005/889/PESC del 12 dicembre 2005. Il rapido avvio di EU BAM Rafah - sotto la guida del Generale Pietro Pistolese (Carabinieri) - ha consentito l’apertura del valico il 25 novembre 2005.

La missione ha l’incarico di monitorare, verificare e valutare attivamente i risultati conseguiti dall'Autorità palestinese, sviluppare le capacità palestinesi relativamente a tutti gli aspetti della gestione delle frontiere a Rafah e contribuire a mantenere il collegamento tra le autorità palestinesi, israeliane ed egiziane riguardo alla gestione del valico. La missione che si sarebbe dovuta concludere il 30 maggio 2008 è stata ulteriormente prorogata fino al 31 giugno 2013. Si segnala inoltre che il 29 aprile 2007 la Commissione europea ha avviato il primo programma di formazione per funzionari di dogana al valico di Rafah. Allo stato attuale, in conseguenza della situazione di Gaza, la missione è temporaneamente sospesa, in attesa di riprendere al più presto le attività non appena le condizioni lo consentano.

Dal 1° gennaio 2006 è attiva anche la missione UE di polizia per i territori palestinesi (Eupol Copps), istituita con l'azione comune 2005/797/PESC del 14 novembre 2005 per un periodo iniziale di tre anni – e successivamente estesa fino al 30 giugno 2013 - con l’obiettivo di assistere l'autorità palestinese nella creazione di dispositivi di polizia duraturi ed efficaci .

A partire dall’estate 2006, l’Unione europea contribuisce inoltre in maniera determinante alla missione UNIFIL delle Nazioni Unite in Libano.

Inoltre, l’UE ha un ruolo guida nella Task force internazionale - di cui fanno parte anche Stati uniti, Federazione russa, Nazioni Unite, Norvegia, Giappone, Canada, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale - istituita nel giugno 2002 con l’obiettivo di sostenere l’attuazione delle riforme civili palestinesi e di coordinare la comunità internazionale dei donatori.

 


Recenti sviluppi del conflitto arabo-israeliano

           

            Il conflitto arabo-israeliano, nel più ampio contesto regionale mediorientale, costituisce da sempre interesse prioritario del Parlamento. Il processo di pace non ha segnato punti di rilievo nell’arco della scorsa Legislatura - semmai mostrando gravi incidenti di percorso come le due crisi di Gaza - ma nella parte finale di essa la caduta soprattutto del regime egiziano di Mubarak ha fatto venire meno un attore fondamentale degli equilibri regionali, sì da suscitare apprensione in Israele.

            Tel Aviv paventa infatti l'onda islamista emersa dalle “primavere arabae” e a fronte di ciò alcune mosse del governo israeliano ne hanno accresciuto l'isolamento internazionale: se ciò è palese nei confronti della Turchia, anche le relazioni con l'Amministrazione USA di Obama non risultano idilliache. Le elezioni del gennaio 2013 non hanno infatti dato a Netanyahu il successo che si aspettava, e la formazione del nuovo governo è stata assai difficoltosa, mentre crescono le preoccupazioni per le conseguenze geopolitiche e militari di un prossimo crollo del regime siriano.

 

L’evoluzione più recente

            Il riavvicinamento tra le maggiori fazioni palestinesi, avviato con il ritrovato accordo tra Abu Mazen e il leader in esilio di Hamas Meshaal (fine 2011) è proseguito nonostante alcuni problemi ancora da risolvere: il 6 febbraio 2012 è stato firmato nella capitale del Qatar, anche grazie alla mediazione delle locali autorità, un accordo che ha finalmente previsto la formazione di un governo unitario tra le fazioni palestinesi, di carattere tecnico, ma guidato dal presidente dell’ANP Abu Mazen, con il compito principale di preparare nuove elezioni parlamentari e presidenziali, la cui data però, per l'intanto, slittava sine die.

            In questo difficile contesto, una timida ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi a partire dal 4 gennaio 2012 segnava presto il passo, senza registrare alcun progresso nonostante l'attiva presenza dei rappresentanti del Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) e la mediazione della Giordania, divenuta assai più presente negli ultimi tempi nella questione palestinese.

            Per quanto riguarda la politica interna israeliana, va ricordato che il premier Netanyahu ha ottenuto il 31 gennaio 2012 con un’ampia maggioranza la riconferma alla guida del Likud. Per quanto invece concerne l'opposizione di Kadima, l’inizio del 2012 ha fatto registrare un forte dissenso nei confronti della leader Tzipi Livni: alla fine di marzo, quando la guida di Kadima è passata nelle mani di Shaul Mofaz, che ha sconfitto nettamente la Livni.

            Alla fine di febbraio 2012 nuovi motivi di scontro tra israeliani e palestinesi erano sorti in relazione alla gestione della Spianata delle Moschee a Gerusalemme, che secondo gli islamisti vedrebbe una pressione del fondamentalismo israeliano tale da mettere a rischio i luoghi santi musulmani – i toni spesso esagerati di alcune frange palestinesi sono in effetti talvolta corroborati da farneticanti prese di posizione di carattere biblico da parte dell’oltranzismo ebraico.

            Dopo solo pochi giorni è tornata a divampare la violenza tra il territorio israeliano e la Striscia di Gaza, quando il 9 marzo l'aviazione di Tel Aviv ha eliminato lo sceicco al-Kaisi, capo di una formazione oltranzista minore fiancheggiatrice di Hamas: nei giorni successivi sono stati lanciati decine di razzi e colpi di mortaio dalla Striscia contro il territorio israeliano, mentre l'aviazione di Tel Aviv effettuava diverse ondate di missioni aeree, dichiarandone il carattere assolutamente mirato nei confronti di appartenenti a formazioni (soprattutto la Jihadislamica) impegnate in vario modo nella minaccia al territorio israeliano. Il 12 marzo il bilancio complessivo vedeva già 25 vittime palestinesi, con numerosi feriti, ma anche il coinvolgimento di diversi civili israeliani, colpiti dai pochi razzi sfuggiti al formidabile sistema di missili intercettori Iron Dome. Gli scontri sono tuttavia cessati dopo che nella notte tra 12 e 13 marzo è stata raggiunta tra le parti una tregua, di nuovo con la determinante mediazione dell’Egitto.

            L’8 maggio ha segnato una svolta nel panorama politico israeliano, che già si preparava a elezioni legislative anticipate in settembre: infatti il partito centrista Kadima, ormai guidato da Shaul Mofaz dopo l’addio di Tzipi Livni, ma in preda a una grave crisi di identità, decideva improvvisamente di entrare nella coalizione di centro-destra guidata da Netanyahu, adducendo la motivazione di voler assicurare al paese una maggiore stabilità politica. La nuova compagine vantava comunque una mai prima registrata maggioranza di 94 seggi nellaKnesset.

            Il 16 maggio vi è stato un rimpasto del governo dell'Autorità nazionale palestinese, con il premier Fayyad che ha rinunciato al portafogli delle finanze, dando vita a una compagine non riconosciuta da Hamas. Nel nuovo gabinetto sono entrati dieci ministri di prima nomina, e tra loro alcuni importanti esponenti di al-Fatah, che nei mesi precedenti avevano premuto per la restituzione parziale di cariche di governo a membri partitici. Il rimpasto del 16 maggio ha allontanato di fatto la formazione del governo tecnico di unità nazionale che gli accordi di riconciliazione tra ANP e Hamas avevano previsto: tale governo avrebbe dovuto essere guidato in via transitoria da Abu Mazen, in vista della preparazione di elezioni congiunte a Gaza e in Cisgiordania. In effetti, però, proprio la classe dirigente di Hamas a Gaza aveva temporeggiato, senza dar seguito a questa parte degli accordi di riconciliazione.

            Nell’impasse negoziale con Israele, determinata soprattutto per Abu Mazen dalla prosecuzione della politica degli insediamenti ebraici, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese preannunciava l’8 giugno di voler richiedere all’Assemblea generale dell’ONU il riconoscimento come Stato osservatore non membro – alla stregua di quanto attualmente accordato alla Santa Sede. In tal modo l’ANP prendeva atto dell’insuperabilità del veto USA in Consiglio di Sicurezza, quand’anche la richiesta palestinese di ammissione a pieno titolo, presentata il 23 settembre 2011, avesse raggiunto il quorum di nove voti su quindici – e anche questo non si era verificato.

            Sul piano interno Israele si è poi trovata a fronteggiare il problema dell’immigrazione illegale da alcuni paesi africani, rispetto alla quale è emersa la linea dura del partito confessionale Shas e del suo capo Yishay – entrato in polemica con l’approccio in questo caso più moderato della destra laica di Lieberman. Vi è stata inoltre una ripresa del movimento di contestazione sociale del 2011, deluso dalla mancata realizzazione di alcune promesse di Netanyahu, e che ha dato vita anche ad alcuni episodi di violenza.

            Dal 18 al 23 giugno vi è stata una ripresa della violenza tra Israele e Gaza, che si innestava però nel nuovo clima egiziano determinato dall’elezione alla presidenza di Mohamed Morsi, esponente di spicco della Fratellanza musulmana. L’elemento di novità è stato proprio la mancanza di un ruolo mediatore dell’Egitto, impegnato in un critico snodo istituzionale: semmai, dopo la conferma della vittoria di Morsi, sono cresciute le inquietudini di Israele e le speranze di Hamas di ottenere appoggio e protezione dal nuovo corso della politica al Cairo. Per di più, il ripetersi in settembre di attacchi terroristici dal Sinai contro il territorio di Israele ha mantenuto alto il livello delle tensioni che in Israele pure esistono sin dalla caduta di Mubarak, nei confronti del futuro comportamento delle autorità egiziane. È infatti possibile che il ripetersi dei raid terroristici dal territorio della penisola possa ad un certo punto essere attribuito indirettamente all'Egitto, almeno per un'incapacità repressiva e di controllo.

            Il contrasto con Gaza è riesploso alla metà di novembre, con l’uccisione di al Jabari - leader delle Brigate al-Qassam, il braccio militare di Hamas - avvenuta dopo un crescendo di lanci di razzi dalla Striscia di Gaza sul territorio israeliano: ha così avuto inizio l’operazione militare israeliana  denominata “Colonna di fumo” o “Pilastro di difesa”, con massicci bombardamenti aerei dal 14 al 22 novembre. Il bilancio dell’operazione è stato di oltre 150 morti e migliaia di feriti tra i palestinesi e di sei vittime israeliane.

            La tregua, senza precondizioni, è stata negoziata dal presidente Obama e dal presidente egiziano Morsi, che ha segnato un notevole successo per sé e per l’Egitto. Tuttavia la tregua tra Israele e Gaza è molto fragile, ed entrambe le parti hanno minacciato una ripresa ancora più feroce delle ostilità nel caso di una sua violazione. Anche allo scopo di consolidare il cessate-il-fuoco, il 26 novembre sono ripresi al Cairo i colloqui indiretti tra Israele e Hamas che vedono sul tavolo molte questioni, tra le quali la richiesta di libera circolazione di persone e beni nella Striscia e la soppressione della "fascia di sicurezza" al confine con Israele che occupa quasi il 17 per cento del territorio della Striscia di Gaza. Sulla tregua aleggia anche lo spettro del legame tra Hamas, il gruppo Jihad Islamica e l’Iran, pubblicamente ringraziato per il rifornimento di armi: una delle condizioni poste dai gruppi armati della Striscia consiste proprio nell’abbandono da parte di Israele di qualsiasi tentazione di attaccare Teheran e i suoi siti nucleari.

            La seconda guerra di Gaza – così definita per il numero altissimo delle vittime, che è sembrato riportare ai tempi dell’operazione “Piombo fuso” di quasi quattro anni prima - ha reso evidente un cambiamento nei rapporti di forza fra le fazioni palestinesi, dove l’interlocutore principale risulta ora essere Hamas, con il suo leaderKhaled Meshal, in esilio da molti anni e protagonista delle trattative per il cessate-il-fuoco al Cairo. La popolarità di Hamas, dopo il recente conflitto e, ancor più, dopo la firma della tregua, si è estesa  anche in Cisgiordania.

Fatah, al contrario, il partito laico maggioritario nell’ANP che governa la Cisgiordania, nonostante il riconoscimento di Israele, sembra avere di fatto perso ruolo e visibilità con l’arrestarsi del processo, sostenuto dagli Stati Uniti, che avrebbe dovuto condurre alla firma di un trattato di pace. Il voto del 29 novembre all’ONU, con l’ammissione della Palestina quale Stato osservatore non membro ha riaperto i giochi per Fatah che, negli ultimi giorni, aveva ricevuto anche il sostegno di Hamas. Nell’ottica di Abu Mazen, il cambiamento di status[ è l’ultima opportunità per la ripresa della strada dei “due Stati”.

            I palestinesi sperano inoltre che l’accesso agli organi delle Nazioni Unite possa portare nuovi diritti, anche se le opinioni in materia sono piuttosto contrastanti. Mentre è chiaro infatti che uno stato osservatore (come è stato anche l’Italia fino al 1955) partecipa alle riunioni dell’Assemblea generarle senza diritto di voto, altri aspetti, come la possibilità di aderire a trattati internazionali o alla Corte Internazionale di Giustizia, sono più controversi. Sembra invece meno problematica, anche se non scontata, la possibilità che alla Palestina venga consentito di aderire allo statuto della Corte Penale Internazionale, cosa che le permetterebbe di inoltrare l’accusa contro Israele per crimini di guerra se la strada del negoziato si dovesse nuovamente rivelare fallimentare.

            Khaled Meshaal, che insieme ad Abu Mazen ha sostenuto nel 2011 un piano egiziano per la riconciliazione fra Hamas e Fatah, si è recato l’8 dicembre nella Striscia di Gaza, da dove manca dal 1967, per un tour di tre giorni. La visita di Meshaal fa pensare ad un riavvicinamento tra le due leadership di Hamas: quella in esilio e quella basata a Gaza. Quanto ai rapporti con i palestinesi della Cisgiordania, in una sua recentissima dichiarazione alla Reuters, Meshaal ha affermato che sebbene siano finora falliti tutti i tentativi di formare un governo di unità nazionale, esistono però adesso le condizioni per una riconciliazione.

            Secondo Israele, l’iniziativa di Fatah all’ONU ha violato gli Accordi di Oslo del 1993, in base ai quali è stata istituita l’Autorità palestinese. Il portavoce del Governo, Mark Regev, ha dichiarato inoltre che la vicenda pone palestinesi e israeliani fuori dal processo negoziale. Israele ha inoltre annunciato di voler proseguire con la costruzione di 3.000 nuovi appartamenti in Cisgiordania e, soprattutto, in un’area di Gerusalemme est fortemente contesa (Area “E1” che collega Gerusalemme al resto della Cisgiordania) a lungo considerata come il maggior ostacolo alla realizzazione della soluzione dei due Stati. In aggiunta, ha deciso di trattenere le tasse destinate all'ANP in base agli accordi di Parigi[2].

            Il 22 gennaio 2013 si sono svolte le elezioni politiche israeliane, alle quali il premier Netanyahu si è presentato unitamente al partito della destra laica di Avigdor Lieberman: il risultato non è stato però incoraggiante per Netanyahu, che ha visto la propria coalizione perdere 11 seggi rispetto al risultato del 2009, pur restando nettamente la prima forza politica del nuovo Parlamento, con 12 seggi di vantaggio sulla seconda, la vera sorpresa, il partito centrista Yesh Atid guidato dal giornalista Yair Lapid. Nel complesso, il complesso delle forze di destra – difficili comunque da ricondurre sotto un’unica direzione di marcia - ha riportato una ridotta maggioranza di 62 seggi su un totale di 120 della Knesset.

            Nel voto è emersa anche una notevole differenziazione regionale, con l’affermazione netta dei partiti confessionali a Gerusalemme, con la tenuta sostanziale di Netanyahu e Lieberman a Haifa - precedentemente considerata la “città rossa” di Israele - e con la netta affermazione di Lapid a Tel Aviv, città tradizionalmente laica e modernista. Il 2 febbraio Netanyahu ha ricevuto l'incarico per formare il nuovo governo, le cui trattative si rivelano tuttavia assai difficili e dagli sbocchi imprevisti.

            Sempre più chiaramente emergono intanto le preoccupazioni di Israele e della Comunità internazionale per un possibile passaggio di armamenti anche letali dalla Siria ormai in disfacimento al forte alleato in territorio libanese, Hezbollah. In questo senso il 29 gennaio 2013 il capo dell'aviazione militare israeliana aveva senz'altro ammesso che lo Stato di Israele è già impegnato in una efficace lotta contro il trasferimento di armamenti agli Hezbollah attraverso il confine siro-libanese: solo poche ore dopo fonti estere che non hanno però ricevuto conferma ufficiale in Israele hanno riferito di un attacco di caccia israeliani sul confine tra Libano e Siria per impedire che una batteria di missili AS-17 giungessero in possesso di Hezbollah. La partita più pericolosa potrebbe innescarsi nel momento in cui il sospetto dei trasferimenti di armi riguardasse anche armamenti chimici.

            Proprio alla fine di febbraio sembra riaccendersi poi la tensione con Gaza, dopo che già in Cisgiordania erano scoppiati tumulti in solidarietà ad alcuni detenuti palestinesi che in carcere avevano iniziato uno sciopero della fame. Gli scontri assumevano maggiore gravità dopo la morte in carcere di un palestinese arrestato il 18 febbraio, che secondo l’ANP sarebbe deceduto in seguito a percosse e torture. Il 26 febbraio un razzo proveniente da Gaza ha raggiunto la città israeliana di Ashqelon, e le autorità hanno chiuso i due valichi con Gaza di Erez e Kerem Shalom.

            A quasi due mesi dalle consultazioni politiche, il 18 marzo scorso, ha prestato giuramento il nuovo esecuti guidato dall’ex primo ministro e leader del partito Likud, Netanyahu. La coalizione che governerà il paese è formata dalla formazione di Netanyahu, insieme ai centristi del Yesh Atid ai conservatori di HaBayit HaYehudi (“La casa ebraica”), del giovane milionario Naftali Bennet; e ai centristi del partito Hatnuah (“il movimento”), guidati dall’ex leader del partito Kadima, Tzipi Livni. In totale la nuova coalizione dovrebbe poter contare su almeno 68 seggi dei 120 presenti nella Knesset. L’elemento innovativo più rilevante di questa nuova coalizione di governo è l’esclusione dei partiti ultraortodossi.

            Secondo il Jerusalem Post, l’accordo è stato raggiunto dopo che Netanyahu ha fatto alcune concessioni al partito Yesh Atid: il Likud si è impegnato a modificare la legge elettorale, alzando la soglia di sbarramento alla Knesset dal 2 al 4%, a ridurre ulteriormente a 18 il numero dei ministri per i prossimi governi e a eliminare alcuni dei vantaggi di cui godono oggi gli ebrei ultraortodossi, tra cui quello dell’esenzione dell’obbligo di leva. Rispetto al precedente, il nuovo gabinetto prevede un numero molto basso di ministeri: è formato da solo 22 ministri e 8 vice ministri, la più ristretta squadra di governo da decenni.

 

 

 

 

 

 

 


Il Consiglio europeo 2013 sulla difesa

 



La Politica di sicurezza e difesa comune

Il Trattato di Lisbona

Importanti progressi sono stati compiuti con il Trattato di Lisbona nel settore della politica europea di sicurezza comune. In primo luogo, la prospettiva di una difesa comune, o comunque la definizione di una politica di difesa comune, i cui principi erano già stati stabiliti nel trattato di Maastricht, diventa più realistica.

La decisione di creare, quando verrà il momento, una difesa comune è adottata dal Consiglio europeo che delibera all'unanimità; essa esige anche l'approvazione di tutti gli Stati membri secondo le proprie procedure costituzionali.

Tale politica comune di difesa conferisce all'Unione una capacità operativa basata su strumenti civili e militari. Il Trattato di Lisbona ribadisce che il perseguimento della politica di sicurezza e di difesa comune non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, rispetta gli obblighi derivanti dal Trattato del Nord-Atlantico, per gli Stati membri che ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la NATO, ed è compatibile con la politica di sicurezza e di difesa comune adottata in tale contesto.

In materia di politica estera e di sicurezza, il Trattato di Lisbona ha provveduto:

·       ad individuare la nuova figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), cui si riconnette l’istituzione di un servizio europeo per l’azione esterna chiamato ad assistere, in collaborazione con le strutture diplomatiche degli Stati membri, l’Alto rappresentante;

·       a consolidare e definire le linee generali dell’azione dell’Unione con riferimento alla  politica estera e di sicurezza comune (PESC) e alla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), fondate sulla reciproca solidarietà degli Stati membri e sul perseguimento di una sempre più stretta convergenza delle azioni poste in essere dai medesimi Stati. E’ in questa prospettiva che si ipotizza di pervenire ad un modello di difesa comune. Tale prospettiva, tra le altre cose, ha comportato l’istituzionalizzazione dell’Agenzia europea per la difesa (EDA) – già creata nel 2004 - chiamata, tra le altre cose, a promuovere la cooperazione europea in materia di armamenti;

·       a consentire eventualmente, con decisione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata, una cooperazione strutturata permanente in materia di difesa tra gli Stati membri che hanno le capacità militari necessarie e la volontà politica di aderirvi.

Tra le altre innovazioni si ricorda inoltre l’istituzione di un fondo iniziale per finanziare le attività preparatorie delle attività militari dell’Unione europea; il fondo dovrebbe facilitare il dispiegamento delle operazioni militari.

In merito alla dotazione finanziaria della politica estera dell’UE, si ricorda che nel bilancio per l'anno 2013 alla voce "l'UE quale attore globale" sono stanziati 9,4 miliardi di euro a titolo di impegno, con un aumento dello 0,7% rispetto al 2012 e del 7,4% rispetto al 2011.

Per quanto riguarda in particolare le missioni PSDC, si segnala che il Trattato ha disposto l’estensione delle cosiddette missioni di Petersberg - missioni umanitarie e di soccorso; missioni di mantenimento della pace (peace-keeping); missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace (peace making) - integrandole con ulteriori compiti relativi alle missioni di disarmo, di consulenza ed assistenza in materia militare, di stabilizzazione al termine dei conflitti. L’articolo specifica inoltre che tutte queste missioni possono contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a paesi terzi per combattere il terrorismo sul loro territorio.

Quanto alle procedure decisionali, il Consiglio adotta le relative decisioni all’unanimità stabilendone l'obiettivo, la portata e le modalità generali di realizzazione. L'Alto rappresentante, sotto l'autorità del Consiglio e in stretto e costante contatto con il comitato politico e di sicurezza, provvede a coordinare gli aspetti civili e militari di tali missioni.

Sotto il profilo del controllo parlamentare in tale ambito, il Parlamento europeo acquisisce in linea generale il diritto di essere informato (o consultato), il diritto di controllo (interrogazioni, dibattiti) e di voto del bilancio PESC.

In base al Trattato di Lisbona, il Parlamento europeo è consultato regolarmente dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza comune sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica di sicurezza e di difesa comune ed è tenuto al corrente della sua evoluzione. L’Alto rappresentante provvede affinché le opinioni del Parlamento europeo siano debitamente prese in considerazione. I rappresentanti speciali possono essere associati all’informazione del Parlamento europeo. Il Parlamento europeo può rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio e all’Alto rappresentante. Il Trattato prevede inoltre che il Parlamento europeo svolga due volte l’anno il dibattito sui progressi compiuti nell’attuazione della politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e difesa comune.

Si ricorda inoltre che è stata da poco istituita la Conferenza per il controllo parlamentare sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), composta da delegazioni dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell'Unione europea e del Parlamento europeo. La prima Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC si è svolta a Paphos (Cipro) dal 9 all’10 settembre 2012.

 

Le conclusioni di dicembre 2011 e i successivi sviluppi

In linea con la strategia europea di sicurezza, che evidenzia la necessità di assumere un approccio globale alla gestione delle crisi, in più occasioni il Consiglio dell’UE ha sottolineato la necessità che l’UE utilizzi la PSDC come parte di un’azione europea coerente, che dovrebbe includere anche strumenti politici, diplomatici, legali, commerciali ed economici.

Tale posizione è stata ribadita dal Consiglio del 1° dicembre 2011, che ha sottolineato l'importanza della PSDC quale elemento essenziale di un simile approccio globale. Per essere efficace, secondo il Consiglio la PSDC deve essere sostenuta da capacità sufficienti ed adeguate, in termini di personale, mezzi e sostegno analitico all'intelligence. Sullo sfondo degli attuali vincoli finanziari, l'Europa deve essere dunque in grado di fare meglio con meno e tener fede alle proprie responsabilità. A tale proposito, il Consiglio sottolinea l'importanza di sfruttare appieno tutta la variegata gamma delle risorse esistenti a livello nazionale e di UE, massimizzare le sinergie e rafforzare la cooperazione.

Il Consiglio ha riconosciuto inoltre l'esigenza di un miglioramento considerevole delle prestazioni dell'UE nella pianificazione e nella condotta delle missioni civili e delle operazioni militari della PSDC, tra l'altro mediante un potenziamento delle competenze civili e una migliore integrazione delle dimensioni civili e militari.

A tale scopo ha chiesto all’Alto rappresentante di produrre una relazione, che è stata presentata al Consiglio del 23 luglio 2012.

La relazione dell’AR segnala che si sta lavorando ad un miglioramento delle attività di pianificazione e realizzazione delle missioni:

·       in primo luogo, attraverso un approccio integrato: le missioni e operazioni dell’UE devono essere meglio inserite nelle strategie regionali dell’UE, che forniscono il quadro politico in cui dovrebbero aver luogo le azioni UE volte a fronteggiare le eventuali crisi. In questa logica, le strategie per il Corno d’Africa e per il Sahel sono state la base per pianificare nuove missioni (rispettivamente EUCAP Nestore per la capacity building regionale marittima e la futura missione di polizia in Niger) e per rivedere missioni esistenti (Atalanta, EUTM Somalia); inoltre le attività PSDC sono meglio integrate con altri strumenti dell’UE, quali lo strumento per la stabilità, il fondo europeo per lo sviluppo e lo strumento di preadesione. E’ inoltre migliorata la cooperazione con i partner internazionali, che produce migliori sinergie, più valore aggiunto e maggiore coerenza delle missioni PSDC con le azioni dei partner;

·       in secondo luogo, si sta migliorando il focus della missione, come è stato fatto per EULEX Kosovo che è stata orientata a sostenere le autorità kosovare dove hanno maggiori necessità, vale a dire nelle funzioni operative di lotta alla corruzione e persecuzione dei criminali di guerra o in Bosnia dove ALTHEA è concentrata soprattutto su capacity building e formazione per rafforzare le istituzioni statali;

·       in terzo luogo, occorre individuare tutti i modi per valorizzare le risorse finanziarie destinate alle missioni: la missione EUCAP Nestore agirà per esempio da catalizzatore per assicurare contributi e sostegno da parte dei paesi terzi; la revisione strategica delle missioni UE nella Repubblica Democratica del Congo individua le linee guida per una maggiore efficacia dal punto di vista dei costi.

Tra gli ulteriori elementi positivi, la relazione segnala, in linea con le decisioni del Consiglio di marzo 2012, l’attivazione del centro operativo dell'UE a sostegno delle missioni e operazioni PSDC nel Corno d'Africa, vale a dire l'operazione Atalanta, EUTM Somalia ed EUCAP Nestore, con l'obiettivo di rafforzare l'efficienza, la coerenza e le sinergie.

E’ inoltre in corso la revisione delle procedure di gestione delle crisi al fine di accelerare e migliorare l'efficacia della pianificazione, del processo decisionale, dell'esecuzione e della valutazione della PSDC, con il coinvolgimento degli Stati membri nell'intero processo.

I progressi segnalati dall’AR sono stati accolti con favore dai ministri della difesa riuniti in sede di Consiglio affari esteri il 23 luglio 2012.

In quell’occasione il Consiglio ha ribadito l'importanza di assegnare risorse adeguate alle missioni e operazioni PSDC e alle strutture di gestione delle crisi del SEAE, perché siano in grado di espletare il proprio mandato. In tale contesto, ha rinnovato l’impegno dell’UE a sostenere lo sviluppo di capacità civili e militari sostenibili da parte degli Stati membri, al fine di colmare le carenze in materia di capacità e garantire che anche in futuro siano disponibili le capacità richieste.

Il Consiglio ha espresso soddisfazione per i lavori attualmente in corso per sviluppare ulteriormente la cooperazione con i paesi partner in vista della loro partecipazione e del loro sostegno alle missioni e operazioni PSDC. L'ulteriore sviluppo della cooperazione in ambito PSDC, in particolare con i paesi partner del vicinato meridionale e del vicinato orientale, contribuirà a rafforzare la sicurezza e la stabilità regionali. Il Consiglio ha inoltre incoraggiato l'approfondimento della cooperazione con le organizzazioni regionali e multilaterali, in particolare le Nazioni Unite, la NATO e l'Unione africana.

Nel sottolineare l'importanza di un approccio globale dell’UE alla gestione delle crisi, che utilizzi i diversi strumenti a disposizione in stretta cooperazione con gli Stati membri, in piena collaborazione con altri attori internazionali e avvalendosi in modo ottimale delle scarse risorse, il Consiglio preannuncia la presentazione di una comunicazione congiunta sull'approccio globale da parte della Commissione europea e dell’AR.

Tanto la relazione dell’AR quanto le conclusioni dei ministri della difesa hanno evidenziato, nel quadro del miglioramento delle prestazioni dell’UE, l’importanza di fare progressi in due ambiti considerati rilevanti:

·       pooling and sharing delle capacità militari (vedi infra). Il Consiglio ha ribadito la necessità di un approccio strutturato a lungo termine per la messa in comune e la condivisione delle capacità militari, alla luce delle evoluzioni dell'ambiente strategico e dei vincoli imposti ai bilanci per la difesa, nonché tenendo conto dell'esigenza di continuare a promuovere sinergie con le politiche più generali dell'UE;

·       miglioramento delle capacità civili. Il Consiglio ha accolto con favore il piano di lavoro pluriennale approvato dagli Stati membri sulle capacità civili, che ha lo scopo di contribuire a far sì che le missioni civili PSDC siano dotate di personale altamente qualificato e ricevano tempestivamente i servizi e le apparecchiature necessari. Le azioni per il 2012 e il 2013 includono: la stesura di un inventario delle capacità degli Stati membri in materia di personale specializzato; (l’esplorazione, alla luce della inadeguatezza delle unità di polizia integrate in Kosovo, della possibilità di un accordo quadro con la Gendarmeria europea che potrebbe facilitare il rapido dispiegamento; creazione di incentivi ulteriori per gli Stati membri a distaccare personale; rafforzamento dei collegamenti tra PSDC e spazio di libertà, sicurezza e giustizia, da un lato, per mettere a disposizione delle missioni le capacità UE del settore dello stato di diritto e, dall’altro, per portare il valore aggiunto della PSDC alla sicurezza interna dell’UE.

La risoluzione del Parlamento europeo

Anche a seguito della citata relazione dell’AR, il 22 novembre 2012 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sull’attuazione della politica di sicurezza e difesa comune.

In riferimento ad un quadro strategico per tale politica, il PE sottolinea la necessità che l'Unione affermi la propria autonomia strategica attraverso una politica estera, di sicurezza e di difesa forte ed efficace, che le permetta, se necessario, di agire da sola. Secondo il PE tale autonomia strategica resterà illusoria in assenza di capacità civili e militari credibili: il PE è infatti preoccupato per la prospettiva del declino strategico che minaccia l'UE, non solo attraverso la riduzione tendenziale dei bilanci per la difesa nel quadro della crisi finanziaria ed economica globale ed europea, ma anche a causa della relativa e progressiva marginalizzazione dei suoi strumenti e delle sue capacità di gestione delle crisi, in particolare quelle militari. A tale riguardo rileva l'impatto negativo del mancato impegno degli Stati membri.

Secondo il PE la strategia europea per la sicurezza, elaborata nel 2003 e rivista nel 2008, malgrado la validità, a tutt'oggi, delle sue analisi e delle sue affermazioni, comincia ad essere superata dagli eventi e non è più sufficiente per comprendere il mondo di oggi. Pertanto il PE invita nuovamente il Consiglio europeo a commissionare all’AR un Libro bianco sulla sicurezza e la difesa dell'UE, che definisca gli interessi strategici dell'UE in un contesto di minacce in evoluzione, alla luce delle capacità di sicurezza degli Stati membri, della capacità delle istituzioni dell'UE di agire in modo efficace nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa, nonché dei partenariati dell'Unione europea, in particolare con i paesi vicini e con la NATO, e che tenga conto dell'evoluzione delle minacce e dello sviluppo delle relazioni con i nostri alleati e partner ma anche con i paesi emergenti. Tale Libro bianco dovrebbe basarsi sia sui concetti introdotti dalla Strategia europea per la sicurezza nel 2003 e nel 2008 sia sui nuovi concetti di sicurezza emersi negli ultimi anni, quali la «responsabilità di proteggere», la sicurezza umana e il multilateralismo efficace, e dovrebbe fornire orientamenti sulla pianificazione strategica a medio e lungo termine delle capacità civili e militari che devono essere sviluppate e acquisite nel quadro della PSDC.

Il PE sottolinea inoltre l'importanza di effettuare, nell'ambito dell'Agenzia europea per la difesa (AED) e in cooperazione con la NATO, una revisione tecnica delle debolezze e dei punti di forza militari degli Stati membri dell'UE.

Il PE insiste sulla necessità di innalzare il livello di ambizione per lo sviluppo della PSDC e invita gli Stati membri, con il sostegno dell’AR, a sfruttare pienamente il potenziale di tale strumento. Secondo il PE la forza dell'UE rispetto ad altre organizzazioni consiste nel suo potenziale unico di mobilitare una serie completa di strumenti politici, economici, di sviluppo e umanitari a sostegno delle sue missioni e operazioni civili e militari di gestione delle crisi sotto un'unica autorità politica, vale a dire l’AR, e tale approccio globale le conferisce una flessibilità e un'efficacia uniche e ampiamente apprezzate.

Nell’ambito delle iniziative volte al rilancio dell’agenda della PSDC, il PE accoglie positivamente il contributo dell'iniziativa di Weimar, cui hanno aderito la Spagna e l'Italia, per l'impulso che essa ha impresso ai tre settori fondamentali, vale a dire le istituzioni, le operazioni e le capacità. Il PE invita tali paesi a rispettare l'impegno assunto di mantenere una visione ambiziosa della PSDC e considera le loro azioni come un modello a cui tutti gli altri Stati membri devono aderire.

Il PE ricorda inoltre che il trattato di Lisbona ha introdotto importanti innovazioni per quanto riguarda la PSDC, delle quali si attende ancora l'attuazione:

-      il Consiglio può affidare lo svolgimento di una missione a un gruppo di Stati, allo scopo di preservare i valori dell'Unione e di servirne gli interessi;

-      gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia in relazione alle missioni più impegnative possono instaurare una cooperazione strutturata permanente;

-      sono introdotte una clausola di difesa reciproca e una clausola di solidarietà;

-      all'AED sono affidati compiti importanti per lo sviluppo delle capacità militari degli Stati membri, tra cui il rafforzamento della base industriale e tecnologica del settore della difesa, la definizione di una politica europea delle capacità e degli armamenti e l'attuazione della cooperazione strutturata permanente;

-      è prevista la creazione di un fondo iniziale per le attività preparatorie delle missioni che non sono a carico del bilancio dell'Unione;

Il PE invita infine gli Stati membri a collaborare attivamente con l’AR e con il Consiglio per adottare le disposizioni del trattato di Lisbona relative alla PSDC nelle loro strategie nazionali di difesa.

Il Consiglio europeo

Anche il Consiglio europeo, nella sua riunione di dicembre 2012, ha ribadito il proprio impegno a migliorare l’efficacia della politica comune di sicurezza e difesa, quale importante contributo dell’UE alla gestione delle crisi internazionali, al mantenimento della stabilità nonché alla sicurezza dei propri cittadini. Nel ricordare l’importanza delle missioni svolte dall’UE nel quadro della PSDC da sola o in stretta collaborazione con le organizzazioni internazionali, il Consiglio europeo ha sollecitato gli Stati membri a fornire capacità orientate al futuro, sia nel settore civile che in quello della difesa. A tale proposito, il Consiglio europeo ha sottolineato da un lato la necessità di collaborazione imposta dalle difficoltà finanziarie del momento e dall’altro l’impulso che dal settore della difesa può venire a occupazione, crescita, innovazione e competitività industriale.

Alto rappresentante e Commissione sono stati invitati, entro settembre 2013 e con il pieno coinvolgimento degli Stati membri, a sviluppare proposte volte al rafforzamento della PSDC e a migliorare la disponibilità delle capacità militari e civili, sulla base delle indicazioni di massima fornite dal Consiglio europeo per:

·         incrementare efficacia e visibilità e impatto della PSDC;

·         potenziare lo sviluppo delle capacità di difesa;

·         rafforzare l’industria europea della difesa.

Su tali basi il Consiglio europeo di dicembre 2013 procederà alla valutazione dei progressi compiuti e alla definizione di orientamenti - anche stabilendo priorità e termini - per assicurare l’efficacia degli sforzi dell’UE nel settore.

Lo sviluppo delle capacità militari

Lo sviluppo delle capacità militari dell’Unione europea è un processo avviato a partire dalle conclusioni del Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999 secondo cui “l'Unione deve avere la capacità di condurre azioni in modo autonomo, potendo contare su forze militari credibili, sui mezzi per decidere di farle intervenire e sulla disponibilità a farlo, al fine di rispondere alle crisi internazionali lasciando impregiudicate le azioni della NATO".

Su tali basi, il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 ha fissato l'obiettivo primario dal punto di vista operativo (cosiddetto “Helsinky Headline Goal”), da raggiungere entro il 2003: gli Stati membri si sarebbero dovuti dotare, grazie ad una cooperazione volontaria alle operazioni dirette dall'UE, della capacità di schierare nell'arco di 60 giorni e mantenere per almeno un anno forze militari complessive fino a un massimo di 50.000-60.000 uomini, da impiegare in missioni umanitarie e di mantenimento e ristabilimento della pace (cioè le c.d. Missioni di Petersberg).

Nel 2004 è stato fissato il nuovo obiettivo globale di capacità militari (Headline Goal 2010), mirante a coprire l’intero spettro delle possibili missioni di gestione di crisi UE, nella prospettiva “ampliata” dalla Strategia Europea di Sicurezza del 2003. Tale progetto è basato su di un approccio a tappe, fra le quali l’avvenuta creazione dell’Agenzia Europea per la difesa; la già compiuta realizzazione dei Battle Groups (forze di reazione rapida da 1500 uomini schierabili in 5/10 giorni per almeno 60 giorni, con l’obiettivo di fare fronte a contingenze contenute nel tempo o a servire quale “entry force” per operazioni più ampie); la progressiva integrazione degli assetti di trasporto aereo strategico; lo sviluppo di nuove capacità di trasporto marittimo; lo sviluppo di un sistema di comunicazioni integrato; l’incremento quantitativo e qualitativo delle forze armate nazionali e lo sviluppo di adeguate sinergie tra le forze armate nazionali.

Come anticipato, il livello di ambizione civile-militare globale per i prossimi anni è stato fissato nel 2008 con la dichiarazione sul rafforzamento delle capacità del Consiglio europeo dell’11 e 12 dicembre 2008.

Nello specifico, l'UE dovrebbe essere effettivamente in grado nei prossimi anni, nell'ambito dell’obiettivo già stabilito nel 1999, ossia il dispiegamento di 60.000 uomini in 60 giorni per un'operazione importante, di pianificare e condurre simultaneamente:

·       due importanti operazioni di stabilizzazione e ricostruzione, con un'adeguata componente civile sostenuta da un massimo di 10.000 uomini per almeno due anni;

·       due operazioni di reazione rapida di durata limitata utilizzando segnatamente i gruppi tattici dell'UE;

·       un'operazione di evacuazione d'emergenza di cittadini europei (in meno di 10 giorni), tenendo conto del ruolo primario di ciascuno Stato membro nei confronti dei suoi cittadini e ricorrendo al concetto di Stato guida consolare;

·       una missione di sorveglianza/interdizione marittima o aerea;

·       un'operazione civile-militare di assistenza umanitaria della durata massima di 90 giorni;

·       una dozzina di missioni civili PSDC (segnatamente, missioni di polizia, di Stato di diritto, di amministrazione civile, di protezione civile, di riforma del settore della sicurezza o di vigilanza) in forme diverse, incluso in situazione di reazione rapida, tra cui una missione importante (eventualmente fino a 3000 esperti) che potrebbe durare vari anni.

Nella stessa occasione il Consiglio europeo ha provveduto ad aggiornare la strategia europea in materia di sicurezza, adottata nel dicembre 2003. La strategia prende le mosse dai mutamenti intervenuti con la fine della guerra fredda negli scenari internazionali. In particolare, viene evidenziato che nessun paese è in grado di affrontare da solo i complessi problemi che si pongono a livello internazionale. Con la strategia viene, quindi, rivendicato un ruolo più incisivo per l’Unione europea nel contesto internazionale. In particolare, si sottolinea la necessità, da parte dell’Unione, di assumersi le sue responsabilità di fronte ad alcune minacce globali (terrorismo, criminalità organizzata, proliferazione delle armi di distruzione di massa, conflitti regionali).

In tale contesto, le attuali esigenze di miglioramento della capacità di reazione e di maggiore coerenza nell’azione esterna dell’UE, con particolare attenzione anche al rapporto costi-efficacia,  hanno reso necessaria la realizzazione del c.d. “comprehensive approach” nella gestione delle crisi, incentrato su una più stretta interazione tra componenti civili e militari, nonché iniziative di “pooling and sharing” in campo militare.

Pooling & sharing

Il cosiddetto “Pooling & Sharing” identifica l’insieme delle misure volte alla razionalizzazione delle capacità militari europee attraverso l’accorpamento e la condivisione delle stesse in una prospettiva di economia generale, anche al fine di affrontare la difficile situazione economico-finanziaria dei Paesi membri.

Come indicato nel documento di riflessione tedesco-svedese relativo all’intensificazione della cooperazione militare del novembre 2010, l’obiettivo è quello di preservare e incrementare le capacità operative nazionali, puntando a migliorare l'efficacia operativa, l'efficienza economica e la sostenibilità.

I bilanci della difesa europea – in costante e rapida diminuzione già nel corso dell’ultima decade – hanno infatti subito ulteriori tagli con la recente crisi finanziaria: sulla base dei dati forniti dall’Agenzia europea per la difesa, tra il 2008 e il 2010 le spese complessive per la difesa sostenute dagli Stati membri  sono diminuite del 4%.

L’utilizzazione del pooling and sharing come mezzo per affrontare l’impatto della crisi finanziaria sulla capacità di difesa europea è dunque diventato un tema importante nell’agenda dell’UE.

L’impulso politico alle iniziative di pooling and sharing è venuto nel settembre 2010 dai ministri della difesa riuniti a Gand in modo informale e successivamente nella riunione del Consiglio del 9 dicembre 2010.

In quell’occasione, i ministri della difesa hanno sollecitato gli Stati membri a cogliere tutte le opportunità di cooperare nel campo dello sviluppo delle capacità, sottolineando in particolare la necessità di mettere a punto opzioni di messa in comune e condivisione sulla base di esempi multilaterali positivi come il comando europeo di trasporto aereo, avviato nel settembre 2010. Gli Stati membri sono stati incoraggiati ad esaminare sistematicamente le loro capacita militari nazionali e le loro strutture di supporto, tenendo conto di criteri quali l'efficacia operativa, l'efficienza economica e la sostenibilità.

Su tali basi, il Consiglio ha concordato di realizzare un inventario dei progetti in cui sia possibile condividere e mettere in comune capacità militari per evitare duplicazioni e tagliare i costi, chiedendo all'Agenzia europea per la difesa di facilitare l'individuazione dei settori per la messa in comune e la condivisione, tenendo conto della diversità delle esperienze nei vari Stati membri, e a sostenere gli Stati membri negli sforzi volontari volti ad attuare le iniziative di messa in comune e condivisione.

Sulla base del lavoro e delle proposte elaborate dall’Agenzia della difesa, successivamente i ministri della difesa hanno identificato le seguenti iniziative Pooling & Sharing, nel cui ambito gli Stati membri stanno già collaborando, con l’intermediazione dell’Agenzia europea per la difesa: rifornimento di carburante aria-aria; munizioni "intelligenti"; formazione degli equipaggi aerei; addestramento e logistica navale; poli di trasporto europei; intelligence, sorveglianza e ricognizione, compresa la sorveglianza dell'ambiente spaziale; supporto medico; comunicazioni satellitari militari; sorveglianza marittima; addestramento al volo in elicottero; comunicazione satellitare.

Il Consiglio dei ministri della difesa

Il 22 marzo e il 19 novembre 2012 i ministri della difesa hanno adottato conclusioni in materia, in cui esprimono soddisfazione per i sostanziali progressi fatti nella messa in comune e condivisione delle capacità militari attraverso progetti concreti facilitati dall’Agenzia europea per la difesa, quali il rifornimento aria-aria, l’istituzione di una unità multinazionale di supporto medico; la formazione degli elicotteristi e la sorveglianza marittima. Il Consiglio ha espresso inoltre soddisfazione per le nuove opportunità identificate, vale a dire ciber-difesa e elicotteri NH90, nonché per l’adozione da parte dello Steering group dell’agenzia del codice di condotta in materia di pooling and sharing.

Il Consiglio ha ricordato tuttavia l'esigenza di sviluppare la cooperazione in materia di capacità militari su una base di lungo termine e più sistematica, il che richiederà un cambiamento di mentalità e impegni politici continui, e incoraggiato gli Stati membri ad esplorare sistematicamente la possibilità di soluzioni di pooling and sharing già nelle fasi iniziali dei processi nazionali.

Nel contesto di ulteriori sviluppi, il Consiglio ha manifestato apprezzamento per il lavoro condotto dall’Agenzia per favorire la cooperazione multinazionale: richieste di condivisione, procedure armonizzate e messa in comune di equipaggiamenti in surplus sosterranno i progressi in termini di capacità e ridurranno i costi.

Riconoscendo le implicazioni del settore della difesa per l’innovazione e la crescita, il Consiglio ha notato con preoccupazione la riduzione generale degli investimenti nei settori ricerca e tecnologia collegati alla difesa e le conseguenze sulla possibilità dell’Europa di sviluppare ulteriori capacità. Il Consiglio ha dunque incoraggiato l’Agenzia e la Commissione a favorire la sinergia con le altre politiche europee e con il settore della ricerca, ivi incluso il nuovo programma europeo su ricerca e tecnologia Horizon 2020.

Il Consiglio ha infine espresso soddisfazione per la cooperazione tra UE e NATO per lo sviluppo di capacità militari nelle situazioni di crisi, con particolare riguardo alle iniziative Pooling and Sharing dell’UE e Smart Defence della NATO, e ha incoraggiato fortemente a proseguire in maniera trasparente i produttivi contatti tra gli staff delle due organizzazioni.

Come anticipato, nel contesto delle iniziative di pooling and sharing l’Agenzia europea per la difesa fornisce il quadro generale e mette a disposizione degli Stati membri competenze e pareri su aspetti finanziari, legali e contrattuali. L’Agenzia inoltre esamina e propone modi per ottimizzare l’uso delle capacità esistenti in Europa, sviluppando modelli generici di cooperazione disegnati sulle migliori pratiche. Esamina anche modi per migliorare gli strumenti attualmente in uso per favorire il pooring and sharing, vale a dire il Capability Development Plan e il database collaborativo.

Il primo è uno strumento strategico, che prefigura le necessità in termini di capacità militari nel breve, medio e lungo periodo nei settori della ricerca e della tecnologia, degli armamenti e dell’industria della difesa, tenendo conto dell’impatto delle future sfide per la sicurezza, dello sviluppo tecnologico e di altri cambiamenti. Il Capability Development Plan assiste inoltre gli Stati membri nella pianificazione dei programmi nazionali di difesa.

Un importante strumento del Capability Development Plan è il database collaborativo, che consente agli Stati membri di pubblicare progetti in corso e opportunità di cooperazione nell’intero ciclo di acquisizione: nel più lungo periodo, quando sarà pienamente operativo, il database non sarà elusivamente uno strumento per trovare opportunità di collaborazione ma fornirà una completa rassegna delle attività nel settore della difesa, in materia di ricerca e tecnologia, formazione, approvvigionamento.

Il Parlamento europeo

Il 14 dicembre 2011 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che, analizzando l'impatto della crisi finanziaria sulla difesa, propone come unica soluzione la convergenza delle capacità a livello europeo e un'attenzione maggiore alla ricerca e allo sviluppo.

In particolare secondo il PE la condivisione delle capacità non deve essere considerata come la soluzione di breve periodo al momento di crisi, ma come una regola da seguire d'ora in avanti per edificare una risposta europea efficiente e coesa.

Secondo il PE la messa in comune delle risorse deve andare di pari passo con una crescente specializzazione, in base alla quale gli Stati membri che rinunciano a determinate capacità possono essere certi che saranno messe a disposizione da altri. A tal fine, riconosce che sarà necessario un serio impegno politico da parte dei governi nazionali.

Inoltre il PE:

·       invita gli Stati membri a fare un uso creativo dei vari modelli di messa in comune e condivisione che è possibile individuare, come (1) la messa in comune attraverso la proprietà congiunta, (2) la messa in comune dei beni di proprietà nazionale, (3) la messa in comune dell'acquisizione di beni, o (4) la condivisione dei ruoli e dei compiti, nonché delle loro combinazioni a seconda dei casi, e chiede progressi rapidi soprattutto nei settori sopra indicati;

·       per quanto riguarda la «proprietà congiunta», invita gli Stati membri ad esaminare la possibilità che talune attrezzature vengano acquistate congiuntamente da consorzi di Paesi o dalla stessa Unione europea, ispirandosi ad iniziative come la capacità di trasporto aereo strategico della NATO o Galileo dell'Unione europea, oppure a cercare possibilità di finanziamento o cofinanziamento da parte dell'UE di attrezzature acquistate da consorzi di Stati membri; sottolinea il potenziale della proprietà congiunta per le attrezzature più costose, nonché per le capacità spaziali o i velivoli da trasporto strategico;

·       per quanto riguarda la «messa in comune dei beni di proprietà nazionale», considera l'iniziativa sul Comando europeo del trasporto aereo, avviata da quattro Stati membri, come un esempio particolarmente utile, in cui viene ottimizzato l'uso delle capacità esistenti attraverso il trasferimento di alcune competenze ad una struttura comune, pur mantenendo la piena proprietà nazionale dei beni;

·       mette in evidenza per quanto riguarda la «messa in comune dell'acquisizione di beni», i potenziali benefici che deriverebbero dall'acquisizione congiunta dei beni in termini di economie di scala, costruzione di una valida base industriale, interoperabilità e successive possibilità di messa in comune e condivisione in materia di assistenza in servizio, manutenzione e formazione;

·       per quanto riguarda «la condivisione dei ruoli e dei compiti», ritiene che esempi positivi siano rappresentati da iniziative quali la cooperazione franco-belga nel campo della formazione per piloti di aerei da caccia, l'accordo franco-britannico sulla condivisione dei vettori aerei, l'iniziativa franco-tedesca in materia di formazione per piloti da elicottero o la cooperazione marina belgo-olandese, nell'ambito della quale una serie di strutture nazionali di supporto viene condivisa tra i partner.

Il Parlamento europeo sottolinea inoltre il ruolo importante svolto dall'AED nel proporre progetti multilaterali, coordinare i programmi degli Stati membri e gestire i programmi di cooperazione in materia di ricerca e tecnologia ed esorta gli Stati membri ad utilizzare il potenziale offerto dall'Agenzia in termini di supporto amministrativo e legale e ad affidarle la gestione delle loro iniziative di cooperazione e sottolinea che l'AED ha bisogno di ricevere i mezzi necessari per far fronte a un aumento delle sue responsabilità.

Il PE ritiene che permangano significativi divari strutturali che devono essere affrontati in modo coordinato a livello di Unione e che, pertanto, a un certo punto gli accordi bilaterali o regionali debbano essere integrati nella più ampia prospettiva europea, provvedendo affinché garantiscano allo sviluppo della Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC). In tale contesto, secondo il PE all'Agenzia europea per la difesa dovrebbe essere conferito un ruolo nel garantire la coerenza globale degli sforzi profusi nel quadro della PSDC.

Il PE ritiene che un Quartier generale civile-militare operativo dell'Unione europea, più volte richiesto, non solo migliorerebbe notevolmente la capacità dell'Unione di sostenere la pace e la sicurezza internazionale, ma nel lungo periodo darebbe origine a un risparmio per i bilanci nazionali nella logica della messa in comune e della condivisione.

Il PE giudica favorevolmente l'iniziativa «Smart Defence» in seno alla NATO e ribadisce l'importanza di un coordinamento continuo e di una prevenzione della conflittualità tra l'UE e la NATO a tutti i livelli, al fine di evitare inutili duplicazioni; sottolinea che l'intensificazione della cooperazione pratica UE-NATO, soprattutto per quanto riguarda le risposte alle sfide poste dalla crisi finanziaria, rappresenta un imperativo; invita in particolare l'AED e il Comando alleato della NATO per la trasformazione a collaborare strettamente per garantire che i progetti di messa in comune e condivisione di entrambe le organizzazioni siano complementari e attuati sempre nel quadro previsto con il massimo valore aggiunto.

 



Appendice

La primavera araba

 



L’Unione europea e la primavera araba

 

L’Unione europea ha risposto agli eventi della primavera araba con una serie di iniziative, messe in atto già a partire dall’inizio del 2011, riconoscendo - insieme all’importanza delle sfide poste dalla transizione politica ed economica della regione - anche la necessità di un nuovo approccio nelle relazioni con i suoi vicini meridionali.

A tal fine, l'Alto Rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Catherine Ashton, ha istituito una task force volta a riunire il Servizio europeo di azione esterna e gli esperti della Commissione per adattare gli strumenti già a disposizione dell’UE al fine di aiutare i Paesi del Nord Africa. L'obiettivo è quello di fornire un pacchetto completo di misure adeguate alle esigenze specifiche di ciascun Paese.

La risposta strategica dell’UE è arrivata già durante il Consiglio europeo dell’11 marzo 2011, quando l’Alto rappresentante e la Commissione hanno presentato un documento orientativo, volto a proporre un nuovo partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo meridionale. Tale partenariato dovrebbe essere fondato su una maggiore integrazione economica, un accesso al mercato più ampio e la cooperazione politica. La comunicazione sottolinea la necessità di sostenere la domanda di partecipazione politica, dignità, libertà e opportunità di occupazione proveniente dai popoli della regione e di delineare un approccio basato sul rispetto dei valori universali e su interessi condivisi. Si propone inoltre il principio del “more for more” in base al quale maggiore assistenza finanziaria, mobilità incrementata e accesso al mercato unico dell’UE saranno resi disponibili ai paesi partner più avanzati sulla strada delle riforme.

Tale approccio è stato ulteriormente elaborato nella comunicazione “Una nuova risposta ad un vicinato in mutamento” (COM (2011) 313)[16] che l’Alto rappresentante e la Commissione hanno presentato il 25 maggio 2011 nell’ambito dell’annuale pacchetto sulla politica di vicinato. Secondo quanto indicato nella comunicazione, i risultati di un’ampia consultazione con le parti interessate avviata già nell’estate 2010 nonché i recenti avvenimenti nei paesi del bacino meridionale del Mediterraneo hanno mostrato che il sostegno dell’UE alle riforme politiche nei paesi vicini ha ottenuto risultati limitati; è emersa dunque la necessità di una maggiore flessibilità e di risposte più adeguate, in linea con la rapida evoluzione della situazione nei partner. Su tali basi, l’UE è impegnata nel breve e lungo periodo ad aiutare i suoi partenr in due importanti sfide:

·         in primo luogo, costruire una democrazia solida, non soltanto scrivendo costituzioni democratiche e conducendo libere elezioni, ma anche creando e sostenendo sistema giudiziario indipendente, libera stampa, società civile dinamica e tutte le altre caratteristiche di una democrazia matura;

·         in secondo luogo, assicurare una crescita economica inclusiva e sostenibile, senza la quale la democrazia non può attecchire. Una particolare sfida è rappresentata dalla creazione di nuovi e solidi posti di lavoro.

Pur riconoscendo che un certo numero di sfide sono comuni a tutti i paesi partner, l’UE - come già anticipato - sosterrà ogni paese su una base differenziata, corrispondendo a necessità e priorità individuali.

Su tali basi e su sollecitazione del Consiglio europeo dell’1 e 2 marzo 2012, Commissione e AR hanno presentato – nell’ambito del pacchetto sulla politica europea di vicinato del 15 maggio 2012 - una tabella di marcia intesa a definire e orientare l'attuazione della politica dell'UE nei confronti dei partner del Mediterraneo meridionale, che elenca gli obiettivi, gli strumenti e le azioni, concentrandosi sulle sinergie con l'Unione per il Mediterraneo e altre iniziative regionali.

Il Consiglio europeo di marzo 2012 ha inoltre ribadito la volontà dell’UE di far corrispondere l’entità del sostegno economico al livello delle riforme democratiche, “offrendo maggiori aiuti ai partner che compiono maggiori progressi verso sistemi democratici inclusivi, riconsiderando il sostegno ai governi in casi di oppressione o di gravi o sistematiche violazioni dei diritti umani''.

Sostegno alla transizione

Già a partire dai primi giorni della cosiddetta primavera araba I leader dell’UE, inclusi il Presidente del COnsiglio europeo, Herman Van Rompuy, il Presdiente della COmmissione europeoa Jose Manuel Barroso e l’AR, Catherine Ashton , hannio compiuto diverse visite nella regione per manifestere l’impegno dellpolitico dell’UE. Nel maggio 20011 l’AR è stato uno dei primi a visitare la Libia dopo la rivoluzione per discutere il sostegno dell’UE con le nuove autorita e aprire ufficilament el’ufficio di Bengasi. Successivamente apero la delegaizone di Tripoli. Al vertice 5+ 5 il PResdiente Barroso a ccocmpagnato del commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato Stefan Füle, ha incontrato I leader dei cinque paeisi del Maghreb. Un rappresnente speciale per il mediterraneo meridionale è stato nominato e sonos teta rogranzizate task force ad alto livbello con Tunisia Egitto e Giordania. Tali task force sono state importanti per sviluppare sinergie potenziali tra i diversi contributi di UE, Stati membri, istituzioni finanziarie internazionali e investitori del settore privato verso questi Paesi.

Il sostegno alle elezioni è stato un aspetto prioritario e l’UE ha organizzato missioni di osservazione elettorale in Tunisia, Giordania e Algeria. Un team di valutazione delle elezioni è stato inviato in Libia. L’UE ha fornito inoltre assistenza tecnica alle autorità locali per organizzare elezioni in Tunisia, Libia, Egitto e Marocco e ha sostenuto le organizzazioni della società civile per aumentare la pubblica consapevolezza e formare osservatori locali.

Aiuto umanitario

La direzione generale della Commissione responsabile per l’aiuto umanitario e la protezione civile è stata la prima a reagire nel febbraio 2011 e più tardi nei mesi di marzo ed aprile. L’aiuto totale fornito ammonta a 80,5 milioni di euro che comprendono 40 milioni di euro per decisioni d’emergenza; 20 milioni dal piano umanitario (vale a dire da fondi programmati); 10 milioni per il reinserimento dei cittadini del Ciad fuoriusciti dalla Libia; 10,5 milioni dalla linea di bilancio della protezione civile per l’evacuazione di cittadini dei paesi terzi.

Finanziamenti

Nel maggio 2011 l’UE ha reso disponibili - in aggiunta ai 5,7 miliardi di euro già disponibili per il periodo 2011-2013 - ulteriori 1,24 miliardi di euro da risorse già esistenti, da dividere tra i partner del vicinato meridionale ed orientale.

In aggiunta, la Banca europea per gli investimenti (BEI) fornirà oltre ai 4 miliardi disponibili prima della primavera araba, contributi aggiuntivi di 1.7 miliardo di euro per la regione (di cui 700 milioni di euro destinati ad affrontare i temi del cambiamento climatico). La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) ha deciso di estendere la sua copertura geografica per includere il vicinato meridionale e fornire annualmente 2,5 miliardi di euro agli investitori del settore privato e pubblico per sostenere l’espansione degli affari e il finanziamento delle infrastrutture.

Il 22 dicembre 2011 la Commissione ha adottato un nuovo programma regionale per i vicini meridionali denominato SPRING e rivolto inizialmente a Tunisia e Marocco con l’obiettivo di promuovere indipendenza e efficienza del sistema giudiziario, governance e lotta alla corruzione, protezione dei diritti umani e dei principi democratici, contrasto al traffico di esseri umani. Il budget ammonta  a 350 milioni di euro totali per gli anni 2012 e 2013.

E’ stata inoltre istituita nell’ambito dello strumento finanziario per il vicinato e il partenariato (ENPI) un fondo società civile con un budget di 22 milioni di euro per ciascun anno (2012 e 2013) rivolto ad attori non statali con gli obiettivi di:

·         sostenere la democratizzazione, tra l’altro rafforzando il ruolo delle organizzazioni della società civile e promuovendo il pluralismo dei media e organizzando missioni di osservazione elettorale;

·         promuovere lo sviluppo della società civile e delle organizzazioni non statali.

Misure speciali sono state assunte nel settembre 2011 a sostegno delle aree più povere della Tunisia (per un valore di 20 milioni di euro) per promuovere occupazione e creazioni di nuovi posti di lavoro nel paese; migliorare le condizioni di vita degli abitanti delle aree urbane nelle regioni più impoverite; favorire l’accesso al credito.

Nell’ambito del programma Erasmus mundus è stato disposto un finanziamento di 30 milioni di euro per i paesi del vicinato meridionale. L’obiettivo è ottenere una migliore comprensione reciproca tra UE e paesi vicini favorendo la mobilità di studenti e accademici e lo scambio di conoscenze e competenze.

Nelle proposte di bilancio per il periodo 2014-2020 presentate il 7 dicembre 2011, la Commissione raccomanda di allocare più di 18,1 miliardi di euro a sostegno dei paesi del vicinato sia orientale sia meridionale, con un incremento sostanziale (pari quasi il 40%) rispetto alle precedenti prospettive finanziarie. Secondo la proposta della Commissione, il nuovo strumento per il vicinato sarà capace di fornire assistenza in modo più rapido e flessibile, consentendo una maggiore differenziazione ed incentivi per i partner più attivi, secondo il citato principio del more for more.

Mobilità

Sarà favorita la mobilità nell’UE dei cittadini dei paesi partner attraverso:

·         maggiore disponibilità di borse di studio universitarie (Erasmus mundus) e di scambi; i fondi del programma Tempus[17] sono stati incrementati per sostenere la modernizzazione dell’istruzione superiore nei paesi mediterranei e espandere la collaborazione con le università dell’UE per gli anni 2012 e 2013;

·         l’istituzioni di partenariati per la mobilità[18], che comprendano anche accordi di riammissione e di facilitazione delle procedure per il rilascio dei visti. Dialoghi preparatori a tale scopo sono stati avviati con Tunisia, Marocco e Giordania.

I partenariati per la mobilità costituiscono uno strumento già elaborato dall’Unione europea a partire dal 2007. In particolare nella comunicazione  Migrazione circolare e partenariati di mobilità tra UE e paesi terzi” (COM(2007)248), del maggio 2007, volta a promuovere l’immigrazione legale, la Commissione europea aveva esaminato la natura giuridica, la forma e i contenuti di tali  partenariati, che l’Unione europea potrà concludere con i paesi terzi, che si sono impegnati a cooperare attivamente nella gestione dei flussi migratori, anche combattendo contro la migrazione illegale, e che desiderano assicurare ai loro cittadini un migliore accesso al territorio dell’Unione. In questo quadro il 5 giugno 2008, erano stati lanciati, come progetti pilota, partenariati di mobilità con la Repubblica di Moldavia e con Capo Verde, attraverso la firma di dichiarazioni comuni con ciascuno dei due paesi. I partenariati per la mobilità, che saranno concertati a livello politico tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e il paese partner interessato, dall’altro, dovrebbero riguardare, tutte le misure (legislative od operative) atte a garantire che la circolazione delle persone tra l’UE e il paese partner sia gestita correttamente ed avvenga in condizioni di sicurezza. L’Unione europea sosterrà, sia tecnicamente che economicamente, gli sforzi compiuti dal paese partner, anche tramite le sue agenzie (FRONTEX, EASO ed EUROPOL).

Mercati

Un migliore accesso al mercato dell’UE e la progressiva integrazione delle economie dei paesi partner nel mercato unico dell’UE saranno gli obiettivi principali dei futuri negoziati su aree di libero scambio con Marocco, Giordania, Tunisia, Egitto e Tunisia che saranno lanciati appena i lavori preparatori saranno stati completati. Messi a confronto con le attuali relazioni commerciali tra UE e paesi partner, le aree di libero scambio andranno oltre la sola rimozione delle tariffe per coprire tutte le questioni regolamentari relative al commercio, quali protezione degli investimenti e pubblici appalti.

Un nuovo strumento per gli investimenti delle piccole e medie imprese denominato SANAD ('sostegno' in lingua araba) è stato inaugurato nell’agosto 2011, insieme alla banca tedesca "Kreditanstalt Für Wiederaufbau" (KFW), per un totale di 20 milioni di euro. Il fondo è rivolto alle piccole e medie imprese della regione del Medio Oriente e del Nord Africa, segmento che è troppo piccolo per le banche e troppo grande per il microcredito. Infine, si sta sviluppando un nuovo strumento per il Mediterraneo denominato “Investimento sicuro”, congiuntamente all’Agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l’Unione per il Mediterraneo.

Società civile

Una priorità dell’UE è rappresentata dal sostegno alle organizzazioni della società civile, che svolgono un ruolo chiave nel migliorare la governance e rendere affidabili i governi. La società civile in tutte le sue componenti (organizzazioni non governative, università, media, ricercatori), insieme con i parlamenti e le assemblee costituzionali saranno essenziali nel delineare il futuro della regione. Donne e giovani avranno un ruolo importante da giocare a questo riguardo e l’UE sta lanciando progetti concreti a sostegno della loro attiva partecipazione alla vita economica e politica.

L’UE continuerà a sostenere la società civile sia attraverso l’assistenza bilaterale differenziata in ogni paese sia rinvigorendo gli esistenti forum, quale quello creato nell’ambito dell’Unione per il Mediterraneo. Come anticipato, la UE ha già inaugurato il fondo società civile. L’UE inoltre consulterà le organizzazioni della società civile in maniera più sistematica nella preparazione e verifica dei piani di azione bilaterali e dei progetti di cooperazione finanziaria. Ad ottobre 2012 è stata inoltre istituita la Sovvenzione europea per la democrazia, in forma di fondazione di diritto privato, con l’obiettivo principale di fornire – attraverso specifiche procedure flessibili - contributi diretti agli attivisti e alle organizzazioni che si adoperano in favore della transizione democratica nel vicinato europeo. Infine, la Commissione, per iniziativa del Vice presidente Neelie Kroes, ha avviato la "No Disconnect Strategy" che contribuirà ad assicurare il rispetto dei diritti umani anche online. La strategia fornirà strumenti tecnologici per aumentare privacy e sicurezza nelle comunicazioni online; accrescere la consapevolezza degli utenti sulle opportunità e i rischi della comunicazione digitale; monitorare il livello di sorveglianza; aiutare i soggetti interessati a condividere informazioni; favorire la cooperazione interregionale.

La transizione verso la democrazia richiederà tempo e continuerà a porre grandi sfide. In questo contesto, l’UE ribadisce l’impegno a lavorare coi paesi della regione, le istituzioni finanziarie internazionali, il settore privato, la società civile e le organizzazioni non governative per assicurare una ripresa coordinata ed efficace.

Le iniziative verso i singoli paesi

Algeria

Come risposta immediata alla primavera araba in Algeria, l’UE ha lanciato un programma di sostegno all’occupazione giovanile con una dotazione di 23,5 milioni di euro; collaborerà con il ministero della gioventù e dello sport, a livello nazionale e locale, così come con le organizzazioni giovanili attraverso attività di informazione, formazione e finanziamento di progetti. Il programma si prefigge di rafforzare la partecipazione dei giovani alla società, migliorare le loro prospettive lavorative e sostenere l’attuazione di una politica nazionale a favore dei giovani.

Anche dialogo politico, sicurezza e diritti umani occupano un posto importante dell’agenda dell’UE: il sottocomitato UE-Algeria dedicato a questi temi ha tenuto le sue prime riunioni a settembre e dicembre 2011.

Il commissario europeo per l’allargamento, Stefan Füle, ha visitato l’Algeria nel maggio 2011, per discutere in particolare la partecipazione dell’Algeria alla PEV con uno status avanzato e favorire l’adozione del piano d’azione; a tale proposito si segnala che, acquisita su tale questione la volontà favorevole delle autorità algerine, ad ottobre 2012 sono stati avviati i negoziati sul piano d’azione. E’ stato inoltre raggiunto un accordo per lo smantellamento delle tariffe sui prodotti agricoli ed industriali e nel corso del 2013 dovrebbe essere firmato un protocollo di intesa su un partenariato strategico in materia di energia.

Inoltre, in vista delle elezioni legislative di maggio 2012, l’UE ha offerto il suo sostegno tecnico e una missione di osservazione elettorale. In una dichiarazione ufficiale l’UE ha espresso la propria soddisfazione per il fatto che le elezioni si siano tenute in un clima pacifico ed ordinato. La missione di osservazione elettorale, guidata dal membro del Parlamento europeo, José Ignacio Salafranca, infatti nella sua relazione ha sottolineato i positivi sviluppi del processo elettorale, individuando alcune aree che potrebbero essere migliorate. L’UE considera questo un passo in avanti nella strada delle riforme intrapresa dal paese a partire dall’aprile 2011 e che dovrebbe concludersi con la revisione della Costituzione.

Egitto

Dall’inizio della crisi, l’UE ha difeso i diritti degli egiziani di dimostrare pacificamente e condannato l’uso della forza da parte delle autorità. Immediatamente dopo la partenza dell’ex presidente Mubarak e in risposta alle aspirazioni del popolo egiziano al rispetto dei diritti civili, politici e socio-economici, l’UE ha istituito un pacchetto di 20 milioni per la società civile. Inoltre, alla luce delle nuove circostanze, l’assistenza prevista nell’ambito dell’ENPI  per il periodo 2011-2013 (pari a 449 milioni di euro) è stato rivisto: i programmi finanziati fino a questo momento hanno sostenuto il miglioramento delle condizioni di vita nelle aree povere del Cairo, gli scambi e la crescita economica (e la conseguente creazione di posti di lavoro), le piccole e medie imprese, la riforma dei settori dell’energia e dell’acqua. In aggiunta, l’UE insieme alla Banca europea per gli investimenti e alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo hanno annunciato, nel corso della riunione della task force UE-Egitto di novembre 2012, l’impegno di un pacchetto aggiuntivo di 5 miliardi di euro. Il contributo dell’UE, pari a 750 milioni di euro, prevede 90 milioni di assistenza dal programma SPRING, 164 dal Fondo per gli investimenti nel vicinato e 500 milioni di assistenza macro-finanziaria

In vista delle elezioni presidenziali, su invito del governo il Servizio europeo per l’azione esterna ha inviato due esperti elettorali per valutare la conduzione delle elezioni di maggio e giugno 2012. Inoltre, le autorità egiziane hanno accettato il sostegno di 2 milioni di euro offerti dall’UE nell’ambito dello strumento di stabilità per assistere l’Alta commissione elettorale nel suo lavoro. In vista delle elezioni parlamentari previste nel primo semestre del 2013 l’UE ha reiterato la sua offerta di dislocare sul luogo, dietro invito delle autorità egiziane, una missione di osservazione elettorale. L’UE ha anche inaugurato dialoghi preparatori al Cairo per un partenariato della mobilità; per integrare progressivamente l’economica egiziana nel mercato unico europea e migliorare l’accesso dei prodotti egiziani al mercato europeo si sta preparando inoltre l’avvio dei negoziati su un’area di libero scambio non appena il paese sarà pronto. Una delle prime visite del neo eletto Presidente Morsi a Bruxelles ha offerto l’occasione per concordare la ripresa dei rapporti bilaterali e attraverso le strutture dell’accordo di Associazione e la ripresa dei negoziati per un nuovo piano di azione.

 

 

Giordania

Lavorando sullo status avanzato del partenariato UE-Giordania concordato ad ottobre 2010, l’AR ha espresso in diverse occasioni la disponibilità dell’UE a sostenere la Giordania sulla via delle riforme. Per assistere il governo giordano nell’affrontare le sfide economiche, l’UE ha concordato nel maggio 2011 di anticipare al 2011 l’importo di 40 milioni di euro dai programmi 2012/2013. Tale finanziamento sosterrà lo sviluppo delle piccole e medie imprese con l’obiettivo di ridurre la povertà e la disoccupazione nelle aree meno favorite, aumentare il contributo per ricerca e innovazione e rafforzare ulteriormente la gestione della finanza pubblica. Programmi in corso (inclusi nel contributo iniziale di 71 milioni di euro per il 2011) già sostengono le riforme in diversi settori, quali efficienza energetica, istruzione, governance e sviluppo economico locale. In linea con l’impegno assunto a sostegno dei processi di riforma nel Mediterraneo meridionale, l’UE ha inoltre messo a disposizione del paese ulteriori 70 milioni di euro dal programma SPRING, come annunciato dall’AR nel corso della sua visita ufficiale in Giordania a febbraio 2012, di fatto raddoppiando l’ammontare totale dell’aiuto alla Giordania previsto per il 2012 nell’ambito dello strumento per il vicinato.

A seguito dell’invito della Commissione elettorale indipendente, l’AR ha dislocato sul terreno, in occasione delle elezioni di gennaio 2013, una missione di osservazione elettorale che pubblicherà una valutazione complessiva dell’andamento delle elezioni e fornirà raccomandazioni che potranno servire da punto di riferimento per future riforme elettorali. Nel frattempo, l’AR e il Commissario europeo per l’allargamento e il vicinato hanno rilasciato una dichiarazione in cui esprimono le proprie congratulazioni alla Giordania per la conduzione delle elezioni.

Nel dicembre 2012 è stato lanciato il dialogo migrazione, mobilità e sicurezza e siglato un protocollo all’accordo di associazione UE-Giordania, ulteriore segnale dell’incremento della cooperazione in un’ampia gamma di settori. Inoltre è stato avviato il processo preparatorio per i negoziati sull’area di libero scambio.

In considerazione del ruolo svolto dal paese nell’accoglienza dei rifugiati dalla Siria, l’UE sta fornendo sostegno umanitario e misure di lungo termine con un’allocazione complessiva di 43 milioni di euro per coprire le spese di istruzione dei bambini siriani rifugiati.

Libia

L’eccezionale brutalità delle repressioni dell’ex regime ha indotto l’UE a sospendere immediatamente la cooperazione tecnica e i negoziati su un accordo quadro UE-Libia. Un Consiglio europeo straordinario sulla Libia si è tenuto a marzo 2011 e della situazione nel paese si è discusso in tutte le successive riunioni del Consiglio affari esteri. La Libia ha sperimentato diversi mesi di guerra di liberazione, che si è conclusa soltanto il 23 ottobre 2011, con la cattura e la morte del colonnello Gheddafi. Durante l’intero periodo, l’UE ha partecipato ad incontri internazionali, come quelli del gruppo di contatto internazionale sulla Libia, e ha contribuito a mettere insieme le divergenti posizioni dei partner internazionali nel Cairo group (comprendente Unione africana, Lega araba, UE, Organizzazione per la cooperazione islamica e Nazioni Unite). L’UE ha inoltre rilasciato numerose dichiarazioni a sostegno dei diritti umani delle opposizioni e condannato la sanguinaria offensiva del regime, adottando una serie di sanzioni contro individui ed entità, per evitare che armi e denaro raggiungessero il regime. L’impegno dei suoi Stati membri a livello internazionale ha condotto all’approvazione della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha richiesto un’azione internazionale di protezione dei cittadini e fornito la base legale per un intervento militare della NATO. L’AR ha aperto una missione dell’UE a Bengasi il 22 maggio 2011 e inaugurato una nuova delegazione UE a Tripoli, durante la sua visita in Libia il 12 novembre 2011.

Dall’inizio della crisi l’UE ha fornito più di 155 milioni di aiuto umanitario e mobilitato le squadre di protezione civile per alleviare le condizioni di sofferenza dei civili sia in Libia sia ai confini. In aggiunta la Commissione sta rendendo disponibili altri 30 milioni per sostenere le priorità immediate di stabilizzazione del Consiglio transitorio nazionale. Un ulteriore finanziamento di 68 milioni di euro per il periodo 2012-2013 è stato destinato ai settori della sicurezza, istruzione tecnica, sviluppo economico, migrazione e ulteriore sostegno alla società civile. Con particolare riguardo alla sicurezza, l’UE sta preparando una missione civile di gestione delle frontiere, nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comuni.

L’obiettivo dell’UE verso la Libia è quello di concludere un accordo di lungo temine con le nuove autorità libiche che costituisca la cornice per sviluppare dialogo e cooperazione, nonché di arrivare alla piena partecipazione della Libia ai rilevanti quadri di cooperazione regionale. A tale proposito si segnala che a gennaio 2013, la Libia ha annunciato di volere partecipare in qualità di osservatore all’Unione per il Mediterraneo.

Marocco

Il 2 luglio 2011, l’AR e il Commissario per la politica di vicinato, Stefan Füle, hanno considerato favorevolmente l’esito positivo del referendum sulla nuova Costituzione che ha approvato le riforme proposte dal re Mohammed VI e hanno ribadito il sostegno dell’UE agli sforzi del Marocco di attuare riforme di lungo periodo. Il partenariato per la mobilità con il Marocco è stato inaugurato a Rabat a ottobre 2011; un anno dopo, a novembre 2012, sono stati conclusi  i negoziati per il nuovo piano d’azione 2013-2017 sulla base dello status avanzato del paese nell’ambito della PEV; sono stati inoltre da poco avviati i negoziati su un’area di libero scambio; nel frattempo, il 1° ottobre 2012 è entrato in vigore l’accordo sulla liberalizzazione degli scambi di prodotti agricoli.

Con riguardo al sostegno finanziario, le cinque aree prioritarie già individuate restano invariate: sviluppo di politiche sociali; modernizzazione economica; sostegno istituzionale; governance e diritti umani; protezione ambientale. Il bilancio indicativo per il 2011-2013 è di 580 milioni di euro che rappresenta il 20 percento di aumento rispetto al periodo precedente e fa del Marocco il più grande beneficiario dell’assistenza dell’UE tra i paesi del Mediterraneo meridionale. Ulteriori 80 milioni di euro sono stati messi a disposizione nell’ambito del programma SPRING per sostenere la tutela dei diritti umani e una transizione economica inclusiva, puntando soprattutto su istruzione, salute e sviluppo rurale. Il Marocco beneficia anche di programmi tematici e regionali nonché del sostegno del nuovo Fondo società civile e di Erasmus mundus.

Siria

L’Unione europea ha reagito alla repressione violenta delle proteste antigovernative in Siria, iniziata nel marzo 2011, richiedendo in più occasioni la fine delle violenze inaccettabili, il ritiro dell’esercito siriano dalle città e villaggi occupati, l’abbandono del potere da parte del Presidente Assad e l’avvio di una transizione politica. Il Consiglio del dicembre 2012 ha dichiarato coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione, come legittimo rappresentante del popolo siriano e ha incoraggiato la coalizione a proseguinre nei sui sforiz verso la piena inclusività e il riseptto dei principi democratici e dei diritti umani..

Di fronte al proseguimento delle azioni violente e repressive, a partire dal maggio 2011 l’UE ha deciso di introdurre misure restrittive, in più occasioni rafforzate, per aumentare la pressione sul governo del presidente Bashar al-Assad (vedi infra).

Sempre nel maggio 2011 l’UE ha deciso di congelare la proposta di accordo di associazione che stava negoziando con la Siria e ha sospeso i programmi di cooperazione bilaterale tra UE e governo siriano, finanziati nell’ambito dello strumento finanziario per il vicinato e il partenariato (ENPI). La Commissione europea ha sospeso la partecipazione delle autorità siriane ai programmi regionali e la Banca europea per gli investimenti ha interrotto le operazioni di prestito e l’assistenza tecnica alla Siria. Il 30 novembre 2011, in reazione alle misure adottate dall’UE, la Siria ha sospeso la propria partecipazione all’Unione per il Mediterraneo.

D’altro canto nei mesi scorsi i ministri degli affari esteri hanno più volte ribadito che, non appena avrà inizio un'autentica transizione democratica, l'UE sarà disposta a sviluppare un nuovo, ambizioso partenariato con la Siria in tutti i settori di interesse reciproco, anche ponendo in atto misure di assistenza e rafforzando le relazioni commerciali ed economiche nonché sostenendo la giustizia di transizione e il processo di transizione politica.

A fronte delle misure assunte dall’UE nei confronti del regime, diversi progetti sono in corso con attori non statali, società civile e rifugiati. Proseguono anche i programmi Tempus ed Erasmus con gli studenti e gli universitari siriani.

La Commissione ha approvato alla fine del 2011 una misura speciale di sostegno a due progetti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA) rivolti sia ai profughi palestinesi sia ai rifugiati siriani. I profughi palestinesi restano infatti una priorità: su una popolazione totale di oltre 500.000 rifugiati, si stima che più del 10% siano direttamente colpiti dal conflitto. Come segnalato dalla Commissione, l’UNRWA è al momento una delle ultime agenzie esecutive con una reale capacità operativa sul territorio e il suo mandato consente l’inclusione dei rifugiati siriani come beneficiari.

L’UE è gravemente preoccupata per la situazione umanitaria in Siria e sottolinea la necessità pressante di proteggere i civili. Ha già messo a disposizione 400 milioni di euro di assistenza umanitaria (approssimativamente metà della somma proviene dalla Commissione europea e l’altra metà dagli Stati membri) ed è impegnata ad incrementare l’aiuto.  Secondo l’UE è di vitale importanza che le autorità siriane concedano alle organizzazioni umanitarie un accesso immediato, pieno e senza restrizioni a tutte le zone della Siria per consentire loro di prestare assistenza umanitaria e medica.  

L’UE partecipa attivamente al gruppo degli amici del popolo siriano e sta collaborando strettamente con la comunità internazionale (inclusi Lega araba, Nazioni Unite, Organizzazione per la cooperazione islamica e Consiglio di cooperazione del golfo) per esercitare pressione sul governo siriano e indurlo a porre fine alle atrocità. L’UE sostiene pienamente il Rappresentante congiunto del segretariato delle Nazioni Unite e della Lega degli Stati arabi, Lakhdar Brahimi, nei suoi sforzi per trovare una soluzione negoziata alla crisi.

L’UE ha inoltre lavorato strettamente con i partner internazionali per assicurare una risposta delle Nazioni Unite alla crisi siriana. In sede di Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite l’UE ha ottenuto la convocazione di tre sessioni dedicate alla Siria e l’adozione di rispettive risoluzioni. L’UE continua comunque a sollecitare i membri del Consiglio di sicurezza ad assumersi le loro responsabilità e concordare su una forte azione delle Nazioni Unite verso il paese, chiedendo la fine del bagno di sangue e un futuro democratico per la Siria. 

Le misure restrittive

Come anticipato, di fronte alla brutale e continua repressione e alla violazione persistente dei diritti umani da parte del regime siriano, a partire da maggio 2011 l’UE ha gradualmente introdotto misure restrittive, che consistono in:

-     embargo alla vendita, fornitura, trasferimento alla Siria o esportazione nel paese di armamenti e materiale connesso, che potrebbero essere utilizzati nella repressione interna. E’ altresì vietata ogni forma di assistenza tecnica e finanziaria. Sono esclusi dall’embargo i materiali militari non letali per la coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione destinati alla protezione dei civili;

-     vietati l’acquisto, l’importazione o il trasporto dalla Siria di petrolio greggio e di prodotti petroliferi;

-     divieto di investimento nelle industria petrolifera siriana e nelle compagnie impegnate nella costruzione di nuovi impianti per la produzione di energia elettrica in Siria;

-     vietata la partecipazione alla costruzione di nuove centrali elettriche per la produzione di energia elettrica in Siria;

-     divieto di fornire, trasferire o esportare in Siria attrezzature e tecnologie chiave per i settori dell'industria del petrolio e del gas naturale in Siria. Il divieto si estende ad imprese siriane o di proprietà siriana operanti in tali settori al di fuori della Siria;

-     i beni della Banca centrale siriana in territorio UE sono congelati ed è proibito rendere disponibili fondi o risorse economiche;

-     embargo del commercio di oro, metalli preziosi e diamanti con enti pubblici siriani e Banca centrale;

-     divieto di consegnare banconote e monete alla Banca centrale siriana;

-     divieto per gli Stati membri di fornire nuovi prestiti e contributi al Governo siriano;

-     congelati i beni di 53 entità e 180 persone responsabili della repressione violenta della popolazione siriana;

-     divieto di visto per 180 persone responsabili della repressione violenta della popolazione siriana;

-     vietati la vendita, la fornitura, il trasferimento o l'esportazione di apparecchiature o software destinati principalmente ad essere usati per il controllo e l'intercettazione, da parte del regime siriano, o per suo conto, di Internet e delle comunicazioni telefoniche di rete fissa o mobile in Siria,

-     vietati le erogazioni o i pagamenti della Banca europea per gli investimenti (BEI) nell'ambito di accordi di prestito esistenti tra la Siria e la BEI nonché la prosecuzione da parte della BEI di ogni contratto di prestazione di servizi di assistenza tecnica esistente per progetti sovrani situati in Siria;

-     vietati la vendita, l'acquisto, l'intermediazione o l'assistenza – diretti o indiretti – all'emissione di obbligazioni pubbliche siriane o garantite dalle autorità pubbliche emesse dopo il 1 o dicembre 2011 verso o da governo della Siria, suoi enti, entità giuridiche e agenzie pubblici, Banca centrale siriana;

-     proibizione per le istituzioni finanziarie siriane di aprire nuovi uffici o filiali  in territorio UE e stabilire nuove relazione bancarie con l’UE; d’altro canto le istituzioni bancarie e finanziarie dell’UE non possono aprire nuovi uffici e filiali in Siria;

-     gli Stati membri non possono fornire sostegno finanziario al commercio con la Siria, inclusi crediti alle esportazioni e assicurazioni;

-     vietata la fornitura di servizi di assicurazione o riassicurazione al governo della Siria, suoi enti, entità giuridiche e agenzie pubblici;

-     i voli cargo da vettori siriani non possono accedere agli aeroporti dell’UE;

-     divieto di esportare beni di lusso in Siria.

Tunisia

L’UE è intervenuta a sostegno della Tunisia in occasione dei recenti cambiamenti politici. Sono state effettuate numerose visite ad alto livello, la prima delle quali poche settimane dopo la rivoluzione, il 14 febbraio 2011, da parte dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Catherine Ashton, seguita da quelle del Presidente della Commissione, José Manuel Barroso, dei commissari europei, Štefan Füle (allargamento e politica di vicinato), Cecilia Malmström (affari interni) e Karel De Gucht (commercio internazionale), così come dal Presidente del Parlamento Europeo, Jerzy Buzek.

L’UE ha fornito sostegno alla preparazione delle elezioni, attraverso la previsione di assistenza tecnica alle autorità transitorie cosi come attraverso il sostegno diretto alle organizzazioni della società civile.

E’ stato reso disponibile anche un considerevole aiuto umanitario, in particolar modo per aiutare la Tunisia a fronteggiare il massiccio afflusso di rifugiati dalla Libia.

A seguito del cambiamento di regime, l’UE ha incrementato i fondi disponibili per la cooperazione bilaterale per il periodo 2011-2013, aumentati da 240 a 400 milioni di euro, con un incremento di oltre il 60% degli aiuti.

Allo scopo di rafforzare il sostegno dell’UE alla Tunisia, una task force presieduta congiuntamente dall’Alto rappresentante, Catherine Ashton, e dal primo ministro tunisino, Béji Caĭd Essebsi, è stata istituita per assicurare un migliore coordinamento tra il sostegno dell’UE e quello internazionale. In totale, quasi 4 miliardi di euro (inclusi prestiti e sovvenzioni)  potranno essere resi disponibili per sostenere la transizione in Tunisia nei prossimi tre anni: 3 miliardi dalle istituzioni dell’UE banche dell’UE e istituti internazionali (banca africana per lo sviluppo banca islamica per lo sviluppo banca mondiale) e un miliardo dagli Stati membri dell’UE. La task force è chiamata anche ad individuare le priorità di azione.

Sulla base delle priorità indicate dalla task force:

 


Rivolgimenti nel Mediterraneo e "primavere arabe"

 

Lo scoppio delle "primavere arabe" nell'area del Mediterraneo meridionale ha costituito un momento di svolta per la politica estera italiana che, da sempre, riconosce alla politica mediterranea una valenza strategica per gli interessi del Paese.

Il Parlamento della XVI legislatura ha seguito gli sviluppi della situazione regionale, intervenendo sul piano normativo con il finanziamento della partecipazione di un contingente italiano alle operazioni militari della NATO in Libia a sostegno delle forze d'opposizione e successivamente ad assicurare il sostegno alla ricostruzione economica e sociale della Libia. Sul piano conoscitivo, la III Commissione ha promosso un'articolata indagine conoscitiva intesa ad acquisire una panoramica dei nuovi equilibri geopolitici emersi all'indomani dei rivolgimenti ed a definire le nuove linee-guida per una coerente ed efficace proiezione del nostro Paese nella regione.

I più recenti interventi legislativi

            Si segnala che il decreto-legge n. 227 del 2012 – che ha prorogato e rifinanziato la partecipazione italiana a missioni internazionali per il periodo 1° gennaio-30 settembre 2013 – ha previsto la prosecuzione della missione di personale della Guardia di Finanza per il ripristino dell’efficienza delle unità navali cedute al Governo libico, per la loro manutenzione e per compiti di addestramento del personale locale in funzione di contrasto all’immigrazione clandestina; iniziative di cooperazione nei confronti, tra l’altro, della Libia e dei paesi ad essa limitrofi, al fine di assicurare il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e degli eventuali rifugiati e il sostegno alla ricostruzione civile.

L'attività di controllo e d'indirizzo

            Nella seduta delle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato del 18 marzo 2011, i Ministri degli Affari esteri e della Difesa avevano già informato il Parlamento – prima ancora dell’intervento internazionale in Libia, avviato il 19 marzo - sugli ulteriori sviluppi della situazione libica in relazione all’approvazione della risoluzione n. 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al termine della seduta le Commissioni riunite Affari esteri e Difesa della Camera avevano approvato una risoluzione: in pari data le omologhe Commissioni del Senato avevano a loro volta approvato una risoluzione d'identico tenore. I due documenti d'indirizzo impegnano il Governo ad assicurare che l’Italia “partecipi attivamente, con gli altri Paesi disponibili ovvero nell’ambito delle organizzazioni internazionali di cui il Paese è parte, alla piena attuazione” della citata risoluzione ONU n. 1973.

Nel corso delle comunicazioni sulla crisi libica, rese alla Camera nella seduta del 24 marzo 2011, i Ministri degli Affari esteri e della Difesa illustravano gli sviluppi dell’intervento militare multilaterale: il dibattito si è concluso con l’approvazione di due risoluzioni, una presentata dalle forze di maggioranza e l’altra dall’opposizione, che impegnano il Governo a proseguire nella cooperazione internazionale per la piena attuazione della risoluzione ONU n. 1973, nonché a perseguire un rinnovato approccio diplomatico per la soluzione della crisi.

            Si ricorda altresì, in riferimento alla tutela degli interessi delle imprese italiane coinvolte dalle crisi nordafricane, con particolare riguardo all’Egitto, alla Libia ed alla Tunisia, l’approvazione di una risoluzione, in data 13 aprile 2011, da parte della Commissione Affari esteri, per iniziativa dell'on. Tempestini.

            L’Assemblea di Montecitorio, nelle sedute del 3 e del 4 maggio 2011 hanno concluso l’esame di mozioni sull’impegno del nostro Paese in Libia, con particolare riferimento alla nuova fase di partecipazione dell’Italia ad attacchi aerei mirati in territorio libico.

            Le criticità per l’Italia derivanti dalla situazione libica e le linee-guida del Governo per la gestione dell'emergenza umanitaria prodottasi nell'area mediterranea sono state più volte oggetto di informative del Governo al Parlamento: da ultimo, l’Assemblea della Camera, nelle sedute del 16 e del 18 gennaio 2012 ha discusso e votato mozioni in ordine alla cooperazione con il Governo libico per la gestione dei flussi migratori originati dalla Libia durante il recente conflitto.

L'attività conoscitiva

            Si ricorda anche l'indagine conoscitiva sugli obiettivi  della politica mediterranea dell'Italia nei nuovi equilibri regionali , che la Commissione Esteri ha deliberato il 21 febbraio 2012, con lo scopo di approfondire il ruolo dell’Italia in un’area geopolitica d’importanza cruciale per gli interessi nazionali, ampliando il quadro informativo acquisito attraverso lo svolgimento di alcune importanti missioni in Israele, nei Territori palestinesi, in Egitto, in Tunisia ed in Turchia.

            Il documento conclusivo, approvato nella seduta del 22 gennaio scorso, al termine di un articolato ciclo di audizioni di esperti italiani e stranieri, definisce alcune linee-guida per una “strategia nazionale nel Mediterraneo”, che muova dalla consapevolezza che le “primavere arabe” possono rappresentare un’opportunità per il nostro Paese e per il sistema Italia nel suo complesso che gode di un forte capitale di credibilità e simpatia in tutti questi paesi, anche presso le nuove forze politiche e le società civili del mondo arabo-mediterraneo.

            Nell’ambito di un’altra indagine conoscitiva, quella su diritti umani e democrazia condotta dal Comitato permanente sui diritti umani della Commissione Esteri della Camera, si è svolta il 27 marzo 2012 l’audizione di rappresentanti di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nella Libia post-Gheddafi; nonché, sulla più complessiva situazione nel Nord Africa e Medio Oriente, un’altra audizione di rappresentanti di Amnesty International (10 luglio 2012). Il 30 ottobre 2012 la stessa indagine conoscitiva ha ospitato l’audizione di alcune attiviste per i diritti umani e delle donne nel mondo islamico.

 


Il nuovo quadro politico tunisino all’indomani delle “primavere arabe”

 

L’affermazione degli islamisti e le contraddizioni di Ennahdha

Come previsto, il 23 ottobre 2011 si svolgevano le elezioni dell’Assemblea costituente, nelle quali il partito islamista moderato Ennahdha conquistava la maggioranza relativa (90 seggi su 217). Il 22 novembre si svolgeva la prima riunione dell’Assemblea costituente tunisina.

Dopo negoziati non privi di asperità veniva raggiunto un compromesso istituzionale, in base al quale il 12 dicembre l'Assemblea costituente eleggeva presidente della Repubblica Moncef Marzouki, leader del Congresso per la repubblica, movimento di opposizione a Ben Alì legalizzato dopo la caduta di questi e che aveva riportato nell'elezione dell'Assemblea costituente il secondo posto, con 30 seggi. Alla presidenza dell’Assemblea costituente veniva posto invece Mustafa Ben Jafar, capo di un altro movimento laico di opposizione a Ben Alì, il Forum democratico per la libertà e il lavoro, che si era classificato terzo nelle elezioni per la Costituente con 21 seggi. Il nuovo governo, anch’esso transitorio, guidato dal segretario di Ennahdha Hamadi Jebali, otteneva il 23 dicembre la fiducia dell'Assemblea costituente, essendo appoggiato anche dai movimenti di Marzouki e Ben Jafar. Nella nuova compagine Ennahdha ha avuto i Dicasteri dell'interno, della giustizia e degli esteri, mentre quello dell'economia è andato all'indipendente Dimassi. Le opposizioni al governo Jebali annunciavano invece la costituzione di una coalizione progressista di centro-sinistra.

Nel 2012 si dispiegava pienamente l'ambiguità della matrice ideologica di Ennahdha, che in un primo tempo lasciava una certa libertà allo scatenamento degli elementi integralisti lanciati alla conquista delle principali moschee ma anche delle università, per poi dalla fine di marzo frenare bruscamente, escludendo tra l'altro la possibilità di porre la legge coranica alla base della Costituzione: in ciò Ennahdha è sembrato in accordo con l'esercito, comunemente ritenuto incarnare le istanze più laiche del paese. La Tunisia ha poi vissuto ancora momenti contraddittori: in aprile il ministero dell'interno interveniva contro il completo assedio che da un mese e mezzo subiva la televisione di Stato tunisina da parte degli estremisti islamici, ma in maggio veniva restituito alla moschea di Zitouna lo status di luogo di insegnamento, del quale Bourghiba a suo tempo l'aveva privata.

Il 13 giugno Ben Alì subiva due ulteriori condanne per la repressione che aveva tentato di porre in atto nei confronti della rivolta popolare, la prima  a venti anni di carcere e la seconda all'ergastolo. Successivamente proseguiva l'atteggiamento ambiguo del partito maggioritario verso i salafiti, con il moltiplicarsi delle loro manifestazioni di prevaricazione e l'insufficienza della risposta delle forze di sicurezza, tra le quali cominciava a serpeggiare un certo malcontento.

Il partito Ennahdha è sembrato più volte paralizzato tra opposte esigenze, ma prevalentemente rivolto con condiscendenza ai salafiti - va ricordato che il 28 maggio era stata ufficialmente autorizzata l'attività della loro espressione politica, il partito Hezb Ettahir. In giugno però l'escalation dei salafiti subiva un pesante contraccolpo, quando negli incidenti partiti dal quartiere della Marsa per protesta contro opere d'arte giudicate immorali le forze di polizia arrestavano più di 160 manifestanti, e il 12 giugno veniva imposto il coprifuoco nella capitale e in altri sei governatorati, la misura più drastica dalla caduta di Ben Alì. Veniva al contempo approvata una normativa più estensiva per l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine, e anche ciò contribuiva a spegnere temporaneamente il furore dei salafiti.

Alla metà di luglio si è svolto il nono congresso del partito Ennahdha – il primo in condizioni di legalità -, dominante nel governo tunisino, al termine del quale il leader incontrastato Gannouchi si è visto rieleggere con il 72% dei voti: se non vi è stato a suo favore un plebiscito, certamente la sua leadership è rimasta incontrastata. Ciò che più importa, tuttavia, è che nel corso del congresso Gannouchi ha affrontato di petto le difficoltà emerse nelle ultime settimane nel governo del paese, annunciando un prossimo rimpasto della compagine governativa, la cui azione, anche per l'inesperienza del personale politico di Ennahdha, denunciava molteplici défaillances. In tal senso, l'obiettivo di Ghannouci sembrava essere proprio il premier Jebali, che non aveva saputo far fronte neanche all'ondata di grande caldo che aveva colpito il paese.

All'inizio di settembre gli ambienti islamisti registravano un altro significativo successo, quando il Ministero tunisino dell'istruzione autorizzava in tutti i momenti della vita universitaria l’utilizzo, da parte delle studentesse, del niqab, ovvero del velo integrale islamico.

Il governo di Ennahdha, così accondiscendente verso le richieste degli islamici più radicali, non ha però potuto schivare le violente polemiche destate proprio negli stessi giorni dal naufragio - dai contorni poco chiari - avvenuto a poche miglia da Lampedusa, che, oltre al comprensibile vasto cordoglio nazionale, ha nuovamente attirato l'attenzione sul fenomeno dell'emigrazione clandestina dal paese, che gli accordi con l'Italia sembravano per un periodo aver ridotto ai minimi termini. Nonostante il governo annunciasse misure di rafforzamento dei controlli sulle strade e le spiagge nella zona meridionale del paese, da cui tradizionalmente salpano i natanti – misure che peraltro avrebbero dovuto essere già operanti, proprio ottemperando agli accordi con il nostro Paese-, l’esecutivo ha subìto una valanga di critiche anche per l'atteggiamento di quasi indifferenza manifestato nell'immediato della tragedia: difatti, solo dopo l'ondata di proteste il premier Jebali ha espresso, unitamente ad altri componenti del suo governo, cordoglio per le vittime.

Dopo un periodo di relativa tranquillità, la situazione della sicurezza è peggiorata nuovamente anche in Tunisia nel quadro delle proteste verificatesi in diversi paesi arabi contro le ambasciate e consolati USA in seguito alla produzione negli Stati Uniti, per opera di opera di alcuni cristiano-copti egiziani, di un film sulla vita di Maometto ritenuto offensivo per il Profeta. Il venerdì di preghiera islamica del 14 settembre è stato trasformato, per opera soprattutto di alcuni sceicchi salafiti, in un assalto preordinato all'Ambasciata americana di Tunisi, a fronteggiare il quale le forze di sicurezza si sono dimostrate impreparate, probabilmente per la contraddittorietà degli atteggiamenti del governo di Ennahdha, che continuava a mostrare un atteggiamento “morbido” rispetto all'aggressività dei salafiti. I manifestanti a un certo punto hanno aperto il fuoco a colpi di fucile e anche di mitra, e molti di loro si sono presentati con tanto di scale per salire, come hanno fatto, sul tetto della rappresentanza diplomatica americana. La limitata reazione delle forze dell'ordine ha provocato comunque tra i manifestanti quattro morti e numerosi feriti. In conseguenza dell'attacco gli USA hanno evacuato l'ambasciata di Tunisi, con l'ordine alle famiglie del personale, e al personale non strettamente necessario, di lasciare il paese. Pochi giorni dopo, il 17 settembre, l'ambasciatore americano Welles ha attaccato con insolita durezza il governo tunisino, rivolgendo al ministro degli esteri Abdelssalem accuse di totale inefficienza nell'operato della polizia.

Dei tre sceicchi ispiratori dell'assalto all'ambasciata americana il primo ad essere arrestato è stato Mohammad Bakhti, trasferito insieme a centinaia di sodali nel carcere annesso alla caserma della Brigata tunisina antiterrorismo di Bouchoucha. Lo sceicco più ricercato, Abu Yhad, si è peraltro preso gioco delle autorità quando il 17 settembre ha tenuto un sermone di grande intensità, incitando a rinnovate proteste, nella moschea di al-Fath, proprio nel centro della capitale Tunisi, per poi eclissarsi nuovamente. Il rinnovarsi in tutto il mondo islamico dell'ondata di proteste per le offese a Maometto, stavolta conseguenti alla pubblicazione delle vignette del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, ha condotto il 20 settembre il ministero dell'interno tunisino a vietare in tutto il territorio nazionale ogni tipo di manifestazione, temendo soprattutto che il venerdì di preghiera islamica del 21 settembre potesse ripresentare lo scenario di una Tunisia allo sbando, con le autorità impossibilitate a garantire la sicurezza.

Il ministro dell’interno Laraayedh, peraltro, la sera prima aveva dovuto subire in seno all'Assemblea costituente, tuttora di fatto il parlamento del paese in attesa delle elezioni del 2013, veementi critiche, e probabilmente non solo dalle opposizioni, poiché il nodo dei rapporti con i salafiti sembra dividere anche il suo partito Ennahdha. Inoltre, veniva prevista una particolare sorveglianza nei confronti stavolta delle istituzioni della Francia in Tunisia, prevedendo la chiusura delle scuole e la protezione rafforzata degli uffici consolari. Alla fine di settembre si è registrata un’affermazione notevole delle forze laiche, quando la Commissione dell’Assemblea costituente incaricata dei temi sociali ha infine rigettato la prospettiva islamista di definire, nella nuova Costituzione, la posizione della donna come meramente complementare a quella maschile, ribadendo invece la piena eguaglianza dei generi, peraltro in vigore in Tunisia fin dall’indipendenza del 1956.

La Tunisia viveva nuovi momenti di tensione tra novembre e dicembre del 2012, quando nel governatorato di Siliana si accendevano violenti scontri tra le forze dell'ordine e manifestanti che protestavano per la difficile situazione economica: La situazione costringeva a rimuovere il governatore di Siliana, ma, soprattutto, induceva addirittura il presidente della Repubblica Marzouki a chiedere in un discorso televisivo alla nazione un nuovo governo in vista delle elezioni politiche del 2013.

È tuttavia più recente il riprecipitare del paese in un tragico scontro con rischi non remoti di guerra civile: il 6 febbraio 2013, infatti, nella capitale veniva ucciso da due sicari Chokri Belaid, un avvocato cinquantenne segretario del Partito dei patrioti democratici unificati. Belaid incarnava la resistenza all'avanzata degli elementi islamici più radicali, e la sua uccisione scatenava immediatamente in tutto il paese disordini e scontri con la polizia, all'insegna di un'aspra critica al partito islamico Ennahdha, che nella sostanza non ha saputo o voluto frenare l'aggressività dei salafiti negli ultimi dodici mesi. All’interno di Ennahdha è sembrato venire al pettine il nodo dello scontro tra l'ala più moderata, alla quale appartiene il premier Jebali, e quella che strizza l'occhio in maniera non tanto coperta alle azioni dei salafiti, probabilmente per utilizzarli, ma ponendo a rischio gli equilibri nella società tunisina e accrescendo di molto il loro spazio politico.

L'8 febbraio un milione di persone partecipavano a Tunisi ai funerali di Belaid, che costituivano l'occasione per un'aspra critica alla deriva islamica del paese. Frattanto il premier Jebali ribadiva la sua proposta della necessità di un governo tecnico, capace di ricostituire l'unità del paese, proposta alla quale però il leader di Ennahdha Gannouchi e probabilmente la maggioranza del partito islamico moderato non intende accedere. Il 9 febbraio era la volta degli islamici, che riempivano Avenue Bourghiba con una grande folla di manifestanti a favore del governo. Il portavoce di Ennahdha Nasser criticava sottilmente il premier Jebali, il quale dal canto suo insisteva ostinatamente per un esecutivo tecnico nel quale Ennahdha avrebbe dovuto rinunciare persino ai ministeri chiave degli interni, degli esteri e della giustizia.

Nei giorni successivi la distanza tra il Primo ministro e la maggioranza del suo partito è cresciuta progressivamente – nella notte tra 10 e 11 febbraio l’organo direttivo collegiale di Ennahdha respingeva il progetto tecnocratico di Jebali -, mentre in apparenza le forze laiche sembravano rafforzarsi sulla spinta della reazione all’assassinio di Chokri Belaid. Lo stesso partito del presidente Marzouki, il Congresso per la Repubblica, cominciava a patire una tensione interna volta a mettere in discussione il compromesso istituzionale con gli islamismi.

Dopo la manifestazione del 16 febbraio, nella quale il capo di Ennahdha Rachid Gannouchi riceveva una conferma della sua forza; il tentativo di Jebali di dar vita a un nuovo esecutivo di tecnici si rivelava impraticabile, e il 19 febbraio Jebali rassegnava le dimissioni da premier, pur annunciando di voler rimanere in politica. Lo stesso Jebali si vedeva sorprendentemente proporre dal suo partito di tornare a guidare il nuovo governo, ma declinava l’invito, sostenendo di non desiderare il ruolo di mero esecutore, dovendo piuttosto prendere atto fino in fondo del fallimento del proprio disegno politico.

Il 22 febbraio il ministro dell’interno uscente Ali Laarayedh ha ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, le trattative per il quale si rivelavano tuttavia molto difficili, sino a sfiorare la rottura della coalizione tripartita di maggioranza tra Ennahdha, Congresso per la Repubblica ed Ettakatol. Alla fine però, l’8 marzo, veniva varato il nuovo esecutivo, la cui composizione sembra rappresentare una vittoria postuma di Jebali, con la clamorosa rinuncia di Ennahdha a quattro ministeri-chiave (Interno, Giustizia, Esteri e Difesa), attribuiti a personalità indipendenti come richiesto da quasi tutte le opposizioni. L’Assemblea costituente ha votato la fiducia al nuovo governo il 12 marzo, con una maggioranza sufficientemente ampia, che conferma la tenuta dell’accordo tripartito per il governo del paese, mentre una volta di più frammentate sono apparse le opposizioni.

 


L’Egitto del dopo Mubarak- i più recenti avvenimenti

 

Alla metà di novembre 2012 l’Egitto è stato visitato da rappresentanti della Commissione europea, del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e della Banca europea degli investimenti (BEI). Le tre istituzioni si sono impegnate a fondo per rafforzare la già solida cornice dei rapporti dell’Unione europea con l’Egitto – paese i cui investimenti esteri diretti provengono per 4/5 dalla UE -, rispettivamente guidando una delegazione di 120 imprese europee, assicurando supporto per il rafforzamento della Pubblica amministrazione egiziana e promettendo un incremento nei prestiti europei al paese nordafricano.

Pochi giorni dopo si aveva notizia del raggiungimento di un accordo preliminare tra l’Egitto e il Fondo monetario internazionale per la concessione di un prestito da 4,8 miliardi di dollari: l'intesa è stata strettamente legata al giudizio positivo sul programma economico presentato dall'Egitto ai negoziatori del FMI, con ambiziosi obiettivi di crescita per i prossimi anni e soprattutto, nell'immediato,  con una netta riduzione del deficit annuale di bilancio, che dovrebbe avvenire soprattutto a spese dei sussidi al grano e al carburante largamente praticati in Egitto. Altri importanti finanziatori l'Egitto ha trovato nello stesso periodo nei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, con la prospettiva di ricevere finanziamenti per 18 miliardi di dollari, e nella Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), dalla quale dovrebbero provenire investimenti per circa 3,5 miliardi di euro.

Intanto il profilo internazionale dell'Egitto e del suo presidente Morsi veniva nuovamente corroborato quando il 21 novembre si raggiungeva una tregua dopo più di una settimana di rinnovati combattimenti tra Israele e il territorio di Gaza, che sembravano preludere a una crisi di gravità pari a quella vissuta con l'operazione Piombo Fuso tra il 2008 e il 2009. La mediazione egiziana si rivelava ancora una volta decisiva, ricevendo pubbliche espressioni di ringraziamento dal capo di Hamas Meshaal.

Quasi sull'onda del successo internazionale da tutti riconosciuto, il giorno successivo, il 22 novembre, il presidente Morsi forniva un’ulteriore accelerazione al processo di evoluzione istituzionale dell'Egitto, licenziando anzitutto il procuratore capo della Repubblica, pesantemente gravato per aver coperto questo ruolo anche nel regime di Mubarak e accusato di aver assolto molti militari accusati della repressione nei giorni della rivoluzione all'inizio del 2011. Per molti di questi stessi militari, ma soprattutto per Mubarak e i suoi collaboratori, veniva previsto un nuovo processo. La decisione più importante, tuttavia, era quella con la quale si stabiliva che le decisioni del presidente sarebbero state da quel momento in avanti inappellabili - mentre anche l’Assemblea costituente impegnata nella redazione della nuova Costituzione veniva resa indipendente dalle decisioni dei diversi organi giurisdizionali -, azzerando di fatto il ruolo della magistratura nella dialettica politica del paese, che era stato più volte preponderante.

Il decreto presidenziale, pur se limitato secondo il portavoce del presidente al periodo che precede la ratifica della nuova Costituzione, provocava lo scoppio di proteste e disordini in tutto il paese, nei quali accanto alle opposizioni ricomparivano anche sostenitori del passato regime. Ad Alessandria la sede dei Fratelli musulmani veniva presa d’assalto. La magistratura, a sua volta, non tardava a ribellarsi al decreto di Morsi, nel quale vedeva un attacco alla propria autonomia, preannunciando scioperi ad oltranza. In questo difficile clima anche l’atttività dell’Assemblea costituente subiva un rallentamento. Il 25 novembre si verificava al Cairo un crollo di Borsa del 10 per cento.

Il 30 novembre si svolgeva un’imponente manifestazione delle opposizioni, alla quale rispondeva il 1° dicembre un’altrettanto impressionante dimostrazione degli islamici a favore del presidente Morsi. In un clima di tensione suscettibile di aggravare, con l’eventuale stop nei finanziamenti internazionali, la critica situazione economica egiziana, il presidente Morsi annunciava per il 15 dicembre lo svolgimento del referendum sulla bozza di nuova Costituzione, la cui redazione aveva accelerato nonostante i numerosi ricorsi presentati dalle opposizioni – dal canto loro già uscite da tempo dai lavori costituenti. Il testo da far approvare nella consultazione popolare rappresentava un compromesso tra elementi islamici e militari: infatti non si è prevista la fine dell’amministrazione segreta e autonoma del bilancio militare, che tante critiche aveva destato nel movimento di piazza, né si è tolta ai militari la prerogativa di esprimere il ministro della difesa. Inoltre, mentre restano sullo sfondo i temi dei diritti civili, con grande chiarezza si riafferma il ruolo della legge islamica quale fonte del diritto, soggetta all’interpretazione “ufficiale” dell’università di al Azhar ma derivata da una molteplicità di matrici (Corano, precetti di Maometto e dei primi ulema), con la possibilità di pesanti contraddizioni.

Il 4 dicembre una nuova grande manifestazione nella capitale, nel contesto di un’ondata di scioperi della magistratura, dei lavoratori del turismo e del settore dei giornali, raggiungeva il palazzo presidenziale, ove si verificavano tafferugli con la polizia. Il 5 dicembre gli scontri si sono ripetuti e aggravati, coinvolgendo anche gruppi di sostenitori di Morsi.

Mohamed el-Baradei e Amr Mussa, tornati a dare battaglia nell’arena politica, venivano denunciati come eversori. Il 6 dicembre, dopo un iniziale irrigidimento, con lo schieramento di alcuni blindati attorno al palazzo presidenziale, il presidente, pur rifiutando ogni concessione alle richieste della piazza, preannunciava la propria disponibilità ad incontrarsi con le opposizioni, alle quali offriva il varo di una nuova Assemblea costituente in caso di insuccesso della bozza di Costituzione all’imminente referendum.

La prosecuzione della mobilitazione nei giorni successivi, con il discreto ma fermo profilarsi sullo sfondo di un possibile intervento dei militari, convinceva (8 dicembre) il presidente Morsi infine a ritirare il decreto del 22 novembre, affidando nel contempo alle forze armate il compito di proteggere la sicurezza durante il cammino istituzionale attraverso il referendum e fino alle nuove elezioni legislative. Lo svolgimento del referendum era preceduto da un passo falso di Morsi, il quale, subito dopo la pubblicazione in gazzetta ufficiale di alcuni provvedimenti economici volti a una drastica riduzione del deficit di bilancio (come richiesto dal Fondo monetario internazionale), si affrettava a congelare tali provvedimenti con evidente preoccupazione per la risposta che l'elettorato egiziano avrebbe potuto dare di lì a poco - ma d'altra parte mettendo seriamente a rischio il prestito del FMI del quale il paese aveva urgente bisogno.

Il referendum del 15 dicembre, al quale ha preso parte solo un terzo degli aventi diritto, ha visto l’approvazione della bozza di Costituzione con il 64% dei voti: il consenso esplicito per le forze islamiste al governo non ha raggiunto dunque un quinto degli elettori, un bilancio poco entusiasmante per Morsi e la Fratellanza musulmana, che hanno visto costantemente erodere il livello del proprio seguito elettorale. L’elemento di maggiore preoccupazione è forse tuttavia quello economico: infatti, nella prospettiva di un’altra imminente consultazione elettorale – quella delle legislative – rimane bassa la probabilità che il governo egiziano dia mano a riforme impopolari, il che tuttavia potrebbe ulteriormente peggiorare il rating internazionale del paese e rendere molto più difficile per l’Egitto di ottenere finanziamenti più che mai necessari, incluso quello del FMI.

Il 26 gennaio 2013 un'altra tragica vicenda colpiva l'Egitto, quale “coda” dei tragici incidenti di Porto Said del 1° febbraio 2012: infatti, proprio in relazione a quegli incidenti, veniva pronunciata la condanna a morte per 21 tifosi della squadra locale che avevano contribuito a perpetrare il massacro del 1º febbraio. Una folla inferocita prendeva d'assalto conseguentemente la prigione ove erano detenuti, uccidendo due poliziotti e provocando l'intervento dell'esercito, a seguito del quale si contavano almeno 30 vittime, oltre a 300 feriti.

A Porto Said veniva imposto immediatamente il coprifuoco e uno stato d'emergenza di 30 giorni. La prosecuzione dei disordini in tutto il paese, ma con particolare virulenza proprio a Porto Said, provocava il 29 gennaio un esplicito intervento del ministro della difesa e comandante in capo delle forze armate al-Sisi, che metteva in guardia il paese dal rischio di un collasso totale nella miscela esplosiva di instabilità politica e difficoltà economiche. Alla voce di al-Sisi si univa poco dopo quella dei vertici dell'Università islamica di al-Azhar, che invitavano le forze politiche a riprendere un dialogo più che mai necessario, senza peraltro incontrare il favore dell'opposizione di piazza, e neanche della Fratellanza musulmana, tra l’altro piuttosto distante dall'impostazione religiosa dell'attuale dirigenza di al-Azhar.

La situazione si è mantenuta assai grave anche nei giorni successivi – il 4 febbraio il numero delle vittime aveva raggiunto la cifra di 60 -, nei quali scontri rilevanti si sono verificati attorno al palazzo presidenziale. Il 28 febbraio la serietà della situazione portava esponenti di tutti i partiti a firmare una dichiarazione (Carta di al Azhar) di condanna di ogni forma di violenza, ma la successiva circolazione di un video che mostrava violenze su un manifestante, unitamente alla morte in carcere di un attivista arrestato una settimana prima alimentavano ancora lo sdegno nei confronti del governo e delle forze di sicurezza. Emergeva intanto un inquietante fenomeno, quello degli stupri o comunque abusi contro le donne perpetrati proprio a margine delle manifestazioni nella capitale, messo in luce il 6 febbraio da un rapporto di Amnesty International.

Nuovamente contestato in occasione delle manifestazioni dell’11 febbraio, dieci giorni dopo il presidente Morsi firmava un decreto con il quale, sulla scorta della nuova legge elettorale approvata dal Parlamento nelle stesse ore, sono state indette nuove elezioni legislative, da svolgere in quattro fasi nel periodo aprile-giugno 2013. La mossa di Morsi appare motivata dalla necessità di una rilegittimazione del potere dei Fratelli musulmani, messo a dura prova dalle ripetute contestazioni delle ultime settimane. La reazione delle opposizioni non si è fatta troppo attendere: il 26 aprile gli esponenti laici e liberali riuniti nel Fronte di salvezza nazionale hanno deciso all’unanimità il boicottaggio delle nuove elezioni, per non offrire alla maggioranza islamista alcuna credibilità democratica. Il 6 marzo la giustizia amministrativa egiziana annullava il decreto presidenziale sulle nuove elezioni, con la motivazione della mancata preventiva trasmissione della nuova legge elettorale alla Corte costituzionale.

Il 3 marzo il neosegretario di Stato USA John Kerry aveva intanto concluso una visita di due giorni in Egitto, confermando gli aiuti di 250 milioni di dollari al paese, ma esortando il presidente Morsi a compiere il massimo sforzo per migliorare i rapporti con le opposizioni e stabilizzare la situazione complessiva dell’Egitto – peraltro l’appello di Kerry alle opposizioni perché prendano parte alle prossime elezioni non ha riscosso successo, provocando anzi da parte loro accuse di interferenza negli affari interni egiziani e il rifiuto di incontrare l’esponente del governo americano. Frattanto a Porto Said si riaccendevano gli scontri, dopo la decisione di trasferire fuori città 39 detenuti in attesa di sentenza per gli incidenti nello stadio del febbraio 2012: nella notte fra il 3 e il 4 marzo perdevano la vita tre poliziotti e tre manifestanti.

La sentenza arrivava il 9 marzo, con la conferma di 21 condanne a morte: erano tuttavia alcune delle assoluzioni a scatenare al Cairo l’ira dei sostenitori della squadra del Ahly – che erano stati vittime nei fatti del febbraio 2012 -, che si davano a devastazioni e scontri con la polizia, con un bilancio di tre vittime. A Porto Said, per assicurare il libero passaggio del Canale di Suez, veniva addirittura mobilitata la marina militare. Nel caos crescente – caratterizzato anche da uno sciopero della polizia che interessava metà dei governatorati egiziani per chiedere le dimissioni del Ministro dell'interno, nonché migliori equipaggiamenti e armi - anche una nota della procura generale egiziana dell'11 marzo, nella quale si attestava la liceità dell'arresto di persone colte in flagranza di reato anche da parte di semplici cittadini, si prestava ad un duro scontro verbale. In particolare, le opposizioni definivano la nota come suscettibile di aprire la strada ad abusi da parte di milizie islamiche: in effetti, la misura veniva accolta con il più grande favore soltanto dalle formazione salafite, che si dicevano pronte alla formazione di commissioni popolari per aiutare le forze dell'ordine a ristabilire un clima di sicurezza.

 


La difficile stabilizzazione del quadro politico in Libia

 

Sulla via del consolidamento istituzionale

Il 7 luglio 2012 si sono svolte le elezioni per l'Assemblea costituente, precedute da grande preoccupazione per la situazione di caos e di mancanza di sicurezza nel paese. Ciò nonostante, malgrado sporadici problemi soprattutto nella parte orientale della Libia - nella serata del 7 luglio vi è stata una vittima della città di Ajdabiya - il voto si è svolto complessivamente in un clima di condivisione da parte della popolazione, e si è potuto votare nel 98% dei seggi, registrando una buona affluenza, pari al 62% degli aventi diritto. I primi dati hanno evidenziato un vantaggio della coalizione moderata di 40 formazioni politiche di liberali ed indipendenti guidata dall'ex premier del Consiglio nazionale di transizione Mahmud Jibril, che nei risultati preliminari diramati il 18 luglio si confermava, con l’attribuzione alla coalizione di Jibril di 39 seggi sugli 80 destinati ai partiti – 120 seggi sono invece da attribuire a candidati indipendenti -, mentre il partito Giustizia e Ricostruzione, vicino ai Fratelli musulmani, ne avrebbe conquistati 17. Il carattere non tradizionale del voto libico è stato rafforzato dal sorprendente numero di donne elette nel primo gruppo, ben 33, ovvero più del 15% del totale dei componenti l’Assemblea Costituente.

Nella tarda serata dell'8 agosto 2012, con una cerimonia di alto valore simbolico alla quale hanno presenziato rappresentanti delle missioni diplomatiche straniere in Libia, oltre ai componenti del Cnt (Consiglio nazionale di transizione), del governo e di diversi partiti politici, si è consumato il passaggio di poteri dal Consiglio nazionale di transizione al Congresso nazionale libico uscito dalle elezioni del 7 luglio. Al Congresso il compito nell'immediato di scegliere un nuovo governo, e successivamente redigere la nuova Costituzione sulla base della quale si terranno poi elezioni legislative vere e proprie. Il presidente del Cnt Mustafa Jalil ha sottolineato – come ha fatto anche il nostro Ministro degli Esteri Giulio Terzi – il carattere storico del momento istituzionale vissuto dalla Libia, ma non ha nascosto il ritardo con cui sotto la sua presidenza il paese ha affrontato nodi tuttora difficili, come quello della sicurezza o quello del disarmo, in considerazione dell’imponente arsenale ereditato dal regime di Gheddafi.

Il 10 agosto si è proceduto alla nomina del presidente del Congresso nazionale libico, nella persona di Mohammed Magarief, di tendenza islamica moderata, il quale, dopo aver rivestito cariche di rilievo nel regime di Gheddafi, già nel 1980 se ne distaccava, dimettendosi dalla carica di ambasciatore in India e dando vita a una formazione politica di fuoriusciti libici denominata Fronte di salvezza nazionale libico.

Nonostante questi positivi sviluppi istituzionali, la situazione della sicurezza in Libia si è mantenuta piuttosto critica: dopo la bomba che il 3 agosto aveva causato un ferito nel centro di Tripoli, il 16 agosto vi è stata un’esplosione in prossimità del quartiere generale dei servizi segreti militari di Bengasi. Il 19 agosto l'ultimo giorno del Ramadan nella capitale è stato funestato dall'esplosione dapprima di un'autobomba vicino agli uffici del Ministero dell'interno, che non ha provocato vittime, e subito dopo dallo scoppio di altre due auto imbottire di esplosivo nei pressi dell'ex quartier generale dell'Accademia di polizia femminile, con la morte di due giovani automobilisti in transito al momento dell'attentato, e il ferimento di diverse persone. Quest'ultimo attentato è stato attribuito dal responsabile della sicurezza libico all'opera di sostenitori del passato regime. Il 20 agosto a Bengasi saltava in aria – per fortuna senza vittime - l’auto di un diplomatico egiziano: nelle stesse ore a Tripoli venivano arrestate 32 persone, ritenute legate al passato regime, in relazione agli attentati del giorno precedente. Il 2 settembre a Bengasi una bomba a bordo di un’auto, fatta esplodere a distanza, ha ucciso un colonnello dell’intelligence libica già in vista al tempo di Gheddafi, ferendo un altro militare che si trovava anch’egli a bordo dell’automobile.

La criticità della piazza di Bengasi è balzata di nuovo clamorosamente all’attenzione internazionale quando l’11 settembre la rappresentanza USA nella città è stata oggetto di un attacco, a quanto pare messo in atto dalla milizia islamica Ansar al Sharia - diffusa in più vaste regioni del Maghreb e nello Yemen, e legata ai rami nordafricano e saudita-yemenita di al Qaida -, i cui appartenenti hanno dato alle fiamme l’edificio consolare: nell’incendio sono morti asfissiati l’Ambasciatore USA in Libia Chris Stevens – che si trovava a Bengasi - un funzionario diplomatico e due marines.

L’attacco sarebbe avvenuto nel quadro delle proteste verificatesi in diversi paesi arabi contro le ambasciate e consolati USA in seguito alla produzione negli Stati Uniti, per opera di alcuni cristiano-copti egiziani, di un film sulla vita di Maometto, ritenuto offensivo per il Profeta. Secondo gli Stati Uniti e le autorità libiche, tuttavia, i tumulti sarebbero stati solo occasione e copertura per un disegno precedentemente architettato, non a caso, forse, nella ricorrenza dell’11 settembre. Per di più gli americani hanno sostenuto che gli assalitori del Consolato sapessero della presenza all’interno di esso dell’Ambasciatore Stevens, normalmente residente a Tripoli, e avrebbero impiegato armi pesanti inconcepibili nelle mani di semplici manifestanti, ancorché infuriati per l’oltraggio a Maometto. 

Nelle ore successive emergeva come il piano degli assalitori avesse anche previsto che l'Ambasciatore e altre persone si sarebbero rifugiati in un edificio maggiormente sicuro nel comprensorio del Consolato, e una cinquantina di uomini pesantemente armati anche con mortai avrebbero allora scatenato l'attacco proprio contro questo obiettivo.

Gli USA hanno preannunciato, per bocca del Presidente Obama, che sarebbe stata fatta giustizia, ma senza pregiudicare i legami con la nuova Libia, oltretutto l’unico Stato coinvolto dalla Primavera Araba a non aver scelto fino a quel momento una guida politica islamica. In effetti, nei giorni successivi all'attacco di Bengasi una cinquantina di persone sono finite in carcere, tra le quali alcune provenienti dal Mali e dall'Algeria, a dimostrazione, a detta dei libici, di legami con elementi terroristici di “Al-Qaida nel Maghreb islamico”. Il presidente del Congresso nazionale Magarief, dando conto di questi sviluppi, ha tenuto a rivendicare l'esclusività dell'azione di polizia dei libici, almeno in una prima fase, rispetto alla quale, del resto, il segretario di Stato Hillary Clinton ha espresso fiducia.

La stessa Clinton, peraltro, ha assunto ogni responsabilità in ordine alle polemiche che l’attentato di Bengasi ha provocato nella fase più calda della campagna elettorale per le Presidenziali USA del 2012, con lo sfidante Mitt Romney che addebitava all’Amministrazione Obama il tentativo di nascondere in un primo tempo il carattere terroristico dell’attentato e le manchevolezze nel sistema di sicurezza della rappresentanza statunitense di Bengasi. All’inizio di dicembre 2012 le autorità egiziane hanno proceduto all’arresto di Muhammad Jamal Abu Ahmad, già appartenente alla Jihad islamica egiziana e ritenuto l’architetto del tragico attacco al Consolato USA di Bengasi dell’11 settembre. In particolare, appartenenti alla rete terroristica egiziana attualmente capitanata da Abu Ahmad – che risulta collegata a gruppi a loro volta inseriti in al-Qaida nel Maghreb islamico – avrebbero partecipato direttamente all’attentato di Bengasi.

Nonostante tali drammatici sviluppi, il Congresso nazionale libico ha tenuto fermo il calendario dei propri lavori, che prevedeva anzitutto  l'elezione del nuovo premier: il 12 settembre ha prevalso Mustafa Abu Shagur, con soli due voti in più di Mahmud Jibril, leader dell'Alleanza liberale che aveva vinto le elezioni di luglio, ma che nel complesso gioco politico interno al Congresso nazionale - dove determinante è la posizione dei numerosi candidati “indipendenti” -, ha dovuto soccombere all'appoggio dato dal Partito giustizia e costruzione, vicino ai Fratelli Musulmani, ad Abu Shagur. Anche l'inattesa ondata “liberale” libica sembrava aver avuto così il suo contemperamento con le esigenze dei partiti d'ispirazione religiosa, anche se il sessantunenne tecnocrate Abu Shagur, esiliato nel 1980 da Gheddafi, vantava assai solidi legami con gli Stati Uniti, dove si è laureato in ingegneria elettronica, ha insegnato in diverse Università e ha anche partecipato al programma spaziale della NASA, collaborando altresì con il Pentagono.

Che la sicurezza sia di gran lunga il più grave problema del nuovo esecutivo libico è emerso con ulteriore chiarezza il 22 settembre, quando si è assistito nella città di Bengasi a un attacco di grande determinazione, che, se è stato posto in atto da milizie filogovernative, ha visto la massiccia mobilitazione della popolazione di Bengasi, decisa a quanto pare a liberarsi della pesante ipoteca che miliziani a vario titolo ispirantisi alla legge islamica avevano posto da molto tempo sulla direzione politico-militare della città. La gravità dei fatti che aveva portato all'uccisione dell'Ambasciatore americano ha probabilmente messo in moto una preoccupazione ben fondata nella popolazione di Bengasi, che infatti ha attaccato caserme di milizie islamiche tanto antigovernative -come Ansar al Sharia  - quanto filogovernative, come la milizia di Raf Alllah al Sahati. In entrambi i casi vi sono stati diverse vittime tra i miliziani islamici, e le loro sedi sono state saccheggiate e devastate. Il 23 settembre le autorità di Tripoli hanno preso atto di quanto accaduto il giorno precedente a Bengasi, e hanno deciso d'imperio la cancellazione di tutte le formazioni armate non legittimate dallo Stato: per gestire il provvedimento è stato istituito un Centro operativo proprio nella città di Bengasi, nel quale dovranno cooperare forze armate, forze di polizia e investigative e le brigate dei protagonisti della ribellione contro Gheddafi, che si tenta in tal modo di imbrigliare.

Nel centro-sud del paese, peraltro, non sembrava del tutto sopita la resistenza dei partigiani di Gheddafi, che a Brak hanno attaccato le forze di sicurezza governative, provocando nove vittime, mentre la roccaforte dei gheddafiani di Bani Walid veniva posta sotto assedio sin dal 5 ottobre da un migliaio di miliziani riconosciuti dalle autorità libiche, intenzionati a vendicare nel sangue la morte di un ragazzo, salito alla ribalta per aver individuato Gheddafi quando si trovava a Sirte – sua città natale -, e successivamente catturato e torturato da suoi miliziani irriducibili. La situazione è stata complicata dall’evidente appoggio che l’importante gruppo tribale dei Warfalla ha fornito ai lealisti assediati, creando anche notevoli problemi nell’ordine pubblico a Sirte. L’assedio sembra essere terminato il 24 ottobre, con l’ingresso a Bani Walid delle milizie filogovernative – tra le quali in posizione dominante quella della città di Misurata, messa a dura prova nel 2011 dalla repressione di Gheddafi. A parte le denunce rivolte negli ultimi giorni agli assedianti per violenze di ogni tipo che avrebbero perpetrato anche contro i civili, è emerso ancora una volta come le autorità centrali di Tripoli debbano servirsi dell’opera di milizie non regolari per ogni intervento armato, rimanendo così in una posizione di dipendenza non coerente con la sovranità di un paese normale, e risentendo direttamente degli abusi che spesso le milizie mettono in atto, non foss’altro che per la loro caratterizzazione tribale e localistica.

Mentre anche a Bengasi si registravano numerose manifestazioni, stavolta prevalentemente favorevoli agli integralisti solo da pochi giorni cacciati dalla città, e mentre vi è stato il 7 ottobre l’ennesimo sequestro ai danni di pescherecci siciliani[19] – i militari libici hanno prima aperto il fuoco, e poi scortato i due motopesca nel porto di Bengasi -; l’evento politicamente più importante è stato senza dubbio il doppio rifiuto, rispettivamente il 4 e il 7 ottobre, che il Congresso nazionale ha opposto a due diverse liste dei ministri presentate dal premier designato Abu Shagur, che perciò ha rassegnato le proprie dimissioni. L’oggetto del contendere sarebbe stata la scarsa rappresentatività delle compagini messe insieme da Shagur, nella prima delle quali, soprattutto, non avrebbe trovato alcuna rappresentanza la vasta coalizione liberale che pure aveva vinto il 7 luglio, riportando il maggior numero di consensi in relazione ai candidati partitici.

Il 14 ottobre il Congresso nazionale libico ha designato quale nuovo premier Ali Zeidan, eletto il 7 luglio tra i candidati indipendenti, ma di tendenza liberale: Zeidan ha prevalso per 93 voti contro 85 sul candidato espressione ancora una volta del braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia. A Zeidan viene tra l’altro attribuito un ruolo speciale nella preparazione dell’intervento aereo francese che segnò nel marzo 2011 l’inizio della fine di Gheddafi, che invece si preparava a una dura repressione della rivolta, con le truppe lealiste ormai in vista di Bengasi. Il 31 ottobre la compagine assemblata da Zeidan – un governo di coalizione di trenta ministri riferentisi per lo più ai due maggiori partiti – ha ottenuto una risicata maggioranza (105 voti) dal Congresso nazionale, ponendo comunque fine alla fase transitoria incarnata dal novembre 2011 dal governo di el-Keib, e aprendo la prospettiva di elezioni politiche che dovranno seguire la redazione della nuova Costituzione da parte del Congresso nazionale. Non sono mancate manifestazioni il giorno prima e quello della seduta: tra l’altro alcuni salafiti hanno contestato il neoministro agli Affari religiosi Abusaad, secondo loro legato al sufismo e al laico Jibril. Nel complesso, come hanno dimostrato gravi scontri tra diverse milizie nel centro della capitale il 4 novembre, la situazione della sicurezza è rimasta assai precaria, e forse il maggior problema da risolvere per il nuovo esecutivo.

Il 6 novembre il Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi – recatosi in visita a Tripoli unitamente a una delegazione imprenditoriale italiana – ha avuto modo di reiterare l’appoggio italiano al consolidamento del nuovo corso della Libia. Da parte libica vi è stato l’impegno a una prossima firma del contratto (circa 800 milioni di euro) con il Consorzio italiano guidato da SAIPEM per la realizzazione di un tratto costiero dell’autostrada prevista dal Trattato di amicizia italo-libico; inoltre, i libici hanno parlato di onorare i debiti contratti dal regime di Gheddafi con le imprese italiane, pari a circa 600 milioni di euro, pur ponendo la questione in una prospettiva non immediata. Il Ministro Terzi ha anche inaugurato l’Ambasciata italiana a Tripoli, restaurata dopo i danni subiti durante i mesi della rivolta e della guerra. Il 16 dicembre l’Amministratore delegato dell’ENI Scaroni ha presentato a Tripoli un piano di investimento nel settore petrolifero libico – sia negli impianti già operativi che per nuove prospezioni – pari a circa 8 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

 

Gli sviluppi più recenti

I persistenti problemi di sicurezza nella nuova Libia non sono stati assenti il 10 gennaio 2013 a Roma in occasione del Forum economico Italia-Libia svoltosi alla Farnesina, cui ha preso parte il presidente del Congresso nazionale e capo dello Stato libico Magarief, unitamente al Ministro degli Esteri Giulio terzi e a rappresentanti di una settantina di imprese italiane, che contribuiscono a fare tuttora dell'Italia il primo partner commerciale della Libia. L'incontro romano del 10 gennaio - che ha fatto seguito al Business Forum di Milano del 29 novembre 2012 - avrebbe registrato un ulteriore progresso sulla questione dei crediti delle imprese italiane verso la Libia, con la presentazione di una proposta libica da discutere a livello tecnico.

Il 12 gennaio la questione della sicurezza in Libia tornava drammaticamente attuale con l'agguato contro la vettura blindata del console italiano a Bengasi Guido de Sanctis, che veniva raggiunta da numerosi proiettili fortunatamente infrantisi sulla corazza del veicolo. L'evento, forse nelle modalità il più grave dopo l'uccisione l'11 settembre 2012 dell'Ambasciatore americano Chris Stevens mentre si trovava a Bengasi, provocava un sussulto nelle autorità libiche, tale da spingerle a progettare una forza speciale per la protezione di diplomatici e in generale di cittadini stranieri in Libia, alle dipendenze del Ministero della Difesa e formata da poliziotti e militari addestrati all'estero.

Nonostante queste positive reazioni e un'ampia solidarietà della popolazione della Cirenaica, il ripetersi di nuovi attentati contro le stesse forze di sicurezza a Bengasi consigliava il 15 gennaio alle autorità italiane di porre fine temporaneamente all'attività del Consolato italiano in loco.

E’ dunque evidente che le preoccupazioni per la sicurezza in Libia si mantengono tuttora molto forti, a partire dall'imputazione ad una pista libica perfino dell'attacco contro il sito estrattivo algerino di In Amenas, collegato all'intervento francese nel Mali, e costato la vita a una quarantina di ostaggi stranieri che le forze di sicurezza algerine tentavano di liberare. In effetti ,sia le armi utilizzate nell'attacco terroristico che buona parte di coloro che lo hanno perpetrato sarebbero venuti dalla Libia, e sarebbero stati quasi tutti mercenari assoldati nel paese – probabile eredità del periodo di Gheddafi. Conseguentemente, nell'ultima settimana di gennaio il crescere della preoccupazione spingeva Gran Bretagna, Germania e Olanda ad esortare i propri cittadini a lasciare Bengasi e la Cirenaica, in tal modo suscitando la reazione di disappunto delle autorità libiche, che hanno ritenuto esagerato l'allarme dei paesi europei.

Proprio in relazione al clima di tensione che tuttora si registra nel paese africano il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola si è recato il 6 febbraio a Tripoli, dove ha ribadito l'appoggio dell'Italia agli sforzi della nuova Libia, appoggio dimostrato dalla consegna di venti blindati Puma all'esercito libico, ma che si potrà concretare anche in corsi di addestramento delle forze di sicurezza e in un complesso sistema per il controllo delle frontiere meridionali del paese messo a punto da Finmeccanica. Tale progetto, che avrebbe un valore vicino ai 2 miliardi di euro, sarebbe volto non solo contro le attività illegali di tipo terroristico, ma anche contro la forte pressione migratoria che investe la Libia dai paesi dell'Africa subsahariana, e che in seconda battuta non può non riguardare anche l'Italia.

Il 2 marzo è drammaticamente riesploso il problema delle milizie, quando appartenenti alle brigate di Zintan e di Zuara si sono scontrati per assicurarsi il controllo della gestione della sicurezza dell'impianto ENI di Mellitah, dal quale il gas libico viene convogliato verso la Sicilia. Gli scontri tra le due milizie sono cessati il 3 marzo solo per la mediazione del governo, ponendo le premesse per la riapertura dell'erogazione attraverso il gasdotto Greenstream. Nonostante le ripetute critiche del premier libico Zeidan, soprattutto la milizia di Zintan sembra spadroneggiare nel paese, ove si affacciano anche preoccupanti episodi di prevaricazione nei confronti di cristiano-copti, messi in atto dalle milizie nonostante gli avvertimenti del governo. La milizia islamica Ansar al Sharia – la stessa accusata dell’attentato di Bengasi dell’11 settembre 2012 – nella giornata del 3 marzo procedeva ad una clamorosa manifestazione, circondando la sede della Scuola europea di Bengasi con farneticanti accuse di pornografia in relazione ad un testo di educazione sessuale distribuito agli studenti. Ben più grave, proprio perché verificatosi in Tripolitania, è stato il tentato omicidio di un prete cattolico di origine egiziana, che il 4 marzo un uomo pesantemente armato ha posto in atto nella chiesa tripolina di San Francesco.

Il 6 marzo la pressione delle milizie è giunta al culmine, quando addirittura la sede del Parlamento è stata circondata da centinaia di miliziani, e il presidente Magarief a stento riusciva a sottrarsi al loro attacco. Il governo libico, in questa situazione, ha lanciato alla metà di marzo un’operazione volta a liberare il paese dall’ipoteca delle milizie illegali, consapevole della difficoltà di questo obiettivo, che comporterà inevitabilmente scontri armati. Nel frattempo rivendicazioni salariali bloccavano la produzione petrolifera del sud e nell'est del paese, mentre in Egitto il Papa copto Tawadros II convocava l'ambasciatore libico per richiedere spiegazioni in ordine all'arresto a Misurata di quattro cristiano-copti accusati di proselitismo, dopo che già la morte di un loro correligionario in carcere aveva provocato al Cairo l'assalto dei copti all'ambasciata libica, che era stata costretta a chiudere precipitosamente i battenti.

 

 


Recenti sviluppi della crisi siriana

La formazione della Coalizione nazionale delle forze di opposizione siriane

Con la creazione di un’aggregazione delle forze di opposizione al regione siriano, l’11 novembre a Doha, si è compiuto un passo decisivo per il potenziamento della lotta contro il regime siriano: le diverse formazioni dell'opposizione hanno infatti, dopo quattro giorni di trattative sponsorizzate dal Qatar e dalla Lega Araba, firmato un accordo per la creazione di una ''Coalizione nazionale'' che per molti versi assomiglia a quello che era stato il Consiglio nazionale di transizione libico. 
Tra i punti principali dell’intesa vi è l’impegno di tutti i contraenti a non portare avanti alcun dialogo o negoziati con il regime, la cui completa caduta è l’unico obiettivo comune, assieme alla punizione di tutti i crimini perpetrati contro il popolo siriano. L’impegno concerne anche l'unificazione dei consigli militari rivoluzionari sotto la supervisione del Consiglio militare supremo. Dopo il riconoscimento internazionale, la Coalizione nazionale procederà a dar vita ad un governo provvisorio, mentre alla caduta effettiva del regime verrà convocato un Congresso generale nazionale e si formerà un governo di transizione, con lo scioglimento della Coalizione nazionale e del governo provvisorio.
La Coalizione nazionale ha subito ottenuto il riconoscimento delle monarchie arabe del Golfo e dei paesi del Nordafrica usciti dalla “Primavera araba”, nonché della Turchia, della Francia, dell’Italia e del Regno Unito. Il premier britannico Cameron spingeva intanto l’Unione europea a togliere l’embargo sulle armi nei confronti dei ribelli siriani: dal canto loro, i Ministri degli Esteri della UE riuniti a Bruxelles il 19 novembre diffondevano un comunicato di riconoscimento della nuova Coalizione nazionale siriana.
Questi importanti sviluppi avvenivano mentre sia il confine turco-siriano che le alture del Golan tra Israele e Siria vedevano lo sconfinamento di tiri di artiglieria siriani, con Israele che rispondeva colpendo un obiettivo militare nel territorio della Siria.
All’inizio di dicembre il premier turco Erdogan ha ricevuto la visita del presidente russo Putin: frammezzo ad importanti questioni di reciproco interesse economico, soprattutto legate costruzione di future grandi pipelines per il gas russo, il cui tragitto coinvolge la Turchia; Putin non ha mancato di esprimere la propria preoccupazione per l'imminente dispiegamento dei Patriots della NATO al confine turco-siriano, facendo ricorso a una citazione di Anton Cechov che allude all'inevitabile utilizzazione di un'arma una volta schierata sul teatro.
Nelle stesse ore, il perdurare della situazione di grave pericolo sul territorio siriano induceva l'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite ad annunciare il ritiro del proprio staff non indispensabile dal paese, con il rimanente personale che sarebbe rimasto solo nella capitale.
I giorni successivi sembravano fornire uno scenario di progressivo venir meno della coesione attorno al regime di Assad, a partire dal vertice di Dublino del 6 dicembre fra il segretario di Stato USA Hillary Clinton, il Ministro degli esteri russo Lavrov e l'inviato dell'ONU Brahimi, nel corso del quale da parte russa veniva qualche ammissione sulla scarsa presa che ormai Mosca eserciterebbe sul regime di Damasco. La posizione di quest'ultimo si faceva poi via via più difficile in ragione dei crescenti moniti americani ad astenersi da qualunque progetto di utilizzazione di armi chimiche contro l’opposizione o contro paesi della regione, il che innescherebbe conseguenze catastrofiche in primis proprio per la Siria. La situazione economica siriana si è intanto molto aggravata, con un crollo del 20% del PIL e un tasso di inflazione del 40%, tutti indicatori perfettamente coerenti con lo stato di caos in cui il paese versa ormai da quasi due anni.
Il 12 dicembre il governo americano ha formalmente riconosciuto la Coalizione nazionale siriana, invitando il suo leader al-Khatib ad una visita ufficiale negli USA – nel tentativo comprensibile di esercitare una qualche forma di controllo sulla matrice ideologica del nuovo organismo che ha raggruppato tutte le posizioni politiche a Bashar Assad. Uguale riconoscimento la Coalizione ha ottenuto dal gruppo degli amici del popolo siriano (nel quale figura anche l'Italia) formato da paesi arabi e occidentali contrari al regime di Assad.
Oltre ai tentennamenti russi, un altro segnale delle difficoltà del regime siriano veniva fornito dall'Iran, che con toni assai meno bellicosi del passato si appoggiava a Pechino per richiedere un cessate il fuoco sul terreno.

Dopo che nel luglio 2012 due tecnici dell’Ansaldo operanti in Siria erano stati rapiti, per essere poi rilasciati una settimana dopo; il 17 dicembre veniva comunicata la sparizione nei giorni precedenti di un ingegnere elettronico italiano, Mario Belluomo, che lavorava in uno stabilimento a Homs. Il 4 febbraio 2013, fortunatamente, Belluomo veniva liberato insieme ai due colleghi russi rapiti insieme a lui.

Il 26 dicembre ha abbandonato il regime siriano il generale al-Shalal, capo della polizia militare, lasciandosi andare nella descrizione del regime alla stregua di una banda di assassini e saccheggiatori. Al-Shalal ha anche sostenuto, per la verità in maniera non lineare, che il regime avrebbe usato armi chimiche, almeno nell’attacco a Homs avvenuto alla vigilia di Natale - i ribelli dal canto loro avevano parlato nei giorni precedenti di utilizzazione di un gas velenoso che avrebbe causato la morte di sette persone, intossicandone altre decine.

L’inizio del 2013 vedeva diramare alcuni dati dell’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani, in base ai quali si sono stimate in circa 60.000 le vittime del conflitto siriano dal marzo 2011 - anche oltre le valutazioni delle opposizioni al regime di Assad - si pensi che le vittime dell’Afganistan, una guerra in corso dal 2001, non supererebbero nel complesso il numero di 50.000. Inoltre, nel conflitto siriano prevale ancor più largamente che è altre situazioni la quota dei civili che hanno persola vita, mentre si stima in due milioni e mezzo il numero dei profughi, dei quali due milioni di rifugiati interni.

Sempre più chiaramente emergono intanto le preoccupazioni di Israele e della Comunità internazionale per un un possibile passaggio di armamenti anche letali dalla Siria ormai in disfacimento al forte alleato in territorio libanese, Hezbollah. In questo senso il 29 gennaio 2013 il capo dell'aviazione militare israeliana aveva senz'altro ammesso che lo Stato di Israele è già impegnato in una efficace lotta contro il trasferimento di armamenti agli Hezbollah attraverso il confine siro-libanese: solo poche ore dopo fonti estere che non hanno però ricevuto conferma ufficiale in Israele hanno riferito di un attacco di caccia israeliani sul confine tra Libano e Siria per impedire che una batteria di missili AS-17 giungessero in possesso di Hezbollah. La partita più pericolosa potrebbe innescarsi nel momento in cui il sospetto dei trasferimenti di armi riguardasse anche armamenti chimici.

Il 21 febbraio lo stillicidio di violenze ha toccato un nuovo acme quando due autobomba esplodevano nel centro del capitale siriana provocando la morte di oltre 60 persone e un numero almeno quadruplo di feriti. Le esplosioni hanno colpito tra l'altro una scuola, e provocato il danneggiamento dell'ambasciata russa e di una sede del partito Baath al governo. I ribelli siriani hanno smentito le voci di un loro coinvolgimento negli attentati, mentre il regime di Assad è tornato ad accusare al Qaida.

Il 28 febbraio si è svolta a Roma l'ennesima puntata della Conferenza degli amici della Siria, con la partecipazione del neosegretario di Stato USA John Kerry, che quattro giorni prima aveva iniziato da Londra il suo primo e lungo viaggio di lavoro all'estero. Alla Conferenza in un primo momento la Coalizione nazionale siriana aveva inteso non partecipare come segno di protesta per la disattenzione internazionale sulla prosecuzione dei massacri in Siria, cedendo poi agli appelli internazionali. La Conferenza ancora una volta non ha fornito elementi di particolare rilievo, mostrando come prioritario per gli Stati Uniti l'imperativo di non lasciarsi coinvolgere in nuovo conflitto mediorientale. In tal modo gli USA hanno anticipato nei confronti dei ribelli siriani solo la fornitura di aiuti umanitari e di dispositivi non letali, e, pur ribadendo la fine politica di Assad, hanno però sostenuto ancora la possibilità di un negoziato tra l'opposizione e il regime. La Coalizione nazionale siriana, pur accogliendo con palese delusione gli esiti della Conferenza, è sembrata alla fine aderire agli appelli per un negoziato tra le parti del conflitto siriano, anche perché ha rinviato la decisione di dar vita a Istanbul ad un esecutivo provvisorio in esilio. La Coalizione ha altresì invitato la Comunità internazionale almeno ad interrompere i rifornimenti militari a  Damasco effettuati con il pretesto che si tratta di contratti firmati molto tempo prima.

Il 2 marzo una postazione di ribelli siriani presso il confine iracheno veniva bombardata da elicotteri di Baghdad, esplicitando in via definitiva la preferenza che da qualche tempo il governo iracheno sembrava accordare al regime alawita di Assad, e rafforzando l’impressione del procedere nella regione di uno scontro con una forte base religiosa: infatti la contrapposizione vede sempre più emergere la cosidetta mezzaluna sciita (Iran, Iraq e gli hizbollah libanesi) a sostegno di Assad, e contro il fronte dei ribelli sunniti sostenuti e incoraggiati dalle monarchie del Golfo – soprattutto il Qatar – e dalla Turchia. Un’ulteriore complicazione è quella potenzialmente insita nelle relazioni turco-irachene, nelle quali la questione dei curdi, che Ankara vorrebbe sempre più circoscrivere al nord dell’Iraq – ove essi hanno raggiunto uno status di notevole autonomia -, non incontra certo il favore delle autorità sciite di Baghdad.

Il 14 marzo, nel corso del Consiglio europeo, i governi francese e britannico hanno premuto per uno sblocco delle forniture di armamenti ai ribelli siriani, ventilando anche la possibilità di procedere da soli su questa via, e comunque anticipando la necessità di non rinnovare l’embargo all’esportazione di armamenti verso la Siria – dove però il regime li riceve comunque soprattutto da Mosca – in scadenza il 1° giugno. Il presidente francese Hollande ha tenuto a precisare di non mirare a un conflitto totale in siria, quanto piuttosto ad indebolire Assad per indurlo al negoziato. La netta presa di posizione di Francia e Regno Unito ha fatto sì che anche la Germania si dicesse pronta ad esaminare in sede europea modifiche alle sanzioni già operanti.

 


 

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[1] Nel corso del Vertice del Cairo sono stati identificati i seguenti otto obiettivi prioritari: Diritti umani, democrazia e buon governo; Prevenzione e risoluzione dei conflitti; Sicurezza alimentare; HIV/AIDS e altre pandemie; Ambiente; Integrazione e scambi commerciali regionali; Debito estero; Restituzione dei beni culturali esportati illecitamente.

[2] Il NEPAD, istituito nel luglio 2001, al trentasettesimo vertice dell’Organizzazione dell’Unità Africana, è un piano innovativo per favorire lo sviluppo socio-economico del continente. Gli obiettivi prioritari del NEPAD sono lo sradicamento della povertà, l’avvio dell’Africa lungo un percorso di sviluppo sostenibile; l’opposizione alla marginalizzazione dell’Africa nel processo di globalizzazione; l’accelerazione delle tappe dell’emancipazione femminile. L'Unione africana e il NEPAD sono strettamente correlati.

[3] Obiettivo dell’iniziativa è quello di sviluppare e sostenere reti sostenibili che facilitino l’interconnessione a livello continentale per favorire l’integrazione regionale e la crescita economica. Un importo di base pari a 5,6 miliardi di euro a valere sul 10° Fondo europeo di sviluppo (FES, 2008-2013) è destinato alle infrastrutture nel settore dei trasporti terrestri, dell’energia, dell'acqua, delle tecnologie dell'informazione e delle reti di telecomunicazione in una prospettiva regionale. Come indicato nelle conclusioni del Consiglio del 16 ottobre 2006, il partenariato dovrà fondarsi sui principi di titolarità africana, sostenibilità, solidità economica e sostenibilità del debito e dovrà rispondere agli obiettivi e ai piani di sviluppo dell'Unione africana e delle organizzazioni regionali del continente.

[4] Il Fondo europeo di sviluppo si affida ai contributi degli Stati membri e rappresenta lo strumento principale degli aiuti comunitari per la cooperazione allo sviluppo con gli Stati ACP (Africa, Caraibi e Pacifico), nonché con i paesi e territori d'oltremare. Un Fondo specifico di durata quinquennale è assegnato a ciascuna convenzione stipulata con tali paesi. Dalla quarta convenzione di Lomé in poi, i finanziamenti a favore dei paesi ACP sono quasi esclusivamente a fondo perduto.

[5]   Il Sudafrica, pur essendo firmatario dell’Accordo di Cotonou, non fa parte dei paesi che partecipano agli accordi APE, e le sue relazioni con l’Unione europea sono regolate dall’Accordo sugli scambi, la cooperazione e lo sviluppo che prevede la liberalizzazione del 95% degli scambi in dodici anni.

[6] Della regione del Corno d’Africa fanno parte la Repubblica di Gibuti, lo Stato di Eritrea, la Repubblica federale democratica di Etiopia, la Somalia, la Repubblica del Kenya, la Repubblica del Sudan, la Repubblica del Sud Sudan e la Repubblica dell’Uganda.

[7] L'Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD) è un'organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai paesi del Corno d'Africa, fondata nel 1986. I tre obiettivi che l'organizzazione intende perseguire sono i seguenti: sicurezza alimentare e protezione ambientale; prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti; affari umanitari e sviluppo infrastrutturale.

 

[8] L’Accordo di Cotonou, che sostituisce la IV Convenzione di Lomè, scaduta a febbraio 2000, riunisce in una nuova partnership l’Unione europea e 77 paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP). Firmato il 23 giugno 2000 dopo un complesso negoziato, l’Accordo è entrato in vigore il 1° aprile 2003, a seguito del deposito degli strumenti di ratifica da parte della Comunità europea presso il segretariato dei paesi ACP. L'intento dell’Accordo è quello di stimolare e accelerare lo sviluppo economico, sociale e culturale degli Stati ACP, di contribuire alla pace e alla sicurezza e di favorire un clima politico stabile e democratico.

[9] Il sistema delle preferenze generalizzate (SPG), applicato dalla CEE dal 1971 sulla base di una raccomandazione dell’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite su commercio e sviluppo), consente di potenziare le esportazioni di prodotti originari dei paesi in via di sviluppo tramite la concessione di speciali preferenze tariffarie. L’SPG applicato dall’UE è il più generoso fra tutti i sistemi adottati dai paesi sviluppati.

[10] Il 17 giugno 2002 il Consiglio dell’Unione ha autorizzato la Commissione a negoziare accordi di partenariato economico (APE) con gli Stati aderenti all’Accordo di Cotonou. Gli APE riguarderanno i temi del commercio e dello sviluppo e sono destinati a sostituire le previsioni in materia contenute nell’Accordo di Cotonou, perché queste ultime rappresentano una deroga temporanea alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.

 

[11] Lo strumento per la stabilità - regolamento (CE) n. 1717/2006 - finanzia azioni di cooperazione condotte dall'Unione europea in collaborazione con paesi terzi, miranti a: ristabilire la stabilità in caso di situazioni di emergenza, di crisi o al delinearsi di una crisi, onde consentire un'efficace attuazione delle politiche di sviluppo e di cooperazione; rafforzare la capacità di preparazione dei paesi terzi per far fronte alle crisi e alle minacce mondiali e transregionali.

 

[12] Al-Shabaab, che tradotto significa “La gioventù”, è un gruppo militare legato ad al-Qaeda e inserito dagli Stati Uniti nella lista delle organizzazioni terroristiche. Il suo obiettivo è la creazione di uno Stato islamico-fondamentalista  in Somalia. L’organizzazione nasce, nel 2004, dalla secessione delle fazioni islamiche radicali interne all’UCI (Unione delle Corti Islamiche) all’indomani della sconfitta di queste da parte del GFT (Governo Federale di Transizione) e dei suoi alleati etiopi. In essa sono confluiti il movimento Hizbul Islam (Partito dell’Islam), composto prevalentemente da appartenenti al clan Rahanwein, ed elementi minoritari dei clan Darod e Ishaak, entrambi opposti al GFT. Oltre agli esponenti del clan Rahanwein, tra le personalità più influenti di Al-Shabaab si annoverano Sheikh Hassan Aweys, leader di Hizbul Islam e del clan Hawiya, Mukhtar Abu Zubeyr “Godane”, emiro del gruppo nonché veterano del jihad afghano  anti-sovietico, e Fuad Mohamed Qalaf “Shongole”, membro del clan Darod. L’invasione etiope della Somalia avvenuta nel dicembre 2006 ha trasformato Al-Shabaab, fino a quel momento solo piccola fazione di un più moderato movimento Islamico, nel più potente e radicale gruppo armato del Paese. Nel corso del biennio 2006-2008 il numero dei membri di Al-Shabaab è aumentato a dismisura. All’inizio erano meno di 400, poi mano a mano che i guerriglieri di ideologia islamico-nazionalista confluivano tra le fila del gruppo, sono diventati quasi 5.000. Ad oggi non è possibile fornire un numero preciso perché nel corso degli ultimi mesi la popolarità del movimento ha sofferto molto a causa delle suoi metodi brutali adotatti a discapito della popolazione somala.

 

[13] Nella missione dell’Unione Africana, AMISOM (African Union Mission in Somalia), sono impiegate prevalentemente truppe ugandesi e burundesi di religione cristiana.

[14] dati UNHCR al 31 ottobre 2012.

[15] Il 23 gennaio 2012 il Consiglio ha nominato il nuovo rappresentante per il processo di pace, Andreas Reinicke, attuale ambasciatore della Germania in Siria. Andreas Reinicke – che resterà in carica fino al giugno 2013 – sostituisce Marc Otte, che ha ricoperto la carica a partire dal 2003.

[16] Si veda il Bollettino a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea, “Una nuova risposta ad un vicinato in mutamento” (COM (2011) 313), XVI legislatura-Documentazione per le Commissioni-Esami di atti e documenti dell’UE, n. 95, 8 luglio 2011.

[17] Tempus è un programma finanziato dall’Unione europea che sostiene la modernizzazione dell’istruzione superiore in Europa orientale, in Asia centrale, nei Balcani occidentali e nella regione del Mediterraneo.

[18] L’UE negozia con i paesi terzi partenariati per la mobilità, che consentano ai cittadini di tali paesi un migliore accesso al territorio dell’Unione europea. Tali partenariati riguarderebbero i paesi terzi determinati a collaborare con l’UE nel settore della gestione dei flussi migratori, in particolare in materia di lotta contro l’immigrazione clandestina.

[19] Dopo la scarcerazione degli equipaggi, il 26 novembre 12 dei 14 marinai hanno potuto lasciare la Libia a bordo di uno dei due motopesca, mentre due di essi sono rimasti in attesa del processo riguardante l’altra imbarcazione, che era stata già sequestrata il 1° dicembre 2010.