Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento lavoro | ||
Titolo: | Carta dei diritti universali del lavoro. Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori - A.C. 4064 - Schede di lettura | ||
Riferimenti: |
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Serie: | Progetti di legge Numero: 543 | ||
Data: | 08/03/2017 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | XI-Lavoro pubblico e privato |
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione per l’esame di |
Carta dei diritti
universali del lavoro. Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i
lavoratori A.C. 4064 |
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n. 543 |
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8 marzo 2017 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Lavoro ( 066760-4884 – * st_lavoro@camera.it |
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dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle esigenze di
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File:
LA0723.docx |
INDICE
§ Premessa
§ Articoli 1-26 (Diritti
fondamentali, tutele e garanzie per tutti i lavoratori)
§ Articoli 39-40 (Partecipazione
dei lavoratori alle decisioni ed ai risultati delle imprese)
§ Articolo 41 (Periodo
di prova)
§ Articoli 43-49 (Apprendistato)
§ Articoli 50-60 (Lavoro
a tempo determinato)
§ Articoli 61-70 (Somministrazione
di lavoro subordinato)
§ Articoli 71-79 (Lavoro
a tempo parziale (part time))
§ Articoli 80-81 (Lavoro
subordinato occasionale – cd. voucher)
§ Articolo 82 (Orario
di lavoro)
§ Articoli 83-84 (Tutela
del lavoratore in caso di licenziamento individuale illegittimo)
§ Articoli 85-87 (Tutela
dei lavoratore in caso di licenziamento collettivo illegittimo)
§ Articoli 88-91 (Tutela
del lavoratore negli appalti)
§ Articolo 92 (Tutela
del lavoratore nei trasferimenti di azienda)
§ Articoli 93-96 (Disposizioni
per assicurare l’effettività della tutela dei diritti dei lavoratori)
La
proposta di legge di iniziativa popolare C.4064
è volta a definire una Carta dei diritti
universali del lavoro, intervenendo in numerosi e vasti ambiti della
normativa vigente in materia di lavoro.
Il
provvedimento si compone di 97 articoli,
suddivisi in tre Titoli.
Il
Titolo I, denominato “Diritti fondamentali, tutele e garanzie di
tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori”, si compone degli articoli da 1 a 26.
Il
Titolo II, denominato “Disciplina attuativa degli articoli 39 e 46
della Costituzione”, si compone degli articoli
da 27 a 40, ed è suddiviso in due parti:.
·
la Parte I
disciplina la registrazione dei sindacati,
le rappresentanze unitarie sindacali e
la contrattazione collettiva ad
efficacia generale, e si compone degli articoli
da 27 a 38;
·
la Parte II
disciplina la partecipazione dei
lavoratori alle decisioni e ai risultati delle imprese, e si compone degli articoli 39 e 40.
Il
Titolo III, denominato “Riforma dei contratti e dei rapporti di
lavoro e disposizioni per l’effettività della tutela dei diritti”, si
compone degli articoli da 41 a 97,
ed è suddiviso in quattro parti:
· la Parte I disciplina l’estensione delle tutele dei lavoratori
subordinati ai lavoratori autonomi, e si compone degli articoli da 27 a 38;
· la Parte II interviene sulla disciplina dei contratti di lavoro, e
si compone degli articoli da 43 a 81.
La Parte II è suddivisa in cinque Capi,
riguardanti:
-
il contratto di apprendistato (Capo I, articoli
43-49);
-
il lavoro a tempo determinato (Capo II, articoli
50-60);
-
la somministrazione di lavoro subordinato (Capo
III, articoli 61-70);
-
il lavoro a tempo parziale (Capo IV, articoli
71-79);
-
il lavoro subordinato occasionale (Capo V, articoli
80-81).
· la Parte III interviene sulla disciplina di alcuni istituti del rapporto
di lavoro, e si compone degli articoli
da 43 a 81. La Parte III è suddivisa in cinque Capi, riguardanti:
-
l’orario di lavoro (Capo I, articolo 82);
-
le tutele contro i licenziamenti illegittimi,
individuali e collettivi (Capo II, articoli 83-87);
-
la tutela del lavoratore negli appalti (Capo III,
articoli 88-91);
-
il lavoro del lavoratore nei trasferimenti di
azienda (Capo IV, articolo 92);
· la Parte IV detta disposizioni per assicurare l’effettività della tutela dei
diritti dei lavoratori e abrogazioni
di alcune norme vigenti; si compone degli articoli
da 93 a 97.
Il Titolo I (articoli 1-26) elenca una serie di diritti fondamentali, tutele e garanzie con carattere di universalità, in quanto riconosciuti a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla natura giuridica e dalla tipologia contrattuale del rapporto di lavoro.
Le disposizioni contenute nel Titolo I si applicano, in particolare:
§ ai titolari di contratti di lavoro subordinato e di lavoro autonomo, anche nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, pure se occasionali, intercorrenti con datori di lavoro pubblici o privati;
§ alle lavoratrici e lavoratori che svolgono attività lavorativa in ragione di contratti di tipo associativo (ad esempio, lavoro in cooperativa o in organizzazioni o associazioni di tendenza come sindacati e partiti politici);
§ alle ipotesi di tirocinio formativo, di attività socialmente utili, nonché alle altre relazioni a queste assimilabili, comunque denominate.
Varie disposizioni del Titolo I introducono novità sostanziali rispetto alla disciplina vigente. Si tratta, in particolare:
§ della previsione che quanto disposto nel Titolo I si applichi, con i dovuti adattamenti, a tutte le forme di lavoro e non solo a quello subordinato (articolo 1);
§ dell’abrogazione della disciplina contenuta nel cd. Jobs act in materia di controlli a distanza, con il pieno ripristino della normativa previgente e del diritto alla riservatezza, che comporta il divieto di utilizzare impianti audiovisivi e ogni altro mezzo per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (articolo 12)[1];
§ del rafforzamento del diritto di informazione del lavoratore che deve essere messo al corrente di tutte le vicende del datore di lavoro o del committente che possano ripercuotersi sul loro rapporto di lavoro; tale diritto è riconosciuto ai lavoratori autonomi solo nel caso in cui il contratto di lavoro abbia una durata complessiva superiore a 6 mesi (articoli 14 e 25);
§ della riduzione (in determinati casi), per tutte le tipologie contrattuali, del potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali (articolo 16);
§ del riconoscimento, al lavoratore autore di un’opera dell’ingegno da lui realizzata nello svolgimento dell’attività lavorativa (se non già specificamente remunerata come oggetto della prestazione lavorativa) ad un equo premio commisurato al valore dell’opera per il datore di lavoro (articolo 18);
§ della previsione che assicura una maggiore tutela al lavoratore autonomo in caso di recesso del committente (obbligo di preavviso, esistenza di un valido motivo) (articolo 19);
§ dell’introduzione di nuove regole del processo del lavoro, prevedendo che il giudice competente viene individuato nel tribunale del luogo di domicilio del lavoratore quando quest'ultimo sia convenuto in giudizio (negli altri casi è confermata la previsione vigente che collega la competenza per territorio al luogo ove è prestata l'attività lavorativa). Il provvedimento, inoltre, prevede l'esenzione dal contributo unificato per le controversie in materia di lavoro (oggi sono previsti soltanto pagamenti in misura ridotta in ragione del reddito degli interessati); il diritto dei lavoratori di ottenere una pronuncia del giudice entro tre mesi dalla domanda; il diritto a “un'effettiva assistenza pubblica nella fase di esecuzione dei provvedimenti giudiziari” (articolo 22);
§ dell’introduzione di una nuova fattispecie di reato consistente nell’organizzazione dell’attività lavorativa mediante violenza, minaccia, intimidazione e sfruttamento. In tali casi la sanzione consiste nella reclusione da tre ad otto anni e con la multa da 1.000 a 5.000 euro per ciascun lavoratore occupato (articolo 24).
In altri casi i diritti, le tutele e le garanzie elencati nel Titolo I costituiscono, per lo più, specificazioni, rafforzamenti ed estensioni di diritti in vario modo già riconosciuti dall’ordinamento, anche comunitario, o enucleati a livello giurisprudenziale. Tra questi si segnalano, in particolare:
§ il diritto al lavoro, che garantisca ad ogni persona di svolgere un lavoro liberamente scelto, che sia decente e dignitoso, con conseguente diritto ad un compenso equo e proporzionato (articoli 2, 3 e 5);
§ il diritto a condizioni di lavoro chiare e trasparenti (articolo 4);
§ i diritti che garantiscano il benessere del lavoratore e tutelino la sua salute psico-fisica del lavoratore, con riferimento al riconoscimento sia di condizioni ambientali e lavorative sicure (articolo 7), sia del diritto al riposo (articolo 8);
§ la libertà di espressione e di organizzazione sindacale, di negoziazione e di azione collettiva e di rappresentanza degli interessi del lavoro (articoli 6 e 23);
§ il diritto alla conciliazione tra vita familiare e vita professionale (articolo 9);
§ il diritto alle pari opportunità tra donna e uomo in materia di lavoro e professione (articolo 10);
§ il diritto alla non discriminazione nell’accesso al lavoro e nel corso del rapporto di lavoro (articolo 11), di cui il diritto a soluzioni ragionevoli in caso di disabilità oppure di malattia di lunga durata (articolo 15) costituisce una specificazione;
§ il diritto ai saperi, intendendosi con questo il diritto all’accesso al sistema della conoscenza e alla formazione continua per tutto l’arco della vita (articolo 17);
§ il diritto ad una adeguata tutela pensionistica, con conseguente diritto alla completa totalizzazione, ricongiunzione e riunificazione dei periodi contributivi (articolo 21).
Infine, intervengono specificamente sul solo lavoro autonomo le disposizioni che estendono ad esso (in quanto compatibili) determinate tutele relative alla libertà e dignità dei lavoratori attualmente previste dallo Statuto dei lavoratori per il solo lavoro dipendente (articolo 13) e la delega legislativa per l’introduzione di forme di sostegno dei redditi da lavoro autonomo, avendo come riferimento principi e regime dei costi relativi al lavoro subordinato (articolo 20);
Con una specifica norma di chiusura viene precisato che quanto previsto dal provvedimento in esame non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni dello Statuto dei lavoratori o delle altre norme di miglior favore per i lavoratori previste da leggi, atti amministrativi, contratti collettivi o accordi collettivi stipulati dalle associazioni dei lavoratori autonomi (articolo 26).
La parte I del Titolo II (articoli da 27 a 38) contiene disposizioni in materia di associazioni sindacali, la cui portata innovativa (come specificato dall’art. 27) consiste, in particolar modo, nel dare attuazione all’articolo 39, commi 2, 3 e 4, della Costituzione (finora privo di un’attuazione normativa) che prevede la registrazione dei sindacati, per effetto della quale gli stessi acquisiscono personalità giuridica, con conseguente efficacia erga omnes (per tutti gli appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce) dei contratti collettivi da essi stipulati.
La disciplina concerne diversi aspetti relativi alle associazioni sindacali, intervenendo in particolare in materia di:
§ registrazione;
§ rappresentanze sindacali;
§ rappresentatività delle associazioni sindacali ai fini della contrattazione collettiva;
§ obbligo di negoziazione dei datori di lavoro;
§ procedura per la validità e l’approvazione dei contratti collettivi;
§ rapporto tra contratti collettivi di diverso livello e tra questi e la legge.
Una delle novità più rilevanti è costituita dalla previsione della registrazione delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro (artt. da 28 a 30).
Si prevede, come primo passaggio, l’istituzione (entro 90 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento in esame) di un’apposita Commissione, che esercita la vigilanza su tutti i dati rilevanti ai fini della registrazione e della rappresentatività, e ne disciplina le modalità di costituzione, specificando che la stessa è composta da 5 membri (nominati con Decreto del Presidente della Repubblica su indicazioni provenienti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro[2]), scelti tra professori universitari, esperti della materia, di chiara fama e onorabilità, in modo da garantire la presenza dei due generi (articolo 28).
La registrazione, necessaria per la partecipazione alla contrattazione collettiva, deve essere rilasciata dalla Commissione entro 30 giorni dalla ricezione dell’istanza e può essere negata solo per manifesta inosservanza, da parte degli atti costitutivi e degli statuti, di specifici requisiti di democraticità[3] (nel caso di supposta violazione dei quali, la Commissione instaura immediatamente un contradditorio con l’associazione). A seguito della registrazione i sindacati acquisiscono la personalità giuridica (di cui all’articolo 39, comma 4, della Costituzione) per la partecipazione alla contrattazione collettiva ad efficacia generale. La suddetta procedura di registrazione, per espressa previsione dell’articolo 35, comma 1, si applica anche ai sindacati datoriali (articolo 29).
Viene poi disciplinata la procedura per la raccolta dei dati sui contributi versati dai lavoratori alle associazioni sindacali (necessaria al fine dell’accertamento del requisito della rappresentatività), applicabile ai datori di lavoro non soggetti (attualmente e in futuro) al Testo unico sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio 2014[4] (o ad altri accordi che prevedono analoghe comunicazioni all’Inps), per i quali cioè non è prevista la certificazione delle adesioni mediante delega[5]. Per questi datori di lavoro, il lavoratore può demandare, mediante cessione di credito, il prelievo dei contributi dalla sua busta paga alla propria associazione sindacale, la quale provvede all’incasso (le cui modalità sono stabilite mediante convenzioni già esistenti o da concludersi) tramite l’Inps che, entro un tempo determinato, deve comunicare alla Commissione i dati relativi ai suddetti contributi associativi. Si specifica che tale comunicazione è reiterata dall’INPS nel mese di marzo di ogni anno. Successivamente alla fase di prima applicazione, viene prevista la possibilità per i contratti collettivi ad efficacia generale di livello confederale di individuare specifiche modalità di computo delle adesioni non certificate tramite delega (articolo 30).
Le rappresentanze sindacali sono disciplinate dagli articoli 31 e 32.
L’articolo 31 disciplina l’istituzione di tre forme di rappresentanza sindacale: due di livello aziendale (le Rappresentanze unitarie sindacali, RUS, e le rappresentanze sindacali aziendali, RSA) e una di livello territoriale (le Rappresentanze Unitarie Sindacali Territoriali, RUST).
Sul punto si ricorda che, attualmente, il Testo unico sulla rappresentanza prevede solamente due forme di rappresentanza sindacale, le RSU (Rappresentanze sindacali unitarie) e le RSA (Rappresentanze sindacali aziendali).
La disciplina delle suddette rappresentanze sindacali, in particolare per quanto concerne le RSA, è analoga sotto taluni aspetti a quella contenuta nel richiamato Testo unico; alcune differenze sono dovute in particolar modo alla introduzione della registrazione dei sindacati ex art. 39 della Costituzione (così, ad esempio, il criterio per il riconoscimento della possibilità di richiedere elezioni delle RUS e di presentare liste per tali elezioni è subordinato non più all’aver sottoscritto determinati accordi interconfederali, ma alla avvenuta registrazione e, come già previsto in talune circostanze, ad una determinata percentuale di rappresentatività)[6].
Tra le novità introdotte, si segnalano in particolare:
§ l’ampliamento dell’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione del Titolo III dello Statuto dei lavoratori concernente i diritti e le prerogative sindacali. Si prevede, infatti, che tali disposizioni (ad eccezione degli articoli 27, concernente i locali delle RSA, e 25, in materia di diritto di affissione[7], che quindi si applicano sempre) si applichino ai datori di lavoro, e non più solo agli imprenditori, dei settori industriale e commerciale e di quello agricolo che occupano, rispettivamente, più di quindici o cinque dipendenti. Inoltre, il limite minimo di quindici dipendenti dei datori di lavoro nei settori industriale e commerciale non è più riferito a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo;
§ l’estensione del diritto di voto nelle consultazioni elettorali per le RUS a tutti i lavoratori del luogo di lavoro di riferimento; le modalità di svolgimento sono definite con contratto collettivo ad efficacia generale di livello confederale (in attesa di tale contratto, si applica quanto previsto nel testo unico e negli accordi interconfederali sulla rappresentanza);
§ la costituzione di una terza forma di rappresentanza sindacale, vale a dire la RUST (Rappresentanza unitaria sindacale territoriale), nel caso in cui siano stati definiti, a livello territoriale, ambiti contrattuali di sito, di filiera o di distretto, a cui spetta la titolarità della contrattazione collettiva di questi livelli. Le condizioni per indire le elezioni e per presentare le liste sono le stesse delle RUS, adattando all’ambito territoriale quanto previsto per l’azienda.
L’articolo 32 attribuisce alla Commissione per la registrazione delle associazioni sindacali di cui all’articolo 28 il compito di certificare la regolare costituzione della RUS. A tale scopo i datori di lavoro devono comunicare alla Commissione, nei trenta giorni successivi, gli esiti delle consultazioni elettorali delle RUS; la mancata o la tardiva comunicazione costituiscono comportamento antisindacale.
Rappresentatività delle associazioni sindacali ai fini
della contrattazione collettiva
Gli articoli da 33 a 35 disciplinano la procedura per la verifica della rappresentatività delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi dei diversi livelli.
Tra le novità, si segnalano, in particolare:
§ la previsione che la ponderazione, a livello confederale, della rappresentatività sia affidata alla neoistituita Commissione, che procede entro termini diversi a seconda del tipo di contratto collettivo e di associazione sindacale (dei lavoratori o datoriale) che vengono in considerazione[8];
§ la previsione che la verifica della rappresentatività riguardi anche le associazioni sindacali datoriali;
§ la disciplina del contratto collettivo di efficacia generale di livello confederale, con il quale si procede a disciplinare gli altri livelli ed ambiti di contrattazione ad efficacia generale (fino alla loro individuazione valgono transitoriamente quelli categoriali e territoriali attualmente previsti dalla contrattazione di diritto comune). Le maggioranze richieste per l’approvazione di questo contratto sono, sia dal lato delle associazioni dei lavoratori che di quelle dei datori di lavoro, pari al 60 per cento dei dati ponderati (in deroga al 51 per cento previsto dall’articolo 37 – vedi infra).
Obbligo di negoziazione dei datori di lavoro
L’articolo 36 introduce l’obbligo di contrattazione in capo al datore di lavoro (che non implica altresì un obbligo a contrarre), il cui inadempimento costituisce condotta antisindacale. Tale obbligo sussiste:
§ a livello di singolo datore di lavoro
- fermo restando che le RUS stipulano i contratti collettivi ad efficacia generale a livello di singolo datore di lavoro (art. 31, comma 5, primo periodo), ogni volta che la RUS lo richieda, a maggioranza dei propri componenti;
- ogni volta che la richiesta provenga da una o più RSA facenti capo ad associazioni sindacali registrate di livello nazionale, comprese quelle aderenti alle associazioni registrate di livello confederale, che, secondo i dati ponderati certificati, raggiungano complessivamente un indice di rappresentatività pari almeno al 51 per cento. Hanno titolo a svolgere la predetta attività di contrattazione tutte le RSA costituite presso il datore di lavoro.
§ per ciascun altro livello:
- quando la richiesta proviene da una o più associazioni sindacali registrate dei lavoratori che, secondo i dati ponderati certificati, raggiungano complessivamente, nei livelli ed ambiti volta a volta rilevanti, un indice di rappresentatività pari o superiore al 51 per cento. In tal caso, la predetta attività negoziale potrà essere svolta dalle associazioni sindacali registrate dei lavoratori e dei datori di lavoro che, per ciascun livello ed ambito, secondo i dati ponderati certificati, raggiungano un indice di rappresentatività pari almeno al 5 per cento[9].
L’obbligo a negoziare contratti collettivi ad efficacia generale sussiste anche in capo ai singoli datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti (fino a 5 se agricoli), nel caso in cui ne facciano richiesta una o più associazioni sindacali registrate di livello nazionale, comprese quelle aderenti alle associazioni registrate di livello confederale, operanti nell’ambito di riferimento del datore di lavoro definito ai sensi del contratto collettivo ad efficacia generale di livello confederale, che, secondo i dati ponderati certificati, raggiungano complessivamente un indice di rappresentatività proprio pari almeno al 60 per cento. Hanno poi titolo a svolgere la predetta attività di contrattazione le associazioni sindacali registrate di livello nazionale, comprese quelle aderenti alle associazioni registrate di livello confederale, operanti nel predetto ambito, che, secondo i dati ponderati certificati, raggiungano un indice di rappresentatività pari almeno al 5 per cento.
Procedura per la validità e l’approvazione dei
contratti collettivi
L’articolo 37 disciplina le maggioranze e le procedure richieste per la validità dei contratti collettivi.
Tale articolo è conforme a quanto disposto dal Testo unico sulla rappresentanza sindacale (che, per la validità dei contratti collettivi, richiede sia determinate maggioranze, sia la partecipazione attiva dei lavoratori), prevedendo però degli adattamenti conseguenti alla registrazione dei sindacati prevista dal provvedimento in esame.
Le principali novità riguardano:
§ la previsione secondo cui i contratti collettivi dei vari livelli sono validamente stipulati se sottoscritti dalle associazioni sindacali registrate che raggiungono complessivamente un indice di rappresentatività pari almeno al 51 per cento[10] misurato al livello nazionale (al 60 per cento per i contratti collettivi di livello confederale, ex art. 33, c. 3);
§ l’introduzione di una consultazione dei lavoratori (richiesta, insieme ai suddetti indici di maggioranza, per la piena esigibilità dei contratti collettivi) anche per i contratti aziendali stipulati dalle RUS a maggioranza dei propri componenti; la consultazione è prevista non solo per le ipotesi di accordo, ma anche per le piattaforme.
Rapporto tra contratti collettivi di diverso livello e
tra questi e la legge
L’articolo 38 disciplina la gerarchia tra i contratti di diverso livello, nonché tra questi e la legge, che si inserisce nel solco di un disegno già presente nei recenti accordi interconfederali e che mira ad evitare quanto più possibile conflitti tra livelli diversi di contrattazione.
Si ribadisce dunque che il contratto collettivo di livello nazionale prevale sui contratti degli altri livelli (aziendali, territoriali o di altro livello inferiore), ma che lo stesso non può derogare, in senso più sfavorevole, a quanto previsto dai contratti ad efficacia generale di livello interconfederale.
Tra le novità più importanti vi sono:
§ l’abrogazione dell’articolo 8 del D.L. 138/2011 che consente a contratti aziendali o territoriali, sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale (ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda) di derogare, in specifiche materie (fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro), ai contratti nazionali e anche alla legislazione nazionale[11]. Tutte le disposizioni di legge, di regolamento o di altre fonti amministrative, che legittimano la derogabilità di norme legali o amministrative da parte di contratti collettivi, vanno intese come riferite ai contratti collettivi ad efficacia generale di pari livello;
§ la previsione che i contratti collettivi ad efficacia generale di qualunque livello e ambito restano in vigore, alla loro scadenza, fino al momento del loro rinnovo, e comunque non oltre tre anni. Nel caso in cui non sia prevista la scadenza, i predetti contratti restano in vigore fino al loro rinnovo, e comunque non oltre tre anni dalla loro disdetta[12].
La parte II del Titolo II (articoli 39 e 40) è diretta ad una piena attuazione dell’articolo 46 della Costituzione che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
Le disposizioni ivi contenute intervengono, infatti, in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, sia estendendo l’ambito soggettivo di applicazione della relativa disciplina (contenuta nel D.Lgs. 25/2007, che viene conseguentemente modificato), sia rafforzandone gli strumenti di tutela.
Le principali novità riguardano:
§ la precisazione che i doveri di informazione, consultazione e contrattazione devono essere adempiuti dall’impresa secondo buona fede e correttezza (art. 39, c. 1, lett. a));
§ l’estensione dell’applicazione della disciplina in materia di informazione e consultazione dei lavoratori alle imprese con almeno 16 dipendenti (contro i 50 richiesti attualmente) (art. 39, c. 1, lett. d));
§ l’inserimento dei bilanci di previsione e di chiusura di esercizio, l’utilizzo dei contratti flessibili (apprendistato, a termine, di somministrazione, di collaborazione, nonché di quelli di lavoro autonomo) o degli appalti tra le materie oggetto di informazione obbligatoria da parte dell’impresa (art. 39, c. 1, lett. e), cpv. “Art.4 – lettere a), c) e d)”)
§ la previsione che le modalità dell’informazione siano fissate dal contratto collettivo aziendale (art. 39, c. 1, lett. e), cpv. “Art.4 – n. 2”);
§ la precisazione che il parere eventualmente espresso dai rappresentanti dei lavoratori al termine della consultazione non ha natura vincolante, ma può assumere valore probatorio in caso di controversie attinenti alle decisioni assunte dall’impresa (art. 39, c. 1, lett. e), cpv. “Art.4 – n. 3”);
§ la possibilità per i rappresentanti dei lavoratori, qualora ritengano che la procedura di consultazione non consenta di partecipare adeguatamente alla gestione dell’impresa, di richiedere il confronto contrattuale ai sensi dell’art. 36, c. 1 e 5 (che pone in capo ai datori di lavoro un obbligo di contrattazione, che non implica però un obbligo a contrarre) (art. 39, c. 1, lett. e), cpv. “Art.4 – n. 4”);
§ la costituzione di un’apposita commissione nel caso in cui i contratti collettivi nazionali non provvedano all’istituzione della commissione di conciliazione, prevista dall’art. 5, c. 3, del D.Lgs. 25/2007 per le contestazioni relative alla natura riservata delle notizie (art. 39, c. 1, lett. f));
§ la configurazione come comportamento antisindacale della violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di informazione, consultazione e contrattazione, nonché l’aumento a 25 mila euro (da 18 mila) dell’importo massimo previsto come sanzione da destinare al Fondo pensioni lavoratori dipendenti (art. 39, c. 1, lett. g));
§ la facoltà per i lavoratori, in caso di partecipazione agli utili dell’impresa societaria, disposta da contratti aziendali, di cedere gli stessi in via definitiva al proprio Fondo di previdenza integrativa, come contribuzione individuale volontaria, aggiuntiva alle quote di trattamento di fine rapporto (qualora il Fondo stesso sia statutariamente abilitato alla gestione diretta di strumenti finanziari)[13] (art. 39, c. 2);
§ l’introduzione di appositi strumenti di monitoraggio e sorveglianza delle società operanti nei settori strategici di interesse pubblico dell’energia, dell’ambiente, dell’acqua, dei trasporti, delle comunicazioni, del credito e delle assicurazioni (nonché negli altri individuati con apposito DPCM): in questi settori, hanno diritto a partecipare alle riunioni dell’organo di controllo due esperti designati per ciascuna società dalle associazioni sindacali registrate di livello nazionale operanti negli ambiti delle predette società che raggiungano un indice di rappresentatività pari almeno al 5 per cento (art. 40).
L’articolo 41 sancisce che il contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato e stabile costituisce la forma
comune di rapporto di lavoro, prevedendo la possibilità di concludere per
iscritto un patto di prova a fini di inserimento lavorativo.
Rispetto alla
disciplina vigente del periodo di prova (recata dall’articolo 2096 del Codice
civile) si prevede, in particolare, che la durata del periodo di prova venga
sempre fissata dai contratti collettivi nazionali, entro un limite massimo di 9
mesi, aumentabili a 15 se l’assunzione riguarda lo svolgimento di mansioni che
richiedono competenze professionali non possedute dal lavoratore in virtù di un
precedente contratto di apprendistato o per averle acquisite sul lavoro.
L’articolo 42 è volto ad estendere, a
determinate condizioni, ai collaboratori coordinati e continuativi, nonché ai
lavoratori autonomi, molte delle tutele proprie del lavoro subordinato.
Per quanto
riguarda i collaboratori coordinati e continuativi, l’estensione delle tutele
opera in tutti i casi di contratti di lavoro, intercorrenti con un committente
privato o pubblico (o con più soggetti privati riconducibili al medesimo centro
d'imputazione di interessi), che prevedano una collaborazione del lavoratore
coordinata con l'organizzazione del committente, continuativa ed esclusivamente
personale (anche se il datore di lavoro non determini tempi e luoghi di lavoro[14]). Nel caso in cui i contratti collettivi di
livello nazionale applicabili al committente non contengano previsioni in
materia di compenso, quest'ultimo deve essere comunque proporzionato alla
quantità e alla qualità della prestazione da eseguire, avendo riguardo
all'impegno temporale richiesto da essa e alla retribuzione prevista dal
contratto collettivo ad efficacia generale di livello nazionale applicabile al
committente con riferimento alle figure professionali di competenza e di
esperienza analoga a quella del lavoratore.
Per quanto
riguarda i lavoratori autonomi “puri”, l’estensione delle tutele opera in tutti
i casi di contratti di lavoro autonomo intercorrenti con un committente privato
o pubblico (o con più soggetti privati riconducibili al medesimo centro
d'imputazione di interessi), che prevedano l'obbligo del lavoratore autonomo,
con o senza partita IVA, di compiere un'opera o servizio con lavoro
esclusivamente proprio, abbiano una durata complessiva di più di sei mesi nel
corso dell'anno, ed il compenso da essi previsto (pur se corrisposto in modo
frazionato tra tali soggetti) costituisca più del 60 per cento dei
corrispettivi annui complessivamente percepiti dal lavoratore.
Gli articoli 43-49 recano la nuova
disciplina dell’apprendistato.
L’intervento sul
contratto di apprendistato lascia sostanzialmente inalterata la struttura della
disciplina generale dell’istituto, rimessa sempre alla contrattazione
collettiva e strutturata su 3 tipi di contratto (si segnala, al riguardo,
l’ulteriore cambio di denominazione dell’apprendistato per la qualifica e per
il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il
certificato di specializzazione tecnica superiore, che diventa apprendistato
per il diploma professionale e per il diploma di istruzione secondaria
superiore).
Le modiche più
sostanziali hanno lo scopo di tutelare maggiormente l’apprendista (al riguardo
si segnala la forma scritta richiesta ab substantiam, la soppressione del sottoinquadramento
dell’apprendista e della riduzione della retribuzione per le ore di formazione
a carico del datore di lavoro, l’innalzamento della percentuale di
stabilizzazione nell’apprendistato professionalizzante, la trasformazione del
l’apprendistato in contratto a tempo indeterminato in relazione a specifiche
inadempienze del datore di lavoro, l’innalzamento a 16 anni per assumere i
giovani con contratto di apprendistato per il diploma professionale e per il
diploma di istruzione secondaria superiore).
Rispetto alla disciplina vigente, le
principali novità sono le seguenti:
· si stabilisce che
la forma scritta sia richiesta come
requisito di validità del contratto,
e non più ai soli fini della prova;
·
si prevede l’accreditamento
ai fini della formazione da parte delle imprese interessate, secondo specifiche
procedure;
·
si sopprime la possibilità del sottoinquadramento
dell’apprendista (fino a 2 livelli inferiori rispetto a quello spettante in
base al CCNL);
·
si includono
gli apprendisti nel computo dei
limiti numerici ai fini dell’applicazione di specifiche discipline, quali
quello sul collocamento obbligatorio (diversamente da quanto previsto dalla
normativa vigente);
·
si sopprime la possibilità di utilizzare
apprendisti con contratto di somministrazione
a tempo determinato;
·
si prevede che la retribuzione per le ore di formazione sia a carico del datore di lavoro;
·
si prevede che tranne nella causa di recesso
specificamente individuata, l’apprendistato prosegua come contratto a tempo indeterminato alla fine del periodo
di apprendistato;
· si prevede la
possibilità (su richiesta dell’apprendista) di prorogare di un anno i periodi di apprendistato (ad esclusione
dell’apprendistato professionalizzante) nel caso in cui l’apprendista non abbai
conseguito i risultati previsti;
Per quanto attiene all’apprendistato per il diploma professionale e per il diploma di istruzione secondaria superiore, si segnala, tra gli altri:
· che l’istituto
possa essere utilizzato per assumere i giovani che abbiano assolto l’obbligo
scolastico (quindi da 16 anni invece dei 15 previsti attualmente);
·
la soppressione della durata massima;
·
l’aumento della percentuale di formazione esterna
all’azienda (70% invece del 60%
previsto attualmente per il secondo anno ed il 50% per il terzo e quarto anno);
·
la soppressione
della previsione che limita la retribuzione (10% di quella dovuta) per le ore di
formazione a carico del datore di lavoro;
· la possibilità per
i contratti collettivi ad efficacia generale di ambito nazionale, di prevedere
modalità di utilizzo dell’apprendistato per lo svolgimento di attività stagionali.
Per quanto attiene all’apprendistato
professionalizzante, si segnala, tra gli altri:
·
la soppressione
della possibilità di stipulare il contratto a partire dai 17 anni in specifiche situazioni;
·
la precisazione che l’istituto possa essere
utilizzato fino al compimento dei 30
anni di età;
·
un’apposita certificazione
sulle competenze acquisite;
·
l’innalzamento
delle ore formative per l’acquisizione delle competenze di base (da 120 a
150);
· l’innalzamento
della cd. clausola di stabilizzazione
degli apprendisti dal 20% al 30% e
la contestuale soppressione dell’ambito di applicazione della stessa (imprese
con più di 50 dipendenti), ferma restando la possibilità, per i contratti
collettivi ad efficacia generale di ambito nazionale, di individuare limiti
diversi. Inoltre si prevede la possibilità, ai fini del calcolo del 30 %, di computare anche i rapporti di apprendistato
cessati per recesso per giusta causa o
giustificato motivo soggettivo.
Per quanto attiene all’apprendistato di alta formazione e ricerca, si segnala, tra gli altri:
·
la precisazione che l’istituto possa essere
utilizzato fino al compimento dei 30
anni di età;
· la soppressione della previsione che
limita la retribuzione (10% di quella
dovuta) per le ore di formazione a carico del datore di lavoro;.
Inoltre, non è più previsto esplicitamente il repertorio delle professioni, istituito
(ai sensi dell’articolo 46, comma 3, del D.Lgs.
81/2015) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali per
armonizzare le diverse qualifiche acquisite e consentire una correlazione tra
standard formativi e standard professionali.
Nell’ambito del sistema sanzionatorio, si prevede che in caso di inadempimento dell’obbligazione formativa il contratto sia considerato come contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’origine.
Apprendistato
L'apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani. In generale, possono essere assunti con contratto di apprendistato i soggetti di età compresa tra i 15 ed i 29 anni (i limiti di età variano a seconda della tipologia di apprendistato) per un periodo minimo di sei mesi (mentre la durata massima si differenzia a seconda della tipologia di apprendistato).
La disciplina dell’istituto è attualmente contenuto negli articoli da 41 a 47 del D.Lgs. 81/2015 (che ha contestualmente abrogato quasi interamente il D.Lgs. 167/2011). Sono previste tre tipologie di apprendistato:
- apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, per i giovani dai 15 ai 25 anni (al fine di acquisire un titolo di studio in ambiente di lavoro) che possono essere assunti in tutti i settori di attività. La durata del contratto non può in ogni caso essere superiore a tre anni o quattro anni nel caso di diploma professionale quadriennale (prorogabile di un anno in determinati casi). Tale forma di apprendistato è strutturato in modo da coniugare la formazione effettuata in azienda con l'istruzione e formazione professionale svolta dalle istituzioni formative che operano nell'ambito dei sistemi regionali di istruzione e formazione[15]. Successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale, nonché del diploma di istruzione secondaria superiore, allo scopo di conseguire la qualificazione professionale ai fini contrattuali, è possibile la trasformazione del contratto in apprendistato professionalizzante (in tal caso, la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato non può eccedere quella individuata dalla contrattazione collettiva). Si ricorda che per le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, i contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali;
- apprendistato professionalizzante, in tutti i settori di attività, per i giovani tra i 18 e i 29 anni finalizzato ad apprendere un mestiere o una professione in ambiente di lavoro[16]. Il datore di lavoro provvede alla registrazione nel libretto formativo del cittadino della formazione effettuata e della qualifica professionale a fini contrattuali eventualmente acquisita;
- apprendistato di alta formazione e ricerca, in tutti i settori di attività, rivolto ai soggetti di età compresa tra i 18 anni e i 29 anni in possesso di diploma di istruzione secondaria superiore o di un diploma professionale conseguito nei percorsi di istruzione e formazione professionale integrato da un certificato di specializzazione tecnica superiore o del diploma di maturità professionale all'esito del corso annuale integrativo, volto al conseguimento di titoli di studio specialistici, universitari e post universitari e alla formazione di giovani ricercatori.
L'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore e quello di alta formazione e ricerca integrano organicamente, in un sistema duale, formazione e lavoro, con riferimento ai titoli di istruzione e formazione e alle qualificazioni professionali (contenuti nel Repertorio nazionale di cui all'articolo 8 del D.Lgs. 13/2013, nell'ambito del Quadro europeo delle qualificazioni).
Il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere, direttamente o indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di lavoro, non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il medesimo datore di lavoro; tale rapporto non può superare il 100% per i datori di lavoro che occupano un numero di lavoratori inferiore a dieci unità.
È in ogni caso esclusa la possibilità di assumere in somministrazione apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato.
Il datore di lavoro che non abbia alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati, o che comunque ne abbia in numero inferiore a tre, può assumere apprendisti in numero non superiore a tre.
Tali limitazioni non si applicano alle imprese artigiane.
Innanzitutto, il D.Lgs. n. 81/2015 prevede il divieto di retribuire l'apprendista a cottimo. La retribuzione è fissata in base alle previsioni dei contratti collettivi in funzione dell'inquadramento contrattuale dell'apprendista.
Quanto alle modalità di calcolo è prevista l'alternatività tra l'istituto del sottoinquadramento e quello della percentualizzazione. Nel primo caso, l'apprendista può essere sottoinquadrato fino a due livelli e percepire una retribuzione commisurata al livello di inquadramento, generalmente di progressiva elevazione con il passare del tempo. Nell'altro caso, la retribuzione del lavoratore è una quota percentuale di quella percepita al livello di qualifica cui è finalizzato l'apprendistato; essa è crescente in ragione dell'anzianità di servizio[17].
Per gli apprendisti l'applicazione delle norme sulla previdenza e assistenza sociale obbligatoria si estende a determinate forme previdenziali (assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; assicurazione contro le malattie; assicurazione contro l'invalidità e vecchiaia; maternità; assegno familiare; Assicurazione Sociale per l'Impiego (c.d. ASpI)).
In via generale, la contribuzione dovuta dai datori di lavoro per gli apprendisti artigiani e non artigiani è pari al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
A decorrere dal 1° gennaio 2007 sono previste riduzioni per i datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a 9. In tali casi, limitatamente ai contratti di apprendistato, l'aliquota complessiva a carico dei datori di lavoro, è pari:
- all'1,50% per i periodi contributivi maturati nel primo anno di contratto (riduzione di 8,5 punti percentuali);
- al 3%, per i periodi contributivi maturati nel secondo anno di contratto (riduzione di 7 punti percentuali).
Per i periodi contributivi maturati negli anni di contratto successivi al secondo, la contribuzione è dovuta nella misura del 10%.
Ulteriori benefici sono previsti per i datori di lavoro che assumono con l'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore. In tali casi:
non trova applicazione il contributo di licenziamento dovuto all’INPS;
l'aliquota contributiva del 10% è ridotta al 5%;
è riconosciuto lo sgravio totale dei contributi a carico del datore di lavoro di finanziamento dell'ASpI (pari, per gli apprendisti, all'1,31 per cento) e dello 0,30% previsto per il finanziamento della formazione professionale.
I benefici riguardano le assunzioni a decorrere dal 24 settembre 2015 e fino al 31 dicembre 2017[18]. Inoltre, la L. 232/2016 ha introdotto, per il solo settore privato, uno sgravio contributivo per le nuove assunzioni con contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, anche in apprendistato, effettuate dal 1° gennaio 2017 al 31 dicembre 2018, che spetta per l'assunzione di studenti che abbiano svolto presso il medesimo datore di lavoro attività di alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato.
I datori di lavoro, ai fini di ulteriori assunzioni con contratto di apprendistato, sono inoltre tenuti a "stabilizzare" una percentuale di lavoratori che hanno terminato il proprio periodo formativo. Ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, di individuare limiti diversi da quelli previsti dalla legge, esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti l'assunzione di nuovi apprendisti con contratto di apprendistato professionalizzante è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro. Dal computo della predetta percentuale sono esclusi i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per
giusta causa. Qualora non sia rispettata la predetta percentuale, è consentita l'assunzione di un apprendista con contratto di apprendistato professionalizzante. Gli apprendisti assunti in violazione dei limiti indicati sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.
Infine, il D.Lgs. 81/2015 prevede l'utilizzabilità del contratto di apprendistato (professionalizzante e di alta formazione e di ricerca) anche nel settore pubblico. Tuttavia, la disciplina del reclutamento e dell'accesso, nonché l'applicazione del contratto di apprendistato professionalizzante e di alta formazione per i settori di attività pubblici non è immediatamente applicabile ma deve essere definita con D.P.C.M..
Gli articoli 50-60 recano la nuova
disciplina sul contratto di lavoro a
tempo determinato.
La nuova
disciplina del lavoro a tempo determinato (per la quale viene confermato il
limite complessivo di 36 mesi) dispone in primo luogo una limitazione
all’utilizzo dell’istituto, prevedendone il ricorso a fronte di ragioni giustificatrici, legate a
esigenze (che il datore di lavoro deve provare):
· temporanee ed
oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché
sostitutive;
·
connesse a incrementi temporanei, significativi e
non programmabili dell’attività ordinaria;
· relative a lavori
stagionali e a picchi di attività stagionali individuati con decreto del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Il contratto
richiede la forma scritta ab substantiam, la mancanza della quale (così come la
mancanza dell’indicazione del termine e delle esigenze temporanee e
l’insussistenza, nei fatti, di tali esigenze) comporta la trasformazione del
contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, a decorrere dalla data
di stipulazione.
Il termine può
essere prorogato (con il consenso del lavoratore) anche più volte, a condizione
che ogni proroga sia giustificata dalla persistenza delle richiamate esigenze,
venga concordata anteriormente al suo inizio con atto scritto contenente la
specificazione di tali esigenze e si riferisca alle stesse mansioni del
contratto originario o a mansioni di pari livello o categoria legale.
In ogni caso (si
tratti sia di proroghe o di rinnovi del contratto) è vietato superare il limite massimo di 36 mesi (salvo
diversa previsione dei contratti collettivi ad efficacia generale di livello
nazionale, i quali possono anche stabilire la non applicazione del richiamato
limite per esigenze relative a lavori stagionali o a picchi di attività
stagionali), oltre il quale il contratto si considera a tempo indeterminato.
La nuova
disciplina, inoltre, prevede regole più stringenti per i casi che comportano la
trasformazione del contratto di lavoro a termine in contratto di lavoro a tempo
indeterminato, così come nella disciplina inerente le proroghe e i rinnovi.
L’apposizione del
termine non è ammessa per i casi in larga parte già disciplinati dalla
normativa vigente; inoltre, si ripropone, quasi negli stessi termini previsti
dalla normativa vigente, la disciplina inerente al diritto di precedenza nelle
assunzioni per i lavoratori a termine in possesso di specifici requisiti.
Inoltre, viene
confermato il principio di non discriminazione, stabilendo specifiche sanzioni
amministrative in caso di violazioni.
Nel riproporre i
parametri per il computo dei lavoratori a termine , si obbliga il datore di
lavoro a comunicare alle RSA e alle RUS il numero e i motivi del ricorso ai
contratti a termine conclusi, la durata degli stessi, il numero e la qualifica
dei lavoratori interessati.
Si prevede che le
pubbliche amministrazioni non possano utilizzare il contratto a termine per
sopperire stabilmente e continuativamente a carenze di organico o per ovviare a
vincoli assunzionali. Viene però previsto che le
pubbliche amministrazioni possano ricorrere a contratti a tempo determinato per
la copertura temporanea di posti di ruolo per i quali siano stati banditi
concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, per il periodo intercorrente
dalla data del bando fino alla effettiva presa di servizio dei vincitori, con
un limite massimo di durata di 24 mesi. Infine, si stabilisce che la violazione
delle regole non comporta la trasformazione del contratto da determinato a
indeterminato, stabilendo il diritto ad un’indennità forfetaria di 15
mensilità, oltre al risarcimento di eventuali danni ulteriori.
Rispetto alla disciplina vigente, le
principali novità sono le seguenti:
· si sopprime il principio della cd. acausalità
per l’apposizione del termine (che quindi può essere apposto solamente in
presenza di ragioni giustificatrici) sia al momento dell’assunzione sia in
relazione alle successive proroghe;
·
si sopprime
il divieto di assumere lavoratori a tempo determinato in misura superiore al
20% del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio
dell’anno di assunzione;
·
l’aumento
dei giorni (da 12 a 15) in
relazione ai quali il lavoro viene considerato occasionale non necessitando
quindi dell’apposizione del termine per atto scritto;
·
la soppressione
della possibilità di stipulare un ulteriore
contratto a termine (con durata massima di 12 mesi) superato il limite
massimo consentito;
·
si modifica sostanzialmente la disciplina delle proroghe e dei rinnovi, disponendo, in particolare:
-
la possibilità di prorogare il termine (con consenso del lavoratore) anche più volte (a condizione che ogni
proroga sia giustificata dalla persistenza delle medesime esigenze, venga
concordata anteriormente al suo inizio con atto scritto contenente la
specificazione di tali esigenze e si riferisca alle stesse mansioni del
contratto originario o a mansioni di pari livello o categoria legale), ma
comunque sempre entro il limite dei 36 mesi;
-
l’obbligo,
per il datore di lavoro, di provare le esigenze che richiedano la proroga;
-
la soppressione dei termini temporali previsti
attualmente nei rinnovi (10 o 20 giorni dalla data di scadenza del contratto, a
seconda della durata dello stesso);
·
la soppressione
dell’ipotesi di trasformazione del contratto nel caso in cui il rapporto di
lavoro continui entro i 30 giorni o 50 giorni (a seconda della durata del
contratto);
·
tra le cause di divieto di ricorrere al lavoro a
termine si aggiunge la mancata
valutazione dei rischi specifici connessi
alla tipologia contrattuale e all’esposizione ai particolari rischi derivanti
dalla durata limitata del rapporto di lavoro;
·
si prevede che i contratti collettivi non possano più derogare al diritto di
precedenza nelle assunzioni per i lavoratori che abbiano svolto periodi (anche
frazionati) di lavoro a termine superiori complessivamente a 6 mesi presso
un’unica azienda;
·
si riconosce il diritto all’assunzione del lavoratore in caso di violazione del diritto di precedenza
richiamato (riconoscendo anche il diritto ai danni patrimoniali e non
patrimoniali eventualmente subiti);
·
si precisano i casi in cui le violazioni della disciplina in materia comportano la trasformazione del rapporto di lavoro a
termine in lavoro a tempo indeterminato;
·
si innalzano
le sanzioni in caso di inosservanza del principio di non discriminazione;
·
si precisano i parametri a cui far riferimento ai
fini di una corretta formazione del
lavoratore;
·
si prevede l’obbligo,
per il datore di lavoro, di comunicare
ogni 12 mesi alle RSA e alle RUS il numero e i motivi del ricorso ai
contratti a termine conclusi, la durata degli stessi, il numero e la qualifica
dei lavoratori interessati;
·
la soppressione
della procedura di impugnazione del
contratto (secondo le modalità previste dall’articolo 6, primo comma, della
L. 604/1966);
·
non si prevede più l’indennità
risarcitoria (compresa tra 2,5 e 12 mensilità) in caso di trasformazione
del rapporto di lavoro;
·
si prevedono specifiche deroghe per l’applicazione
della disciplina in esame alle pubbliche
amministrazioni, precisando l’entità dell’indennità compensativa (pari a 15
mensilità) che spetta al lavoratore come risarcimento per la mancata
trasformazione del contratto ;
· non è prevista
esplicitamente l’esclusione dalla
disciplina in esame per i richiami in servizio del personale volontario del
vigili del fuoco, mentre per il personale artistico e tecnico delle fondazioni
musicali è prevista un’esclusione totale in luogo di quella parziale
(relativamente all’apposizione del termine e alle proroghe e rinnovi)
attualmente prevista. Sulla base della nuova normativa sugli ammortizzatori
sociali, infine, non sono più previste esclusioni per i lavoratori in mobilità.
Lavoro a tempo determinato
Il contratto di lavoro a tempo determinato, attualmente disciplinato dagli articoli da 19 a 29 del D.Lg. 81/2015, è un rapporto di lavoro che si caratterizza per la preventiva determinazione della sua durata, estinguendosi automaticamente allo scadere del termine inizialmente fissato.
In specifici casi il ricorso al lavoro a termine è vietato[19].
L'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato è consentita per una durata non superiore a 36 mesi, derogabile dalla contrattazione collettiva (articolo 19). In generale, quindi, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti (indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro) non può superare i 36 mesi[20]. Qualora tale limite venga superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla data del superamento.
Un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di 12 mesi, può essere stipulato presso la Direzione territoriale del lavoro competente per territorio (in caso di inosservanza della richiamata procedura, nonché di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della stipulazione).
E’ richiesta la forma scritta ai fini della validità dell'apposizione del termine, in mancanza della quale il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato fin dalla data di assunzione.
Il datore di lavoro ha inoltre l’obbligo di informare i lavoratori a tempo determinato, nonché le R.S.A. o la R.S.U. sui i posti vacanti che si rendono disponibili nell'impresa, secondo le modalità definite dai contratti collettivi.
Il termine può essere prorogato, con il consenso del lavoratore,
solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a 36 mesi e,
comunque, per un massimo di 5 volte nell'arco di 36 mesi a prescindere dal
numero dei contratti (articolo 21). Qualora il numero delle proroghe sia
superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla
data di decorrenza della sesta proroga[21]..
Se il lavoratore viene riassunto (sempre a tempo determinato) entro 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 6 mesi (o 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a 6 mesi) il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
Fermi i limiti di durata massima, se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato (o successivamente prorogato) il datore di lavoro ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto (pari al 20% fino ai 10 giorno successivi ed al 40% per ciascun giorno ulteriore) (articolo 22). Se il rapporto di lavoro continua oltre i 30 giorni (in caso di contratto di durata inferiore a 6 mesi) o oltre i 50 giorni negli altri, il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
E’ previsto un limite legale (applicabile in mancanza di specifica contrattazione collettiva) all’entità di lavoratori assunti con contratto a termine; in particolare (salvo diversa disposizione dei contratti collettivi), non possono essere assunti lavoratori a termine in misura superiore al 20% (percentuale da rispettare non in maniera fissa ma rapportandolo alla scadenza dei relativi contratti) del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione[22] (articolo 23). Sono comunque previste specifiche esenzioni al suddetto limite percentuale[23].
In caso di violazione del limite percentuale del 20% ferma restando la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato, per ciascun lavoratore si applica la sanzione amministrativa pari al 20% della retribuzione (per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non sia superiore a uno) o pari al 50% della retribuzione (per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia superiore a uno).
Il lavoratore impiegato a termine presso la stessa azienda che prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento alle mansioni già espletate (articolo 24).
Al lavoratore assunto a termine si applica il principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato (articolo 25).
Ai fini dell'applicazione di qualsiasi disciplina per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro si tiene conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi 2 anni, sulla base della effettiva durata dei rapporti di lavoro (articolo 27).
Il rapporto di lavoro a tempo determinato si estingue con lo scadere del termine previsto, senza che sia necessaria al riguardo alcuna particolare manifestazione di volontà delle parti. Lo scadere del termine comporta la cessazione del rapporto (es. gravidanza).
Il rapporto di lavoro a termine può cessare prima della scadenza del termine per comune volontà delle parti oppure per recesso per giusta causa.
Infine, l'impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, con specifiche modalità, entro 120 giorni dalla cessazione del singolo contratto (articolo 28).
Nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. In presenza di contratti collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità è ridotto alla metà.
Gli articoli 61-70 recano la nuova disciplina
in materia di somministrazione di lavoro subordinato.
L’istituto, attualmente disciplinato dagli articoli da 30 a 40 del D.Lgs. 81/2015, viene in sostanza ricondotto ad un contratto speciale utilizzabile in casi eccezionali come forma di lavoro in luogo del contratto a tempo indeterminato. In relazione a ciò, si prevede in primo luogo l’abolizione della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, l’esclusione dell’utilizzo della somministrazione a tempo determinato da parte delle pubbliche amministrazioni, inoltre si pongono dei vincoli più stringenti in capo al somministratore e all’utilizzatore. Alcuni elementi specifici del contratto, quale la somministrazione irregolare, vengono sostanzialmente modificati, altri (quali la disciplina sulle tutele e diritti – anche sindacali - del somministrato) presentano comunque modifiche rilevanti. Infine, rimangono sostanzialmente inalterate la disciplina previdenziale applicabile e l’apparato sanzionatorio.
Rispetto alla disciplina vigente, le
principali novità sono le seguenti:
· si abroga la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (cd staff leasing);
·
si limita
l’ambito di utilizzo della somministrazione a tempo determinato (che viene ammessa per esigenze di tipo
temporaneo e oggettivo, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro,
nonché sostitutive; per esigenze connesse ad incrementi dell’attività ordinaria
non programmabili e infine per lavori e picchi di attività stagionali, da
individuare questi ultimi con apposito D.M.);
·
ai fini del divieto di ricorrere alla
somministrazione di lavoro in mancanza della valutazione dei rischi in materia
di sicurezza sui luoghi di lavoro, si tiene conto anche della valutazione dei rischi connessi alla
tipologia contrattuale e all’esposizione ai particolari rischi derivanti dalla durata limitata del rapporto di lavoro;
·
tra gli elementi necessari per la validità del contratto,
si individuano le esigenze di tipo
temporaneo e oggettivo a fronte delle quali è consentito il ricorso
all’istituto;
·
si specifica che il trattamento economico e normativo dei lavoratori somministrati
debba essere uguale a quello che
l’utilizzatore dichiara (nel contratto stesso) di applicare ai propri
dipendenti che svolgono le medesime mansioni o comunque di pari livello;
·
si dispone l’obbligo,
per il somministratore, di comunicare
al lavoratore gli elementi fondamentali del contratto, nonché la data di inizio
e la durata prevedibile della missione all’atto della stipulazione del
contratto stesso (o, nel caso di contratto a tempo indeterminato, con un
congruo anticipo rispetto all’invio in missione presso l’utilizzatore);
·
si prevede che i lavoratori in somministrazione vengano computati (a differenza della
normativa vigente, che prevede il computo solamente in materia di sicurezza)
nell’organico dell’utilizzatore (salvo se diversamente disposto), tenendo conto
del numero medio dei lavoratori somministrati (compresi i dirigenti)
nell’ultimo biennio, sulla base dell’effettiva durata dei rapporti lavorativi;
·
nel confermare che nel caso di somministrazione a
tempo determinato si debba seguire la normativa sul contratto a termine, si
prevede espressamente una deroga (oltre ad un richiamo a leggi speciali) in
relazione alla liberatoria operata
dal somministratore mediante i pagamenti effettuati a titolo retributivo o
previdenziale nei confronti dell’utilizzatore);
·
si dispone che il trattamento economico e normativo
del lavoratore debba essere non
inferiore (e non complessivamente inferiore, come attualmente previsto)
rispetto ai dipendenti con pari mansioni;
·
si stabilisce l’obbligo, per l’utilizzatore, di rimborsare al somministratore gli oneri
retributivi e previdenziali da questo effettivamente sostenuti in favore dei
lavoratori;
·
si prevede che l’informazione al lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro possa
essere adempiuta dall’utilizzatore;
·
nel caso in cui il lavoratore somministrato sia
adibito a mansioni superiori, si prevede che il somministratore sia obbligato in solido con l’utilizzatore
(salvo specifica diffida da parte del somministratore);
·
si prevede l’obbligo di informazione ai lavoratori
(da parte dell’utilizzatore) circa i posti
a tempo indeterminato vacanti;
·
sotto il profilo dei diritti sindacali, si
reintroduce diritto di riunione per
i lavoratori somministrati dipendenti di un’unica agenzia per il lavoro
operanti presso più utilizzatori (previsto originariamente dal D.Lgs. 276/2003 e soppresso dal D.Lgs.
81/2015);
·
in caso di somministrazione
irregolare, si prevede la facoltà, per il lavoratore somministrato, di
ricorrere al giudice del lavoro per
chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (a
decorrere dall’inizio della somministrazione) in specifici casi;
·
si prevede l’irregolarità della somministrazione
anche in relazione a specifiche violazioni
della disciplina del contratto a termine;
· si esclude la possibilità di ricorrere
alla somministrazione di lavoro da parte delle pubbliche amministrazioni.
Somministrazione di lavoro subordinato.
Il contratto di somministrazione di lavoro è attualmente disciplinato dagli articoli da 30 a 40 del D.Lgs. 81/2015, che hanno modificato la disciplina contenuta nel D.Lgs. 276/2003 (il quale comunque ancora disciplina la materia relativa al regime autorizzatorio e degli accreditamenti delle agenzie per il lavoro, comprese quelle che svolgono attività di somministrazione, nonché per quanto attiene alle sanzioni). Nella somministrazione di lavoro l'attività lavorativa viene svolta da un dipendente dell'impresa somministratrice nell'interesse di un altro soggetto che ne utilizza la prestazione. In sostanza, il lavoratore è assunto e retribuito dall'impresa somministratrice ma svolge la propria attività sotto la direzione ed il controllo dell'impresa utilizzatrice. I rapporti intercorrenti tra i 3 soggetti sono regolati da 2 distinti contratti (contratto di somministrazione di lavoro tra somministratore e utilizzatore e contratto di lavoro tra somministratore e lavoratore).
La somministrazione di lavoro può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.
Il contratto deve essere stipulato in forma scritta (in mancanza della quale il contratto è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore) e deve contenere specifici elementi (estremi dell'autorizzazione rilasciata al somministratore; numero dei lavoratori da somministrare; indicazione di eventuali rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate; data di inizio e durata prevista del contratto di somministrazione; mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e loro inquadramento; luogo, orario e trattamento economico e normativo dei lavoratori).
La somministrazione è irregolare in caso di violazione dei limiti e delle condizioni previsti dalla normativa, in tal caso il lavoratore può chiedere (anche nei confronti del solo utilizzatore) la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione.
In caso di assunzione a tempo indeterminato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina prevista per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato (ed è determinata l'indennità mensile di disponibilità, prevista comunque anche per la somministrazione a tempo determinato). Inoltre, il numero dei lavoratori somministrati (salvo diverse previsioni nei contratti collettivi stipulati dall'utilizzatore) non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipula del contratto (con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5; particolari procedure sono inoltre previste in caso di inizio attività nel corso dell'anno. Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato.
Nella somministrazione a tempo determinato, il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina del contratto a tempo determinato contenuta nello stesso D.Lgs. 81/2015, per quanto compatibile, ad eccezione della disciplina concernente la durata massima, la sommatoria dei periodi svolti in forza di più contratti a termine, le proroghe ed i rinnovi, il numero complessivo dei contratti e i diritti di precedenza (infatti in tale contratto il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore).
La somministrazione di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall'utilizzatore; in ogni caso, è esclusa l’applicazione di limiti quantitativi per la somministrazione di lavoro a tempo determinato relativamente ai lavoratori in mobilità, ai soggetti disoccupati che percepiscono trattamenti di disoccupazione non agricola da meno sei mesi, ai soggetti percettori di ammortizzatori sociali da almeno sei mesi e ai lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati (di cui al regolamento CE n. 800/2008). Inoltre, tale somministrazione è vietata in talune ipotesi (sostituzione di lavoratori in sciopero, dopo licenziamenti collettivi nei 6 mesi precedenti, in unità produttive con sospensioni/riduzioni di orario, nel caso in cui il datore di lavoro non abbia effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro).
Il lavoratore somministrato non è computato nell'organico dell'utilizzatore ai fini dell'applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, ad eccezione di relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Inoltre, in caso di somministrazione di lavoratori disabili per missioni di durata non inferiore a 12 mesi, il lavoratore somministrato è computato nella quota di riserva di cui all'articolo 3 della L. 68/1999.
L'utilizzatore risponde nei confronti dei terzi dei danni ad essi arrecati dal lavoratore dipendente del somministratore nell'esercizio delle sue mansioni.
Per tutta la durata della missione presso l'utilizzatore, i lavoratori del somministratore hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore. Inoltre, l'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore alla corresponsione ai lavoratori dei trattamenti retributivi ed al versamento dei relativi contributi previdenziali (salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore). I lavoratori somministrati hanno altresì diritto a fruire dei servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell'utilizzatore addetti alla stessa unità produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato alla iscrizione ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una determinata anzianità di servizio.
Il somministratore (o l’utilizzatore, se previsto dal contratto) ha l’obbligo di informare i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive e li forma e addestra all'uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell'attività lavorativa per la quale essi vengono assunti, ai sensi del D.Lgs. 81/2008.
Gli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi ed assistenziali, previsti dalle vigenti disposizioni legislative, sono a carico del somministratore che è inquadrato, ai fini previdenziali, nel settore del terziario.
Si ricorda, infine, che al fine di assicurare per i lavoratori in somministrazione una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell'attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria, è stato istituito il Fondo di solidarietà per i lavoratori in somministrazione (istituito con decreto interministeriale 25 marzo 2016, n. 95274, la cui disciplina è stata successivamente modificata dal decreto interministeriale 17 aprile 2016, n. 89581).
Gli articoli 71-79 recano la nuova
disciplina del lavoro a tempo parziale.
L’istituto, attualmente disciplinato dagli articoli da 4 a 12 del D.Lgs. 81/2015, viene parzialmente modificato. In particolare, si prevede la facoltà del datore di lavoro di richiedere al lavoratore a tempo parziale lo svolgimento di ore di lavoro eccedenti l’orario di lavoro concordato (comunque in misura non superiore al 50% di quest’ultimo) salvo diversa disposizione dei contratti collettivi ad efficacia generale di livello nazionale. Allo stesso tempo, i contratti collettivi ad efficacia generale di livello nazionale possono autorizzare le parti ( in caso di part time a tempo indeterminato) a pattuire per iscritto clausole elastiche che autorizzino il datore di lavoro, in presenza di comprovate esigenze organizzative, o produttive, a fissare unilateralmente, con un preavviso di almeno 15 giorni, modificazioni temporanee della collocazione temporale delle prestazioni lavorative. Infine, si interviene limitatamente su altri aspetti del contratto (contenuti del contratto, trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno e sanzioni), mentre altri aspetti vengono confermati anche nella nuova disciplina (criteri di computo dei lavoratori a tempo parziale, disciplina previdenziale e disciplina dell’istituto nelle pubbliche amministrazioni).
Rispetto alla disciplina vigente, le
principali novità sono le seguenti:
· si specifica il ruolo dei contratti collettivi ad efficacia generale di livello nazionale nei casi di lavoro eccedente, clausole elastiche e trattamento del lavoratore a tempo parziale;
· si sopprime la previsione per cui nel caso in cui l’organizzazione del lavoro sia articolata in turni, l’indicazione delle caratteristiche del lavoro a tempo parziale possa avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite;
· si prevede la facoltà per il datore di lavoro (salvo diverse disposizioni dei contratti nazionali ad efficacia generale) di richiedere (comunque entro i tetti di durata massima dell’orario previsti dal D.Lgs. 66/2003, e cioè 48 ore settimanali medie, nonché dai contratti collettivi) lo svolgimento di ore di lavoro eccedenti l’orario parziale concordato in misura non superiore al 50% di quest’ultimo. In tal caso, le ore eccedenti (che, a differenza della normativa vigente, sono considerate utili ai fini del calcolo degli istituti retributivi indiretti e differiti) devono essere retribuite con una maggiorazione non inferiore al 10% della retribuzione oraria globale di fatto (fino a 40 ore settimanali) e al 15% della retribuzione da 41 a 48 ore (in luogo dell’attuale 15% comprensivo dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti);
· si prevede la facoltà per il lavoratore di rifiutare la suddetta richiesta; in caso di accettazione è previsto (a richiesta) il consolidamento nel proprio orario (in tutto o in parte) delle ore di lavoro eccedenti (fino a 40 ore);
· si prevede, in caso di ore eccedenti la percentuale massima consentita, il diritto di ottenere un’ulteriore maggiorazione del 50% della retribuzione oraria globale di fatto (nonché l’applicazione delle sanzioni previste dal D.Lgs. 66/2003 in caso di violazione dei tetti di durata massima dell’orario);
· si prevede il diritto al rifiuto di svolgere lavoro eccedente (indipendentemente dalle disposizioni dei contratti collettivi) per comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari, di studio o di formazione professionale, e in ogni caso qualora la richiesta del datore implichi lo svolgimento di prestazioni di lavoro in mesi non lavorati in base all’orario concordato (fatte salve disposizioni di miglior favore previste dai contratti nazionali ad efficacia generale). Se non ci sono le richiamate esigenze, il lavoratore può comunque recedere ed ha diritto ad un’indennità che in ogni caso non può essere inferiore a 3 mesi della propria retribuzione;
· si modifica il termine di preavviso (15 giorni in luogo degli attuali 2) entro il quale il datore di lavoro, in presenza di un rapporto di lavoro indeterminato a tempo parziale, può essere autorizzato dai contratti collettivi nazionali (in presenza di esigenze organizzative o produttive) a fissare unilateralmente modificazioni temporanee della distribuzione temporale delle prestazioni (in caso di accettazione il lavoratore ha diritto a specifiche compensazioni individuate dalla contrattazione);
· si prevede che le clausole elastiche siano ammesse solamente in relazione alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa e non più anche in relazione alla variazione in aumento della sua durata;
· si riproporziona il trattamento economico e normativo del lavoratore a tempo parziale in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa solamente nei casi in cui sia opportuno;
· si precisa che il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (o viceversa) non costituisca giustificato motivo sia soggettivo sia oggettivo di licenziamento;
· si prevede che le parti possano concordare per iscritto la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale utilizzando le procedure dell’articolo 2113, ultimo comma, c.c. (che prevede la possibilità di utilizzare le sedi di conciliazione di cui agli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c. in caso di rinunce e transazioni);
· si estende il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (e viceversa) a specifiche figure di lavoratori per i quali attualmente è riconosciuta una priorità nella trasformazione del rapporto di lavoro in seguito a specifica domanda (lavoratori pubblici e privati affetti da patologie oncologiche da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti; lavoratori con familiare affetto dalle medesime patologie; lavoratori che assistono una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa; lavoratori con figlio convivente di età non superiore a 13 anni o con figlio convivente portatore di handicap);
· si dispone il diritto al ripristino del rapporto di lavoro a tempo pieno per il lavoratore che abbia chiesto la trasformazione in luogo del congedo parentale alla scadenza del periodo di congedo;
· si attribuisce il diritto di precedenza nelle assunzioni non solo al lavoratore che abbia trasformato il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, ma anche al lavoratore assunto a tempo parziale dalla costituzione del rapporto di lavoro;
· si precisa che l’ulteriore risarcimento cui ha diritto il lavoratore (in caso di omissione, da parte del datore di lavoro, della sola collocazione temporale dell’orario di lavoro) per il periodo antecedente alla pronuncia giudiziale debba essere pari al 20% della retribuzione stessa (sempre in aggiunta alle prestazioni effettivamente rese);
· si dispone un’ulteriore maggiorazione, pari al 50% della retribuzione oraria globale di fatto (oltre che l’applicazione delle sanzioni previste dal D.Lgs. 66/2003 in caso di violazione dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro) per le ore di lavoro eccedenti la percentuale massima consentita (40 ore settimanali);
· si riconosce al lavoratore a tempo parziale il diritto, a richiesta, al consolidamento nel proprio orario di lavoro (in tutto o in parte) delle ore di lavoro eccedenti l’orario concordato (fino a 40 ore) svolte in via non meramente occasionale. Spetta ai contratti collettivi ad efficacia generale di livello nazionale individuare criteri e modalità per l’esercizio del richiamato diritto.
Lavoro a tempo parziale
Il lavoro a tempo parziale (cd. part-time) è attualmente regolato dagli articoli da 4 a 12 del D:Lgs. 81/2015 (che ha contestualmente abrogato la previgente disciplina contenuta nel D.Lgs. 61/2000), e consiste in un rapporto di lavoro subordinato, a tempo determinato o indeterminato, caratterizzato dallo svolgimento di attività per un orario, stabilito dal contratto individuale di lavoro, inferiore rispetto a quello normale (full-time) previsto per il tempo pieno.
Il contratto di lavoro a tempo parziale deve stipularsi per iscritto ai soli fini della prova (articolo 5 del D.Lgs. 81/2015), e deve esservi indicato puntualmente la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno. Nel caso in cui l'organizzazione del lavoro sia articolata in turni la richiamata indicazione può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.
E’ prevista la facoltà, per il datore di lavoro (nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi) di richiedere al lavoratore (articolo 6 del D.Lgs. 81/2015), entro l’orario normale di lavoro, lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare (cioè il lavoro reso oltre l'orario di lavoro concordato tra le parti nel contratto individuale ed entro il limite del
tempo pieno, che viene retribuito con una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti).
Nel caso in cui nel contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non sia disciplinato il lavoro supplementare, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate. Il lavoratore può rifiutare lo svolgimento del lavoro supplementare se giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale.
E’ possibile, inoltre, lo svolgimento di lavoro straordinario, da intendersi come il lavoro prestato oltre il normale orario di lavoro full-time (applicando la disciplina legale e contrattuale vigente in materia di lavoro straordinario nei rapporti a tempo pieno).
Il D.Lgs. n. 81/2015 ha previsto (così come il D.Lgs. 61/2000) le cd. clausole elastiche, cioè specifici strumenti relativi alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero alla variazione in aumento della durata della prestazione (articolo 6 del D.Lgs. 81/2015). In questi casi, il prestatore di lavoro ha diritto a un preavviso di 2 giorni lavorativi (salvo diverse intese fra le parti) nonché a specifiche compensazioni, nella misura o nelle forme determinate dai contratti collettivi. Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini le clausole elastiche, le stesse possono essere pattuite in forma scritta dalle parti avanti alle commissioni di certificazione (con facoltà, per il lavoratore, di farsi assistere).
Tali clausole elastiche prevedono, a pena di nullità, le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, con preavviso di 2 giorni lavorativi, possa modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata, nonché la misura massima dell'aumento, che non può eccedere il limite del 25% della normale prestazione annua a tempo parziale. Le modifiche dell'orario di lavoro, inoltre, comportano il diritto del lavoratore ad una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti.
E’ altresì prevista la facoltà per determinate categorie di lavoratori (lavoratori affetti da patologie oncologiche o da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, lavoratori studenti) di revocare il consenso prestato alla clausola elastica. Infine, Il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Si ricorda, inoltre (articolo 10 del D.Lgs. 81/2015) che lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi, comporta il diritto del lavoratore, (oltre alla retribuzione dovuta) ad un'ulteriore somma a titolo di risarcimento danni.
Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 81/2015, il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento. Oltre a ciò, il lavoratore a tempo parziale ha i medesimi diritti del lavoratore a tempo pieno comparabile ed il suo trattamento economico e normativo deve essere riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa ridotta. Spetta alla contrattazione collettiva la facoltà di rimodulare la durata del periodo di prova, del periodo di preavviso in caso di licenziamento o dimissioni e quella del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio in relazione all'articolazione dell'orario di lavoro.
Su accordo delle parti (risultante da atto scritto), è ammessa, ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs. 81/2015, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (con contestuale informazione da parte del datore di lavoro al personale a tempo pieno occupato in unità lavorative nello stesso ambito comunale). Non costituisce giustificato motivo di licenziamento il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa.
La possibilità di trasformazione riguarda anche i lavoratori (pubblici e privati) affetti da patologie oncologiche nonché da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa accertata mediante apposite procedure (si ricorda, inoltre, che a richiesta del lavoratore il rapporto di lavoro a tempo parziale può essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno). Allo stesso tempo, in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice (nonché nel caso in cui il lavoratore o la lavoratrice assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa con connotazione di gravità ai sensi della L. 104/1992) è riconosciuta la priorità nella richiamata trasformazione. Analoga priorità è riconosciuta nel caso in cui la richiesta pervenga da lavoratore o lavoratrice con figlio convivente di età non superiore a 13 anni o con figlio convivente portatore di handicap.
Si ricorda, inoltre, che il lavoratore può chiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale od entro i limiti del congedo ancora spettante (ai sensi del D.Lgs. 151/2015) , la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione d'orario non superiore al 50%. In tal caso, il datore di lavoro è obbligato alla trasformazione entro 15 giorni dalla richiesta.
Ai senso dell’articolo 9 del D.Lgs. 81/2015, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione all'orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine, l'arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno.
L’articolo 10 del D.Lgs. 81/2015 individua le sanzioni da applicare in caso di comportamenti non congrui. In primo luogo, nel caso in cui ci sia un difetto di prova in ordine alla stipulazione del contratto a tempo parziale, su domanda del lavoratore è dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno (fermo restando, per il periodo antecedente alla data della pronuncia giudiziale, il diritto alla retribuzione ed al versamento dei contributi previdenziali dovuti per le prestazioni effettivamente rese). Inoltre, qualora nel contratto scritto non sia stata determinata la durata della prestazione lavorativa, su domanda del lavoratore è dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla pronuncia. Qualora l'omissione riguardi la sola collocazione temporale dell'orario, il giudice determina le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale (tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro). Per il periodo antecedente alla pronuncia, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta per le prestazioni effettivamente rese, a un'ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno. Infine, lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti legali o contrattuali comporta il diritto del lavoratore, in aggiunta alla retribuzione dovuta, a un'ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno. Ai fini dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la retribuzione imponibile è costituita dalla retribuzione tabellare prevista dalla contrattazione collettiva per il corrispondente rapporto di lavoro a tempo pieno. La retribuzione tabellare si determina su base oraria in relazione alla durata normale annua della prestazione di lavoro espressa in ore. In particolare, la retribuzione oraria tabellare si ottiene dividendo l'importo della retribuzione annua tabellare prevista dalla contrattazione collettiva per le ore annue stabilite dalla stessa contrattazione per i lavoratori full-time.
In linea generale, ai lavoratori a tempo parziale si applicano gli stessi contributi previdenziali e premi assicurativi previsti per la generalità dei lavoratori dipendenti a tempo pieno. Esistono tuttavia, delle particolarità che riguardano i criteri di determinazione del minimale contributivo e la retribuzione imponibile agli effetti del premio INAIL (articolo 11 del D.Lgs. 81/2015). In particolare, la retribuzione minima oraria, da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali dovuti si determina rapportando alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale il minimale giornaliero di cui all'articolo 7 del D.L. 463/1983 (ottenuto rapportando alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale il minimale giornaliero previsto per i lavoratori a tempo pieno e dividendo l'importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto dal CCNL di categoria per i lavoratori a tempo pieno), e dividendo l'importo ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria per i lavoratori a tempo pieno.
Ai lavoratori occupati a tempo parziale spettano, inoltre, gli assegni familiari nell'intera misura settimanale (6 assegni giornalieri) qualora vengano prestate almeno 24 ore di lavoro nel corso della settimana. Se il lavoratore presta la propria attività presso diversi datori di lavoro, ai fini del raggiungimento del limite minimo delle 24 ore, si cumulano le ore effettuate nei diversi rapporti di lavoro. Se tale limite minimo non viene raggiunto spettano al lavoratore a tempo parziale tanti assegni giornalieri quante sono le giornate di lavoro effettivamente prestate, qualunque sia il numero delle ore lavorate nella giornata. Nell'ipotesi in cui non sia possibile individuare l'attività principale, gli assegni dovranno essere pagati dalla competente sede I.N.P.S., su richiesta del lavoratore.
Ai fini dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la retribuzione imponibile è costituita dalla retribuzione tabellare prevista dalla contrattazione collettiva per il corrispondente rapporto di lavoro a tempo pieno. La retribuzione tabellare si determina su base oraria in relazione alla durata normale annua della prestazione di lavoro espressa in ore (più specificamente, la retribuzione oraria tabellare si ottiene dividendo l'importo della retribuzione annua tabellare prevista dalla contrattazione collettiva per le ore annue stabilite dalla stessa contrattazione per i lavoratori full-time). Infine, in caso di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale (e viceversa) ai fini della determinazione dell'ammontare del trattamento di pensione si computa per intero l'anzianità relativa ai periodi di lavoro a tempo pieno e, in proporzione all'orario effettivamente svolto, l'anzianità inerente ai periodi di lavoro a tempo parziale.
Infine, ai sensi dell’articolo 12 del D.Lgs. 81/2015, si prevede l’applicazione (se non disposto diversamente), delle precedenti disposizioni anche ai lavoratori delle amministrazioni pubbliche (ad esclusione di quelle relative alle sanzioni, al lavoro supplementare ed alle clausole elastiche).
Merita ricordare, infine, che l’articolo 1, comma 284, della L. 208/2015 ha previsto, per i lavoratori dipendenti del settore privato iscritti all'A.G.O. (ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima) con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato la facoltà di ridurre l'orario del rapporto di lavoro in misura compresa tra il 40% e il 60%, ottenendo mensilmente dal datore di lavoro una somma corrispondente alla contribuzione previdenziale a fini pensionistici a carico del datore di lavoro relativa alla prestazione lavorativa non effettuata. Tale beneficio (cd. part-time agevolato) può essere fruito dai lavoratori che maturino entro il 31 dicembre 2018 il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia, e a condizione di avere maturato i requisiti minimi di contribuzione per il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia, d'intesa con il datore di lavoro, per un periodo non superiore al periodo intercorrente tra la data di accesso al beneficio e la data di maturazione del requisito anagrafico previsto (pari, per il 2017, a 66 anni e 7 mesi). Tale importo non concorre alla formazione del reddito da lavoro dipendente e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Per i periodi di riduzione della prestazione lavorativa è riconosciuta la contribuzione figurativa commisurata alla retribuzione corrispondente alla prestazione lavorativa non effettuata. Il beneficio è concesso a domanda e nei limiti delle risorse previste (limite massimo di 60 milioni di euro per il 2016, 120 milioni di euro per il 2017 e 60 milioni di euro per il 2018), previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro. Con il D.M. 7 aprile 2016 sono state disciplinate le modalità di riconoscimento delle agevolazioni previste per i richiamati lavoratori.
Gli articoli 80 e 81 dettano una nuova
disciplina del lavoro subordinato
occasionale (cd. voucher).
Tali disposizioni,
in particolare, reintroducono sostanziali limitazioni
all’utilizzo del lavoro occasionale, che viene definito espressamente come
“subordinato”.
A fronte di ciò, l’articolo
97, comma 1, lettera c), del
provvedimento, prevede l’abrogazione della normativa vigente in materia,
contenuta agli articoli 48-50, del decreto legislativo n.81/2015.
Il contratto di
lavoro subordinato occasionale può avere ad oggetto unicamente prestazioni di
natura meramente occasionale o saltuaria, ammissibili solo in determinati
ambiti di attività e solo se svolte da determinati soggetti.
Per quanto
riguarda gli ambiti di attività,
deve trattarsi di:
· piccoli lavori di
tipo domestico familiare, compresi l'insegnamento privato supplementare;
·
piccoli lavori di giardinaggio;
·
assistenza domiciliare occasionale ai bambini e
alle persone anziane, ammalate o con handicap;
· realizzazione da
parte di privati di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli
di piccola entità.
Possono svolgere
lavoro subordinato occasionale solo i seguenti soggetti:
· studenti;
·
inoccupati;
·
pensionati;
· disoccupati non
percettori di forme previdenziali obbligatorie di integrazione al reddito o di
trattamenti di disoccupazione, anche se cittadini di Stati non appartenenti
all'Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia nei sei mesi successivi
alla perdita del lavoro.
Il singolo
lavoratore può essere occupato presso lo stesso datore di lavoro, in virtù di
uno o più contratti di lavoro subordinato occasionale, per un periodo di tempo
complessivamente non superiore a 40
giorni nel corso dell'anno solare,
ed i relativi compensi non possono
essere superiori a 2.500 euro.
Al fine di ridurre la possibilità di abusi e di
garantire la piena tracciabilità dei
buoni, si definisce un nuovo sistema di acquisto e remunerazione delle
prestazioni, in base al quale:
· i soggetti
interessati a svolgere prestazioni di lavoro subordinato occasionale comunicano
la loro disponibilità ai servizi per l'impiego nell'ambito territoriale di
riferimento o ai soggetti privati accreditati; conseguentemente ricevono, a
proprie spese, una specifica tessera magnetica, dotata di un codice PIN, e
vengono iscritti in una posizione previdenziale e assicurativa presso l'INPS e
l’INAIL;
·
coloro che intendono ricorrere a prestazioni di
lavoro subordinato occasionale devono acquistare presso le rivendite
autorizzate una o più schede, dotate di un codice a barre di riferimento,
fornendo i propri dati anagrafici ed il proprio codice fiscale; ogni scheda ha
un valore nominale di 10 euro (rivalutato annualmente) e corrisponde al valore
di un'ora lavorativa. Il datore di lavoro consegna al lavoratore, a titolo di
compenso dovuto per la prestazione effettuata, un numero di schede
corrispondente al numero di ore lavorate;
·
le rivendite autorizzate, all'atto della
presentazione delle schede per l'incasso, le imputano al lavoratore tramite la
sua tessera magnetica ed il relativo codice PIN, e gli corrispondono, per
ciascuna di esse, la somma di euro 7,50, versando contemporaneamente per via
elettronica all'INPS, a titolo di contributi previdenziali destinati al Fondo
pensioni lavoratori dipendenti, la somma di euro 1,30, e all'INAIL, a titolo di
contributi per l'assicurazione contro gli infortuni, la somma di euro 0,70.
Esse trattengono, inoltre, a titolo di rimborso spese per il servizio prestato,
l'importo di euro 0,50;
·
i lavoratori subordinati occasionali non sono
computati a fini statistici nelle quote degli occupati;
·
entro sessanta giorni dalla data di entrata in
vigore della legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individua,
con apposito decreto, il soggetto concessionario abilitato all'istituzione e
alla gestione delle schede e i soggetti autorizzati alla loro vendita e
pagamento; con lo stesso decreto il Ministro dispone le modalità di preventiva
comunicazione telefonica o elettronica all'INPS, da parte di ciascun datore di
lavoro che intenda ricorrere a prestazioni di lavoro subordinato occasionale,
della decorrenza e della presumibile durata del singolo contratto, nonché del
luogo in cui verranno effettuate le prestazioni;
· il lavoratore può
fare annualmente istanza all'INPS affinché i contributi versati siano
accreditati presso un altro Fondo gestito dallo stesso Istituto.
Le principali novità rispetto alla normativa
vigente sono le seguenti:
· si qualifica
espressamente come “subordinato” il
lavoro accessorio;
·
si prevede che prestazioni di lavoro accessorio
possano essere svolte solo da determinati
soggetti e in determinati ambiti;
·
non viene previsto un regime speciale per il settore agricolo;
·
viene introdotto, per ciascun lavoratore, un limite
di 40 giorni annuali di lavoro
accessorio prestate in favore di uno stesso committente;
·
per quanto riguarda i tetti monetari, in relazione a ciascun committente si innalza il
limite (da 2.000) a 2.500 euro e non si prevede un limite riferito alla
totalità dei committenti (attualmente pari a 7.000 euro, ridotto a 3.000 euro
per i percettori di strumenti di sostegno al reddito);
·
si definisce un nuovo sistema di acquisto e remunerazione delle prestazioni, al
fine di ridurre la possibilità di abusi e di garantire la piena tracciabilità
dei buoni;
·
i lavoratori subordinati occasionali non sono
computati a fini statistici nelle
quote degli occupati;
·
i lavoratori possono fare annualmente istanza
all’INPS per accreditare i contributi presso un altro Fondo gestito dall’INPS
medesimo;
·
non si prevede una specifica sanzione per la
violazione delle disposizioni sull’utilizzo del lavoro accessorio[24].
Lavoro accessorio: normativa vigente
La disciplina del lavoro accessorio è contenuta negli articoli
da 48 a 50 del D.Lgs. 81/2015 (attuativo della
legge delega in materia di lavoro 183/2014, cd. Jobs act), che sostituiscono gli
articoli da 70 a 73 del D.Lgs. n. 276/2003.
Tra le modifiche di maggior rilievo introdotte dal richiamato decreto
viene in considerazione l'innalzamento da 5.000 euro a 7.000 euro
(annualmente rivalutati) nel corso di un anno civile e con riferimento alla
totalità dei committenti, del limite massimo entro cui deve
rientrare la retribuzione perché la prestazione possa configurarsi come lavoro
accessorio. Fermo restando il suddetto limite di 7.000 euro, nei confronti dei committenti
imprenditori o professionisti le attività lavorative possono essere svolte
a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000
euro, rivalutati annualmente. Tale previsione si applica anche al settore
agricolo, con rifermento a specifiche attività.
Il limite è invece pari a 3.000 euro di compenso per anno
civile (anch'essi oggetto di rivalutazione annua) per i percettori di
prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, che possono
rendere prestazioni di lavoro accessorio nell'ambito di qualsiasi settore
produttivo, compresi gli enti locali. L'INPS provvede a sottrarre dalla
contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di
sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di
lavoro accessorio.
Per quanto concerne il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da
parte di un committente pubblico, questo è consentito nel rispetto dei vincoli
previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di
personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno.
Vengono inoltre introdotti il divieto di ricorrere a prestazioni di
lavoro accessorio per l'esecuzione di appalti di opere o servizi (ad
eccezione di specifiche ipotesi individuate con DM da adottare entro sei mesi
dall'entrata in vigore del decreto in esame) e l'obbligo, per gli
imprenditori e i professionisti, di comunicare, prima dell'inizio della
prestazione, alla Direzione territoriale del lavoro competente, con modalità
telematiche (anche attraverso sms o posta elettronica), i dati anagrafici e il
codice fiscale del lavoratore, nonché il luogo della prestazione con
riferimento ad un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi.
In materia di buoni orari, la nuova disciplina dispone che
questi possono essere acquistati da committenti imprenditori o professionisti,
esclusivamente attraverso modalità telematiche, e da committenti non
imprenditori o non professionisti, anche presso le rivendite autorizzate. In
attesa dell'emanazione di un apposito DM per la determinazione del valore
nominale dei buoni orari, esso resta fissato in 10 euro (mentre
nel settore agricolo è pari all'importo della retribuzione oraria delle
prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo
stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale).
Per quanto riguarda la tracciabilità dei voucher, il D.Lgs. 185/2016 (primo decreto correttivo) dispone che i
committenti imprenditori non agricoli o professionisti che ricorrono a
prestazioni di lavoro accessorio sono tenuti a darne comunicazione
all'Ispettorato nazionale almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione
e, indicando non solo i dati anagrafici o il codice fiscale del
lavoratore, ma anche il giorno e l'ora di inizio e di fine della prestazione (i
committenti imprenditori agricoli sono tenuti a comunicare, nello stesso
termine e con le stesse modalità, i dati anagrafici o il codice fiscale del
lavoratore, il luogo e la durata della prestazione con riferimento ad un
arco temporale non superiore a 3 giorni).
Per approfondimenti circa l'utilizzo del lavoro accessorio, si veda
l'apposita sezione dell'INPS (Osservatorio sul lavoro accessorio).
L’articolo 82 interviene sull’orario di lavoro, al fine di rafforzare
il ruolo della contrattazione collettiva
di livello nazionale e di stabilire precisi limiti massimi giornalieri e settimanali.
In particolare,
attraverso la modifica dell’articolo 4 del decreto legislativo n.66 del 2003,
si prevede che la durata massima
giornaliera dell'orario di lavoro, comprese le ore di lavoro straordinario,
è fissata dai contratti collettivi ad efficacia generale di livello nazionale,
in misura comunque non superiore alle 10 ore, ovvero alle 13 ore per i
dirigenti e per i lavoratori addetti alle occupazioni che richiedono un lavoro
discontinuo o di semplice attesa o custodia. I contratti possono prevedere temporanee
deroghe a questi limiti in presenza di specifiche esigenze organizzative,
produttive e di sicurezza di particolare importanza, tenuto conto
dell'interesse dell'impresa o dei terzi, sempre assicurando il rispetto delle
esigenze di salute dei lavoratori. La violazione di tali limiti è punita con
l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da 1.549 euro a 4.131 euro.
I contratti
collettivi di lavoro ad efficacia generale di livello nazionale stabiliscono,
inoltre, la durata massima settimanale
dell'orario di lavoro, la cui media, per ogni periodo di sette giorni, non può
in ogni caso superare le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro
straordinario, calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro
mesi (elevabile fino a sei mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o
inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti
collettivi).
L’articolo 83 detta una nuova disciplina
delle conseguenze del licenziamento
individuale illegittimo, sostituendo integralmente l’articolo 18 della
legge n.300 del 1970 (Statuto dei lavoratori).
La nuova
disciplina prevede, in particolare:
· l’obbligo per il
giudice di applicare la sanzione della reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro in tutti i casi di licenziamenti
disciplinari, discriminatori, inefficaci o nulli (in quanto adottati in
violazione di specifiche norme di legge), senza alcune distinzione in relazione
alle dimensioni aziendali (quindi anche nelle aziende sotto i 15 dipendenti);
in tali casi, inoltre, il giudice condanna il datore di lavoro anche al
risarcimento del danno (per un ammontare non inferiore a 5 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto);
·
la possibilità per il giudice di scegliere tra le
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro o la condanna al pagamento di una somma di denaro (da 5 a 15 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto), nelle aziende fino a 5 dipendenti, in due sole ipotesi: a) fatto di particolare gravità commesso dal lavoratore; b) vizio solo formale di un licenziamento
disciplinare (altrimenti) legittimo;
· la possibilità per
il giudice di scegliere (motivando espressamente) tra la reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro o la condanna al
pagamento di una somma di denaro (da 12 a 48 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, ridotte da 6 a 36 nel caso di aziende fino a 10
dipendenti), nel caso di licenziamento
economico illegittimo (al di fuori del caso in cui sia accertata
l’insussistenza delle ragioni poste a base del licenziamento, a fronte delle
quali c’è sempre reintegrazione) o nel caso in cui il datore di lavoro dimostri
di non poter utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti o inferiori
Licenziamenti individuali
In linea generale, si distinguono tre tipologie di licenziamento
illegittimo: il licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o per
mancanza di giustificato motivo “soggettivo” (c.d. licenziamento disciplinare)
e per mancanza di giustificato motivo “oggettivo” (c.d. licenziamento per
motivi economici).
In materia, tuttavia, bisogna distinguere tra la disciplina vigente per
le assunzioni decorrenti dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 (attuativo della legge delega in materia di
lavoro 183/2014, cd. Jobs act) conseguente all’introduzione del contratto a
tutele crescenti, e quella applicabile alle assunzioni già effettuate prima di
tale data.
Lavoratori
già assunti al 6 marzo 2015: normativa vigente
Nel caso di licenziamento
illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo “soggettivo”,
la legge 92/2012 (legge Fornero) ha introdotto una distinzione tra:
• mancanza
di giusta causa o di giustificato motivo connessi a insussistenza del fatto
contestato ovvero a fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione
conservativa sulla base delle previsioni dei contratti o dei codici
disciplinari: in questi casi è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro
(tutela reale) e il giudice riconosce un’indennità risarcitoria pari a un
massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
• mancanza
di giusta causa o di giustificato motivo connessi a tutte le restanti ipotesi:
in questi casi non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela
reale) e il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro, riconosce
un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità
dell’ultima retribuzione globale (in relazione all’anzianità del lavoratore e
tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività
economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo).
Nel caso di licenziamento
illegittimo per mancanza di giustificato motivo “oggettivo”, per effetto
della legge n.92/2012 (legge Fornero) non trova più applicazione la
reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (e il giudice riconosce
un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità
dell’ultima retribuzione globale; tuttavia, il giudice, nel caso in cui accerti
la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustifico motivo oggettivo, può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro
(tutela reale) e riconoscere un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Lavoratori
assunti dal 7 marzo 2015: normativa vigente
Il richiamato D.Lgs. 23/2015 disciplina le
conseguenze dei licenziamenti
illegittimi, individuali e collettivi, per i lavoratori assunti a tempo
indeterminato successivamente alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015),
eliminando ogni possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro in caso di
licenziamenti economici e circoscrivendola nel caso di licenziamenti
disciplinari. In quest'ultimo caso la reintegrazione del lavoratore sarà
possibile solo nel caso di insussistenza del fatto materiale, direttamente
dimostrata in giudizio.
Licenziamento
discriminatorio
Il D.Lgs. 23/2015 non modifica sostanzialmente
la disciplina recata dall'articolo 18, commi 1-3, della legge 300/1970, che
prevede la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) del lavoratore
illegittimamente licenziato, il risarcimento del danno (minimo 5 mensilità
della retribuzione globale di fatto) e, fermo restando il diritto al
risarcimento del danno, la facoltà (cd opting out) del
lavoratore di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della
reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità
dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo o
giusta causa (cd licenziamento disciplinare)
La tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) viene limitata alle
sole ipotesi in cui sia dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto
materiale contestato al lavoratore (rispetto alla quale resta estranea ogni
valutazione circa la sproporzione del licenziamento) e il datore di lavoro è
condannato al pagamento di un'indennità risarcitoria che non può essere
superiore a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Nei casi in
cui non si applica la tutela reale, al lavoratore viene corrisposta
un'indennità crescente con l'anzianità da minimo 4 a massimo 24 mensilità
(tutela obbligatoria).
Anche nel licenziamento disciplinare è riconosciuta al lavoratore la cd opting out (vedi supra).
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
(cd. licenziamento economico)
Non è prevista la tutela reale e, in caso di licenziamento illegittimo,
il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e
condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non inferiore a 4 e non
superiore a 24 mensilità.
L’articolo 84 modifica la procedura
obbligatoria che i datori di lavoro devono seguire per procedere a
licenziamenti individuali per motivi economici, come definita dall’articolo 1,
comma 40, della legge n. 92/2012 (cd. legge Fornero).
In particolare,
rispetto alla normativa vigente si prevedono le seguenti modifiche:
· si prevede che la
procedura sia obbligatoria per tutti i datori di lavoro (e non solo per quelli
con più di 15 dipendenti, come attualmente previsto);
·
si prevede che la comunicazione relativa alla
volontà del datore di lavoro di procedere al licenziamento debba essere
comunicata preventivamente, per iscritto, alla RUS o alla RSA;
·
si rafforzano gli obblighi di motivazione del
licenziamento da indicare nella comunicazione del datore di lavoro;
· si prevede un
maggiore coinvolgimento delle rappresentanze sindacali nella fase successiva
alla comunicazione, al fine di esaminare eventuali soluzioni alternative al
licenziamento o percorsi di riqualificazione e ricollocazione del lavoratore.
Gli articoli 85, 86 e 87 dettano una nuova
disciplina del licenziamento collettivo
illegittimo, modificando gli articoli 4, 5 e 24, della legge n.223 del
1991.
La nuova
disciplina prevede, in particolare:
· che la procedura
di licenziamento collettivo si applichi nelle imprese con più di 10 dipendenti (nella normativa vigente il limite
è di 15 dipendenti);
·
che la comunicazione preventiva (con cui l’azienda
manifesta l’intenzione di avviare la procedura di licenziamento collettivo) sia
oggetto di un esame congiunto tra le
parti (da concludersi entro 45 giorni),
allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare
l'eccedenza del personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale
personale, o di una sua parte, nell'ambito della stessa impresa, anche mediante
contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro;
·
che qualora non sia stato raggiunto l’accordo, il
direttore della DTL convochi le parti
al fine di un ulteriore esame della questione, anche formulando proposte per la
realizzazione di un accordo (tale fase può durare al massimo 30 giorni);
·
che ove non sia possibile evitare la riduzione di
personale, è esaminata la possibilità di ricorrere a misure sociali di
accompagnamento intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la
riconversione dei lavoratori licenziati, enucleate dall'impresa in un apposito piano sociale, che essa è tenuta a
rispettare;
·
la possibilità per il giudice di disporre la reintegrazione dei lavoratori nel posto di
lavoro nel caso di violazione delle norme sostanziali e procedurali che
regolano la disciplina di licenziamento collettivo (la reintegra è attualmente
prevista solo nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare o di licenziamento orale);
·
il diritto per il lavoratore di ottenere ogni informazione relativa
alla procedura di licenziamento collettivo;
· l’obbligo per le
imprese che delocalizzano all’estero nell’ambito di procedure di licenziamento
collettivo, di restituire integralmente ogni sussidio pubblico goduto negli
ultimi 5 anni.
Licenziamento
collettivo illegittimo: normativa vigente
L’istituto del licenziamento collettivo è
disciplinato principalmente dall’articolo 24 della L. 23 luglio 1991, n. 223.
Le cause che giustificano il ricorso a tale istituto risiedono nella riduzione
o trasformazione dell’attività o del lavoro e nella cessazione dell’attività.
L’ipotesi di licenziamento collettivo si
verifica nel caso in cui le imprese che occupano più di 15 dipendenti, in
conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro,
intendono effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco temporale di 120 giorni
nell’unità produttiva oppure in più unità produttive dislocate nella stessa
provincia.
La normativa si applica a tutti i
licenziamenti che, nel medesimo arco temporale e nello stesso territorio siano
riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione.
Qualora sia assente il requisito quantitativo
o quello temporale, si applica invece la disciplina sui licenziamenti
individuali per giustificato motivo oggettivo.
Si ricorda che la procedura stabilita per il
licenziamento collettivo è applicata anche alle aziende in CIGS, qualora nel
corso o al termine del programma si verifichi la necessità di procedere anche
ad un solo licenziamento.
La procedura è contenuta nell’articolo 4
della L. 223/1991, che disciplina la procedura per la dichiarazione di mobilità
(identica in caso di licenziamenti collettivi). In particolare, tale procedura
può essere avviata dall'impresa che sia stata ammessa alla CIGS, qualora nel
corso di attuazione del programma - che l'impresa stessa intende attuare con
riferimento anche alle eventuali misure previste per fronteggiare le
conseguenze sul piano sociale - ritenga di non essere in grado di garantire il
reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure
alternative (comma 1). La procedura (commi 2-13) consta in una fase cd.
sindacale e in una fase cd. amministrativa, nel corso delle quali il datore di
lavoro ed i sindacati tentano di trovare soluzioni alternative al licenziamento.
La disciplina delle conseguenze del
licenziamento collettivo illegittimo è stata sostanzialmente modificata
dall’articolo 10 del D.Lgs. 23/2015 (attuativo della
legge delega in materia di lavoro 183/2014, cd. Jobs act),
il quale riduce l’area della tutela reale (ossia della reintegrazione nel posto
di lavoro) e, contemporaneamente, amplia quella della tutela obbligatoria
(indennità). In particolare, la disposizione prevede l’applicazione della
tutela reale nel solo caso in cui il licenziamento sia stato intimato senza
l’osservanza della forma scritta e l’applicazione della tutela obbligatoria nel
caso di violazione delle disposizioni relative alla procedura sindacale e ai
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Si ricorda che la suddetta disciplina
si applica ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore
del richiamato D.Lgs. 23/2015 che ha introdotto il
cd. contratto a tutele crescenti.
L’articolo 88 disciplina il divieto di interposizione illecita di manodopera
nell’ambito degli appalti. In particolare, si prevede che, salvo il ricorso
alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, è vietato il diretto
utilizzo di lavoratori dipendenti di soggetti terzi, mediante la stipulazione
di contratti di appalto, di subappalto, accordi di distacco o con l'utilizzo di
qualsiasi altra figura contrattuale o accordo commerciale. L'utilizzazione
diretta dei lavoratori si verifica quando il soggetto interponente esercita un
ruolo esclusivo o prevalente con riguardo alla organizzazione e direzione del
prestatore o dei prestatori di lavoro. Si ritiene in ogni caso prevalente il
ruolo dell'interponente quando l'appaltatore o l'interposto si limiti a svolgere
le attività amministrative ed operative necessarie alla messa a disposizione
del personale, ivi compresa l'eventuale organizzazione in turni e la
sostituzione di personale assente.
In caso di
utilizzazione diretta illecita, il lavoratore interessato può chiedere
l'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione.
L’articolo 89 introduce norme sul
trattamento economico dei dipendenti negli appalti in situazione di dipendenza
economica, prevedendo che ogni qualvolta un'impresa affidi ad altra impresa la
realizzazione di una fase o porzione del proprio ciclo produttivo, mediante un
contratto di appalto o di altro tipo, in base al quale l'affidatario operi in
condizione di dipendenza economica nei confronti dell'affidante, questi ultimi
sono obbligati solidalmente a riconoscere ai lavoratori dell'affidatario
trattamenti economici e normativi non inferiori a quelli previsti dai contratti
collettivi ad efficacia generale applicabili all'affidante. Si considera
operante in condizione di dipendenza l'affidatario che esegue a favore
dell'affidante, anche con più relazioni contrattuali distinte nel tempo,
un'opera o servizio di durata complessiva pari o superiore a sei mesi nell'arco
di un anno e il cui corrispettivo costituisca almeno il 75 per cento dei
corrispettivi complessivi percepiti nell'anno dall'affidatario.
L’articolo 90 detta norma in materia di responsabilità solidale negli appalti.
La disposizione,
in particolare, è volta ad estendere la responsabilità solidale tra il
committente (imprenditore o datore di lavoro) e l'appaltatore (nonché ciascuno
degli eventuali ulteriori subappaltatori). Gli elementi di maggiore novità
rispetto alla normativa vigente[25], riguardano:
· l’estensione
dell’area della responsabilità solidale, al fine di ricomprendervi anche i
contributi agli enti bilaterali (ivi compresa la Cassa edile), ai fondi
sanitari e ai fondi di previdenza complementare dovuti in relazione al periodo
di esecuzione del contratto di appalto;
·
l’estensione della responsabilità solidale a tutti
i casi nei quali i lavoratori sono impiegati nello svolgimento di un’opera o di
un servizio, con organizzazione dei mezzi e con gestione a rischio dell’impresa
obbligata al loro compimento, indipendentemente dalla qualificazione data dalle
parti alla relazione contrattuale tra di esse instaurata, e comunque in ogni
caso nel quale i lavoratori sono utilizzati indirettamente e non
occasionalmente per la realizzazione di una fase o porzione del ciclo
produttivo di un’impresa terza, anche di carattere accessorio o riguardante
funzioni logistiche e di trasporto;
·
l’estensione della responsabilità solidale ai
rapporti di affiliazione commerciale, a favore dei lavoratori impiegati
dall’affiliato;
·
l’applicazione della responsabilità solidale a
beneficio dei lavoratori utilizzati non occasionalmente per la realizzazione
dell’opera o del servizio indipendentemente dalla qualificazione del rapporto
di lavoro come subordinato, di collaborazione autonoma coordinata e
continuativa ovvero autonomo o professionale direttamente connessa all’oggetto
dell’opera o del servizio;
· la previsione che
i contratti collettivi di lavoro ad efficacia generale di livello nazionale,
del settore delle imprese appaltatrici, possono individuare metodi e procedure
di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti. Essi
possono altresì disporre che non si applichi la disposizione sulla
responsabilità solidale a condizione che istituiscano apposite forme di
garanzia (ossia forme alternative assicurative o mutualistiche in grado di
garantire effettivamente ai lavoratori impiegati negli appalti la soddisfazione
dei diritti ad essi spettanti, con diritto di rivalsa nei confronti del datore di
lavoro inadempiente); in tal caso la raccolta dei premi e contributi è affidata
all’INPS, sulla base di apposite convenzioni; resta in ogni caso ferma la
possibilità, nel caso in cui tali forme di garanzia non ristorino pienamente i
diritti dei lavoratori, di far valere la responsabilità solidale secondo la
disciplina generale.
Si fa presente che è
all’esame, in sede referente, della XI Commissione (Lavoro) della Camera dei
deputati, la proposta di legge A.C. 4211 (Damiano ed altri) che interviene anch’essa
sulla disciplina vigente in materia di responsabilità solidale tra committente
e appaltatore.
Responsabilità solidale negli appalti:
normativa vigente
Il contratto di appalto e servizi
prevede una speciale forma di garanzia per i diritti dei lavoratori subordinati
impiegati, disciplinata in generale dall’articolo
1676 c.c. e dal D.Lgs. 276/2003.
In particolare, l’articolo 29, comma 2, del D.Lgs. 276/2003,
prevede, quale forma di tutela dei lavoratori (salvo diversa disposizione della
contrattazione collettiva, che può individuare metodi e procedure di controllo
e verifica della regolarità complessiva degli appalti) l’obbligazione solidale tra il committente (imprenditore o datore di
lavoro) e l'appaltatore (nonché ciascuno degli eventuali ulteriori
subappaltatori), entro il limite di due
anni dalla cessazione dell'appalto[26], in relazione
ai trattamenti retributivi (comprensivi delle quote di trattamento di fine
rapporto), ai contributi previdenziali e ai premi assicurativi dovuti in
relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto. Per le eventuali
sanzioni civili risponde invece solo il responsabile dell'inadempimento.
Il committente è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente
all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il
committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa,
il beneficio della preventiva escussione
del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori. In tal
caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma
l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente
imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli
eventuali subappaltatori.
Il committente che ha eseguito il
pagamento è tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto
d’imposta (ai sensi del D.P.R. 600/1973), e può esercitare l'azione di regresso
nei confronti del coobbligato secondo le regole generali.
Nella disciplina della materia sono
poi intervenute una serie di altre norme,
non direttamente modificative dell’articolo 29, comma 2, del D.Lgs. 276/2003.
In particolare:
- l’articolo 9, comma 1, del
D.L. 76/2013, che ha esteso l’ambito di applicazione della responsabilità solidale, in relazione ai compensi e agli obblighi di
natura previdenziale ed assicurativa, nei confronti dei lavoratori titolari di
contratto di lavoro autonomo[27]. Oltre a ciò, la norma ha
escluso dall'ambito della disciplina richiamata i contratti di appalto
stipulati dalle pubbliche
amministrazioni (che verosimilmente seguono le disposizioni del D.Lgs. 163/2006) ed ha specificato che le eventuali clausole derogatorie contenute nei
contratti collettivi abbiano effetto
esclusivamente in relazione ai trattamenti
retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto, con esclusione di
qualsiasi effetto sul regime di responsabilità solidale relativo ai contributi
previdenziali ed assicurativi;
- l'articolo
50 del D.L. 69/2013 – modificando l'articolo 35, comma 28, del D.L.
223/2006 – che ha eliminato (dal 22
giugno 2013) la responsabilità solidale dell'appaltatore e del committente per quanto riguarda il
versamento dell'IVA dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore in
relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del contratto (rimanendo
quindi la responsabilità solidale solamente per le ritenute fiscali sui redditi
di lavoro dipendente)[28];
- l’articolo
28 del D.Lgs. 175/2014, che ha eliminato (dal 13
dicembre 2014) la predetta responsabilità solidale anche con riferimento alla ritenute fiscali su reddito da lavoro
dipendente.
Si ricorda, infine, che per quanto
riguarda il tema della sicurezza sul
lavoro, l’articolo 26, comma 4, del D.Lgs. 81/2008, ha previsto che, ferme restando le
norme vigenti in materia, il committente risponda in solido con l'appaltatore,
nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i
quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non
risulti indennizzato ad opera dell’INAIL o dell'IPSEMA. In ogni caso, il
vincolo solidaristico non si applica ai danni conseguenti a dei rischi
specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.
Il referendum
abrogativo
La Corte
ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione delle
disposizioni limitative della suddetta responsabilità solidale tra committente
e appaltatore in materia di appalti (articolo 29, comma 2, del D.Lgs. n.276/2003).
La normativa
di cui si propone l’abrogazione prevede:
- la possibilità, per i contratti collettivi, di derogare al
principio della responsabilità solidale tra committente e appaltatore in
relazione alla violazione di specifici diritti del lavoratore (diritto alla
retribuzione e alla contribuzione previdenziale e assicurativa);
- ferma restando la responsabilità solidale (per cui committente e
appaltatore sono convenuti in giudizio congiuntamente), la possibilità di
intentare l’azione esecutiva nei confronti del committente solo dopo
l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali
subappaltatori.
Obiettivo del referendum è quindi quello di prevedere una piena
responsabilità solidale tra committente e appaltatore, non limitabile da
parte della contrattazione collettiva ed estesa, in sede giudiziale, anche alla
fase esecutiva.
L’articolo 91 introduce alcune previsioni volte a garantire una maggiore tutela dell’occupazione in caso di successione negli appalti.
Le principali novità apportate rispetto alla normativa vigente sono:
§ qualora i CCNL (applicabili ad entrambe le imprese appaltatrici) non dispongano in merito all’occupazione dei lavoratori coinvolti nei cambi di appalto e non si configuri un trasferimento d’azienda, si prevede l’obbligo per il committente (anche pubblica amministrazione), l’appaltatore cessante e l’appaltatore subentrante, di seguire un’apposita procedura che prevede che le organizzazioni sindacali siano preventivamente informate su diversi aspetti concernenti la successione nell’appalto, comprese le misure programmate per la tutela dell’occupazione, nonché un eventuale esame congiunto (il mancato rispetto di tale obbligo costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 della L. 300/1970);
§ quando i CCNL o il capitolato d’appalto prevedano a carico dell’appaltatore subentrante l’obbligo di assumere i dipendenti impegnati nell’appalto, si prevede che questi ultimi, in caso di inadempimento, possano chiedere la costituzione giudiziale del rapporto di lavoro;
§ per gli appalti pubblici assoggettati alla disciplina del Codice degli appalti (D.Lgs. 50/2016), l’introduzione dell’obbligo per il committente pubblico di inserire nel bando di gara, nel capitolato e nel contratto di appalto l’obbligo per l’aggiudicatario di garantire la continuità dell’occupazione dei lavoratori già impiegati nell’appalto, eventualmente in proporzione alla diversa configurazione dell’opera o del servizio rispetto al precedente capitolato;
§ ai lavoratori già impiegati nell’appalto da non meno di quattro mesi prima della sua cessazione viene riconosciuto il diritto alla NASpI (nuova assicurazione sociale per l’impiego), anche in assenza dei requisiti contributivi previsti dalla legge, qualora il contratto collettivo ad efficacia generale stipulato dalle associazioni registrate (applicabile ad entrambe le imprese appaltatrici) prevede la cessazione del rapporto intercorrente con l’appaltatore uscente e il differimento temporale dell’assunzione da parte dell’appaltatore subentrante;
§ ai lavoratori che risultano disoccupati in conseguenza del cambio appalto si riconosce il diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dall’appaltatore subentrante nei successivi 12 mesi e si stabilisce che, nel caso di mancata prosecuzione del rapporto di lavoro in capo all’appaltatore subentrante non costituisce giustificazione per il licenziamento (individuale o collettivo) se i lavoratori interessati possono essere reimpiegati, ove possibile, su altri appalti o in altre unità produttive;
§ si riconosce il diritto del lavoratore a opporsi alla successione del rapporto di lavoro in capo alla subentrante e di rimanere alle dipendenze dell’impresa appaltatrice cessante, anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2112 del codice civile.
Successione negli appalti
In generale, si
ricorda che la materia della successione negli appalti tra imprese trova la
propria disciplina nell’ambito della contrattazione collettiva. Tuttavia, la
stabilità del rapporto di lavoro, garantita tramite il contratto collettivo,
può risultare non abbastanza tutelata proprio in virtù del fatto che il
contratto collettivo presenta un’efficacia soggettivamente limitata, quindi le
clausole di tutela sono opponibili all’impresa subentrante solamente nel caso
in cui essa applichi lo stesso contratto collettivo o un altro contratto che
contempli analogo obbligo. Sul versante normativo, l’articolo 7, comma 4-bis,
della L. 31/2008, dispone che al fine di garantire il livello di occupazione e
l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori, in caso di
cambio di appalto di servizi, l’acquisizione del personale già impiegato nel
medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta
l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 24 della L. 223/1991 (che
dispone la procedura che il datore di lavoro deve seguire in caso voglia
effettuare licenziamenti collettivi) nei confronti dei lavoratori riassunti
dall’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste
dai contratti collettivi nazionali di settore.
Allo stesso
tempo, l’articolo 29, comma 3, del D.Lgs. 276/2003,
come modificato dall’articolo 30 della L. 122/2016 (Legge europea) ha stabilito
che l’acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di
subentro di un nuovo appaltatore (in forza di legge, di contratto collettivo
nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto) non costituisce
trasferimento d'azienda (o di parte d'azienda) solo se sussistono elementi di
discontinuità che determinino una specifica identità di impresa ed alla
condizione che il nuovo appaltatore sia dotato di propria struttura
organizzativa ed operativa. Non essendo dunque configurabile un trasferimento
d’azienda qualora ricorrano le predette condizioni, il passaggio del dipendente
da una azienda all’altra in caso di cambio appalto può avvenire, diversamente
da quanto prevede l’articolo 2112 c.c., senza riconoscere l’anzianità del
lavoratore o la sua retribuzione o il suo livello di inquadramento, salvo che
il contratto collettivo preveda condizioni di miglior favore (disponendo, per
esempio, che il rapporto prosegua a parità di condizioni).
Sulla materia è
da ultimo intervenuto il Codice degli appalti (D.Lgs.
50/2016) il quale dispone:
- l’obbligo
per le amministrazioni aggiudicatrici di applicare ai lavori, alle forniture,
ai servizi e agli operatori economici dei Paesi terzi (che siano firmatari
degli accordi internazionali a cui l'Unione europea è vincolata) un trattamento
non meno favorevole di quello concesso dal codice;
- la possibilità,
per i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti negli affidamenti dei contratti di
concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura
intellettuale (con particolare riguardo ai servizi ad alta intensità di
manodopera, cioè con costo della manodopera pari almeno al 50% dell'importo
totale del contratto), di inserire specifiche clausole sociali volte a
promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato.
L’articolo 92 interviene in materia di trasferimento d’azienda, apportando modifiche sostanziali all’articolo 2112 c.c. che disciplina attualmente la materia.
Di seguito le principali novità introdotte:
§ si specifica che il cessionario deve applicare ai lavoratori ceduti i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi ad efficacia generale di livello nazionale, territoriale ed aziendale, vigenti presso il cedente (fino alla loro scadenza) solo se più vantaggiosi per il lavoratore. Dopo la scadenza, si applicherà il contratto collettivo ad efficacia generale valido per il cessionario[29];
§ possono essere inclusi nel trasferimento del ramo d’azienda solo i lavoratori che fanno parte del ramo da almeno 12 mesi (salvo diversa previsione dei contratti collettivi ad efficacia generale di livello aziendale). In questi casi, se le condizioni di lavoro dei lavoratori trasferiti subiscano una sostanziale modifica nel corso dei diciotto mesi successivi al trasferimento, i lavoratori interessati possono non dimettersi (come attualmente previsto), ma richiedere in via giudiziale il ripristino del loro rapporto di lavoro con il cedente, il quale è tenuto a riammetterli al lavoro e ad assicurare loro il precedente trattamento economico e normativo (nonché a corrispondere una somma a titolo di risarcimento per l’eventuale danno subito);
§ si elimina la previsione secondo cui l’identificazione di parte dell’azienda come articolazione funzionalmente autonoma (condizione necessaria perché si configuri il trasferimento di ramo d’azienda) venga effettuata dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento[30].
Trasferimento
d’azienda: normativa vigente
Il trasferimento
d’azienda – disciplinato dall’articolo 2112 c.c. e dall’articolo 47 della legge
comunitaria per il 1990 (L. 29 dicembre 1990, n. 428) ed attuativo della
direttiva 77/187/CE, come modificati dal D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, di
recepimento della direttiva n. 98/50/CE – consiste nel trasferimento di
un'entità economica, vista come un insieme organizzato di mezzi per lo
svolgimento di una determinata attività, che mantiene la sua identità, sia
pubblica sia privata, indipendentemente dal fatto che venga perseguito o meno
un fine di lucro.
Secondo quanto
previsto dall’art. 2112 c.c., il trasferimento può anche riguardare anche parte
dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività
economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al
momento del suo trasferimento.
Per quanto
concerne il rapporto di lavoro, l’articolo 2112 c.c. stabilisce che il rapporto
di lavoro continua con il cessionario e pertanto il lavoratore conserva tutti i
diritti derivanti dall'anzianità di servizio raggiunta prima del trasferimento,
nonché quelli previsti nel contratto individuale, con particolare riferimento
ai diritti relativi all’inquadramento di categoria e retributivo. Si precisa
che, in base a quanto previsto dal richiamato articolo 2112 c.c., il
cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti
dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data
del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri
contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario (l'effetto di
sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo
livello).
Il soggetto
cedente è obbligato in solido con il cessionario per tutti i crediti che il
dipendente vantava al momento del trasferimento; tuttavia il lavoratore può
liberare il cedente da tali obbligazioni.
Infine il
trasferimento d’azienda non costituisce di per sé giusta causa o giustificato
motivo di licenziamento, ferma restando la facoltà del datore di lavoro di
recedere dal rapporto secondo quanto previsto dalla disciplina sul
licenziamento. Nel caso in cui le condizioni di lavoro del lavoratore subiscano
una sostanziale modifica nei 3 mesi successivi al trasferimento, egli può
rassegnare le dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma,
c.c. (che prevede il recesso per giusta causa
prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato,
o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, nel caso in cui si
verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del
rapporto).
Alcuni dei principi per la riforma del processo del lavoro, dettati dall’art. 22 del provvedimento (v. sopra), trovano una attuazione agli art. 93 e 94 della proposta di legge, che novellano singole disposizioni del codice di procedura civile relative alle controversie individuali di lavoro.
In particolare, l’articolo 93, attraverso la sostituzione dell’art. 409 c.p.c., integra il catalogo delle controversie alle quali si applica il rito del lavoro, inserendo espressamente i tirocini, le attività socialmente utili, i rapporti di lavoro all’interno delle cooperative e le relazioni sindacali. La disposizione conferma la competenza del giudice del lavoro tanto per le controversie relative a rapporti di lavoro privati, quanto per i rapporti di lavoro pubblici, salvaguardando le disposizioni del TU del pubblico impiego.
Con la modifica dell’art. 410 c.p.c., l’art. 93 della proposta di legge prevede che in relazione alle controversie di competenza del giudice del lavoro, il tentativo di conciliazione debba svolgersi con le modalità disciplinate dai contratti collettivi di livello nazionale e, solo in assenza di espresse previsioni nei contratti, presso la commissione di conciliazione. In relazione alle medesime controversie, e se previsto e disciplinato dai contratti collettivi, la riforma consente alle parti di rivolgersi all’arbitrato secondo diritto, purché oggetto della controversia non siano diritti indisponibili: viene a tal fine sostituito l’art. 412 c.p.c., rinviando alla disciplina dei contratti collettivi, eliminando l’attuale articolata disciplina dell’arbitrato nel processo del lavoro dettata dal codice di procedura.
Con la novella dell’art. 413 c.p.c. la riforma ribadisce quanto già previsto dall’art. 22, ovvero che se il lavoratore è convenuto in giudizio da parte del datore di lavoro, il giudice competente è quello nella cui circoscrizione il lavoratore ha la residenza o il domicilio.
Quanto alla discussione della causa, attraverso le modifiche dell’art. 420 c.p.c., la proposta di legge prevede che i tribunali debbano riservare alla trattazione delle controversie relative al licenziamento e alla reintegra particolari giorni nel calendario delle udienze.
In ordine alle medesime controversie, nonché per quelle in materia di trasferimento del lavoratore e quelle relative alla trasformazione dei contratti di lavoro flessibile in contratti di lavoro subordinato, viene modificata la disciplina cautelare (art. 700 c.p.c.), introducendo una presunzione legale di pregiudizio imminente e irreparabile per il lavoratore; il conseguente giudizio di merito dovrà essere deciso dal giudice entro un anno.
L’articolo 94 interviene invece in tema di spese nelle controversie di lavoro e prevede:
· l’esonero da ogni spesa e tassa per le controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie, nonché per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, a prescindere dal reddito delle parti (attualmente il contributo unificato di iscrizione a ruolo è dovuto dalle parti con reddito superiore a circa 35.000 euro);
· la possibilità per il giudice di compensare sempre le spese;
· l’esclusione della condanna alle spese, a prescindere dalla soccombenza, per la parte esente dal pagamento dell’IRPEF, purché la stessa non abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave;
· la possibilità per il lavoratore di detrarre tutte le spese sostenute per la tutela dei propri diritti.
La disposizione, infine, consente l’applicazione delle misure di coercizione indiretta anche alle controversie di competenza del giudice del lavoro; tali misure, oggi escluse per le cause di lavoro, sono volte ad incentivare l'adempimento spontaneo degli obblighi infungibili derivanti dalla sentenza. L’art. 614-bis c.p.c. consente infatti al giudice, già in sede di condanna, di fissare a richiesta di parte la somma dovuta per ogni inosservanza della sentenza stessa, tenendo conto del valore della controversia.
L’articolo 95 interviene sulla normativa processuale in materia di licenziamento. In particolare, il comma 1 reca disposizioni in materia di licenziamento per giustificato motivo.
In tale ambito, il datore di lavoro, nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, può licenziare con preavviso il lavoratore in presenza di un giustificato motivo[31]. Ai sensi dell'articolo 3 della L. 604/1966, il giustificato motivo di licenziamento consiste in:
· ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (c.d. giustificato motivo oggettivo);
· un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore di lavoro (c.d. giustificato motivo soggettivo).
Merita ricordare, inoltre, che ai sensi dell’articolo 30, comma 3, della L. 183/2010, il giudice, nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, debba tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro (stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi), ovvero, se stipulati con l’assistenza delle apposite commissioni di certificazione, nei contratti individuali di lavoro. Analogamente, il giudice deve tener conto degli elementi e dei parametri appositamente individuati dai suddetti contratti, nello stabilire (ai sensi dell'articolo 8 della L. 604/1966[32]), le conseguenze da riconnettere al licenziamento. A tal fine, inoltre, il giudice deve comunque tener conto di una serie di elementi, quali le dimensioni e le condizioni dell’attività del datore di lavoro; la situazione del mercato del lavoro locale; l’anzianità e le condizioni del lavoratore; il comportamento delle parti contrattuali anche nel periodo precedente al licenziamento.
Inoltre, l’articolo 30, comma 1, della medesima L. 183/2010, prevedendo che, laddove disposizioni di legge in materia di lavoro contengano clausole generali ("ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso"), ha stabilito che il controllo giudiziale sia limitato "all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente". L'inosservanza di tale limite costituisce motivo di impugnazione del provvedimento giudiziale per violazione di norme di diritto.
Il comma 1, aggiungendo un secondo comma al richiamato articolo 3 della L. 604/1966, precisa che il giudice, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, debba tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro ad efficacia generale di livello nazionale quale parametro per la valutazione della legittimità del licenziamento stesso.
Il comma 2 sostituisce integralmente l’articolo 6 della L. 604/1966.
L'articolo 6 della L. 604/1966 stabilisce che il licenziamento debba essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione da parte del lavoratore della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale, diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Si ricorda, inoltre, che l'articolo 32, commi da 2 a 4, della L. 183/2010, ha esteso l'applicabilità dell'articolo 6 della L. 604/1966 ai seguenti altri casi:
- tutti i casi di invalidità del licenziamento;
-
ai
licenziamenti che presuppongano la risoluzione di questioni attinenti alla
qualificazione del rapporto lavorativo ovvero alla legittimità del termine
apposto al contratto;
-
al recesso del committente nei rapporti
di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all’art.
409, n. 3, c.p.c.;
-
al trasferimento del lavoratore
subordinato da un’unità produttiva ad un’altra, ai sensi dell’articolo 2103 c.c;
-
a tutte
le tipologie di contratti di lavoro a tempo determinato. In particolare,
vengono richiamate le disposizioni che fanno riferimento ai contratti di lavoro
a tempo determinato disciplinati dal D.Lgs. 368/2001
sia dalla disciplina ad esso previgente[33];
-
alla
cessione del contratto di lavoro ai
sensi dell’articolo 2112 c.c.;
-
in ogni
altro caso in cui, compresa la somministrazione irregolare, si chieda la
costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto
diverso dal titolare del contratto.
Rispetto alla normativa vigente:
· si riporta a 270 giorni (dai 180 attuali) il termine entro il quale il ricorso deve essere depositato nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o deve essere comunicata alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato (ai fini dell’efficacia dell’impugnazione);
· si dispone l’applicabilità delle disposizioni relative all’inefficacia dell’impugnazione (vedi supra) a tutti i casi di invalidità del licenziamento, ad eccezione di quelli di nullità (ex articolo 18, secondo comma, della L. 300/1970[34]), rispetto ai quali il termine di decadenza entro cui proporre l’impugnazione dinanzi al giudice del lavoro è di 18 mesi.
L’articolo 96 estende l’applicazione dei termini di decadenza in materia di impugnazione del licenziamento (di cui all’articolo 6 della L. 604/1966, così come modificato dal provvedimento in esame) ai casi di:
· impugnazione relativa al trasferimento del lavoratore ai sensi dell’articolo 2103 c.c.[35], con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento, o dalla diversa successiva data di conoscenza di circostanze idonee ad attestare l’insussistenza delle addotte ragioni tecniche, organizzative e produttive;
· impugnazione relativa alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’articolo 2112 c.c.[36] con termine decorrente dalla data del trasferimento;
· ricorso per la trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato, con termine decorrente dalla cessazione dell’ultimo contratto di lavoro sottoscritto. Nell’ambito della somministrazione irregolare (di cui all’articolo 68 del provvedimento in esame), il termine decorre, nei casi di cui articolo 68, comma 1 dalla cessazione del contratto di somministrazione in cui il lavoratore è stato utilizzato; nei casi di cui all’articolo 68, comma 2, dalla cessazione dell’ultimo contratto di lavoro a tempo determinato stipulato con il somministrante.
Contestualmente, l’articolo 97, comma 1, lettera h), provvede ad abrogare, tra gli altri, l’articolo 32 della L. 183/2010, che contiene (anche) l’attuale disciplina di estensione delle cause di applicabilità dell’articolo 6 della L. 604/1966 (vedi supra)
L’articolo 97 abroga le seguenti disposizioni:
a) art. 23, c.1, D.Lgs. 151/2015 relativo al controllo a distanza dei lavoratori;
b) il D.Lgs. 23/2015 relativo alla nuova disciplina sui licenziamenti individuali e collettivi conseguenti all’introduzione del cd. contratto a tutele crescenti;
c) artt. 1-51 del D.Lgs. 81/2015 relativi al lavoro accessorio, a tempo parziale, a tempo determinato, intermittente, in somministrazione e sull’apprendistato;
d) in materia di apprendistato, l’art. 1, c. 18, L. 92/2012 relativo al numero massimo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere, l’art. 2, c. 2-3, D.L. 76/2013 relativo all’elaborazione delle linee guida in materia e l’art. 2-bis D.L. 34/2014 relativo alla disciplina transitoria;
e) l’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 e l’art. 7, c. 4-bis, D.L. 248/2007 sulla tutela dell’occupazione in caso di cambio di appalto;
f) in materia di licenziamenti, l’art. 8 della L. 604/1966 sui licenziamenti individuali e l’art. 1, c. 47-69, L. 92/2012 sul rito speciale per le relative controversie;
g) artt. 30, 31 e 32 della L. 183/2010 sulle clausole generali e certificazione del contratto di lavoro, conciliazione e arbitrato e decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato;
h) in materia di certificazione dei contratti di lavoro, gli artt. da 75 ad 81 del D.Lgs. 276/2003, nonché tutti gli articoli di legge contenenti riferimenti alla certificazione dei contratti di lavoro di cui ai predetti articoli, limitatamente alle parti che vi si riferiscono, direttamente o indirettamente;
i) l’art. 5, c. 2, L. 142/2001 relativo all’estinzione del rapporto del socio lavoratore e all’attribuzione delle relative controversie al tribunale ordinario;
j) le disposizioni contenute nel codice di procedura civile (410-bis, 412-bis e 412-ter) relative al termine e alla procedibilità del tentativo di conciliazione, nonché ad ulteriori modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva;
k) ogni altra disposizione in contrasto con il Titolo III del provvedimento in esame.
A seguito dell’abrogazione della disciplina vigente sul controllo a distanza e sulle mansioni del lavoratore, devono intendersi tornati in vigore, rispettivamente, l’art. 4 della L. 300/1970 (nella versione previgente al D.Lgs. 151/2015) e l’articolo 2103 c.c. (come sostituito dall’articolo 13 della L. 300/1970). Inoltre, attraverso l’aggiunta di un comma al richiamato art. 2103 c.c., si configura l’obbligo per il datore di lavoro, in caso di processi di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione produttiva che interessino uno o più lavoratori, di assicurare tutte le attività formative necessarie per consentire l’adattamento delle loro competenze professionali a detti processi.
[1] L’art. 23 del richiamato D.Lgs. 151/2015, attraverso una modifica dell’art. 4 della L. 300/1970, è intervenuto in materia di controllo a distanza dei lavoratori, estendendo i presupposti per l’utilizzo di strumenti dai quali derivi anche la possibilità di un controllo a distanza dei lavoratori, al fine di consentirlo non solo per esigenze organizzative e produttive o per la sicurezza del lavoro, ma anche per la tutela del patrimonio aziendale.
[2] I primi quattro membri, scelti sulla base delle indicazioni fornite dalle associazioni sindacali, designano il quinto componente cui spetta la Presidenza della Commissione (in assenza di accordo, esso è nominato direttamente dal Presidente della Repubblica).
[3] Coinvolgimento degli associati e metodo collegiale nell’assunzione delle decisioni concernenti la vita associativa; elettività delle cariche associative inerenti all’esercizio delle funzioni sindacali; libertà incondizionata di recesso dell’associato, con effetto immediato; previsione di organismi associativi per la soluzione delle controversie interne.
[4] Per i datori di lavoro soggetti al richiamato Testo unico rimane valida la procedura ivi stabilita secondo cui il datore di lavoro (attraverso un’apposita sezione delle denunce aziendali) deve comunicare all’Inps il numero delle deleghe ricevute per ogni singola organizzazione sindacale di categoria.
[5] Sul punto si ricorda che, dopo l’abrogazione dell’art. 26, c. 2, della L. 300/1970 (conseguente all’esito del referendum del 1995), l’obbligo del datore di lavoro di effettuare le ritenute sul salario dei propri dipendenti per il pagamento dei contributi sindacali (attuato mediante delega) non ha più la propria fonte nella legge, ma, laddove previsto, nel contratto collettivo. Conseguentemente, tale obbligo non opera nei confronti delle associazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo valido in azienda. Tuttavia, secondo quanto stabilito dalle Sezioni unite della Cassazione con decisione n. 28269 del 2005, gli iscritti alle associazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo, per il versamento del contributo associativo possono ricorrere alla cessione del credito ex art. 1260 c.c., che non prevede il consenso del debitore (in questo caso il datore di lavoro).
[6] Analogamente a quanto previsto dal Testo unico sulla rappresentanza, alle RUS è attribuita la titolarità negoziale esclusiva, nonché il godimento dei diritti e delle prerogative sindacali che il Titolo III dello Statuto dei lavoratori e le altre leggi assegnano alle RSA ex articolo 19 della L. 300/1970 (che conseguentemente viene modificato con la previsione che la costituzione delle RSA sia disciplinata dall’articolo 31 del provvedimento in esame). Inoltre, le associazioni sindacali registrate che abbiano lavoratori iscritti in un’azienda, qualora non abbiano partecipato alla elezione della RUS oppure in quell’azienda non siano state indette elezioni, hanno diritto a costituire le RSA, a condizione di aderire a confederazioni con una rappresentatività non inferiore al 5%, con il riconoscimento delle stesse prerogative sindacali previste per le RUS.
[7] Con riferimento al diritto di affissione, si segnala che il nuovo comma 3 dell’articolo 35 della L. 300/1970 (introdotto dal provvedimento in esame) dispone che lo stesso si eserciti non più all’interno dell’unità produttiva, ma in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo in cui si esplica l’attività del datore di lavoro.
[8] La suddetta ponderazione avviene secondo le modalità già previste dal Testo unico sulla rappresentanza, attribuendo cioè un peso del 50 per cento sia al dato associativo (percentuale degli iscritti rispetto al totale degli iscritti, ricavabile dai dati di contributi associativi ricevuti dall’INPS) sia a quello elettorale (percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle RUS rispetto al totale dei votanti). Si segnala che l’accordo tra Confcommercio e CGIL, CISL, UIL di novembre 2015 inserisce tra gli indicatori per la misurazione della rappresentatività, oltre al numero di deleghe e ai voti espressi, anche quello del numero di vertenze di lavoro rappresentate nel settore di riferimento, nonché le pratiche per la disoccupazione certificabili dall’INPS.
[9] Si tratta della stessa soglia richiesta, in generale, dal Testo unico sulla rappresentanza per partecipare alla contrattazione.
[10] La percentuale richiesta in materia dal Testo unico sulla rappresentanza è pari al 50 per cento più 1.
[11] Sul punto si ricorda che, in sede di firma definitiva, da parte di Confindustria/Cgil-Cisl-Uil, dell’accordo del 28 giugno 2011, per scongiurare gli effetti del richiamato articolo 8, venne aggiunta una postilla secondo cui le materie delle relazioni industriali e della contrattazione restano affidate all’autonoma determinazione delle parti sociali e che le parti firmatarie si impegnavano ad attenersi a quanto previsto nell’accordo di giugno
[12] Al fine di assicurare una transizione tra l’attuale e il nuovo sistema, si prevede che i contratti collettivi (di diritto comune) esistenti al momento dell’entrata in vigore del nuovo statuto restino in vigore fino alla loro sostituzione da parte di altro contratto collettivo ad efficacia generale applicabile nello stesso o in un corrispondente ambito e livello.
[13] Al riguardo si ricorda che tra le forme di partecipazione del lavoratore all'impresa il Codice civile annovera la distribuzione di utili attraverso l'assegnazione gratuita di azioni, la partecipazione al capitale (ex articoli 2349, 2441 e 2358 c.c.), nonché l'adesione dei dipendenti a piani di azionariato: l'articolo 2099 c.c., infatti, dispone che la retribuzione possa sostanziarsi anche nella corresponsione di utili, mentre il successivo articolo 2102 c.c. individua le regole per la determinazione degli utili stessi. L'azionariato dei lavoratori viene sostenuto da apposite esenzioni fiscali e contributive entro limiti fissati dalla legge; ai fini delle imposte sui redditi, non concorre alla formazione dell'imponibile il valore delle azioni offerte alla generalità dei dipendenti, per specifici importi calcolati nel periodo d'imposta, a condizione che dette azioni non siano riacquistate dalla società emittente o dal datore di lavoro o comunque cedute prima che siano trascorsi almeno tre anni dalla percezione (articolo 51, comma 2, lett. g), del D.P.R. n. 917 del 1986 – TUIR). L'articolo 1, commi 182-189, della legge n.208/2015 (legge di stabilità per il 2016), ha introdotto, in via permanente, una disciplina tributaria specifica (tassazione al 10% ai fini dell'IRPEF), per i lavoratori dipendenti del settore privato, per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell'impresa (oltre che per gli emolumenti retributivi dei lavoratori dipendenti privati di ammontare variabile e la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili); le modalità di attuazione delle disposizioni richiamate sono state emanate con il decreto interministeriale 25 marzo 2016. L'articolo 1, comma 180, della L. 147/2013 (legge di stabilità per il 2014), ha istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali un Fondo per l'incentivazione di iniziative rivolte alla partecipazione dei lavoratori al capitale e agli utili delle imprese e per la diffusione dei piani di azionariato rivolti a lavoratori dipendenti. Il decreto ministeriale 20 giugno 2016 ha definito le modalità e i criteri di utilizzo del Fondo.
[14] Requisito invece richiesto dall’articolo 2 del decreto legislativo n.81/2015.
[15] Nell'apprendistato che si svolge nell'ambito del sistema di istruzione e formazione professionale regionale, la formazione esterna all'azienda è impartita nell'istituzione formativa a cui lo studente è iscritto e non può essere superiore al 60% dell'orario ordinamentale per il secondo anno e al 50% per il terzo e quarto anno, nonché per l'anno successivo finalizzato al conseguimento del certificato di specializzazione tecnica. Per le ore di formazione svolte nella istituzione formativa il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo. Per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta. Sono comunque fatte salve diverse previsioni dei contratti collettivi
[16] La formazione di tipo professionalizzante è svolta sotto la responsabilità dell'azienda ed è integrata, nei limiti delle risorse annualmente disponibili, dall'offerta formativa pubblica, interna o esterna all'azienda, finalizzata all'acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte ore complessivo non superiore a 120 per la durata del triennio e disciplinata dalle Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano sentite le parti sociali e tenuto conto, del titolo di studio e delle competenze dell'apprendista
[17] Per la retribuzione nell'apprendistato per la qualifica o diploma professionale cfr. nota 2.
[18] Per ulteriore informazione, si ricorda che quale ulteriore incentivo, l'articolo 22 della L. 183/2011 aveva stabilito che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, per i contratti di apprendistato stipulati successivamente alla medesima data ed entro il 31 dicembre 2016, fosse riconosciuto ai datori di lavoro che occupavano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a 9, uno sgravio contributivo del 100% con riferimento alla contribuzione dovuta, per i periodi contributivi maturati nei primi tre anni di contratto, restando fermo il livello di aliquota del 10% (+ 1,61%) per i periodi contributivi maturati negli anni di contratto successivi al terzo.
[19] Ai sensi dell’articolo 20, è sempre vietata la stipulazione del contratto a termine: per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi concernenti lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato (salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi); presso unità produttive nelle quali siano operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di C.I.G., che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato; da parte di datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. In caso di violazione dei suddetti divieti il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
[20] Ai fini del computo del richiamato periodo si tiene anche conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato.
[21] Si ricorda che la differenza fra proroghe e rinnovi contrattuali consiste nel fatto che si fa riferimento alla proroga nel caso in cui, prima della scadenza del termine, lo stesso venga prorogato ad altra data, mentre si fa riferimento al rinnovo quando l'iniziale contratto a termine raggiunga la scadenza originariamente prevista (o successivamente prorogata) e le parti vogliano procedere alla sottoscrizione di un ulteriore contratto.
[22] Con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell'assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.
[23] Sono esenti dal limite percentuale, nonché da eventuali limitazioni quantitative previste da contratti collettivi, i contratti a tempo determinato conclusi: nella fase di avvio di nuove attività, per i periodi definiti dai contratti collettivi, anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e comparti merceologici; da imprese start-up innovative (ex articolo 25, commi 2 e 3, del D.L. 179/2012) per 4 anni dalla costituzione della società (ovvero per il più limitato periodo triennale o biennale per le società già costituite); nelle attività stagionali; per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; per sostituzione di lavoratori assenti; con lavoratori di età superiore a 50 anni.
Il limite percentuale non si applica, inoltre:
- ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra università private, incluse le filiazioni di università straniere, istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa;
- tra istituti di cultura di appartenenza statale ovvero enti pubblici e privati derivanti da trasformazione di precedenti enti pubblici, vigilati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ad esclusione delle fondazioni di produzione musicale di cui al D.Lgs. n. 367/1996 e lavoratori impiegati per soddisfare esigenze temporanee legate alla realizzazione di mostre, eventi e manifestazioni di interesse culturale.
[24] Attualmente l’articolo 49, comma 3, ultimo periodo, del decreto legislativo n.81/2015 , prevede che in caso di violazione degli obblighi relativi alla comunicazione dell’utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio, i committenti siano puniti con la sanzione amministrativa da euro 400 a euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione.
[25] Di cui si prevede l’abrogazione all’articolo 97, comma 1, lettera e), della proposta di legge.
[26] Il
suddetto limite costituisce un termine di decadenza che opera con riferimento
all'esercizio dell'azione non solo da parte del lavoratore, creditore delle
somme dovute a titolo di retribuzione, ma anche da parte degli Istituti
previdenziali, creditori delle somme dovute a titolo di contributi. Al
riguardo, il Ministero del Lavoro con la circolare 5/2011 ha specificato che,
per quanto riguarda l'aspetto contributivo, il termine decadenziale
di 2 anni si riferisce all'azione dell'Istituto nei confronti del responsabile
solidale, mentre resta ferma l'ordinaria prescrizione quinquennale prevista per
il recupero contributivo nei confronti del datore di lavoro inadempiente
(appaltatore o eventuale subappaltatore). Inoltre, con nota 7140/2012 lo stesso
Ministero ha chiarito che il limite di 2 anni dalla cessazione dell'appalto
deve riferirsi al contratto di appalto tra committente e appaltatore il che,
trasposto nell'ambito dei rapporti tra appaltatore e subappaltatore, non può
che riferirsi al contratto di appalto tra questi due soggetti. I 2 anni,
quindi, nel caso di subappalto, decorrono dalla cessazione dei lavori eseguiti
dal subappaltatore, in forza del relativo contratto di subappalto.
[27] Al
riguardo, la Circolare ministeriale del 29 agosto 2013, n. 35, ha precisato che
il riferimento ai lavoratori con contratto di lavoro autonomo deve essere
inteso come limitato sostanzialmente ai lavoratori impiegati nell’appalto per
mezzo di collaborazioni coordinate e continuative o collaborazioni a progetto e
non può essere esteso a quei lavoratori autonomi che sono tenuti in via
esclusiva all’assolvimento dei relativi oneri. Una diversa interpretazione,
infatti, porterebbe sostanzialmente ad una coincidenza tra trasgressore e
soggetto tutelato dalla responsabilità solidale, la quale amplierebbe in
maniera ingiustificata la effettiva responsabilità del committente. Inoltre, lo
stesso Ministero del lavoro ha chiarito (con l’interpello 9/2015) che
l'istituto della responsabilità solidale costituisce una garanzia per i lavoratori
impiegati nell'appalto che, evidentemente,
sono quelli dipendenti dell'appaltatore/subappaltatore, per cui eventuali
regimi derogatori possono essere disciplinati solo dai contratti collettivi
applicati ai lavoratori in questione. Tali contratti, in particolare, possono
individuare metodi e procedure di controllo e verifica della regolarità
complessiva degli appalti, adeguatamente utili a garantire l'assolvimento, da
parte dell'appaltatore, degli obblighi retributivi nei confronti dei propri
lavoratori, senza limitarsi a prevedere l'acquisizione di autodichiarazioni
rilasciate dai datori di lavori.
[28] Si ricorda che l'articolo 35, comma 28 del D.L. 223/2006 (così come modificato dall'articolo 13-ter del D.L. 83/2012) ha disposto che in caso di appalto di opere o di servizi, l'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dell'imposta sul valore aggiunto dovuta dal subappaltatore all'erario in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto. Affinché venga meno la responsabilità solidale dell'appaltatore, questi deve effettuare un'apposita verifica del corretto adempimento degli obblighi da parte del subappaltatore; a tal fine, viene data all'appaltatore la possibilità di sospendere il pagamento del corrispettivo nei confronti del subappaltatore fino all'esibizione della documentazione che attesti i corretti adempimenti fiscali. Il committente provvede al pagamento del corrispettivo dovuto all'appaltatore previa esibizione - da parte di quest'ultimo - della documentazione che attesti il corretto adempimento dei predetti obblighi; è prevista anche la possibilità di sospensione dei pagamenti fino all'esibizione dei predetti documenti. Dal mancato rispetto di tali modalità di pagamento a carico del committente discendono apposite sanzioni amministrative pecuniarie (da 5.000 a 200.000 euro) (articolo 35, comma 28-bis, del D.L. 223/2006). Merita ricordare, infine, che le disposizioni dell'articolo 35, comma 28, del D.L. 223/2006, si applicano ai contratti di appalto/subappalto stipulati, o rinnovati, a decorrere dal 12 agosto 2012 (data di entrata in vigore del medesimo D.L. 83), in relazione ai pagamenti effettuati a partire dall'11 ottobre 2012 (cioè, ai sensi dell'articolo 3, comma 2, della L. 212/2000) a decorrere dal sessantesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della norma (Agenzia delle Entrate, circolari 40/E/2012 e 2/E/2013).
[29] In merito, si ricorda la sentenza n. 5882 del 2010, con cui la Cassazione ha affermato che la contrattazione collettiva nazionale ed aziendale del cessionario sostituisce "in toto" quella del cedente in caso di cessione d'azienda, anche se meno favorevole al lavoratore.
[30] Sul punto, la Cassazione si è più volte pronunciata nel senso della necessità che l’articolazione sia preesistente al trasferimento (vedi, tra le altre, Cass. 21 novembre 2012, n. 20422; Cass. 4 dicembre 2012, n. 21710; Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697 e Cass. civ., sez. lav., 25 settembre 2013, n. 21917.
[31] Secondo quanto riportato nella C.M. 3/2013 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in questa fase la motivazione del licenziamento è rimessa alla sola valutazione del datore di lavoro.
[32] Tale articolo dispone che, ove non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento e limitatamente ai casi in quest'ultimo non rientri nell’ambito di applicazione della “tutela reale” di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970), il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti (cd. tutela obbligatoria). La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro.
[33] Si segnala che attualmente la normativa sul contratto a tempo determinato è contenuta negli articoli da 19 a 29 del D.Lgs. 81/2015 (che ha contestualmente abrogato il D.Lgs. 368/2001); inoltre, l’articolo 1, comma 11, lettera b), della L. 92/2012 ha soppresso, tra le cause di estensione dell’applicabilità della disciplina richiamata, l’azione di nullità del termine apposto a tale tipo di contratto.
[34] Ai sensi dell’articolo 18, primo comma, della L. 300/1970, in caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio o adottato in presenza di specifiche cause di divieto) o intimato in forma orale, si prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (tutela reale), indipendentemente dal motivo formalmente addotto e dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro. Las disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito della reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto qualora il lavoratore non riprenda servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro (salvo il caso in cui chieda la specifica indennità. Ai sensi del successivo secondo comma, il giudice, con la sentenza di nullità del licenziamento, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Infine, il terzo coma del richiamato articolo 18 dispone che, fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, il lavoratore può chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro (non assoggettata a contribuzione previdenziale). La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
[35] L’articolo 2103, ottavo comma, c.c., dispone che il lavoratore non possa essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
[36] Cfr. al riguardo la scheda relativa all’articolo 92 sul trasferimento d’azienda.