Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
| |||
---|---|---|---|
Autore: | Servizio Studi - Dipartimento istituzioni | ||
Titolo: | Enti locali: ordinamento e funzioni - II edizione | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 181 | ||
Data: | 29/04/2016 | ||
Descrittori: |
| ||
Organi della Camera: | I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni |
|
Camera
dei deputati |
XVII
LEGISLATURA |
|
SERVIZIO
STUDI |
|
Documentazione e
ricerche |
Enti locali: ordinamento e funzioni |
|
|
|
|
|
|
n. 181 |
II edizione |
29
aprile 2016 |
Il
dossier è stato coordinato dal Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
( 066760-3855/066760-9475– * st_istituzioni@camera.it |
|
|
|
|
La documentazione dei servizi e degli uffici della Camera
è destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli
organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni
responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini
non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti,
nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte. |
File:
id0019.docx |
INDICE
Premessa 1
Parte prima: Ordinamento
Il Comune 5
§ Lo statuto 5
§ Gli organi di governo: sindaco, consiglio comunale e giunta
comunale 8
§ Le circoscrizioni di decentramento comunale 14
§ Le funzioni del comune 17
§ La gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali:
le unioni di comuni e le convenzioni 20
§ Le fusioni di comuni 28
§ Le comunità montane 36
Roma Capitale 40
§ Roma capitale 40
Le Città metropolitane 46
§ Le novità della legge n. 56/2014 46
§ Il territorio 47
§ Gli organi 48
§ Il sistema elettorale 49
§ Lo statuto 51
§ Il bilancio 52
§ Le funzioni 52
§ La prima istituzione delle città metropolitane 54
§ La città metropolitana di Roma capitale 56
Le province 57
§ Gli organi 58
§ Le funzioni 60
§ Le province montane 61
§ La prima costituzione dei nuovi organi provinciali 61
§ Il trasferimento delle funzioni provinciali 62
Gli enti locali e la partecipazione all’Unione Europea 67
Il personale degli enti locali 75
§ I Segretari comunali e provinciali 75
§ I dirigenti 80
§ Il personale 85
La finanza locale 91
§ I fondi per il finanziamento degli enti locali 91
§ L’autonomia impositiva degli enti
locali 101
§ Le entrate extra-tributarie locali 112
§ Il patrimonio 115
§ Le regole di bilancio 119
§ Le società a partecipazione pubblica locale 136
§ Il sistema dei controlli interni ed esterni sugli enti
locali 142
Parte seconda: Funzioni
Le funzioni di amministrazione generale 153
§ I servizi relativi all’organizzazione amministrativa 153
§ I servizi demografici: anagrafe, stato civile, cittadinanza 156
§ I servizi elettorali 160
§ Gli appalti di forniture e servizi 164
I servizi pubblici locali 166
§ I servizi pubblici locali 166
§ I trasporti pubblici locali 172
§ I servizi energetici: energia
elettrica, gas 177
§ Le farmacie comunali 184
§ L’assistenza scolastica 189
§ I servizi e le opere cimiteriali 193
Le funzioni in ambito sociale, sanitario, culturale e sportivo 196
§ La sicurezza sociale 196
§ L’immigrazione e l’asilo 213
§ Il Servizio sanitario nazionale 217
§ La scuola 225
§ I beni e le attività culturali 230
§ Le attività e gli impianti per lo spettacolo e lo sport 234
§ L’edilizia residenziale pubblica 237
Il sostegno alle attività economiche 243
§ Lo sportello unico per le attività produttive-SUAP 243
§ Il commercio 248
§ La disciplina degli esercizi pubblici 256
§ Il turismo 260
Il governo del territorio e la tutela dell’ambiente 266
§ Urbanistica e pianificazione territoriale 266
§ La tutela e la valorizzazione del paesaggio 271
§ La tutela e la valorizzazione dell’ambiente, del territorio
e del mare 275
§ La tutela delle acque dall’inquinamento e la gestione delle
risorse idriche 281
§ La gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti 286
La sicurezza 291
§ La polizia municipale e provinciale 291
§ La protezione civile 296
§ Viabilità e sicurezza stradale 299
§ La sicurezza urbana 301
Il presente dossier si
propone di fornire un quadro generale della normativa vigente in materia di
ordinamento e funzioni degli enti locali.
Con il simbolo
Con il simbolo
L’articolo 114, comma secondo, della
Costituzione riconosce i comuni quali enti autonomi con propri statuti, poteri
e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Lo statuto è adottato
dal Consiglio comunale e detta i principi di organizzazione e funzionamento
dell’ente, le forme di controllo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme
di partecipazione popolare.
Nel rispetto dei principi stabiliti
dalle norme statutarie, l’organizzazione dei comuni è specificamente disciplinata
dai regolamenti.
|
Solo con la riforma del Titolo V ad
opera della legge cost. n. 3/2001, l’autonomia
statutaria degli enti locali trova un riconoscimento nella Carta
fondamentale ed incontra il proprio limite solo nei principi della
Costituzione, superando la precedente impostazione in base alla quale tale
autonomia era prevista esclusivamente nell’ambito di una legge ordinaria, ai
cui principi, peraltro, risultava sottoposta (come previsto dall’art. 6,
D.Lgs. n. 267/2000). Ne deriva che gli enti locali, al pari delle regioni,
sono liberi di darsi il proprio ordinamento, con esclusione di qualsiasi
ingerenza esterna, a meno che essa non sia consentita dalla Costituzione. In attuazione dell’articolo 114 Cost.,
la legge 5 giugno 2003, n. 131
prevede che lo statuto stabilisce
i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di
controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme
di partecipazione popolare, nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 117,
secondo comma, lett. p), Cost. che
riserva alla competenza esclusiva statale la disciplina relativa alla
legislazione elettorale, agli organi di governo e alle funzioni fondamentali
di comuni, province e città metropolitane (art. 4, co. 2). Inoltre, la legge
citata demanda allo statuto il compito di stabilire, non più le norme
fondamentali dell’organizzazione dell’ente bensì i principi regolatori in
materia, lasciando poi la concreta attuazione alla potestà regolamentare
dell’ente locale, nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione,
che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive
competenze, conformemente a quanto previsto dagli artt. 114, 117, sesto comma,
e 118 della Costituzione. La disciplina più dettagliata dei
contenuti dello statuto è contenuta nel D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL). Accanto ad
una competenza generale dello statuto (i principi di organizzazione e
funzionamento dell’ente), vi è, infatti, una competenza particolare, che
consiste in quegli elementi o materie che debbono o possono essere
disciplinate nello statuto. Al contempo è possibile distinguere tra un contenuto necessario e contenuto
facoltativo dello statuto. Quello obbligatorio deriva da precise
disposizioni di legge che fanno riferimento alla necessità che lo statuto
disponga nella materia e riguardano l’organizzazione dell’ente, le forme di
garanzia e di partecipazione delle minoranze, le attribuzioni degli organi,
l'ordinamento degli uffici, la gestione dei servizi pubblici locali, la
collaborazione fra gli enti locali, gli istituti di partecipazione, l'accesso
dei cittadini agli atti dell'ente, il decentramento. rappresentato da quelle
materie che necessariamente debbono essere disciplinate e contenute
necessariamente nello statuto. Il contenuto
facoltativo riguarda quegli elementi che la legge ha lasciato come
opzione al normatore statutario locale: in questi casi, lo statuto ha la
facoltà di prevedere o meno determinate materie. Tale contenuto, nella prassi
si è rivelato molto limitato. Ai sensi dell’art. 6 TUEL, lo statuto stabilisce le norme fondamentali
dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le attribuzioni
degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i
modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio.
Prevede, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente,
le forme di collaborazione fra Comuni e Province, della partecipazione
popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e
ai procedimenti amministrativi, lo stemma e il gonfalone e quanto
ulteriormente previsto dal testo unico. Per quanto concerne le modalità per l’adozione dello Statuto:
la competenza alla deliberazione è demandata al Consiglio comunali con il
voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Nel caso in cui la
maggioranza prescritta non venga raggiunta, la votazione deve essere ripetuta
in sedute successive da tenersi entro 30 giorni: lo statuto sarà approvato se
ottiene il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri (art.
6, co. 4, TUEL). La stessa procedura è richiesta per le modifiche da
apportare allo statuto, nonché in caso di abrogazione totale o sostituzione
dello stesso. L'art. 6, comma 5, del TUEL prevede
l'invio degli statuti comunali al Ministero dell’interno che cura la raccolta degli statuti, la
conservazione ed anche la pubblicità attraverso il sito internet. |
|
La legge n. 215/2012
(parità di genere negli enti locali) ha riformulato il comma 3 dell’art. 6
TUEL stabilendo che lo statuto detta norme per assicurare condizioni di pari
opportunità tra uomo e donna, e per garantire
(non solo promuovere) la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli
organi collegiali non elettivi del
comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti, con l’obbligo di adeguare gli statuti e i regolamenti entro il 31
dicembre 2012. |
Ai sensi del Testo unico degli enti
locali, gli organi di governo del comune sono: il consiglio, la giunta e il
sindaco.
Il consiglio comunale è eletto da tutti
i cittadini residenti nel comune con più di 18 anni. La sua composizione varia
a seconda della dimensione demografica del comune. Il consiglio esercita poteri
normativi, di indirizzo e di controllo della giunta.
La giunta rappresenta l’esecutivo del
comune, è composta da un numero di assessori variabile a seconda della
dimensione demografica del comune, nominati dal sindaco. La giunta ha poteri
amministrativi ed è presieduta dal sindaco.
Il sindaco, eletto a suffragio
universale, rappresenta il comune, ne firma gli atti ed è a capo dell’amministrazione.
Egli nomina gli assessori, nonché i rappresentanti del comune presso enti,
aziende ed istituzioni e presiede la giunta. La legge gli attribuisce numerose
funzioni in qualità di ufficiale del Governo.
Il sindaco ed il consiglio comunale
durano in carica per un periodo di cinque anni.
|
Le disposizioni degli organi di
governo del comune sono contenute nel Titolo III della Parte Prima del TUEL. Il consiglio comunale è organo elettivo al quale sono attribuiti
poteri normativi e di controllo della giunta. La composizione del consiglio è stabilita dall’art. 37 TUEL in
numero diverso a seconda della popolazione dei comuni, suddivisi in otto
classi demografiche. Tale disciplina è stata fortemente incisa dalla legge
finanziaria per il 2010 (art. 2, commi 183-187 L. 191/2009), che ha disposto
la riduzione del 20 per cento dei consiglieri comunali. Si veda la circolare del Ministero dell’interno del 18 febbraio
2011, n. 2915, che riporta la
composizione dei consigli comunali per fasce demografiche, nella previsione
dell’art. 37 del TUEL e quella conseguente alla riduzione apportata nel 2011. Sulla materia, è intervenuta una
ulteriore modifica ad opera della legge n. 56/2014 (art. 1, co. 135, che ha
modificato l’art. 16, co. 17, D.L. 138/2011), che ha aumentato il numero di consiglieri e assessori nei comuni
con popolazione inferiore a 10.000 abitanti rispetto alla precedente
disciplina, suddividendo tali comuni in nuove fasce demografiche: 10
consiglieri e numero massimo di 2 assessori nei comuni fino a 3.000 abitanti,
12 consiglieri e numero massimo di 4 assessori nei comuni con popolazione tra
3.001 e 10.000 abitanti. Il Consiglio comunale, come accennato,
è l’organo di indirizzo e controllo:
ha competenza sugli atti fondamentali, tra i quali lo statuto (art. 42 TUEL),
può istituire commissioni d’indagine e, a maggioranza assoluta, può approvare
una mozione di sfiducia che fa cessare dalla carica il sindaco, determinando
di conseguenza lo scioglimento del
Consiglio stesso (art. 52 TUEL). I consigli comunali vengono sciolti,
altresì, in presenza di una delle condizioni stabilite dall’art. 141 TUEL
(mancata approvazione del bilancio o del rendi conto di gestione; mancata
adozione degli strumenti urbanistici generali, impedimento permanente,
rimozione, decadenza o decesso del sindaco, ecc.) e dall’art. 143 TUEL
(infiltrazione e condizionamenti di tipo mafioso). L’art. 6 del decreto
legislativo n. 149/2011 (c.d. decreto premi e sanzioni), ha introdotto, al
comma 2, una ipotesi di scioglimento del consiglio in caso di dissesto
finanziario dell’ente. La giunta è composta dal sindaco e dagli assessori, nominati dal
sindaco. Il numero degli assessori
è stabilito dagli statuti e non deve essere superiore, in seguito alle
modifiche introdotte con la L. 191/2009, ad un quarto (prima era un terzo),
arrotondato aritmeticamente, del numero dei consiglieri comunali, computando
a tale fine il sindaco, e comunque non può essere superiore a dodici unità (art.
47, co. 1, TUEL). Il numero degli assessori è stabilito dallo statuto
dell’ente, che può indicare un numero fisso o un numero massimo, nel rispetto
dei limiti anzidetti (art. 47, co. 2, TUEL). La legge n. 56/2014 ha sancito
che nelle giunte comunali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in
misura inferiore al 40 per cento, ad eccezione dei comuni con popolazione
fino a 3.000 abitanti. Nei comuni con popolazione superiore ai 15.000
abitanti la carica di assessore è incompatibile con quella di consigliere
(art. 64 TUEL). La giunta collabora con il sindaco
nell’attuazione degli indirizzi del Consiglio, svolge attività propositive e
di impulso nei confronti del medesimo cui riferisce annualmente sulla propria
attività. La giunta opera attraverso deliberazioni collegiali, adotta inoltre
i regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi. Il sindaco, eletto a suffragio universale direttamente dai
cittadini, è il capo dell’amministrazione comunale, membro del consiglio
comunale e nomina i componenti della giunta. Dura in carica 5 anni. Chi ha
ricoperto la carica di sindaco per due mandati consecutivi non è
immediatamente rieleggibile alle medesime cariche, a meno che uno dei due
mandati precedenti abbia avuto durata inferiore a 2 anni 6 mesi e un giorno,
per causa diversa dalle dimissioni volontarie (art. 51 TUEL). La legge n.
56/2014 ha abolito il divieto del
terzo mandato consecutivo per i sindaci dei comuni fino a 3.000 abitanti.
È comunque posto il limite massimo di tre mandati consecutivi. Il sindaco rappresenta l’ente, convoca
e presiede la giunta, nonché il consiglio quando non è previsto il presidente
del consiglio, e sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e
all’esecuzione degli atti. Esercita tutte le funzioni attribuite dalle leggi,
dallo statuto e dai regolamenti e sovrintende altresì all’espletamento delle
funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune (art. 50 TUEL). Il sindaco opera sia come
rappresentante e capo dell’amministrazione locale, sia come organo del
Governo sul territorio. Nella veste di ufficiale
di Governo, il sindaco gestisce i servizi elettorali, di stato civile, di
anagrafe, di leva militare e di statistica (art. 14 TUEL). Ai sensi dell’art.
54 TUEL, il sindaco, sempre nella sua funzione di ufficiale di Governo: emana
atti in materia di ordine e sicurezza pubblica, svolge funzioni in materia di
polizia giudiziaria, vigila sulla sicurezza e l’ordine pubblico, adotta ordinanze
contingibili ed urgenti in caso di pericolo per l’incolumità dei cittadini,
in caso di emergenza (traffico e/o inquinamento) ordina la modifica degli
orari di uffici e servizi, pubblici o privati. Ulteriori funzioni del sindaco
quale ufficiale di Governo sono stabilite dalle norme di settore. Tra le novità più recenti, si segnala l’introduzione dell’obbligo in
capo al sindaco di trasmettere ogni sei mesi alla Corte dei conti un referto
sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e adeguatezza del sistema
dei controlli interni (art. 3, co. 1, lett. e), D.L. n. 174/2012), nonché
l’introduzione della relazione di fine mandato (art. 4, D.lgs. n. 149/2011,
come succ. mod.)che contiene la descrizione dettagliata delle principali
attività normative e amministrative svolte durante il mandato con riferimento
ai dati relativi alla gestione finanziaria ed economica. Inoltre, il D.L. n. 138/2011
ha stabilito l’incompatibilità della carica di parlamentare e delle cariche
di governo nei confronti di qualsiasi altra carica pubblica elettiva di
natura monocratica relativa ad organi di governo di enti pubblici
territoriali con popolazione superiore a 5.000 abitanti (art. 13, comma 3). Per quanto concerne il sistema elettorale degli organi comunali,
le elezioni del sindaco e del consiglio comunale si svolgono contestualmente
con sistema elettorale che varia a seconda della popolazione del comune. Ai sensi dell’articolo 71 TUEL, nei comuni con popolazione inferiore a
15.000 abitanti il sindaco ed il consiglio comunale sono eletti con sistema
maggioritario sulla base di liste concorrenti nell’intero territorio del
comune. Le liste sono composte di candidati in numero non superiore ai
consiglieri da eleggere e non inferiore a tre quarti di quel numero. Ciascuna
lista esprime anche un candidato capolista che è candidato alla carica di
sindaco. Non sono consentiti apparentamenti o collegamenti: ciascuna lista
esprime il proprio candidato alla carica di sindaco. L’elettore dispone di un
voto e vota contestualmente la lista ed il relativo candidato alla carica di
sindaco. Dispone anche di un voto di preferenza in favore di un candidato
della lista prescelta. È eletto alla carica di sindaco il candidato che ha
ottenuto il maggior numero di voti validi. Si procede ad una votazione di
ballottaggio soltanto nel caso di parità di voti. Dopo la seconda votazione
si procede comunque alla proclamazione. Nei comuni con popolazione uguale o superiore a 15.000 abitanti il
sindaco ed il consiglio comunale sono eletti contestualmente, con votazione a
doppio turno, ripartizione proporzionale dei seggi fra le liste concorrenti
ed esito maggioritario in favore del gruppo di liste collegate al sindaco
eletto. La circoscrizione elettorale è costituita dall’intero territorio del
comune. All’assegnazione dei seggi concorrono liste di candidati composte da
un numero massimo di candidati pari ai seggi spettanti al comune e un numero
minimo pari ai due terzi. Ciascuna lista deve indicare il candidato alla
carica di sindaco. Più liste possono indicare un medesimo candidato alla
carica di sindaco e costituiscono per questo un gruppo di liste collegate. Le
candidature alla carica di sindaco indicano la lista, o le liste, ad esse
collegate. La normativa per l’elezione dei
consigli comunali è stata modificata con la legge 23 novembre 2012, n. 215, che
ha introdotto disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle
rappresentanze di genere. Per i comuni
con popolazione superiore a 5.000 abitanti, la legge, prevede una duplice
misura: § la cd. quota di
lista: nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura superiore a due terzi; § l'introduzione della
cd. doppia preferenza di genere, che consente all'elettore di
esprimere due preferenze (anziché una, come previsto dalla normativa
previgente) purché riguardanti candidati di sesso diverso, pena l’annullamento
della seconda preferenza. L’articolo 76 TUEL prevede l’anagrafe degli amministratori locali, costituita dalle notizie relative agli eletti nei comuni,
province e regioni concernenti i dati anagrafici, la lista o gruppo di
appartenenza o di collegamento, il titolo di studio e la professione
esercitata. Per quanto riguarda lo status degli amministratori locali,
si ricorda che l’ordinamento prevede che il relativo trattamento economico è costituito dall’indennità di funzione e
dai gettoni di presenza (articolo 82 TUEL). L’indennità di funzione è
corrisposta per le cariche di sindaco, presidente del consiglio comunale e
assessori. Essa è stabilita con provvedimenti statali (decreto del Ministro dell’interno 4 aprile 2000, n. 119). I gettoni di presenza sono corrisposti ai consiglieri
comunali per la partecipazione alle sedute. La loro corresponsione è comunque
subordinata alla effettiva partecipazione del consigliere a consigli e
commissioni. Il decreto legge n. 112/2008 (conv. L.
n. 133/2008) ha disposto la riduzione
del 30%, rispetto all’ammontare alla data del 30 giugno 2008, delle indennità di funzione e dei gettoni
di presenza per gli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità
interno nell’anno precedente (art. 61, comma 10, primo periodo). La
medesima disposizione è contenuta nella legge di stabilità per il 2011 (art.
1, co. 120, L. n. 220/2010). Inoltre, il D.L. 112 ha previsto la sospensione
sino al 2011 della possibilità di incremento dei medesimi compensi, cioè di
attivare previsti adeguamenti triennali disposti con decreto del ministro
dell'interno sulla base della media degli indici ISTAT di variazione del
costo della vita (art. 61, co. 10, secondo periodo). Infine, ha eliminato la
facoltà per gli organi degli enti locali di incrementare, con delibera del
consiglio o della giunta, le indennità di funzione. Con la stessa finalità il D.L. n.
78/2010: ha soppresso la parametrazione dell’indennità dei sindaci al
trattamento economico fondamentale del segretario generale (art. 5, co. 6,
lett. a); ha ridotto l’indennità di
funzione di sindaci, assessori ed altri amministratori locali, per un
periodo non inferiore a tre anni, di una percentuale pari a: 3% per i comuni
con popolazione fino a 15.000 abitanti; 7% per i comuni con popolazione tra
15.001 e 250.000 abitanti; 10% per i restanti comuni (art. 5, co. 7). Inoltre, il D.L. n. 138/2011 ha
stabilito che le spese di
rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali devono
essere elencate, per ciascun anno, in apposito prospetto allegato al
rendiconto (art. 16, comma 26). |
|
Nelle ultime
legislature, l’assetto degli enti locali è stato oggetto di costante
attenzione da parte del legislatore, attraverso numerosi interventi normativi
tra i quali quelli diretti alla rideterminazione
degli emolumenti e del numero dei componenti degli organi. In
particolare, la legge finanziaria per il 2010 ha disposto la diminuzione del
numero dei consiglieri comunali e degli assessori comunali e provinciali.
Ulteriori misure sono state adottate con finalità di contenimento della spesa
pubblica, per limitare e ridurre l’ammontare degli emolumenti spettanti agli
amministratori locali (art. 61, D.L. n. 112/2008; art. 5, D.L. 78/2010; art.
16, co. 26, D.L. n. 138/2011). La L. n. 215/2012 ha modificato la normativa per l’elezione dei
consigli comunali, introducendo disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di
genere. La L. n. 56/2014 ha rideterminato il
numero di consiglieri e assessori nei comuni fino a 10.000 abitanti ed ha
abolito il divieto del terzo mandato consecutivo per i sindaci dei comuni
fino a 3.000 abitanti. |
Le circoscrizioni di decentramento
comunale sono organismi di partecipazione, di consultazione e di gestione dei
servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune.
Attualmente le circoscrizioni sono
ammesse solo nei comuni con popolazione superiore ai 250.000 abitanti; a
partire dal 2011, infatti, si è proceduto alla soppressione delle
circoscrizioni nei comuni con popolazione inferiore per ragioni di riduzione
della spesa pubblica.
L’organizzazione e le funzioni delle
circoscrizioni sono disciplinate dallo Statuto comunale e da apposito
regolamento.
|
La definizione di circoscrizioni
comunali quali organismi che rispondono ad esigenze di decentramento e di
partecipazione è contenuta dapprima nell’articolo 13 della L. n. 142/1990,
poi trasfuso nell’art. 17, co. 1, TUEL. Le modifiche legislative
successivamente intervenute hanno apportato significative modificazioni a
questo istituto, limitando la facoltà
per i comuni di procedere alla istituzione delle Circoscrizioni. In particolare, la legge finanziaria per il 2008 ha
limitato l'obbligo della creazione delle Circoscrizioni non più ai Comuni con
più di 100.000 abitanti, ma a quelli con popolazione superiore a 250.000
abitanti, mentre la facoltà di istituirle riguardava i Comuni con popolazione
compresa tra 100.000 e 250.000 abitanti ed alla condizione che la popolazione
media delle circoscrizioni non fosse inferiore a 30.000 abitanti (così
dispone ancora oggi l'art. 17, co. 1, del D.Lgs. n. 267 del 2000, come
modificato dall'art. 2, comma 29, della L. 24 dicembre 2007, n. 244). Ai fini del contenimento della spesa
pubblica e, precipuamente, al fine di procedere ad una riduzione del fondo
ordinario spettante ai comuni, la legge
finanziaria per il 2010 (art. 2, co. 186, lett. b), L. n. 191/2009) ha soppresso le circoscrizioni di
decentramento comunale, tranne che per
i comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti, che hanno facoltà
( non più obbligo) di articolare il loro territorio in circoscrizioni, la cui
popolazione media non può essere inferiore a 30.000 abitanti. Tali
disposizioni si sono applicate a decorrere dal 2011, e per tutti gli anni a
seguire, ai singoli enti in occasione del primo rinnovo del rispettivo
consiglio, con efficacia dalla data del medesimo rinnovo (come chiarito dal
D.L. n. 2/2010, conv. da L. n. 42/2010). Resta ferma la previsione del TUEL
circa la facoltà per i comuni con
popolazione superiore a 300.000 abitanti di prevedere, nello Statuto,
particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni e di
autonomia organizzativa e funzionale, determinando altresì, anche con il
rinvio alla normativa applicabile ai comuni aventi uguale popolazione, gli
organi di tali forme di decentramento, lo status
dei componenti e le relative modalità di elezione, nomina o designazione. Pertanto, alla luce della normativa
vigente, i comuni che hanno facoltà di istituire o mantenere le
circoscrizioni comunali sono Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova,
Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia e Verona. Le circoscrizioni sono sostanzialmente
articolazioni dell'organizzazione politica e amministrativa comunale. Ad esse
è attribuibile la finalità sotto il profilo politico di promuovere la
partecipazione e la consultazione della popolazione ed operare in forma
decentrata la gestione dei servizi di base e l'esercizio delle funzioni
delegate dalla Giunta comunale e dal Sindaco. Sotto il profilo
amministrativo, hanno la finalità di promuovere il decentramento burocratico
amministrativo dei servizi negli ambiti territoriali di articolazione della
circoscrizione. In base al TUEL, l’organizzazione e le funzioni delle circoscrizioni sono
disciplinate dallo Statuto comunale e da apposito regolamento (art. 17, co.
2). Gli organi delle circoscrizioni rappresentano le esigenze della
popolazione nell'ambito dell'unità del Comune e sono eletti nelle forme
stabilite dallo statuto comunale e dal regolamento (art. 17, co. 4). Per quanto concerne gli organi,
pertanto, il sistema di designazione è rimesso all’autonomia statutaria. Di
recente, è stato riconosciuto esplicitamente il vincolo al rispetto della
parità di genere, prevedendo che le modalità di elezione dei consigli
circoscrizionali e la nomina o la designazione dei componenti degli organi
esecutivi sono comunque disciplinate in modo da garantire il rispetto del
principio della parità di accesso delle donne e degli uomini alle cariche
elettive, e agli uffici pubblici (L. n. 215/2012). Gli organi di norma
previsti sono il consiglio circoscrizionale, il presidente ed (in alcuni
casi) la giunta esecutiva. In base all’art. 55 TUEL, sono
eleggibili a consigliere circoscrizionale gli elettori di un qualsiasi comune
della Repubblica che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età, nel primo
giorno fissato per la votazione. Gli statuti comunali hanno previsto, in
generale, l’elezione dei consigli circoscrizionali a suffragio diretto, che
avviene, per legge (art. 4, L. n. 182/1991), contemporaneamente all’elezione
del consiglio comunale. Nell’ambito dell’ampia autonomia
riconosciuta ai comuni, lo statuto definisce anche i servizi e le funzioni
delegate alle circoscrizioni ed il regolamento ne stabilità le modalità di
esercizio e gestione. Le norme statutarie possono prevedere
la possibilità di delega da parte della Giunta comunale e del Sindaco ai
Consigli di circoscrizione. La delega può essere per materia, o per progetti,
e deve prevedere la contestuale individuazione delle risorse finanziarie e strumentali. |
|
La legge finanziaria per il 2010 ha soppresso, a
decorrere dal 2011, le circoscrizioni di decentramento comunale, tranne che
per i comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti, che hanno facoltà
(non più obbligo) di articolare il loro territorio in circoscrizioni, la cui
popolazione media non può essere inferiore a 30.000 abitanti (art. 2, co.
186, lett. b), L. n. 191/2009). Il D.L. n. 201/2011
(art. 23, co. 22), nel sopprimere ogni forma di remunerazione, indennità o
gettone di presenza per i titolari di qualsiasi carica o organo di natura
elettiva di un ente territoriale non previsto dalla Costituzione, ha previsto
una deroga per le circoscrizioni di decentramento comunale dei comuni con
popolazione superiore a 250.000 abitanti. |
I comuni sono titolari di funzioni
fondamentali (art. 117 Cost. ) e di funzioni conferite dallo Stato e dalle
Regioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà c.d. verticale, in base al
quale le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che per
assicurarne l’esercizio unitario siano conferite ai livelli superiori di
governo (art. 118 Cost.).
Le funzioni fondamentali sono state
individuate con il D.L. n. 95/2012, mentre le altre sono conferite con legge
dello Stato o legge regionale, sulla base delle rispettive competenze di
materia. In via generale, il TUEL affida ai comuni la competenza su tutte le
funzioni pubbliche amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale.
|
L’articolo
117 della Costituzione individua, tra le materie di competenza
legislativa esclusiva dello Stato, le funzioni
fondamentali di comuni, province, e città metropolitane, accanto alla
legislazione elettorale e alla disciplina degli organi di governo degli enti
locali. Al contempo, le funzioni fondamentali non sono oggetto di definizione
nella Carta costituzionale; inoltre, l’art. 118, secondo comma, prevede che i
comuni (le province e le città metropolitane) siano titolari di funzioni amministrative proprie e di
funzioni conferite con legge statale o regionale secondo le rispettive
competenze. La differente qualificazione costituzionale delle funzioni non ha
impedito, in sede di dottrina, di identificare le funzioni proprie con quelle
fondamentali (quindi da determinare con legge statale), con individuazione
uniforme a livello nazionale delle funzioni di base. Sulle funzioni degli enti locali, il
TUEL ha posto una disciplina che non distingue tra le funzioni fondamentali e
le altre. L’art. 13 del D.Lgs.
267/2000, infatti, attribuisce al comune tutte le funzioni amministrative
che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei
settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed
utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia
espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze. L’art. 14 prevede che il comune gestisce i
servizi elettorali, di stato civile, di anagrafe, di leva militare e di statistica
e che le relative funzioni sono esercitate dal sindaco quale ufficiale del
Governo. Ulteriori funzioni amministrative per servizi di competenza statale
possono essere affidate ai comuni dalla legge che regola anche i relativi
rapporti finanziari, assicurando le risorse necessarie. L’attuazione
del dettato costituzionale è stata tentata una prima volta con la legge n.
131 del 2003 che recava la delega, mai esercitata, per l’individuazione delle
“funzioni fondamentali, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera
p), della Costituzione” (art. 2). Inoltre, nella XVI legislatura, è stato
presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge di iniziativa
governativa (A.C. 3138, C.d. Carta delle autonomie) che, nell’ambito di una
più ampia riforma dell’ordinamento regionale e degli enti locali, provvedeva
anche all’individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni.
Tale provvedimento è stato approvato in prima lettura alla Camera il 30
giugno 2010 e trasmesso al Senato (A.S. 2259) ove l’esame non si è concluso. Parallelamente, il legislatore aveva
definito in via provvisoria e per
specifiche finalità le funzioni fondamentali nelle more dell’attuazione
del disposto costituzionale: così l’art. 21, comma 3, della L. n. 42/2009
(delega in materia di federalismo fiscale), che aveva provveduto
all’individuazione provvisoria per la determinazione dei fabbisogni e delle
spese degli enti locali; e l’art. 14, comma 27, del D.L. n. 78/2010, che
aveva definito le stesse funzioni mediante rinvio alla precedente fonte
normativa, a fini della gestione associata obbligatoria delle funzioni
fondamentali. La individuazione “a regime” delle funzioni fondamentali dei comuni,
in attuazione dell’art. 117, comma secondo, lett. p), Cost., è avvenuta solo
con l’art. 19 comma 1, lett. a) del
D.L. n. 95/2012 (conv. L. n. 135/2012). Le funzioni così individuate
comprendono sia quelle strumentali, relative alla gestione e organizzazione
degli enti, sia quelle dirette alla comunità territoriale. In particolare,
sono funzioni fondamentali dei comuni: a) organizzazione generale
dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici
di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto
pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle
funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed
edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di
pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l’organizzazione e la gestione dei
servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la
riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del
sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni
ai cittadini; h) edilizia scolastica per la parte
non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei
servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia
amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile
e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia
di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis)
i servizi in materia statistica. A tale individuazione è apposta una
specifica clausola di salvezza delle funzioni di programmazione e di
coordinamento delle regioni per le materie di legislazione concorrente e
residuale e delle funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della
Costituzione. Per quanto riguarda il conferimento di funzioni, la legge di
riforma di province e città metropolitane (L. 7 aprile 2014, n. 56), oltre ad individuare per tali enti
locali l’elenco delle funzioni fondamentali, ha stabilito una riassegnazione
delle funzioni non fondamentali delle province in capo agli altri enti
territoriali. In fase attuativa, è stato sancito un Accordo nella seduta della Conferenza unificata dell’11
settembre 2014, in base al quale Stato e Regioni devono valutare quali
funzioni già esercitate dalle province siano da conferire alle città
metropolitane, al fine di valorizzare tale livello quale elemento di
innovazione istituzionale. Le residue funzioni sono conferite a livello
comunale, definendo se debbono essere esercitate in forma singola o
associata, ovvero, per quelle che richiedono un esercizio unitario, a livello
regionale. Per l’attuazione di tali disposizioni si rinvia, infra, al paragrafo sulle province. |
|
In attuazione dell’art.
117, comma secondo, lett. p), Cost., l’art. 19 comma 1, lett. a) del D.L. n.
95/2012 (conv. L. n. 135/2012) ha provveduto alla individuazione delle funzioni fondamentali dei comuni. Relativamente al conferimento di
funzioni, in attuazione della legge di riforma di province e città
metropolitane (L. n. 56/2014, c.d. legge Delrio) è in atto un riordino delle
funzioni non fondamentali già attribuite alle province ad opera di Stato e
Regioni con contestuale riassegnazione di tali funzioni anche in favore dei
Comuni. |
La gestione
associata delle funzioni e dei servizi comunali è finalizzata a superare le
difficoltà legate alla frammentazione dei piccoli
comuni per la razionalizzazione della spesa e per il conseguimento di una
maggiore efficienza dei servizi.
L’ordinamento
prevede la possibilità di esercitare in forma associata le funzioni locali
attraverso due strumenti:
· la convenzione;
·
l’unione di comuni.
La
forma più compiuta di semplificazione e razionalizzazione delle piccole realtà
locali è costituita dall’istituto della fusione
di comuni (per il quale si rinvia
allo specifico paragrafo).
Gli
enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni per svolgere in modo coordinato determinati funzioni e
servizi.
In
alternativa, due o più comuni possono costituire una unione, vero e proprio ente locale dotato di statuto e di organi
rappresentativi propri, per l’esercizio stabile di funzioni e servizi.
L’ordinamento
prevede due tipologie di esercizio in forma associata tramite unione di comuni
o convenzione: quella, facoltativa,
per l’esercizio associato di determinate
funzioni e quella obbligatoria, per
i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti per l’esercizio delle funzioni fondamentali (sul punto v. infra). Ad entrambe si applicano le
modalità definite dall’art. 32 del TUEL.
Una
terza tipologia, l’unione speciale,
ossia l’unione dei comuni fino a 1.000 abitanti per l’esercizio associato di tutte le funzioni amministrative, è
stata abrogata dalla legge 56/2014.
Le regioni hanno il compito di individuare
i livelli territoriali ottimali di esercizio associato di funzioni comunali, di
promuovere e favorire l’associazionismo.
Disposizioni
incentivanti sono previste anche da
parte dello Stato nella forma di contributi e di agevolazioni in materia di
rispetto del patto di stabilità interno. Gli incentivi sono destinati sia ai
comuni che stipulano convenzioni o che formano unioni di comuni, sia a quelli
che danno vita a fusioni di comuni.
Nel corso di un’indagine conoscitiva sulla
gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali
svolta
dalla I Commissione della Camera è stato ricordato come (al dicembre 2015) le
unioni di comuni sono 450 e coinvolgono 2.401 comuni, pari al 29,83 per cento
dei comuni italiani, con una popolazione residente pari a 9 milioni e 981 mila abitanti. Di
queste circa il 50 per cento sono unioni «di necessità» (ossia obbligate per
legge). Le regioni maggiormente interessate sono Piemonte, Lombardia, Veneto,
Emilia Romagna e Sicilia.
Un
database analitico è curato dal
centro studi dell’ANCI “Cittalia”.
Per
approfondire:
·
Ministero dell’interno, Gestione associata delle funzioni e dei
servizi degli enti locali
·
ANCI, Unioni di comuni
·
ANCI Piemonte, Manuale
gestioni associate 2014
·
ANCI Marche, Piccoli comuni
e gestione associata, 2014
·
Legautonomie, Piccoli comuni
|
Le
modalità di esercizio in forma associata delle funzioni degli enti locali
sono disciplinate principalmente dal Testo unico degli enti locali (articoli
30-35), dal decreto-legge n. 78 del 2010 (art. 14, commi 26 e seguenti) e
dalla legge n. 56 del 2014 (art. 1, commi 104 e seguenti). Lo
strumento più funzionale e flessibile di gestione associata è costituito
dalla convenzione tra comuni per
la gestione di una o più funzioni o servizi (art. 30 TUEL). Con la stipula
della convenzione i comuni contraenti stabiliscono il fine e la durata della
convenzione, oltre alle forme di consultazione tra gli enti aderenti, i loro
rapporti finanziari e i reciproci obblighi e garanzie. Gli enti aderenti
possono esercitare in comune le funzioni associate, oppure possono costituire
uffici comuni per l’esercizio delle funzioni o delegare ad uno di essi
(comune capofila) tale esercizio. Lo
Stato e le regioni possono prevedere forme di convenzione obbligatoria per la
gestione a tempo determinato di uno specifico servizio o per la realizzazione
di un’opera, nell’ambito della delega di funzioni in materie di propria
competenza. Più
strutturato lo strumento dell’unione
di comuni, che si configura come una entità stabile, dotata di statuto e
di organi di Governo propri. L’unione
di comuni è definita dalla legge quale ente locale, costituito da due o più
comuni, di norma confinanti, per esercitare in modo associato più funzioni e
servizi comunali (art. 32 TUEL). Ogni comune può far parte di una sola unione
di comuni. È previsto, inoltre, l’utilizzo sinergico dei due strumenti
(unione e convenzione): infatti una unione di comuni può stipulare
convenzioni con altre unioni o con singoli comuni. Sono
organi dell’unione il presidente,
la giunta e il consiglio, formati da sindaci, assessori e consiglieri in
carica nei comuni associati che non percepiscono indennità ulteriori a quelle
loro spettanti come amministratori dell’ente di provenienza. L’unione
adotta uno statuto e definisce
propri regolamenti. All’unione si applicano le disposizioni generali sugli
enti locali, in quanto compatibili, comprese quelle in materia di status degli amministratori,
dell’ordinamento finanziario e contabile, del personale e dell’organizzazione. Il
presidente dell’unione di comuni si avvale di un segretario di un comune
facente parte dell’unione. Le regioni hanno un ruolo centrale nella
gestione dell’associazionismo dei comuni situati nei rispettivi territori: la
legge regionale individua i livelli
ottimali di esercizio dell’esercizio associato di funzioni oltre ai
soggetti, le forme e i termini temporali di tale esercizio, oltre che
specifiche forme di incentivazione, ulteriori a quelle statali. In caso di
inadempienza la regione esercita il potere
sostitutivo. Per
i piccoli comuni era previsto l’istituto dell’unione speciale, ossia l’unione obbligatoria per l’esercizio di tutte
le funzioni amministrative, abrogata dalla legge 56/2014. Rimane vigente la gestione obbligatoria delle funzioni fondamentali,
da esercitarsi indifferentemente con lo strumento della convenzione o con
quello dell’unione. L’esercizio delle funzioni comunali fondamentali,
disciplinato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 14, è obbligatorio per i comuni
fino a 5.000 abitanti (3.000 se appartenenti a comunità montana). Sono
esclusi i comuni il cui territorio coincide con una o più isole e il comune
di Campione d’Italia. Per le modalità di svolgimento della gestione associata
si applicano le disposizioni del testo unico sopra sintetizzate e le
ulteriori prescrizioni recate dal medesimo D.L. 78, fra cui il requisito del
limite demografico minimo dell’unione o convenzione fissato in 10.000
abitanti (3.000 per i comuni montani). Le funzioni fondamentali dei comuni (individuate
dal medesimo D.L. 78/2010, art. 14, comma 27) sono le seguenti: · organizzazione
generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; · organizzazione dei
servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i
servizi di trasporto pubblico comunale; · catasto, ad eccezione
delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; · la pianificazione
urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla
pianificazione territoriale di livello sovracomunale; · attività, in ambito
comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi
soccorsi; · l'organizzazione e la
gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti
urbani e la riscossione dei relativi tributi; · progettazione e
gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative
prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto
comma, della Costituzione; · edilizia scolastica
per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e
gestione dei servizi scolastici; · registri di stato
civile, servizi anagrafici e servizi elettorali (tale funzione non è
oggetto di esercizio associato obbligatorio); · polizia municipale e
polizia amministrativa locale; · i servizi in materia
statistica. |
||
|
|
Il decreto-legge 210/2015 (conv. L. 25
febbraio 2016, n. 21) (articolo 4, comma 4) ha prorogato al 31 dicembre 2016 i termini -
individuati dall’articolo 14, comma 31-ter,
del D.L. 78/2010 – entro i quali diventa obbligatoria
la gestione in forma associata delle funzioni fondamentali dei piccoli
comuni. La legge di stabilità 2016 ha, al
contempo, introdotto una serie di disposizioni volte ad incentivare le unioni
di comuni. Vengono in rilievo, in particolare, i commi 17 (conferma a regime
della destinazione di risorse in favore delle unioni e delle fusioni di
comuni nell’importo di 60 milioni) e 229 sulle risorse del personale. In
particolare, con il comma 17 -
nell’ambito della dotazione del Fondo di solidarietà comunale (ridefinita in
conseguenza delle misure compensative del minor gettito IMU e TASI previsto
dall'attuazione del nuovo sistema di esenzione) - viene consolidata la destinazione di risorse in favore delle unioni e
delle fusioni di comuni, già prevista limitatamente al triennio 2014-2016 (L.
228/2012, art. 1, co. 380-ter) nell’importo di 60 milioni (art. 1, comma 17,
lett. b). In particolare, con la sostituzione dell’ultimo periodo del comma
380-ter, si conferma a regime la
destinazione di 30 milioni di euro (in precedenza limitata al triennio
2014-2016) ad incremento del contributo spettante alle unioni di comuni
(previsto ai sensi dell’art. 53, co. 10, della legge n. 388/2000) e di 30
milioni di euro ai comuni istituiti a seguito di fusione, ai sensi
dell'articolo 20 del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (cd. decreto spending review). Infine,
il comma 229, in deroga alla
normativa generale in materia di turn
over, autorizza dal 2016 i comuni istituiti dal 2011 per effetto di
fusioni, nonché le unioni di comuni, ad assumere
personale a tempo indeterminato nel limite del 100 per cento della spesa
relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente.
Sono fatti salvi i vincoli generali sulla spesa del personale. La legge n. 56 del 2014 di riforma degli
enti locali, oltre a istituire le città metropolitane e a ridefinire
profondamente il sistema delle province, ha modificato sensibilmente anche la
disciplina sulle unioni e sulle fusioni di comuni. In materia di unioni di comuni, rileva, in primo luogo,
l’abrogazione da parte della legge 56/2014 dell’unione speciale, ossia dell'unione dei comuni fino a 1.000 abitanti
l’esercizio associato di tutte le
funzioni amministrative (comma 104). Si tratta di una particolare forma di
unione di comuni, alternativa a quella per l’esercizio delle funzioni
fondamentali e disciplinata in deroga all’art. 32 del TUEL, introdotta dall’art.
16 del D.L. 138/2011, prima in via obbligatoria, poi, in seguito delle
modifiche apportate dall'art. 19 del D.L. 95/2012, resa facoltativa. Per quanto riguarda le unioni ordinarie, particolare
importanza riveste la previsione che lo Stato e le regioni, secondo le
proprie competenze, possano attribuire alcune funzioni provinciali anche alle
unioni di comuni (comma 89). Un’altra serie di modifiche apportate dalla legge 56
riguarda l’organizzazione interna
delle unioni: viene demandato allo statuto la definizione del numero dei
componenti del consiglio dell'unione, modificando l’art. 32 del TUEL che ne
fissava il numero massimo nella stessa misura di quello previsto per i comuni
con popolazione pari a quella complessiva dell'ente. Le modalità di composizione
del consiglio dovranno garantire non solamente la rappresentanza delle
minoranze, ma quella di ogni comune: in pratica ogni comune dovrà avere
almeno un proprio rappresentante nel consiglio dell'unione. Inoltre, viene
specificato che lo statuto deve indicare le modalità di funzionamento degli
organi e la disciplina dei rapporti tra gli organi medesimi. Si interviene
anche sulle modalità di adozione dello statuto, che solo in fase di prima
attuazione dell'unione viene approvato dai consigli dei comuni partecipanti,
mentre il consiglio dell'unione interviene sulle successive modifiche e
integrazioni (autonomia statutaria dell'unione, comma 105). Ai sensi del
comma 106, lo statuto dell'unione di comuni deve rispettare i principi di
organizzazione e di funzionamento e le soglie demografiche minime qualora
siano previsti dalle leggi regionali. In ordine allo status degli amministrazioni locali rileva
il comma 109 che prevede l’applicazione delle disposizioni più favorevoli in
materia di ineleggibilità, incandidabilità, incompatibilità e inconferibilità
relative ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, agli
amministratori del comune nato dalla fusione o delle unioni di comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti, ma solamente per il primo mandato. Diverse disposizioni intervengono in ordine alle funzioni delle unioni di comuni. Una prima serie di norme (comma 110) riguarda le modalità
di esercizio in forma associata di alcune funzioni in materia di controllo
interno comprese quelle di prevenzione della corruzione introdotte dalla c.d.
legge Severino (L. 190/2012) e dai relativi decreti delegati. In particolare,
si prevede che le funzioni di responsabile anticorruzione e di responsabile
della trasparenza siano svolte in forma associata per tutti i comuni
dell'unione con la nomina di un unico funzionario per ciascuna delle due
funzioni. Si dispone, inoltre, che le funzioni di revisione contabile possono
essere demandate ad un revisore unico per le unioni formate da comuni che non
superano complessivamente i 10.000 abitanti e, per le altre, da un collegio
di revisori, mentre le funzioni di valutazione e controllo di gestione
possono essere attribuite dal presidente dell'unione sulla base di un
apposito regolamento. Sempre in materia di funzioni delle unioni si prevede: · l’attribuzione al
presidente dell'unione delle funzioni di polizia locale, laddove queste siano
state conferite all'unione (comma 111); · l’esercizio della
funzione di protezione civile, sul territorio dei comuni che abbiano
conferito all'unione tale funzione fondamentale, limitatamente ai compiti di
approvazione e aggiornamento dei piani di emergenza e le connesse attività di
prevenzione e approvvigionamento, mentre, al verificarsi di situazioni di
emergenza, rimangono in capo al sindaco dei singoli comuni dell’unione in
qualità di autorità comunale di protezione civile, la direzione dei servizi
di emergenza che insistono sul territorio del comune, i compiti di
coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni
colpite, nonché gli interventi necessari, dandone immediata comunicazione al
prefetto e al presidente della giunta regionale (comma 112); · il riconoscimento
che, nel caso di unioni a cui siano state conferite le funzioni di polizia
municipale, la disciplina vigente relativa alle funzioni di polizia
giudiziaria si intende riferita al territorio dell’unione (comma 113). In materia di personale
dell’unione di comuni si prevede che, in caso di trasferimento di
dipendenti dal comune all’unione, le risorse già quantificate dal comune e
destinate a finanziare istituti contrattuali ulteriori rispetto al
trattamento economico fondamentale, confluiscono nelle risorse dell'unione
(comma 114). Infine, rilevano alcune disposizioni incentivanti, applicabili sia alle unioni, sia alle
fusioni di comuni. In primo luogo, si dà facoltà alle regioni di individuare
misure di incentivazione alle unioni e fusioni nella definizione del patto di
stabilità interno verticale (comma 131). Inoltre, (comma 134) si prevede che
i progetti presentati dai comuni istituiti per fusione o dalle unioni di comuni
abbiano, nel 2014, priorità nell'accesso alle risorse del Primo Programma cd.
"6.000 campanili" (di cui all'articolo 18, comma 9, del
decreto-legge n. 69 del 2013). Anche la legge di stabilità 2015 (art. 1, co. 450) è
intervenuta in materia prevedendo che per i comuni che esercitano in forma
associata le proprie funzioni fondamentali ai sensi dell'articolo 14 del
decreto-legge n. 78 del 2010 – vale a dire mediante unione ovvero mediante
convenzione – le spese di personale e le facoltà di assunzione sono
considerate "in maniera cumulata" tra i comuni medesimi mediante
"forme di compensazione" tra gli stessi, nel rispetto dei vincoli
previsti dalle vigenti disposizioni e dell’invarianza della spesa
complessiva. Con un'altra disposizione si prevede che il contributo di 5
milioni (di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 120/2013 che ha
stabilito per l'anno 2013, una integrazione della quota spettante a ciascun
comune del Fondo di solidarietà comunale per un importo complessivo di 125
milioni di euro, di cui 5 milioni destinati ai comuni ad incremento di un
trasferimento già riconosciuto agli enti locali da una precedente
disposizione, art. 53, comma 10 L. 388/2000) deve intendersi attribuito alle
unioni di comuni per l’esercizio associato delle funzioni. |
|
La
fusione di uno o più comuni, con l’istituzione di un nuovo comune, costituisce
la forma più compiuta di semplificazione e razionalizzazione della realtà dei piccoli comuni.
La
competenza della modifica delle circoscrizioni territoriali dei comuni,
compresa la creazione di nuovi comuni, è di competenza delle regioni (art. 133 Cost.) che la
esercitano con proprie leggi. La legge statale stabilisce alcune condizioni
nell’esercizio di tale facoltà, quale il rispetto del limite di 10.000 abitanti
al di sotto del quale non si possono istituire nuovi comuni, ad eccezione del
caso di fusioni di comuni. Si tratta di una delle forme incentivanti previste
in materia, al fine di agevolare la
fusione dei comuni (art. 15 TUEL).
Una
forma particolare di fusione, introdotta di recente, è costituita dalla fusione per incorporazione di uno o più
comuni da parte di un terzo.
|
Ferma
restando la competenza regionale a disciplinare le modalità per la fusione
dei comuni, la legge statale, come si è detto, stabilisce che in caso di
fusione non si applica il limite minimo ordinario di 10.000 abitanti per la
costituzione di un nuovo comune (art. 15, comma 1, TUEL). Inoltre,
i comuni che hanno avviato un percorso di concentrazione territoriale
possono, anche prima della fusione, adottare, previa approvazione da parte di
tutti i comuni, lo statuto del nuovo comune. Lo statuto deve contenere
obbligatoriamente adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei
servizi, volte a tutelare tutti i comuni destinati alla fusione (art. 15,
comma 2, TUEL). Lo
Stato garantisce appositi contributi, ulteriori a quelli regionali, per i 10
anni successivi alla fusione. I contributi sono commisurati ad una quota dei
trasferimenti spettanti ai singoli comuni (art. 15, comma 3, TUEL). |
Per
quel che concerne specificamente i contributi
finanziari previsti dalla normativa vigente per le fusioni, si ricordano in
particolare le seguenti autorizzazioni legislative:
-
articolo
1, comma 164, della legge n. 662/1996 (legge finanziaria per il 1997), che
autorizza un importo pari a 1,5 milioni di euro per la fusione e l'unione di
comuni;
-
articolo
1, comma 730, della legge n. 147/2013 (legge di stabilità per il 2014) che ha
stabilito la destinazione, nell’ambito della dotazione del Fondo di solidarietà
comunale, di risorse in favore delle unioni e delle fusioni di comuni, per un
importo pari a complessivi 60 milioni annui, in particolare assegnando una
quota non inferiore a 30 milioni di euro in favore dei comuni istituiti a
seguito di fusione, quale contributo straordinario previsto dall’articolo 15,
comma 3, del TUEL, come ridisciplinato ai sensi dell'articolo 20 del D.L. 6 luglio
2012, n. 95 (cd. decreto spending review).
Tali
contributi, previsti inizialmente per il solo triennio 2014-2016, sono stati
consolidati a decorrere dal 2016 dalla legge di stabilità per il 2016 (art. 1,
comma 17, lett. b), legge n. 208/2015) (v. infra).
Tali risorse sono autorizzate ad incremento di quelle già stanziate dal sopra
citato articolo 1, comma 164, della legge n. 662/1996.
|
Il decreto-legge 210/2015 (conv. L. 25
febbraio 2016, n. 21) ha previsto che i comuni
istituiti per fusione entro il 1° gennaio 2016, sono esonerati per il 2016 dall'obbligo del rispetto delle nuove
regole di finanza pubblica stabilite dalla legge di stabilità 2016 (art. 1,
commi 709-734, L. 208/2015), che richiedono agli enti territoriali il
conseguimento di un saldo finanziario non negativo, in termini di competenza. L’articolo
4, comma 4 dispone, altresì, al secondo periodo, per i comuni istituiti a seguito di processi di fusione previsti dalla
legislazione vigente (enti derivanti da fusione per unione o gli enti
incorporanti a seguito di fusione per incorporazione), che hanno concluso
tali processi entro il 1° gennaio 2016,
che l'obbligo del rispetto delle nuove regole di finanza pubblica decorre dal 1° gennaio 2017. Si
tratta delle nuove regole stabilite dalla legge di stabilità 2016 (art. 1,
co. 709-734, L. 208/2015), cui sono assoggettati gli enti territoriali, ai
fini del concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica.
Agli enti territoriali viene richiesto, a tal fine, di conseguire un saldo
finanziario non negativo, in termini di competenza, tra le entrate e le spese
finali. Per la copertura degli oneri finanziari derivanti dall’esclusione di
tali enti dai vincoli finanziari di bilancio, computati pari a 10,6 milioni
per il 2016, si utilizzano le disponibilità del Fondo per la compensazione
degli effetti finanziari non previsti da legislazione vigente conseguenti
all'attualizzazione di contributi pluriennali. La legge di stabilità 2016 ha, al
contempo, introdotto una serie di disposizioni volte ad incentivare le unioni
e fusioni di comuni, sia di tipo finanziario. Vengono in rilievo, in
particolare, i commi 17 (conferma
a regime della destinazione di risorse in favore delle unioni e delle fusioni
di comuni nell’importo di 60 milioni) e 18
(aumento del contributo straordinario per i comuni che danno luogo alla
fusione). Disposizioni sulle risorse del personale sono dettate dal comma
229. In
particolare, con il comma 17 -
nell’ambito della dotazione del Fondo di solidarietà comunale (ridefinita in conseguenza
delle misure compensative del minor gettito IMU e TASI previsto
dall'attuazione del nuovo sistema di esenzione) - viene consolidata la destinazione di risorse in favore delle unioni e
delle fusioni di comuni, già prevista limitatamente al triennio 2014-2016 (L.
228/2012, art. 1, co. 380-ter) nell’importo di 60 milioni (art. 1, comma 17,
lett. b). In particolare, con la sostituzione dell’ultimo periodo del comma
380-ter, si conferma a regime la
destinazione di 30 milioni di euro (in precedenza limitata al triennio
2014-2016) ad incremento del contributo spettante alle unioni di comuni
(previsto ai sensi dell’art. 53, co. 10, della legge n. 388/2000) e di 30
milioni di euro ai comuni istituiti a seguito di fusione, ai sensi
dell'articolo 20 del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (cd. decreto spending review). Il comma 18 è volto ad aumentare il contributo straordinario
previsto dall’articolo 20 del D.L. n. 95 del 2012 per i comuni che danno
luogo alla fusione. Il comma 18 dispone in particolare che, a
decorrere dal 2016, il contributo sia commisurato al 40 per cento dei
trasferimenti erariali attribuiti per il 2010 (in luogo al precedente 20),
innalzando inoltre a 2 milioni il sopradetto limite massimo per ciascun
beneficiario. Si rinvia inoltre ad un decreto del Ministro dell’interno le
modalità di riparto del contributo, stabilendo poi alcuni specifici criteri
di riparto dei contributi nei casi in cui il fabbisogno ecceda – ovvero
risulti inferiore – rispetto alle disponibilità finanziarie. In particolare,
in caso di fabbisogno eccedente la norma dispone che venga data priorità alle
fusioni o incorporazioni aventi maggiori anzianità; le eventuali
disponibilità eccedenti rispetto al fabbisogno verranno invece ripartite tra
gli enti beneficiari in base alla popolazione e al numero dei comuni
originari. Infine,
il comma 229, in deroga alla
normativa generale in materia di turn
over, autorizza dal 2016 i comuni istituiti dal 2011 per effetto di
fusioni, nonché le unioni di comuni, ad assumere
personale a tempo indeterminato nel limite del 100 per cento della spesa
relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente.
Sono fatti salvi i vincoli generali sulla spesa del personale. La legge 56 del 2014,
di riforma del sistema delle province, ha adottato diverse disposizioni anche
in materia di fusioni di comuni. Un primo gruppo di disposizioni reca misure agevolative per la fusione di comuni. In primo luogo, si stabilisce che nei comuni sorti a seguito
della fusione di più comuni, lo statuto
del nuovo comune possa prevedere "forme particolari di collegamento" tra l'ente locale
sorto dalla fusione e le comunità che appartenevano ai comuni originari
(comma 116). Una misura accelerativa del procedimento di adozione
dello statuto prevede che i comuni che hanno avviato il procedimento di
fusione, possono, anche prima dell'istituzione del nuovo ente, definirne lo
statuto, che deve essere approvato in testo conforme da tutti i consigli
comunali. Inoltre, si prevede che sia lo statuto del nuovo comune, e non più
la legge regionale che lo istituisce, a contenere misure adeguate per
assicurare alle comunità dei comuni oggetto della fusione forme di partecipazione e di
decentramento dei servizi (comma 117). Si prevedono poi le seguenti ulteriori misure agevolative: · le norme di maggior
favore previste per comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e per
le unioni di comuni continuano ad applicarsi anche al nuovo comune frutto
della fusione di comuni con meno di 5.000 abitanti (comma 118); · il nuovo comune può
utilizzare i margini di indebitamento consentiti anche ad uno solo dei comuni
originari, anche nel caso in cui dall'unificazione dei bilanci non risultino
possibili ulteriori spazi di indebitamento (comma 119); · l'obbligo di
esercizio associato delle funzioni comunali fondamentali, previsto per i comuni
con meno di 5.000 abitanti, viene attenuato e in alcuni casi derogato in caso
di fusione. In particolare: la legge regionale può fissare una diversa
decorrenza dell'obbligo o rimodularne i contenuti; in ogni caso, in assenza
di legge regionale, i comuni derivanti dalla fusione con popolazione di
almeno 3.000 abitanti (2.000 se montani) sono esentati dall'obbligo per la
durata di un mandato elettorale (comma 121) · l'istituzione del
nuovo comune non priva i territori dei comuni estinti dei benefici stabiliti
dall'Unione europea e dalle leggi statali in loro favore; inoltre, il
trasferimento della proprietà dei beni mobili e immobili dai comuni estinti
al nuovo comune è esente da oneri fiscali (comma 128). Vengono poi definite alcune disposizioni organizzative di tipo procedurale per regolamentare
il passaggio dalla vecchia alla nuova gestione, principalmente per quanto
riguarda l'approvazione dei bilanci; anche in questo caso l'obiettivo è di
agevolarne la fusione. In particolare si prevede che: · i sindaci dei comuni
che si fondono coadiuvano il commissario nominato per la gestione del comune
derivante da fusione fino all'elezione del sindaco e del consiglio comunale
del nuovo comune; in particolare i sindaci, riuniti in comitato consultivo,
esprimono parere sullo schema di bilancio e in materia di varianti
urbanistiche (comma 120); · gli incarichi esterni
eventualmente attribuiti ai consiglieri comunali dei comuni oggetto di
fusione e gli incarichi di nomina comunale continuano fino alla nomina dei
successori (comma 122); · le risorse destinate
ai singoli comuni per le politiche di sviluppo delle risorse umane e alla
produttività del personale, previste dal contratto collettivo di lavoro del
comparto e autonome locali del 1° aprile 1999, sono trasferite in un unico
fondo del nuovo comune con la medesima destinazione (comma 123); · tutti gli atti,
compresi bilanci, dei comuni oggetto della fusione restano in vigore fino
all'entrata in vigore dei corrispondenti atti del commissario o degli organi
del nuovo comune (comma 124, lett. a); · i revisori dei conti
decadono al momento dell'istituzione del nuovo comune; fino alla nomina del
nuovo organo di revisione contabile le funzioni sono svolte dall'organo di
revisione in carica nel comune più popoloso (comma 124, lett. b); · al nuovo comune si
applicano le disposizioni dello statuto e del regolamento di funzionamento
del consiglio comunale dell'estinto comune di maggiore dimensione demografica
fino all'approvazione del nuovo statuto (comma 124, lett. c); · il bilancio di previsione
del nuovo comune deve essere approvato entro 90 giorni dall'istituzione dal
nuovo consiglio comunale, fatta salva l'eventuale proroga disposta con
decreto del Ministro dell'interno (comma 125, lett. a); · ai fini
dell'esercizio provvisorio, si prende come riferimento la sommatoria delle
risorse stanziate nei bilanci definitivamente approvati dai comuni estinti
nell'anno precedente (comma 125, lett. b); · il nuovo comune
approva il rendiconto di bilancio dei comuni estinti e subentra negli
adempimenti relativi alle certificazioni del patto di stabilità e delle
dichiarazioni fiscali (comma 125, lett. c); · ai fini della
determinazione della popolazione legale, la popolazione del nuovo comune
corrisponde alla somma della popolazione dei comuni estinti (comma 126); · l'indicazione della
residenza nei documenti dei cittadini e delle imprese resta valida fino alla
scadenza, anche se successiva alla data di istituzione del nuovo comune
(comma 127); · i codici di
avviamento postale dei comuni preesistenti possono essere conservati nel
nuovo comune (comma 129). Di particolare rilievo, l'introduzione da parte della
legge 56/2014 di una nuova modalità di fusione di comuni, ossia della fusione per "incorporazione",
da parte di un comune incorporante, di un comune contiguo
"incorporato". Fermo restando quanto previsto dall'articolo 15 del TUEL
(l'incorporazione è disposta con legge regionale e si procede a referendum
tra le popolazioni interessate), il nuovo procedimento prevede che il comune
incorporante mantiene la propria personalità e i propri organi, mentre
decadono gli organi del comune incorporato. A tutela di quest'ultimo si
prevede che lo statuto del comune incorporante sia integrato da adeguate
misure di partecipazione e di decentramento (comma 130). I commi 131-134
recano ulteriori misure incentivanti per le fusioni e, in parte, anche per le
unioni di comuni. Le regioni possono individuare misure di incentivazione
alle unioni e fusioni nella definizione del patto di stabilità interno
verticale (comma 131). E' inoltre dettata una disposizione transitoria, volta a
graduare gli effetti della fusione, sì da consentire il mantenimento
(tuttavia non oltre l'ultimo esercizio finanziario del primo mandato
amministrativo del nuovo comune) di tributi e tariffe differenziati per
ciascuno dei territori degli enti preesistenti alla fusione, ove il nuovo
comune sorto dalla fusione istituisca municipi (comma 132). I comuni sorti da fusione dispongono di tre anni di
tempo, per l'adeguamento alle norme vigenti in materia di omogeneizzazione
degli ambiti territoriali ottimali di gestione e di razionalizzazione delle
partecipazioni a consorzi, aziende e società pubbliche di gestione (comma
133). Infine, il comma 134 prevede che i progetti presentati
dai comuni istituiti per fusione o dalle unioni di comuni abbiano, nel 2014,
la priorità nell'accesso alle risorse del Primo Programma cd. "6.000
campanili" (di cui all'articolo 18, comma 9, del decreto-legge n. 69 del
2013). Una ulteriore misura in materia di fusione di comuni è
stata introdotta con il decreto-legge
24 giugno 2014, n. 90 (convertito dalla legge114/2014) recante diverse
misure in materia di semplificazione amministrativa (art. 23, comma 1, lett.
f)-ter). La disposizione estende anche alle fusioni per incorporazione la
concessione, previste per le fusioni realizzate dal 2012 in poi, del
contributo straordinario loro dovuto ai sensi dell'art. 15, comma 3, del
TUEL. Tale contributo è commisurato, a decorrere dal 2013, al 20% dei
trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010, nel limite degli
stanziamenti finanziari previsti. Inoltre il D.L. 90/2014 ha fissato un
limite al contributo pari a 1,5 milioni di euro per ciascuna fusione. La
disposizione è diventata operativa con l'emanazione del decreto del Ministro
dell'interno 21 gennaio 2015. Anche la legge di
stabilità 2015 (legge 190/2014, art. 1, co. 450 ) ha previsto una
disposizioni in favore delle fusioni
di comuni prevedendo che ai comuni istituiti a seguito di fusioni che abbiano
un rapporto della spesa per il personale sulla spesa corrente inferiore al 30
per cento non si applicano, nei primi 5 anni dalla fusione, i vincoli
stabiliti dalla normativa vigente per l'assunzione di personale mediante
contratti a tempo determinato, fermo restando il limite della spesa
complessiva per il personale sostenuta dai singoli enti nell'anno precedente
la fusione, ed i vincoli generali sull'equilibrio dei bilanci. |
Le comunità
montane sono forme associative costituite fra comuni montani e parzialmente
montani, anche appartenenti a province diverse, create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo
scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la
frammentazione dei Comuni montani, funzioni proprie e funzioni conferite,
nonché per l’esercizio associato delle funzioni comunali (D.Lgs. n. 267/2000,
artt. 27 e 28). Spetta alle regioni
l’individuazione degli ambiti territoriali per la costituzione delle comunità
montane, nonché l’istituzione e la disciplina delle stesse.
In
seguito agli interventi legislativi degli ultimi anni, di riduzione e
razionalizzazione delle erogazioni in favore degli enti locali, nonché
dell’introduzione dell’obbligo di esercito associato delle funzioni
fondamentali per i piccoli comuni montani, alcune regioni hanno soppresso le
comunità montane e devoluto le relative funzioni ad altri enti locali, mentre
altre regioni hanno avviato un percorso di trasformazione delle comunità
montane in unioni di comuni montani.
|
Le
comunità montane - istituite con la legge n. 1102/1971 per attuare il
principio costituzionale dello speciale sostegno alla montagna (art. 44, u.c.)
– sono previste dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (artt. 27-28 TUEL), che le
assimila alla figura dell’“unione di comuni”,
enti dotati di un certo grado di autonomia, non solo dalle Regioni ma anche
dai Comuni, come dimostra, tra l’altro, l’espressa attribuzione agli stessi
della potestà statutaria e regolamentare. Per
consolidata giurisprudenza costituzionale, la disciplina delle comunità
montane rientra nella competenza
residuale delle Regioni (Corte cost., sentenze nn. 27/2010, 237/2009,
456/2005 e 244/2005). Pertanto, alla legge regionale è demandata la
disciplina delle comunità montane che comprende tra l’altro, le modalità di
approvazione dello statuto, i criteri di ripartizione dei finanziamenti, la
regolazione dei rapporti con gli altri enti locali (art. 27 TUEL). In base
all’articolo 119 Cost., le Regioni devono provvedere al loro finanziamento
insieme ai Comuni di cui costituiscono la «proiezione» (Corte cost., sentenza
n. 27/2010). Le comunità
montane esercitano, ai sensi dell’art. 28 del TUEL, oltre alle funzioni loro attribuite dalla legge,
anche le funzioni conferite da Comuni, Province e Regioni; effettuano inoltre
gli interventi speciali per la montagna stabiliti dalla Unione Europea e le
funzioni dei Comuni che le Comunità intendono esercitare in forma associata;
adottano, inoltre, il piano pluriennale di opere ed interventi ed individuano
gli strumenti idonei a perseguire gli obiettivi dello sviluppo
socio-economico, ivi compresi quelli previsti dalla Unione Europea, dallo
Stato e dalla Regione, che possono concorrere alla realizzazione dei
programmi annuali operativi di esecuzione del piano. Le comunità montane,
attraverso le indicazioni urbanistiche del piano pluriennale di sviluppo,
concorrono alla formazione del piano territoriale di coordinamento. Tra le
attività esercitate per conto dei Comuni rilevano quelle a favore del
territorio (promozione turistica, smaltimento dei rifiuti e protezione
civile). Per
quanto riguarda gli organi, la comunità
montana ha un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da
sindaci, assessori o consiglieri dei comuni partecipanti, nonché un
Presidente, la cui carica è cumulabile con quella di Sindaco di uno dei
Comuni (art. 27, TUEL). Nelle
ultime legislature le comunità montane sono state interessate da specifiche
misure adottate nell’ambito degli interventi
di razionalizzazione degli apparati istituzionali locali e di riduzione
dei contributi ordinari agli enti locali. In particolare, con la legge finanziaria per il 2008 (art.
2, commi 16-22, L. n. 244/2007) il legislatore statale ha affidato alle regioni
un programma di riordino delle comunità
montane, imponendo loro di intervenire con legge (entro il 30 settembre 2008)
per ridurre il numero complessivo delle comunità montane sulla base di indicatori
fisico-geografici, demografici e socio-economici; il numero dei componenti
degli organi delle comunità montane e delle indennità da questi percepite. Il
riordino era funzionale a limitare, a regime, la spesa corrente per il funzionamento
delle comunità, per un importo pari almeno a un terzo della quota del Fondo
ordinario spettante alle comunità montane presenti in ciascuna regione. Qualora
le Regioni non avessero “adempiuto” dando attuazione alle disposizioni
statali entro il termine previsto, la disciplina stabiliva la produzione di
effetti automatici, in gran parte soppressivi delle comunità stesse, che la
Corte costituzionale successivamente ha dichiarato illegittimi con sentenza n. 237 del 2009. Contemporaneamente,
si è proceduto ad una progressiva
riduzione dei trasferimenti erariali: dapprima con la L. n. 244/2007
(art. 2, co. 16), successivamente con il D.L.
n. 112/2008 (art. 76, comma 6-bis),
e con L. n. 191/2009 (legge
finanziaria per il 2010, art. 2, co. 187), che ha disposto la cessazione del
finanziamento statale stabilito in favore delle comunità montane dall’art. 34
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 e dalle altre disposizioni
di legge recanti finanziamenti dello Stato a favore delle comunità medesime,
prevedendo al contempo un regime transitorio per consentire la graduale
riallocazione a livello locale della spesa per le comunità montane in
questione. Quest’ultima misura, tuttavia, è stata ritenuta dalla Corte
costituzionale parzialmente illegittima
con sentenza n. 326 del 2010
(si cfr. punti 8.11. e seguenti) Sulla
situazione delle Comunità montane in seguito al riordino da parte delle
regioni, successivo alla legge n. 244/2007 (legge finanziaria 2008) e alla
legge n. 191/2009 (legge finanziaria 2010), si veda il Rapporto sui comuni
montani curato da IFEL-ANCI (2012). Sul
ruolo istituzionale svolto dalle comunità montane hanno poi inciso le
disposizioni di riordino previste dall’art. 14 del D.L. n. 78/2010, da ultimo
modificato con l’art. 19 del D.L. n. 95/2012 (c.d. decreto spending review) che ha stabilito l’obbligo per i comuni con popolazione
fino a 3.000 abitanti se appartenenti a comunità montane, di esercitare le
funzioni fondamentali in forma associata, mediante unione di comuni o
convenzione (co. 28). Il termine per l’adeguamento è fissato, da ultimo, al
31 dicembre 2016 (art. 4, co. 4, D.L. n. 210/2015). La legge Delrio ha
esentato da tale obbligo per un mandato elettorale, in mancanza di diversa
normativa regionale, i comuni istituiti mediante fusione che raggiungono una
popolazione pari o superiore a 2.000 abitanti se appartenenti a comunità
montane (art. 1, co. 121, L. n. 56/2014). Sotto
il profilo finanziario, la legge di stabilità 2013 (L. n. 228/2012, art. 1,
co. 319-322) ha istituito, a decorrere dall’anno 2013, il Fondo nazionale integrativo per i comuni
montani, che siano classificati interamente montani ai sensi dell’elenco
dei comuni italiani predisposto dall’ISTAT, con una dotazione pari a 1
milione di euro per il 2013 e a 5 milioni di euro annui a decorrere dall’anno
2014 (come successivamente previsto dall’art. 1, co. 352, L. n. 147/2013) da
destinare al finanziamento dei
progetti di sviluppo socio-economico, anche a carattere pluriennale, che
devono avere carattere straordinario e che non possono riferirsi alle
attività svolte in via ordinaria dagli enti interessati, rientranti tra
numerose tipologie, tra cui: gli incentivi per l’utilizzo dei territori
incolti di montagna e per l’accesso dei giovani alle attività agricole,
nonché per l’agricoltura di montagna; lo sviluppo del sistema agrituristico,
del turismo montano e degli sport di montagna; gli incentivi per le attività
e i progetti del Club alpino italiano (CAI), del Corpo nazionale del soccorso
alpino e speleologico (CNSAS), del Collegio nazionale delle guide alpine e
del Collegio nazionale dei maestri di sci. Le
risorse sono state allocate inizialmente sul capitolo 1370 dello stato di
previsione del Ministero dell’interno, per poi essere trasferite, in sede di
assestamento 2013, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e
delle finanze (cap. 2126) in quanto la materia (montagna) è di competenza del
Ministro per gli affari regionali. Con
successivo D.M. del 16 gennaio 2014 sono state individuate le procedure per
la determinazione dei criteri di valutazione e per la formulazione del decreto
di riparto dei fondi. |
|
Nel corso delle ultime legislature, contestualmente alla
riduzione dei trasferimenti erariali in favore delle comunità montane, è
stato promosso un ampio progetto di riordino di tali enti con finalità di
razionalizzazione e semplificazione, affidato alle regioni che hanno la
competenza in materia. L’introduzione dell’obbligo
per i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti se appartenenti a
comunità montane, di esercitare le
funzioni fondamentali in forma associata (art. 14, co. 28, D.L. n.
78/2010) ha avviato, in alcune regioni, un processo di trasformazione delle
comunità montane in unioni montane di
comuni. Per reintegrare le risorse in favore delle aree montane,
la legge di stabilità 2013 (l. n. 228/2012, art. 1, co. 319-322) ha
istituito, a decorrere dall’anno 2013, il Fondo nazionale integrativo per i comuni classificati interamente montani,
con una dotazione pari a 1 milione di euro per il 2013 e a 5 milioni di euro
annui a decorrere dall’anno 2014. |
L’articolo 114, terzo
comma, Cost. riconosce Roma quale capitale della Repubblica e rimette alla
legge statale la disciplina del suo ordinamento.
La cd. ‘legge delega
sul federalismo fiscale’ ha configurato, in luogo del comune di Roma, il nuovo ente
territoriale “Roma capitale”, dotato di una speciale autonomia statutaria,
amministrativa e finanziaria, nei limiti stabiliti dalla Costituzione (L. n.
42/2009, art. 24).
L’ordinamento di Roma
Capitale è diretto a garantire il miglior assetto delle funzioni che Roma è
chiamata a svolgere quale sede degli organi costituzionali nonché delle
rappresentanze diplomatiche.
A tale ente la medesima
legge attribuisce, oltre a quelle svolte attualmente, ulteriori funzioni
amministrative, relative alla valorizzazione dei beni storici, artistici e
ambientali, allo sviluppo del settore produttivo e del turismo, allo sviluppo
urbano, all’edilizia pubblica e privata, ai servizi urbani, con particolare
riferimento al trasporto pubblico ed alla mobilità, e alla protezione civile.
|
L’ordinamento
di Roma Capitale Le disposizioni fondamentali
dell’ordinamento di Roma Capitale sono stabilite dal decreto legislativo 17
settembre 2010, n. 156. Sono organi di governo di Roma Capitale: - l’Assemblea
capitolina; - la Giunta
capitolina; - il Sindaco (art.
2). L’Assemblea capitolina è l’organo di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo. È composta dal
Sindaco di Roma Capitale e da quarantotto Consiglieri (art. 3). Per l’approvazione
dello statuto di Roma Capitale, la
procedura è la stessa prevista dal testo unico sugli enti locali (TUEL) per
gli statuti comunali. Lo statuto è deliberato con il voto favorevole dei due
terzi dei Consiglieri assegnati. Qualora tale maggioranza non venga
raggiunta, la votazione è ripetuta in successive sedute da tenersi entro
trenta giorni e lo statuto è approvato se ottiene per due volte, in
altrettante sedute consiliari, il voto favorevole della maggioranza assoluta
dei Consiglieri. Lo statuto – da
approvare entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo
–disciplina, nei limiti stabiliti dalla legge, i municipi di Roma Capitale,
quali circoscrizioni di decentramento, in numero non superiore a quindici,
favorendone l'autonomia amministrativa e finanziaria . Esso stabilisce
altresì i casi di decadenza dei Consiglieri per la non giustificata assenza
dalle sedute dell'Assemblea capitolina e prevede strumenti di partecipazione
e consultazione, anche permanenti, al fine di promuovere il confronto tra
l'amministrazione di Roma Capitale e i cittadini (art. 3). Lo statuto di Roma Capitale è stato approvato dall’Assemblea Capitolina il 7 marzo
2013 ed è entrato in vigore il 30 marzo 2013. Con la sua entrata in
vigore, i Municipi di Roma Capitale sono stati ridotti da 19 a 15. Il Sindaco è il responsabile
dell’amministrazione di Roma Capitale, nell’ambito del cui territorio
esercita le funzioni attribuitegli dalle leggi, dallo statuto e dai
regolamenti, quale rappresentante della comunità locale e quale ufficiale del
Governo. Il Sindaco può essere
udito nelle riunioni del Consiglio dei Ministri all’ordine del giorno delle
quali siano iscritti argomenti inerenti le funzioni conferite a Roma Capitale
(art. 4). La Giunta capitolina è composta dal Sindaco
di Roma Capitale che la presiede, e da un numero massimo di Assessori pari ad
un quarto dei Consiglieri assegnati all’Assemblea capitolina, ossia 12 assessori.
Il Sindaco di Roma
Capitale nomina, entro il limite sopra indicato, nel rispetto del principio
di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i
sessi, i componenti della Giunta capitolina, tra cui un Vice sindaco, e ne dà
comunicazione all’Assemblea capitolina alla prima seduta successiva alla
nomina (art. 4). Gli Assessori sono
nominati dal Sindaco, anche al di fuori dei componenti dell’Assemblea
capitolina fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità,
conferibilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere
dell’Assemblea. Lo statuto (art. 25,
comma 3) prevede in proposito che fra i nominati è garantita la presenza, di
norma in pari numero, di entrambi i sessi, motivando le scelte difformemente
operate con specifico riferimento al principio di pari opportunità. Il Sindaco può
revocare uno o più Assessori, dandone motivata comunicazione all’Assemblea. La Giunta collabora
con il Sindaco nel governo di Roma Capitale. Compie tutti gli atti rientranti
nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati dalla legge
all’Assemblea capitolina e non ricadano nelle competenze previste dalla legge
o dallo statuto, del Sindaco o degli organi di decentramento. Come già previsto
dalla normativa vigente per i comuni, il Sindaco cessa dalla carica in caso
di approvazione di una mozione di sfiducia
votata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti
l’Assemblea. La mozione di sfiducia deve essere motivata e sottoscritta da
almeno due quinti dei Consiglieri assegnati, senza computare a tal fine il
Sindaco, e viene messa in discussione non prima di dieci giorni e non oltre
trenta giorni dalla sua presentazione.
Se la mozione viene
approvata la Giunta decade e si procede allo scioglimento dell’Assemblea
capitolina, con contestuale nomina di un commissario, secondo quanto previsto
dal TUEL. Il voto
dell’Assemblea contrario ad una proposta del Sindaco o della Giunta non
comporta le loro dimissioni (art .4) È altresì
disciplinato lo status degli amministratori di Roma capitale, ossia del
Sindaco, degli Assessori e dei Consiglieri. (art. 5) Agli organi di
governo Roma Capitale si applicano, per quanto non previsto dal decreto
legislativo, le disposizioni vigenti per i comuni (art. 7) Le norme del decreto
legislativo costituiscono limite inderogabile per l'autonomia normativa dell'Ente
e possono essere modificate, derogate o abrogate dalle leggi dello Stato solo
espressamente (art. 1). Le funzioni Il conferimento di funzioni amministrative a Roma
Capitale è stato disposto con il decreto legislativo 18 aprile 2012, n. 61
(successivamente modificato dal decreto legislativo 26 aprile 2013, n. 51.) Sono conferite a Roma
capitale funzioni amministrative relative a: a) beni storici e artistici, relativamente al concorso alla valorizzazione dei beni
presenti nel territorio di Roma capitale appartenenti allo Stato (con
esclusione di quelli amministrati dal
Fondo edifici di culto) (art. 6); b) paesaggio,
con riferimento alla tutela e valorizzazione del paesaggio di Roma capitale,
e beni ambientali e fluviali, con riferimento all'individuazione ed alla
gestione delle riserve statali non collocate nei parchi nazionali (art. 7) c) fiere, per ciò che attiene
al coordinamento dei tempi di svolgimento delle manifestazioni fieristiche di
rilevanza internazionale e nazionale, promosse sul territorio di Roma
capitale (art. 8); d) turismo, per ciò che attiene
alla promozione turistica all'estero Roma capitale, in coordinamento con lo
Stato e la Regione; le linee guida del piano strategico nazionale prevedono
altresì una sezione per la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico
di Roma capitale (art. 9); e) protezione civile, relativamente alla emanazione di ordinanze per
l'attuazione di interventi di emergenza. Inoltre, per l'attuazione degli
interventi da effettuare sul territorio di Roma Capitale per rimuovere le
situazioni di emergenza connesse al traffico, alla mobilità ed
all'inquinamento atmosferico o acustico, il Sindaco provvede con proprie
ordinanze, anche in deroga ad ogni disposizione di legge e comunque nel
rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, in esecuzione di
un piano autorizzato con delibera del Consiglio dei Ministri (art. 10). Roma capitale dispone
altresì di poteri regolamentari in materia di organizzazione degli uffici e
del personale (art. 11). Con decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri, da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente
decreto è determinato il maggior onere derivante per Roma capitale
dall'esercizio delle funzioni connesse al ruolo di capitale della Repubblica
(art. 2). Ai fini
dell'individuazione ed attuazione degli interventi di sviluppo
infrastrutturale Roma capitale adotta il metodo della programmazione
pluriennale. Roma capitale stipula una apposita intesa istituzionale di
programma con la Regione Lazio e con le amministrazioni centrali competenti,
approvata dal CIPE, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri,
sentita la Conferenza unificata. Gli interventi previsti dall'intesa
istituzionale di programma possono essere inseriti nel programma delle
infrastrutture strategiche previsto dalla cd. ‘legge-obiettivo’ (l. n.
443/2001). Nelle more,
l'eventuale rimodulazione del programma di interventi per Roma capitale,
finanziati ai sensi della cd. legge
su Roma Capitale (L. n. 396/1990), è adottata
dal medesimo ente con le procedure previste dal proprio ordinamento e
trasmessa al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti per l’approvazione
definitiva con apposito decreto, da adottarsi di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze. (art. 3). Per assicurare il
raccordo istituzionale tra Roma capitale, lo Stato, la Regione Lazio e la
Provincia di Roma sulle funzioni amministrative conferite a Roma capitale è
istituita un’apposita sessione nell'ambito della Conferenza Unificata,
presieduta dal Presidente del Consiglio dei Ministri o da un Ministro
delegato, composta dal Sindaco di Roma capitale, dal Presidente della Regione
Lazio, dal Presidente della Provincia di Roma e dal Ministro competente per
materia. In tutti i casi in cui la Conferenza Unificata svolge le funzioni
relative a materie e compiti di interesse di Roma capitale, alle sedute della
stessa partecipa, quale componente, il Sindaco di Roma capitale (art. 4). È istituita, senza
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la Conferenza delle
Soprintendenze ai beni culturali del territorio di Roma capitale, con
funzioni di coordinamento delle attività di valorizzazione della
Sovraintendenza ai beni culturali di Roma capitale e degli organi centrali e
periferici del Ministero per i beni e le attività culturali aventi competenze
sul patrimonio storico e artistico presente in Roma (art. 5). Per ciò che attiene infine all’ordinamento finanziario, entro il 31 maggio di ciascun anno Roma
capitale concorda con il Ministero dell’economia le modalità e l’entità del
proprio concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica; a
tal fine, entro il 31 marzo di ciascun anno, il Sindaco trasmette la proposta
di accordo. In caso di mancato accordo, previa deliberazione del Consiglio
dei Ministri, il concorso di Roma capitale alla realizzazione degli obiettivi
di finanza pubblica è determinato sulla base delle disposizioni applicabili
ai restanti comuni. Nel saldo finanziario utile ai fini del rispetto del
patto di stabilità interno non sono computate le risorse trasferite dal
bilancio dello Stato e le spese, nei limiti delle predette risorse, relative
alle funzioni amministrative conferite a Roma capitale. Per il finanziamento degli investimenti compresi nei
programmi di per gli interventi di Roma capitale, quest’ultima può istituire,
limitatamente al periodo di ammortamento delle opere, un’ulteriore addizionale
comunale sui diritti di imbarco dei passeggeri sugli aeromobili in partenza
dagli aeroporti della città di Roma, fino ad un massimo di 1 euro per
passeggero. Le disposizioni in materia di imposta di soggiorno, infine, si
applicano a Roma capitale anche per il finanziamento degli investimenti
compresi nel predetto programma limitatamente al periodo di ammortamento
delle opere. |
|
In relazione alla
situazione finanziaria di Roma Capitale, l’art. 16 del decreto-legge n.
16/2014 ha previsto che Roma capitale, entro 120 giorni, trasmette al
Ministero dell’interno, al Ministero dell’economia, alle Camere e alla Corte
dei conti un rapporto che evidenzi le cause della formazione del disavanzo di
bilancio di parte corrente negli anni precedenti, anche con riferimento alle
società controllate e partecipate, nonché l'entità e la natura della massa
debitoria da trasferire alla gestione commissariale. Roma Capitale
trasmette contestualmente un piano triennale per la riduzione del disavanzo e
per il riequilibrio strutturale di bilancio, che indica le misure per il
contenimento dei costi e la valorizzazione degli attivi, prevedendo a tali
fini l’adozione di specifiche azioni amministrative volte a: a) applicare le
disposizioni ed i vincoli in materia di acquisto di beni e servizi e di
assunzioni di personale, previsti dalla legge a tutte le società controllate,
con esclusione di quelle quotate; a-bis)
operare una ricognizione di tutte le società controllate e partecipate,
evidenziando il numero dei consiglieri e degli amministratori e le somme
complessivamente erogate a ciascuno di essi; a-ter) avviare un piano rafforzato di lotta all'evasione tributaria
e tariffaria; b) operare la ricognizione dei costi unitari della fornitura
dei servizi pubblici locali e adottare misure per riportare tali costi ai
livelli standard dei grandi comuni;
c) operare una ricognizione dei fabbisogni di personale nelle società
partecipate, prevedendo per quelle in perdita il necessario riequilibrio con
l'utilizzo degli strumenti legislativi e contrattuali esistenti; d) adottare
modelli innovativi per la gestione dei servizi di trasporto pubblico locale,
di raccolta dei rifiuti e di spazzamento delle strade, anche ricorrendo alla
liberalizzazione; e) procedere, ove necessario per perseguire il riequilibrio
finanziario, alla fusione delle società partecipate che svolgono funzioni
omogenee, alla dismissione o alla messa in liquidazione delle società
partecipate che non risultino avere come fine sociale attività di servizio
pubblico, nonché alla valorizzazione e dismissione di quote del patrimonio
immobiliare del comune; e-bis) responsabilizzare i dirigenti delle società
partecipate, legando le indennità di risultato a specifici obiettivi di
bilancio. |
La legge 7 aprile 2014,
n. 56 (cd. ‘legge Delrio’) ha dettato un’ampia riforma in materia di enti
locali, prevedendo, nelle more dell’approvazione della riforma costituzionale
del titolo V, l’istituzione e la
disciplina delle Città metropolitane e la ridefinizione del
sistema delle province, oltre ad una nuova disciplina in
materia di unioni e fusioni di comuni.
Le città metropolitane sostituiscono le province in dieci aree urbane
del paese; il loro territorio corrisponde a quello delle province.
Sono organi della città
metropolitana:
- il sindaco
metropolitano, che è di diritto il sindaco del comune capoluogo;
- il consiglio
metropolitano, organo elettivo di secondo grado, per cui hanno diritto di
elettorato attivo e passivo i sindaci ed i consiglieri comunali;
- la conferenza
metropolitana, composta da tutti i sindaci dei comuni della città
metropolitana.
La legge definisce
altresì il contenuto fondamentale dello statuto della città metropolitana.
Per quanto riguarda il riordino delle province, per esse è
previsto un assetto ordinamentale analogo a quello della città metropolitana.
Sono pertanto organi
della provincia: il presidente della provincia (che però è organo elettivo di
secondo grado), il consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci.
La legge definisce
altresì le funzioni fondamentali, rispettivamente, di città metropolitane e province,
riconoscendo un contenuto più ampio alle prime, e delinea, con riferimento alle
sole province, la procedura per il trasferimento delle funzioni non
fondamentali ai comuni o alle regioni.
La Corte
costituzionale, nella sentenza
n. 50 del 2015, ha ritenuto infondate
le questioni di legittimità costituzionale promosse da alcune regioni nei
confronti della riforma, relative, principalmente, al mancato rispetto della
procedura prevista dall’art. 133 Cost. per l’istituzione delle città
metropolitane ed alla natura indiretta dell’elezione degli organi.
Le città
metropolitane sono riconosciute quali enti territoriali di area vasta, con
le seguenti finalità istituzionali generali (comma 2):
-
cura
dello sviluppo strategico del territorio metropolitano;
-
promozione
e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione
della città metropolitana;
-
cura
delle relazioni istituzionali afferenti il proprio livello, comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee.
La legge individua nove città metropolitane: Torino, Milano,
Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria; ad esse si
aggiunge la città metropolitana di Roma capitale. La disciplina delle
predette città metropolitane è dettata in attesa della riforma del titolo V
della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione
(comma 5).
La legge riguarda esclusivamente le regioni a statuto ordinario.
Per le regioni a statuto speciale, i
princìpi della legge valgono come princìpi di grande riforma economica e
sociale, conformemente ai rispettivi statuti, per la disciplina di città e aree
metropolitane nelle regioni Sardegna, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia, (comma
5), che adeguano i propri ordinamenti interni entro dodici mesi dall’entrata in
vigore della legge (comma 145).
Il territorio della
città metropolitana coincide con quello della provincia omonima (comma 6).
Per il passaggio di comuni
da una provincia limitrofa alla città metropolitana (o viceversa) si applica il procedimento previsto dall’articolo
133, primo comma, Cost., che richiede per il mutamento delle circoscrizioni
provinciali una legge dello Stato, adottata su iniziativa dei comuni
interessati, sentita la regione. Rispetto a tale procedimento, viene peraltro rafforzato
il ruolo della regione, dal momento che, in caso di parere negativo della
stessa sulle proposte dei comuni, il Governo è tenuto a promuovere un'intesa
tra la regione e i comuni interessati, da definirsi entro 90 giorni; in caso di
mancato raggiungimento dell'intesa entro tale termine, la decisione spetta al
Consiglio dei ministri, che, previo parere del Presidente della regione,
delibera in ordine all’approvazione e presentazione al Parlamento del disegno
di legge sulle modifiche territoriali di province e città metropolitane (comma
6).
Gli organi della città
metropolitana (comma 7) sono:
- il sindaco
metropolitano;
- il
consiglio metropolitano;
- la
conferenza metropolitana.
Il sindaco
metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo (comma 19).
Il sindaco
metropolitano ha la rappresentanza dell'ente, convoca e presiede il consiglio
metropolitano e la conferenza metropolitana, sovrintende al funzionamento dei
servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti ed esercita le funzioni
attribuite dallo statuto; ha potere di proposta per ciò che attiene al bilancio
dell’ente (comma 8).
Il sindaco
metropolitano può nominare un vicesindaco, scelto tra i consiglieri
metropolitani, che esercita le funzioni del sindaco in caso di impedimento;
qualora il sindaco metropolitano cessi dalla carica per cessazione dalla carica
di sindaco del proprio comune, il vicesindaco resta in carica fino all'insediamento
del nuovo sindaco (comma 40).
Il sindaco
metropolitano può assegnare deleghe
al vicesindaco e, nel rispetto del principio
di collegialità e secondo le modalità e nei limiti previsti dallo
statuto, a consiglieri metropolitani (commi
40 e 41).
Il consiglio
metropolitano è composto dal sindaco metropolitano e da un numero di
consiglieri variabile in base alla popolazione residente:
- 24 consiglieri, se la
popolazione è superiore a 3 milioni di abitanti;
- 18 consiglieri, se la
popolazione è compresa tra 800.001 e 3 milioni di abitanti;
- 14 consiglieri, se la
popolazione è pari o inferiore a 800.000
abitanti (comma 20).
È un organo elettivo di secondo grado e
dura in carica cinque anni; in
caso di rinnovo del consiglio del comune capoluogo, si procede comunque a nuove
elezioni del consiglio metropolitano entro sessanta giorni dalla proclamazione
del sindaco (comma 21) (v. infra per il sistema elettorale).
La cessazione dalla
carica comunale comporta la decadenza da consigliere metropolitano (comma 25).
È l’organo di indirizzo
e controllo, approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni
altro atto ad esso sottoposto dal sindaco metropolitano ed esercita le altre
funzioni attribuite dallo statuto; ha altresì potere di proposta sullo statuto
e sulle sue modifiche e poteri decisori finali per l'approvazione del bilancio
(comma 8).
La conferenza
metropolitana è composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e
presiede, e dai sindaci dei comuni della città metropolitana (comma 42).
È competente per
l'adozione dello statuto e ha potere consultivo per l'approvazione dei bilanci;
lo statuto può attribuirle altri poteri propositivi e consultivi (commi 8 e 9).
Gli incarichi di
sindaco metropolitano, di consigliere metropolitano e di componente della conferenza
metropolitana sono svolti a titolo gratuito, anche con riferimento agli
organi previsti per la prima costituzione delle città metropolitane. Restano a
carico della città metropolitana gli oneri per i permessi retribuiti, per i
rimborsi per le spese di viaggio e per la partecipazione alle associazioni
rappresentative degli enti locali, nonché gli oneri previdenziali,
assistenziali ed assicurativi (comma 24).
Il consiglio
metropolitano è organo elettivo di
secondo grado.
Hanno diritto di elettorato
attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei comuni della città
metropolitana.
La cessazione dalla
carica comunale comporta la decadenza da consigliere metropolitano (comma 25).
Il sistema elettorale (commi 26-38) è un sistema
proporzionale per liste.
Ai fini della
presentazione, le liste devono essere sottoscritte da almeno il 5 per cento
degli aventi diritto al voto e devono essere composte da un numero di candidati
non inferiore alla metà dei consiglieri da eleggere e non superiore al numero
dei consiglieri da eleggere.
L’elezione avviene in
un’unica giornata presso l’ufficio elettorale costituito presso il consiglio
metropolitano.
Ciascun elettore
esprime un voto per una lista e può esprimere un voto di preferenza per un
candidato della lista. Il voto è in entrambi i casi ponderato.
I seggi sono assegnati
alle liste secondo il metodo d’Hondt.
Sono proclamati eletti,
per ciascuna lista, i candidati che hanno ottenuto la maggiore cifra
individuale ponderata.
Il voto dei
sindaci e consiglieri ha dunque un valore diverso legato alla popolazione del
comune di appartenenza, tanto più alto quanto maggiore è la popolazione. Esso è
pertanto ponderato in base ad un indice rapportato alla popolazione
complessiva della fascia demografica di appartenenza del comune (le fasce
demografiche sono determinate dal comma 33).
Nella ponderazione sono
adottati due correttivi volti a ridurre il peso degli elettori appartenenti ad
un solo comune la cui popolazione superi il 45% della popolazione complessiva
della città metropolitana e degli elettori appartenenti ad una fascia
demografica la cui popolazione superi il 35% della popolazione complessiva
(Allegato A).
Ai fini di promuovere
la rappresentanza di genere, nelle
liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, a pena di
inammissibilità. Tale disposizione troverà peraltro applicazione decorsi 5 anni
dall'entrata in vigore della legge n. 215/2012, sulle rappresentanze di genere
negli organi elettivi degli enti locali, ossia dal 26 dicembre 2017 (commi
27-28).
I seggi che rimangono
vacanti per qualunque causa, compresa la cessazione dalla carica di sindaco o
di consigliere comunale, sono attribuiti ai candidati che, nella medesima
lista, hanno ottenuto la maggiore cifra individuale ponderata. Non si considera
cessato dalla carica il consigliere eletto o rieletto sindaco o consigliere in
un comune della città metropolitana (comma 39).
Sono inoltre
disciplinate le ineleggibilità e incompatibilità dei membri del consiglio metropolitano, attraverso apposite modifiche al
TUEL (comma 23).
Lo statuto della
città metropolitana può prevedere l’elezione diretta a suffragio
universale del sindaco e del consiglio metropolitano, previa approvazione della legge statale
sul sistema elettorale (comma 22).
Per prevedere
l’elezione diretta è altresì necessaria l’articolazione del comune capoluogo in più comuni, secondo una
complessa procedura, che prevede:
- la proposta del
comune capoluogo, deliberata dal consiglio comunale con la stessa maggioranza
richiesta per l’approvazione e le modifiche dello statuto (due terzi dei
componenti o, in caso di mancato raggiungimento, due successive deliberazioni
favorevoli adottate a maggioranza assoluta);
- un referendum
tra i cittadini della città metropolitana, sulla base delle rispettive leggi
regionali;
- l’istituzione con
legge regionale dei nuovi comuni, ai sensi dell’art. 133 Cost.
Nelle città
metropolitane con popolazione superiore a 3 milioni di abitanti, è
prevista una procedura meno onerosa, alternativa a quella descritta. È infatti
necessario che lo statuto della città metropolitana preveda la costituzione di
zone omogenee e che il comune capoluogo abbia ripartito il territorio in zone
dotate di autonomia amministrativa in coerenza con lo statuto della città
metropolitana.
Lo statuto della città metropolitana (commi 10-11) stabilisce le norme
fondamentali dell'organizzazione dell’ente, comprese le attribuzioni e le
competenze degli organi, nonché:
a) regola le modalità e
gli strumenti di coordinamento dell'azione complessiva di governo del
territorio metropolitano;
b) disciplina i
rapporti tra i comuni e la città metropolitana per l'organizzazione e
l'esercizio delle funzioni metropolitane e comunali, prevedendo anche forme di
organizzazione in comune, eventualmente differenziate per aree territoriali.
Mediante convenzione, i comuni e le unioni di comuni possono avvalersi di
strutture della città metropolitana e possono delegare l'esercizio di funzioni
alla città metropolitana e viceversa;
c) può prevedere la
costituzione di zone omogenee, per specifiche funzioni, con organismi di
coordinamento con la città metropolitana; a tal fine è necessaria la proposta o
comunque l'intesa con la regione, il cui dissenso può essere superato con
decisione della conferenza metropolitana, adottata a maggioranza di due terzi
dei componenti;
d) individua le
modalità per istituire accordi con i comuni non compresi nella città
metropolitana.
Lo statuto della
città metropolitana può inoltre prevedere l'elezione diretta a suffragio
universale del sindaco e del consiglio metropolitano, secondo le condizioni
previste dalla legge (v. sub Il sistema
elettorale del consiglio metropolitano).
Il procedimento di approvazione
dello statuto e delle relative modifiche prevede la proposta del consiglio
metropolitano e l'approvazione da parte della conferenza metropolitana con i
voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della
popolazione residente (comma 9).
Per ciò che attiene al bilancio,
i relativi schemi sono proposti dal sindaco metropolitano, adottati dal
consiglio metropolitano e sottoposti al parere della conferenza metropolitana,
espresso con i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la
maggioranza della popolazione. Il bilancio è successivamente approvato in via
definitiva dal consiglio (comma 8).
Con riferimento alle
funzioni (comma 44), alle città metropolitane sono attribuite:
a) piano strategico del territorio metropolitano
di carattere triennale, che
costituisce atto di indirizzo per i comuni e le unioni di comuni del
territorio, anche in relazione a funzioni delegate o attribuite dalle regioni;
b) pianificazione
territoriale generale, comprese le strutture di comunicazione, le reti di
servizi e delle infrastrutture, anche fissando vincoli e obiettivi all'attività
e all'esercizio delle funzioni dei comuni;
c) strutturazione di
sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di
ambito metropolitano; a tale riguardo, la città metropolitana può,
d’intesa con i comuni interessati, predisporre documenti di gara, svolgere la
funzione di stazione appaltante, monitorare i contratti di servizio ed
organizzare concorsi e procedure selettive;
d) mobilità e viabilità;
e) promozione e
coordinamento dello sviluppo economico e sociale;
f) promozione e
coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito
metropolitano;
La ‘legge Delrio’
dispone che le città metropolitane sono costituite alla data di entrata in
vigore della legge, prevedendo peraltro un procedimento articolato per la prima
istituzione in base al quale le stesse assumono il pieno esercizio delle
funzioni dal 1° gennaio 2015 (commi 12-17).
A seguito del
commissariamento dei comuni capoluogo, una disciplina speciale vige per
l’istituzione delle città metropolitane di Reggio Calabria (comma 18) e di
Venezia (art. 23, commi 1-ter e 1-quater, D.L. n. 90/2014).
|
L’istituzione della
città metropolitana di Reggio Calabria
avviene alla scadenza naturale degli organi provinciali o comunque entro
trenta giorni dalla decadenza o scioglimento anticipato degli stessi, con
ingresso nelle funzioni comunque successivo al rinnovo degli organi del
comune di Reggio Calabria. Il termine per l’elezione del consiglio
metropolitano è fissato al centottantesimo giorno dalla costituzione della
città metropolitana; i termini per l’approvazione dello statuto e per il
subentro della città metropolitana alla provincia sono fissati, rispettivamente,
al duecentoquarantesimo giorno dalla scadenza degli organi provinciali; il
termine per l’esercizio del potere sostitutivo statale è fissato al
trecentosessantacinquesimo giorno dalla medesima scadenza. Le elezioni per il
consiglio metropolitano di Venezia si
svolgono entro 60 giorni dalle elezioni del consiglio comunale di Venezia
(che hanno avuto luogo nel turno ordinario delle amministrative 2015). Dalla
data di insediamento del consiglio metropolitano, la città metropolitana di
Venezia subentra alla provincia omonima, con conseguente assunzione delle
funzioni di sindaco metropolitano da parte del sindaco di Venezia e con l’insediamento
della conferenza metropolitana. La conferenza metropolitana approva lo
statuto nei successivi 120 giorni, decorsi i quali il Governo può esercitare
il potere sostitutivo (ex art. 8 L.
n. 131/2003). |
Fino al 31 dicembre
2014, è prevista la permanenza in carica, a titolo gratuito, del Presidente
della provincia, che assume anche le funzioni del consiglio provinciale, e
della giunta provinciale per l'ordinaria amministrazione e per gli atti
urgenti e improrogabili. Per le province commissariate, il commissariamento
è stato prorogato al 31 dicembre 2014 (comma 14).
Si applicano le
disposizioni sul riordino delle funzioni
delle province di cui ai commi 85-97 (comma 14).
Entro il 12 ottobre
2014 la legge prevede le elezioni del consiglio metropolitano, indette dal
sindaco del comune capoluogo, ed il successivo insediamento del consiglio
metropolitano e della conferenza metropolitana (comma 15).
Entro il 31 dicembre
2014 il consiglio metropolitano approva lo statuto (comma
15). Ove alla predetta data non si pervenga all’approvazione, si applica lo
statuto della provincia.
In caso di mancata
approvazione dello statuto entro il 30 giugno 2015, si applica la procedura per
l’esercizio da parte del Governo del potere sostitutivo prevista dalla cd.
‘legge La Loggia’ (art. 8, L. 131/2003).
|
Le elezioni dei
consigli metropolitani di Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma e Torino hanno avuto luogo tra il 28 settembre e il 12 ottobre
2014. L’elezione del consiglio della città metropolitana di Venezia si è svolta il 9
agosto 2015. Sono stati complessivamente eletti 162 consiglieri metropolitani. Allo stato, tutte le
città metropolitane in cui si sono svolte le elezioni hanno approvato i
rispettivi statuti. |
L’effettivo
passaggio dalla provincia alla città metropolitana è avvenuto il 1°
gennaio 2015 (il 31 agosto a
Venezia), data a partire dalla quale la città metropolitana è succeduta
alla provincia in tutti i rapporti attivi e passivi e ne esercita le funzioni,
nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica e degli obiettivi del patto di
stabilità interna. Da tale data il sindaco del comune capoluogo assume le
funzioni di sindaco metropolitano e la città metropolitana opera con il
proprio statuto e i propri organi, assumendo anche le funzioni proprie
(comma 16).
Spettano alla città
metropolitana il patrimonio, il personale e le risorse della provincia,
comprese le entrate provinciali (comma 47).
Al personale delle
città metropolitane si applicano le disposizioni vigenti per il personale delle
province; il personale trasferito dalle province mantiene, fino al successivo contratto,
il trattamento economico in godimento (comma 48). Per le ulteriori disposizioni sul personale delle città metropolitane,
si rinvia al paragrafo sul personale degli enti locali.
Alle città
metropolitane si applicano, ove compatibili, le disposizioni in materia di
comuni del testo unico sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000)
e le disposizioni della legge n. 131/2003 (cd. ‘legge La Loggia’) sulla potestà
normativa degli enti locali (comma 50).
Alla città
metropolitana di Roma capitale, si applicano le norme generali sulle città
metropolitane.
Lo statuto della città
metropolitana di Roma capitale disciplina i rapporti tra la città
metropolitana, Roma capitale e gli altri comuni, garantendo il miglior assetto
delle funzioni che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli organi
costituzionali nonché delle rappresentanze diplomatiche degli Stati esteri.
Restano ferme le
disposizioni dei decreti legislativi già adottati su Roma capitale (D.Lgs. n.
156/2010, D.Lgs. n. 61/2012 e D.Lgs. n. 51/2013) (commi 101-103).
La ‘legge Delrio’ reca
una disciplina per il riordino delle province, adottata in attesa della riforma costituzionale del Titolo V e
delle relative norme di attuazione (comma 51).
Come per le città metropolitane, la legge si applica direttamente nelle regioni
a statuto ordinario.
Le disposizioni sulle province non si applicano alle province autonome di
Trento e di Bolzano e alla regione Valle d'Aosta (comma 53).
Le regioni a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia
adeguano i propri ordinamenti interni ai princìpi della legge, entro dodici
mesi dalla data di entrata in vigore della medesima (comma 145).
|
La riforma
costituzionale Il testo di riforma costituzionale approvato in seconda votazione
a maggioranza assoluta da entrambe le Camere (pubblicato in G.U. 15 aprile 2016, n. 88), modifica l’articolo 114
Cost., sopprimendo il riferimento alle province quali enti costitutivi
della Repubblica. Conseguentemente, altre disposizioni del disegno di
legge eliminano tale riferimento in tutto il testo costituzionale. Le province vengono dunque meno quali enti costituzionalmente
necessari, dotati, in base alla Costituzione, di funzioni amministrative
proprie. Una disposizione finale (art. 40, comma 4), peraltro, disciplinando il
riparto di competenza legislativa relativamente agli “enti di area vasta”,
attribuisce i profili ordinamentali generali alla legge statale e le
ulteriori disposizioni alla legge regionale. Attraverso questa norma finale
viene dunque menzionato nel testo della legge costituzionale un nuovo ente
territoriale, l’ ‘ente di area vasta’. La riforma costituzionale, per la parte relativa alla revisione del
titolo V della Costituzione sugli enti territoriali, non si applica alle regioni
a statuto speciale ed alle province autonome, fino all’adeguamento dei
rispettivi statuti (per il quale è necessaria una legge
costituzionale), sulla base di intese con le medesime regioni e province
autonome (art. 39, comma 13). |
In base al nuovo
assetto ordinamentale (comma 54), gli organi della provincia sono:
-
il presidente
della provincia;
-
il consiglio
provinciale;
-
l’assemblea
dei sindaci.
Il presidente della provincia ed il consiglio provinciale sono organi elettivi di secondo grado (per il sistema elettorale v. infra) e
restano in carica, rispettivamente, quattro anni e due anni (commi 58-59 e
68-69).
Il presidente della
provincia ed i consiglieri provinciali decadono dalla carica in caso di
cessazione dalla carica elettiva locale (commi 65 e 69). Per i consiglieri
provinciali, non si considera cessato dalla carica il consigliere eletto o
rieletto sindaco in un comune della provincia (comma 78).
Il riparto di
competenza stabilito è analogo a quello fissato per gli organi della città
metropolitana.
Il presidente della provincia ha la rappresentanza dell’ente, convoca
e presiede il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento
dei servizi e degli uffici ed esercita le funzioni attribuite dallo statuto (comma 55).
Il presidente della può
nominare un vicepresidente, scelto tra i consiglieri provinciali, che
esercita le funzioni del presidente in caso di impedimento (comma 66).
Il presidente della
provincia può assegnare deleghe al
vicepresidente e, nel rispetto del principio
di collegialità e secondo le modalità e nei limiti previsti dallo
statuto, a consiglieri provinciali (comma
66).
Il consiglio provinciale è composto dal presidente della provincia e
da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione residente:
-
16 consiglieri, se la popolazione è superiore a 700.000 abitanti;
-
12 consiglieri, se la popolazione è compresa tra 300.000 e 700.000 abitanti;
-
10 consiglieri, se la popolazione è
inferiore a 300.000 abitanti (comma 67).
È l’organo di indirizzo
e controllo, approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni
altro atto ad esso sottoposto dal presidente della provincia; ha altresì potere
di proposta dello statuto e poteri decisori finali per l'approvazione del
bilancio (comma 55).
L’assemblea dei sindaci è composta dai sindaci dei comuni
appartenenti alla provincia (comma 56).
È competente per l'adozione dello statuto e ha potere consultivo per
l'approvazione dei bilanci; lo statuto può attribuirle altri poteri
propositivi, consultivi e di controllo (comma
55).
Come per la città
metropolitana, gli incarichi di presidente della provincia, di consigliere
provinciale e di componente dell’assemblea dei sindaci sono svolti a titolo
gratuito. Restano a carico della provincia gli oneri per i permessi
retribuiti, per i rimborsi per le spese di viaggio e per la partecipazione alle
associazioni rappresentative degli enti locali, nonché gli oneri previdenziali,
assistenziali ed assicurativi (comma 84).
Il
sistema elettorale
Il presidente della provincia è eletto dai sindaci e dai consiglieri
dei comuni della provincia; sono eleggibili
i sindaci della provincia il cui mandato scada non prima di 18 mesi dalla
data delle elezioni.
Il presidente resta in
carica quattro anni (commi 58-60).
L’elezione avviene
sulla base di candidature sottoscritte da almeno il 15 per cento degli aventi
diritto al voto (comma 61).
Il presidente della
provincia è eletto con voto diretto, libero e segreto. L’elezione avviene in
unica giornata presso un unico seggio elettorale costituito presso l'ufficio
elettorale (costituito presso la sede della provincia) dalle ore otto alle ore
venti.
Ogni elettore vota per
un solo candidato ed il voto è ponderato secondo il sistema adottato per
l'elezione del consiglio metropolitano (v.
supra).
È eletto il candidato
che consegue il maggior numero di voti, sulla base della predetta ponderazione
(commi 62-64).
Per il consiglio provinciale hanno diritto di
elettorato attivo e passivo i sindaci e
i consiglieri dei comuni della provincia.
La durata del consiglio
provinciale è più breve di quella del presidente della provincia, in quanto il
consiglio resta in carica due anni.
Il sistema elettorale è
del tutto analogo a quello previsto per l’elezione del consiglio metropolitano (v. supra).
Lo
statuto
Analogamente a quanto
previsto per la città metropolitana, il procedimento di approvazione dello
statuto e delle relative modifiche prevede la proposta del consiglio
provinciale e l'approvazione da parte dell'assemblea dei sindaci con i voti che
rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione
(comma 55).
Il bilancio
Per ciò che attiene al bilancio,
i relativi schemi sono proposti dal presidente della provincia, adottati dal
consiglio provinciale e sottoposti al parere dell'assemblea dei sindaci,
espresso con i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni compresi nella
provincia e la maggioranza della popolazione. Il bilancio è successivamente
approvato in via definitiva dal consiglio (comma 55).
Anche in tal caso, la
procedura riprende quella prevista per la città metropolitana.
La legge individua le
seguenti funzioni fondamentali delle province,
quali enti con funzioni di area vasta (comma
85):
a. pianificazione
territoriale provinciale di coordinamento, nonché valorizzazione dell'ambiente,
per gli aspetti di competenza;
b. pianificazione dei
servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in
materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale,
nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della
circolazione stradale ad esse inerente;
c. programmazione
provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;
d. raccolta ed
elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;
e. gestione dell'edilizia scolastica;
f. controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale
e promozione delle pari opportunità
sul territorio provinciale.
Le province possono
altresì, d'intesa con i comuni, esercitare le funzioni di predisposizione dei
documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di
servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive (comma 88).
Norme specifiche
riguardano le province con territorio interamente montano e confinanti con
Paesi stranieri (comma 3).
A tali province le regioni
riconoscono, nelle materie di propria competenza, forme particolari di
autonomia (comma 52).
Gli statuti delle province
montane possono prevedere, d’intesa con la regione, la costituzione di zone
omogenee per specifiche funzioni, con organismi di coordinamento collegati agli
organi provinciali, senza maggiori oneri per la finanza pubblica (comma 57).
A tali province sono
inoltre attribuite funzioni fondamentali ulteriori rispetto a quelle attribuite
alla generalità delle province (comma 86), riguardanti:
a) cura dello sviluppo
strategico del territorio e gestione in forma associata di servizi in base alle
specificità del territorio medesimo;
b) cura delle relazioni
istituzionali con altri enti territoriali, compresi quelli di altri Paesi, con
esse confinanti e il cui territorio abbia caratteristiche montane, anche
stipulando accordi e convenzioni (comma
86).
Per la prima
attuazione, la legge n. 56 ha stabilito che l’elezione del presidente della
provincia e del consiglio provinciale abbia luogo (comma 79):
In sede di prima
costituzione degli organi, sono eleggibili
anche i consiglieri provinciali uscenti (comma 80).
|
Tra il 28 settembre e
il 12 ottobre 2014, si sono svolte le elezioni dei presidenti e dei consigli
in 64 province. Dei 64 nuovi presidenti 53
sono sindaci di comuni, 17 dei quali governano il Comune capoluogo (i
restanti sono Presidenti della provincia o consiglieri provinciali uscenti,
eleggibili solo in sede di prima applicazione della legge). I consiglieri
provinciali eletti sono stati complessivamente 760. |
Nella transizione dal
vecchio al nuovo ordinamento, si prevede che il presidente della provincia in
carica ovvero, qualora la provincia sia commissariata, il commissario, restano
in carica a titolo gratuito per l’ordinaria amministrazione e per gli atti urgenti
e indifferibili, fino all’insediamento del presidente della provincia eletto (comma
82). Nella formulazione originaria, la prorogatio
del presidente della provincia riguardava esclusivamente le province i cui
organi fossero scaduti per fine mandato nel 2014, mentre l’art. 1, co. 9-ter
del D.L. n. 210/2015 ha esteso l’applicazione della norma anche per gli
scioglimenti successivi al 2014.
La legge dispone,
inoltre, che l’assemblea dei sindaci approva le modifiche statutarie
conseguenti alla nuova legge entro il 31 dicembre 2014, per le province le cui
elezioni si svolgono nel predetto anno, o entro sei mesi dall’insediamento del
consiglio provinciale, per le altre province. In caso di mancata approvazione
delle modifiche statutarie, rispettivamente, entro il 30 giugno 2015 o entro i
sei mesi dall’insediamento si applica la procedura per l’esercizio del potere
sostitutivo del Governo di cui all’articolo 8 della legge n. 131/2003 (commi 81
e 83).
Oltre alla
individuazione delle funzioni fondamentali, la legge prevede un complesso
procedimento per il riordino delle altre funzioni attualmente esercitate dalle province,
non riconosciute come fondamentali ai sensi del comma 85.
Lo Stato e le regioni,
secondo le rispettive competenze, attribuiscono le funzioni provinciali diverse
da quelle fondamentali, in attuazione dell’articolo 118 della Costituzione, con
le seguenti finalità: individuazione dell'ambito territoriale ottimale di
esercizio per ciascuna funzione; efficacia nello svolgimento delle funzioni
fondamentali da parte dei comuni e delle unioni di comuni; sussistenza di
riconosciute esigenze unitarie; adozione di forme di avvalimento e deleghe di
esercizio tra gli enti territoriali coinvolti nel processo di riordino,
mediante intese o convenzioni. Sono altresì valorizzate forme di esercizio
associato di funzioni da parte di più enti locali, nonché le autonomie
funzionali (comma 89).
Per quanto riguarda il
procedimento da seguire:
Le funzioni trasferite
dalle province ad altri enti territoriali continuano ad essere da esse
esercitate fino alla data dell'effettivo avvio di esercizio da parte dell'ente
subentrante; tale data è determinata nel decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri di cui al comma 92 per le funzioni di competenza statale ovvero è
stabilita dalla regione ai sensi del comma 95 per le funzioni di competenza
regionale (comma 89).
Nello specifico caso in
cui disposizioni normative statali o regionali riguardanti servizi a rete di rilevanza
economica prevedano l’attribuzione di funzioni di organizzazione dei predetti
servizi, di competenza comunale o provinciale, ad enti o agenzie in ambito
provinciale o sub-provinciale, le leggi
statali o regionali, ovvero il d.P.C.M.
di cui al comma 92, prevedono la soppressione
di tali enti o agenzie e l'attribuzione delle funzioni alle province nel nuovo
assetto istituzionale. Per le regioni che si adeguino sono individuate misure
premiali (comma 90).
Circa i
profili relativi al personale, si rinvia al paragrafo relativo al personale
degli enti locali.
|
I
provvedimenti attuativi In data 11 settembre
2014, è stato sancito in sede di Conferenza unificata l’accordo per l’individuazione
delle funzioni oggetto di riordino, previsto dal comma 91. Tale accordo
individua quali funzioni amministrative oggetto di riordino di competenza
statale unicamente funzioni relative alla materia della tutela delle
minoranze linguistiche. Le regioni si
impegnano ad adottare le iniziative legislative di loro competenza entro il
31 dicembre 2014. L’accordo ha inoltre
istituito un Osservatorio nazionale, con il compito di coordinare l’attività
di riordino delle funzioni e monitorare l’attuazione della riforma, in
raccordo con gli analoghi Osservatori regionali, previsti dall’accordo
stesso. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 settembre 2014 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 12 novembre
2014) sono stati dettati i criteri per l’individuazione dei beni e delle
risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse con l’esercizio
delle funzioni provinciali, in attuazione del comma 92. Con circolare
del 1° gennaio 2015 del Ministro per la pubblica amministrazione e la
semplificazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie sono
state dettate le linee guida per l’attuazione delle disposizioni in materia
di personale e di altri profili connessi al riordino delle province e delle
città metropolitane. Per ciò che attiene all’attuazione a livello regionale,
la Conferenza delle regioni e delle province effettua il relativo
monitoraggio. Alla data del 30
ottobre 2015 le regioni che hanno adottato la normativa sul riordino delle
funzioni delle Province in attuazione della legge n. 56 del 2014 e
dell’accordo Stato-Regioni dell’11 settembre 2014 sono: Toscana, Marche,
Liguria, Calabria, Lombardia, Emilia Romagna, Abruzzo, Veneto, Piemonte,
Basilicata, Campania, Molise, Puglia. La Puglia ha approvato la relativa
legge il 27 ottobre 2015, in attesa di pubblicazione. Il Lazio non ha invece
ancora adottato la relativa legislazione, sebbene l’iter sia stato comunque
attivato. Al fine di
incentivare il completamento del riordino in corso, dapprima è stata
introdotta una disposizione che prevede che le regioni che entro il 30
ottobre 2015 non hanno approvato in via definitiva le leggi relative al
trasferimento delle funzioni provinciali non fondamentali, sono obbligate al
versamento annuale (entro il 30 novembre per il 2015 e entro il 30 aprile per
gli anni successivi), a ciascuna provincia e città metropolitana situata nel
proprio territorio, delle somme corrispondenti alle spese sostenute da queste
per l’esercizio delle funzioni non trasferite (art. 7, co. 9-quinquies, D.L.
n. 78/2015). L’obbligo del versamento cessa a partire dalla data di effettivo
esercizio della funzione da parte dell’ente individuato dalla legge
regionale. Successivamente, la legge di stabilità 2016 (art. 1, co.
765-767, L. 208/2015) ha previsto, ferma restando l’applicazione della
precedente disposizione, la nomina di un Commissario al fine di assicurare
nelle Regioni ancora inadempienti il completamento delle misure di attuazione
del riordino delle funzioni delle Province e delle Città metropolitane e il
conseguente trasferimento delle rispettive risorse umane, strumentali e
finanziarie. Il completamento del
trasferimento delle risorse deve avvenire entro il 30 giugno 2016. In particolare, al Commissario è
attribuito il potere di adottare, sentita la Regione interessata, gli atti
necessari per il trasferimento delle risorse relative a funzioni non
fondamentali delle Province e delle Città metropolitane. In mancanza di
disposizioni legislative regionali e fatta salva la loro successiva adozione,
le funzioni non fondamentali di Province e Città metropolitane si intendono
attribuite alla Regione. Nelle Regioni che non hanno completato il
trasferimento delle risorse, pur avendo adottato la legge di riordino delle
funzioni, il Commissario adotta le decisioni d’intesa con il Presidente della
Regione, secondo le modalità previste con legge regionale. |
Agli enti locali è riconosciuto un coinvolgimento nel
processo europeo, nell’ambito della formazione e dell’attuazione della
normativa e delle politiche dell’Unione europea.
La valorizzazione e la tutela del sistema delle autonomie
locali si fondano, in primo luogo, sulle norme fondamentali contenute nel Trattato sull’Unione europea (TUE), che
intendono garantire un ampio coinvolgimento della dimensione regionale e locale
come parte integrante del patrimonio costituzionale nell’Unione.
Alcune disposizioni espressamente tutelano il sistema delle
autonomie locali. L’Unione europea, infatti, rispetta l’identità nazionale
degli Stati membri, insita nella loro struttura politica e costituzionale,
ricomprendendo esplicitamente il sistema delle autonomie locali
e regionali (art. 4, par. 2).
Un ulteriore riconoscimento è
presente nella Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla quale il TUE attribuisce lo
stesso valore giuridico dei trattati (art. 6), che salvaguarda le identità
nazionali degli Stati membri e l’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello
nazionale, regionale e locale.
In un’ottica di legittimazione democratica, viene inoltre enunciato
il principio di prossimità, in forza
del quale le decisioni assunte dall’Unione dovrebbero essere prese più vicino
possibile ai cittadini (art. 1, par. 2 e art. 10, par. 3). A tale principio si
ricollega il principio di sussidiarietà
in forza del quale l’intervento dell’Unione è previsto solo qualora gli
obiettivi dell’azione non possono essere conseguiti in maniera sufficiente
dagli Stati membri, né a livello centrale, né a livello regionale e locale
(art. 5).
Dall’applicazione di tali principi, nel quadro del processo
normativo, scaturisce una presa in considerazione delle prerogative dei livelli
di governo locale rispetto all'esercizio delle competenze concorrenti da parte
dell'Unione Europea.
La partecipazione degli enti locali viene garantita già
nelle fasi preparatorie della proposta legislativa, a partire dalle consultazioni
promosse a tal fine dalla Commissione europea.
Secondo quanto disposto dal Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di proporzionalità e
sussidiarietà, infatti, la Commissione europea - prima di proporre un atto
legislativo - si impegna ad effettuare ampie consultazioni che, “se del caso”,
devono tener conto “della dimensione regionale e locale delle azioni previste”
(art. 2). Inoltre, si prevede che ogni progetto di atto legislativo dovrebbe
tener conto degli oneri, finanziari o amministrativi, che ricadono - tra gli
altri - sugli enti locali, affinché siano resi meno gravosi e commisurati agli
obiettivi (art. 5).
La valorizzazione delle autonomie locali degli Stati membri
nei meccanismi decisionali europei costituisce un profilo importante del
processo di integrazione europea - come emerge dalle norme fondamentali sopra
citate - e passa anche dal riconoscimento di un ampio coinvolgimento delle realtà
territoriali substatali nel quadro
istituzionale europeo.
E’ infatti previsto che i rappresentanti delle
collettività regionali e locali, titolari di un mandato elettorale nell’ambito
della collettività regionale o locale, o politicamente responsabili dinanzi ad
un’assemblea eletta, possono far parte del Comitato
delle regioni, cui spettano compiti di assistenza nei riguardi del
Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea e che il Trattato
annovera tra gli organi consultivi dell’Unione europea (art. 300 TFUE).
La rilevanza riconosciuta agli enti locali nel processo di
integrazione europea si conferma, in secondo luogo, a livello di ordinamento nazionale: precisamente,
nelle disposizioni legislative sulla partecipazione dell’Italia al processo
normativo europeo che valorizzano ampiamente il ruolo delle autonomie locali.
In ragione delle
innovazioni apportate nel Trattato di Lisbona del 2009, il sistema della
partecipazione al processo d'integrazione europea è stato adeguato con la legge n. 234 del 2012, che, oltre ad
intervenire sulle procedure di formazione e attuazione del diritto dell'Unione
Europea nelle fasi ascendente e discendente, conferma e precisa il ruolo degli enti
locali, anche con riferimento
alla responsabilità per non corretta applicazione o violazione del diritto
dell’Unione europea.
|
La legge 24
dicembre 2012, n. 234 regola la partecipazione dell’Italia alla
formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione
europea, sulla base dei principi di attribuzione, di sussidiarietà, di
proporzionalità, di leale collaborazione, di efficienza, di trasparenza e di
partecipazione democratica. In questo ambito la
sede propria del coinvolgimento degli enti locali al processo europeo è
definito attraverso la partecipazione delle Associazioni rappresentative dei comuni,
delle province e delle comunità montane alle attività del Comitato per gli affari
europei e gli enti territoriali
(CIAE). Il Comitato, i cui
compiti e funzionamento sono specificati all’articolo 2 della legge 234, che
ne definisce altresì la struttura, è istituito presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri al fine di concordare le linee politiche del Governo
nel processo di formazione della posizione italiana nella fase di
predisposizione degli atti dell'Unione europea e di consentire il puntuale
adempimento dei compiti di cui alla legge n. 234/2012, tenendo conto degli
indirizzi espressi dalle Camere. Il CIAE è presieduto
dal Presidente del Consiglio dei Ministri o, per sua delega, dal Ministro per
gli affari europei e vi partecipano: il Ministro degli affari esteri, il
Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro per gli affari regionali,
il turismo e lo sport, il Ministro per la coesione territoriale e gli altri
Ministri aventi competenza nelle materie oggetto dei provvedimenti e delle
tematiche all'ordine del giorno. Le linee generali, le
direttive e gli indirizzi deliberati dal CIAE sono comunicati alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le politiche europee ai fini
della definizione unitaria della posizione italiana da rappresentare
successivamente, d'intesa con il Ministero degli affari esteri, in sede di
Unione europea. L’articolo 2, in
particolare, precisa che alle riunioni del CIAE, in cui si trattano materie
che interessano le regioni o le province autonome, partecipano, per i
rispettivi ambiti di competenza il presidente dell’Associazione nazionale dei
comuni italiani (ANCI), il presidente dell’Unione delle province d’Italia
(UPI) e il presidente dell’Unione nazionale comuni, comunità, enti montani
(UNCEM). Si tratta peraltro di
una presenza stabile, prevista dalla legge, che rafforza il ruolo di questi
enti, a differenza di quanto stabilito dalla legge n. 11 del 2005, che
riconosceva ai presidenti delle associazioni rappresentative degli enti locali
la possibilità di “chiedere di partecipare” alle riunioni del Comitato. Il Capo IV della
legge n. 234 del 2012 recante norme sulla Partecipazione delle regioni,
delle province autonome e delle autonomie locali al processo di formazione
degli atti dell’unione europea si occupa più specificamente del ruolo
delle autonomie locali, sia nella fase ascendente di formazione delle
politiche e degli atti normativi dell’Unione, sia nella fase discendente
dell’attuazione interna degli obblighi comunitari. Sul piano della partecipazione alla fase
ascendente, la legge disciplina il ruolo politico della Conferenza Stato-città ed autonomie locali. In questa sede, l’articolo 23 dispone l’istituzione di
una sessione europea della Conferenza (da convocarsi almeno due volte l’anno
da parte del Presidente del Consiglio o il Ministro degli affari europei,
anche su richiesta dei presidenti dell’ANCI, dell’UPI o dell’UNCEM) per un
confronto sugli aspetti delle politiche dell’Unione europea di diretto
interesse degli enti locali e per l’espressione di un parere sui criteri e le
modalità per raccordare l’esercizio delle funzioni di interesse degli enti
locali agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. Quanto alla
partecipazione alle decisioni relative alla formazione di atti normativi in
sede europea di specifica rilevanza negli ambiti di competenza degli enti
locali, l’articolo 26 richiede che
il Presidente del Consiglio o il Ministro degli affari europei assicurino una
adeguata consultazione dei comuni, delle province e delle città metropolitane
per la formazione della posizione dell’Italia in sede europea. Analogamente,
si dispone la trasmissione degli atti o dei progetti di atti dell’Unione
europea di particolare rilevanza negli ambiti di competenza degli enti locali
alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali, che ha il compito di
trasmetterli a sua volta all’ANCI, all’UPI e all’UNICEM per l’eventuale
espressione di osservazioni al Presidente del Consiglio o alle Camere.
Inoltre, tali atti possono essere sottoposti all’esame delle Conferenza
stessa. E’ prevista altresì
la convocazione di esperti designati dagli enti locali - secondo modalità
stabilite dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali - ai gruppo di
lavoro istituiti presso il Comitato tecnico di valutazione degli atti
dell’Unione europea nelle materie che investono la competenze degli enti
locali. La disciplina
nazionale delinea pertanto un modello di partecipazione delle autonomie
locali al processo europeo fondato su un duplice confronto: di natura
generale, sugli aspetti delle politiche dell’Unione europea di diretto
interesse locale, e di carattere specifico, su singoli atti o progetti di
atti dell’Unione europea. La partecipazione
diretta degli enti locali alla formazione delle politiche dell'Unione europea
avviene invece, come sopra ricordato, attraverso la nomina di membri presso
il Comitato delle regioni. L’articolo 27 stabilisce che la nomina
dei membri spettanti all’Italia presso il Comitato delle regioni, avviene su
proposta del Presidente del Consiglio al Consiglio dell’Unione europea, e per
quanto concerne specificamente i rappresentanti delle Province e dei Comuni,
sulla base delle indicazioni fornite, rispettivamente, dall’UPI, dall’ANCI e
dall’UNCEM, secondo criteri definiti di intesa con la Conferenza Stato-città
ed autonomie locali. Un ulteriore ambito
partecipazione delle realtà territoriali locali al processo europeo, è
delineato nelle disposizioni della legge n. 234 del 2012 concernenti i
compiti spettanti agli enti territoriali nell’adempimento degli obblighi degli Stati nazionali derivanti dalla
normativa dell'Unione europea. Nell’ambito delle
norme sul contenzioso, l’articolo 43
- al fine di prevenire l’instaurazione di procedure di infrazione o di porvi
termine - stabilisce misure volte ad assicurare l’adempimento degli obblighi
europei e internazionali dello Stato, ponendo in capo a: Regioni, Province
autonome, Enti territoriali, altri enti pubblici e soggetti equiparati
l’obbligo di adottare ogni misura necessaria a porre tempestivamente rimedio alle violazioni, loro imputabili,
degli obblighi degli Stati nazionali derivanti dalla normativa dell'Unione
europea. Analogo obbligo è sancito in relazione alle sentenze della Corte di
Giustizia dell’Unione europea (CGUE). Inoltre, l’articolo
43 disciplina il diritto di rivalsa
dello Stato nei confronti dei citati soggetti, ove responsabili
dell’inadempimento degli obblighi derivanti dalla normativa dell’Unione
europea. In particolare, si
stabilisce che lo Stato può esercitare il diritto di rivalersi nei confronti
di tali enti nelle regolazioni finanziarie operate a carico dell'Italia a
valere sulle risorse del Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA), del
Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) e di altri fondi aventi
finalità strutturali. La norma precisa inoltre che tale diritto di rivalsa è
esercitato dallo Stato per compensare gli oneri finanziari derivanti dalle
sentenze di condanna della Corte di Giustizia dell’Unione europea ex articolo 260, paragrafi 2 e 3 del
TFUE. Vengono infine disciplinate le specifiche modalità di esercizio del
diritto di rivalsa dello Stato, che sono differenziate a seconda che il
destinatario sia un ente territoriale, ovvero un ente od organismo pubblico
diverso assoggettato al sistema di tesoreria unica, ovvero altro ente. La legge n. 234 del
2012 attribuisce agli enti locali numerosi obblighi di comunicazione, monitoraggio, pubblicità e trasparenza in
materia di aiuti di Stato, che sono volti a garantire l’effettività
del controllo pubblico sul rispetto del divieto di cumulo delle agevolazioni.
L’articolo 46 prescrive la
collaborazione delle amministrazioni locali nella fornitura di informazioni, nelle verifiche e nei
controlli richiesti ai fini della concessione di aiuti. Le
amministrazioni che concedono aiuti di Stato devono verificare che i
beneficiari non rientrino tra coloro che hanno ricevuto e, successivamente,
non rimborsato o depositato in un conto bloccato aiuti che lo Stato è tenuto
a recuperare in esecuzione di una decisione di recupero; a decorrere dal
1º gennaio 2017, tali verifiche andranno effettuate attraverso l'accesso al Registro nazionale degli aiuti di Stato, di cui all’articolo 52 della
medesima legge. Inoltre, le amministrazioni locali che ne sono in possesso
devono fornire, ove richieste, le informazioni e i dati necessari alle
verifiche e ai controlli alle amministrazioni che intendono concedere aiuti. Con riguardo al recupero degli aiuti dichiarati
incompatibili dalla Commissione europea, e che sono oggetto di decisione
di recupero, l’articolo 48 prevede
che le relative procedure e provvedimenti siano adottati dall’ente
territoriale competente, qualora diverso dallo Stato, attraverso il
concessionario per la riscossione delle entrate dell’ente interessato. |
|
La disciplina del diritto di rivalsa, di cui all’articolo
43, ha subìto numerose modificazioni
successivamente all’approvazione della legge n. 234 del 2012. La legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di
stabilità 2014) ha disposto che "l'articolo 43, comma 10, della
legge 24 dicembre 2012, n. 234, si
interpreta nel senso che il diritto di rivalsa si esercita anche per gli
oneri finanziari sostenuti dallo Stato per la definizione delle controversie
dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo che si siano concluse con decisione di
radiazione o cancellazione della causa dal ruolo ai sensi degli articoli 37 e
39 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, di cui alla legge 4 agosto 1955, n. 848”. Successivamente, il decreto-legge 5 gennaio 2015, n. 1
(convertito con modificazioni dalla L. 4 marzo 2015, n. 20, ) ha inserito il comma 9-bis che - ai fini della tempestiva esecuzione delle sentenze
di condanna rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea e al pagamento
degli oneri finanziari a esse connessi - autorizza il Fondo di rotazione per l’attuazione delle politiche comunitarie
ad anticipare gli oneri derivanti dalle sentenze di condanna a sanzioni
pecuniarie, con successiva rivalsa sulle
amministrazioni responsabili delle violazioni, anche tramite compensazione con
le risorse accreditate dall'Unione europea per i finanziamenti loro
assegnati per interventi comunitari riguardanti iniziative a titolarità delle
stesse amministrazioni e corrispondenti cofinanziamenti nazionali. Con
riguardo al reintegro delle somme anticipate da parte del Fondo di rotazione per l’attuazione delle
politiche comunitarie, il decreto-legge
19 giugno 2015, n. 78 (convertito con modificazioni, dalla L. 6 agosto
2015, n. 125) ha successivamente sancito la necessità di un’intesa con le amministrazioni responsabili delle violazioni
che hanno determinato le sentenze di condanna. Da ultimo, la legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) ha sostituito integralmente il sopracitato
comma 9-bis, prevedendo che al
pagamento degli oneri finanziari derivanti dalle predette sentenze a carico
dell’Italia si provveda - per un limite massimo di 50 milioni di euro per il
2016 e di 100 milioni di euro per il periodo 2017-2020 - col Fondo
per il recepimento della normativa europea. A fronte dei pagamenti effettuati, il Ministero dell'economia e
delle finanze attiverà il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili, prevedendo
espressamente la possibilità di attivare la compensazione con trasferimenti dello Stato verso le suddette
amministrazioni. Il Fondo
per il recepimento della normativa europea è previsto dall’articolo 41-bis
della legge n. 234 del 2012 (introdotto con legge 29 luglio 2015, n. 115 -
legge europea 2014) nello Stato di previsione del Ministero dell'economia e
delle finanze, con una dotazione iniziale di 10 milioni di euro per il 2015 e
di 50 milioni annui a partire dal 2016, al fine di consentire il tempestivo
adeguamento dell'ordinamento interno agli obblighi imposti dalla normativa
europea, nei soli limiti occorrenti per l'adempimento degli obblighi medesimi
e in quanto non sia possibile farvi fronte con i fondi già assegnati alle
competenti amministrazioni. In materia di aiuti
di Stato, il nuovo articolo 45-bis della legge n. 234 del 2012
(introdotto con legge 29 luglio 2015,
n. 115 (legge europea 2014) dispone che le Regioni, le Province autonome
di Trento e di Bolzano, le Province e i Comuni sono tenuti a fornire i dati
relativi alle compensazioni
concesse alle imprese incaricate della gestione dei Servizi di interesse
economico generale (SIEG) alle amministrazioni centrali di settore, le quali
redigono le relazioni di rispettiva competenza sulla base dei predetti dati,
ai fini della predisposizione della relazione periodica sugli aiuti di Stato
sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, da
inoltrare alla Commissione europea. Sempre con legge europea 2014 è stato sostituito l’articolo 52, che ora istituisce il Registro nazionale degli aiuti
ponendo agli enti locali obblighi di trasmissione delle informazioni e di
interrogazione, ai fini del controllo
sul rispetto del divieto di cumulo delle agevolazioni nazionali ed
europee, nonché dell’assolvimento di obblighi di trasparenza e di pubblicità
in materia di aiuti di Stato. Il Registro è destinato a raccogliere informazioni ed a consentire
controlli sugli aiuti di Stato e sugli aiuti “de minimis” concessi alle imprese a valere su risorse pubbliche,
inclusi quelli concessi a titolo di compensazione per i servizi. In
particolare, i soggetti pubblici che concedono ovvero gestiscono i predetti
aiuti sono tenuti a: trasmettere
le relative informazioni al Registro, istituito presso il Ministero dello
sviluppo economico; utilizzare il Registro per le verifiche propedeutiche alla concessione o all'erogazione degli
aiuti di Stato e degli aiuti “de
minimis”, comprese quelle relative al rispetto dei massimali di aiuto
stabiliti dall’UE e dei divieti di cui all'art. 46; aggiornare costantemente i dati del Registro relativi agli aiuti
concessi, anche con riguardo alle vicende modificative degli stessi. Il funzionamento
del Registro è demandato ad decreto regolamentare del Ministro dello Sviluppo
economico, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanze e delle
politiche agricole alimentari e forestali, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281. L'adempimento degli obblighi riferiti al
Registro costituiscono condizione
legale di efficacia dei provvedimenti che dispongono concessioni ed
erogazioni degli aiuti. L'inadempimento di detti obblighi, rilevato anche
d'ufficio, comporta la responsabilità
patrimoniale del responsabile della concessione o dell'erogazione degli
aiuti, ed è inoltre rilevabile dall'impresa beneficiaria ai fini del
risarcimento del danno. |
Attualmente al segretario comunale e provinciale sono
affidati compiti di collaborazione e
assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente
locale in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo
statuto ed ai regolamenti. Ciascun comune e ciascuna provincia ha un segretario
titolare iscritto all'apposito albo cui si accede per concorso (TUEL art. 97 e
98).
Il segretario coordina,
in particolare, i dirigenti e sovrintende allo svolgimento delle loro funzioni;
ha funzioni consultive nei confronti del Consiglio e della Giunta (di cui
verbalizza le sedute); può rogare i contratti nei quali l'ente è parte.
Oltre a queste, al
segretario possono essere attribuite ulteriori funzioni per statuto e
regolamento oppure su impulso del sindaco o del presidente della provincia. Il
segretario, inoltre, svolge funzioni in
materia di prevenzione della corruzione e di controllo interno dell'ente nonché
di trasparenza.
La gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali spetta
al Ministero dell’interno.
|
Il sindaco e il
presidente della provincia nominano e revocano il segretario, il cui incarico
ha la durata corrispondente dell'organo che lo ha nominato (TUEL art. 99). Il
provvedimento di revoca deve essere motivato e deliberato dalla giunta. La
revoca può avvenire solo per violazione dei doveri di ufficio (TUEL art.
100). Il provvedimento di revoca è comunicato dal prefetto all'Autorità
nazionale anticorruzione (ANAC) che si esprime entro trenta giorni. Decorso
tale termine, la revoca diventa efficace, salvo che l’ANAC rilevi che la
stessa sia correlata alle attività svolte dal segretario in materia di
prevenzione della corruzione (L. 190/2012, art. 1, co. 82). Con il decreto-legge
78/2010 la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali è stata affidata
al Ministero dell’interno, così ripristinando la disciplina in vigore prima
del 1997, quando è stata istituita l'Agenzia che aveva sostituito il
Ministero dell'interno quale datore di lavoro dei segretari (Legge 127 del
1997, c.d. "Bassanini 2"). Sempre nell'ottica
della spending review vanno
inquadrati i limiti alle assunzioni dei segretari comunali e provinciali
disposte dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (art. 14, comma 6), ai sensi
del quale a decorrere dal 2012 le assunzioni dei segretari comunali e
provinciali sono autorizzate per un massimo dell’80% delle cessazioni dal
servizio, con le modalità di cui all’articolo 66, comma 10, del D.L. n.
112/2008. Negli ultimi anni,
inoltre, ai segretari sono state attribuite nuove funzioni in materia di
anticorruzione e controllo interno. In particolare, la legge 6 novembre 2012,
n. 190 (c.d. legge anticorruzione) ha individuato nel segretario comunale e
provinciale il responsabile della prevenzione della corruzione negli enti
locali, salvo diversa e motivata determinazione (art. 1, co. 7). In base alla legge,
infatti, le pubbliche amministrazioni centrali e gli enti locali individuano
un responsabile della prevenzione della corruzione. Nelle prime, questi è
scelto di norma tra i dirigenti di ruolo di prima fascia in servizio, mentre
negli enti locali coincide con il segretario, salva diversa motivazione (co.
7). Il responsabile (co. 8 e 10): propone all'organo di indirizzo politico
l'adozione del piano di prevenzione della corruzione, ne verifica poi l'attuazione
e la sua idoneità, proponendo eventuali modifiche dello stesso in caso di
inosservanza o malfunzionamento; definisce, entro il 31 gennaio di ogni anno,
procedure idonee per selezionare e formare il personale destinato ad operare
nei settori più esposti al rischio di corruzione. Attualmente, il
segretario comunale e provinciale svolge altresì le funzioni in materia di
trasparenza dell'amministrazione introdotte dal decreto legislativo 33/2013,
adottato in attuazione della delega prevista dalla legge anticorruzione (art.
43). Il D.Lgs. 33, che ha riordinato la disciplina riguardante gli obblighi
di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, dispone che all'interno di ogni amministrazione il
responsabile per la prevenzione della corruzione (e quindi negli enti locali
il segretario) svolge anche, di norma, le funzioni di responsabile per la
trasparenza con i seguenti compiti: controllare l'adempimento da parte
dell'amministrazione degli obblighi di pubblicazione ed, eventualmente
segnalare i casi di mancato o ritardato adempimento; aggiornare il programma
triennale per la trasparenza e l'integrità; assicurare la regolare attuazione
dell'accesso civico (si tratta di un nuovo istituto introdotto dal medesimo
D.Lgs. 33 sulla base del quale ciascuno ha il diritto di accedere a documenti
dell'amministrazione - per i quali esiste l'obbligo di pubblicazione - nei
casi in cui questa è stata omessa). Da ultimo, il ruolo svolto dal segretario
nell'ambito dei controlli interni degli enti locali, è stato rafforzato ad
opera del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito dalla L. 213/2012
(art. 3). 2012, n. 174, convertito dalla L. 213/2012 (art. 3). Per quanto riguarda
il trattamento economico del segretario comunale e provinciale, si ricorda
che di recente (art. 10 DL 24 giugno 2014, n. 90) è stata soppressa
l'attribuzione ai segretari comunali e provinciali delle quote loro spettanti
dei diritti di segreteria e del diritto di rogito, che sono ora interamente
acquisiti ai bilanci degli enti locali. Gli effetti dell'abolizione sono in
parte attenuati per i segretari che non hanno la qualifica dirigenziale e per
quelli che prestano la loro opera presso enti locali privi di dipendenti con
qualifica dirigenziale; una quota dei diritti di segreteria spettanti ai comuni
è comunque attribuita ai predetti segretari quale diritto di rogito in misura
non superiore ad un quinto dello stipendio. Sono fatte inoltre salve le quote
maturate prima della data di entrata in vigore del decreto-legge. |
Nel XVI legislatura è
stata operata una riforma della disciplina dei segretari comunali e provinciali
con l'abrogazione dell'Agenzia per la
gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali ad opera del
decreto-legge n. 78 del 2010 (art. 7, comma da 31-ter a 31-septies) ed il
conseguente affidamento della gestione dell'albo al Ministero dell'interno.
Negli ultimi anni ai
segretari sono state attribuite nuove funzioni
in materia di anticorruzione e controllo interno. In particolare, la legge
6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge anticorruzione) ha individuato nel
segretario comunale e provinciale il responsabile della prevenzione della
corruzione negli enti locali, salvo diversa e motivata determinazione (art. 1,
co. 7). Al contempo, al segretario comunale e provinciale sono state altresì attribuite
le funzioni in materia di trasparenza
dell'amministrazione introdotte dal decreto legislativo 33/2013, adottato
in attuazione della delega prevista dalla legge anticorruzione (art. 43).
|
L’art. 4, comma 4-bis
del D.L. 78/2015 consente di stipulare convenzioni per la gestione in forma
associata del servizio di segreteria, non solo tra comuni, ma anche tra
comuni e province e tra province. Attualmente le funzioni di segreteria comunale possono
essere gestite dai comuni in forma associata. Secondo quanto previsto
dall’articolo 98, comma 3, del TUEL, infatti, i comuni posso stipulare
convenzioni per l’ufficio di segretario comunale, con l’unica
prescrizione di comunicarne la costituzione alla sezione regionale
dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali (AGES)
e provinciali. A seguito della abolizione dell’AGES le relative funzioni sono
state trasferite al Ministero dell’interno (D.L. n. 78/2010); le funzioni
delle sezioni regionali dell’AGES sono ora
svolte dalle prefetture. Di recente, con la
lettera c) del comma 1 dell'art 1 D.L. n. 201/2015 è stata prorogata al 31
dicembre 2016 la possibilità (prevista fino al 31 dicembre 2015 dall’articolo
1, comma 6-quater, del D.L. 216/2011) per il Dipartimento della funzione
pubblica (per le specifiche esigenze funzionali indicate nell’articolo
10-bis, comma 2, del D.L. 203/2005) di utilizzare temporaneamente il
contingente di 30 unità attinto dal novero dei segretari comunali e
provinciali in posizione di disponibilità, in servizio al 28 dicembre 2012
(data di entrata in vigore della L. 14/2012, di
conversione del D.L. 216/2011) secondo le modalità del comma 3 del medesimo
articolo 10-bis. I commi da 2 a 4 dell’articolo 10-bis del D.L. 203/2005 hanno stabilito che il Dipartimento per la
funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri si avvalga, per
un periodo massimo di quattro anni (2006-2009) di un contingente di personale pari a 30 unità, attingendo al tal fine al
novero dei segretari comunali e provinciali in posizione di
disponibilità. Peraltro, non essendo state previste proroghe di tali
disposizioni, l’utilizzo di tale personale avrebbe dovuto esaurirsi nel 2009. La finalità della disposizione è quella di
rafforzare talune attività di competenza del Dipartimento e in particolare
quelle attinenti: § alla
semplificazione delle norme e delle procedure amministrative; § al
monitoraggio dei servizi resi dalla pubblica amministrazione alle imprese e
ai cittadini; § alla
gestione del personale in eccedenza di cui agli artt. 34 e 34-bis del D.Lgs. 165/2001. La disciplina relativa all'utilizzo del
contingente di personale richiamato è stata emanata con il D.M. 7 agosto 2006. La legge 124/2015 di riforma della pubblica amministrazione reca –
all’articolo 11 - una delega al Governo per la revisione della disciplina in
materia di dirigenza pubblica nel cui ambito è disposta la confluenza delle
attuali figure dei segretari comunali e provinciali nel ruolo dei dirigenti
degli enti locali con soppressione del
relativo Albo. Nel nuovo quadro di riferimento, è previsto altresì
l'obbligo per gli enti locali di nominare comunque un dirigente apicale (in
sostituzione del segretario comunale), con compiti di attuazione
dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa e
controllo della legalità dell'azione amministrativa, senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica. Per i comuni di minori dimensioni demografiche
è previsto che tale funzione di direzione apicale debba essere gestita in forma
associata. E’ infine prevista una disciplina transitoria, secondo cui - fino
ai primi tre anni dall'entrata in vigore del decreto legislativo delegato –
vi è l'obbligo per i comuni di affidare l’incarico di direzione apicale, con
le funzioni sopra ricordate, a soggetti già iscritti nell'albo segretariale,
indi confluiti nel ruolo dirigenziale locale. |
La normativa
applicabile ai dirigenti degli enti locali è contenuta in via principale nel
TUEL (art. 107 e seguenti) nonché, relativamente ai principi da esse
ricavabili, nelle disposizioni contenute nel Capo II del Titolo II del D.Lgs.
n. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego).
Ai dirigenti degli enti locali è attribuita la direzione degli uffici
e dei servizi, secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai
regolamenti, da uniformarsi al principio di separazione tra politica e gestione.
In base al D.Lgs. n.
267/2000 (TUEL) tutti i compiti non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo
degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del
segretario o del direttore generale, compresa l’adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
spettano ai dirigenti (art. 107).
Nei comuni con
popolazione superiore ad una determinata soglia è previsto che il sindaco (e il
presidente della provincia), previa deliberazione della Giunta, possa nominare,
al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato un direttore generale negli enti locali, la cui durata non può eccedere quella del
mandato del sindaco. Al direttore generale spetta l’attuazione degli indirizzi
e degli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente e la sovrintendenza
alla gestione dell'ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed
efficienza (art. 108 TUEL).
|
Le funzioni e le
responsabilità della dirigenza locale sono disciplinate, in particolare,
dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL). Viene in primo luogo declinato
il principio di separazione tra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, che spettano agli organi di governo, ed i poteri di
gestione amministrativa, finanziaria e tecnica che spettano ai dirigenti,
dotati di autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo. È ai dirigenti che spetta la direzione degli
uffici e dei servizi, secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti, da uniformarsi al principio di separazione tra politica e
gestione. Secondo un criterio
di competenza residuale, l’art. 107 prevede che tutti i compiti non
ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo
dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore
generale, di cui rispettivamente agli artt. 97 e 108 TUEL, compresa
l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno, spettano ai dirigenti. Nello specifico, il
comma 3 del citato art. 107 prevede che sono
attribuiti ai dirigenti tutti i
compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli
atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare,
secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente: a) la presidenza delle
commissioni di gara e di concorso; b) la responsabilità
delle procedure d’appalto e di concorso; c) la stipulazione
dei contratti; d) gli atti di
gestione finanziaria, ivi compresa l’assunzione di impegni di spesa; e) gli atti di
amministrazione e gestione del personale; f) i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga
accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di
indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie; g) tutti i
provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino
di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di
irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione
statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo
edilizio e paesaggistico-ambientale; h) le attestazioni,
certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni
ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza; i) gli atti ad essi
attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal
sindaco. In via conclusiva e
generale, il comma 6 dell’art. 107 attribuisce, in via esclusiva la
responsabilità ai dirigenti direttamente in relazione agli obiettivi
dell’ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati
della gestione. Specularmente e
parallelamente, il comma 2 dell’art. 4 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che
spetta ai dirigenti l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi,
compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi
poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività
amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. A sua volta, il direttore generale negli enti locali
(di cui all'articolo 108 del TUEL) è quella figura che il sindaco nei comuni
con popolazione superiore ad una determinata soglia (e il presidente della
provincia) - previa deliberazione della Giunta - può nominare, al di fuori
della dotazione organica e con contratto a tempo determinato (la durata
dell'incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco) affinché attui
gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente e
sovrintenda alla gestione dell'ente, perseguendo livelli ottimali di
efficacia ed efficienza. Compete, in particolare, al direttore generale la
proposta di piano esecutivo di gestione e la predisposizione del piano
dettagliato di obiettivi previsto dal piano esecutivo di gestione. Il TUEL prevedeva una
soglia minima di 15.000 abitanti di popolazione del Comune, affinché il
direttore generale potesse essere nominato (per il singolo Comune o, in caso
di popolazione inferiore, per più comuni raggiungenti assieme quella soglia e
stipulanti all'uopo una convenzione). Successivamente, l'articolo 2, comma
186, lettera d) della legge n. 191 del 2009 ha disposto la soppressione della
figura del direttore generale, tranne che nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti. La normativa
applicabile ai dirigenti degli enti locali è dunque contenuta in via
principale nel D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL) al Capo III del Titolo IV, art. 107
e seguenti nonché, relativamente ai principi da esse ricavabili, nelle
disposizioni contenute nel Capo II del Titolo II del D.Lgs. n. 165/2001
(Testo unico del pubblico impiego). Per effetto del richiamo operato
dall’art. 111 del TUEL e dall’art. 27 del D.Lgs. n. 165/2001, infatti, i
principi contenuti nel D.Lgs. n. 165/2001 in materia di dirigenza pubblica
costituiscono elementi ai quali i comuni devono adeguarsi nell’adozione di
atti statutari e regolamentari: il comma 1 dell’art. 27 prevede infatti che
“Le regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà
statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche
amministrazioni, nell’esercizio della propria potestà statutaria e
regolamentare, adeguano ai princìpi dell’art. 4 e del presente capo i propri
ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità”. Specularmente, l’art.
111 TUEL prevede che gli enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarità,
nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo
statuto ed il regolamento ai suddetti princìpi. Riguardo alla
formazione dei dirigenti degli enti locali, il decreto-legge 78/2010 ha
disposto la soppressione della Scuola Superiore per la formazione e la
specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale
stabilendo, altresì, le regole per tutti gli adempimenti successivi e
consequenziali a tale soppressione (art. 10, commi 2-6). Il D.P.R. 16 aprile
2013, n. 70, adottato in attuazione dell'articolo 11, co. 1, del D.L. n.
95/2012 (conv. L. n. 135/2012), ha quindi istituito il Sistema unico del
reclutamento e della formazione pubblica. Una serie di
interventi normativi hanno, nel corso degli ultimi anni, riguardato la
dirigenza degli enti locali. Da ultimo, con il DL 90/2014, è stata aumentata
dal 10 al 30% dei posti della pianta organica la quota massima di incarichi
dirigenziali che gli enti locali possono conferire mediante contratti a tempo
determinato. E’ espressamente previsto l'obbligo di selezione pubblica per il
conferimento di detti incarichi. Inoltre, se tali contratti (compresi quelli
con i direttori generali) sono stipulati con dipendenti di pubbliche
amministrazioni, questi sono collocati in aspettativa senza assegni, con
riconoscimento dell'anzianità di servizio, mentre la disciplina previgente
prevedeva la risoluzione del rapporto di lavoro e l'eventuale riassunzione,
subordinata alla vacanza del posto in organico. Infine, è stato stabilito il
divieto di effettuare attività gestionale al personale degli uffici di
supporto agli organi di direzione politica locale (sindaci, presidenti di
provincia e assessori) anche se il loro trattamento economico, prescindendo
dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale Gli enti locali sono
inoltre destinatari, insieme alle altre amministrazioni, delle disposizioni
in tema di trasparenza delle pubbliche amministrazioni, introdotte dal
decreto legislativo n. 33/2013. In particolare, l'articolo 15 del d.lgs. n.
33/2013 prevede gli obblighi di pubblicità relativi agli incarichi
dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, che riguardano: gli estremi
dell'atto di conferimento dell'incarico;
il curriculum vitae; i dati relativi allo svolgimento di incarichi o
la titolarità di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati
dalla pubblica amministrazione o lo svolgimento di attività professionali; i
compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro, di consulenza
o di collaborazione, con specifica evidenza delle eventuali componenti
variabili o legate alla valutazione del risultato. L'obbligo di pubblicazione
riguarda anche il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti estranei
alla pubblica amministrazione, di collaborazione o di consulenza a soggetti
esterni a qualsiasi titolo per i quali è previsto un compenso. La
pubblicazione dei dati deve essere assicurata entro tre mesi dal conferimento
dell'incarico e perdura fino a tre anni successivi alla cessazione dell'incarico. |
|
Una serie di
interventi normativi hanno, nel corso degli ultimi anni, riguardato la
dirigenza degli enti locali. Da ultimo, con il DL 90/2014, è stata aumentata
dal 10 al 30% dei posti della pianta organica la quota massima di incarichi
dirigenziali che gli enti locali possono conferire mediante contratti a tempo
determinato. Gli enti locali sono
inoltre destinatari, insieme alle altre amministrazioni, delle disposizioni
in tema di trasparenza e pubblicità nel conferimento degli incarichi da parte
delle pubbliche amministrazioni, introdotte dal decreto legislativo n.
33/2013. La legge 124/2015 di riforma della pubblica amministrazione reca –
all’articolo 11 - una delega al Governo per la revisione della disciplina in
materia di dirigenza pubblica nel cui ambito è disposta l’istituzione, previa
intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali, di un ruolo unico di dirigenti degli enti
locali; in sede di prima applicazione, confluiranno nel ruolo unico i
dirigenti di ruolo negli enti locali e gli attuali segretari comunali e
provinciali. Contestualmente alla
realizzazione dei tre ruoli unici (in cui si articola il sistema della
dirigenza pubblica: statali, regionali e enti locali), è prevista
l’istituzione di tre commissioni (tra cui la Commissione per la dirigenza
locale) competenti, in particolare, per la gestione dei ruoli dei dirigenti.
Viene altresì mantenuto ferma la figura del direttore generale negli enti locali di maggiore dimensione (cui
compete l’attuazione degli indirizzi e degli obiettivi stabiliti dagli organi
di governo dell'ente nonché sovrintendere alla gestione dell'ente). Nel nuovo
quadro di riferimento, è previsto altresì l'obbligo per gli enti locali di
nominare comunque un dirigente apicale
(in sostituzione del segretario comunale), con compiti di attuazione
dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa e
controllo della legalità dell'azione amministrativa, senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica. Per i comuni di minori dimensioni demografiche
è previsto che tale funzione di direzione apicale debba essere gestita in via
associata. |
La competenza degli enti locali in materia di personale è disciplinata
dal combinato disposto degli articoli 2, comma 1, del D.Lgs. 165/2001, in base
al quale le amministrazioni pubbliche determinano le dotazioni organiche
complessive, e 89, comma 2, lettera e), del D.Lgs. 267/2000 (Testo unico sugli enti
locali), che attribuisce agli enti locali la potestà regolamentare in materia
di ruoli, dotazioni organiche e loro consistenza complessiva, tenendo conto di
quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale.
Per quanto riguarda gli interventi normativi che, negli
ultimi anni, hanno riguardato il personale degli enti locali, questi sono stati
diretti a coinvolgere il sistema
delle autonomie locali nel raggiungimento
degli obiettivi di finanza pubblica, coerentemente con i vincoli imposti
dall’Unione europea. In particolare, gli enti sottoposti al patto di stabilità
interno sono stati destinatari di misure volte al contenimento delle spese del
personale, attraverso la previsione di specifici limiti assunzionali.
|
Enti soggetti al patto di stabilità La disciplina sulle assunzioni negli enti
territoriali e sulle limitazioni al turn
over è contenuta in vari provvedimenti, oggetto di successive
modifiche ed integrazioni. Per una disamina di tale disciplina si deve
preliminarmente muovere dall’articolo
1, commi 557 e ss., della L. 296/2006 che contiene disposizioni per il contenimento della spesa del personale
degli enti sottoposti al Patto di stabilità interno[1] (senza però individuare alcuna
regola sul turn over), evidenziando
innanzitutto che la riduzione di tali spese include gli oneri riflessi e
l'IRAP ed esclude gli oneri relativi ai rinnovi contrattuali.[2] Allo stesso tempo, vengono indicati i principi sui quali
modulare le azioni volte al contenimento dei costi[3] (comma 557); in caso di mancato rispetto delle citate
disposizioni, si applica l’articolo 76, comma 4, del D.L. 112/2008, che in
tali casi prevede il divieto di procedere ad assunzioni di personale a
qualsiasi titolo (comma 557-ter).
Costituiscono spese di personale anche quelle sostenute per i rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, per la somministrazione di lavoro,
per il personale titolare di incarichi a contratto, nonché per tutti i
soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico
impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o
comunque facenti capo all'ente (comma 557-bis).
Infine, viene individuato un limite di spesa da prendere come riferimento
(comma 557-quater): ai fini
dell'applicazione di quanto previsto dal citato comma 557, a decorrere dal
2014, nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale,
gli enti assicurano il contenimento delle spese di personale con riferimento
al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore del
comma 557-quater, introdotto
dall’articolo 3, comma 5-bis, del
D.L. 90/2014 (vedi infra). Per quanto riguarda i
vincoli assunzionali per gli enti soggetti al patto di stabilità interno
(turn over), tale disciplina è
stata riscritta dall’articolo 3, commi
5 e ss, del D.L. 90/2014 (che ha abrogato quanto previsto in materia
dall’articolo 76, comma 7, del D.L. 112/2008[4]), e dall’articolo
1, comma 228, della L. 208/2015 (Stabilità 2016), che contengono
specifiche norme volte a rimodulare le
limitazioni al turn over per
gli enti territoriali (introducendo anche in questo caso il riferimento alle
cessazioni di personale a tempo indeterminato di ruolo nell’anno precedente e
aumentando altresì la percentuale di assunzioni effettuabili). In
particolare: ·
si prevede un graduale aumento delle percentuali di turn over, con conseguente incremento
delle facoltà di assunzioni per gli enti territoriali, per il quinquiennio
2014-2018 (nel biennio 2014-2015 assunzioni nel limite di spesa del 60% di
quella del personale di ruolo cessato nell’anno precedente, limite che sale
all’80% nel biennio 2016-2017 e al 100% dal 2018) (art. 3, c. 5, D.L.
90/2014). Per il triennio 2016-2018 si dispone la possibilità di procedere ad
assunzioni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale
nel limite di un contingente di personale corrispondente, per ciascuno dei
predetti anni, ad una spesa pari al 25% di quella relativa al medesimo
personale cessato nell’anno precedente, di fatto allineando tale percentuale
a quella prevista, in via generale, per il personale delle amministrazioni
pubbliche. In relazione a ciò, vengono comunque confermate le citate
percentuali stabilite dalla normativa vigente (80% per il biennio 2016-2017 e
100% dal 2018), al solo fine di definire il processo di mobilità del
personale degli enti di area vasta destinato a funzioni non fondamentali
(art. 1, c. 228, L. 208/2015); ·
si consente il cumulo – dal 2014 - delle risorse
destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a 3 anni, nel
rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e
contabile (art. 3, c. 5, D.L. 90/2014); ·
si prevede che le regioni e gli enti locali coordinino le
politiche di assunzioni delle aziende speciali, delle istituzioni e delle
società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano
titolari di affidamenti diretti di servizi senza gara, ovvero che svolgano
funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere
non industriale né commerciale, ovvero che svolgano attività nei confronti
della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di
natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'ISTAT, al fine di garantire anche per
tali soggetti una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale
e spese correnti. A questo fine gli enti controllanti, con propri atti di
indirizzo, definiscono per i suddetti enti le modalità di attuazione dei
principi di contenimento dei costi del personale (art. 18, c. 2-bis, del D.L.
112/2008, come modificato dall’art. 3, c. 5-quinquies, del D.L. 90/2014) (art. 3, c. 5, D.L. 90/2014); ·
ai fini del rispetto del principio di riduzione della
spesa di personale, il valore di riferimento è quello medio relativo al
triennio precedente la data di entrata in vigore della legge di conversione
del D.L. 90/2014 (19 agosto 2014) (art. 3, c. 5-bis, D.L. 90/2014); ·
alle regioni e agli enti locali si applicano gli stessi
principi validi per le amministrazioni dello Stato in materia di avvio di
nuove procedure concorsuali (ex art. 4, c. 3, del D.L. 101/2013) (art. 3, c.
5-ter, D.L. 90/2014); ·
fermi restando i vincoli generali sulla spesa di
personale, le regioni e gli enti locali la cui incidenza delle spese di
personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25 per cento, possono
procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, a
decorrere dal 1º gennaio 2014, nel limite dell'80 per cento della spesa
relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell'anno precedente e
nel limite del 100 per cento a decorrere dall'anno 2015 (art. 3, c. 5-quater, D.L. 90/2014). Per il biennio
2017-2018, viene però esclusa per i suddetti “enti virtuosi” la possibilità
di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato nel limite del 100% della
spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell'anno
precedente (art. 1, c. 228, L. 208/2015). Merita inoltre ricordare quanto previsto in materia di
riduzione della spesa degli enti territoriali dall’articolo 16, commi 8 e 9,
del D.L. 95/2012: il comma 8, fermi restando i vincoli assunzionali di cui all'articolo
76, del D.L. 112/2008, demanda ad un DPCM (da emanarsi entro il 31 dicembre
2012, ma che allo stato attuale non risulta ancora pubblicato) la definizione
di parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche
degli enti locali[5]; il comma 9 (fatto espressamente salvo dal richiamato
art. 3, c. 5, del D.L. 90/2014) stabilisce che nelle more dell’attuazione
delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle province, alle
stesse sia vietato procedere ad assunzioni di personale a tempo
indeterminato. Enti non soggetti al patto di
stabilità Per gli enti non sottoposti al Patto di stabilità,
la disciplina è contenuta nell’articolo 1, comma 562, della L. 296/2006, che
ha previsto che tali enti possano assumere nel limite delle cessazioni dei
rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute
nell’anno precedente considerato che le “spese di personale, al lordo degli
oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’IRAP, con esclusione
degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, non devono superare il
corrispondente ammontare dell’anno 2008. |
|
Nell’ambito della
riforma degli enti locali disposta dalla L. 56/2014 (che ha disposto
l'istituzione e la disciplina delle Città metropolitane, la ridefinizione del
sistema delle province ed una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni
di comuni), i commi da 421 a 428
dell’articolo 1 della L. 190/2014 (Stabilità 2015) dispongono, in primo
luogo, la riduzione del 50% e del
30% della dotazione organica,
rispettivamente, di province e città metropolitane (che comunque possono
deliberare una riduzione superiore - nel rispetto dei divieti individuati dal
precedente comma 420 per le province delle regioni a statuto ordinario - a
decorrere dal 1° gennaio 2015) con la contestuale definizione di un procedimento volto a favorire la mobilità del personale eccedentario verso regioni, comuni e altre pubbliche
amministrazioni, a valere sulle facoltà assunzionali degli enti di
destinazione. Sul tema, si ricorda che con Circolare del 29 gennaio 2015, n.
1, il Dipartimento della funzione pubblica ha definito le linee guida per l’attuazione delle
disposizioni in materia di personale e di altri profili connessi al riordino
delle funzioni delle province e delle città metropolitane[6], mentre con il DPCM 26 giugno 2015 (pubblicato
nella GU del 17 settembre 2015) sono state definite le tabelle di
equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti
collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non
dirigenziale. I criteri e i tempi per l'attuazione delle procedure di mobilità
sono stati definiti, come previsto dalla norma, con il decreto ministeriale 14 settembre
2015 che si applica al
personale delle province che non sia stato già ricollocato dalle regioni
stesse nell'ambito dei processi previsti dall'articolo 7, comma 9-quinquies del D.L. 78/2015 (decreto
enti locali) - e concordati in sede di Conferenza unificata nell'accordo
11 settembre 2014 - che indicava nel 31 ottobre 2015 il termine per procedere
al riordino delle funzioni non fondamentali delle province. Da ultimo, si ricorda che la legge di stabilità 2016 (art. 1, commi 764-769, 770, 771, 772, 774, L. 208/2015)
reca disposizioni relative alla ricollocazione del personale delle province e
delle città metropolitane, nell'ambito del processo di riordino delle
funzioni e del trasferimento definitivo del personale delle province. Si prevede, in
particolare, la costituzione di un fondo per il 2016, presso il
Ministero dell'interno, con dotazione di 60 milioni di euro, di cui il
66 per cento è destinato alle province che non riescono a
garantire il mantenimento della situazione finanziaria per il 2016 mentre il 34
per cento è volto a concorrere alla corresponsione del trattamento
economico del predetto personale. La ripartizione del Fondo è rimessa ad
apposito decreto interministeriale, in proporzione alle unità di personale in
mobilità quali risultanti dalla ricognizione effettuata dal Dipartimento
della funzione pubblica ai sensi delle disposizioni della L. 190/2014 e del
richiamato decreto ministeriale 14 settembre 2015. È altresì disposta
l'istituzione di un Commissario, onde completare il correlato processo
di riordino delle funzioni provinciali, che deve attenersi a quanto disposto
dal decreto ministeriale del 14 settembre 2015 circa i criteri e le procedure
da adottare per gestire la mobilità di personale tra gli enti. Sono, al
contempo, dettate previsioni in ordine al trasferimento di personale
provinciale al Ministero della giustizia. |
Per quanto concerne il
finanziamento degli enti locali, si rammenta che i provvedimenti attuativi della
legge delega n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale hanno determinato
la soppressione dei tradizionali
trasferimenti erariali aventi carattere di generalità e permanenza e la
loro sostituzione - ai fini del
finanziamento delle funzioni degli enti locali - con entrate proprie (tributi propri, compartecipazioni al gettito di
tributi erariali e gettito, o quote di gettito, di tributi erariali,
addizionali a tali tributi) e con risorse
di carattere perequativo.
In particolare, i
trasferimenti erariali dei comuni appartenenti alle regioni a statuto ordinario
sono stati soppressi a decorrere dal 2011 ai sensi dell’articolo 2, comma 8,
del D.Lgs. n. 23 del 2011; i trasferimenti erariali delle province sono stati
soppressi a decorrere dal 2012 ai sensi dell’articolo 18 del D.Lgs. n. 68 del
2011.
Per realizzare in forma
progressiva e territorialmente equilibrata l'attribuzione ai comuni e alle province
della fiscalità loro devoluta (si veda il paragrafo relativo a L’autonomia impositiva degli enti locali)
è stata prevista l’istituzione di due appositi Fondi sperimentali di
riequilibrio, destinati ad essere sostituiti dal Fondo perequativo vero e proprio:
§
Fondo sperimentale di
riequilibrio per i comuni delle regioni a statuto
ordinario (istituito dall’articolo 2, comma 3, del D.Lgs. n. 23/2011), istituito nel 2011, alimentato con quota parte
del gettito della fiscalità immobiliare devoluta ai comuni stessi. A seguito
delle modifiche apportate alla disciplina dell’IMU, nel 2013 il Fondo
sperimentale è stato soppresso e
sostituito dal Fondo di solidarietà
comunale, alimentato da una quota dell'imposta municipale propria (IMU);
§
Fondo sperimentale di
riequilibrio per le province delle regioni a statuto
ordinario (istituito dall’articolo 21 del D.Lgs. n. 68/2011), istituito a decorrere dal 2012, alimentato con
quota parte del gettito della compartecipazione provinciale all’IRPEF.
|
Gli articoli 11 e 13 della legge n. 42/2009
definiscono il nuovo assetto finanziario con riguardo al finanziamento
delle funzioni di comuni, province e città metropolitane. Nel definire i
principi fondamentali del sistema di finanziamento degli enti locali, l’art.
11 della legge delega distingue tra le spese connesse alle funzioni fondamentali degli enti
locali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione,
per le quali si prevede la garanzia del finanziamento
integrale, con riferimento al fabbisogno standard, e le altre funzioni, per le quali si
prevede la perequazione delle
capacità fiscali. Il finanziamento integrale delle funzioni fondamentali è
assicurato, in via prioritaria, dai tributi propri, dalle compartecipazioni
al gettito di tributi erariali e regionali e dalle addizionali a tributi
erariali e regionali e dall’intervento del fondo perequativo. L’attuazione del
nuovo sistema di finanziamento delle spese degli enti locali ha determinato
(art. 11, comma 1, della legge n. 42/2009) la soppressione dei trasferimenti statali e regionali diretti al
finanziamento delle spese riconducibili
alle funzioni fondamentali degli enti locali e al finanziamento delle
spese relative ad ogni altra funzione, ad
eccezione di quelli: - aventi la natura di
“contributi speciali”, ossia diretti a finanziare, congiuntamente ai
finanziamenti dell’Unione europea e ai cofinanziamenti nazionali, gli
interventi finalizzati agli obiettivi di cui all’art. 119, comma 5, della
Costituzione; - destinati ai fondi
perequativi e ai contributi erariali e regionali sulle rate di ammortamento
dei mutui. Secondo quanto
indicato nella prima Relazione della
Commissione tecnica paritetica per
l’attuazione del federalismo fiscale (COPAFF) (8 giugno 2010) -
relativa all’analisi dei trasferimenti erariali spettanti ai diversi comparti
di enti territoriali e all’individuazione della quota potenzialmente oggetto
di fiscalizzazione (e, dunque, di soppressione) ai fini dell’attuazione della
legge n. 42/2009 - i trasferimenti erariali spettanti agli enti locali sono
stati classificati in tre categorie: trasferimenti di tipo A, che presentano il carattere della generalità (ossia della
destinazione all’intera platea degli enti di un determinato comparto) e della
permanenza (ossia della continuità nel tempo del trasferimento), che sono
stati interamente fiscalizzati; trasferimenti di tipo B, caratterizzati dalla permanenza ma non destinati alla
totalità degli enti, dei quali solo quota parte è stata fiscalizzata;
trasferimenti di tipo C,
inequivocabilmente riconducibili alla nozione di “contributo speciale”
prevista dalla Costituzione che, pertanto, non sono stati oggetto di
fiscalizzazione. Nella riunione COPAFF del 19 maggio 2011 è stato definito
l'elenco dei trasferimenti da fiscalizzare e di quelli da non fiscalizzare a
decorrere dall'anno 2011. I decreti legislativi
attuativi della legge delega n. 42/2009 (n. 23/2011 e n. 68/2011) hanno
conseguentemente disposto la soppressione della gran parte dei trasferimenti
erariali spettanti agli enti locali (comuni, province, Città metropolitane) e
la loro sostituzione con risorse fiscali autonome e con risorse di carattere
perequativo - iscritte negli appositi Fondi istituiti per realizzare, in
forma progressiva e territorialmente equilibrata, la devoluzione agli enti
locali della fiscalità loro assegnata - dirette a ridurre le differenze tra le capacità fiscali, tenendo anche
conto della dimensione demografica e della partecipazione degli enti locali a
forme associative. Con riferimento alle province, la soppressione dei trasferimenti
erariali è stata attuata a decorrere dal 2012, ai sensi dell’art. 18 del
D.Lgs. n. 68/2011, con il D.P.C.M. 12 aprile 2012 nell’importo di 1.039,9 milioni, come risultante dal documento
approvato in sede di Commissione tecnica paritetica per l'attuazione del
federalismo fiscale in data 22 febbraio 2012; i trasferimenti statali non fiscalizzati sono stati
quantificati nell’importo di 13,4 milioni
per il 2012. Conseguentemente, il Fondo
sperimentale di riequilibrio
(cap. 1352/Interno) è stato determinato
nell’indicato importo di 1.039,9
milioni di euro con il D.M. 4 maggio 2012. Il Fondo è alimentato con quota parte del gettito
della compartecipazione provinciale all'IRPEF (in misura corrispondente
ai trasferimenti erariali soppressi nonché alle entrate derivanti dalla
soppressa addizionale provinciale all'accisa sull'energia elettrica di cui
all'art. 52 del D.Lgs n. 504 del
1995), e ripartito tra le province delle regioni a statuto ordinario,
secondo i seguenti criteri indicati dal D.M. 4 maggio 2012: a) 50%
del fondo in proporzione al valore della spettanza
figurativa dei trasferimenti fiscalizzati di ciascuna provincia; b) 38%
in proporzione al gettito della soppressa addizionale provinciale all'accisa sull'energia elettrica, negli importi quantificati per ciascuna
provincia; c) 5%
in relazione alla popolazione
residente; d) 7%
del fondo in relazione all'estensione del territorio provinciale. Negli
anni successivi, l’ammontare complessivo
di risorse finanziarie lorde a titolo di Fondo sperimentale di riequilibrio
provinciale è stato confermato in 1.039 milioni per il 2013 (con il D.M. 10
dicembre 2013) e rideterminato in 1.047 milioni per il 2014 (D.M. 24 ottobre
2014) e per il 2015 (D.M. 29 settembre 2015), in base all'importo recato dal
documento approvato in sede di Commissione tecnica paritetica per
l'attuazione del federalismo fiscale in data 22 febbraio 2012, integrato di 7
milioni di euro per la cessazione dell'efficacia, a decorrere dal 2014, della
riduzione dei contributi ordinari prevista dall'art. 1, comma 183, della
legge n. 191/2009. Il riparto è stato effettuato, anche in questi anni, sulla
base dei medesimi criteri recati dal D.M. 4 maggio 2012. Per quanto concerne i
comuni, la soppressione dei trasferimenti
erariali è stata formalizzata con il D.M. Interno 21 giugno 2011 nell’importo
complessivo di 11.264,9 milioni di
euro per l’anno 2011, in
applicazione dell’art. 2, comma 8, del D.Lgs. n. 23/2011. L’operazione è
stata finanziariamente neutrale per i comuni nel loro insieme, in quanto a
fronte della riduzione dei trasferimenti sono state attribuite ai comuni
risorse da federalismo fiscale municipale di pari importo (nello specifico, 2.889 milioni per compartecipazione IVA e 8.376 milioni per fondo sperimentale di riequilibrio).
Inoltre, sono stati conservati, per il 2011, trasferimenti erariali non fiscalizzati per circa 610,6 milioni di euro, che
continuano ad essere assegnati
come spettanza ed erogati alle scadenze indicate nel D.M. Interno 21 febbraio
2002. Il Fondo sperimentale di riequilibrio
comunale (cap. 1365/Interno) -
alimentato con il gettito, o quote
di gettito, di alcuni tributi
attribuiti ai comuni e relativi ad
immobili ubicati nel loro territorio - è stato determinato nell’importo
di 8.376 milioni per il 2011 con D.M. Interno 21 giugno 2011
e nell’importo di 6.825 milioni
per il 2012 con il D.M. 4 maggio
2012. A seguito delle modifiche apportate alla disciplina
dell’IMU - dapprima dall’articolo 13 del D.L. n. 201/2011 (che ha
anticipato “in via sperimentale” la decorrenza dell’IMU al 2012, estendendola
anche all’abitazione principale
e destinandone il gettito per circa la metà direttamente allo Stato) e poi
dall’articolo 1, commi da 380 a 394, dalla legge n. 228/2012 (stabilità per
il 2013) - l’assetto dei rapporti
finanziari tra Stato e comuni è stato profondamente ridefinito, rispetto a quanto delineato dal D.L. n. 23/2011. In estrema sintesi,
il comma 380 della legge di stabilità per il 2013: ·
ha sospeso, per
gli anni 2013 e 2014, la devoluzione
ai comuni del gettito della fiscalità
immobiliare prevista nel D.Lgs. n.
23/2011 (imposte di registro, ipotecarie, ipocatastali, cedolare secca ed
altre), nonché della partecipazione
comunale al gettito IVA; ·
ha attribuito,
per il medesimo biennio, ai comuni
l’intero gettito IMU, ad esclusione di quello derivante dagli immobili ad
uso produttivo, che rimane destinato allo Stato; ·
ha soppresso il
Fondo sperimentale di riequilibrio (nonché il meccanismo dei
trasferimenti erariali “fiscalizzati” per i comuni della Regione Siciliana e
della Regione Sardegna), prevedendo l’istituzione
di un Fondo di solidarietà comunale, alimentato
da una quota dell'imposta municipale propria (IMU) e da ripartirsi sulla base
di criteri espressamente indicati. La successiva legge di stabilità per il 2014 (legge
n. 147/2013, art. 1, commi 639 e seguenti) è intervenuta ancora sulla materia
recando il complessivo riordino della
tassazione immobiliare e confermando
a regime l’attribuzione ai comuni
dell’intero gettito IMU, ad
esclusione di quello derivante dagli immobili ad uso produttivo, che rimane
destinato allo Stato, come delineata dalla legge n. 228/2012. Di conseguenza,
sono stati abrogati i commi (da 1
a 5 e dal 7 a 9 dell’articolo 2) del D.Lgs. n. 23/2011 relativi alla devoluzione di gettito di imposte erariali immobiliari in
favore dei comuni. La legge di stabilità
per il 2014 (commi 729-731) ha pertanto ridefinito
la disciplina di alimentazione del Fondo di solidarietà ai fini
dell’assegnazione ai comuni del gettito IMU di loro spettanza in forma territorialmente equilibrata,
stabilendone altresì la sua dotazione
annuale (fissata in 6.647,1
milioni per l’anno 2014 e in 6.547,1 milioni di euro per gli anni 2015 e
successivi), assicurata, per un importo pari a 4.717,9 milioni di euro, attraverso una quota dell’IMU, di spettanza dei comuni, che viene a tal fine versata all’entrata
del bilancio dello Stato nei singoli esercizi. I criteri e le
modalità di alimentazione e di riparto
del Fondo di solidarietà comunale sono rinviate ad annuali decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanarsi su proposta del Ministro dell'economia e
delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno, previo accordo da
sancire presso la Conferenza Stato-Città ed autonomie locali. Secondo quanto
disposto dall’ultima legge di stabilità 2016, i termini per l’emanazione dei suddetti decreti sono fissati al 30 aprile 2016 per l'anno 2016 ed entro il 30 novembre dell'anno precedente
a quello di riferimento per gli anni 2017 e successivi (comma 17, lettera c) della legge n. 208 del 2015). Il D.L. n. 78/2015 ha
inoltre stabilito nuove modalità di erogazione
del Fondo di solidarietà comunale dal 2016, disponendo che entro il 31 marzo di ogni anno il Ministero
dell’interno disponga il pagamento di
un primo acconto pari all’8% delle risorse di riferimento
di ciascun ente, da contabilizzare nei bilanci a titolo di riscossione IMU, e
che poi, entro il 1° giugno, il Ministero dell’interno comunica all’Agenzia
delle entrate l’ammontare da recuperare nei confronti dei singoli comuni,
dall’IMU riscossa tramite il sistema del versamento unitario, ai fini della
riassegnazione per il reintegro del FSC nel medesimo anno. Si ricorda, inoltre,
che dal 2014 una quota parte
dell’importo attribuito a titolo di Fondo di solidarietà viene accantonata
per essere redistribuita tra i comuni, con il medesimo D.P.C.M. di riparto
del Fondo, secondo logiche di tipo perequativo,
sulla base delle capacità fiscali
e dei fabbisogni standard. In tal
modo, è stato introdotto nel riparto del Fondo di solidarietà comunale un
meccanismo perequativo finalizzato a consentire il passaggio graduale dal
criterio della distribuzione delle risorse in base alla spesa storica ad un
criterio di distribuzione basato su fabbisogni e capacità fiscali. Tale quota
percentuale, originariamente fissata al 10 per cento dal comma 730 della
legge di stabilità 2014 (legge n. 147/2013, che ha introdotto il 380-quater
nell’articolo 1 della legge n.
228/2012), è stata innalzata al 20 per cento per l'anno 2015 dalla legge di stabilità per il
2015 (art. 1, comma 459, legge n. 190/2014). I fabbisogni standard, che costituiscono
il rapporto ideale tra risorse e risultati, non solo indicano il livello di
spesa necessario a finanziare i servizi fondamentali degli Enti locali, ma essi
sono, pertanto, anche indicatori per la determinazione dei trasferimenti
perequativi. La nota metodologica
e i fabbisogni standard relativi alle funzioni fondamentali dei comuni sono stati adottati con i
D.P.C.M. 21 dicembre 2012 (polizia
locale); D.P.C.M. 23 luglio 2014 (funzioni generali di
amministrazione, gestione e controllo per comuni e province) e D.P.C.M. 27
marzo 2015 (istruzione pubblica,
viabilità e trasporti, gestione del territorio e dell'ambiente, settore
sociale). Per le province, sono
stati adottati i fabbisogni relativi alla funzione dei servizi del mercato
del lavoro (D.P.C.M. 21 dicembre 2012) e alle funzioni generali di
amministrazione, gestione e controllo (D.P.C.M. 23 luglio 2014); i fabbisogni
relativi alle ulteriori funzioni sono stati approvati in via definitiva in
sede di Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale in
data 18 dicembre 2014, ma il relativo D.P.C.M. non risulta ancora adottato. Tale
circostanza appare con tutta evidenza da mettere in relazione con il riordino
delle province in corso ai sensi della legge n.56 del 2014
adottata in attesa della riforma costituzionale del Titolo V (ora all’esame
della Camera per la seconda deliberazione, A.C. 2613-D) e delle relative
norme di attuazione (art. 1, co. 51, L. n. 56/2014). Per quel che concerne
le capacità fiscali, la nota
metodologica relativa alla procedura di calcolo e la stima delle capacità fiscali per singolo comune delle regioni a
statuto ordinario, di cui all'articolo 1, comma 380-quater della legge n. 228 del 2012 sono state adottate con il D.M. Economia 11 marzo 2015. Si
tratta, in sintesi, del gettito potenziale da entrate proprie di un
territorio, date la base imponibile e l'aliquota legale. Un aggiornamento della suddetta nota metodologica e della stima delle
capacità fiscali per singolo comune è ora all’esame del Parlamento, con lo
schema di decreto (A.G. 284) presentato dal Governo alla Commissione parlamentare
per l'attuazione del federalismo fiscale. I fabbisogni standard
e la capacità fiscale, si ricorda, costituiscono la base di riferimento per
l'applicazione del criterio di riparto della quota perequativa del Fondo
di solidarietà comunale. Tale criterio è costituito dalla differenza
tra le capacità fiscali e i fabbisogni standard. Per gli anni 2015 e
2016, si rammenta, l'ammontare della capacità fiscale da prendere in
considerazione ai fini dell’applicazione del criterio di riparto del Fondo è
determinata in misura pari alle risorse
nette spettanti ai comuni a titolo di IMU, TASI nonché a titolo di Fondo di solidarietà netto, ed equivale al 45,8 per cento della capacità fiscale complessiva dei comuni. |
|
Sulla disciplina di
alimentazione e di ripartizione del Fondo di solidarietà comunale è di
recente intervenuta la legge di
stabilità per il 2016, che in ragione del nuovo regime di esenzione IMU e
TASI sull’abitazione principale da essa introdotto, ha rideterminato la dotazione del Fondo a compensazione del relativo
minor gettito per i comuni, stabilendo, al tempo stesso, la sospensione, per l’anno 2016, dell’efficacia delle leggi regionali e
delle deliberazioni comunali per la parte in cui aumentano i tributi e le addizionali attribuite ai medesimi enti
territoriali, con esclusione della tassa sui rifiuti. Di conseguenza, la
dotazione annuale del Fondo di solidarietà comunale è stata incrementata di 3.767,45 milioni di euro a decorrere dal 2016, quale ristoro
del minor gettito derivante ai comuni delle regioni a statuto ordinario e
delle Regioni Siciliana e Sardegna dalle esenzioni disposte dalla legge di
stabilità 2016 per l’IMU e la TASI per gli immobili adibiti ad abitazione
principale (e, con riferimento alla sola IMU, per i terreni agricoli). Al
tempo stesso, è stata rideterminata
la quota parte dell’imposta municipale propria, di spettanza dei
comuni, che alimenta il Fondo -
ridotta da 4.717,9 (corrispondente al 38,22% del gettito IMU) a 2.768,8 milioni di euro dal 2016 -
che viene a tal fine recuperata direttamente dall’Agenzia delle entrate sui
versamenti dei contribuenti e versata all’entrata del bilancio dello Stato
nei singoli esercizi per essere destinata, appunto, al finanziamento del
riequilibrio delle risorse all’interno del comparto. Per i comuni delle regioni a statuto speciale cui la legge attribuisce competenza in
materia di finanza locale (Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta) è stato invece
disposto, a compensazione del minor gettito IMU e TASI, un minor accantonamento sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali
di 85,978 milioni (comma 19 della
legge n. 208 del 2015). Come rilevato dalla
Cote dei conti nella Relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali, di febbraio 2016, i recenti interventi introdotti dalla
legge di stabilità 2016 in tema di abolizione della TASI sull’abitazione
principale, sull’esclusione dalla tassazione locale dei terreni agricoli e
sulle altre misure agevolative fiscali ed il contestuale incremento del Fondo
di solidarietà comunale a compensazione delle relative perdite di gettito, hanno
in sostanza ridefinito un impianto
centralistico del sistema di finanziamento dei comuni, che sembra via via
allontanarsi dal progetto di federalismo fiscale municipale avviato con di
cui al D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23. L’obiettivo della perequazione, tuttavia, ha assunto
una maggiore consistenza con la legge di stabilità per il 2016, la quale ha aumentato progressivamente negli anni
la percentuale del Fondo di solidarietà comunale da accantonare e
redistribuire tra i comuni in funzione perequativa, sulla base della
differenza tra le capacità fiscali e i fabbisogni standard, al fine di superare
le situazioni di criticità di quegli enti sottodotati in termini di capacità
fiscali standard (costituita, si ricorda, da gettito Imu-Tasi ad aliquota
base e da assegnazioni del Fondo di solidarietà). Tale quota - già fissata al 20 per cento nel 2015 - viene ora
portata al 30 per cento per l'anno
2016, al 40 per cento per l'anno 2017
e al 55 per cento per l'anno 2018. Va peraltro
considerato che l’emergenza economico-finanziaria di questi ultimi anni e la
conseguente necessità del consolidamento dei conti pubblici si sono
sovrapposti al processo di riforma della fiscalità locale disegnato dalla
legge n. 42/2009, condizionando e limitando l’autonomia fiscale locale. Il contributo alla finanza pubblica
richiesto agli enti locali in questi ultimi anni è stato, infatti, assicurato
oltre che attraverso le regole e gli obiettivi del patto di stabilità interno
(disciplina peraltro sostituita, a decorrere dal 2016, dalla nuova regola
fiscale del pareggio di bilancio, di
cui si dà conto in altro paragrafo del presente dossier, relativo al
Bilancio), anche tramite interventi di progressiva riduzione delle risorse a disposizione delle Amministrazioni
locali, allocate sui predetti Fondi di riequilibrio istituiti a seguito del
varo della legge di attuazione del federalismo fiscale, che hanno obbligato
gli enti ad intraprendere percorsi di revisione
della spesa corrente. Secondo quanto
affermato dalla Corte dei conti nella citata Relazione di febbraio 2016, la dimensione complessiva cumulata del concorso finanziario richiesto agli
enti territoriali per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica,
in termini di riduzione dell’indebitamento netto, “ha raggiunto, nel periodo
compreso tra il 2008 e il 2015, i 40
miliardi (pari al 2,4 per cento del PIL)”, quale effetto di misure di
inasprimento del patto di stabilità
interno di cui 19 miliardi a
valere sul patto degli enti locali
e 21 miliardi a valere sul patto delle Regioni. A queste misure vanno
aggiunti, quale concorso al miglioramento del saldo netto da finanziare,
quasi 22 miliardi di tagli nei trasferimenti provenienti
dallo Stato (di cui circa 10 miliardi a carico delle Regioni e i restanti 12 miliardi a carico degli enti locali). Tra questi ultimi, va
considerato il contributo finanziario cumulato richiesto dai tre principali
interventi di spending review (D.L.
n. 95/2012, D.L. n. 66/2014 e legge n. 190/2014), che ammonta attualmente a
oltre 4,3 miliardi per il comparto dei comuni e a oltre 3,8 miliardi per le
province. Per quanto concerne i
comuni, il contributo alla finanza
pubblica richiesto in questi anni è stato posto interamente a valere sul Fondo
di solidarietà comunale. Per l’anno 2016, nella legge di bilancio il Fondo (iscritto sul cap. 1365/Interno)
presenta una dotazione di 6.398,6 milioni
- inferiore rispetto a quanto teoricamente previsto dalla legge – in
quanto sul Fondo è contabilizzato il contributo disposto dal D.L. n. 95/2012 (2,6 miliardi di euro a decorrere dal 2015), poi dall’articolo 47,
comma 8, del D.L. n. 66/2014
(riduzione di 375,6 milioni per il 2014 e di 563,4 milioni per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018) e, più di
recente, dalla legge di stabilità per il 2015 (art. 1, comma 435, legge n. 190/2014), che ha disposto
la riduzione del Fondo di ulteriori 1.200
milioni a decorrere dall’anno
2015. Anche con riferimento
alle province, va segnalato che le
disponibilità di bilancio del fondo
sperimentale di riequilibrio (iscritto sul cap. 1352/Interno) sono state significativamente erose nel corso
di questi anni per effetto delle manovre di finanza pubblica e delle
riduzioni disposte da diversi provvedimenti normativi che ne hanno, di fatto,
inficiato la finalità perequativa ad esso assegnata dal legislatore. Di fatto, già il taglio
disposto dal primo decreto-legge di spending
review (D.L. n. 95/2012, che a decorrere dal 2015 raggiunge l’importo di oltre
1,2 miliardo di euro) ha sostanzialmente azzerato
il Fondo sperimentale di riequilibrio.
Nella legge di bilancio, il Fondo
presenta per gli anni 2016-2018 una dotazione pari a 26,5 milioni di euro. A seguito della
riforma avviata con la legge n.
56/2014, il contributo al risanamento della finanza pubblica è pertanto
richiesto alle province e alle città metropolitane in termini di risparmi di spesa corrente da versare ad apposito
capitolo di entrata del bilancio. Si tratta, in particolare, delle
disposizioni di cui all’articolo 47, comma 1, del D.L. n. 66/2014 (risparmi pari a 444,5 milioni per il 2014, a
576,7 milioni per il 2015 e a 585,7 milioni
per ciascuno degli anni dal 2016 al 2018) e di cui alla legge di stabilità
per il 2015 (art. 1, comma 418, legge
n. 190/2014), che stabilisce il concorso di province e città
metropolitane al contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione
della spesa corrente di tali enti nell’importo di 1 miliardo di euro per il
2015, di 2 miliardi per il 2016 e di 3 miliardi di euro a
decorrere dal 2017. |
L’autonomia
degli enti locali in materia tributaria
discende da norme di rango costituzionale. In particolare, ai sensi dell’articolo
119 della Costituzione, gli enti locali hanno
risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in
armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario e dispongono di compartecipazioni al gettito
di tributi erariali riferibile al loro territorio. L’articolo 117 Cost.
attribuisce agli enti locali potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite.
Il sistema delle entrate tributarie degli enti locali si
configura come un quadro complesso,
in particolare la fiscalità comunale,
in ragione dei ripetuti interventi che si sono susseguiti in materia e a
seguito dei quali l'assetto normativo ha evidenziato frequenti elementi di
incertezza. Tali interventi – aventi anche carattere di urgenza - hanno più
volte modificato la disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 23 del
2011 sul federalismo fiscale municipale, emanato in attuazione della legge n.
42 del 2009 sul federalismo fiscale.
|
Come già anticipato,
il sistema delle entrate comunali
presenta un quadro complesso e
stratificato a causa del sovrapporsi - a decorrere dal 2011 - di numerosi
interventi normativi, anche con carattere di urgenza, che hanno concorso a
determinare un assetto normativo caratterizzato da elementi di transitorietà,
ulteriormente confermato dalle disposizioni intervenute nel corso del 2013 in
relazione alla complessa vicenda dell’abolizione dell’imposta municipale
propria (IMU) sull’abitazione principale e dalla legge di stabilità 2014 (L.
n. 147 del 2013), la quale ha introdotto una nuova articolazione della
tassazione immobiliare di spettanza dei comuni. Anche nel 2014 vi sono stati
diversi interventi d’urgenza sulla tassazione immobiliare (decreti-legge nn.
16, 47, 66, 88, 185 e 192 del 2014) e ulteriori modifiche sono state
apportate dalla legge di stabilità 2015 (L. n. 190 del 2014). Nel corso del
2015 sono intervenute sostanziali modifiche alla disciplina IMU in
agricoltura per effetto del decreto-legge n. 4 del 2015 e della legge di
stabilità 2016 (legge n. 208 del 2015). La richiamata legge di stabilità 2016
ha ulteriormente rideterminato il sistema delle entrate locali, in
particolare esentando l’abitazione principale del contribuente dalla TASI. In via preliminare si
rammenta che i provvedimenti attuativi della legge delega n. 42 del 2009 in
materia di federalismo fiscale hanno determinato la soppressione dei tradizionali trasferimenti erariali aventi
carattere di generalità e permanenza e la loro sostituzione - ai fini del
finanziamento delle funzioni degli enti locali - con entrate proprie e con risorse
di carattere perequativo. E’ stata prevista
l’istituzione di due appositi Fondi sperimentali di riequilibrio (destinati
ad essere sostituiti dal Fondo perequativo vero e proprio nell’arco di
massimo tre anni): il Fondo
sperimentale di riequilibrio per i comuni e il Fondo sperimentale di riequilibrio per le province. Per dettagli, (cfr.
il paragrafo I trasferimenti statali). Si rammenta
preliminarmente che la legge di
stabilità 2016 ha disposto la sospensione,
per l’anno 2016, dell’efficacia delle leggi regionali e delle deliberazioni comunali per la
parte in cui aumentano i tributi e le
addizionali attribuite ai medesimi enti territoriali rispetto ai livelli
di aliquote applicabili per l’esercizio 2015. Da tale sospensione è esclusa – tra l’altro – la Tari. Per quanto concerne i
comuni, in estrema sintesi detti
enti dispongono delle seguenti forme di entrate
tributarie: § imposta unica comunale - IUC, istituita dalla legge di Stabilità 2014 (legge 147 del
2013), che si basa su due presupposti impositivi: il primo costituito dal
possesso di immobili e collegato alla loro natura e valore, mentre il secondo
collegato è all’erogazione e alla fruizione di servizi comunali. Le
componenti della IUC sono l’IMU,
di natura patrimoniale, dovuta dal possessore di immobili, escluse le abitazioni
principali non “di lusso”. Per la componente riferita ai servizi, il tributo
per i servizi indivisibili (TASI),
a carico sia del possessore sia dell’utilizzatore dell’immobile, che dal 2016
non si applica alle abitazioni principali “non di lusso”; la tassa rifiuti (TARI) corrisposta dall’utilizzatore
del locale o dell’area scoperta, che sostituisce i precedenti prelievi sui rifiuti
ed è destinata a finanziare integralmente i costi del servizio di raccolta e
smaltimento dei rifiuti, nel rispetto del principio comunitario “chi inquina
paga”. Per maggiori approfondimenti sul punto si rinvia al tema web relativo
all’imposizione immobiliare; § l’imposta di soggiorno
e il contributo di sbarco, di cui all’articolo 4 del D. lgs. n. 23 del 2011. L’imposta di soggiorno è a carico di
coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul territorio
dell’ente locale, da applicare, secondo criteri di gradualità in proporzione
al prezzo, sino a 5 euro per notte di soggiorno. Il relativo gettito è destinato
a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno
delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e
recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi
pubblici locali. Il contributo di
sbarco è stato istituito dall'articolo 33 della legge n. 221 del 2015
(cd. collegato ambientale) ed ha sostituto
la previgente imposta di sbarco. Resta fermo che tale contributo, come
l'imposta di sbarco, è alternativo all'imposta di soggiorno. Esso si applica
fino ad un massimo di euro 2,50 (maggiorabili a 5 euro dai comuni in via
temporanea, ovvero in relazione all'accesso a zone disciplinate nella loro
fruizione per motivi ambientali, in prossimità di fenomeni attivi di origine
vulcanica) ed è riscossa, unitamente al prezzo del biglietto, da parte delle
compagnie di navigazione che forniscono collegamenti marittimi anche non di
linea; § l’imposta sulla pubblicità ed i diritti per le pubbliche
affissioni, la cui disciplina è
stabilita con il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, ai sensi del quale
(articolo 1) la pubblicità esterna e le pubbliche affissioni sono soggette,
rispettivamente, ad una imposta o ad un diritto a favore del comune nel cui
territorio sono effettuate. Restano escluse da tale disciplina la pubblicità
editoriale, radiofonica e radiotelevisiva, che non rientrano nell’ambito di
applicazione del tributo comunale. L’art. 62 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n.
446, ha attribuito all’ente la facoltà di escludere l’applicazione, nel proprio
territorio, dell’imposta sottoponendo le iniziative pubblicitarie che
incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente ad un regime autorizzatorio,
assoggettandole al pagamento di un canone in base a tariffa; § la Tosap e il Cosap, ossia - rispettivamente - la tassa e
il canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche. La tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche è
disciplinata dal Capo II del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507; sono soggette
alla tassa le occupazioni di qualsiasi natura, effettuate, anche senza
titolo, nelle strade, nei corsi, nelle piazze e, comunque, sui beni
appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni e delle province.
Sono parimenti soggette alla tassa le occupazioni di spazi soprastanti il
suolo pubblico e le occupazioni sottostanti il suolo medesimo. I comuni, a
norma dell’art. 63 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 hanno facoltà - in
sostituzione della predetta tassa – di assoggettare l’occupazione, sia
permanente che temporanea, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e
sottostanti appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, ad
apposito canone; § altre entrate, quali le tasse
di ammissione ai concorsi, i diritti di peso e misura pubblica, i sovracanoni
sugli impianti idroelettrici. La legge di stabilità 2016 ha abrogato
l'Imposta Municipale Secondaria - IMUS (comma 25 della legge n. 208 del
2015). Essa, disciplinata dall'articolo 11 del D.Lgs. n. 23 del 2011, avrebbe
dovuto sostituire la tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche
(TOSAP), il canone di occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP),
l'imposta comunale sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni. Per
quanto concerne le addizionali, si
rammenta in questa sede anzitutto l’addizionale
comunale all’IRPEF, istituita dall’articolo 1 del D.Lgs. 28 settembre
1998, n. 360 a decorrere dal 1° gennaio 1999. Essa è dovuta al comune nel
quale il contribuente ha il domicilio fiscale alla data del 1º gennaio
dell’anno cui si riferisce l’addizionale stessa. Sono obbligati al pagamento
dell’addizionale comunale, se deliberata, i soggetti residenti e non
residenti nel territorio dello Stato se, con riferimento all’anno di imposta,
sono tenuti al pagamento dell’Irpef. La variazione dell’aliquota di
compartecipazione dell’addizionale non può eccedere complessivamente 0,8
punti percentuali. Il d.lgs. 175 del
2014 –di attuazione della delega fiscale – ha semplificato alcuni
adempimenti in riferimento alla struttura delle addizionali regionali e
comunali e uniformata al 1° gennaio la data di riferimento del domicilio
fiscale ai fini dell'addizionale regionale e comunale (oggi, rispettivamente,
31 dicembre e 1° gennaio). La legge 24 dicembre
2003, n. 350 (articolo 2, comma 11), ha istituito l’addizionale comunale sui diritti d’imbarco di passeggeri sugli
aeromobili, pari ad 4,5 euro per passeggero imbarcato (misura così
risultante in relazione agli aumenti alla stessa apportati dall’art. 6-quater del D.L. n. 7/2005, e dal comma
1328 della Finanziaria 2007). Sebbene sia denominata “addizionale comunale”,
essa è versata all’entrata del bilancio dello Stato per la successiva
riassegnazione. In particolare, parte è assegnata ad apposito fondo istituito
presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti destinato a
compensare ENAV Spa, secondo modalità regolate dal contratto di servizio, per
i costi dalla stessa sostenuti per garantire la sicurezza ai propri impianti
e per garantire la sicurezza operativa. L’eventuale, residua quota eccedente
30 milioni di euro è assegnata in un apposito fondo presso il Ministero
dell’interno, ripartito sulla base del traffico aeroportuale: il 40% del
totale è assegnato ai comuni del sedime aeroportuale o con lo stesso
confinanti. Maggiore
stabilità presenta invece il sistema delle entrate delle province,
il cui assetto è stato modificato in misura meno incisiva di quello comunale
dalla normativa attuativa della delega recata dalla legge n. 42 del 2009 sul
federalismo fiscale, che è intervenuta sulla fiscalità provinciale con gli
articoli da 16 a 21 del decreto legislativo n. 68 del 2011, recante norme in
materia di autonomia di entrata delle regioni e delle province. Come già
anticipato in precedenza, anche per le province si è operata la soppressione
dei tradizionali trasferimenti erariali e la loro sostituzione con entrate
proprie (tributi propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali e
gettito, o quote di gettito, di tributi erariali, addizionali a tali tributi)
e con risorse di carattere perequativo. In attesa della istituzione, a regime,
di un fondo perequativo l’articolo
21 del D.lgs. n. 68 del 2011 ha istituito il Fondo sperimentale di riequilibrio delle province
(cap.1352/Interno), la cui durata è fissata per un periodo biennale a
decorrere dal 2012, o comunque fino all’entrata in vigore del fondo
perequativo. Il Fondo sperimentale
di riequilibrio provinciale è alimentato anzitutto dal gettito della compartecipazione provinciale all’IRPEF,
la cui aliquota è determinata in misura tale da compensare la soppressione
dei trasferimenti erariali, prevista a partire dall’anno 2012, ed il venir
meno delle entrate legate all’addizionale provinciale all’accisa sull’energia
elettrica, anch’essa soppressa dall’anno 2012. Tale compartecipazione è stata
fissata in misura pari allo 0,60
dell’Irpef (D.P.C.M. 10 luglio 2012). Il sistema delle entrate provinciali
ricomprende inoltre i seguenti cespiti: § imposta provinciale di trascrizione (IPT), iscrizione ed annotazione dei veicoli iscritti al
pubblico registro automobilistico che, vigente dal 1999, è stata poi
modificata, da ultimo, con il D.Lgs. n.68 del 2011, che ne ha disposto
l’equiparazione della misura sugli atti soggetti ad Iva rispetto agli atti
non soggetti all’Iva medesima; l’importo base è stabilito con Decreto del
Ministero dell’economia e delle finanze, mentre le Province possono
deliberare di aumentare l'importo stabilito dal Ministero fino ad un massimo
del 30 per cento (articolo 17); § imposta sulle assicurazioni sulla responsabilità civile
auto, in vigore dal 1999
e anche essa modificata dal medesimo decreto legislativo n.68/2011, che nello
stabilirne l’aliquota nella misura del 12,5% ha altresì attribuito alle province
– ivi incluse quelle situate nelle regioni a statuto speciale – la facoltà di
variarla in aumento o in diminuzione di 3,5 punti percentuali (articolo 17); § va inoltre segnalato
che il decreto legislativo n.68 del 2011 prevede, all’articolo 19,
l’istituzione di una compartecipazione
provinciale alla tassa automobilistica regionale, a compensazione, dal
2013, della soppressione dei trasferimenti regionali diretti al finanziamento
delle spese delle province. Al momento, tuttavia, benché l’articolo 19
suddetto prevedesse il termine del 20 novembre 2012 per la fissazione di tale
compartecipazione, la stessa non
risulta ancora stabilita (articolo 19). § altri tributi propri derivati, riconosciuti alle province dalla legislazione vigente.
Tra questi si ricorda: -
il tributo
speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, istituito e
disciplinato dall'articolo 3, commi 24-41, della legge n. 549/1995.
Presupposto dell'imposta è il deposito in discarica dei rifiuti solidi,
compresi i fanghi palabili. Soggetto passivo dell'imposta è il gestore
dell'impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di
colui che effettua il conferimento; -
il tributo
cosiddetto ambientale. Si segnala che l'articolo 14 del D.L. 201 del 2011
che ha istituito la Tares (tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, ora
Tari, tassa sui rifiuti), al comma 28 fa salva l'applicazione del tributo
provinciale per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene
dell'ambiente (di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 504). Il tributo provinciale, commisurato alla superficie dei locali
ed aree assoggettabili a tributo, è applicato nella misura percentuale
deliberata dalla provincia sull'importo del tributo; -
il canone
occupazione di spazi ed aree pubbliche, dovuto dal titolare dell'atto di
concessione o dall'occupante (anche abusivo) in proporzione della superficie
sottratta all'uso pubblico per le occupazioni effettuate nelle strade, aree e
comunque sui beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile della
Provincia (articolo 63 del D.Lgs. n. 446 del 1997); -
la tassa per
l’ammissione ai concorsi, di cui all’articolo 1 del R.D. 21 ottobre 1923,
n. 2361; -
i diritti di
segreteria, disciplinati dall’articolo 40 della legge 8 giugno 1962, n. 604; -
è prevista inoltre la possibilità di istituire con D.P.R. un’imposta di scopo provinciale (articolo 20, comma 2, del D.Lgs. 68
del 2011). Merita peraltro
segnalare che la legge n. 56 del 2014
detta un'ampia riforma in materia di enti locali, prevedendo l'istituzione delle città metropolitane,
la ridefinizione del sistema delle province
ed una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni di comuni. La
disciplina delle province, definite enti di area vasta, è espressamente
qualificata come transitoria,
nelle more della riforma costituzionale del Titolo V e delle relative norme
di attuazione. Per maggiori dettagli si rinvia al paragrafo Le entrate extra-tributarie locali. |
|
Il sistema della fiscalità municipale
delineato dal decreto legislativo n.
23 del 2011 intendeva sopprimere i tradizionali trasferimenti erariali
con carattere di generalità e permanenza e sostituirli con entrate proprie
(tributi propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali e gettito,
o quote di gettito, di tributi erariali, addizionali a tali tributi) e con
risorse di carattere perequativo. Il decreto è stato
ripetutamente modificato nel corso del tempo. In prima battuta,
l’applicazione dell’IMU (D.L. n. 201 del 2011) è stata anticipata
al 2012 e la sua disciplina è stata
profondamente innovata. Il predetto decreto 201 ha altresì avviato la
razionalizzazione delle diverse forme di prelievo vigenti sui rifiuti, TARSU,
TIA 1 e TIA 2, istituendo un diverso e unico tributo, la TARES, a totale
copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei
rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, nonché dei costi relativi ai
servizi indivisibili dei comuni, introducendo per quest’ultimo fine una
significativa maggiorazione del tributo. Nel corso del 2013 il dibattito politico si è
concentrato proprio sull’esenzione dall’IMU dell’abitazione principale. La legge di stabilità per il 2014 ha realizzato la complessiva riforma della tassazione
immobiliare, abolendo l’IMU sull’abitazione principale e su alcune fattispecie
assimilate, nonché la componente della TARES relativa ai servizi
indivisibili, con contestuale introduzione della citata imposta unica
comunale (IUC). L’istituzione della IUC fa comunque salva la disciplina
dell’IMU e la possibilità da parte dei comuni di istituire l’imposta di
scopo, al fine di proseguire l’iter prefigurato dalla legge di delega n.
42/2009. L’assetto così
delineato non è stato tuttavia definitivo, dal momento che si è nuovamente
reso necessario intervenire, principalmente mediante la decretazione
d’urgenza (decreti-legge nn. 16, 47,
66, 88 e 192 del 2014) e con le successive leggi di stabilità (legge di stabilità 2015, L. n. 190
del 2014 e legge di stabilità 2016,
L. n. 208 del 2015). In origine, la legge
di stabilità per l’anno 2014 non aveva introdotto alcuna detrazione di base per la TASI, come era invece previsto per
l’IMU sull’abitazione principale; si prevedeva invece, mediante lo
stanziamento di un fondo di 500 milioni, la possibilità di finanziare
l’eventuale previsione da parte dei comuni di detrazioni dalla TASI a favore
dell’abitazione principale e delle relative pertinenze, nonché dei familiari
dimoranti abitualmente e residenti nell’immobile adibito ad abitazione
principale. Il D.L. n. 16 del 2014
ha consentito ai comuni nel 2014 di innalzare l'aliquota della Tasi -
stabilita in via generale all'1 per mille con possibilità di aumento fino al
2,5 - di un ulteriore 0,8 per mille rispetto al limite del 10,6 per mille
fissato per la sola IMU ordinaria al 31 dicembre 2013. La facoltà di
aumentare l’aliquota è stata condizionata al finanziamento di detrazioni
d’imposta sulle abitazioni principali che generino effetti equivalenti alle
detrazioni IMU. Il medesimo provvedimento ha esteso alla TASI le esenzioni
previste per l’IMU, compatibili con il presupposto impositivo della TASI; ha
esentato inoltre da TASI i terreni agricoli (assoggettati parzialmente a IMU;
per le vicende dell’IMU in agricoltura si veda successivamente) e ha
sottoposto a TASI, oltre che ad IMU, le aree scoperte pertinenziali e le aree
condominiali non occupate in via esclusiva. Il decreto-legge n. 88 del 2014 ha
modificato la disciplina relativa al versamento della TASI per l'anno 2014,
fissando diverse scadenze per il pagamento del tributo da parte dei contribuenti,
a seconda della tempestività del Comune nell'adozione e comunicazione al MEF
delle delibere e dei regolamenti relativi al tributo stesso. Le disposizioni
di tale decreto, non convertito, sono confluite nel decreto-legge n. 66 del 2014. La legge di stabilità 2015 (legge n. 190
del 2014, comma 679) ha confermato, anche per l'anno 2015, il livello massimo di imposizione della TASI
già previsto per l'anno 2014. Per il medesimo anno 2015 è stata
confermata la possibilità di superare
i limiti di legge relativi alle aliquote massime di TASI e IMU, per un
ammontare complessivamente non superiore allo 0,8 per mille, alle condizioni sopra descritte. L’IMU, resa
permanente, dal 2014 non si applica all’abitazione principale e alle relative
pertinenze, nonché ad altre tipologie di immobili individuate ex lege. La legge di
stabilità 2016 (legge n. 208 del 2015) ha ridisegnato il panorama dell'imposizione immobiliare, ampliando
le ipotesi di esenzione IMU sui terreni agricoli ed esentando da
imposte immobiliari i c.d. macchinari imbullonati. Inoltre, è stata
disposta l'esenzione TASI per la prima casa, cui già dal 2014 non
veniva applicata l'IMU; dal 2016, infatti, la TASI non si applica più sull'abitazione principale(ad
eccezione degli immobili di pregio), anche nell'ipotesi in cui sia il
detentore a destinare l'immobile ad abitazione principale. La medesima legge
di stabilità dispone un'aliquota
ridotta per gli immobili-merce. Resta ferma la possibilità per i comuni,
per il 2016, di maggiorare dello 0,8 per mille l'aliquota
TASI per gli immobili non esenti rispetto alle misure "di base",
con espressa delibera del Consiglio comunale. Dunque anche nel 2016
l'aliquota TASI può essere deliberata dai Comuni, al massimo, nella misura
del 3,3 per mille. Si ricorda che il
nuovo assetto delle imposte immobiliari oggi assoggetta a IRPEF per il 50 per
cento il reddito degli immobili ad uso abitativo non locati. Sono esentati da
IMU, a decorrere dal 2014, i fabbricati rurali ad uso strumentale. Anche il D.L. n. 47 del 2014 ha apportato modifiche
alla materia dell’ IMU, assoggettando dal 2015 al regime dell’abitazione principale
l'unità immobiliare posseduta dai cittadini italiani pensionati non residenti
nel territorio dello Stato e iscritti all'Anagrafe degli Italiani residenti all'estero
(AIRE), non locata o data in comodato d'uso. In sostanza detti immobili
godono ex lege dell’esenzione da IMU,
se non si tratta di immobili “di lusso” (categorie catastali A/1, A/8 ed A/9);
altrimenti usufruiscono dell’aliquota agevolata allo 0,4 per cento e della detrazione
di 200 euro prevista dalla legge. Si ricorda in questa sede
che la Provincia autonoma di Bolzano ha istituito e disciplinato l'imposta municipale immobiliare (IMI) con
la legge provinciale 23 aprile 2014, n. 3. L'imposta, nel territorio della Provincia,
sostituisce integralmente le imposte comunali immobiliari istituite con leggi
statali, anche relative alla copertura dei servizi indivisibili. Anche la Provincia autonoma di Trento ha istituito
la propria imposta immobiliare (IMIS, Imposta
Municipale Immobiliare Semplice), con gli articoli 1-14 della legge finanziaria
provinciale per il 2015 (legge provinciale n. 14 del 2014), nell'ambito della
competenza legislativa in materia di finanza locale, attribuita alle Province
autonome dall'articolo 80 dello Statuto (D.P.R. n. 670/1972). La legge di
stabilità 2016 (articolo 1, comma 12 della
legge n. 208 del 2015) ha esteso a tali imposte il principio di sostituzione imposte immobiliari/IRPEF, con
efficacia dal 2014. Di
conseguenza, con la suddetta decorrenza anche le imposte immobiliari delle
province autonome sostituiscono, per la componente immobiliare, l’IRPEF e le addizionali dovute in
relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati, fatto salvo il parziale assoggettamento a IRPEF
del reddito di immobili non locati siti nello stesso comune dell’abitazione
principale. All'interno della disciplina
dei tributi immobiliari comunali, numerosi interventi normativi effettuati nel
corso del 2014 e del 2015 hanno riguardato l’applicazione degli stessi ai terreni
agricoli, in particolare per
quanto concerne le esenzioni IMU. Al fine di dar conto
degli ultimi sviluppi, si ricorda che sulla questione è dapprima intervenuto
il decreto-legge n. 4 del 2015, che esentava da IMU i terreni agricoli e a
quelli non coltivati, ubicati nei Comuni classificati totalmente montani (di
cui all’elenco dei Comuni italiani ISTAT); i terreni agricoli e a quelli non
coltivati ubicati nei Comuni delle isole minori individuati ex lege; i
terreni agricoli e a quelli incolti posseduti e condotti dai coltivatori
diretti e dagli imprenditori agricoli professionali (IAP), iscritti nella
previdenza agricola, ubicati nei Comuni classificati parzialmente montani ai
sensi del citato elenco ISTAT. Si prevedeva che dal 2015, ai terreni ubicati
nei comuni di cui in apposito elenco, posseduti e condotti dai coltivatori
diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza
agricola, fosse applicata una detrazione di 200 euro dall’IMU. La legge di stabilità 2016 (articolo 1,
comma 10, lettere c) e d) e comma 13 della richiamata legge
n. 208 del 2015) ha provveduto al complessivo riassetto delle agevolazioni per i terreni agricoli, a tal fine esentando da IMU: ·
i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina, come individuati ex lege; ·
i terreni agricoli posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali
iscritti nella previdenza agricola, indipendentemente dalla loro ubicazione; ·
i terreni agricoli
ubicati nei comuni delle isole minori indipendentemente, dunque, dal possesso e dalla
conduzione da parte di specifici soggetti; ·
i terreni agricoli con specifica destinazione, ossia con immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva
indivisibile e inusucapibile, dunque indipendentemente in tal caso da
ubicazione e possesso. |
Le entrate
extra-tributarie costituiscono le fonti di finanziamento dell’ente locale che
non derivano dalla riscossione dei tributi, ma dall’erogazione dei servizi e
dalla fruizione dei beni dell’ente. Costituiscono, in sintesi, i proventi delle
proprie attività, come i pagamenti dei servizi, i dividendi di società
partecipate, i proventi da beni patrimoniali e da contravvenzioni, gli interessi
percepiti su anticipazioni e crediti; i proventi diversi.
Esse rappresentano mediamente
il 20 per cento del totale delle entrate dei Comuni. La categoria che fornisce
maggiori entrate è quella dei proventi dei servizi pubblici.
|
Le entrate derivanti
dall’erogazione dei servizi e dalla fruizione dei beni dell’ente locale
hanno, in generale, natura extratributaria, e sono soggette alle disposizioni
legislative che le istituiscono e regolano, nonché alla normativa
regolamentare adottata da ciascuna amministrazione, con particolare
riferimento al regolamento inerente il servizio finanziario e contabile ed
alla disciplina adottata ai sensi dell’art.
52 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, in merito alle modalità di
gestione della medesima entrata. Il citato art. 52, come già previsto dall’art. 149 TUEL (Testo unico degli enti
locali, d.lgs. n. 267 del 2000), attribuisce a province e comuni la facoltà
di disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo
per quanto attiene alla individuazione e definizione delle fattispecie
imponibili, dei soggetti passivi e dell'aliquota massima dei singoli tributi,
nel rispetto delle esigenze di semplificazione degli adempimenti dei
contribuenti. Ai sensi dell’articolo 117 del TUEL, gli enti
interessati approvano le tariffe
dei servizi pubblici in misura tale da assicurare l'equilibrio
economico-finanziario dell'investimento e della connessa gestione. I criteri
per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono i seguenti: a) la corrispondenza
tra costi e ricavi in modo da assicurare la integrale copertura dei costi,
ivi compresi gli oneri di ammortamento tecnico-finanziario; b) l'equilibrato
rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito; c) l'entità dei costi
di gestione delle opere, tenendo conto anche degli investimenti e della
qualità del servizio; d) l'adeguatezza
della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti
condizioni di mercato. Le entrate di natura
extra-tributaria correlate allo svolgimento di un servizio od anche alle
concessioni di beni da parte dell’ente locale sono soggette all’applicazione
dell’Iva se non effettuate, in via generale, nello svolgimento di compiti
istituzionali. Per l’addebito dei corrispettivi relativi alle
somministrazioni di acqua, gas, energia elettrica, vapore e teleriscaldamento
urbano, per le operazioni relative al servizio di raccolta, trasporto e
smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilati, di fognatura e
depurazione, nonché per il servizio lampade votive nei cimiteri, possono
essere emesse bollette che tengono luogo delle fatture, anche agli effetti di
cui all’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972. La riscossione
spontanea delle entrate extra-tributarie può essere svolta direttamente
dall’ente locale tramite il suo tesoriere, tramite società in house, oppure a un soggetto terzo
individuato tramite procedura ad evidenza pubblica. Per la riscossione
coattiva delle entrate non tributarie occorre rilevare che, trattandosi di
rapporti qualificabili come “paritetici”, non viene di norma riconosciuto
all’amministrazione il potere di agire unilateralmente in via autoritativa,
dovendo anch’essa avvalersi dei mezzi ordinari apprestati in materia. La
riscossione coattiva è effettuata sulla base dell’ingiunzione prevista dal
R.D. 14 aprile 1910, n. 639, che costituisce titolo esecutivo, nonché secondo
le disposizioni del titolo II del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in quanto
compatibili, comunque nel rispetto dei limiti di importo e delle condizioni
stabilite per gli agenti della riscossione in caso di iscrizione ipotecaria e
di espropriazione forzata immobiliare. Procedere alla riscossione nelle forme
previste dal D.P.R. n. 602/1973 (iscrizione a ruolo) è possibile soltanto in
presenza di un titolo certo, liquido ed esigibile: possono essere iscritte a
ruolo quando risultano da titolo avente efficacia esecutiva. |
|
Il decreto-legge n. 210 del 2015, cd.
milleproroghe (articolo 10, comma 1) ha differito al 30 giugno 2016: §
il termine entro cui le società Agenti della riscossione cessano
di effettuare le attività di accertamento, liquidazione e riscossione,
spontanea e coattiva, delle entrate,
tributarie o patrimoniali, dei Comuni e delle società da essi partecipate; §
il termine a decorrere dal quale le suddette società
possono svolgere l’attività di riscossione, spontanea o coattiva, delle entrate degli Enti pubblici territoriali,
nonché le altre attività strumentali, soltanto a seguito di affidamento mediante procedure ad evidenza pubblica. È dunque prorogata al
30 giugno 2016 l’operatività delle
vigenti disposizioni in materia di gestione
delle entrate locali (sia per i tributi che per le entrate di natura
diversa, di pertinenza di tutti gli enti territoriali e non solo dei comuni),
superando la scadenza del 31 dicembre 2015, a decorrere dalla quale la
società Equitalia e le società per azioni dalla stessa partecipata avrebbero
dovuto cessare - secondo quanto stabilito all'articolo 7, lettera gg-ter), del decreto legge 13 maggio
2011, n. 70, e successive proroghe - di effettuare le attività di
accertamento, liquidazione e riscossione, spontanea e coattiva, delle entrate
dei comuni e delle società da questi ultimi partecipate. Si ricorda in questa
sede che la legge n. 23 del 2014 (c.d.
“delega fiscale”) aveva previsto la riforma
della riscossione delle entrate locali al fine di assicurarne certezza, efficienza ed efficacia
nell’esercizio dei poteri di riscossione. Si segnala tuttavia che la delega,
per tale parte, non è stata attuata (il termine è decorso il 27 giugno 2015). |
Il patrimonio degli enti
locali è costituito dal complesso dei beni e dei rapporti giuridici, attivi e
passivi, di pertinenza di ciascun ente. Gli enti locali includono nello stato
patrimoniale i beni del demanio, con specifica distinzione, ferme restando le
caratteristiche proprie, in relazione alle disposizioni del codice civile.
Per quanto concerne i
beni immobili, nel corso degli ultimi anni anche gli enti locali sono stati
coinvolti in un processo di valorizzazione e di dismissione degli stessi, al
fine di reperire risorse da destinare alla riduzione del debito e agli
investimenti.
Sul fronte della
devoluzione di immobili statali agli enti locali, il c.d. federalismo demaniale ha previsto
l'individuazione dei beni statali che
possono essere attribuiti a comuni, province, città metropolitane e regioni che
ne dispongono nell'interesse della collettività rappresentata favorendone la
"massima valorizzazione funzionale".
|
Gli enti locali valutano i beni del demanio e del patrimonio,
comprensivi delle relative manutenzioni straordinarie, secondo le modalità
previste dal principio applicato della contabilità economico-patrimoniale di
cui all’allegato n. 4/3 del D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118, di
attuazione del federalismo fiscale in materia di armonizzazione dei sistemi
contabili e degli schemi di bilancio. Il decreto legislativo n. 85 del 2010, anch’esso attuativo del federalismo fiscale, ha
previsto un articolato percorso di individuazione e di attribuzione, a titolo
gratuito, a diversi livelli di governo substatale di beni immobili, demaniali
o patrimoniali, di proprietà dello Stato, prevedendo modalità diverse di attribuzione,
in funzione dei beni e delle amministrazioni che curano la gestione dei vari
immobili. La necessità della concertazione in sede di Conferenza unificata,
ai fini dell'acquisizione delle prescritte intese ovvero dei pareri, ha
comportato una dilatazione dei tempi del procedimento. Successivamente, con il D.L. n. 98 del 2011 è stata disciplinata
la creazione di un sistema integrato di fondi immobiliari, con
l'obiettivo di accrescere l'efficienza dei processi di sviluppo e di
valorizzazione dei patrimoni immobiliari di proprietà degli enti
territoriali, di altri enti pubblici e delle società interamente partecipate
dai predetti enti. Con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 19 marzo
2013 è stata istituita la Invimit SGR (Investimenti Immobiliari
Italiani Società di Gestione del Risparmio società per azioni) con il compito
di istituire fondi che partecipano a quelli immobiliari costituiti da enti
territoriali, anche tramite società interamente partecipate, a cui conferire
immobili oggetto di progetti di valorizzazione ("fondi di fondi").
Al fine di conseguire la riduzione del debito pubblico la Invimit SGR può
istituire anche fondi a gestione diretta di asset pubblici, di enti
territoriali e previdenziali ("fondi diretti"). Sono previsti,
infine, fondi comuni di investimento immobiliare a cui conferire gli immobili
di proprietà dello Stato non più utilizzati dal Ministero della difesa per
finalità istituzionali e suscettibili di valorizzazione (cd. "fondi
difesa" ). Nell'ambito del processo di valorizzazione del territorio si ricorda la
disciplina per la formazione di programmi unitari di valorizzazione
territoriale per il riutilizzo funzionale e la rigenerazione degli
immobili di proprietà di Regioni, Provincie e Comuni e di ogni soggetto
pubblico, anche statale, proprietario, detentore o gestore di immobili
pubblici, nonché degli immobili oggetto di procedure di valorizzazione ai
sensi del decreto legislativo sul federalismo demaniale (articolo 3-ter del D.L. 351/2001, introdotto dal D.L.
n. 201 del 2011). Per la realizzazione dei PUVAT è possibile avvalersi di
quanto previsto dai citati articoli 33 (società di gestione del risparmio) e
33-bis (società, consorzi o fondi
immobiliari) del D.L. n. 98 del 2011 e delle procedure di cui all'articolo 58
del D.L. n. 112 del 2008 (piano delle alienazioni e valorizzazioni
immobiliari), senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Al fine di semplificare e accelerare le procedure di valorizzazione
degli immobili pubblici non utilizzati è stato riconosciuto all'accordo
di programma sottoscritto tra le amministrazioni interessate il valore di
variante urbanistica. Pertanto il comune nel quale si trova un
immobile non utilizzato di un ente pubblico può presentare un progetto di
recupero al Ministero cui è attribuito in uso il bene stesso, che dovrà
valutarlo positivamente, salvo il caso in cui sia già prevista una diversa
utilizzazione del bene in questione, e che costituirà oggetto dell'accordo di
programma. Sulla base della variante urbanistica così realizzata, l'Agenzia
del demanio potrà procedere all'alienazione, alla concessione o alla
costituzione del diritto di superficie (articolo 26 del D.L. n. 133 del
2014). In tal modo i Comuni possono stimolare operazioni di partenariato
istituzionale, funzionali al soddisfacimento delle esigenze dei territori,
sia in termini di riutilizzi per finalità di interesse pubblico (social
housing), sia in termini di individuazione di nuove funzioni urbane. |
|
Il legislatore ha
introdotto una procedura semplificata
per il trasferimento agli enti territoriali di immobili di proprietà dello
Stato, attraverso l’articolo 56-bis del D.L. n. 69 del 2013, con una
tempistica più certa (c.d. federalismo demaniale). La nuova procedura ha previsto un
meccanismo diretto di interlocuzione tra enti territoriali ed Agenzia del
demanio, che valorizza la verifica delle effettive esigenze ovvero delle
opportunità di utilizzo degli immobili. Dal 1° settembre 2013 e fino al 30
novembre 2013, i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno
presentato richiesta di acquisizione di determinati beni immobili dello
Stato. I beni appartenenti al demanio storico - artistico possono essere
trasferiti con le procedure di cui all'articolo 5, comma 5, del D.Lgs. n.
85/2010, il quale ne prevede il trasferimento da parte dello Stato, entro un
anno dalla data di presentazione della domanda di trasferimento, nell'ambito
di specifici accordi di valorizzazione e dei conseguenti programmi e piani
strategici di sviluppo culturale definiti ai sensi del codice dei beni
culturali e del paesaggio (D.Lgs. n. 42 del 2004). Come già previsto
nella legge delega n. 42/2009 sul federalismo fiscale, le disposizioni
dell’articolo 56-bis del D.L. n. 69
del 2013 non si applicano nelle regioni a statuto speciale e nelle Province
autonome di Trento e di Bolzano. L'Agenzia del demanio
ha comunicato la situazione complessiva al 29 gennaio 2016: sono state
presentate 9367 richieste di trasferimento effettuate su tutto il
territorio nazionale; a fronte delle 5648 istanze accolte, sono stati
emessi 3429 provvedimenti di trasferimento. Per le restanti istanze
l'Agenzia del demanio è in attesa di ricevere, da parte degli enti
richiedenti, le delibere propedeutiche all'emissione del provvedimento di
trasferimento. Per 3608 istanze di attribuzione è stata riscontrata
l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 56-bis.
In relazione a 111 istanze, di cui alcune particolarmente complesse, i pareri
sono ancora in via di definizione. Si ricorda che non
possono essere trasferiti i beni in uso per finalità dello Stato o per quelle
in materia di razionalizzazione degli spazi e di contenimento della spesa; i
beni per i quali siano in corso procedure volte a consentirne l'uso per le
medesime finalità; i beni per i quali siano in corso operazioni di
valorizzazione o dismissione ai sensi dell'art. 33 D.L. 98/2011. Per quanto riguarda
il trasferimento dei beni appartenenti al demanio storico-artistico (c.d. federalismo demaniale culturale,
di cui all’articolo 5, comma 5, del D.Lgs. n. 85 del 2010) l’Agenzia del
Demanio ha reso noto di aver ricevuto richieste di trasferimento per 648
immobili. Al 29 gennaio 2016 sono attivi 233 Tavoli Tecnici con i
Comuni richiedenti e con il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo per
definire i Programmi di valorizzazione con finalità culturali. Su un totale
di 144 Programmi di valorizzazione presentati dagli Enti locali, si è
arrivati all’approvazione di 98 programmi e l’iter di trasferimento si
è definitivamente concluso per 67 immobili, che sono stati devoluti
definitivamente ai Comuni. Si evidenzia che da
ultimo, il decreto-legge n. 210 del 2015 (articolo 10, comma
6-bis) ha riaperto i termini
della procedura di trasferimento di beni immobili dallo Stato agli enti
territoriali (prevista dal menzionato articolo 56-bis del decreto-legge n. 69 del 2013). In particolare gli enti
territoriali possono fare richiesta all'Agenzia del demanio di attribuzione
di tali beni, eccetto le tipologie specificamente indicate, entro il termine del 31 dicembre 2016. |
Il sistema di
bilancio degli enti locali si sostanzia in una serie di atti e di documenti
previsti dall’ordinamento finanziario e contabile degli enti. Gli atti e i
documenti sono riferibili in particolare alla programmazione, alla gestione,
alla rendicontazione, alla revisione economico-finanziaria e al controllo
interno.
In particolare il bilancio deve assolvere, principalmente,
ad una funzione politico-amministrativa
e ad una funzione economico-finanziaria,
alle quali si aggiunge una generale funzione informativa nei riguardi dei
cittadini e di altre istituzioni. Per il primo aspetto
(politico-amministrativo), i documenti contabili sono lo strumento essenziale
per l’esercizio delle prerogative di
indirizzo e di controllo che il consiglio dell’ente deve esercitare sulla
giunta; quanto alla seconda funzione (economico-finanziaria), questa ha natura autorizzatoria con riguardo al
prelievo ed alla destinazione delle risorse iscritte nel bilancio di previsione, e costituisce la
base della verifica del corretto impiego delle stesse in sede di controllo.
Il bilancio degli enti locali deve inoltre garantire gli equilibri previsti dalla disciplina
contabile, vale a dire il pareggio
finanziario complessivo, il quale prevede il vincolo che il totale delle
spese sia eguale al totale delle spese – vincolo di natura formale, atteso che
può essere conseguito anche mediante ricorso all’indebitamento - e l’equilibrio economico finanziario, che
ha invece funzione sostanziale, in
quanto impone agli enti di coprire con le entrate correnti le spese correnti ed il rimborso della quota di
capitale dei prestiti già contratti (nonché l’eventuale saldo negativo delle
partite finanziarie), salvo specifiche deroghe.
Oltre che coerente con queste regole contabili, fino a tutto l’esercizio finanziario 2015
il bilancio degli enti locali richiedeva la coerenza con i vincoli determinati dal Patto
di stabilità interno, che com’è noto ha incluso anche gli enti medesimi
nello sforzo fiscale necessario per il rispetto dei parametri europei. Il Patto
incideva sul bilancio locale attraverso il meccanismo dei saldi-obiettivo, vale a dire il conseguimento di un determinato
saldo finanziario – che variava negli anni in funzione del concorso alla
manovra di finanza pubblica richiesto alle autonomie territoriali – tra entrate
finali e spese finali. Dal 2016,
come si illustra di seguito, il vincolo del Patto è sostituito dai nuovi
vincoli derivanti dall’introduzione del principio del pareggio di bilancio.
Il rispetto del
Patto – ora della regola del pareggio - costituisce elemento costitutivo
del bilancio, da dimostrarsi da parte dell’ente locale mediante un apposito
prospetto da allegare al bilancio di previsione. La coerenza con il Patto è
quindi elemento di legittimità del
bilancio medesimo, e la sua mancanza comporta l’assoggettamento dell’ente
ad alcune sanzioni espressamente previste dall’ordinamento.
Le regole di
bilancio degli enti locali sono attualmente in corso di evoluzione per l’operare congiunto di due diversi interventi normativi di
carattere “sistemico”, costituiti il primo dalla nuova disciplina dell’armonizzazione contabile degli enti
territoriali e, il secondo, dall’introduzione del principio della regola
finanziaria del pareggio di bilancio.
Quanto al primo
intervento, esso deriva seguito della nuova
disciplina sull’armonizzazione contabile introdotta dal decreto
legislativo n. 118 del 2011 (Disposizioni
in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio
delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma della legge
n.42/2009 sul federalismo fiscale) che, dopo un fase triennale di
sperimentazione, trova applicazione dal
2015, salvo alcuni aspetti rinviati al 2016. Il decreto, che ha innovato
consistentemente la disciplina di bilancio recata dal TUEL (D.Lgs. n. 267 del
2000), ha operato un intervento organico di riforma diretto a garantire la
qualità, la confrontabilità ed il monitoraggio del bilancio, sia per migliorare la capacità del sistema di
rappresentare i reali fatti economici sia per rendere più efficaci le azioni volte al consolidamento dei conti pubblici. Già
dal 2015 ha trovato pertanto applicazione, ad esempio, il nuovo principio della competenza finanziaria
recato dal decreto, che dovrà consentire una affidabile esposizione della reale
situazione finanziaria dell’ente, mentre all’obbligo di predisporre da parte di
ciascuna autonomia locale il bilancio
consolidato con i propri enti ed organismi strumentali, società, aziende ed
altri organismi controllati, potrà darsi corso anche dal 2016 (dal 2017 per gli
enti locali con popolazione inferiore ai cinquemila abitanti). Ciò in quanto,
in ragione della consistente portata innovativa della riforma contabile, nel
primo anno della sua entrata in vigore gli enti territoriali (nonché i loro
organismi ed enti strumentali in contabilità finanziaria) hanno avuto la
facoltà di rinviare all'anno successivo una parte significativa dei nuovi
contenuti della riforma medesima, la cui piena entrata
a regime si realizza pertanto nel 2016. In tale anno si
rende quindi necessario completare gli
adempimenti occorrenti alla definitiva implementazione delle nuove regole,
ad iniziare dall'approvazione del bilancio di previsione triennale per missioni
e programmi con funzione autorizzatoria. A decorrere da tale anno, inoltre,
tutti gli enti territoriali sono tenuti ad adottare
un sistema di contabilità economico patrimoniale, la cui finalità - come
prevedono i principi contabili dettati dal decreto legislativo n.118 del 2011 -
è quella di garantire la rilevazione unitaria dei fatti gestionali sia sotto
profilo finanziario (come nel previgente sistema contabile) che sotto il
profilo, per l'appunto, economico-patrimoniale. Il passaggio al nuovo sistema
contabile comporta inoltre, contestualmente, l'adozione del piano dei conti integrato, del principio contabile
generale della competenza economica e, nell'ambito del principio contabile
applicato della contabilità economico-patrimoniale, dello specifico principio
relativo all'avvio della contabilità armonizzata.
Il secondo
intervento che incide profondamente sull’attuale sistema di bilancio degli
enti locali è costituito dall’introduzione, in luogo dei vincoli recati dal
Patto di stabilità interno, della nuova regola dell’equilibrio di bilancio.
Com’è noto, si rammenta brevemente, per gli enti locali l'impostazione del patto di stabilità
interno è stata incentrata fino al 2015 sul miglioramento dei saldi
finanziari. Tale vincolo è risultato funzionale all'impegno di riconoscere
agli enti territoriali una maggiore autonomia tributaria responsabilizzandoli
nel contempo nella propria gestione finanziaria, anche in relazione ai vincoli
finanziari derivanti dalla partecipazione dell'Italia all'Unione europea.
Con l'introduzione nella Carta costituzionale (con L.cost.n.1 del 2012) del principio del pareggio di bilancio, poi
dettagliato ad opera della legge “rinforzata” n.243 del 2012, in luogo del
patto di stabilità interno, che nel corso del tempo ha portato ad
addensamento normativo di regole complesse e frequentemente mutevoli, viene
introdotta, quale nuova regola per i risultati di bilancio degli enti
territoriali, il nuovo vincolo il conseguimento del pareggio di
bilancio. Questo deriva in particolare dall'articolo 9 della legge
suddetta, che ha stabilito il principio dell'equilibrio dei bilanci sia delle
regioni che degli enti locali.
Il nuovo vincolo di fonte costituzionale è stato declinato
nella normazione ordinaria dalla legge
di stabilità per il 2016(commi da 707 a 713 e da 719 a 734) con cui si è
espressamente stabilito che dal 2016 gli
enti locali (e le regioni) partecipano al raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica assunti dal nostro Paese in sede europea attraverso
l'assoggettamento alle regole del pareggio
di bilancio. Conseguentemente la legge n. 208 del 2015 abroga le norme
relative alla disciplina del patto di stabilità interno degli enti
locali, come disciplinato dall'articolo 31 della legge n.183 del 2011,
salvo quelle sulla certificazione del patto per il 2015 e sulle sanzioni per il
mancato rispetto dello stesso.
Il contenuto della nuova regola, che costituisce il modo
mediante cui comuni, province e città metropolitane concorrono al contenimento
dei saldi di finanza pubblica, è dettato dal comma 710 della legge 208 del
2015 sopra citata, nel quale si stabilisce che tali enti devono conseguire
un saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le
spese finali, come eventualmente modificato per effetto dell'applicazione
del patto di solidarietà tra enti territoriali, come previsto ai successivi
commi da 728 a 732.
Per gli enti locali la nuova golden
rule risulta radicalmente diversa rispetto al previgente Patto di
stabilità, che, si rammenta, consiste nel raggiungimento di uno specifico
obiettivo di saldo finanziario, calcolato quale differenza tra entrate e spese
finali - comprese dunque le spese in conto capitale - espresso in termini di
competenza mista (criterio contabile che considera le entrate e le spese in
termini di competenza, per la parte corrente, e in termini di cassa per la
parte degli investimenti, al fine di rendere l'obiettivo del patto di stabilità
interno più coerente con quello del Patto europeo di stabilità e crescita). I
complessi meccanismi del Patto sono ora sostituiti da un vincolo più lineare,
costituito dal raggiungimento di un unico saldo. Sulla base degli
effetti finanziari ascritti alla nuova disciplina, essa sembra comportare
maggiori spazi finanziari per i comuni, che in base al Patto di stabilità erano
tenuti ad esporre, nel loro complesso, una posizione di avanzo di bilancio,
mentre appare più restrittiva per le province (cui la legge di stabilità ha a
tal fine assegnato un contributo compensativo).
Va infine ricordato come sulla redazione dei bilanci degli
enti locali incidano ulteriori vincoli
previsti da norme che si richiamano al principio del coordinamento delle
finanza pubblica, che riguardano specifiche
poste di bilancio, attraverso le quali si realizza il programma di
revisione e di riqualificazione della
spesa da parte degli enti territoriali.
Tra le norme di contenimento della spesa introdotte dal
2012 ad oggi si ricordano quelle relative alla riduzione delle spese per
consumi intermedi e al nuovo sistema di acquisizione di beni e servizi
attraverso le modalità introdotte dagli strumenti telematici (sistemi c.d. di e–procurement),
le misure restrittive della spesa per incarichi di consulenza, studio e
ricerca, per missioni, per l’acquisto di autovetture, per i canoni di locazione
passiva per gli immobili ad uso istituzionale, per la formazione di personale,
acquisto di mobili e arredi, remunerazione di organi collegiali e monocratici,
relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza.
|
La disciplina del sistema
di bilancio degli enti locali è contenuta nel D.Lgs. n. 267 del 2000, recante il Testo Unico dell’ordinamento
degli enti locali (TUEL), ed in
particolare negli articoli da 149 a 198-bis
- nonché nella recente normativa sull’armonizzazione dei bilanci delle
amministrazioni territoriali emanata con il D.Lgs. n. 118 del 2011 (come ampiamente modificato dal successivo
D.Lgs. n.126 del 2014): normativa che oltre ad integrare molti degli articoli
del TUEL sopradetti ha introdotto nuove regole sui principi contabili e sugli
schemi di bilancio degli enti in questione. Il documento di maggiore rilevanza nel sistema di bilancio
in esame è costituito ovviamente dal bilancio di previsione finanziario, che
deve essere presentato dalla Giunta al consiglio entro il 15 novembre
dell’anno precedente ed approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre. Il
bilancio, riferito ad almeno un triennio (quanto alle previsioni di
competenza, mentre quelle di cassa sono solo per il primo esercizio), ha
finalità: politico-amministrativa, di programmazione finanziaria, di
destinazione delle risorse e di verifica degli equilibri finanziari. In caso
di mancata approvazione entro il temine di legge si procede all’esercizio
provvisorio, da autorizzarsi con legge o con apposito DPCM del Ministro
dell’interno ovvero, in mancanza di tale autorizzazione, è consentita, con
specifici limiti e vincoli, la gestione provvisoria. Dopo l’approvazione del
bilancio, la sequenza della programmazione finanziaria prosegue con il Piano
esecutivo di gestione (PEG), da approvarsi da parte della Giunta entro i
successivi 10 giorni, con il Documento Unico di Programmazione (DUP), da
presentarsi da parte della Giunta al Consiglio entro il 31 luglio, la cui
Nota di aggiornamento va presentata entro il 15 novembre. Nel frattempo,
entro il 31 luglio va approvata la delibera di assestamento del bilancio. Sulla base delle nuove disposizioni introdotte
(nell’articolo 151 del TUEL) dal D.Lgs. n. 118 prima citato, entro il 31
luglio l’ente approva inoltre il bilancio consolidato con i bilanci dei
propri organismi e enti strumentali e delle società controllate e
partecipate, costituito dal conto economico consolidato e dallo stato
patrimoniale consolidato. Sulla medesima base (articolo 227 TUEL)
contestualmente al rendiconto l’ente dovrà altresì presentare il rendiconto
consolidato, comprensivo dei risultati degli eventuali organismi strumentali
(art. 227, c. 2-ter). Va, infine, rammentato che entro il 30 aprile va
approvato il rendiconto dell’esercizio finanziario precedente. Come si è accennato prima, il sistema contabile qui
descritto ha registrato diverse novità
a partire dal 2015, anno da cui decorrono molte delle innovazioni
conseguenti all’armonizzazione dei
sistemi contabili operata dai decreti legislativi n.118 del 2011 e n.126
del 2014. Va rammentato in proposito come alla base di tale processo di riforma
sta il riscontro della difficoltà nel rendere effettivamente disponibili i
dati di bilancio delle amministrazioni locali (e, più ancora, regionali),
nonché la correlazione degli stessi con il bilancio dello Stato, nonché alla
necessità di adottare regole uniformi per ogni amministrazione pubblica, ai
fini della comparabilità sia tra amministrazioni appartenenti allo stesso
livello di governo che tra livelli di governo diversi. La riforma stabilisce dunque per gli enti locali (nonché
per le regioni) l’adozione di regole contabili uniformi, di un comune piano
dei conti integrato e di comuni schemi di bilancio, l’adozione di un bilancio
consolidato con le aziende, società od altri organismi controllati, la
definizione di un sistema di indicatori di risultato semplici e misurabili,
nonché l’affiancamento al sistema di contabilità finanziaria, a fini
conoscitivi, di un sistema di contabilità economico-patrimoniale. Tra i nuovi principi contabili ci si limita in questa
sede a segnalare per la sua rilevanza - oltre al principio dell'equilibrio di
bilancio, corollario del principio costituzionale del pareggio di bilancio -
il nuovo principio della competenza finanziaria, cioè il criterio di
imputazione agli esercizi finanziari delle obbligazioni giuridicamente perfezionate
attive e passive che danno luogo ad entrate e spese. Si ricorda che il principio della competenza finanziaria
attualmente applicato nei documenti contabili di bilancio è quello per cui le
entrate e le spese sono imputate all’esercizio finanziario in cui le
obbligazioni sono perfezionate (accertamenti di entrata e impegni). Secondo il nuovo principio di competenza
finanziaria, sancito nel punto 16 dell’allegato 1, del D.Lgs. 118/2011,
ma i cui contenuti specifici devono essere definiti dai provvedimenti
legislativi correttivi adottati sulla base degli esiti della sperimentazione
del medesimo principio, le
obbligazioni attive e passive giuridicamente perfezionate, che danno
luogo a entrate e spese per l'ente di riferimento, sono registrate nelle
scritture contabili nel momento in cui l’obbligazione sorge ma con l’imputazione all’esercizio nel quale
esse vengono a scadenza. La riforma di tale principio è sostanzialmente
finalizzata ad un avvicinamento nella contabilità finanziaria tra competenza
e cassa (cioè tra momento dell’impegno e momento del pagamento), si parla
infatti di competenza finanziaria cd. “potenziata”. Questa consente
di conoscere i debiti effettivi delle amministrazioni; evitare l’accertamento
di entrate future e di impegni inesistenti; rafforzare la programmazione di
bilancio; favorire la modulazione dei debiti secondo gli effettivi
fabbisogni. Conclusasi al 31 dicembre 2014 la fase di sperimentazione
triennale dei nuovi principi, l’entrata
in vigore della riforma contabile degli enti territoriali di cui al
D.Lgs. n. 118 del 2011, corretto e integrato dal D.Lgs. n. 126 del 2014, è
fissata al 1° gennaio 2015. A
partire da tale data, le amministrazioni pubbliche territoriali e i loro enti
strumentali in contabilità finanziaria sono dunque tenuti a conformare la
propria gestione a tali regole contabili uniformi e ai relativi principi
contabili applicati. Il decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 come
integrato dal decreto n. 126, prevede, tuttavia, la facoltà per gli enti locali di rinviare all’esercizio 2016 gli adempimenti più impegnativi della
riforma, quali la contabilità
economico patrimoniale nonché il piano
dei conti integrato (art. 3, comma 12) e il bilancio consolidato (art. 11-bis). Inoltre, nel 2015,
l’adozione del nuovo schema di bilancio per missioni e programmi è richiesta
solo con finalità conoscitive. Si
tratta pertanto di una sorta di sperimentazione in quanto, nel 2015, gli enti
continuano ad adottare lo schema di bilancio utilizzato nel 2014, che
conserva valore a tutti gli effetti giuridici. Anche l’adozione del principio
applicato della programmazione risulta di fatto rinviata, in quanto
l’elaborazione del primo documento di programmazione “armonizzato”, il
Documento Unico di Programmazione (DUP) per gli enti locali e il Documento di
Economia e Finanza Regionale (DEFR) per le regioni, è richiesto con
riferimento al triennio 2016-2018. Con riferimento agli esercizi 2015-2017
gli enti locali continueranno ad adottare la Relazione Previsionale e
Programmatica (RPP) e le regioni i documenti di programmazione previsti dai
rispettivi ordinamenti contabili. In base alla nuova disciplina contabile, in linea
generale, dal bilancio 2015 gli
enti territoriali hanno dovuto, in particolare, procedere: a. all’adozione del principio contabile generale
della competenza finanziaria potenziata e del correlato principio
applicato della contabilità finanziaria, riguardanti le modalità di
accertamento delle entrate e di impegno delle spese, fondamentale per
consentire, a decorrere dal rendiconto 2015, la conoscenza dei debiti degli
enti territoriali nei confronti dei terzi, ed il conseguimento di equilibri
di bilancio effettivi (e non meramente contabili), tali da favorire la
tempestività dei pagamenti; b. all’accantonamento al
fondo crediti di dubbia esigibilità
nel bilancio di previsione degli enti territoriali, il cui ammontare è
determinato in considerazione dell'importo degli stanziamenti di entrata di
dubbia e difficile esazione; c. al riaccertamento straordinario dei residui,
consistente nella cancellazione
dei residui propri attivi e passivi, cui
non corrispondono obbligazioni perfezionate e scadute alla data del 1°
gennaio 2015; d. alla costituzione del
Fondo Pluriennale Vincolato,
accantonamento contabile iscritto sia in entrata che in uscita per consentire
l’applicazione della competenza finanziaria potenziata, al fine di correlare
le entrate vincolate di competenza di un esercizio con le relative spese
impegnate nel medesimo esercizio, ma imputate agli esercizi successivi. Considerato che il fondo iscritto in entrata, in ciascun
esercizio riporta tutte le risorse rinviate, sia quelle relative agli impegni
imputati all’esercizio a cui si riferisce il bilancio, sia quelle relative
agli esercizi successivi, il fondo pluriennale vincolato iscritto nell’entrata
del bilancio di previsione 2015 è pari a zero, fino al riaccertamento dei
residui, a seguito del quale è valorizzato per un importo pari alla
differenza fra i residui passivi e attivi cancellati e reimputati agli
esercizi successivi. Va segnalato che con la legge
di stabilità 2015 si è intervenuti con riferimento alle innovazioni di
cui alle lettere b) e c) che precedono, costituite l’una dall’obbligo degli accantonamenti nel
bilancio di previsione al fondo
crediti di dubbia esigibilità in relazione dell'importo degli
stanziamenti di entrata di dubbia e difficile esazione, e l’altra dal riaccertamento straordinario dei residui,
che comporta la cancellazione dei residui propri attivi e passivi cui non
corrispondono obbligazioni perfezionate e scadute al 1° gennaio 2015. Atteso che si tratta di due prescrizioni che incidono
consistentemente sui risultati di bilancio degli enti territoriali
interessati – l’una, in quanto determina una forte compressione della
capacità di spesa degli enti, l’altra perché rischia di determinare
l’emersione di un disavanzo di amministrazione di importo rilevante – la
legge di stabilità 2015 ha introdotto alcune disposizioni finalizzate ad attenuarne l’impatto
negativo sui bilanci e migliorare la sostenibilità finanziaria della
riforma medesima. In sostanza, la riforma chiede agli enti, nell’ambito del
riaccertamento straordinario dei residui, di cancellare i residui attivi che
non corrispondono a obbligazioni giuridiche perfezionate a favore dell’ente e
di accantonare una quota del risultato di amministrazione, di importo pari ai
crediti di dubbia e difficile esazione. Entrambe le operazioni comportano il
rischio di emersione del disavanzo di
amministrazione effettivo degli enti, la cui copertura, se effettuata con
le modalità ordinarie, potrebbe essere non sostenibile da parte degli enti.
Al fine di rendere sostenibile la copertura di tale disavanzo la riforma ne
consentiva il ripiano entro il 2017, termine ora prolungato dalla legge
190/2004 come di seguito si precisa. In particolare, la
legge di stabilità 2015 (legge n. 190/2014) è intervenuta su quattro
diversi profili concernenti
rispettivamente: le modalità di accertamento dei residui attivi e passivi
(art. 1, commi 505 e 506), i termini per la copertura dell'eventuale
disavanzo derivante dal riaccertamento straordinario dei residui da
parte degli enti che hanno partecipato alla sperimentazione, che viene portato a 30 esercizi (comma
507), una maggiore gradualità
rispetto a quanto previsto dal D.Lgs. n. 118 per l’iscrizione annuale in
bilancio degli accantonamenti al Fondo
crediti di dubbia esigibilità, per allentare ulteriormente la
compressione della capacità di spesa degli enti territoriali (comma 509) ed,
infine, i termini di approvazione del bilancio
consolidato dell’ente locale con i bilanci dei propri organismi e enti
strumentali e delle società controllate e partecipate (comma 510). Con il D.P.C.M. 2 aprile 2015 sono stati definiti i
criteri e le modalità di ripiano dell’eventuale maggiore disavanzo derivante
dal riaccertamento straordinario dei residui e dal primo accantonamento al
fondo crediti di dubbia esigibilità. Come sopra detto, il processo di implementazione della riforma contabile si completa nell’anno 2016,
mediante i seguenti ulteriori
elementi rispetto a quelli già introdotti nell’esercizio finanziario
precedente: 1. l’adozione degli
schemi di bilancio e di rendiconto
per missioni e programmi, che
assumono valore a tutti gli effetti giuridici (vale a dire non più solo a
fini conoscitivi come nel 2015 ma a fini autorizzatori della gestione) con
riferimento all’esercizio 2016 e successivi; 2. l’applicazione
completa della codifica della transazione
elementare ad ogni atto gestionale. Com’è noto, la transazione elementare
costituisce l'unità minima di rilevazione contabile nel nuovo sistema di
bilancio in esame, nel cui ambito viene essere codificata secondo modalità
idonee consentire di tracciare tutte le operazioni contabili; 3. l’adozione del piano dei conti integrato, costituito
dall'elenco delle articolazioni delle unità elementari del bilancio
finanziario gestionale e dei conti economico-patrimoniali, definito in modo
da evidenziare, attraverso i principi contabili applicati, le modalità di
raccordo, anche in una sequenza temporale, dei dati finanziari ed
economico-patrimoniali, nonché di permettere la rilevazione unitaria dei
fatti gestionali. La funzione del piano è quella di consentire il
consolidamento ed il monitoraggio dei conti pubblici, nonché il miglioramento
della raccordabilità dei conti delle amministrazioni pubbliche con il Sistema
europeo dei conti nazionali nell'ambito delle rappresentazioni contabili; 4. l’adozione, mediante
lo strumento del piano dei conti, di un sistema di contabilità economico patrimoniale, garantendo in tal modo la
rilevazione unitaria dei fatti gestionali, sia sotto il profilo finanziario
che sotto il profilo economico-patrimoniale. Tale sistema rende necessario applicare in particolare il
principio contabile della competenza economica che, si rammenta, rappresenta
il criterio con il quale sono imputati gli effetti delle diverse operazioni
ed attività amministrative che la singola amministrazione pubblica svolge
durante ogni esercizio e mediante le quali si evidenziano "utilità economiche"
cedute e/o acquisite anche se non direttamente collegate ai relativi
movimenti finanziari. Per tale l'effetto delle operazioni e degli altri
eventi deve essere rilevato contabilmente ed attribuito all'esercizio al
quale tali operazioni ed eventi si riferiscono e non a quello in cui si
concretizzano i relativi movimenti finanziari. 5. la predisposizione,
per gli enti che non vi abbiano già proceduto nel 2015, del bilancio consolidato. Trattandosi di
un documento che ricomprende gli enti
ed organismi strumentali dell’ente, nonché le aziende, società controllate e partecipate, esso richiede la
predisposizione e approvazione in giunta di due distinti elenchi riguardanti:
a) gli enti, le aziende e le
società che compongono il gruppo amministrazione pubblica, evidenziando gli
enti, le aziende e le società che, a loro volta, sono a capo di un gruppo di
amministrazioni pubbliche o di imprese; b)
gli enti, le aziende e le società componenti del gruppo compresi nel bilancio
consolidato. L’ente locale interessato dovrà inoltre provvedere alla
trasmissione delle direttive agli enti i cui bilanci sono destinati ad essere
compresi nel bilancio consolidato, concernenti le modalità e le scadenze per
l’invio della documentazione necessaria per l’elaborazione del consolidato. Il quadro normativo del sistema di bilancio degli enti
locali si completava fino
all’esercizio 2015, con il Patto di stabilità interno, il cui rispetto,
come all’inizio accennato, ha fino a tale anno rappresentato un elemento
costituivo del bilancio degli enti locali soggetti al Patto. Il relativo
quadro normativo è riconducibile in gran parte all’articolo 31 della legge n.183 del 2011,
inclusivo delle disposizioni contenute nella legge di stabilità 2015 (legge
n. 190/2014), che prevede che siano soggetti al Patto di stabilità le
province ed i comuni con più di 1.000 abitanti. L'obiettivo del patto di stabilità per gli enti locali
consiste nel raggiungimento di uno
specifico obiettivo di saldo
finanziario, calcolato quale differenza tra entrate e spese finali - comprese dunque le spese
in conto capitale - espresso in termini di competenza mista (criterio contabile che considera le entrate e
le spese in termini di competenza per la parte corrente, e in termini di
cassa per la parte degli investimenti, al fine di rendere l'obiettivo del
patto di stabilità interno più coerente con quello del Patto europeo di
stabilità e crescita). Sono previste alcune
esclusioni di specifiche voci di entrata e di spesa dal computo del
saldo, che non rientrano, pertanto, nei vincoli del patto. Tali esclusioni
sono state considerate per evitare che i vincoli del patto potessero
rallentare gli impegni e i pagamenti connessi ad interventi considerati
prioritari e strategici (spese per calamità naturali o spese sostenute con le
risorse provenienti direttamente o indirettamente dall'Unione europea), sia
per correggere eventuali effetti anomali che potrebbero determinarsi sui
saldi a causa del non allineamento temporale tra entrata e spesa. Per quanto concerne i meccanismi di calcolo degli
obiettivi di saldo, si ricorda che, dal 2011, gli obiettivi del patto
sono ancorati alla capacità di spesa di ciascun ente locale, corrispondente
al livello di spesa corrente mediamente sostenuto in un triennio, come
desunta dai certificati di conto consuntivo. In particolare, fino all’anno
2015 la normativa vigente, come aggiornata dalla legge di stabilità per il
medesimo anno, prevede che il saldo obiettivo venga determinato, per
ciascun ente, applicando alla spesa
corrente media da esso sostenuta nel triennio 2010-2012 determinati
coefficienti fissati in maniera differenziata per le province e i
comuni. La disciplina prevede altresì due specifiche declinazioni del Patto - che in questa sede ci si
limita a richiamare, in quanto non più vigenti dal 2016 in poi e sostituite
da nuovi meccanismi di flessibilità - volte a renderne più flessibili le
regole in sede di gestione, costituite dal Patto di stabilità orizzontale nazionale (articolo 4-ter del decreto-legge n. 16 del 2012) e dal Patto di stabilità regionale,
disciplinato, da ultimo, dai commi 480 e seguenti della legge di stabilità
2015 |
|
Come già in precedenza illustrato, dal 2016 trova
applicazione per il bilancio degli enti locali la nuova regola dell’equilibrio di bilancio di cui ai commi da 707 a
713 e da 719 a 734 della legge di
stabilità per il 2016. La nuova disciplina prevede che tutti gli enti
territoriali concorrono agli obiettivi di finanza pubblica conseguendo un
saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le
spese finali, come eventualmente modificato dai meccanismi di flessibilità di
cui ai commi da 728 a 732 (vedi oltre). Per la determinazione del saldo
valido per la verifica del rispetto dell'obiettivo di finanza pubblica, le entrate finali e le spese finali,
sono quelle ascrivibili ai seguenti titoli. Entrate finali: 1-.Entrate correnti di natura tributaria,
contributiva e perequativa 2- Trasferimenti correnti 3- Entrate
extratributarie 4- Entrate in e/capitale 5- Entrate da riduzioni.di attività
finanziarie. Spese finali: 1- Spese correnti 2 -Spese in e/capitale 3
-Spese per incremento di attività finanziarie. Il rispetto della nuova regola risulta agevolato dalla
possibilità, concessa dal comma 711 per il solo 2016, che nelle
entrate e nelle spese finali in termini di competenza è considerato il
fondo pluriennale vincolato di entrata e di spesa al netto della quota
rinveniente dal ricorso all'indebitamento. Il fondo pluriennale vincolato è
un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate destinate al
finanziamento di obbligazioni passive dell'ente già impegnate, ma esigibili
in esercizi successivi a quello in cui è accertata l'entrata. Si tratta, più precisamente, di un saldo finanziario che
garantisce la copertura di spese imputate agli esercizi successivi a quello
in corso. Esso, che in taluni casi prescinde dalla natura vincolata o
destinata delle entrate che lo alimentano, risulta immediatamente
utilizzabile a seguito dell'accertamento delle entrate che lo finanziano,
consentendo in tal modo di poter procedere all'impegno delle spese esigibili
nell'esercizio in corso (la cui copertura è costituita dalle entrate
accertate nel medesimo esercizio finanziario), e all'impegno delle spese
esigibili negli esercizi successivi (la cui copertura è effettuata dal
fondo). La funzione svolta dal fondo in questione, che unitamente
all'eliminazione dell'obiettivo di saldo imposto dal previgente patto di
stabilità costituiscono le principali novità della nuova regola, dovrebbe
agevolare, come hanno rilevato i primi commentatori delle norme in esame, le
spese di investimento degli enti interessati, in particolare da parte dei
comuni. Nella medesima direzione rileva per il 2016 l'esclusione dal
saldo (nel limite massimo di 480 milioni) delle spese sostenute dagli enti
locali per interventi di edilizia scolastica effettuati a valere
sull'avanzo di amministrazione e su risorse rivenienti dal ricorso al debito. Ulteriori
disposizioni (commi 712 e da 719 a 722) hanno carattere procedurale,
quali: l'esclusione del fondo crediti
di dubbia esigibilità dal prospetto, da allegare al bilancio di
previsione, contenente le previsioni di competenza triennali rilevanti in
sede di rendiconto ai fini della verifica del rispetto del saldo di equilibro(esclusione
che anche essa, come quella del FPV, favorisce il conseguimento del saldo di
equilibrio); la previsione per ciascun ente di inviare alla Ragioneria
generale dello Stato entro il 31 marzo di ciascun anno la certificazione dei
risultati conseguite ed, infine, l'attribuzione all'organo di revisione
economico-finanziaria del ruolo di commissario ad acta per assicurare
l'assolvimento del suddetto obbligo di certificazione in caso di inadempienza
dell'ente. Le modalità applicative delle nuove regole per l'esercizio
finanziario 2016 sono state dettagliate dalla Circolare n.5 del febbraio 2016 della Ragioneria Generale dello Stato. La nuova disciplina è accompagnata da una serie di sanzioni
per il caso di mancato conseguimento del saldo di equilibrio. Queste,
per alcuni profili analoghe a quelle già previste per il mancato rispetto del
patto di stabilità, comportano per gli enti inadempienti:
Viene inoltre affidata alla Corte dei conti, in
sede di accertamento circa l'osservanza delle nuove regole sul bilancio, il
potere di irrogare sanzioni agli amministratori qualora emerga
l'artificioso rispetto della nuova disciplina dettata dai commi da 707 a 734,
conseguito mediante una non corretta applicazione delle regole contabili. L'introduzione della nuova regola del pareggio di
bilancio viene inoltre accompagnata (commi
da 728 a 732) da misure di flessibilità in ambito sia regionale che
nazionale. Sul versante regionale si consente alle
regioni di autorizzare gli enti locali del proprio territorio a peggiorare
il saldo di equilibrio per permettere esclusivamente un aumento degli
impegni di spesa in conto capitale, purché sia garantito l'obiettivo
complessivo a livello regionale mediante un contestuale miglioramento,
di pari importo, del medesimo saldo dei restanti enti locali della
regione e della regione stessa. Gli spazi ceduti dalla regione vanno
assegnati tenendo conto prioritariamente delle richieste dei comuni con fino
a 1.000 abitanti e dei comuni istituiti per fusione a partire dall'anno 2011
Criteri specifici sono previsti per i territori delle autonomie speciali. Per la rideterminazione degli obiettivi mediante
cui attuare la flessibilità si attribuisce alle regioni il compito di
definire i criteri di virtuosità e le modalità operative, dettando una
procedura che a partire dalla data del 15 aprile di comunicazione da
parte degli enti locali degli spazi finanziari di cui necessitano (ovvero
degli spazi finanziari che sono disposti a cedere) si conclude entro il 30
settembre con la rideterminazione dei saldi obiettivo per ciascun ente
locale per la regione di riferimento. A titolo di premialità si
prevede inoltre nei confronti degli enti locali che cedono spazi finanziari
il riconoscimento, nel biennio successivo, di una modifica migliorativa
del saldo di equilibrio commisurata al valore degli spazi finanziari
ceduti, fermo restando l'obiettivo complessivo a livello regionale. Di
converso, agli enti locali che acquisiscono spazi finanziari sono attribuiti
nel biennio successivo saldi obiettivo peggiorati per un importo pari agli
spazi finanziari acquisiti. Sul versante nazionale viene dettata una
disciplina di attribuzione di spazi analoga a quella ora illustrata per
l'ambito regionale, prevedendosi per gli enti locali che ne
necessitino la possibilità di richiedere entro il 15 giugno alla
Ragioneria generale dello Stato gli spazi finanziari di cui
necessitano per sostenere impegni di spesa in conto capitale, per la quota
non soddisfatta tramite il meccanismo di solidarietà regionale. Nel
contempo, gli enti locali che prevedono di conseguire un differenziale
positivo di bilancio comunicano gli spazi che intendono cedere, nello stesso
termine del 15 giugno, alla Ragioneria stessa, che entro il 10 luglio
aggiorna i nuovi obiettivi degli enti interessati, fermo restando che (come
già per la flessibilità regionale) la somma dei maggiori spazi finanziari
ceduti e di quelli attribuiti deve essere pari a zero. |
Le società a partecipazione pubblica locale hanno un ruolo
essenziale per lo svolgimento delle funzioni degli enti locali, in particolare,
quale principale strumento di gestione
dei servizi pubblici locali.
Le esternalizzazioni dei servizi si sono infatti tradotte,
nello scorso decennio, in un forte ampliamento del ricorso a società
controllate dalle amministrazioni locali.
Come emerge dall’ultima rilevazione disponibile sul
fenomeno delle società partecipate pubbliche, contenuta nel “Rapporto sulle partecipazioni detenute dalle
Amministrazioni Pubbliche” elaborato dal Ministero dell’economia
e finanze, diffuso nel dicembre 2015 e relativo all’anno 2013, il fenomeno
delle società a partecipazione pubblica è largamente diffuso nell'ambito degli
enti territoriali, atteso che le partecipate locali sono pari a circa il 95 per
cento del totale e, tra queste, la gran parte è a partecipazione comunale.
Circa i principali settori di operatività, esse per il 69% riguardano il terziario (attività professionali, scientifiche e
tecniche, trasporto, servizi di supporto alle imprese e altro) e per il 24% il settore secondario (servizi
idrici, energetici e costruzioni e altro).
Si possono definire quattro
grandi aree in cui operano le partecipate locali:
-
i
servizi strumentali: in questo
settore, le partecipate forniscono beni o servizi quasi esclusivamente all’ente
partecipante, forniscono cioè input
per la produzione dei servizi di cui l’ente partecipante è responsabile. Esse
rappresentano circa il 13 per cento del totale e agiscono principalmente in
quattro aree: gestione immobili, patrimoniali (essenzialmente holding), informatica e servizi
amministrativi vari;
-
i
servizi pubblici privi di rilevanza
economica: le partecipate in questo settore forniscono servizi alla
cittadinanza in settori in cui la finalità di lucro non è presente e si
finanziano principalmente attraverso la fiscalità generale (condividendo questa
caratteristica con le strumentali) a fronte di un interesse generale alla
fornitura di certi servizi. Si tratta di una vasta area che comprende il 42 per
cento delle partecipate;
-
i
cinque tradizionali servizi pubblici di
rilevanza economica a rete, caratterizzati, in linea di principio, dalla
presenza di regolazione del settore (elettricità, acqua, gas, rifiuti,
trasporto pubblico locale). Si tratta del 23 per cento delle partecipate, ma
rappresenta una quota intorno al 60 per cento del valore della produzione;
-
un
settore residuale che comprende le
partecipate che vendono beni e servizi al pubblico in mercati concorrenziali
(il 22 per cento).
Sulla proliferazione delle società a partecipazione locale,
nonché sull'uso per finalità non sempre di primario interesse dell'ente locale
partecipante, è più volte intervenuta la Corte dei Conti, sia nell'ambito dei
Rapporti annuali sul coordinamento della finanza pubblica (l’ultimo è il Rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica) sia mediante la specifica Relazione sugli organismi
partecipati dagli enti territoriali prodotta dal giudice
contabile nel luglio del 2015, sugli Organismi partecipati dagli Enti
territoriali. Da tali analisi, ai cui contenuti più diffusamente si rinvia,
emerge come la costituzione e la partecipazione in società da parte degli enti
locali risulta in molti casi venire utilizzata quale strumento per forzare le
regole poste a tutela della concorrenza, ovvero essere finalizzata ad eludere i
vincoli di finanza pubblica imposti agli enti locali.
Sotto il profilo più strettamente contabile, va segnalato
come la nuova disciplina contabile armonizzata degli enti locali, introdotta
dal D.Lgs.
n. 118/2011, prevede che dal 2015 il bilancio dell'ente locale debba
consistere in un bilancio consolidato
che includa i risultati complessivi sia della gestione dell'ente locale che di
quella delle aziende (non quotate) da esso partecipate.
Tale norma risponde alle criticità più volte segnalate
dalla Corte dei conti in merito alla possibilità di occultamento di criticità
finanziarie dell'ente locale mediante trasferimento delle stesse sui bilanci
delle partecipate e, per altro verso, in base alla norma stessa resterebbe precluso
il trasferimento di risorse dell'ente al ripianamento di passività delle
proprie partecipate.
Oltre che con l’intervento operato con il citato decreto
legislativo, a tali fenomeni distorsivi il legislatore ha ritenuto di dover
porre rimedio attraverso l’adozione di specifici divieti alla costituzione e al mantenimento di società da parte
degli enti locali e dei comuni in particolare, che sono a livello locale i
maggiori detentori di partecipazioni azionarie.
|
Per le società pubbliche in generale, ivi incluse le
società a partecipazione pubblica territoriale, il quadro giuridico di riferimento è composto da numerose disposizioni speciali che si
intrecciano con la disciplina
codicistica di carattere generale, componendo in tal modo un assetto
normativo molto eterogeneo. Al regime generale delineato dal codice civile (nel libro
V, titolo V, capo V, relativo alle società per azioni: sezione XIII, relativa
alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici - articolo
2449 c.c.) si sovrappongono una serie di disposizioni di carattere speciale
introdotte attraverso successivi interventi legislativi adottati nel tempo.
Tale quadro è diventato più complesso - negli ultimi anni - in quanto la
necessità di assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica
ha indotto ad elaborare stringenti misure e meccanismi di contenimento e di
controllo finanziario sulle società a partecipazione pubblica, in quanto soggetti che, pur avendo una veste
giuridica privatistica, perseguono interessi generali o svolgono funzioni di
natura pubblicistica e sono destinatari di trasferimenti e sovvenzioni da
parte dello Stato. Sulla base degli interventi legislativi più recenti si è
assistito ad una sottoposizione delle società pubbliche a misure di
contenimento della spesa, a regole di trasparenza, a vincoli
sull’organizzazione, nella misura in cui esse costituiscono l’esercizio di
funzioni pubblicistiche sotto forma privatistica. Per quel che concerne, in particolare, le società
partecipate locali, un insieme di interventi
normativi posti in essere a partire
dal 2012 (con i decreti-legge n. 95/2012, n. 174/2012 e n. 179/2012, che
hanno interessato anche disposizioni già vigenti), pur operando anche su
altri fronti, hanno mirato a rispondere alle più sentite esigenze del
settore: a) definendo piani di cessioni e dismissioni societarie ad ampio
spettro; b) rafforzando i sistemi di controllo e di governance delle società da parte degli enti locali; c)
disciplinando le modalità di affidamento, anche diretto, dei servizi pubblici
locali a rilevanza economica, con la scelta di elevare la conformità
all’ordinamento comunitario ad elemento di verifica unificante; d) imprimendo
all’assetto una più spiccata caratterizzazione per ambiti territoriali. Gli enti
locali sono stati spinti, così, rivedere gli attuali assetti societari, in
un’ottica di razionalizzazione, risparmio ed efficienza, adottando nuove
soluzioni gestionali, basate prevalentemente su forme associative e su ambiti
territoriali ottimali. Nel complesso, il legislatore si è mosso su tre diversi
filoni d’intervento. Il primo è
costituito dal contenimento della spesa
per amministratori e dipendenti nel cui ambito, a decorrere dal 2014, è
stato introdotto un obbligo generale di trasparenza sulle spese di personale per tutte le
società partecipate dalle amministrazioni pubbliche – salvo quelle quotate
ovvero che emettano strumenti finanziari quotati nei mercati – stabilendo con
l’articolo 2 del decreto-legge n. 101 del 2013 che le stesse debbano comunicare
annualmente al Dipartimento della funzione pubblica ed al Ministero
dell’economia il costo annuo del personale. Uno specifico vincolo è stato
inoltre disposto dall’articolo 4 del D.L. n. 138 del 2011 alle partecipate
che gestiscono servizi pubblici locali, stabilendo che le stesse adottino per
il reclutamento del personale – pena il divieto di assunzioni – i medesimi
principi che regolano il reclutamento del personale nelle amministrazioni
pubbliche. Da ultimo è intervenuta, ai commi da 672 a 676, la legge di
stabilità 2016, come si espone più avanti. Il secondo
filone attiene alla riduzione delle spese
di funzionamento, ad iniziare dall’articolo 6 del D.L. n. 78 del 2011, in
base al quale le società inserite nel
conto economico della P.A. sono state assoggettate ai principi di riduzione
delle spese per taluni consumi
intermedi (pubblicità, sponsorizzazioni ed altro) valevoli per le
amministrazioni pubbliche, stabilendo che i conseguenti risparmi di spesa
debbano essere distribuiti ai soci a titolo di dividendo. Successivamente,
alle società a totale partecipazione pubblica sono state estese dall’articolo
1 del D.L. n. 95 del 2012, per specifici settori merceologici, le procedure
centralizzate di acquisto valide per tutte le amministrazioni, vale a dire
all’obbligo del ricorso alla Consip. Infine, l’articolo 20 del D.L. n. 66 del
2014 ha disposto per il biennio 2014-2015, con riferimento alle società non
quotate totalmente partecipate dallo Stato, una riduzione dei costi operativi
del 6,5 per cento rispetto ai risultati del 2013. Un terzo
filone riguarda infine la razionalizzazione
e la riduzione del numero delle società. Questo muove dalla constatazione
che con la diffusione delle partecipate si è realizzato – in particolare con
riguardo alle partecipate delle regioni ed enti locali – un processo di
esternalizzazione in forma societaria di funzioni di natura amministrativa.
Processo di cui si è una prima volta avviata l’interruzione con la legge n.
244/2007 (legge finanziaria 2008), che all’articolo 3 (commi 27-29), ha posto
il divieto di costituire società aventi ad oggetto la produzione di beni e
servizi non strettamente necessarie al perseguimento delle proprie finalità
istituzionali. A tale primo intervento hanno poi fatto seguito le norme
contenute nell’articolo 1, commi da 550 a 569 della legge n. 147/2013 (legge
di stabilità 2014) e, da ultimo, quelle recate dall’articolo 1, commi
611-614, della legge n.190/2014 (legge di stabilità 2015), che prevedono un processo di riorganizzazione
delle partecipate degli enti territoriali e di altri organismi pubblici
(università, autorità portuali ed altri), con l’obiettivo di ridurre il
numero delle società entro il 31 dicembre 2015. |
|
Per quanto concerne la riorganizzazione delle società
pubbliche, la legge n. 124/2015 (“Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”) reca all’articolo 18 criteri di delega per il riordino della disciplina delle partecipazioni
societarie delle amministrazioni pubbliche. In particolare, la lettera
m) reca sette principi di
delega che fanno riferimento specifico alle sole società partecipate dagli enti locali, prevedendo: 1) per le società che gestiscono servizi strumentali e
funzioni amministrative, la definizione di criteri e procedure per la scelta
del modello societario e per l'internalizzazione nonché di procedure, limiti
e condizioni per l'assunzione, la conservazione e la razionalizzazione di
partecipazioni, anche in relazione al numero dei dipendenti, al fatturato e
ai risultati di gestione; 2) per le società che gestiscono servizi pubblici di
interesse economico generale, l’individuazione di un numero massimo di
esercizi con perdite di bilancio che comportino obblighi di liquidazione
delle società, e la definizione di criteri e strumenti di gestione volti ad
assicurare il perseguimento dell'interesse pubblico e ad evitare effetti
distorsivi sulla concorrenza, anche attraverso la disciplina dei contratti di
servizio e delle carte dei diritti degli utenti e attraverso forme di controllo
sulla gestione e sulla qualità dei servizi; 3) il rafforzamento delle misure volte a garantire il
raggiungimento di obiettivi di qualità, efficienza, efficacia ed economicità,
anche attraverso la riduzione dell'entità e del numero delle partecipazioni e
l'incentivazione dei processi di aggregazione, intervenendo sulla disciplina
dei rapporti finanziari tra ente locale e società partecipate nel rispetto
degli equilibri di finanza pubblica e al fine di una maggior trasparenza; 4) la promozione della trasparenza mediante
pubblicazione, nel sito internet degli enti locali e delle società
partecipate interessati, dei dati economico-patrimoniali e di indicatori di
efficienza, sulla base di modelli generali che consentano il confronto, anche
ai fini del rafforzamento e della semplificazione dei processi di
armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle
amministrazioni pubbliche partecipanti e delle società partecipate; 5) l’introduzione di un sistema sanzionatorio per la
mancata attuazione dei princìpi di razionalizzazione e riduzione di cui al
presente articolo, basato anche sulla riduzione dei trasferimenti dello Stato
alle amministrazioni che non ottemperano alle disposizioni in materia; 6) l’introduzione di strumenti, anche contrattuali, volti
a favorire la tutela dei livelli occupazionali nei processi di
ristrutturazione e privatizzazione relativi alle società partecipate; 7) la revisione degli obblighi di trasparenza e di
rendicontazione delle società partecipate nei confronti degli enti locali
soci, attraverso specifici flussi informativi che rendano analizzabili e
confrontabili i dati economici e industriali del servizio, gli obblighi di
servizio pubblico imposti e gli standard di qualità, per ciascun servizio o
attività svolta dalle società medesime nell'esecuzione dei compiti affidati,
anche attraverso l'adozione e la predisposizione di appositi schemi di
contabilità separata. Per quanto riguarda
il contenimento della spesa per gli amministratori, i commi da 672 a 676 della legge di stabilità per il 2016 (legge
n. 208/2015) hanno esteso la disciplina dei compensi per gli amministratori,
dirigenti e dipendenti delle società controllate dal Ministero
dell’economia a tutte le società direttamente o indirettamente controllate
dalle amministrazioni pubbliche, fissando il limite massimo annuo dei
compensi nell’importo di 240mila euro e stabilendo alcuni obblighi di pubblicità per gli incarichi ed i
compensi relativi agli incarichi di consulenza e di collaborazione presso le
società medesime. |
Il sistema dei controlli sugli enti locali è costituito da
un insieme di norme contenute nel TUEL, fortemente implementate negli ultimi
anni al fine di rendere più efficaci il monitoraggio e le verifiche ex ante ed
ex post sulla gestione finanziaria degli enti, anche attraverso il
rafforzamento della funzione di controllo esterno della Corte dei Conti.
Il sistema dei controlli degli enti territoriali si fonda
sul principio dell'equiordinazione costituzionale di tali enti con gli altri
livelli di governo. Tale principio fa si che l'ente abbia capacità di verifica
e di giudizio interno della propria attività.
Parallelamente, accanto al riconoscimento costituzionale
dell'autonomia degli enti territoriali, si era venuto via via a ridurre il
ruolo dei controlli esterni, sia con l'eliminazione dei controlli preventivi di
legittimità, caratterizzati da un'impostazione di tipo gerarchico e pertanto
lesiva dell'autonomia dei vari enti territoriali, sia con il ridimensionamento
del ruolo della Corte dei conti, che ha conservato le proprie funzioni di
controllore esterno attraverso un rapporto di tipo collaborativo.
Il contesto dinamico e le successive evoluzioni della
finanza locale di questi ultimi anni hanno imposto al legislatore riflessioni
sull'adeguatezza dei controlli in essere e sulla necessità di migliorarli o
integrarli, anche in ragione del principio del coordinamento della finanza
pubblica - ai fini del raggiungimento degli obiettivi nazionali sulla base
degli impegni comunitari - che ha determinato, da un lato, la previsione di
vincoli sempre più stringenti alle politiche di bilancio degli enti
territoriali e, dall'altro, l'intensificazione, in controtendenza rispetto al
passato, del sistema dei controlli esterni sulla gestione finanziaria degli
enti, affidato alla Corte dei conti.
La recente crisi
economico-finanziaria, peraltro, che ha imposto politiche ulteriormente
restrittive di bilancio, ha spinto verso l’adozione di nuovi sistemi contabili
uniformi allo scopo di porre in essere meccanismi di controllo della spesa
pubblica più efficaci e più efficienti, con l’utilizzo generalizzato delle
procedure informatiche.
Pertanto, l'originario assetto delineato nel Testo unico
sugli enti locali (T.U.E.L.), D.Lgs. n. 267/2000, è stato modificato sia in
ragione dell'introduzione, per tutto il comparto della pubblica
amministrazione, di una nuova modalità di valutazione della dirigenza e dei
controlli sulla performance organizzativa e individuale nel pubblico
impiego, sia in ragione della necessità di ampliare i controlli - ex ante
ed ex post - sugli atti suscettibili di avere effetti finanziari,
nell'ottica di un rafforzamento del coordinamento della finanza pubblica e
degli strumenti posti a garanzia del rispetto dei vincoli finanziari derivanti
dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea.
Da ultimo, la legge n. 243/2012, di attuazione del
principio del pareggio di bilancio, ribadisce le funzioni di controllo della
Corte dei conti sui bilanci delle amministrazioni pubbliche. In particolare,
l'articolo 20 stabilisce al comma 1 che la Corte dei conti è competente a
svolgere, anche in corso di
esercizio, il controllo successivo sulla gestione dei bilanci degli enti
territoriali - nonché delle amministrazioni pubbliche non territoriali - ai
fini del coordinamento della finanza pubblica e dell'equilibrio dei bilanci
delle pubbliche amministrazioni sancito dall'articolo 97 della Costituzione,
come riformato dalla legge Costituzionale n. 1/2012. Il comma 2 demanda alla
legge dello Stato la disciplina delle forme e delle modalità del controllo
esercitato dalla Corte medesima.
Il filo conduttore delle recenti riforme in tema di
controlli interni, può essere così sintetizzato:
-
la
spinta al recupero di efficienza nella gestione, attraverso la determinazione
chiara e trasparente dei costi delle attività e dei servizi pubblici, che ha
messo in luce la necessità di una contabilità economica ed analitica in tutta
la PA. Ciò ha segnato un processo irreversibile che ha condotto, per gli enti
locali, al D.Lgs. n. 118/2011 sull’armonizzazione dei sistemi contabili, e alla
generale applicazione, dal 2016, della contabilità economico-patrimoniale
affiancata a quella finanziaria di competenza e di cassa;
-
la
rivalutazione della fase di programmazione, ai fini della razionalizzazione
della gestione delle risorse disponibili, che si esplica, per gli enti locali,
sia nella fase di predisposizione dei documenti di bilancio (di previsione e
consuntivi) e del Documento unico di programmazione (DUP) sia nella fase di
verifica dei programmi e dei progetti che il consiglio deve approvare, almeno
una volta l’anno entro il 30 settembre. Da questo punto di vista si segnala la
riforma dei controlli interni impostata dal D.L. n. 174/2012 che ha rivalutato
la fase programmatoria considerando l’ente locale quale “holding” di tutti i
soggetti, privati e pubblici, controllati dall’ente. La programmazione si attua
nel rispetto dei principi contabili contenuti nel D.lgs. n. 118/2011;
-
l’introduzione
di strumenti di valutazione del personale (amministratori, funzionari e
dirigenti) – percorso peraltro ancora in atto;
- la spinta verso una
maggiore trasparenza, che ha trovato il suo passaggio fondamentale
nell’emanazione del D.Lgs. n. 33/2013.
|
I controlli interni sugli enti locali L'assetto dei controlli interni negli enti locali era
originariamente basato sulle seguenti tipologie di controlli: ·
il controllo di regolarità amministrativa e contabile; ·
il controllo di gestione; ·
il controllo strategico; ·
la valutazione della dirigenza. Tale sistema ha subito una profonda innovazione, in primis
dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 e, successivamente, dall'articolo 3
del D.L. 10 ottobre 2012, n. 174, provvedimento quest'ultimo che ha
completamente ridisegnato l'assetto sopra descritto, delineato dall'articolo
147 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali). In particolare, il D.Lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009,
c.d. Decreto Brunetta, che ha introdotto il concetto di valutazione
delle performance individuali e organizzative del personale della
pubblica amministrazione (compresi dunque gli enti territoriali) da
esercitarsi attraverso Organismi indipendenti di valutazione, e si è andato
poi sviluppando alla luce della riforma dei controlli di regolarità
amministrativa e contabile e del potenziamento dell'attività di analisi e
valutazione della spesa (ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2011, n. 123) e
dei meccanismi sanzionatori e premiali per regioni, province e comuni,
introdotti dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 149, adottato
in sede di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale. Successivamente, è stato adottato il decreto legge n.
174 del 10 ottobre 2012, che ha integralmente rivisto e potenziato il
sistema dei controlli, sia interni che esterni, degli enti territoriali,
finalizzandolo all'esigenza di rafforzamento del coordinamento della finanza
pubblica e di garanzia del rispetto dei vincoli finanziari derivanti
dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea. Il controllo sulla dirigenza, ora disciplinato per tutte
le pubbliche amministrazioni nel citato D.Lgs. n. 150/2009, è dunque
fuoriuscito dal sistema dei controlli interni dell'ente locale delineati dal
TUEL, pur restando strettamente legato alle verifiche attinenti al ciclo
strategico dell'ente. Con riferimento alle altre tipologie di controlli,
l'articolo 3 del D.L. n. 174/2012 ha operato diverse novelle al fine
di implementare il sistema preesistente. In particolare, oltre ai controlli
di regolarità amministrativa contabile, di gestione e di controllo
strategico, compaiono ora nuove attività, quali: ·
il controllo sugli equilibri finanziari
dell'ente, che è strumentale alla realizzazione degli obiettivi di
finanza pubblica determinati dal Patto di stabilità interno, mediante
il coordinamento e la vigilanza del responsabile del servizio finanziario,
nonché dei responsabili dei servizi; ·
la verifica, attraverso il controllo sullo stato
di attuazione di indirizzi ed obiettivi gestionali, dell'efficacia ed
economicità degli organismi gestionali esterni all'ente; ·
la verifica della qualità dei servizi
erogati, sia direttamente, sia mediante organismi gestionali esterni. In parallelo alle suddette due attività di verifica
dell'efficacia degli organismi gestionali esterni all'ente e della qualità
dei servizi erogati - le quali appaiono comunque inquadrarsi nell'alveo dei
controlli gestionali estesi agli enti facenti parte del bilancio consolidato
dell'ente - è stata specificamente introdotta una nuova tipologia di
controllo interno, il controllo sulle società partecipate dagli enti
locali, il quale dovrà essere periodico e prevedere l'analisi degli
scostamenti rispetto agli obiettivi assegnati, anche con riferimento ai
possibili squilibri economico finanziari rilevati per il bilancio dell'ente
locale. Il controllo sulle partecipate riguarda sia aspetti di regolarità
amministrativa e contabile (ricomprendendo anche la verifica dell'andamento
economico finanziario della società al fine di rilevare possibili
ripercussioni sull'ente locale) che aspetti tipici del controllo di gestione
e del controllo strategico. Il sistema di controlli sulle società partecipate, che
deve essere definito secondo l'autonomia organizzativa dell'ente, riguarda
gli enti locali con popolazione superiore a 100.000 abitanti in fase di prima
applicazione, a 50.000 abitanti per il 2014 e a 15.000 abitanti a decorrere
dal 2015. L'introduzione del controllo sulle società partecipate
rappresenta uno degli elementi più innovativi della riforma del sistema dei
controlli, quale momento indispensabile alla governance dell'ente
locale come "gruppo". In merito si sottolinea come negli ultimi anni si sia
registrata una crescente attenzione del legislatore sul tema delle società
controllate dagli enti locali che discende dalla effettiva necessità di
controllare con sempre maggiore attenzione la spesa complessiva delle
amministrazioni locali, posto che non di rado le situazioni di dissesto o
comunque di serio squilibrio economico finanziario dell'ente locale possono
essere connesse a circostanze che vedono coinvolti gli enti partecipati. Altro aspetto importante del controllo sulle società
partecipate è previsto dal nuovo articolo 147-quater del D.Lgs. n.
267/2000 (TUEL), il quale ribadisce l'obbligo di redazione del bilancio
consolidato, già previsto nell'ambito del D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118
in tema di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di
bilancio delle Regioni, degli Enti Locali e dei loro organismi. Per ciò che concerne i controlli pre-esistenti,
quali, in particolare, il controllo sulla regolarità amministrativo
contabile, si osservi, infine, che sono stati implementati e resi più
stringenti dal D.L. n. 174/2012 i casi in cui in cui è obbligatorio
il parere di regolarità contabile del responsabile di ragioneria,
stabilendosi che tale parere debba essere richiesto non solo per le proposte
di delibere sottoposte alla Giunta e al Consiglio che comportino impegno di
spesa o diminuzione di entrata, ma su ogni proposta di
deliberazione che comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente. L'operazione di rafforzamento del sistema dei controlli
interni non poteva, inoltre, non coinvolgere il ruolo svolto dal revisore
contabile dell'ente, in particolare ampliando la gamma degli atti che
necessitano "obbligatoriamente" del parere dell'organo di
revisione. Ai fini della verifica della situazione finanziaria degli
enti locali, si ricorda, inoltre, che il D.Lgs. n. 149/2011 (cosiddetto "premi
e sanzioni", emanato in attuazione della legge n. 42/2009 sul
federalismo fiscale) ha introdotto alcuni specifici strumenti volti a
garantire il coordinamento della finanza pubblica ed in particolare il
principio di trasparenza delle decisioni di entrata e di spesa. In
particolare, il decreto legislativo ha previsto per le province e gli enti
locali, così come per le regioni, l'obbligo di redigere una "relazione
di fine mandato", consistente in un documento sottoscritto dal
presidente della provincia o dal sindaco, certificato dagli organi di
controllo interno dell'ente, e verificato da un apposito Tavolo tecnico
interistituzionale. Il documento costituisce in sostanza uno strumento di
rendicontazione delle principali attività normative e amministrative svolte
durante il mandato, con particolare riferimento al sistema e agli esiti dei
controlli interni, agli eventuali rilievi della Corte dei Conti, alle azioni
intraprese per il rispetto dei saldi di finanza pubblica programmati e lo
stato del percorso di convergenza verso i fabbisogni standard, alla
situazione finanziaria e patrimoniale, anche evidenziando le carenze
riscontrate nella gestione degli enti e società controllate dal comune o
dalla provincia, alle azioni di contenimento della spesa e stato del percorso
di convergenza ai fabbisogni standard, alla quantificazione della misura
dell'indebitamento provinciale o comunale. Esso deve essere pubblicato,
unitamente al rapporto di verifica, sul sito istituzionale della provincia o
del comune. Con il D.L. n. 174/2011, è stato inoltre previsto l'obbligo
per comuni e province di redigere anche una relazione di inizio mandato,
volta a verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e la misura
dell'indebitamento dei medesimi enti. La relazione di inizio mandato,
predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale, è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco entro
il novantesimo giorno dall'inizio del mandato. I controlli esterni sugli enti locali Per quanto concerne i controlli esterni sugli enti
locali, l'articolo 3 del D.L. n. 174/2012 ha potenziato i poteri della
Corte dei conti, già da tempo operanti nell'ordinamento (in particolare
sulla base di quanto disposto dall'articolo 7, comma 7, della legge n. 131
del 2003, dall'articolo 1, commi 166 e seguenti, della legge n. 266 del 2005
e dall'articolo 11 della legge n. 15 del 2009). La funzione di controllo della Corte nei confronti
degli enti locali, ne risulta consistentemente ampliata, e viene ora a
comprendere, anche in corso di esercizio: ·
la regolarità della gestione finanziaria e
degli atti di programmazione; ·
la verifica del funzionamento dei controlli
interni di ciascun ente. A tal fine, il nuovo articolo 148 del D.Lgs. n. 267/2000
- come di recente riformulato dall'articolo 33 del D.L. n. 91/2014 - prevede
che le sezioni regionali della Corte verifichino, con cadenza annuale (e non
più semestrale), tramite l'apposito referto ad esse inviato dall'ente, il
funzionamento dei controlli interni adottati al fine del rispetto delle
regole contabili e del pareggio di bilancio di ciascun ente locale. Per
l'effettuazione dell'attività di verifica annuale le sezioni regionali di
controllo della Corte possono avvalersi anche del Corpo della Guardia di
finanza o dei servizi ispettivi del Dipartimento della Ragioneria Generale
dello Stato previsti dall'articolo 14 della legge di contabilità nazionale.
Si segnala che il citato art. 33 del D.L. n. 91/2014 è intervenuto sulla
materia espungendo dai controlli esterni quelli sulla legittimità e
regolarità delle gestioni. La disposizione non abolisce, tuttavia, il
controllo sugli enti locali che, in virtù di quanto stabilito dall'art. 4,
comma 1, della legge n. 20/1994, spetta alla Corte di conti in quanto
competente al controllo successivo sulla gestione del bilancio e del
patrimonio della pubbliche amministrazioni, compresi gli enti locali e le regioni Alla Corte è affidato, inoltre, un potere
sanzionatorio nei confronti degli amministratori dell'ente locale
responsabili. Il rafforzamento del controllo della Corte dei conti
sulla gestione finanziaria degli enti locali, disciplinato dal nuovo articolo
148-bis del D.Lgs. n. 267/2000, comporta, nello specifico, che le
sezioni regionali di controllo sono tenute ad esaminare i bilanci
preventivi e i rendiconti consuntivi degli enti locali ai fini della
verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità
interno, dell'osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento
dall'articolo 119 della Costituzione nonché della sostenibilità dell' indebitamento
degli enti territoriali, dell'assenza di irregolarità, suscettibili di
pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari
degli enti. L'accertamento, da parte delle competenti sezioni
regionali di controllo della Corte, di squilibri economico-finanziari, della
mancata copertura di spese, della violazione di norme finalizzate a garantire
la regolarità della gestione finanziaria, o del mancato rispetto degli
obiettivi posti con il patto di stabilità interno, ha effetti inibenti
per gli enti locali, i quali sono tenuti a rimuovere le irregolarità e
a ripristinare gli equilibri di bilancio, pena l'impossibilità di dare
attuazione ai programmi di spesa per i quali è stata accertata la non
sostenibilità finanziaria. Si consideri, poi, che, ai sensi del decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 149, ulteriori conseguenze – quali la
declaratoria dello stato di dissesto dell'ente - sono state previste qualora
il controllo della Corte dei conti sulla sana gestione
finanziaria degli enti locali abbia dato esito negativo e gli enti non
abbiano provveduto ad adottare le necessarie misure correttive dalla medesima
Corte indicate. In particolare, si prevede che il dissesto
dell'ente sia disposto da un commissario ad acta nominato dal prefetto
ed il consiglio dell'ente sia sciolto qualora dalle pronunce delle sezioni
regionali emergano comportamenti dell'ente difformi dalla sana gestione
finanziaria ovvero irregolarità contabili o squilibri strutturali del
bilancio tali da provocarne il dissesto, e l'ente perduri nel non adottare le
necessarie misure correttive dalla stessa Corte indicate. I controlli esterni sono esercitati, oltre che
dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, anche dal Ministero
dell'economia e finanze – Ragioneria Generale dello Stato, per tramite
dei Servizi ispettivi di finanza pubblica (SiFiP) - che, in via
generale, ai sensi della disciplina sui poteri di monitoraggio attribuiti
alla RGS dalla legge di contabilità nazionale (articolo 14, legge n.
196/2009), procede in ogni caso ad effettuare verifiche circa gli eventuali
scostamenti dagli obiettivi di finanza pubblica. In particolare, l'articolo 5 del D.Lgs. n. 149/2011, già
sopra più volte citato, consente al Ministero dell'economia e delle finanze -
Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato – di attivare verifiche
sulla regolarità della gestione amministrativo-contabile,
qualora un ente, anche attraverso le rilevazioni SIOPE, evidenzi situazioni
di squilibrio finanziario riferibili ai seguenti indicatori:
ripetuto utilizzo dell'anticipazione di tesoreria; disequilibrio consolidato
della parte corrente del bilancio; anomale modalità di gestione dei servizi
per conto di terzi. Il SiFiP, in tale verifica, come già detto, può essere
anche attivato dalla Corte dei conti. |
L’art. 19 del D.L. n.
95/2012 (conv. L. n. 135/2012) ricomprende tra le funzioni fondamentali dei
comuni quelle relative alla “organizzazione generale dell’amministrazione,
gestione finanziaria e contabile e controllo”.
Rientrano in questa
categoria innanzitutto i servizi direttamente collegati alla segreteria e alla direzione
generale dell’ente, funzioni essenziali che costituiscono il centro
dell’organizzazione e dell’attività dei comuni.
In secondo luogo,
rientrano in questo ambito le funzioni comunali relative alla tenuta degli
archivi, il servizio del cerimoniale, il servizio di provveditorato-economato,
i servizi per la giustizia.
|
Le funzioni di direzione generale e i
servizi di segreteria generale assicurano le funzioni necessarie per
l’attività degli organi istituzionali del comune. Per l’esame delle stesse si
rinvia all’esame delle attribuzioni del direttore generale nei comuni con
popolazione superiore a 100.000 abitanti e del segretario comunale, nei
paragrafi relativi. Le funzioni
esercitate dai servizi di amministrazione generale assicurano i servizi di
assistenza amministrativa ed operativa al sindaco, agli organi elettivi
collegiali, al segretario comunale e, ove istituito, al direttore generale. Concorrono
all’organizzazione del “sistema dei controlli interni”, all’esercizio delle funzioni
del Direttore relative all’unità di controllo strategico, al controllo degli
equilibri finanziari, alla formazione del referto semestrale sulla
regolarità, efficacia ed adeguatezza del sistema dei controlli interni
all’ente ed a ogni altro compito, attività ed intervento richiesto dal
Direttore generale (art. 148 TUEL). Inoltre coadiuvano il Segretario comunale
nell’esercizio delle funzioni allo stesso attribuite dalle leggi, dallo
statuto e dai regolamenti. Rientrano
nell’amministrazione generale, anche le funzioni di segreteria ed
organizzazione per gli organi collegiali: per il proprio funzionamento, il
Consiglio comunale può dotarsi di una struttura apposita, disciplinata dal
relativo regolamento (art. 38, co. 3, TUEL). In tal caso i servizi di
segreteria assicurano il raccordo fra l’ufficio del consiglio, il sindaco, la
giunta e la struttura organizzativa. Inoltre, l’art. 90 TUEL stabilisce che
il regolamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di
uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori,
per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite
dalla legge. Questi uffici di supporto agli organi di direzione politica
possono avvalersi dei servizi di segreteria e amministrazione generale. Nelle funzioni di
amministrazione generale rientra la gestione
degli archivi. Il Testo Unico della documentazione amministrativa (D.P.R.
28 dicembre 2000, n. 445) fa obbligo a tutte le p.a. di istituire un sistema
di gestione informatica per la tenuta e la conservazione dei documenti. Di norma, nei comuni è
istituito un “servizio per la tenuta del protocollo informatico, della
gestione dei flussi documentali e dell’archivio”, come previsto dall’art. 61,
co. 1, del T.U. n. 445. Ad esso è preposto un responsabile del servizio
archivistico (art. 61, co 2, TU). La gestione dei flussi di documenti
comporta: la registrazione di protocollo, obbligatoria ex art. 53 del T.U. n. 445/2000, che certifica l’esistenza di un
documento in un determinato archivio; la classificazione dei documenti; la
costituzione dei fascicoli, delle serie e dei repertori, obbligatoria ai
sensi del T.U. n. 445/2000; l’indicizzazione normalizzata Ogni comune deve
definire con proprio regolamento le modalità per la riunione in unica sede,
nell’ambito del servizio, delle pratiche esaurite. Ai sensi del Codice
dei beni culturali, gli enti locali hanno l’obbligo di conservare i propri archivi
nella loro organicità e di ordinarli; di inventariare i propri archivi storici,
costituiti dai documenti degli affari esauriti da oltre quarant’anni ed
istituiti in sezioni separate. L’art. 42 del Codice
dell’amministrazione digitale (CAD, adottato con D.Lgs. n. 82/2005),
ha stabilito che le pubbliche amministrazioni valutano in termini di rapporto
tra costi e benefici il recupero su supporto informatico dei documenti e
degli atti cartacei dei quali sia obbligatoria o opportuna la conservazione e
provvedono alla predisposizione dei conseguenti piani di sostituzione degli
archivi cartacei con archivi informatici, nel rispetto delle regole tecniche
adottate ai sensi dell’art. 71 dello stesso decreto. Gli archivi degli
enti locali sono parte del progetto nato da un accordo di collaborazione tra
Mibact, Regioni, l’Associazione Nazionale dei Comuni e l’Unione delle
Province, per promuovere e sostenere la conservazione del patrimonio
archivistico nazionale, che si esprime nella promozione e realizzazione del Sistema
archivistico nazionale - SAN. La Direzione
generale degli archivi ha stabilito le “Linee guida per un manuale di gestione dell’archivio dei comuni” ed un nuovo “Piano di classificazione per l’archivio
comunale”. In relazione ai servizi per la giustizia, i comuni
sostengono: a) le spese per i
locali ed i servizi per gli Uffici Giudiziari, poste a loro carico dalla
legge 24 aprile 1941, n. 392., trasferite a carico del bilancio del Ministero
della Giustizia - con effetto dal 1° settembre 2015 - dall’art. 2, comma 202,
della legge di stabilità 2015 (art. 2, commi 526-530, L. 190/2014); b) le spese per il
mantenimento degli uffici del Giudice di Pace, qualora il Comune ne abbia
richiesto ed ottenuto il mantenimento assumendo gli oneri conseguenti, (art.
3, comma 2, D.Lgs. n. 7 settembre 2012, n. 156); c) la tenuta degli
Albi del Giudici Popolari delle Corti di Assise e delle Corti di Assise d’Appello
(legge 10 aprile 1951, n. 287). I due separati elenchi sono formati od
integrati ogni due anni da una Commissione comunale, di nomina consiliare,
composta dal sindaco o da un suo delegato, che la presiede, e da due
consiglieri comunali. |
La legislazione nelle materie relative alla cittadinanza, allo stato
civile ed alle anagrafi è
riservata dalla Costituzione alla competenza
esclusiva dello Stato (art. 117, 2° comma, lett. i) Cost.).
Ferma restando la
competenza legislativa statale, i comuni hanno una competenza gestionale per tali servizi. Infatti,
la legge attribuisce al comune la gestione dei servizi di competenza
statale e, in particolare, dei servizi elettorali, di stato civile, di
anagrafe, di leva militare e di statistica. Le relative funzioni sono
esercitate dal sindaco, quale ufficiale di governo il quale
sovrintende alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione ed agli
adempimenti demandatigli dalle leggi in materia elettorale, di leva militare e
di statistica (artt. 14 e 54 TUEL).
|
Anagrafe Ogni comune aggiorna
costantemente i dati relativi alla popolazione residente attraverso le
iscrizioni, le variazioni e le cancellazioni riguardanti la posizione delle singole
persone, delle famiglie e delle convivenze anagrafiche. L’ordinamento delle
anagrafi della popolazione residente è disciplinato dalla legge 24 dicembre
1954, n. 1228 e dal regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 30 maggio
1989, n. 223. Il Ministero dell’interno vigila sulla corretta attuazione di
tali disposizioni attraverso le Prefetture-Uffici Territoriali del Governo e
l’Istituto nazionale di statistica. Tra le informazioni
anagrafiche raccolte dai comuni rientrano anche quelle relative ai cittadini
stranieri (sia dei Paesi membri dell’Unione europea, sia dei Paesi terzi) e
ai cittadini italiani residenti all’Estero. Per quanto riguarda i
cittadini di Paesi terzi, i dati anagrafi relativi sono raccolti dal comune e
trasmessi alla questura competente per territorio. L’ufficiale di stato
civile effettua le comunicazioni all’ufficio di anagrafe concernenti le
nascite, le morti e le celebrazioni di matrimonio, nonché le sentenze
dell’autorità giudiziaria e gli altri provvedimenti relativi allo stato
civile delle persone. Le dichiarazioni
anagrafiche concernono i seguenti fatti: a) trasferimento di
residenza da altro comune o dall’estero ovvero trasferimento di residenza
all’estero; b) costituzione di
nuova famiglia o di nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella
composizione della famiglia o della convivenza; c) cambiamento di
abitazione; d) cambiamento
dell’intestatario della scheda di famiglia o del responsabile della
convivenza; e) cambiamento della
qualifica professionale; f) cambiamento del
titolo di studio. Inoltre, i comuni, in
conformità a quanto disposto dall’art. 46 del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223,
effettuano l’aggiornamento e la revisione delle anagrafi della popolazione
residente sulla base delle notizie, raccolte con apposito modello in
occasione del censimento generale della popolazione, riguardanti il cognome,
il nome, il sesso, il luogo e la data di nascita, e il comune di residenza
dei soggetti censiti. Fra le funzioni
attribuite al sindaco, quale ufficiale del Governo, è compresa quella di
sovrintendere alla regolare tenuta dell’anagrafe della popolazione. Il sindaco, quale
ufficiale del Governo, è ufficiale dell’anagrafe. Il sindaco dispone affinché
siano assicurate le attrezzature occorrenti per la conservazione e la
sollecita consultazione degli atti anagrafici. Il sindaco quale
ufficiale del Governo, sovrintende alla tenuta del registro di popolazione.
Può delegare e revocare le funzioni di ufficiale di anagrafe al segretario
comunale o ad altri impiegati idonei del comune. Il SAIA (Sistema di
Accesso e di Interscambio Anagrafico) e l’INA (Indice Nazionale delle
Anagrafi), rappresentano i due strumenti su cui si fonda la comunicazione dei
dati anagrafici sul territorio nazionale. L’architettura ha come presupposto
che le banche dati anagrafiche siano delocalizzate nei singoli comuni. Sono i
comuni, infatti, ad avere la titolarità dei singoli archivi anagrafici, a
certificare la correttezza delle informazioni all’esterno e a garantire la
congruità e correttezza delle informazioni con un accurato controllo del
territorio. Il Ministero dell’Interno tramite le locali Prefetture - UTG
garantisce l’uniformità dei comportamenti dei sindaci e loro delegati,
nell’esecuzione delle prescrizioni normative. La finalità del sistema SAIA è
quella di creare l’infrastruttura per smistare in velocità le comunicazioni
anagrafiche agli enti pubblici e concessionari di pubblici servizi che ne hanno
necessità. L’INA è lo strumento attraverso il quale si garantisce all’utente
esterno la facoltà di conoscere il comune competente a certificare le
informazioni relative ad un dato cittadino. (D.L. 28 dicembre 1989, n. 415,
art. 15-ter). Stato
civile L’ordinamento dello
stato civile è disciplinato dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. Ogni comune ha un
ufficio dello stato civile e il sindaco, quale ufficiale del Governo, è
l’ufficiale dello stato civile. Il sindaco può delegare le funzioni di
ufficiale civile. L’ufficiale dello
stato civile esercita le seguenti funzioni: a) forma, archivia,
conserva e aggiorna tutti gli atti concernenti lo stato civile e cura, nelle
forme previste, la trasmissione dei dati al centro nazionale di raccolta; b) trasmette alle
pubbliche amministrazioni che ne fanno richiesta in base alle norme vigenti
gli estratti e i certificati che concernono lo stato civile, in esenzione da
ogni spesa; c) rilascia, nei casi
previsti, gli estratti e i certificati che concernono lo stato civile, nonché
le copie conformi dei documenti depositati presso l’ufficio dello stato
civile; d) verifica, per le
pubbliche amministrazioni che ne fanno richiesta, la veridicità dei dati
contenuti nelle autocertificazioni prodotte dai cittadini in tutti i casi
consentiti dalla legge. L’ufficiale dello stato civile non può ricevere gli
atti nei quali egli, il coniuge, i suoi parenti o affini in linea retta in
qualunque grado, o in linea collaterale fino al secondo grado, intervengono
come dichiaranti. L’ufficiale dello
stato civile è tenuto ad uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite
dal Ministero dell’Interno. La vigilanza sugli uffici dello stato civile
spetta al Prefetto. Cittadinanza L’acquisizione della
cittadinanza italiana da parte del figlio di un genitore italiano (padre o
madre indifferentemente) avviene automaticamente e non comporta alcun
adempimento particolare a carico dei comuni. Diversi compiti, invece sono
affidati all’ufficiale dello stato civile per quanto riguarda l’acquisto
della cittadinanza da parte di cittadini stranieri. Il figlio minore
privo della cittadinanza, sia nel caso di riconoscimento che di dichiarazione
giudiziale di filiazione, acquista la cittadinanza dei genitori in modo
automatico, con decorrenza dalla nascita e tale attestazione viene trascritta
nei registri di cittadinanza ed annotata a margine dell’atto di nascita. Se
il figlio è maggiorenne può rendere una dichiarazione di elezione della
cittadinanza italiana di fronte all’ufficiale dello stato civile del comune
di residenza. Anche la perdita e la
rinuncia della cittadinanza è trascritta nei registri di cittadinanza. Il soggetto che perde
la cittadinanza o vi rinuncia deve essere in possesso di altra cittadinanza.
L’atto di accertamento è rilasciato dal sindaco. |
|
Il D.L. n. 179 del
2012 ha istituito l’ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente),
quale base di dati di interesse nazionale, con l’intento di costituire una
banca dati al servizio di tutte le pubbliche amministrazioni e dei gestori di
pubblico servizio che potranno accedervi, attraverso una rete telematica
unica, per l’esercizio delle proprie funzioni istituzionali. L’ANPR è
destinato a sostituire l’INA. Con il DPCM 23 agosto 2013, n. 109 e il DPCM 10
novembre 2014, n. 194 sono state adottate disposizioni di attuazione e di
funzionamento dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente. Infine,
con il DPR 17 luglio 2015, n. 126 è stato adeguato il regolamento anagrafico
della popolazione residente alla disciplina istitutiva dell'ANPR. Il D.L. 9 febbraio
2012, n. 5 (art. 5) ha introdotto il c.d. cambio di residenza in tempo reale,
che semplifica i compiti dell’ufficiale di anagrafe. Con D.P.R. n. 154 del 30
luglio 2012 è stato emanato il relativo regolamento di attuazione. |
Ferma restando la
competenza legislativa statale in
materia di elezioni (ai sensi art. 117, secondo comma, lett. p) ed f) Cost.), i comuni hanno una competenza gestionale dei servizi amministrativi elettorali.
Le relative funzioni
sono esercitate dal sindaco, quale ufficiale di governo il quale
sovrintende agli adempimenti demandatigli dalle leggi in materia elettorale,
così come alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione ed agli
adempimenti in materia di leva militare e di statistica (artt. 14 e 54 TUEL).
Il servizio elettorale,
pertanto, è una funzione di competenza dello Stato demandata ai comuni, ed
esercitata dal sindaco coadiuvato dal personale dell'Ufficio elettorale.
Spettano al sindaco importanti funzioni nel
procedimento elettorale preparatorio, ad esempio in occasione delle elezioni
politiche i sindaci di tutti i comuni danno comunicazione del decreto di
convocazione dei comizi elettorali (pubblicato nella Gazzetta ufficiale) con speciali avvisi, mentre per le elezioni
comunali, i sindaci sono tenuti a pubblicare con appositi manifesti
l’indicazione della data delle elezioni.
Presso ogni comune è
istituita la Commissione elettorale
comunale per gli adempimenti relativi alla tenuta ed aggiornamento
dell’albo delle persone idonee all’ufficio di scrutatore di seggio elettorale ed alla nomina degli scrutatori
nell’ambito dei procedimenti relativi alle consultazioni elettorali e
referendarie.
La commissione è
composta dal sindaco e da un numero
variabile di consiglieri, a seconda della dimensione demografica del comune,
eletti dal consiglio comunale.
Il compito principale dell'Ufficio elettorale consiste nella tenuta delle liste elettorali attraverso
periodiche revisioni cancellando o iscrivendo elettori che emigrano, immigrano,
perdono il diritto elettorale, riacquistano la capacità elettorale,
acquisiscono la cittadinanza, ecc.
L'Ufficio elettorale,
inoltre, provvede per la parte di competenza dell'amministrazione comunale,
all'organizzazione dei servizi necessari
per lo svolgimento di tutte le consultazioni elettorali.
|
L’Ufficio elettorale
è tenuto ad iscrivere d’ufficio nelle liste elettorali del comune i cittadini
italiani, aventi la maggiore età, che risultino compresi nell’anagrafe della
popolazione residente nel comune o nell’anagrafe degli italiani residenti
all’estero (A.I.R.E.), e che siano in possesso della capacità elettorale. Le liste elettorali
si distinguono in generali e sezionali; le prime comprendono tutto il corpo
elettorale, le seconde i cittadini assegnati a ciascuna delle sezioni in cui
è ripartito il comune. L’ufficio di anagrafe
e quello di stato civile sono tenuti a comunicare le variazioni che implicano
la modifica delle liste elettorali (come i cambiamenti di indirizzo). L’aggiornamento delle
liste viene effettuato a mezzo di due revisioni semestrali con le quali
d’ufficio si provvede all’iscrizione anticipata dei cittadini che compiono il
18° anno di età nel semestre successivo a quello in cui ha luogo la
revisione. Le variazioni
apportate alle liste hanno effetto, rispettivamente, il 1° gennaio ed il 1°
luglio di ogni anno. Le liste elettorali
generali e sezionali, rettificate a seguito di ciascuna revisione semestrale,
debbono essere aggiornate con le variazioni dipendenti dalle cancellazioni (per
morte, perdita della cittadinanza italiana ecc.) e dalle nuove scrizioni
derivanti dall’acquisto del diritto elettorale per qualsiasi motivo diverso
dal compimento del 18° anno di età (c.d. “revisione dinamica” delle liste
elettorali). Le revisioni dinamiche sono effettuate almeno ogni sei mesi e
precisamente nei mesi di gennaio e luglio di ciascun anno, in due tornate, la
prima entro la prima decade dei mesi predetti, la seconda entro la terza
decade. Tra gli altri compiti
dei comuni in materia elettorale si ricordano: ·
il rilascio della tessera elettorale; ·
la ripartizione del comune in sezioni elettorali e l’assegnazione
degli iscritti alle singole sezioni; ·
la tenuta dell’Albo delle persone idonee all’ufficio di
scrutatore di seggio elettorale comprendente i nominativi degli elettori che
presentano apposita domanda; ·
la nomina degli scrutatori per ogni sezione elettorale,
scegliendoli tra i nominativi compresi nell’albo degli scrutatori. In materia di
propaganda elettorale, i comuni sono tenuti ad allestire appositi spazi per
l’affissione dei manifesti elettorali e alla rimozione della propaganda
abusiva nelle forme di scritti o affissioni murali e di volantinaggio. Inoltre, i consigli
comunali e provinciali possono prevedere nei loro regolamenti le forme per
l’utilizzazione non onerosa di strutture comunali e provinciali idonee ad
ospitare manifestazioni ed iniziative dei partiti e movimenti politici. |
|
La legge n. 147/2013,
ai commi 398 e seguenti, ha introdotto una serie di misure per razionalizzare
i costi relativi al procedimento elettorale. In conseguenza delle dette
misure: a) con decreto
interministeriale emanato a scadenza triennale sarà determinata la misura
massima del finanziamento delle spese per lo svolgimento delle consultazioni,
comprese le somme da rimborsare ai comuni per l’organizzazione tecnica e
l’attuazione delle elezioni i cui oneri sono a carico dello Stato a termini
della legge n. 136/1976, art. 17, e dell’art. 55 della legge n. 18/1979; b) in caso di
elezioni congiunte l’importo massimo da rimborsare a ciascun comune, fatta
eccezione per il trattamento economico dei componenti dei seggi, è stabilito
con D.M., nei limiti delle assegnazioni di bilancio con distinti parametri
per sezione elettorale e per lettore, calcolati rispettivamente nella misura
del 40 e del 60 per cento della totale da ripartire. Per i comuni che hanno
fino a tre sezioni elettorali le quote sono maggiorate del 40%; c) l’autorizzazione
ad effettuare lavoro straordinario di cui all’art. 15 del D.L. n. 8/1993 è
limitata al periodo decorrente dal 55° giorno precedente la data delle
consultazioni al 5° giorno successivo alla stessa data; il numero di ore di
lavoro straordinario è ridotto a 40 come limite di spesa mensile e 60 come
numero di ore autorizzabili a persona/mese. La relativa autorizzazione è
fornita con determina preventiva la cui mancata adozione impedisce
l’erogazione del compenso; d) viene abrogata la
disposizione dell’art. 1, c. 4, legge n. 43/1995 che, ai fini del ricevimento
delle sottoscrizioni per la presentazione delle liste regionali, prevedeva
l’apertura degli uffici elettorali dei comuni della regione ove si svolgono
le elezioni, nei venti giorni precedenti la presentazione delle liste
medesime, per almeno 10 ore dal lunedì al venerdì e per almeno 8 ore il
sabato e la domenica; e) in occasione di
ogni consultazione, per il rilascio delle tessere elettorali non consegnate,
per la consegna dei duplicati e per il rinnovo, l’ufficio elettorale resta
aperto nei due giorni precedenti la votazione dalle ore 9.00 alle ore 18.00 e
nel giorno della votazione per tutta la durata delle operazioni di voto. |
Gli enti locali
rientrano nel novero delle “amministrazioni aggiudicatrici”, che devono applicare la normativa vigente in materia
di appalti pubblici di servizi e di forniture.
Recenti disposizioni
hanno regolato nuove modalità di acquisizione dei beni e servizi per i comuni
non capoluogo di provincia al fine di favorire forme di aggregazione.
|
Il decreto legislativo 18 aprile 2016, n.
50, reca la nuova disciplina in
materia di contratti pubblici. Il nuovo Codice infatti ha abrogato il
Codice dei contratti pubblici di lavori, forniture e servizi di cui al
decreto legislativo n. 163 del 2006 e il Regolamento attuativo ed esecutivo
del Codice di cui al D.P.R. n. 207 del 2010 dettando una disciplina
transitoria nelle more dell’adozione dei provvedimenti attuativi. Le definizioni di
appalti pubblici di forniture e servizi sono riportate nei commi 9 e 10
dell’articolo 3 del Codice. Riguardo al profilo
soggettivo, l’articolo 3 del Codice individua alcune definizioni rilevanti ai
fini dell’applicazione della disciplina sugli appalti: “amministrazioni
aggiudicatrici”, “stazioni appaltanti”, “soggetti aggiudicatori”. Gli enti locali sono inclusi nel novero delle
amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lettera a) del comma 1
dell’articolo 3 del nuovo Codice considerato che tale disposizione fa
riferimento agli “enti pubblici territoriali”. Si ricorda, inoltre, che
l'espressione «stazione appaltante» comprende le amministrazioni
aggiudicatrici (lettera o) del comma 1 dell’articolo 3) . Agli appalti di
servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea si
applicano le norme dell’articolo 36 del nuovo Codice. Le norme riguardanti
i settori speciali sono destinate ai soggetti operanti in tali settori tra i
quali, tra l’altro, gli “enti aggiudicatori” che, in base a quanto disposto
dalla lettera e) del comma 1 dell’articolo 3, comprendono le amministrazioni
aggiudicatrici. Un’altra definizione
rilevante, sotto il profilo soggettivo, è quella di “centrale di committenza” che, ai sensi della lettera i) del
comma 1 dell’articolo 3 del Codice, è un'amministrazione aggiudicatrice o un
ente aggiudicatore che forniscono attività di centralizzazione delle
committenze e, se del caso, attività di committenze ausiliarie. |
|
L’articolo 9, comma
4, del D.L. 66/2014 ha dapprima sostituito il comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice dei contratti pubblici di cui al
d.lgs. 163/2006, introducendo una disciplina per l’acquisizione di lavori,
servizi e forniture da parte dei comuni non capoluogo di provincia. Tale disciplina è
stata, da ultimo, abrogata dalla lettera oo) del comma 1 dell’articolo 217
del nuovo Codice dei contratti
pubblici di cui al citato decreto legislativo n. 50 del 2016. L’articolo
37 di tale decreto ha, infatti, dettato nuove disposizioni per l’aggregazione e la centralizzazione delle committenze
all’articolo 37, che prevede modalità
di acquisizione differenziate in relazione alle classi di importo e al
possesso o meno della qualificazione delle stazioni appaltanti. Se la stazione
appaltante è un comune non capoluogo di provincia (fermo restando quanto
previsto al comma 1 e al primo periodo del comma 2), procede secondo una
delle seguenti modalità: - ricorrendo a una centrale di committenza
o a soggetti aggregatori qualificati; - mediante unioni di comuni costituite e
qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o
consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste
dall'ordinamento; - ricorrendo alla
stazione unica appaltante costituita presso gli enti di area vasta ai sensi
della legge 56/2014. Si segnala, infine,
che il comma 499, lettera d), della legge
di stabilità 2016 (legge n. 208 del 2015) ha modificato l’articolo 9,
comma 2 e comma 3 del citato decreto-legge n. 66/2014, relativo
all’individuazione delle categorie di beni e servizi e delle soglie oltre le
quali le amministrazioni statali centrali e periferiche, le regioni e gli
enti regionali nonché gli enti del SSN ricorrono obbligatoriamente alla Consip o agli altri soggetti
aggregatori, inserendo tra queste amministrazioni anche gli enti locali (i comuni, le province, le città metropolitane,
le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni). |
L’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito
comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale, rientra tra le
funzioni fondamentali espressamente attribuite dalla legge ai comuni ed alle
città metropolitane.
Gli enti locali hanno
l’obbligo di partecipare agli enti di
governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali o omogenei ai quali è
riservata in via esclusiva l’organizzazione del servizio, la scelta della forma
di gestione ed il relativo affidamento, il controllo della gestione, la
determinazione delle tariffe all’utenza. La scelta delle modalità di
affidamento del servizio compete all'ente affidante sulla base di una relazione
in cui viene dato conto, in particolare, delle ragioni e della sussistenza dei
requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento
prescelta.
In base a quanto
stabilito dalla legge di stabilità 2015 (art. 1, co. 609, L. 190/2014), in caso
di inottemperanza all'obbligo per gli enti locali di partecipare agli enti di
governo degli ambiti o ai bacini territoriali ottimali o omogenei entro il 1°
marzo 2015, l'esercizio dei relativi poteri sostituitivi è attribuito al
Presidente della Regione. La predisposizione della relazione richiesta dalla legislazione vigente per l'affidamento del servizio, in cui è ricompreso anche un piano
economico finanziario, viene così posta in capo ai suddetti enti di governo.
E’ inoltre operante l'Osservatorio per i servizi pubblici locali,
istituito con la finalità di garantire
un’informazione completa e aggiornata e di definire linee guida sull’organizzazione
e sulla gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, con
particolare riferimento alla gestione dei rifiuti urbani, al servizio idrico
integrato e al trasporto pubblico locale
|
Nell’ambito delle funzioni
fondamentali dei comuni (individuate dall’art. 14, co. 27 del DL 78/2010,
come modificato, in particolare, dal DL 95/2012) è espressamente ricompresa
l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito
comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale (lett. b)). Al contempo, nel
quadro delle funzioni fondamentali proprie delle città metropolitane, in base
alla legge 56/2014, rientra la strutturazione di sistemi coordinati di
gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse
generale di ambito metropolitano; la città metropolitana può, previa intesa
con i comuni interessati, predisporre documenti di gara, svolgere la funzione
di stazione appaltante, monitorare i contratti di servizio ed organizzare
concorsi e procedure selettive. Gli enti locali hanno
l’obbligo – in base alla normativa più recente - di partecipare agli enti di
governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali o omogenei. Agli enti di
governo degli ambiti o bacini territoriali la legge riserva in via esclusiva
le seguenti funzioni: organizzazione del servizio; scelta della forma di
gestione; affidamento della gestione; controllo della gestione;
determinazione delle tariffe all'utenza (art. 3-bis, comma 1-bis, del
D.L. n. 138/2011, introdotto dall'art. 34 del D.L. n. 179/2012 convertito, con modificazioni, dalla L.
221/2012). La scelta delle modalità di affidamento
del servizio compete all'ente affidante sulla base di una relazione (art. 34,
co. 20-25, del D.L. n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L.
n. 221/2012), nel presupposto che la discrezionalità in merito sia esercitata
nel rispetto dei principi europei; di concorrenza, di libertà di stabilimento
e di libera prestazione dei servizi. La relazione,
infatti, da rendere pubblica sul sito internet
dell'ente stesso, deve dare conto delle ragioni e della sussistenza dei
requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento
prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio
pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche (se
previste). Finalità dell'obbligo di pubblicare la relazione sono: il rispetto
della disciplina europea; la parità tra gli operatori; l'economicità della
gestione; un'adeguata informazione della collettività di riferimento. Presso il Ministero
dello sviluppo economico è stato istituito l'Osservatorio per i servizi pubblici locali, con i compiti di: monitoraggio, attraverso la raccolta,
delle relazioni che gli enti affidanti servizi pubblici locali di rilevanza
economica sono tenuti a redigere per motivare le modalità di affidamento
prescelte; la definizione di schemi di riferimento e linee guida di supporto
agli enti territoriali per favorire la corretta attuazione della normativa
vigente; la costruzione di una banca dati recante la raccolta della normativa
e della giurisprudenza europee, nazionali e regionali; la predisposizione del
Rapporto annuale sullo stato e sull'evoluzione economica, normativa,
organizzativa e gestionale dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza
economica, che deve essere presentato al Parlamento e alla Conferenza
unificata (decreto ministeriale 8 agosto 2014). L’Osservatorio opera con
particolare riferimento alla gestione dei rifiuti urbani, al servizio idrico
integrato e al trasporto pubblico locale. Si ricorda che sulla
materia dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento ai servizi
di “rilevanza economica” ed alle relative modalità di affidamento della
gestione, si sono succedute nell’arco dell’ultimo decennio diverse discipline
normative, nel cui ambito si sono inserite sia un'abrogazione referendaria sia una pronuncia di illegittimità
costituzionale. In particolare, con
il referendum che si è svolto il 12
e 13 giugno 2011 è stato abrogato l'art. 23-bis del D.L. n. 112/2008 che
aveva posto il principio della gara come regola generale degli affidamenti di
servizi; successivamente la sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012 ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni
adottate, dopo il referendum del
giugno 2011, con l’art. 4 del D.L. n. 138/2011 e delle successive
modificazioni, in quanto dirette sostanzialmente a reintrodurre la disciplina
abrogata dalla volontà popolare col suddetto referendum. |
|
La legge di riforma
della pubblica amministrazione (legge 124/2015, art. 19) reca una delega
legislativa al Governo per il riordino della disciplina dei servizi pubblici
locali d'interesse economico generale, da adottare entro il 28 agosto 2016
(entro il 28 agosto 2017 possono essere adottati ulteriori decreti
integrativi e correttivi) sulla base dei princìpi e criteri generali per la
semplificazione normativa indicati all'art. 16 e di quelli dettati
dall’articolo 19 della medesima legge 124/2015. I principi e criteri
direttivi di cui all’art. 16 della legge 124/2015 (deleghe per la
semplificazione normativa) prevedono: l’elaborazione di un testo unico delle
disposizioni in ciascuna materia, con le modifiche strettamente necessarie
per il coordinamento delle disposizioni stesse, salvo quanto previsto nelle
lettere successive; coordinamento formale e sostanziale del testo delle
disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente
necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della
normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo;
risoluzione delle antinomie in base ai princìpi dell'ordinamento e alle
discipline generali regolatrici della materia; indicazione esplicita delle
norme abrogate, fatta salva l'applicazione dell'articolo 15 delle
disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile; aggiornamento
delle procedure, prevedendo, in coerenza con quanto previsto dai decreti
legislativi di cui all'articolo 1, la più estesa e ottimale utilizzazione
delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, anche nei rapporti
con i destinatari dell'azione amministrativa. I principi e criteri
direttivi specifici, stabiliti dall’articolo dall’art. 19 della legge
124/2015 prevedono: l’attribuzione attribuita ai comuni ed alle città
metropolitane, quale funzione fondamentale, dell'individuazione delle
"attività di interesse generale"; la soppressione, previa
ricognizione, dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai princìpi
generali in materia di concorrenza “e comunque non indispensabili per
assicurare la qualità e l'efficienza del servizio”; l’individuazione della
disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione dei servizi di
interesse economico generale di ambito locale definendo altresì i criteri per
l'attribuzione di diritti speciali o esclusivi ed assicurando il rispetto dei
principi di adeguatezza, sussidiarietà e proporzionalità nonché la conformità
alle direttive europee; la risoluzione delle antinomie normative in base ai
principi del diritto dell'Unione europea, tenendo conto dell'esito del
referendum abrogativo del 2011, con particolare riferimento alle società in
partecipazione pubblica operanti nei servizi idrici; la definizione dei criteri
per l'organizzazione territoriale ottimale dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica, fermo restando il rinvio alle normative di settore e all’armonizzazione
delle stesse; l'individuazione delle modalità di gestione del servizio
pubblico e di conferimento della gestione, anche nei casi in cui non
sussistano i presupposti della concorrenza nel mercato; l'individuazione di
criteri per la definizione dei regimi tariffari che tengano conto della
produttività al fine di “ridurre l'aggravio sui cittadini e sulle imprese”
nonché la definizione delle modalità di tutela degli utenti, l'individuazione
di strumenti di tutela non giurisdizionale degli utenti dei servizi nonché
l’introduzione e il potenziamento di forme di consultazione dei cittadini e
di partecipazione diretta alla formulazione di direttive alle amministrazioni
pubbliche e alle società di servizi sulla qualità e sui costi degli stessi. Il riordino deve
prevedere inoltre: la revisione delle discipline settoriali ai fini del
coordinamento con la disciplina generale in materia di modalità di
affidamento dei servizi; la distinzione netta tra le funzioni di regolazione
e controllo e quelle di gestione dei servizi, anche modificando la disciplina
sulle incompatibilità o inconferibilità di incarichi o cariche; la revisione
della disciplina dei regimi di proprietà e gestione delle reti, degli
impianti e delle altre dotazioni, nonché della disciplina relativa alla
cessione di beni in caso di subentro nel rispetto dei principi di tutela e
valorizzazione della proprietà pubblica, di efficienza, di promozione della
concorrenza, di contenimento dei costi di gestione, di semplificazione;
l’individuazione dei poteri di regolazione e controllo da attribuire ai
diversi livelli di governo e alle autorità indipendenti al fine di assicurare
la trasparenza nella gestione e nell’erogazione dei servizi, l’eliminazione
degli sprechi con l’obiettivo di un continuo contenimento dei costi
aumentando nel contempo gli standard
qualitativi dei servizi; la promozione di strumenti per supportare gli enti
proprietari nelle attività previste dalla legge, per favorire investimenti
nel settore dei servizi pubblici locali e per agevolare i processi di
razionalizzazione, riduzione e miglioramento delle aziende che operano nel
settore; l’armonizzazione, con la disciplina generale delle disposizioni
speciali vigenti nei servizi pubblici locali relative alla disciplina
giuridica dei rapporti di lavoro; gli strumenti per la trasparenza e la
pubblicizzazione dei contratti di servizio (relativi a servizi pubblici
locali di interesse economico generale) da parte degli enti affidanti anche
attraverso la definizione di “contratti di servizio tipo” per ciascun
servizio pubblico locale di interesse economico generale. Inoltre, si dovrà
provvedere alla definizione di strumenti di rilevazione, anche attraverso
banche dati nazionali già costituite, dei dati economici e industriali, degli
obblighi di servizio pubblico imposti e degli standard di qualità, nel rispetto dei princìpi dettati dalla
normativa nazionale in materia di trasparenza. La nuova disciplina
dovrà infine stabilire termini e modalità di adeguamento alla stessa degli
attuali regimi e comprendere anche il sistema delle sanzioni e dei poteri
sostitutivi. |
Il decreto legislativo n. 422/1997 ha
riconosciuto la competenza regionale sul trasporto pubblico locale già prima
della riforma costituzionale del 2001, che prevede la competenza residuale
regionale. Sulla materia incide peraltro il principio della competenza
esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza (art. 117, secondo
comma, lettera e).
Le funzioni in materia di trasporti sono
riconosciute dall’articolo 3 del decreto legislativo n. 216/2010, in coerenza
con l’articolo 21 della legge n. 42/2009 (legge delega federalismo fiscale),
tra le funzioni fondamentali degli enti locali. Anche la legge n. 56/2014 di
riforma delle province e delle città metropolitane ha riconosciuto le funzioni
in materia di trasporti tra le funzioni fondamentali di tali province.
Per gli enti locali,
conseguentemente, il trasporto pubblico locale, in quanto funzione fondamentale,
è finanziato con integrale copertura del fabbisogno standard.
|
L'impianto normativo
in materia di trasporto pubblico locale, sia con riferimento alle modalità di
assegnazione dei servizi di trasporto pubblico locale sia con riferimento al
finanziamento, risulta piuttosto complesso. Occorre
preliminarmente segnalare che tale assetto normativo sarà profondamente
inciso a seguito dell’esercizio della delega legislativa conferita ai sensi
dell’articolo 16 e 19 della legge n. 124 del 2015 e, in particolare dallo
schema di decreto legislativo recante il Testo unico sui servizi pubblici
locali di interesse economico generale, approvato in via preliminare dal
Consiglio dei Ministri nella seduta del 20 gennaio 2016. Per quanto riguarda l’assegnazione dei servizi di trasporto
pubblico locale, l'articolo 18 del decreto legislativo n. 422/1997 ha
stabilito originariamente il principio dell'obbligo di affidamento dei
servizi con procedure concorsuali, poi attenuato dall'articolo 61 della legge
n. 99/2009 attraverso la facoltà, concessa alle autorità competenti, di aggiudicare direttamente i contratti di
servizio, anche in deroga alla disciplina di settore, attraverso un
richiamo a specifiche previsioni del regolamento (CE) n. 1370/2007 (cfr.
anche la scheda “Servizi pubblici
locali”). Lo schema di decreto legislativo recante il Testo unico sui
servizi pubblici locali di interesse economico generale, sopra ricordato,
contiene una disciplina generale
in tema di affidamento dei servizi pubblici locali di interesse economico
generale applicabile anche all’affidamento
dei servizi di trasporto pubblico locale (ai sensi dell’articolo 3 del
citato schema). Le modalità di affidamento secondo le citate disposizioni
sono: procedura ad evidenza pubblica, affidamento a società mista nella quale
il socio privato è scelto mediante procedure ad evidenza pubblica, gestione
diretta o gestione in economia o mediante azienda speciale. Tuttavia si
continua a prevedere la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto nei
casi previsti dal regolamento (UE) n.1370/2007 (art. 22, comma 12). In materia di affidamento si ricordano inoltre le
seguenti disposizioni: ·
l'articolo 4-bis del decreto-legge n. 78/2009 ha
stabilito che, ove l'ente locale scelga l'affidamento diretto, debba essere
messo a gara almeno il 10 per cento dei servizi oggetto dell'affidamento a
soggetti diversi da quelli sui quali esercitano il controllo analogo; Lo schema di decreto
legislativo prevede la progressiva cessazione degli affidamenti diretti con
scadenze differenziate (art. 7, comma 6). ·
l'articolo 3-bis del decreto-legge n. 138/2011 ha
rimesso alle regioni e alle province autonome la definizione, entro il 30
giugno 2012, del perimetro degli ambiti o bacini
territoriali ottimali e omogenei tali
da massimizzare l'efficienza dei servizi pubblici locali (termine prorogato
al 31 dicembre 2014 dall’articolo 13 del decreto-legge n. 150/2013) La legge
di stabilità 2015 (art. 1, co. 609, L n. 190/2014 ha fissato l’obbligo degli enti
locali di partecipare agli enti di governo degli ambiti o ai bacini
territoriali ottimali entro il 1° marzo 2015. Lo schema di decreto
legislativo prevede che sia rimessa alle regioni, sentiti gli enti locali, la
definizione dei bacini di mobilità per i trasporti pubblici regionali e
locali precisando che i medesimi comprendono un’utenza minima di 350.000
abitanti. Tale utenza può essere inferiore nel caso in cui il bacino coincida
col territorio di un ente di area vasta o una città metropolitana.
L’affidamento dei servizi avviene di regola in più lotti (art. 14). ·
l'articolo 34 del decreto-legge n. 179/2012 ha previsto
l'obbligo per gli affidamenti in essere di adeguarsi ai requisiti previsti
dalla normativa europea (si veda in proposito il paragrafo sui Servizi pubblici locali) entro il
termine del 31 dicembre 2013 (l'articolo 13 del decreto-legge n. 150/2013 ha
prorogato il termine al 31 dicembre 2014). ·
il medesimo articolo 34 ha stabilito, per tutti i servizi
pubblici locali di rilevanza economica, a prescindere dalle modalità di
affidamento, che lo stesso sia effettuato comunque sulla base di un'apposita
relazione, pubblicata sul sito Internet dell'Ente affidante che dia conto
delle regioni per la forma di affidamento prescelta; Lo schema di decreto
legislativo prevede che la scelta della modalità di gestione del servizio sia
effettuata sulla base di una delibera che comunque deve indicare le ragioni
(e comunque la sussistenza dei requisiti previsti dalla normativa dell’unione
europea) per le quali una determinata forma di gestione è stata prescelta
(art. 7 commi 2 – 4). ·
il comma 556 dell'articolo 1 della legge di stabilità
2014 (legge n. 147/2013) ha stabilito che le società che, in Italia o
all'estero, sono destinatarie di affidamenti non conformi alla disciplina
dell'Unione europea in materia (che tra le altre cose indicano anche le
condizioni nel rispetto delle quali l'affidamento diretto risulta possibile)
e la cui durata ecceda il limite del 3 dicembre 2019, non possono partecipare
ad alcuna procedura per l'affidamento dei servizi, anche se già avviata.
L'esclusione non si applica nei confronti delle imprese affidatarie del
servizio oggetto di procedura concorsuale. |
|
Con riferimento al finanziamento del settore,
il decreto legislativo n. 422/1997, pur attribuendo la competenza in materia
alle regioni, non ha riconosciuto agli enti incaricati del servizio autonomia
finanziaria. Il settore è stato così per un lungo periodo sostenuto da
finanziamenti statali. Da ultimo, al finanziamento del settore provvede il Fondo
nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del
trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle regioni a statuto
ordinario, istituito dall'articolo 1, comma 301, della legge n. 228/2012
(legge di stabilità 2013) ed alimentato da una quota di compartecipazione al
gettito derivante dalle accise sul gasolio per autotrazione e sulla benzina.
I criteri di ripartizione del Fondo, che ammonta per il 2015 a circa 4.925
milioni di euro, sono stati definiti con DPCM 11 marzo 2013, poi modificato
dal DPCM 7 dicembre 2015. La sentenza n.
273/2013 della Corte costituzionale ha riconosciuto la costituzionalità del
meccanismo in quanto, stante la perdurante in attuazione dell’art. 119 della
Costituzione per la mancata individuazione dei costi standard, l'intervento dello Stato è ritenuto ammissibile nei casi in
cui risponda all'esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei
diritti tutelati dalla Costituzione. Lo schema di decreto
legislativo prevede una modifica delle modalità di ripartizione del citato
Fondo nazionale diretta a premiare l’affidamento dei servizi con procedure di
evidenza pubblica e l’efficienza del servizio (art. 23). Lo schema di decreto legislativo recante il Testo unico sui
servizi pubblici locali di interesse economico generale prevede inoltre
specifiche disposizioni relative alla tutela dell’utenza (art. 27) e a
specifici obblighi e disposizioni concernenti il trasporto pubblico locale
(art. 22). La IX Commissione Trasporti
della Camera ha deliberato, il 19 giugno 2013, un'indagine conoscitiva sul trasporto pubblico locale, conclusa
nella seduta dell'8 aprile 2014 con l'approvazione del documento conclusivo,
che si sofferma sull'esigenza di incrementare le risorse pubbliche a
disposizione del settore; di attuare il meccanismo dei costi standard con
adeguate procedure di monitoraggio e previsione di poteri sostitutivi nei
confronti delle amministrazioni che non garantiscano l'esercizio delle
attività in condizioni di equilibrio economico; di individuare ambiti
territoriali adeguati per l'espletamento del servizio e di prevedere una
complessiva politica di mobilità sostenibile, anche attraverso l'utilizzo dei
sistemi di trasporto intelligenti. L'Autorità di
regolazione dei trasporti ha definito un nuovo schema di regolazione per il
trasporto pubblico locale, con delibera n. 49/2015 del 17 giugno 2015, al
fine di fornire un sistema di regole per accrescere la trasparenza
dell'intervento pubblico, promuovere l'efficienza dei gestori, gli
investimenti e la qualità dei servizi per il settore del TPL. Lo schema di
regolazione riguarda le misure per la redazione dei bandi e delle convenzioni
relativi alle gare per l'assegnazione in esclusiva dei servizi di trasporto
pubblico locale passeggeri e la definizione dei criteri per la nomina delle
commissioni aggiudicatrici. La medesima autorità
ha altresì avviato, con la delibera n. 54 del 2015 il procedimento per
stabilire le condizioni minime di qualità dei servizi di trasporto passeggeri
per ferrovia, nazionali e locali, connotati da oneri di servizio pubblico. La
successiva delibera n. 28-bis/2016 proroga il termine di conclusione del
procedimento al 30 settembre 2016, anche in considerazione delle novità
normative contenute nello schema di decreto legislativo, recante “Testo unico
sui servizi locali di interesse economico generale” che, come sopra
ricordato, presenta disposizioni significative in materia di trasporto
pubblico locale e che conferisce ulteriori compiti all’Autorità di
regolazione dei trasporti. |
L’attività di distribuzione dell’energia elettrica è svolta in regime di concessione rilasciata dal Ministro dello sviluppo economico. Per ogni ambito comunale può essere rilasciata una sola concessione di distribuzione. La gara per l’affidamento del servizio dovrà essere bandita entro il 2025.
L’attività di distribuzione del gas naturale è un servizio pubblico svolto in regime di monopolio naturale, da affidare esclusivamente mediante gara. Le gare dovranno essere effettuate per ambiti territoriali minimi (ATEM) definiti dal Ministero dello sviluppo economico e comprendenti, di solito, una pluralità di comuni. Le date limite stabilite dal Ministero sono state più volte prorogate, da ultimo con il D.L. n. 210/2015 e sono differenziate per raggruppamenti di ambiti.
|
Il servizio di distribuzione
di energia elettrica consiste nel trasporto e nella trasformazione di
energia elettrica su reti di distribuzione a media e bassa tensione per la
consegna ai clienti finali ossia alle persone fisiche o giuridiche che
acquistano energia elettrica esclusivamente per uso proprio (art. 2, c. 2,
nn. 14 e 5, D.Lgs. n. 79/1999). L’attività di distribuzione dell’energia elettrica è
svolta in regime di concessione rilasciata dal Ministro dello sviluppo
economico (già Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato).
Per ogni ambito comunale può essere rilasciata una sola concessione di
distribuzione (art. 1, c. 1 e art. 9, c. 3, D.Lgs. n. 79/1999). La gara per l’affidamento del servizio predetto - indetta
“nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria in materia di appalti
pubblici” (art. 9, c. 2, D.Lgs. 79/1999) - va bandita non oltre il
quinquennio precedente la scadenza del periodo transitorio e, quindi, non
oltre il 31 dicembre 2025. Alle imprese distributrici operanti al 1 aprile
1999 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 79/1999) è stato, infatti,
attribuito il diritto di continuare a svolgere il servizio di distribuzione sulla
base di concessioni rilasciate dal Ministro dell’industria, del commercio e
dell’artigianato (ora dello sviluppo economico) e “aventi scadenza il 31
dicembre 2030” (art. 9, c. 1, D.Lgs. cit.). L’attività di distribuzione
di gas naturale consiste nel trasporto di tale tipo di gas “attraverso
reti di gasdotto locali per la consegna ai clienti” (art. 2, c. 1, lett. n,
D.Lgs. n. 164/2000). Tale attività è espressamente qualificata dalla legge di
servizio pubblico e viene svolta in regime di monopolio naturale. L’attività
di distribuzione di gas naturale deve essere affidata “esclusivamente
mediante gara”. Le gare per l’affidamento del servizio di distribuzione
di gas naturale devono, ai sensi dell’art. 24, comma 4, del D.Lgs. n. 93 del
2011, essere effettuate, a decorrere dal 29 giugno 2011 (data di entrata in
vigore del citato D.Lgs. n. 93/2011), unicamente per ambiti territoriali
minimi (ATEM) di cui all’art. 46-bis del D.L. n. 159/2007. In attuazione di quanto disposto con l’art. 46-bis, con
decreto 19 gennaio 2011 del Ministro dello sviluppo economico (G.U. n. 74 del
31 marzo 2011) sono stati individuati 177
ambiti territoriali minimi per lo svolgimento delle gare e l’affidamento
del servizio di distribuzione di gas naturale. Con il successivo decreto del
medesimo Ministro del 18 ottobre 2011 (G.U. n. 525 del 28 ottobre 2011) sono
stati anche individuati i comuni appartenenti a ciascun ambito territoriale. Considerato che, come visto, la gara per la distribuzione
di gas naturale deve svolgersi per ambiti territoriali e che gli ambiti
predetti comprendono, di regola, una pluralità di comuni, si è reso necessario
individuare il soggetto gestore della gara medesima, cioè la stazione
appaltante. La stazione appaltante, secondo le modalità definite dal D.M. 12
novembre 2011, n. 226, (regolamento per i criteri di gara e per la valutazione
dell’offerta per l’affidamento del servizio della distribuzione del gas
naturale, cd. D.M. Gare) – recentemente modificato dal D.M. 20 maggio 2015,
n. 106 - può essere un Comune capofila o la Provincia o altro soggetto, come
una società patrimoniale delle reti. Nel caso in cui gli enti concedenti non identifichino la
stazione appaltante o questa non provveda a pubblicare il bando di gara, la
regione con competenza sull’ambito, previa diffida agli enti inadempienti
contenente il termine perentorio a provvedere, avvia la procedura di gara,
esercitando dunque un potere sostitutivo (art. 3, comma 1 del D.M. Gare). Le gare per l’affidamento del servizio nei 177 ATEM,
avrebbero dunque dovuto svolgersi - secondo i termini fissati dal D.M. - in
un arco temporale di 3 anni a partire dal 2012, declinate in 8
raggruppamenti. Le date limite individuate nel Regolamento gare sono
state oggetto di diversi interventi di proroga, che non sempre hanno
riguardato tutti i raggruppamenti, ma solo alcuni di essi. Le proroghe sono
intervenute a partire dal D.L. n. 69/2013 (articolo 4, comma 3 e 3-bis),
successivamente con l'articolo 1, comma 16 del D.L. n. 145/2013 (legge n.
9/2014) sui primi tre raggruppamenti, con l'articolo 30-bis del D.L. n. 91/2014 (legge n. 116/2014) per gli ambiti dei
primi sei raggruppamenti, ai fini dell'intervento sostitutivo della regione e
delle penali previste dal già citato articolo 4, comma 5 del D.L. n. 145. Da
ultimo, come meglio si dirà nel paragrafo relativo alle recenti modifiche
normative, con il D.L. n. 210/2015 (legge n. 16/2016). La stazione appaltante deve predisporre e pubblicare il
bando e il disciplinare di gara, attenendosi agli schemi allegati al
Regolamento 226/2011. Il servizio di distribuzione di gas naturale è affidato
per periodi non superiori a dodici anni (art. 14, c. 1, D.Lgs. 164/2000), con
decorrenza dalla data dell’affidamento al gestore vincitore della gara del
primo impianto appartenente all’ambito (art. 2, c. 3, D.M. 19 gennaio 2011). La procedura di gara per l’affidamento del servizio deve
essere avviata dagli enti locali non oltre un anno prima della scadenza
dell’affidamento, in modo da evitare soluzioni di continuità nella gestione
del servizio. I rapporti tra gli enti locali affidanti e il gestore del
servizio di distribuzione di gas naturale sono regolati da appositi contratti
di servizio, che devono conformarsi al contratto tipo predisposto
dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas ed approvato dal Ministero
dello sviluppo economico (art. 14, c. 1, D.Lgs. n. 164/2000). L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha, con
deliberazione 6 dicembre 2012, 514/2012/R/Gas, adottato lo schema di
contratto di servizio tipo relativo all’attività di distribuzione di gas
naturale, che è stato definitivamente approvato con decreto del Ministero dello
sviluppo economico del 5 febbraio 2013. Lo schema di contratto tipo è stato
successivamente modificato dall’AEEGSI con delibera 571/2014/R/Gas. Con
quest’ultima delibera, si riconosce espressamente il diritto degli enti
concedenti e/o delle loro eventuali società patrimoniali a ottenere, alla
conclusione del periodo di affidamento del servizio, una somma pari al valore
dell'ammortamento del capitale investito per le reti e per gli impianti. Nel caso in cui la concessione preveda a fine affidamento
la devoluzione gratuita di una porzione di impianto, l’ente locale concedente
acquisisce la proprietà di tale porzione di impianto se: a) alla data di cessazione effettiva dell’affidamento è
stata raggiunta la scadenza naturale del contratto; b) le modalità per la cessazione anticipata del contratto
non sono desumibili nelle convenzioni o nei contratti, previo pagamento, da
parte dell’ente locale, del valore di rimborso al gestore uscente ivi
determinato. Nei casi differenti da quelli sopra indicati e di quelli
in cui la proprietà dell’impianto era già dell’ente locale concedente o di
una società patrimoniale delle reti, il gestore uscente cede la proprietà
della propria porzione di impianto al gestore subentrante, previo pagamento
da parte di questo ultimo del valore di rimborso di cui all’art. 5 o 6 del
D.M. 12 novembre 2011, n. 226. Il gestore subentrante mantiene la proprietà
di tale porzione per la durata dell’affidamento, con il vincolo di farla
rientrare nella piena disponibilità funzionale dell’ente locale concedente
alla fine del periodo di affidamento, nel rispetto di quanto previsto dallo
stesso decreto n. 226 e dal contratto di servizio. Il valore di rimborso ai titolari degli affidamenti e
concessioni cessanti viene calcolato in base a quanto stabilito dalla
convenzioni o dai contratti alla scadenza naturale dell’affidamento, secondo
le modalità stabilite dall’art. 5 del decreto n. 226/2011, considerevolmente
riformato in tale punto dal D.L. n. 106/2015. Nei periodi successivi al
primo, il rimborso al gestore uscente è valutato secondo quanto stabilito
dall’art. 14, comma 8 del D.Lgs. n. 164/2000. |
|
Le più recenti modifiche normative intervenute In seguito all'emanazione nel 2011 dei decreti ministeriali che regolano le gare della distribuzione del gas, per imprimere una accelerazione all’avvio delle gare stesse, il Decreto "del fare" (D.L. 69/2013) è intervenuto per stabilire un termine perentorio per la selezione della stazione appaltante. L’articolo 4, comma 2 e 4, ha pertanto attribuito alle Regioni (o in caso di inerzia delle Regioni al Ministero dello Sviluppo Economico) un potere sostitutivo sugli enti locali, qualora non provvedano a nominare la stazione appaltante o a indire il bando di gara entro i termini previsti. Inoltre l'articolo 4, comma 5, del D.L. n. 69/2013 ha fissato una forma di penalizzazione economica per gli enti locali nei casi di mancato rispetto da parte degli stessi dei termini per la scelta della stazione appaltante, disponendo che il 20% degli oneri che il gestore corrisponde annualmente agli Enti locali come quota parte della remunerazione del capitale fosse versato dal concessionario subentrante, con modalità stabilite dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, in uno specifico capitolo della Cassa conguaglio settore elettrico per essere destinati alla riduzione delle tariffe di distribuzione dell'ambito corrispondente. Già prima, il D.L. 83/2012 era intervenuto (articolo 37) a modifica degli articoli 14 e 15 del Decreto Letta, relativamente alla partecipazione alle gare di distribuzione gas, consentendo la partecipazione alle prime gare successive al periodo transitorio anche a soggetti che appartengono a gruppi societari che gestiscono servizi pubblici locali in virtù di procedure non ad evidenza pubblica. Oltre che più volte sulle date di avvio delle gare, il legislatore è intervenuto anche sulla determinazione del valore di rimborso al gestore uscente. Con il D.L. 145/2013 (cd. "destinazione Italia) si è disposto che nella determinazione del valore di rimborso al gestore uscente nel primo periodo siano detratti sempre anche i contributi privati (articolo 1, comma 16, che ha modificato l'articolo 15, comma 5 del Dlgs 164/2000). Si è concessa anche una proroga dei termini per la nomina della stazione appaltante e della pubblicazione del bando di gara per gli ambiti dei primi tre raggruppamenti. Con Decreto Ministeriale 22 maggio 2014 sono state poi approvate, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 4, comma 6 del D.L. n. 69/2013, le linee guida ministeriali su criteri e modalità applicative per la valutazione del valore di rimborso degli impianti di distribuzione del gas naturale. Il decreto "competitività" (D.L. 91/2014) è
nuovamente intervenuto sulla questione della sulla determinazione del
valore di rimborso al gestore uscente. L'articolo 30-bis, comma 1, modificando nuovamente l'articolo 15, comma 5 del
Dlgs 164/2000, ha previsto che nella determinazione del valore di rimborso al
gestore uscente nel primo periodo si debba seguire la metodologia specificata
nei contratti se stipulati prima dell'11 febbraio 2012, data di entrata in
vigore del DM 11 novembre, 2011 n. 226, altrimenti si deve fare riferimento
alle linee guida predisposte da MISE, approvate con DM 22 maggio 2014. Il successivo D.L. "mille proroghe" (D.L. 192/2014) ha previsto un'ulteriore proroga per la pubblicazione dei bandi di gara per il servizio di distribuzione gas. In particolare, l'articolo 3, comma 3-ter ha prorogato al 31 dicembre 2015 il termine oltre il quale si applica il prelievo del 20% delle somme spettanti agli enti locali a seguito della gara d'ambito, nei casi in cui gli Enti locali concedenti non abbiano rispettato i termini per la scelta della stazione appaltante relativamente ad alcuni ambiti territoriali (primo e secondo raggruppamento). Il medesimo articolo 3, al comma 3-quater, ha poi prorogato fino all'11 luglio 2015 il termine, già prima più volte prorogato, per l'intervento sostitutivo della Regione in caso di mancata pubblicazione del bando di gara da parte dei Comuni, per gli ambiti territoriali del primo raggruppamento. Per gli ambiti territoriali del primo raggruppamento la scadenza del termine è stata dunque fissata all'11 marzo 2015 per alcuni e all'11 giugno 2015 per gli altri. Da ultimo, è intervenuto il nuovo D.L. "mille proroghe" D.L. n. 210/2015 (legge n. 16/2016), il quale, all’articolo 3, comma 2-bis dispone una ulteriore proroga dei termini perentori per la pubblicazione dei bandi di gara, rispettivamente di dodici mesi per gli ambiti del primo raggruppamento, di quattordici mesi per gli ambiti del secondo raggruppamento, di tredici mesi per gli ambiti del terzo, quarto e quinto raggruppamento, di nove mesi per gli ambiti del sesto e settimo raggruppamento e di cinque mesi per gli ambiti dell'ottavo raggruppamento. La proroga opera in aggiunta alle proroghe per i diversi raggruppamenti vigenti al 28 febbraio 2016 (data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge). Il medesimo articolo 3, comma 2-ter modifica poi il comma 2 e abroga i commi 4 e 5 dell’ articolo 4 del D.L. n. 69/2013, che, come sopra detto, disciplinavano rispettivamente il potere sostitutivo regionale, in caso di inerzia della stazione appaltante, e il potere sostitutivo statale, in caso di inerzia della Regione nonché la penalizzazione economica per gli enti locali nei casi di mancato rispetto dei termini per la scelta della stazione appaltante. Si introduce in loro luogo una nuova previsione secondo la quale, scaduti i termini, la Regione competente sull'ambito territoriale assegni alle stazioni appaltanti ulteriori sei mesi per adempiere, decorsi i quali avvia la procedura di gara attraverso la nomina di un commissario ad acta. Trascorsi due mesi (e non più quattro mesi) dalla scadenza di tale termine senza che la Regione competente abbia proceduto alla nomina del commissario ad acta, il Ministro dello Sviluppo Economico dà avvio alla gara, nominando il commissario. L’importo eventualmente anticipato dai gestori uscenti per la copertura degli oneri di gara, è trasferito dalla stazione appaltante al commissario ad acta entro un mese dalla sua nomina, al netto dell’importo relativo agli esborsi precedentemente effettuati per la preparazione dei documenti di gara. Si segnala che l’8 marzo 2016 l’AEEGSI ha adottato, all’indomani delle modifiche operate dal D.L. n. 210/2015, una segnalazione al Governo e Parlamento 86/2016/I/GAS, che fornisce un aggiornamento della situazione delle gare per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas per ambito territoriale minimo (ATEM) ponendo in rilievo alcune criticità che permangono e che possono costituire un ostacolo alla piena attuazione della riforma avviata dall'articolo 46-bis, del D.L. n. 159/2007. L’Autorità rileva che il D.L. n. 210 “produce un leggero miglioramento della distribuzione temporale delle scadenze previste per le pubblicazioni dei bandi di gara, ma non risolve in modo adeguato la criticità connessa alla elevata numerosità di gare contestuali o quasi contestuali, con una concentrazione notevole tra il secondo semestre 2016 e il primo semestre del 2017. L’AEEGSI propone dunque una serie di interventi di riforma della disciplina vigente. Anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, riunione del 9 marzo 2016 ha deliberato di formulare una segnalazione al Parlamento circa le problematiche concorrenziali rilevate in materia di gare per il servizio di distribuzione del gas naturale, come da ultimo modificate dal D.L. n. 210/2015. In particolare nella segnalazione al Parlamento inviata l’11 marzo alle Camere, l’AGCM considera “negativamente le previsioni contenute nei commi 2-bis e 2-ter dell'art. 3 del D.L. decreto- n. 210/2015”, in quanto “comprendono una nuova consistente proroga dei termini per la pubblicazione dei bandi, che agisce peraltro retroattivamente anche per gli Atem per i quali i termini sono già scaduti, nonché l'eliminazione di alcune misure volte ad assicurare la perentorietà e cogenza dei termini di legge per la pubblicazione dei bandi di ciascun Atem, quali la previsione di una penalizzazione economica per i comuni degli Atem che non rispettano la scadenza per la pubblicazione del bando e l'immediata azionabilità del potere sostitutivo della Regione una volta decorso il termine di legge per la pubblicazione del bando, potere sostitutivo che oggi può invece essere esercitato solo dopo ulteriori sei mesi”. |
I comuni sono
responsabili dell’individuazione delle nuove sedi farmaceutiche e della loro
localizzazione (Corte Costituzionale, sentenza
n. 255 del 23 ottobre 2013) e rivestono un ruolo
ancor più incisivo nella gestione delle farmacie pubbliche, di cui sono titolari.
L'art. 28 della legge
833/1978, istitutiva del Servizio
sanitario nazionale (SSN), qualifica le farmacie come uno strumento di cui il SSN
si avvale per l'esercizio di un servizio pubblico assegnatogli direttamente dal
legislatore.
Coerentemente, il ruolo
delle farmacie nell’ambito del SSN è finalizzato ad una diffusa e capillare
dispensazione e consegna di farmaci e dispositivi medici ma anche, in
prospettiva, all’erogazione - direttamente o in collaborazione
interprofessionale con i medici di medicina generale e i pediatri di libera
scelta – di servizi e prestazioni (per approfondire Farmacia
dei servizi). In estrema sintesi,
la collocazione del servizio farmaceutico all’interno del SSN permette il
controllo e la verifica dell’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali e
garantisce la tutela del diritto alla salute, restando, in quest’ottica,
marginale sia il carattere professionale, sia la natura commerciale
dell’attività del farmacista (Corte Costituzionale, sentenza
10 ottobre 2006, n. 87).
Infatti, il servizio
pubblico farmaceutico pur avendo una rilevanza economica, risponde anche ad a
esigenze di carattere sociale che ne giustifica la specialità (in tal senso l'Autorità nazionale anticorruzione
(ANAC), nella deliberazione
del 23 aprile 2014).
Lo stesso legislatore ha più volte ribadito la particolarità del servizio
pubblico farmaceutico e la non automatica assoggettabilità del settore alle
regole dettate per i servizi pubblici di rilevanza economica (per una ricostruzione del quadro normativo di
riferimento Consiglio
di Stato, Sez. III, 13 novembre 2014,
n. 5587).
In Italia, il numero
e la dislocazione sul territorio delle farmacie
rispondono a criteri specifici, finalizzati a garantire una ordinata ed
adeguata distribuzione dell'assistenza farmaceutica sull'intero territorio
nazionale evitando, da un lato, che una quantità eccessiva di esercizi vada a discapito
della qualità del servizio, dall'altro, che porzioni di territorio e
popolazione risultino prive della copertura farmaceutica.
|
Il servizio
farmaceutico è regolato da un complesso di norme sparse. Le principali fonti
normative sono: R.D. 1265/1934, Testo
Unico delle Leggi Sanitarie - TULS; legge 475/1968, Norme concernenti il servizio farmaceutico; legge 362/1991, Norme di riordino del settore
farmaceutico; decreto legge 223/2006, Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di
entrate e di contrasto all'evasione fiscale (Decreto Bersani). Recentemente, il
decreto legge 1/2012, Disposizioni
urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività (Decreto Cresci Italia) ha incisivamente modificato la
materia. Fra l’altro, la competenza in merito all’individuazione di nuove
sedi farmaceutiche, precedentemente attribuita alla Regione, è stata
assegnata ad ogni singolo Comune (Cons. St., sez. III, 12 settembre 2013, n. 4523). Tuttavia, l’art. 2 della legge 475/1968, come
modificato dal decreto legge 1/2012, pur attribuendo al Comune un ruolo
centrale nel procedimento di individuazione di nuove sedi farmaceutiche, non
ha precisato a quale organo comunale (Sindaco, Giunta o Consiglio comunale)
debba essere intestata la competenza. Al riguardo, la giurisprudenza
prevalente è concorde nel ritenere che, dopo la riforma degli enti locali
introdotta con legge 142/1990, sono passate alla Giunta comunale le
competenze in materia di pianta organica delle farmacie già esercitate dal
Consiglio (Cons. Stato, Sez. III, 11 novembre 2014, n. 5542). |
|
Il criterio
prevalente per la individuazione di nuove farmacie (la pianta organica) è
quello demografico. La disciplina sulla pianta organica delle farmacie è
contenuta principalmente nella legge 475/1968, modificata nel 1991 dalla
legge 362 e poi dal decreto legge 1/2012 (sulla persistenza della pianta
organica Cons. St., sez. III, 31 maggio 2013, n. 2990). L'art. 11 del decreto
legge 1/2012 ha aumentato il numero delle farmacie presenti sul territorio nazionale, abbassando il parametro di riferimento richiesto per
l'apertura di una nuova farmacia. Infatti, il quorum minimo demografico per l'apertura di una
farmacia è stato fissato a 3.300 abitanti, risultando di molto
inferiore ai precedenti parametri demografici (5.000 abitanti per comuni fino
a 12.500 abitanti e 4.000 abitanti per gli altri comuni). In aggiunta alle
farmacie istituite rispettando il quorum
minimo di 3.300 abitanti, è possibile aprire un’ulteriore farmacia se la popolazione
residua supera del 50% il quorum
minimo. Il decreto legge 1/2012 non ha abrogato quanto previsto dall'art 104 del Testo
unico delle leggi sanitarie (TULS - Regio decreto del 27 luglio 1934, n.
1265) che aveva
introdotto il cosiddetto criterio topografico. In deroga al criterio
della popolazione, le regioni e le province autonome possono infatti istituire
una farmacia quando ciò sia richiesto da particolari esigenze dell'assistenza
farmaceutica in rapporto alle condizioni topografiche e di viabilità. Entro il limite
del 5 per cento del totale delle farmacie (incluse le nuove sedi), le regioni e le province
autonome possono aprire ulteriori farmacie in aree ad alta
frequentazione, ma devono
assegnarle in prelazione, fino al
2022, ai comuni competenti per territorio. Le aree ad alta frequentazione
sono state individuate in: a) stazioni
ferroviarie, aeroporti civili a traffico internazionale, porti,
aree di servizio autostradali ad alta intensità di traffico e servite
da servizi alberghieri o di ristorazione, in cui non sia presente una
farmacia a meno di 400 metri dalla struttura; b) centri
commerciali e grandi strutture di vendita con superficie superiore a
10.000 metri quadrati, se non è già presente una farmacia a meno di 1.500
metri dalla struttura. La titolarità delle farmacie che si rendono vacanti e di quelle di nuova istituzione
a seguito della revisione della pianta organica può essere assunta per la
metà dal comune. Le farmacie comunali, di cui sono titolari i Comuni, ai sensi dell’art. 9 della legge
475/1968, possono essere gestite: a) in economia; b) a mezzo di azienda
speciale; c) a mezzo di
consorzi tra comuni per la gestione delle farmacie di cui sono unici
titolari; d) a mezzo di società
di capitali costituite tra il comune e i farmacisti che, al momento della
costituzione della società, siano in
servizio presso farmacie di cui il comune abbia la titolarità. La
giurisprudenza ha anche considerata legittima la gestione a mezzo di società
di capitale, con partecipazione mista pubblico-privata e l’individuazione del
socio privato a mezzo di gara ad evidenza pubblica. Il Codice dei
medicinali (art. 100, co. 1-bis,
del D.Lgs. 219/2006) prevede la possibilità, per i farmacisti e le società di
farmacisti titolari di farmacia privata, nonché per le società che gestiscono
farmacie comunali, di poter svolgere attività di distribuzione all’ingrosso
dei medicinali. Viceversa le società che svolgono attività di distribuzione
all’ingrosso di medicinali possono svolgere attività di vendita al pubblico
di medicinali attraverso la gestione di farmacie comunali. La sentenza 5389/2014 del Consiglio di
Stato ha recentemente
chiarito che la normativa relativa alla gestione delle farmacie comunali può
applicarsi solo nei limiti in cui è compatibile con la disciplina generale sui
servizi pubblici prevista dal TUEL e comunque nel rispetto dei principi della
disciplina comunitaria (sul punto si rinvia alla scheda dedicata ai Servizi
pubblici locali). Il trasferimento di
titolarità di farmacie in gestione comunale, regolato dall’art. 12 della
legge 475/1968, è possibile dopo tre anni dal rilascio dell’autorizzazione
all’apertura. In caso di trasferimento della titolarità, hanno diritto di
prelazione i farmacisti dipendenti, che possono costituire una società. In
numerose sentenze, i giudici amministrativi hanno rilevato che il modello
privatistico di esercizio del servizio farmaceutico a mezzo di società mista
determina una scissione tra la titolarità del servizio e la gestione dello
stesso. Poiché il profilo societario e quello della titolarità operano su
piano diverso, l’ente locale può alienare la propria quota societaria, ma non
può cedere la titolarità della farmacia prima del termine dei tre anni. I comuni
non possono però cedere la titolarità o la gestione delle farmacie collocate
nelle stazioni, aeroporti, centri commerciali ecc. e per le quali hanno
esercitato il diritto di prelazione fino al 2022. In caso di rinuncia alla
titolarità, la sede farmaceutica è dichiarata vacante. |
Ai comuni fanno capo le
funzioni amministrative relative all’assistenza
scolastica, che comprendono servizi e attività volti a facilitare
l’assolvimento dell’obbligo scolastico per gli alunni di scuole pubbliche e
private e la prosecuzione degli studi per gli studenti capaci e meritevoli
privi di mezzi.
Si verte, cioè, in
materia di diritto allo studio, che
trova il suo fondamento nell’art. 34 della Costituzione.
Peraltro, in relazione
al processo di riordino delle province, le funzioni relative ai servizi di supporto organizzativo del servizio di
istruzione per gli alunni con disabilità
o in situazione di svantaggio sono state recentemente attribuite alle regioni, fatti salvi i casi in cui, con
legge regionale, queste sono state già attribuite alle province, alle città
metropolitane o ai comuni.
|
Nell’art. 117 della
Costituzione previgente la riforma del 2001, la materia “assistenza
scolastica” – e, dunque, il diritto allo studio – era esplicitamente presente
ed era devoluta alla potestà legislativa concorrente. Dopo la riforma
costituzionale del 2001, il diritto allo studio trova fondamento nell’art.
34, i cui commi terzo e quarto dispongono che i capaci e meritevoli, anche se
privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi
e che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio,
assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per
concorso. Con riguardo al
riparto delle competenze - in assenza di una esplicita attribuzione della
materia nell’ambito dell’attuale art. 117 Cost. -, in dottrina sono emerse due
tesi, volte a ricomprendere l’assistenza scolastica nella materia
dell’istruzione (di competenza concorrente), ovvero tra le materie affidate
alla potestà legislativa residuale delle regioni (art. 117, quarto comma,
Cost.). Si veda, più ampiamente: Silvio Troilo, Il diritto allo
studio fra Stato e regioni, in Federalismi.it n. 9/2012. Quanto alle funzioni amministrative relative
all’assistenza scolastica, le stesse sono state attribuite ai comuni - che le svolgono secondo le modalità previste dalla legge regionale
- dall’art. 45 del DPR 616/1977. In base all’art. 42
dello stesso DPR, esse concernono tutte
le strutture, i servizi, e le attività destinate a facilitare, mediante
erogazioni in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, per gli
alunni di scuole pubbliche o private, anche se adulti, l’assolvimento
dell’obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli anche se
privi di mezzi, la prosecuzione degli studi. In base alla disposizione
citata, tali funzioni ricomprendono, tra l’altro, gli interventi di
assistenza medico-psichica, l’assistenza ai minorati psico-fisici,
l’erogazione gratuita dei libri di
testo agli alunni delle scuole primarie. Successivamente, tali
previsioni sono state confermate dall’art. 327 del c.d. Testo unico della
scuola (d.lgs. 297/1994), che ha ripreso il contenuto degli artt. 42 e 45 del
DPR 616/1977, sostituendo unicamente l’espressione “assistenza scolastica”
con quella di “diritto allo studio”,
considerandole, dunque, sinonimi. In virtù delle
disposizioni richiamate, sono state attribuite ai comuni, tra l’altro, le
funzioni relative al trasporto degli
alunni della scuola dell’infanzia e della scuola dell'obbligo – già
attribuite alle regioni dall’art. 1 del DPR 3/1972 –, e quelle relative alla gestione
del servizio mensa per gli alunni
dei medesimi ordini di scuola. Per garantire il
diritto all’istruzione, le leggi regionali prevedono che, per i servizi di
refezione e trasporto scolastico, i comuni, nei limiti delle risorse disponibili,
determinino tariffe differenziate o anche esoneri da ogni contribuzione, per
gli studenti le cui famiglie versino in condizioni di particolare disagio
economico. Con riguardo ai libri di testo, già l’art. 156, co.
1, del d.lgs. 297/1994 (poi dichiarato incostituzionale con sentenza n. 454/1994, nella parte in cui escludeva gli alunni delle scuole
elementari che adempiono all’obbligo in modo diverso dalla frequenza presso
scuole statali o abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore
legale) aveva stabilito che i libri di testo erano forniti gratuitamente dai
comuni, secondo modalità stabilite dalla legge regionale, agli alunni delle scuole elementari. Successivamente, la
fornitura gratuita, totale o parziale, dei libri di testo è stata estesa agli
alunni della scuola dell’obbligo e
dei primi due anni della scuola
secondaria superiore (art. 27 della L. 448/1998; art. 1, co. 628, della L.
296/2006). Inoltre, l’art. 139
d.lgs. 112/1998 aveva attributo alle province, in relazione all’istruzione
secondaria superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di
scuola, i servizi di supporto
organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con disabilità o in situazioni di svantaggio. Al riguardo si
ricorda, infatti, che, in base a quanto previsto dall’art. 13, co. 1, della
L. 104/1992, l'integrazione scolastica della persona con disabilità si
realizza anche attraverso la programmazione
coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali,
culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite
da enti pubblici o privati. A tale scopo gli enti locali, gli organi
scolastici e le unità sanitarie locali, nell'ambito delle rispettive
competenze, stipulano accordi di programma. |
|
L’art. 21, co. 3,
della legge delega sul federalismo
fiscale (L. 42/2009) ha inserito fra le funzioni fondamentali dei comuni,
sia pur provvisoriamente e solo ai fini del procedimento di determinazione di
costi e fabbisogni standard, i servizi di “assistenza scolastica e refezione”. In tal senso, dispone anche
il decreto attuativo della delega (v. art. 3, co. 1, del d.lgs. 216/2010). In seguito, l’art.
14, co. 27, del D.L. 78/2010 (L. 122/2010) – come modificato, in particolare,
dall’art. 19, co. 1, del D.L. 95/2012 (L. 135/2012) – nel definire a regime le funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell'articolo 117,
secondo comma, lett. p), Cost., non
ha fatto più riferimento a tali servizi, ma ha utilizzato l’espressione “organizzazione e gestione dei servizi
scolastici”. Inoltre, l’art. 7,
co. 41, del già citato D.L. 95/2012 ha previsto che il contributo statale per le spese sostenute in relazione al servizio
di mensa scolastica per gli insegnanti
– previsto dall’art. 3 della L. 4/1999 –
è assegnato agli enti locali (e
non più alle scuole) in proporzione al numero di classi che accedono al
servizio di mensa (e non più in base al numero dei pasti effettivamente
erogati). L'art. 23, co. 5, dello
stesso D.L. 95/2012 ha autorizzato in via permanente, a decorrere dal 2013,
la spesa di € 103 mln per la fornitura gratuita, totale o parziale, dei libri
di testo agli alunni della scuola
dell’obbligo e dei primi due anni
della scuola secondaria superiore, soggetta prima di allora a periodici
rifinanziamenti. Infine, l’art. 1, co.
947, della L. 208/2015 (legge di stabilità 2016) ha attribuito alle
regioni, a decorrere dal 1° gennaio 2016, le funzioni relative ai servizi
di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni
con disabilità o in situazione di svantaggio, fatti salvi i casi in cui, con legge regionale, queste funzioni
sono state già attribuite alle
province, alle città metropolitane o ai comuni. A tal fine, è stata autorizzata la spesa di € 70 mln per il 2016, da ripartire fra
gli enti territoriali interessati con D.P.C.M. La modifica è collegata al processo di riordino delle province di cui
alla L. 56/2014. |
Le aree cimiteriali fanno parte del demanio pubblico, regolato
nell’ambito della disciplina urbanistica, materia non presente nell’art. 117
della Cost., ma inclusa in quella a legislazione concorrente “governo del
territorio”. Ogni comune deve essere dotato del piano regolatore
cimiteriale e inoltre il Comune deve dotarsi del regolamento di disciplina
degli interventi di polizia mortuaria in accordo con le norme generali
contenute nel DPR. n. 285/1990 (regolamento di polizia mortuaria), nel Testo Unico
delle leggi sanitarie (RD. n. 1265/1934), in conformità alle leggi speciali sulla
cremazione e sulle distanze cimiteriali e, ove presenti, alle indicazioni
regionali di regolamenti tipo volti a garantire una omogeneità della disciplina
a livello territoriale.
L’autonomia
regolamentare comunale deve tenere conto delle consuetudini locali,
dell’esistenza, nel proprio territorio, di nuclei di popolazione di diverse
religioni, dei costi relativi alle manutenzioni ordinarie e straordinarie,
legate anche al regime dei suoli, nonché alla situazione finanziaria dell’ente.
La
manutenzione, l'ordine e la
vigilanza dei cimiteri spettano al sindaco
e se il cimitero è consorziale al sindaco del comune dove si trova il cimitero.
I rifiuti cimiteriali e gli scarichi
delle fontane sono assicurati, rispettivamente, dal servizio ecologico del
comune, gestito direttamente o in concessione, e da impianti di smaltimento
delle acque reflue. L’autorizzazione alla cremazione
viene rilasciata per ciascun cadavere dal Sindaco
e i crematori devono essere costruiti entro i recinti dei cimiteri e sono
soggetti a vigilanza del Sindaco.
L’edilizia cimiteriale pubblica e privata
è di competenza comunale (le mura di
cinta, l’ossario, le infrastrutture, i comparti dei loculi, i luoghi del culto
pubblico, le camere mortuarie, le strutture per le autopsie, le cappelle
cimiteriali, le tombe, le lapidi, ecc), che i comuni devono disciplinare mediante normativa regolamentare speciale all’interno dei regolamenti comunali di polizia mortuaria.
La
gestione dei cimiteri può essere svolta direttamente dall’ente locale ovvero
con gestione affidata all’esterno. Le tariffe sono stabilite in base alle norme
di carattere generale contenute all’art. 117 del TUEL (D.Lgs. 267/2000). Sulla base delle previsioni di legge e
del regolamento comunale, inoltre, vengono fissati i servizi gratuiti di
interesse pubblico (uso sala autoptica, inumazioni in campo comune o cremazione
su volontà del defunto in particolare per quelli privi di familiari ovvero con
familiari indigenti, ecc.).
I
Comuni hanno competenza a disporre divieti, ovvero le regole di comportamento
durante le permanenze nel cimitero, come disposizioni sul contegno,
sull’introduzione di animali o di oggetti indecorosi, sull’abbandono di cose,
sul disturbo durante le celebrazioni religiose, ecc.
Questioni
sanitarie si profilano in particolare per le sepolture speciali al di fuori dei
cimiteri, disciplinate dall’art. 105 del regolamento di polizia mortuaria (DPR. n. 285/1990) e dall’art. 340 del sopra citato Testo unico
delle leggi sanitarie.
In particolare si prevedono procedure speciali con adempimenti sanitari e
deliberativi, prima del rilascio dell’autorizzazione del sindaco, e requisiti
analoghi a quelli prescritti dal regolamento della polizia mortuaria per le
sepolture private esistenti nei cimiteri. Anche questa tipologia di sepolcri,
in ogni caso, è sottoposta alla vigilanza dell’autorità comunale.
Il
servizio di necroscopìa è assicurato dalla ASL o da corrispondenti istituzioni
locali in relazione alle scelte di politica sanitaria che rientrano nelle
competenze regionali.
|
Ai sensi dell’art. 54
del DPR. n. 285/1990 (regolamento di polizia
mortuaria), ogni Comune deve
essere dotato di un piano regolare
cimiteriale. Sui criteri per determinare le aree cimiteriali e la
definizione dei corrispondenti piani regolatori, è intervenuto il Ministero
della Sanità con la Circolare n. 24 del 14 giugno 1993, prendendo atto del
netto ridimensionamento della forma di sepoltura a sistema di inumazione. Il
calcolo dell’area occorrente, pertanto, è effettuato non più sulla mortalità
media dell’ultimo decennio, ma sulle inumazione mediamente eseguite
nell’ultimo decennio, aumentate del 50 per cento. A tali aree si aggiunge lo
spazio riservato alle opere, servizi e sepolture private, come indicato
all’art. 59, co. 1, lett. a) del sopra citato regolamento. Il piano
regolatore deve comprendere anche le zone di rispetto cimiteriale prevista ai
sensi dell’art. 31 del Testo unico delle leggi sanitarie. Eventuali deroghe
al limite minimo della fascia di rispetto cimiteriale è consentita per
eventuali ampliamenti di un cimitero rispetto agli edifici già esistenti del
centro abitato (v. Consiglio di Stato, Sent. n. 4574/2000). Ai sensi
dell’art. 79 del regolamento n. 285/1990 e della legge 30 marzo 2001, n. 130,
l’autorizzazione alla cremazione viene rilasciata per ciascun cadavere dal
Sindaco, sulla base della volontà espressa in tal senso dal defunto. Le
modalità operative sono determinate nel rispetto della normativa vigente.
L’art. 78 del regolamento n. 285/1990 stabilisce le caratteristiche
progettuali dei crematori e le procedure per le cremazioni. |
La legge 328/2000, emanata con lo scopo di avviare una
complessiva riorganizzazione della sicurezza sociale, ha affidato la programmazione e l'organizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali a diversi livelli di governo: Stato,
regioni e enti locali, chiamati a collaborare secondo i principi di sussidiarietà e di cooperazione nel rispetto dell’autonomia organizzativa e
regolamentare degli enti territoriali e locali.
Dopo la riforma
costituzionale del 2001 (L. 3/2001), l'assistenza sociale è diventata una
competenza residuale disciplinata dalle Regioni e amministrata dal Comune, mentre allo Stato è rimasta la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
sociali (art. 117, secondo comma, lettera m),
Cost.), da emanare con modalità partecipative[7].
L’art. 14, co. 27-28,
del decreto legge 78/2010 (L. 122/2010) ha successivamente disciplinato
l'esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali dei comuni in forma
associata. Fra queste è compresa la
progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali e l’erogazione delle relative
prestazioni ai cittadini, secondo quanto stabilito
dall'articolo 118 Cost[8].
Come previsto dall’art.
6 della legge 328/2000, ai comuni compete la gestione degli interventi e
dei servizi sociali, la cui programmazione è in capo alle Regioni. Nello
specifico, il Comune ha il compito istituzionale di programmare, attraverso il Piano
di zona (art. 19 della legge
328/2000), il sistema integrato di
interventi e servizi sociali e poi di garantirne l’erogazione, integrando
la programmazione sociale e la programmazione sociosanitaria[9].
Dal punto di vista dell'offerta di servizi sociali e sociosanitari, entrano in
gioco anche i produttori privati profit e no profit, ai quali
spesso Comuni e ASL esternalizzano tali servizi. Per questo, un’ulteriore
importante funzione dei Comuni risiede nel procedimento
di autorizzazione, accreditamento e vigilanza dei servizi sociali e delle strutture a ciclo
residenziale e semiresidenziale a gestione pubblica o del privato profit o no profit.
L'accesso agli interventi assistenziali, pur avendo, come per le
prestazioni sanitarie, un carattere di universalità (art. 2 della L. 328/2000),
è, generalmente, condizionato dalla compresenza di due elementi necessari: il bisogno e la scarsità economica per farvi fronte, requisiti che danno diritto
alle prestazioni sociali agevolate,
non destinate alla generalità dei soggetti.
Si rileva che, a
differenza di quanto avvenuto in ambito sanitario, i livelli essenziali delle prestazioni erogabili in
ambito sociale (nel tempo definiti LEP, LEPS o LIVEAS) non sono stati ancora fissati;
pertanto non è ancora presente un elenco degli interventi e dei servizi sociali
in grado di garantire un livello di prestazioni assistenziali uniforme in tutto
il Paese. La legge 328/2000 indica, infatti, gli interventi in ambito
sociale che costituiscono i livelli essenziali, ma manca tuttora una loro
più stringente definizione ed il relativo adeguato finanziamento, come avvenuto
in ambito sanitario con la fissazione dei LEA e della dotazione finanziaria
annuale del Fondo sanitario nazionale attraverso la legge di stabilità.
Pertanto, il diritto alle prestazioni sociali, in particolare
nella forma agevolata, e/o ai servizi di pubblica utilità, è subordinato alla
verifica degli enti erogatori (quindi nella maggior parte dei casi ai Comuni),
secondo parametri anagrafici e/o economici (reddito della singola persona o
indicatore della situazione economica (ISE) e indicatore della situazione
economica equivalente (ISEE), che permettono di valutare in maniera sintetica
le condizioni economiche del nucleo familiare. Per garantire una maggiore
equità sociale nella determinazione delle tariffe dei servizi, molti Comuni
hanno deliberato modifiche all’ISEE (v. oltre), in particolare introducendo un coefficiente
maggiorato a vantaggio delle famiglie numerose, con figli minori, disabili,
anziani (il “quoziente familiare”). Per tali soggetti sono state inoltre
introdotte in molti casi riduzioni delle tariffe per la prestazione di servizi
socio-educativi e scolastici.
La spesa per l’assistenza sociale erogata dai comuni,
singolarmente o in forma associata, rappresenta una componente importante del
sistema di welfare (sul punto
l’approfondimento Spesa sociale dei Comuni e sue componenti). Al momento, le risorse dedicate al sociale
provengono dalla fiscalità generale e sono erogate nei
limiti dei finanziamenti ordinari destinati dalle regioni e dagli enti locali
alla spesa sociale tenuto conto anche delle risorse, riferibili ai Fondi
nazionali dedicati, trasferite dallo
Stato.
In
questo contesto, le Regioni
stabiliscono principi e indirizzi, e coordinano
interventi sul territorio da parte degli enti
locali, a cui ripartiscono le risorse del Fondo sociale regionale,
costituito da stanziamenti provenienti dai fondi
statali dedicati alle politiche sociali, integrati da stanziamenti di bilancio regionale. Le Regioni
possono, altresì, intervenire direttamente, con i voucher, i bonus
famiglia, gli assegni di cura, i buoni sociosanitari, ecc. I Comuni svolgono le funzioni amministrative attuative dei servizi sociali e ricevono
risorse dalle Regioni e dallo Stato (trasferimenti diretti e vincolati, come
quelli della L. 285/1997, Fondo per l'infanzia e l'adolescenza),
integrate da propri stanziamenti di bilancio. A tali finanziamenti si
aggiungono quelli del programma nazionale “Servizi di cura all'infanzia e agli
anziani non autosufficienti’
collocato nell'ambito del Piano d'azione Coesione (Pac). L’attuazione del
programma, attivo fino al giugno 2017, è stata affidata al ministero
dell'Interno, individuato quale Autorità di Gestione responsabile. Le risorse
stanziate sono destinate alle 4 regioni ricomprese nell'obiettivo europeo
“Convergenza”: Calabria, Campania, Puglia, Sicilia. Al finanziamento dei servizi sociali (art. 4 della legge
328/2000) contribuisce anche la partecipazione dell'utenza privata, con il
pagamento delle rette previste per gli asili nido o per le residenze assistite
degli anziani. Complessivamente, le risorse indicate realizzano gli obiettivi
dei piani di zona, adottati secondo gli indirizzi dei piani regionali, come
previsto dalla L. 328/2000[10].
E’ da segnalare in
proposito il Programma operativo
nazionale (Pon) Inclusione, cofinanziato dal Fondo
sociale europeo, interamente dedicato all’inclusione
sociale, la cui finalità principale è contribuire alla definizione dei
livelli minimi di alcune prestazioni sociali, per garantirne l’uniformità in
tutte le regioni italiane. Oltre l’80% delle risorse, che in totale ammontano a
circa 1,2 miliardi di euro, è destinato quindi a supportare l’estensione
sull’intero territorio nazionale del Sostegno per l’inclusione attiva (SIA),
una misura di contrasto alla povertà
assoluta che nel 2014 il Ministero ha avviato in forma sperimentale nelle
12 città d’Italia più popolose (v. oltre l’approfondimento).
L’analisi territoriale
delle risorse impiegate per il welfare locale mette in luce fortissimi
squilibri, che si traducono nella diversa disponibilità di servizi e strutture.
Tale analisi, vale anche per la copertura territoriale degli asili nido, un servizio a domanda
individuale offerto dai Comuni. La
legge 1044/1971 ha riconosciuto come “servizio sociale di interesse pubblico”
l'assistenza prestata negli asili nido ai bambini fino ai tre anni di età. In
seguito, la legge 285/1997 ha incluso tra gli interventi finanziabili
“l’innovazione e la sperimentazione di servizi socio-educativi per la prima
infanzia”, non sostitutivi degli asili nido, ovvero servizi che presuppongono
la presenza continua di genitori, che siano privi di mensa e non prevedano il
riposo pomeridiano, servizi autorganizzati dalle famiglie, dalle associazioni e
dai gruppi. Successivamente, il Piano straordinario, l’intesa in Conferenza unificata del 26 settembre 2007, ha individuato quali iniziali livelli essenziali
di assistenza la copertura media nazionale della domanda al 13% e, in ciascuna
regione, in percentuale non inferiore al 6%, sottolineando la necessità di
assicurare il livello di copertura territoriale in maniera uniforme su tutto il
territorio nazionale, anche in vista del raggiungimento dell’obiettivo di
copertura territoriale fissato al 33% dal Consiglio europeo di Lisbona del
2000. L’intesa in Conferenza unificata del 26 settembre 2007, ha avviato un’attività di monitoraggio quantitativo, qualitativo e amministrativo
contabile al quale partecipano, fra l’altro, le regioni, il Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e
l’Adolescenza, presso l’Istituto degli Innocenti a Firenze e l’ISTAT (anche Istat offerta comunale di asili nido e altri servizi
socio-educativi per la prima infanzia) (per l’approfondimento normativo v. oltre).
|
La legge 328/2000
disciplina nel dettaglio gli ambiti di intervento riferibili ai diversi
livelli di governo. Come detto, le linee
di intervento dell'attività dello Stato, attraverso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali,
si riferiscono all'indirizzo, programmazione, sviluppo, coordinamento,
monitoraggio e valutazione delle politiche sociali, dal momento che i servizi
alla persona sono devoluti alle Regioni ed agli enti locali (art. 9 della legge
328/2000). Allo Stato spetta altresì la definizione dei diversi Fondi dedicati,
quali il Fondo nazionale per le politiche sociali, il Fondo per le politiche
della famiglia, il Fondo per le non autosufficienze, il Fondo nazionale per l'infanzia
e l'adolescenza, il Fondo per le politiche giovanili, nonché l'erogazione di
pensioni e assegni sociali ed indennità assistenziali varie per gli invalidi
civili, sordi e ciechi civili. Ai sensi dell’art. 8 della legge 328/2000, le Regioni disciplinano con proprie leggi, i
principi, gli indirizzi, l'organizzazione e l'erogazione, tramite i comuni,
della rete di interventi e servizi sociali e, oltre a ripartire i
finanziamenti statali agli enti locali, programmano gli obiettivi di settore
nel Piano sociale (art. 18 della legge 328/2000). Alcune Regioni presentano un Piano socio-sanitario
dove sono previsti programmi sanitari, sociali e socio-sanitari. In particolare,
l'art. 22, comma 2, della legge 328/2000 definisce gli interventi che
costituiscono i livelli essenziali
delle prestazioni sociali[11]. L'identificazione dei
livelli essenziali deve tener conto anche di quanto indicato nell'allegato 1C del D.P.C.M. 29 novembre 2001, che elenca le prestazioni socio-sanitarie, ovvero otto specifiche prestazioni nelle
quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente
distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo
attribuibile al SSN e l'altra riferibile all'utente o al Comune. Più in
dettaglio, le prestazioni socio-sanitarie si distinguono, come
indicato dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, erogate
contestualmente ad interventi sociali, finalizzate al contenimento di esiti
degenerativi, a carico dell'Azienda sanitaria locale; prestazioni sociali a
rilevanza sanitaria, finalizzate a sostenere la persona disabile o emarginata
la cui condizione potrebbe avere esiti negativi sulla salute, a carico del
Comune o del cittadino; prestazioni socio-sanitarie integrate per le aree
materno infantile, disabili, anziani e non autosufficienti, dipendenze,
patologie psichiatriche e da HIV, pazienti terminali, a carico delle ASL,
garantite nell'allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA). Gli artt. 14 e 15 della legge 328/2000 sono dedicati alla disabilità (qui un approfondimento);
l’ambito all’interno del quale si rendono più necessari gli interventi di
natura socio-sanitaria . L’art. 14 contiene importanti disposizioni per la
realizzazione di Progetti individuali
per le persone disabili, messi
a punto dai Comuni, per il tramite dei servizi sociali di riferimento, e
realizzati d’intesa con le Aziende Sanitarie locali. Con i progetti
individuali, il legislatore ha voluto indicare un modello di servizi incentrato
su un progetto di “presa in carico globale” della persona disabile, con l’obiettivo di promuovere
l’autorealizzazione della persona disabile ed il superamento di ogni
condizione di esclusione sociale, avvalendosi anche della metodologia del
cosiddetto “lavoro di rete”, che punta ad una visione in chiave unitaria dei
bisogni della persona con disabilità. L’iniziativa dell’ente locale non è
autonoma ma va sollecitata su richiesta. Il Progetto individuale viene
attivato nell’ambito delle risorse disponibili dell’ente, a tal fine
destinate e predisposto sulla base di una valutazione diagnostico-funzionale
del soggetto che lo richiede. Esso comprende una serie di servizi rivolti
alla persona disabile: in
particolare, si tratta di prestazioni che hanno ad oggetto la cura e la
riabilitazione nonché misure economiche dirette e indirette finalizzate, nel
loro complesso, al superamento di condizioni di povertà e, ove necessario, al
recupero e alla integrazione sociale. Eventuali sostegni possono essere previsti
anche per il nucleo familiare della persona
disabile (in tal senso TAR Calabria 440/2013). In assenza di una
disciplina specifica sui livelli essenziali delle prestazioni in ambito
sociale, le Regioni e i Comuni hanno disegnato servizi assistenziali non
omogenei. Per questo, nel 2009 un gruppo di lavoro congiunto tra Regioni e Province
autonome (Cisis) ha proposto il Nomenclatore dei servizi e degli interventi sociali quale strumento di mappatura degli interventi e dei
servizi sociali regionali, rendendo possibile il confronto su voci omogenee
tra i diversi sistemi di welfare regionali. Il Nomenclatore ha costituito
anche la base di riferimento per il Glossario utilizzato dall'Istat nella
rilevazione sugli "Interventi e servizi sociali dei comuni singoli e
associati". Seguendo la mappatura dei servizi ed interventi sociali
disegnati dalle leggi regionali, il Nomenclatore ha individuato tre macroaree
di servizi , che fanno riferimento alle forme di erogazione delle prestazioni
socio-assistenziali e ad integrazione socio-sanitaria dei Comuni singoli e
associati: interventi e servizi, trasferimenti in denaro e strutture. Per
ciascuna delle tre macro-aree è stata prevista una sub-articolazione in aree
di servizi, in alcuni casi anche dettagliate in sottoaree per meglio
raggruppare sezioni omogenee di voci di servizi[12]. All’interno dei
servizi semiresidenziali, gli asili
nido meritano sicuramente un approfondimento. In base alla normativa vigente (art. 70 della legge n. 448/2001) tra le competenze degli
enti locali rientrano quelle relative agli asili nido, quali
strutture volte a garantire la formazione e la socializzazione dei bambini di
età compresa tra i tre mesi e i tre anni di età ed il sostegno delle loro
famiglie. Le regioni hanno talune competenze in materia di individuazione e
di criteri per la gestione e l’organizzazione degli asili nido e,
originariamente, anche lo Stato (poi ritenute illegittime a seguito di un
ricorso avanzato dalle regioni rispetto al nuovo quadro costituzionale
delineato nel 2001, v. Corte Cost. Sent. del 17
dicembre 2003). Dal punto di vista dell’assetto organizzativo, l’offerta degli asili
nido è gestita quasi interamente dai Comuni singoli (97,7%); la gestione in
forma associata fra Comuni limitrofi riguarda quindi il 2,3% della spesa
impegnata complessivamente. All'offerta tradizionale di asili nido si
affiancano i servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia, che
comprendono i "nidi famiglia", ovvero servizi organizzati in
contesto familiare, con il contributo dei Comuni e degli enti sovracomunali.
Questi servizi rappresentano una realtà significativa in special modo nelle
regioni del Nord-Est e nelle Province autonome. In base all’art. 6 del DL. 55/1983 (L.
131/1983), gli asili nido rientrano tra le categorie dei servizi pubblici
locali a domanda individuale, successivamente individuati dal DM 31 dicembre 1983. Per essi è prevista una
contribuzione degli utenti a carattere non generalizzato non inferiore al 50
per cento del costo, definita mediante tariffe che possono essere
differenziate dai singoli Comuni con adeguate motivazioni di carattere
sociale. Le spese per gli asili nido vengono pertanto escluse dai Comuni, per
una quota di almeno il 50 per cento, dai costi complessivi che vanno a determinare
la percentuale di copertura a domanda individuale, ai sensi dell’art. 5 della L. 498/1992. Il Piano straordinario per lo
sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima
infanzia (v. ante), varato con la legge finanziaria 2007 (art. 1, co. 1259,
della L. 296/2006), ha previsto un finanziamento statale, nel triennio
2007-2009, pari ad € 446 mln per l'incremento dei posti disponibili nei
servizi per i bambini da 0 a 3 anni, a cui si sono aggiunti circa € 281 mln
di cofinanziamento regionale. Tale Piano è stato rilanciato con l’art. 1, co.
131, della legge di stabilità 2015 (L. 190/2014), che vi ha destinato 100
milioni di euro per il 2015. In base all’art. 243, co. 2, lett. a) del
TUEL (D.Lgs 267/2000), i Comuni che si
trovano nelle condizioni strutturalmente deficitarie hanno l’obbligo di
copertura dei costi complessivi della gestione dei servizi a domanda
individuale nella misura di almeno il 36 per cento con i relativi proventi
tariffari e contributi a carattere vincolato, tenendo comunque conto che i
costi di gestione degli asili nido sono calcolati al 50 per cento del loro
ammontare. Tuttavia, anche i comuni in condizioni di equilibrio finanziario,
sono tenuti a richiedere il contributo degli utenti dei servizi pubblici a
domanda individuale, obbligatoriamente in base all’art. 3, co. 1, del DL. n.
786/1981 (L. 51/1982). La determinazione della misura deve essere valutata dall’ente locale
in relazione all’esigenza di assicurare l’equilibrio economico-finanziario
del bilancio, contemperando tale principio con la funzione sociale assolta
dagli asili nido. Per essi, il Comune deve computare anche le entrate a
specifica destinazione che sono attribuite dalla regione per l’importo
assegnato per le spese di gestione. In proposito, la sentenza del Consiglio
di Stato (Sent. n. 4362 del 31 luglio
2012) ha sancito il divieto di intervento sulle tariffe degli asili nido da
parte dei comuni, nel corso dell'anno scolastico di frequenza, anche in caso
di diminuzione delle entrate, in quanto lesiva del principio del legittimo affidamento. Per i Comuni è prevista inoltre la possibilità di attivare, in base
all’art. 1, co. 630 , della legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006),
previo accordo in Conferenza unificata Stato-Regioni e autonomie locali,
specifici servizi educativi per i bambini dai 24 ai 36 mesi, che fanno
riferimento a progetti sperimentali di ampliamento qualificato dell’offerta
formativa nell’ambito della scuola dell’infanzia (cd. sezioni primavera).
L’art. 2, co. 3, del DPR n.
89/2009, che ha rivisto
l'assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell'infanzia
e del primo ciclo di istruzione, ha disposto la prosecuzione degli interventi
relativi alle sezioni primavera allo scopo di coordinare l’istituto degli
anticipi scolastici, favorendo in tal modo un’effettiva continuità del
percorso formativo da 0 a 6 anni. Tali sezioni possono essere attivate non
solo nelle scuole dell’infanzia statali e non statali, tra cui quelle
comunali, ma anche negli asili nido gestiti direttamente dai Comuni o da
soggetti in convenzione con i Comuni ovvero da questi appositamente
organizzati. Nel tempo, si è
sempre più ravvisata la necessità di esternalizzare
a soggetti terzi funzioni originariamente erogate dal soggetto pubblico.
In questi casi, la legge 328/2000, all’art. 5 ha espressamente
previsto che gli enti pubblici debbano privilegiare il ricorso a forme di
aggiudicazione o negoziali che garantiscano la massima espressione della
progettualità dei soggetti operanti nel Terzo
Settore, avvalendosi di analisi e di verifiche che tengano conto della
qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e della
qualificazione del personale. In tal senso,
gli Enti locali, le Regioni e lo Stato, per favorire il principio di
sussidiarietà, devono promuovere azioni per il sostegno e la qualificazione
dei soggetti operanti nel Terzo Settore, ad esempio portando avanti politiche
formative e interventi per l’accesso agevolato al credito e ai fondi
dell’Unione Europea. Inoltre, il D.P.C.M. 30 marzo 2001 specifica: l’esplicito diniego di forme di
aggiudicazione al massimo ribasso nell’affidamento dei servizi; la preferenza
verso forme di aggiudicazione ristrette e negoziate. In tale ambito, infatti,
le procedure ristrette permettono di valutare e valorizzare diversi elementi
di qualità che il Comune intende ottenere dal servizio appaltato. Il D.P.C.M.
rimanda poi alle Regioni l’adozione di specifici indirizzi per regolamentare
i rapporti tra Comuni e soggetti del Terzo Settore nell’affidamento dei
Servizi, e definisce alcuni elementi che gli Enti locali devono valutare per
la selezione degli organismi no profit (per quanto riguarda le procedure di gara
per l'affidamento dei servizi sociali: Auser,
VI Rapporto su enti locali e terzo settore, ANAC, Determinazione Linee guida per l’affidamento
di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali). A seguito della crisi
economica, i Comuni si sono dovuti confrontare con un forte aumento della povertà. Fra le misure di sostegno, ricordiamo il Bonus elettrico, uno sconto sulla bolletta, introdotto dal decreto
interministeriale 28 dicembre 2007, e reso operativo dall'Autorità per
l'energia elettrica, il gas ed il sistema idrico con la collaborazione dei
Comuni, per assicurare un risparmio sulla spesa per l'energia alle famiglie numerose in condizione di disagio
economico o per i casi in cui una grave malattia costringa all'utilizzo di apparecchiature mediche
alimentate con l'energia elettrica (elettromedicali) indispensabili per il
mantenimento in vita. Sempre a livello
nazionale, il decreto legge 112/2008 ha istituito la
Carta acquisti ordinaria: un beneficio economico, pari a 40 euro mensili,
caricato bimestralmente su una carta di pagamento elettronico. La Carta
acquisti ordinaria è riconosciuta agli anziani
di età superiore o uguale ai 65 e
ai bambini di età inferiore ai tre anni, se in possesso di particolari requisiti economici che li
collocano nella fascia di bisogno assoluto. Inizialmente,
potevano usufruire della Carta acquisti ordinaria soltanto i cittadini italiani; la legge di
stabilità 2014 (legge 147/2013)
ha esteso la platea dei beneficiari anche ai cittadini di altri Stati dell'Ue e ai cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo, purché in possesso dei requisiti sopra
ricordati. La Carta è utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare
e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche. I negozi convenzionati, che supportano il programma, accordano ai titolari
della Carta uno sconto del 5%. Gli enti locali possono aderire al programma Carta
acquisti estendendone l'uso o aumentando il beneficio a favore dei propri
residenti (decreto n. 89030 del 16
settembre 2008). Alla Carta acquisti
ordinaria, il legislatore ha poi affiancato la Carta acquisti sperimentale (anche denominata Carta per l’inclusione o Sostegno per
l’inclusione attiva). Introdotta recentemente, la Carta per l’inclusione
viene concessa a nuclei familiari con minori in situazione di disagio e con
ISEE, relativo all’anno reddito 2012, inferiore o uguale a 3.000 euro. Con
riferimento alla lotta alla povertà, si sottolinea che l'art. 60 del decreto legge 5/2012 ha configurato
una fase sperimentale della Carta acquisti, prevedendone una sperimentazione, di durata non superiore ai
dodici mesi, nei comuni con più di 250.000 abitanti. E' così nata
la Carta per l'inclusione, anche definita Sostegno per l'inclusione attiva (SIA).
La sperimentazione si colloca nel processo di definizione di una misura di contrasto alla povertà assoluta
quale livello essenziale da riconoscere sull'intero territorio nazionale. Le modalità attuative, sono state
indicate dal decreto 10 gennaio 2013 che fra l'altro stabilisce
i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari, che sono
individuati per il tramite dei Comuni, e l'ammontare della disponibilità
sulle singole carte, calcolato secondo la grandezza del nucleo familiare. La Carta per
l'inclusione - il cui importo varia da un minimo di 231 a un massimo di 404
euro mensili - è rivolta esclusivamente ai nuclei familiari con minori e con
un forte disagio lavorativo. Il nucleo familiare beneficiario dell'intervento
stipula un patto di inclusione con i servizi sociali degli enti locali di
riferimento, il cui rispetto è condizione per la fruizione del beneficio. I
servizi sociali si impegnano a favorire, con servizi di accompagnamento, il
processo di inclusione lavorativa e di attivazione sociale di tutti i membri
del nucleo. L'art. 3 del decreto
legge 76/2013 ha esteso la sperimentazione
della Carta per l'inclusione,
già prevista per le città di Napoli, Bari, Palermo e Catania, ai restanti territori delle regioni del
Mezzogiorno. Si ricorda che l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente
– che costituisce uno strumento per
l’erogazione degli interventi e dei servizi sociali e per l'accesso alle
prestazioni agevolate - è stato
istituito dal D. Lgs. 109/1998, e poi modificato dall’art. 5
del DL. 201/2011 (c.d. Salva Italia, L. 214/2011), che ha demandato ad un
apposito decreto della Presidenza del Consiglio, su proposta del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il MEF, la revisione
delle modalità di determinazione ed i campi di applicazione. Il nuovo Indicatore prende maggiormente in considerazione gli immobili
e i risparmi delle famiglie, inclusi i titoli finanziari, e il possesso di
beni mobili. Oltre allo specifico decreto, ne è stata prevista la regolamentazione
del sistema dei controlli e del sistema informativo. Relativamente a questo
secondo aspetto, il decreto 8 marzo 2013 Definizione delle modalità di
rafforzamento del sistema dei controlli ha istituito la Banca Dati delle prestazioni
agevolate che dà attuazione pratica all'obbligo degli enti erogatori di
trasmettere all'INPS i dati dei soggetti che ne hanno beneficiato. La nuova
Dichiarazione sostitutiva unica (DSU), propedeutica al rilascio
dell’Indicatore, deve essere presentata alle amministrazioni intermediarie
(tra cui Comune, CAF, amministrazione pubblica competente alla erogazione delle
prestazioni, sede territoriale INPS) tenute al rilascio della ricevuta per la
prestazione. In particolare, i
comuni e gli altri enti tenuti ad erogare le prestazioni sociali con sconti e
aiuti per le famiglie in condizioni di disagio economico, con propri
regolamenti, indicano le tariffe definite in base alle soglie riferite
all’Indicatore. Essi possono avvalersi, mediante appositi protocolli, delle
informazioni in possesso dell’INPS e dell’anagrafe tributaria, anche per il
tramite delle Agenzie delle Entrate. Inoltre i Comuni sono
tenuti a comunicare all’INPS i dati dei soggetti che hanno effettivamente
beneficiato di prestazioni sociali agevolate. In caso di discordanza
rilevata, da parte di INPS e Agenzia delle Entrate, a seguito
dell’accertamento di maggiori redditi dichiarati ai fini fiscali in confronto
a quelli riportati nella DSU, nel rispetto delle disposizioni del codice in
materia di protezione dei dati personali ai sensi del D.Lgs. 196/2003, l’INPS
medesimo comunica gli esiti delle verifiche all’ente che ha erogato la
prestazione agevolata, oltre che il nuovo valore ISEE ricalcolato sulla base
degli elementi acquisiti. L’ente è
quindi tenuto ad accertare, in esito alle risultanze delle verifiche effettuate,
la reale misura delle prestazioni di cui il beneficiario avrebbe potuto
fruire. In caso di accertamento del reddito in via definitiva, oltre alla
sanzione, l’ente comunica al soggetto interessato un invito a chiarire i
motivi della discordanza e, in assenza di osservazioni da parte dello stesso
interessato ovvero nel caso in cui le stesse non possono essere accolte, la
sanzione viene irrogata in misura proporzionale al vantaggio economico
indebitamente conseguito[13]. In ultimo, ricordiamo
che il decreto legge 78/2010, all’art. 13, ha istituito,
presso l’INPS, il Casellario
dell’assistenza: uno strumento di raccolta delle informazioni sui
beneficiari e sulle prestazioni sociali loro erogate, pensato per migliorare
il monitoraggio, la programmazione e la gestione delle politiche sociali. In
tal senso, le informazioni raccolte nel Casellario contribuiranno ad
assicurare una compiuta conoscenza dei bisogni sociali e del sistema
integrato degli interventi e dei servizi sociali e costituiranno parte della
base conoscitiva del sistema informativo dei servizi sociali, ai sensi dell’art. 21 della legge 328/2000[14] (v. oltre per le novità più recenti). |
|
Per quanto riguarda l’ISEE, è stato recentemente approvato il D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n.
159 di
revisione dell’Indicatore. Con la riforma, gli enti erogatori sono tenuti a utilizzare l'ISEE
come indicatore della situazione economica, anche se possono prevedere,
accanto all'Indicatore, criteri ulteriori di selezione volti ad
identificare specifiche platee di beneficiari. Ai fini
dell'applicazione del nuovo ISEE, i Comuni hanno dovuto adeguare i regolamenti
con l'individuazione delle nuove soglie. Il Decreto del 7 novembre 2014 di
approvazione del modello tipo della Dichiarazione Sostitutiva Unica a fini ISEE, dell'attestazione,
nonchè delle relative istruzioni per la compilazione ha reso pienamente operativa
la riforma dell'ISEE a partire dal 1° gennaio 2015. In relazione alla
compilazione della dichiarazione sostituiva unica (DSU), la legge di
stabilità 2015 (legge 190/2014), al comma 314, ha ampliato la
sfera delle informazioni che gli operatori finanziari sono obbligati a comunicare
all'Anagrafe Tributaria, includendovi anche il valore medio di giacenza annuo
di depositi e conto correnti bancari. L’11 febbraio 2015,
il TAR del Lazio ha accolto,
seppur parzialmente, tre ricorsi molto articolati presentati da associazioni
di tutela dei disabili per l'annullamento, previa sospensione del D.P.C.M.
159/2013. Le tre sentenze (TAR Lazio,
Sezione I, n. 2454/2015, 2458/2015 e 2459/2015) modificano parzialmente l’impianto di calcolo dell’Indicatore
della Situazione Reddituale[15]. E’ stato anche accolto il ricorso che annulla il D.P.C.M.
nella parte in cui prevede l’incremento delle franchigie per disabilità per i
soli minorenni (art. 4, lettera d),
n.1, 2, 3). Successivamente, la
Presidenza del Consiglio ha deciso di ricorrere al Consiglio di Stato in
qualità di giudice di appello, sostenendo che, considerato l'ISEE quale
strumento a garanzia dell'equo diritto di accesso e dell'importo di misure
per il contrasto alla povertà, l'assimilazione
dell'indennità di accompagnamento dei disabili alla definizione di reddito
- ancorché utilizzata in senso atecnico, vale a dire non corrispondente alle
categorie di reddito elencate dal DPR 917/1986 ai fini dell'imposizione
fiscale a carico delle persone fisiche - è stata necessaria per esigenze di
equità perequativa e contributiva, in quanto tale indennità risulta già
esente da IRPEF. Dopo essere stata
annunciata alla fine dell’anno precedente, il 29 febbraio 2016, è stata
pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato che, tra l’altro, esclude
l'indennità di accompagnamento dei disabili dal calcolo del reddito ai fini
ISEE (Sentenza n. 00842/2016)[16]. Pertanto, si
prevede pertanto che a breve verranno modificati nuovamente alcuni criteri di calcolo dell’ISEE. Per quanto riguarda il Casellario dell’assistenza, il 25 marzo
2015 è entrato in vigore il decreto 206/2014 recante modalità attuative del
Casellario dell'assistenza. A breve, partirà la prima sezione del Casellario,
la Banca dati delle prestazioni sociali agevolate, collegate all’ISEE, già
disciplinata dal decreto 8 marzo 2013. |
La legge di stabilità 2016 (commi 386-390 della legge 208/2015) ha poi disegnato una serie di interventi per il
contrasto alla povertà e ha previsto, al comma 388, uno o più provvedimenti
legislativi di riordino della normativa in materia di strumenti e trattamenti,
indennità, integrazioni di reddito e assegni di natura assistenziale o comunque
sottoposti alla prova dei mezzi, anche rivolti a beneficiari residenti
all'estero, finalizzati all'introduzione di un'unica misura nazionale di
contrasto alla povertà, correlata alla differenza tra il reddito familiare del
beneficiario e la soglia di povertà assoluta.
Molto sinteticamente, la legge di stabilità ha previsto:
• la definizione di un Piano nazionale triennale per la lotta alla
povertà e all'esclusione;
• l'istituzione del Fondo per la lotta alla povertà e all'esclusione
sociale presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
• l'avvio di una misura nazionale di contrasto alla povertà, intesa come
rafforzamento, estensione e consolidamento della Carta acquisti sperimentale –
SIA;
• lo stanziamento di risorse certe per la Lotta alla povertà e la loro
quantificazione per il 2016 e gli anni successivi. Più in particolare, per il
2016, la stabilità 2016 ha stanziato 380 milioni, ai quali si aggiungono i 220
milioni della messa a regime dell'Asdi, destinata ai disoccupati poveri che
perdono diritto all'indennità di disoccupazione. Tali risorse, alle quali si
aggiungono fondi europei , devono essere impegnate nel 2016 per un Programma di
sostegno per l'inclusione attiva, garantendo in via prioritaria interventi per
nuclei familiari in modo proporzionale al numero di figli minori o disabili,
tenendo conto della presenza, all'interno del nucleo familiare, di donne in
stato di gravidanza accertata. I criteri e le procedure di avvio del Programma,
a cui sono legate le risorse stanziate per il 2016, devono essere definiti con
decreto. Le risorse stanziate annualmente a decorrere dal 2017, pari a un
miliardo per anno, devono garantire l'attuazione del Piano nazionale per la
lotta alla povertà e all'esclusione sociale come disegnato dalla legge delega
ora in esame e dai decreti legislativi da questa discendenti;
Nelle more
dell'adozione del Piano per la lotta alla povertà, da ultimo, la stabilità 2016
(L. 208/2015), al comma 387, ha previsto l'estensione del SIA su tutto il
territorio nazionale. I Comuni e/o gli Ambiti territoriali dovranno associare
al trasferimento monetario un progetto personalizzato di intervento dal
carattere che coinvolga tutti i componenti della famiglia, con particolare
attenzione ai minorenni. Il progetto di presa in carico sarà predisposto dai
servizi sociali in rete con i servizi per l'impiego, i servizi sanitari e le
scuole, nonché con soggetti privati attivi nell'ambito degli interventi di
contrasto alla povertà, sulla base dell'accordo, sancito in sede di Conferenza
unificata Linee guida per la predisposizione e
attuazione dei progetti di presa in carico del Sostegno per l'inclusione attiva
(SIA) (c.d.
Linee Inclusione attiva). L'estensione avverrà con nuovi criteri, e i requisiti
di accesso verranno definiti da un decreto attuativo. Le linee guida illustrano
nel dettaglio il funzionamento e l'applicazione del SIA, regolamentando un
nuovo schema di intervento che prevede il rafforzamento del sistema dei servizi
sociali sul territorio nell'ottica della rete
integrata dei servizi e della cura di tutto il nucleo familiare beneficiario,
secondo il cosiddetto "approccio ecologico", basato sulla
considerazione delle interazioni tra le persone e il loro ambiente peraltro già
sperimentato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con gli Ambiti
territoriali nei programmi di intervento per la prevenzione
dell'istituzionalizzazione dei minori (v. il cd. programma
P.I.P.P.I.).
La Costituzione riserva
alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina
dell’immigrazione, del diritto di asilo
e della condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione
europea (art. 117, comma 2, lett. a)
e b).
Tuttavia, alle regioni
e agli enti locali spettano importanti compiti razione, principalmente nei
settori dell’assistenza e dell’integrazione sociale.
Il testo unico dell’immigrazione,
la principale fonte normativa in materia, stabilisce che, nell’ambito delle
rispettive attribuzioni le regioni e gli enti locali intervengono per rimuovere
gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei diritti e
degli interessi riconosciuti agli stranieri, con particolare riguardo a quelli
inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale (D.Lgs. 286/1999,
art. 3, comma 3).
|
In materia di immigrazione, agli enti locali sono
affidati compiti in collaborazione
con lo Stato e le regioni; ciascuno di essi, nell’ambito delle proprie
competenze, ha il compito di favorire: ·
l’inserimento degli stranieri nella società, attraverso
la diffusione di informazioni relative ai loro diritti e ai doveri e alle
opportunità di integrazione; ·
la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni
culturali, sociali, economiche e religiose dei migranti; ·
le iniziative per prevenire le discriminazioni razziali; ·
l’impiego di stranieri regolarmente soggiornanti in
qualità di mediatori interculturali per agevolare i rapporti con la pubblica
amministrazione; ·
l’organizzazione di corsi di formazione destinati agli
operatori degli organi e uffici pubblici e degli enti privati che hanno
rapporti con stranieri. Per quanto riguarda i
compiti specifici dei comuni, il
principale di questi consiste nell’assicurare ai cittadini stranieri l’integrazione, in particolare nel
campo dei servizi scolastici, sociali e alla prima infanzia, sulla base della
programmazione regionale. Nell’ambito delle sue
competenze nel settore della prevenzione dei pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, il sindaco segnala all’autorità
giudiziaria o di pubblica sicurezza, gli stranieri irregolari per l’eventuale
adozione di provvedimenti di espulsione. I sindaci fanno,
inoltre, parte del Consiglio
territoriale per l’immigrazione, organo formato da rappresentanti di
Stato, regioni, enti locali e ong, con compiti di analisi delle esigenze
degli immigrati e della promozione degli interventi da attuare a livello
locale (TU art. 3, comma 6). Tra gli altri compiti
dei comuni si segnalano l’assistenza agli stranieri nelle procedure di
rilascio e rinnovo dei titoli di soggiorno e il rilascio del certificato
d’idoneità alloggiativa ai fini dell’acquisizione del permesso di soggiorno. Per quanto riguarda i
richiedenti asilo, l’intervento
degli enti locali si instaura una volta esaurita la fase della prima
accoglienza. Coloro che non hanno risorse sufficiente per il proprio
sostentamento trovano accoglienza nelle strutture messe poste a disposizioni
dagli enti locali nell’ambito opera del Sistema di protezione
per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Vi trovano accoglienza i già titolari di forma di
protezione internazionale (rifugiati, titolari di protezione sussidiaria, di
protezione umanitaria) o anche i richiedenti protezione. Il sistema è
costituito da una rete di enti locali (345 Comuni, 30 Province e 7 unioni di Comuni,
secondo dati riferiti al 2014) su base volontaria (essi accedono, nei limiti
delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi
dell'asilo). Essi realizzano, in forma decentrata ed in raccordo con i
soggetti del terzo settore, interventi di accoglienza 'integrata', ossia non
limitati alla distribuzione di vitto e alloggio ma estesi a misure di
formazione, assistenza e orientamento, anche al fine di tracciare percorsi
individuali di inserimento socio-economico. All'interno del
Sistema sono, inoltre, presenti progetti specializzati per l'accoglienza e
sostegno di persone portatrici di specifiche vulnerabilità: persone disabili
o con problemi di salute (fisica e mentale), minori non accompagnati, vittime
di tortura, nuclei monoparentali, donne sole in stato di gravidanza. Per il triennio
2014-2016, risultano finanziati 20.744 posti (di questi, 19.720 sono
'ordinari', 729 sono per minori non accompagnati, 295 per persone con disagio
mentale o con disabilità). Tale disponibilità di posti registra un incremento
rispetto al periodo precedente, in cui si giungeva fino a 12.642 posti. Questa la
distribuzione del totale dei posti SPRAR per regione, per il triennio
2014-16: Abruzzo, 227; Basilicata, 406; Calabria, 1.894; Campania, 1.155;
Emilia-Romagna, 748; Friuli Venezia Giulia, 318; Lazio, 4.791; Liguria, 308,
Lombardia, 942; Marche, 538; Molise, 440; Piemonte, 883; Puglia, 1.864; Sardegna,
88; Sicilia, 4.782; Toscana, 547; Trentino-Alto Adige, 149; Umbria, 371;
Veneto, 293. I dati citati sono di fonte SPRAR. |
||
|
|
Nel 2014 si è
registrato un forte aumento delle domande di protezione internazionale (64.886
domande presentare a fronte delle 26.620 del 2013) con conseguenti
ripercussioni sul sistema di accoglienza. Agli oneri connessi
all'aumento del numero dei richiedenti asilo si è fatto fronte innanzitutto,
con il decreto-legge 15 ottobre 2013, n. 120, recante misure di riequilibrio
della finanza pubblica (convertito dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137) che
ha incrementato di 20 milioni di euro per l'anno 2013 il Fondo nazionale per
l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati ed ha istituito un Fondo
presso il Ministero dell'interno per far fronte ai problemi indotti dal
fenomeno dell'immigrazione, con una dotazione di 190 milioni di euro per
l'anno 2013. Parte della dotazione di quest'ultimo fondo, pari a 30 milioni,
sono stati assegnati al Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione
del Ministero dell'interno ad integrazione del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell'asilo (decreto
del Ministro dell'interno 3 giugno 2014). Ulteriori risorse
sono state stanziate dalla legge di stabilità 2014 (3 milioni per il fondo
asilo per l'anno 2014, L. 147/2013, art. 1, co. 204) e dal decreto-legge 119
del 2014. Quest'ultimo incrementa per il 2014 di 50,8 milioni di euro il
Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo (destinate ad
ampliare le strutture Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati -
SPRAR) e crea un nuovo fondo nello stato di previsione del Ministero
dell'interno per fronteggiare l'eccezionale afflusso di stranieri sul
territorio nazionale e vi destina per il 2014 62,7 milioni di euro. Di particolare
rilievo l'introduzione di una norma di favore nei confronti dei comuni, come
Lampedusa ed altri comuni siciliani, maggiormente interessati dalla pressione
migratoria che esclude le spese connesse all'emergenza migratoria dal patto
di stabilità interno. La legge di stabilità
2015 (L. 190/2015, art. 1, commi 179 e 180) ha incrementato di ulteriori
187,5 milioni di euro il Fondo per i richiedenti asilo e ha reso permanente
lo stanziamento di 3 milioni previsto dalla legge di stabilità dell'anno
precedente per il solo anno 2014. Inoltre, la medesima legge di stabilità
2015 prevede che i minori stranieri non accompagnati accedono ai servizi di
accoglienza finanziati dal Fondo per l'asilo anche se non hanno presentato
domanda di riconoscimento dello status di rifugiato (art. 1, co. 181-183). Una riduzione del
Fondo si registra all'inizio del 2015 con il DL 18 febbraio 2015, n. 7 (art.
5, comma 2) dove si prevede che una parte dei costi derivanti dalla proroga
dell'operazione "Strade sicure" sia coperta mediante riduzione del
Fondo nazionale per le politiche dell'asilo (ca. 3,4 milioni di euro). Si ricorda, infine,
che è stato emanato il decreto legislativo 142/2015 che ha provveduto ad
attuare sia la nuova direttiva europea “procedure” (2013/32), sia la nuova
direttiva “accoglienza” (2013/33), recanti, rispettivamente le procedure di
esame delle domande di protezione internazionale, e le modalità di
accoglienza, immediata e di più lungo periodo, dei richiedenti asilo. In
particolare quest’ultima disciplina le condizioni materiali di accoglienza,
assistenza e reinserimento sociale di coloro che hanno ottenuto la protezione
internazionale (riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione
sussidiaria o del diritto di asilo) o ne hanno fatto richiesta. |
|
La realizzazione del
principio costituzionale di tutela della salute è avvenuta essenzialmente
attraverso l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, sorto allo scopo di
fornire prestazioni sanitarie inclusive della prevenzione, della cura e della
riabilitazione, attraverso l’interazione tra pubblici poteri e, in determinati
casi, anche fra istituzioni pubbliche e private.
La gestione del sistema
sanitario, tuttavia, è esercitata in misura prevalente da Stato e Regioni,
secondo la distribuzione di competenze stabilita dalla Costituzione e dalla
legislazione vigente in materia.
E’ la Costituzione
italiana (art. 117, comma 2, lettera m), infatti, a stabilire che alla
legislazione statale spetta la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale (L.E.A.) mentre la materia della tutela della
salute rientra nella competenza legislativa concorrente affidata alle regioni:
in tal senso spetta allo Stato definire, con proprie leggi, i principi
fondamentali in materia, ed alle regioni di legiferare nel rispetto dei citati
principi.
Ai sensi della legge
istitutiva del Servizio sanitario nazionale (legge
n. 833/1978) l’attuazione del
Servizio medesimo compete allo Stato, alle Regioni, e agli enti locali
territoriali.
L’articolazione
organizzativa del SSN impostata verticalmente su tre livelli – statale,
regionale e locale - tuttavia nel corso degli anni, e con le successive riforme
sanitarie, ha visto negli anni prevalere un processo di regionalizzazione in
cui le Regioni diventano centri di imputazione di responsabilità gestionali di
natura programmatoria, organizzativa e finanziaria.
Il decreto legislativo
502/1992 ha individuato nella
Regione l’ente locale di riferimento delle aziende sanitarie, siano esse AUSL
(Azienda unità sanitaria locale) o aziende ospedaliere, superando l’esperienza
precedente che aveva visto nel contesto comunale il baricentro del servizio
sanitario. Questo assetto territoriale aveva generato notevoli disfunzioni
organizzative, con relativi sprechi economici, sviluppando una logica della
spesa senza un reale controllo.
La distribuzione delle
funzioni organizzative tra i diversi livelli di governo promossa dalle
successive riforme (tra cui il decreto
legislativo 229/1999) è stata improntata al
principio di sussidiaretà verticale nel senso che il SSN, per poter operare in
funzione del perseguimento delle finalità di tutela del diritto alla salute,
deve essere strutturato come servizio il più vicino possibile ai sui fruitori.
La legge costituzionale
n. 3/2001, che ha riscritto il Titolo V della Costituzione, ha delineato la
Regione quale fulcro organizzativo essenziale del Servizio sanitario nazionale
e responsabile del governo della sanità.
Alcune funzioni,
tuttavia, residuano in capo alle province ed ai comuni.
Quanto alle funzioni
proprie delle province vanno citate quelle di cui al Testo unico degli enti
locali (decreto
legislativo 267/2000) che interessano i
servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica attribuiti dalla legislazione
statale e regionale (art. 19) e la programmazione, che si articola nelle fasi
della raccolta e coordinamento delle proposte avanzate dai Comuni e dal
concorso alla programmazione regionale, in particolare del Piano sanitario
regionale (art. 20).
Quanto alle funzioni
comunali, il D.Lgs. 502/1992 attribuisce al Sindaco o alla Conferenza dei
Sindaci o dei Presidenti delle circoscrizioni nuove funzioni. Più in
particolare il comma 14 dell’articolo 3 del citato decreto legislativo
stabilisce che nelle AUSL il cui ambito territoriale coincide con quello
comunale il Sindaco, al fine di soddisfare le esigenze sanitarie della
popolazione, provvede alla definizione, nell’ambito delle programmazione
regionale, delle linee di indirizzo per l’impostazione programmatica
dell’attività, esamina il bilancio pluriennale di previsione e il bilancio di
esercizio e rimette alla Regione le relative osservazioni. Nelle AUSL il cui
ambito territoriale non coincide con il territorio del comune le funzioni del
Sindaco sono svolte dalla Conferenza dei sindaci o dei presidenti di
circoscrizione di riferimento territoriale. Il Comune svolge anche un ruolo
significativo sul piano programmatico, con funzioni consultive o propositive
riferite ai diversi atti della programmazione sanitaria, nonché nell’ambito dell’attività di controllo,
esprimendo pareri sulla conferma o revoca del Direttore generale dell’AUSL e
dell’azienda ospedaliera. Esercita anche un’importante funzione nell’ambito
dell’attività diretta alla realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie
provvedendo al rilascio delle necessarie autorizzazioni.
|
L'articolo 32 della
Costituzione stabilisce che la Repubblica tutela la salute come fondamentale
diritto dell'individuo e interesse della collettività. Si tratta di una norma
che è al contempo, programmatica, poiché impegna il legislatore a promuovere
idonee iniziative volte all'attuazione
di un compiuto sistema di tutela adeguato alle esigenze di una società
che cresce e progredisce, e precettiva, in quanto implica che l'individuo, come cittadino, vanti nei
confronti dello Stato un vero e proprio diritto soggettivo alla tutela della
propria salute, intesa non solo come bene personale, ma anche come bene della collettività, che
ha bisogno della salute di tutti i suoi componenti per meglio crescere ed
affermare i propri valori. Sul piano legislativo
la realizzazione del principio costituzionale di tutela della salute è
avvenuta, con la legge n. 833 del 1978, essenzialmente attraverso
l'istituzione del Servizio sanitario nazionale, definito come il complesso
delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinate alla
promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di
tutta la popolazione. L'aspetto peculiare della riforma del 1978 è
rappresentato dalla costituzione delle Unità Sanitarie Locali, ossia le
strutture operative dei Comuni, singoli o associati alle Comunità Montane,
preordinate a soddisfare le esigenze socio-sanitarie dei cittadini. Con il
decreto legislativo n. 502 del 1992 si
è assistito ad un nuovo riordino del Servizio sanitario nazionale attraverso
la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (L.E.A.); il principio
di aziendalizzazione, la riduzione del numero delle USL; il
finanziamento derivato dal pagamento
delle prestazioni erogate, sulla base
di tariffe definite dalle singole Regioni; la libera scelta del cittadino; l'istituzione delle figure
di Direttore generale, di Direttore sanitario aziendale e di Direttore
Amministrativo; l'introduzione del sistema di accreditamento istituzionale;
l'adozione sistematica del metodo di
verifica e revisione della qualità e della quantità delle prestazioni. Con il
decreto legislativo n 112 del 1998 si è disposto un generale conferimento di competenze in
favore degli enti territoriali, individuando specificamente i compiti residuali riservati allo Stato. Tale
conferimento ha riguardato prevalentemente le Regioni, mentre gli enti locali
sono coinvolti per lo più a livello di programmazione concertata, mediante la
Conferenza unificata, e in alcuni casi a livello di amministrazione attiva.
La regionalizzazione del Sistema venne quindi rafforzata con la legge n. 419 del 1998 e il decreto legislativo n. 229 del 1999, riconoscendo
alle Regioni nuove e più ampie facoltà nella programmazione regionale e nella
gestione dei servizi, tanto che il
Sevizio sanitario nazionale venne definito come il "complesso delle
funzioni e delle attività dei servizi sanitari regionali e degli enti e
istituzioni di rilievo nazionale". Infine, nel 2001, con
la riforma del titolo V e la modifica dell'articolo 117 della Costituzione, la gestione del
sistema sanitario è stata affidata allo Stato e alle Regioni secondo la
ripartizione di competenze ivi definita. In particolare, alla legislazione
statale è stata affidata la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali garantiti su tutto il territorio
nazionale (L.E.A.), mentre alla competenza legislativa concorrente Stato-Regioni
spetta la tutela della salute: in tal senso compete allo Stato, con proprie
leggi, definire i principi fondamentali in materia, ed alle regioni di
legiferare nel rispetto dei citati principi. I livelli essenziali
e uniformi di assistenza (L.E.A.) individuano le prestazioni sanitarie e
sociosanitarie garantite nell'ambito del Servizio sanitario nazionale a tutti
i cittadini tramite le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità
generale, e sono definiti, di norma, con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri. In particolare, l'articolo 6 del decreto-legge n. 347 del 2001,
in applicazione dell'Accordo dell'8 agosto 2001 tra lo Stato e le Regioni e
le Province autonome, ha disciplinato la procedura per la definizione dei
livelli essenziali di assistenza (decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri, su proposta del Ministro della salute di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano). Più in dettaglio, il DPCM 29 novembre 2001, come modificato dal
DPCM 5 marzo 2007, distingue tra prestazioni garantite, a carico del SSN,
individuate nell'assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di
lavoro, nell'assistenza distrettuale (medicina di base e di emergenza,
assistenza farmaceutica, assistenza integrativa e specialistica
ambulatoriale) e nell'assistenza ospedaliera, e prestazioni a carico del
cittadino, come gli interventi di chirurgia estetica, l'erogazione di
medicine non convenzionali, delle vaccinazioni non obbligatorie, ecc. L'esigenza di una
revisione dei L.E.A. è stata ribadita dall'articolo 5 del decreto-legge n.158 del 2012 - cosiddetto
decreto Balduzzi, legge 189/2012 - che ne aveva previsto l'aggiornamento
entro il 31 dicembre 2012, con prioritario riferimento alle malattie croniche
e alle malattie rare, nonché con riferimento alle prestazioni rivolte alle
persone affette da ludopatia. Il relativo schema di decreto è ancora in fase
di elaborazione. Oltre alla funzione
legislativa, riferita ai LEA ed all’emanazione di leggi-cornice in materia di
tutela della salute, allo Stato spetta la funzione di indirizzo e
coordinamento delle attività amministrative esercitate dalle Regioni in
materia sanitaria, e la funzione amministrativa concernente le attività
amministrative che riflettono esigenze di carattere nazionale o impegni
internazionali. Inoltre il D.Lgs. 502/1992, come modificato dal D.Lgs.
229/1999 ha riservato allo Stato alcune attività tra le quali l’adozione del
Piano sanitario nazionale, l’elaborazione del programma di ricerca sanitaria,
il finanziamento del Fondo sanitario nazionale e della sua ripartizione. Alle Regioni, oltre
alla funzione legislativa in materia di tutela della salute, intesa quale
potestà legislativa concorrente nei limiti dei princìpi fondamentali
stabiliti con leggi dello Stato, spetta il compito di istituire e
disciplinare (art. 2 D.Lgs 502/1992) la Conferenza permanente per la
programmazione sanitaria e sociosanitaria regionale nonché di disciplinare il
rapporto tra programmazione regionale e programmazione attuativa locale.
Spettano inoltre ad esse una serie di funzioni amministrative (cfr. D.Lgs
112/1998 e D.Lgs 229/1999) tra le quali si ricordano: -
l’elaborazione del Piano sanitario regionale; -
la determinazione dei princìpi sull’organizzazione dei
servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute; -
l’articolazione del territorio regionale in aziende unità
sanitarie locali, i criteri per l’adozione dell’atto aziendale costitutivo
dell’azienda sanitaria; -
la fissazione dei criteri di finanziamento delle aziende
sanitarie ; -
la definizione delle modalità di vigilanza e controllo
sulle AUSL da parte della Regione, nonché di valutazione dei risultati delle
stesse, prevedendo, in quest’ultimo caso, forme e modalità di partecipazione
della Conferenza dei Sindaci; -
la definizione delle modalità con cui le Aziende unità
sanitarie locali e le aziende ospedaliere assicurano le prestazioni ed i
servizi assicurati dai livelli aggiuntivi di assistenza finanziati dai Comuni. Le Regioni pertanto,
ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 502/1992, attraverso le AUSL assicurano i
livelli essenziali di assistenza avvalendosi anche delle aziende ospedaliere.
Le AUSL sono aziende con personalità giuridica pubblica, dotate di autonomia
imprenditoriale, la cui organizzazione e funzionamento sono disciplinate con
atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei criteri fissati da
disposizioni regionali. L’azienda AUSL può gestire su delega dei singoli enti
locali e con oneri a totale carico degli stessi le attività o servizi
socio-assistenziali. Gli organi della AUSL
sono il direttore generale - coadiuvato dal direttore sanitario e dal direttore
amministrativo, da lui nominati -, il Collegio sindacale e a seguito delle
modifiche introdotte dal D.L. 158/2012,
il Collegio di direzione. Come sopra già
ricordato, le competenze del Sindaco sono delineate al comma 14 dell’articolo
3 del D.Lgs. 502/1992. Nella nuova organizzazione aziendalistica delle AUSL,
il sindaco è rimasto l’unico soggetto ad esprimere la rappresentanza
politico-sociale della comunità ricompresa nell’ambito territoriale della
nuova azienda sanitaria. Nel caso in cui il territorio di quest’ultima non
coincida con il territorio di un comune le funzioni del Sindaco sono svolte
dalla Conferenza dei Sindaci o dei Presidenti delle Circoscrizioni di
riferimento territoriale tramite una rappresentanza costituita nel suo seno
da non più di cinque componenti nominati dalla stessa Conferenza con modalità
di esercizio delle funzioni dettate da normativa regionale. Le attuali
competenze, ai sensi del comma 14 dell’articolo 3, sono le seguenti: -
definizione, nell’ambito della programmazione regionale,
delle linee di indirizzo per l’impostazione programmatica dell’attività; -
esame del bilancio pluriennale di previsione e del
bilancio di esercizio, rimettendo alla regione le relative osservazioni; -
verifica dell’andamento generale dell’attività e
partecipazione alla definizione dei piani programmatici, con trasmissione
delle valutazioni e proposte al Direttore generale ed alla Regione; Il D.Lgs. 229/1999, modificando in tal senso il D.Lgs.
502/1992, ha disciplinato poi una sostanziale
nuova serie di competenze per i comuni e gli enti locali in generale. Tra esse si ricordano: -
l’istituzione della Conferenza permanente per la
programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale (della quale fanno parte
il Sindaco del Comune che ha il medesimo ambito territoriale della AUSL, il
presidente della Conferenza dei sindaci, nei casi di AUSL con ambiti
provinciali, il Sindaco o i presidenti di circoscrizioni nei casi di AUSL con
ambiti territoriali superiori o inferiori a quelli comunali, art. 2, comma 2 bis D.Lgs. 502/1992); -
la partecipazione degli enti locali, secondo modalità
definite dalla legge regionale, alle procedure di proposta, adozione e
approvazione del Piano attuativo locale (art. 2, co 2-quinquies); -
la definizione, da parte dei Sindaci o della Conferenza
dei Sindaci, delle linee di indirizzo delle AUSL e l’esame del bilancio da
parte degli stessi organi nonché la verifica dell’andamento generale dell’attività
dell’azienda (art. 3, comma 14); -
l’espressione da parte del Sindaco o della Conferenza dei
sindaci di un parere alla regione, trascorsi 18 mesi dalla nomina del
direttore generale, in merito al raggiungimento degli obbiettivi e dei
risultati raggiunti da quest’ultimo (art. 3-bis, comma 6); -
il finanziamento da parte dei comuni, delle prestazioni
sociali a rilevanza sanitaria (art. 3-septies, comma 6); -
i regolamenti di Regioni, enti territoriali ed enti
locali sono, tra le altre, le fonti istitutive dei fondi integrativi del SSN
(art. 9, comma 3). |
|
Le modifiche
normative intervenute negli ultimi anni non riguardano specificamente le
competenze degli enti locali ma attengono alla competenza regionale.
Tuttavia, data l’importanza delle innovazioni introdotte ed i loro possibili
effetti sulla trasparenza e l’efficiente organizzazione del Servizio
sanitario se ne opera un sintetico richiamo. Si tratta delle innovazioni
introdotte da alcune disposizioni (artt. 1 e 4) contenute nel decreto legge
158/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 189/2012. L’articolo 1 del
citato decreto innova la disciplina del rapporto tra il Servizio sanitario
nazionale e i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e gli
specialisti ambulatoriali, definita dagli accordi collettivi nazionali di
durata triennale. Le regioni definiscono l’organizzazione dei servizi
territoriali di assistenza primaria, promuovendo l’integrazione con il
sociale, anche con riferimento all’assistenza domiciliare, e con i servizi
ospedalieri prevedendo forme organizzative monoprofessionali e
multiprofessionali che erogano, in coerenza con la programmazione regionale,
prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’integrazione dei medici,
delle altre professionalità convenzionate con il Servizio sanitario
nazionale, degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della
riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria. Verrà
privilegiata la costituzione di reti di poliambulatori territoriali, dotati
di strumentazione di base e aperti al pubblico per tutto l’arco della
giornata, nonché nei giorni prefestivi e festivi con idonea turnazione. L’articolo 4 detta
disposizioni in tema di dirigenza sanitaria e di governo clinico. Vengono
disciplinate le modalità di nomina dei direttori generali delle aziende e
degli enti del servizio sanitario regionale da parte delle regioni, tenute
ad attingere obbligatoriamente ad un
elenco regionale di idonei, aggiornato almeno ogni due anni, costituito mediante una selezione
effettuata, secondo criteri individuati dalle regioni, da una commissione di
cui è disciplinata la composizione, costituita dalla regione medesima.
Vengono definiti gli strumenti e le modalità di valutazione dei dirigenti
medici e sanitari; per assicurare un’omogeneità nella valutazione
dell’attività dei direttori generali viene rimesso alle regioni il compito di
concordare, in sede di Conferenza delle regioni, criteri e sistemi di
verifica sulla base di parametri definiti. Viene poi stabilita una nuova e
specifica disciplina per il conferimento degli incarichi di direttore di
struttura complessa e di responsabile di struttura semplice, improntata a
criteri di trasparenza e pubblicità. Inoltre il collegio
di direzione viene inserito tra gli organi dell’azienda e vengono fissati
contestualmente, alcuni principi in merito alla sua composizione e alle sue
funzioni. |
In materia di scuola,
agli enti locali – e, nello specifico: alle province, in relazione
all’istruzione secondaria superiore; ai comuni, in relazione ai gradi inferiori
– fanno capo le funzioni riferibili, in particolare, alla realizzazione e alla
manutenzione degli edifici scolastici
e gli oneri connessi alle spese varie di ufficio e alle relative utenze.
D’intesa con le scuole,
inoltre, essi possono sviluppare iniziative relative all’offerta formativa, riferibili, tra l’altro, all’educazione degli
adulti, all’orientamento scolastico e professionale, alla prevenzione della
dispersione scolastica.
In particolare, agli
enti locali sono esplicitamente attribuite competenze in materia di vigilanza
dell’assolvimento del diritto-dovere
all’istruzione e alla formazione.
|
Nell’assetto
costituzionale derivato dalla riforma del 2001, le “norme generali sull’istruzione” rientrano tra le materie di
competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. n), Cost.), così come allo Stato spetta
la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i “diritti civili e sociali” che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo
comma, lett. m), Cost.). E’, invece,
annoverata tra le materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma,
Cost.) l’”istruzione, salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione
professionale” che rientra, dunque, nella competenza esclusiva delle
regioni (art. 117, quarto comma, Cost.). Con riguardo all’autonomia delle istituzioni scolastiche,
prevista (già prima della riforma del titolo
V) dall’art. 21 della L. 59/1997, si ricorda, in particolare, che in base al DPR 275/1999, le scuole
provvedono, fra l’altro, alla definizione e alla realizzazione dell'offerta formativa, nel rispetto delle
funzioni delegate alle regioni e dei compiti e funzioni trasferiti agli enti
locali dal d.lgs. 112/1998, mediante la predisposizione
del Piano, ora triennale, dell’offerta formativa. Nello
specifico, l’art. 3 del DPR 275/1999 - come sostituito dall’art. 1, co. 14,
della L. 107/2015 - dispone che il Piano riflette le esigenze del contesto
culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della
programmazione territoriale dell'offerta formativa; ai fini della sua
predisposizione, dunque, il dirigente scolastico promuove i necessari rapporti con gli enti locali (oltre
che con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche
operanti nel territorio). A livello di funzioni amministrative, il d.lgs.
112/1998, riservandone allo Stato alcune (art. 137) e delegandone altre alle
regioni (art. 138), ha trasferito (art. 139) alle province, in relazione all’istruzione
secondaria superiore, e ai comuni,
in relazione ai gradi inferiori di
scuola, i compiti e le funzioni concernenti, in particolare (oltre che i
servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni
con disabilità o in situazione di svantaggio, per i quali si rinvia alla
scheda relativa a “Assistenza scolastica”): - il piano di utilizzazione degli edifici
e di uso delle attrezzature, d'intesa con le scuole; - la sospensione delle lezioni in casi gravi
e urgenti; - la costituzione, i controlli e la vigilanza, compreso lo scioglimento,
sugli organi collegiali scolastici a
livello territoriale. Ha inoltre previsto
la possibilità per gli enti locali di sviluppare, anche d’intesa con le
scuole, iniziative più propriamente riferite all’offerta formativa e, in particolare, relative a: - educazione degli adulti; - interventi
integrati di orientamento
scolastico e professionale; - azioni tese a
realizzare le pari opportunità di
istruzione; - azioni di supporto tese a promuovere e
sostenere la coerenza e la continuità
in verticale e orizzontale tra i diversi gradi e ordini di scuola;
- interventi perequativi; - interventi
integrati di prevenzione della dispersione scolastica e di
educazione alla salute. Ulteriori compiti
trasferiti agli enti locali dal medesimo art. 139 riguardano il dimensionamento delle
scuole e la riorganizzazione della
rete scolastica. La materia è stata, peraltro, oggetto di successivi e
stratificati interventi normativi. Al riguardo, si veda l’apposito approfondimento web. Con riguardo all’assolvimento del diritto-dovere
all’istruzione e alla formazione – che costituisce ridefinizione e
ampliamento dell'obbligo scolastico, di cui all'art. 34 Cost. –, l’art. 5 del
d.lgs. 76/2005 ha attribuito agli enti locali competenze in materia di vigilanza (prima riferite, comunque,
all’obbligo scolastico). In particolare, a ciò provvedono, anche sulla base
dei dati forniti dalle anagrafi degli studenti, il comune in cui hanno la residenza gli studenti e la provincia, attraverso i servizi per
l’impiego. In generale, si
ricorda che l’art. 8 del Regolamento di organizzazione del MIUR (emanato, da
ultimo, con DPR 98/2014) ha previsto la collaborazione
dell’Ufficio scolastico regionale e delle sue articolazioni territoriali con
le regioni e gli enti locali nell'esercizio delle competenze loro
attribuite dal d.lgs. 112/1998 (in particolare, con riferimento alla
ricognizione delle esigenze formative e allo sviluppo della relativa offerta
sul territorio, all'offerta formativa integrata, all'educazione degli adulti,
ai rapporti scuola-lavoro, all'integrazione scolastica dei diversamente abili,
alla promozione della partecipazione studentesca). In materia di edilizia e attrezzature scolastiche, gli
artt. 3 e 4 della L. 23/1996 hanno disposto che, mentre alla programmazione
si provvede mediante piani generali triennali e piani annuali di attuazione
predisposti e approvati dalle regioni, sulla
base delle proposte formulate dagli
enti territoriali competenti (sull’argomento, peraltro, vi è una
notevolissima stratificazione normativa successiva), alla realizzazione, alla fornitura e alla manutenzione ordinaria e straordinaria
degli edifici provvedono: -
i comuni, per quelli da destinare a sede di scuole
materne, elementari e medie; -
le province, per quelli da destinare a sede di istituti
di istruzione secondaria superiore, nonché di convitti ed istituzioni
educative statali. Gli enti locali possono delegare alle scuole, su loro
richiesta, funzioni relative alla manutenzione ordinaria degli edifici, assicurando,
a tal fine, le necessarie risorse finanziarie. Essi provvedono anche
alle spese varie di ufficio e per
l'arredamento e a quelle per le utenze, nonché ai relativi impianti (in materia, dispongono
anche gli artt. 107, 159, 190 e 201 del d.lgs. 297/1994). Infine, nel caso di
allestimento e impianto di materiale didattico e scientifico che implichi il
rispetto delle norme sulla sicurezza e sull'adeguamento degli impianti,
l'ente locale competente deve dare alle scuole un parere obbligatorio
preventivo sull'adeguatezza dei locali, ovvero impegnarsi formalmente ad
adeguare gli stessi contestualmente all'impianto delle attrezzature. Peraltro, nella
formulazione che pone a carico dei comuni e delle province, per le scuole di
rispettiva competenza, le “spese varie di ufficio” possono ritenersi
ricompresi gli oneri dovuti per la corresponsione della tassa sui rifiuti delle scuole. Al riguardo, l’art. 33-bis del D.L. 248/2007 (L. 31/2008) ha
previsto che, a decorrere dal 2008, il Ministero
(ora) dell’istruzione, dell’università e della ricerca provvede a
corrispondere direttamente ai comuni
la somma concordata in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali,
quale importo forfetario
complessivo per lo svolgimento, nei confronti delle istituzioni scolastiche
statali, del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi
urbani. I criteri e le modalità di corresponsione delle somme dovute ai
singoli comuni, in proporzione alla consistenza della popolazione scolastica,
sono concordati nell'ambito della stessa Conferenza. Si ricorda, infine,
che anche le scuole paritarie degli
enti locali fanno parte del sistema nazionale di
istruzione (L. 62/2000). |
|
L’art. 21, co. 3,
della legge delega sul federalismo
fiscale (L. 42/2009) ha inserito fra le funzioni fondamentali dei comuni
e delle province, sia pur provvisoriamente e solo ai fini del procedimento di
determinazione di costi e fabbisogni standard, le funzioni di istruzione pubblica, nonché l’edilizia scolastica, in relazione ai
diversi gradi di istruzione. In tal senso, dispone anche il decreto attuativo
della delega (v. art. 3, co. 1, del d.lgs. 216/2010). Successivamente,
l’art. 14, co. 27, del D.L. 78/2010 (L. 122/2010) – come modificato, in
particolare, dall’art. 19, co. 1, del D.L. 95/2012 (L. 135/2012) – nel
definire a regime le funzioni fondamentali dei comuni, ai
sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. p), Cost., ha confermato l’attribuzione agli stessi delle
competenze in materia di edilizia scolastica,
per la parte non attribuita alla competenza delle province (alle quali
l’art. 17, co. 10, dello stesso D.L. 95/2012 – come modificato dall’art. 1,
co. 115, della L. 228/2012 – aveva affidato, in via provvisoria, la
“programmazione provinciale della rete scolastica” e la “gestione
dell’edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado”),
mentre non ha più fatto riferimento alle funzioni di “istruzione pubblica”, bensì
a quelle relative a ”organizzazione e
gestione dei servizi scolastici”. Da ultimo, l’art. 1,
co. 85, della L. 56/2014 ha inserito in
via permanente fra le funzioni
fondamentali delle province, quali enti con funzioni di area vasta, la “programmazione provinciale della rete
scolastica, nel rispetto della programmazione regionale” e la “gestione dell’edilizia scolastica”
(senza esplicito riferimento ai soli edifici scolastici relativi
all’istruzione secondaria di secondo grado). Come concludono ANCI
e UPI nel documento predisposto il 3 luglio 2014, tuttavia, una lettura sistematica delle disposizioni
sulle funzioni fondamentali dei comuni e delle province porta a concludere
che restano in capo alle province (solo) le competenze in materia di gestione
dell’edilizia scolastica delle scuole secondarie di secondo grado. |
Le province, i comuni e
le città metropolitane, unitamente alle regioni e allo Stato, assicurano e
sostengono la conservazione del
patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione.
In particolare, gli
enti locali e le regioni, oltre ad avere specifici obblighi di tutela dei beni
culturali di loro appartenenza, cooperano
con lo Stato – e, nella fattispecie, con il Ministero dei beni e delle
attività culturali e del turismo – nell’esercizio
delle funzioni di tutela del patrimonio culturale. Inoltre, gli enti locali
perseguono, insieme con lo stesso
Ministero e le regioni, il coordinamento, l'armonizzazione e l'integrazione
delle attività di valorizzazione dei
beni culturali.
Ciò discende dall’art. 9 della Costituzione, che affida, fra l’altro, alla Repubblica – in tutte
le sue articolazioni –, la tutela del patrimonio storico e artistico della
Nazione e lo sviluppo della cultura.
|
Nell’assetto costituzionale
derivato dalla riforma del 2001, la competenza legislativa in materia di “tutela dei beni culturali” è attribuita allo Stato (art. 117, secondo
comma, lett. s), Cost.), mentre la
“valorizzazione dei beni culturali” e la “promozione e organizzazione di attività
culturali” è annoverata tra le materie di legislazione concorrente (art.
117, terzo comma, Cost.). A sua volta, l’art.
118, terzo comma, Cost., ha devoluto alla legge statale il compito di
disciplinare “forme di intesa e
coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali” tra Stato e
regioni. Su queste basi,
l’art. 4 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42/2004) attribuisce
all’attuale Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo le funzioni
di tutela, disponendo che lo
stesso le esercita direttamente o ne può conferire l'esercizio alle regioni,
tramite forme di intesa e coordinamento, mentre il successivo art. 5 prevede
la cooperazione, in materia di
tutela, delle regioni e degli altri
enti pubblici territoriali, previa stipula di specifici accordi o intese.
Oltre alla previsione
generale della coooperazione, il Codice attribuisce agli enti locali varie competenze
specifiche in materia di tutela (v., fra gli altri: art. 14, sul potere
di “impulso” relativo al procedimento per la dichiarazione dell'interesse
culturale; art. 17, co. 1, sul concorso nella catalogazione dei beni
culturali; art. 33, co. 4, sul parere motivato in ordine al progetto esecutivo degli interventi
conservativi imposti riguardanti beni immobili; art. 46, sul potere di
“impulso” per l’avvio del procedimento per la tutela indiretta di beni
culturali immobili; art. 52, sull’individuazione, da parte dei comuni, delle
aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico
nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l'esercizio del
commercio; art. 60, in materia di prelazione all’acquisto). Ulteriori competenze in
materia sono attribuite agli enti
locali con riferimento ai beni
culturali di loro appartenenza (oltre all’obbligo generale di garantirne
sicurezza e conservazione, recato dall’art. 30, co. 1, si v., tra gli altri:
art. 12, sul potere di “impulso” nel procedimento per la verifica
dell'interesse culturale dei propri beni; art. 17, co. 4, sulla catalogazione
dei propri beni culturali; art. 30, co. 4, sull’obbligo di inventariare i
propri archivi storici). In materia di valorizzazione, l’art. 7, co. 2, del
Codice dispone che il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici
territoriali perseguono il coordinamento,
l'armonizzazione e l'integrazione delle relative attività. Strumento precipuo, a
tal fine, è costituito dalla possibilità di concludere accordi tra i diversi soggetti per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per
elaborare i conseguenti piani
strategici di sviluppo culturale (art. 112, co. 4). Con la medesima
procedura si procede a definire accordi finalizzati al coordinamento,
all’armonizzazione e all’integrazione della fruizione degli istituti e dei luoghi della cultura di
appartenenza pubblica (art. 102, co. 4). In base al Codice,
comunque, in assenza degli accordi, ciascun soggetto pubblico – e, dunque,
anche gli enti locali – è tenuto a garantire la fruizione (art. 102, co. 4, ultimo periodo) e la valorizzazione dei beni di cui ha la
disponibilità (art. 112, co. 6), in relazione ai quali stabilisce le
modalità di accesso (art. 103, co. 3), può concederne l’uso individuale a
singoli richiedenti (art. 106), può consentirne la riproduzione (art. 107),
può stabilire il ricorso alla gestione
indiretta al fine di assicurarne un miglior livello di valorizzazione (art.
115, co. 4). Ulteriori competenze
in materia di valorizzazione sono attribuite – assieme a Stato e regioni –
agli enti locali (v., fra gli altri: art. 114, sulla definizione dei livelli
minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione su beni di
pertinenza pubblica; art. 118, sulla promozione di attività di studio e
ricerca sul patrimonio culturale; art. 121, sulla possibilità di stipulare
accordi con le Fondazioni bancarie). Sull’esigenza
dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale e sulla finalità di interesse generale attribuita allo
sviluppo della cultura e alla medesima tutela dei beni culturali – “il cui
perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9
Cost.), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e
regioni” –, si vedano, in particolare, le sentenze della Corte costituzionale 232/2005, 478/2002, 307/2004. Più ampiamente, si
veda la pubblicazione “Funzioni e ruoli
degli enti locali in tema di beni culturali nella normazione statale e
regionale”, predisposta
dall’Unione delle province italiane nel novembre 2010. Per le competenze
degli enti locali in materia di attività culturali, si v. anche la scheda
relativa a “Le attività e gli impianti per lo spettacolo e lo sport”. |
|
Le più
recenti modifiche normative intervenute Nell’alveo del c.d. federalismo demaniale, l’art. 5, co.
5, del d.lgs. 85/2010 – come
modificato dall’art. 27, co. 8, del D.L. 201/2011 (L. 2014/2011) – ha
previsto che, nell'ambito di specifici accordi di valorizzazione e dei
conseguenti programmi e piani strategici di sviluppo culturale, definiti in
base all'art. 112, co. 4, del d.lgs. 42/2004, lo Stato provvede, su
richiesta, al trasferimento alle Regioni e agli altri enti territoriali dei
beni immobili indicati nei suddetti accordi. Per stabilire le
modalità attuative e le procedure operative per la definizione degli accordi
e dei conseguenti programmi e piani strategici, il 9 febbraio 2011 è stato
siglato un Protocollo d’intesa tra Ministero e Agenzia del Demanio, cui ha fatto
seguito l’emanazione, con circolare del Segretariato Generale del MiBAC 18 maggio
2011, n. 18, di linee guida e di
ulteriore documentazione finalizzata a garantire l’omogenea attuazione su
tutto il territorio nazionale. Qui la situazione
aggiornata delle richieste di trasferimento pervenute all’Agenzia del
demanio. Inoltre, l’art. 5 del
d.lgs. 61/2012 – che, in generale,
disciplina il conferimento delle funzioni amministrative già attribuite a
Roma Capitale dall’art. 24, co. 3, della L. 42/2009, fra le quali il concorso
alla valorizzazione dei beni storici e artistici – ha disposto, a tal fine,
l’istituzione della Conferenza delle
Soprintendenze ai beni culturali del territorio di Roma capitale, chiamata a coordinare le attività di
valorizzazione della Sovraintendenza ai beni culturali di Roma capitale (c.d.
Sovrintendenza capitolina) e degli organi centrali e periferici del Mibact
che hanno competenza sul patrimonio storico e artistico presente in Roma. Inoltre, l’art. 13,
co. 24, del D.L. 145/2013 (L.
9/2014) – come, da ultimo, modificato dall’art. 5, co. 1, del D.L. 192/2014
(L. 11/2015) - ha previsto che, anche in vista di EXPO 2015, al fine di
promuovere il coordinamento dell'accoglienza turistica, tramite la
valorizzazione, fra l’altro, di beni culturali, sono finanziati progetti presentati
da comuni, anche in collaborazione fra loro, che individuino uno o più interventi di valorizzazione e di
accoglienza tra loro coordinati. Infine, l’art. 16,
co. 1-quater e 1-quinquies, del D.L. 78/2015 (L. 125/2015), intendendo garantire il funzionamento di archivi e altri luoghi della cultura
che facevano capo alla competenza delle province fino all’intervento
della L. 56/2014 – che non menziona tra le competenze dei nuovi enti la
gestione dei beni culturali – hanno disposto l’adozione (che doveva avvenire
entro il 31 ottobre 2015) di un piano di razionalizzazione di tali luoghi
della cultura, che può prevedere il versamento agli archivi di Stato dei
documenti degli archivi storici delle province (con esclusione di quelle
trasformate in città metropolitane), l’eventuale trasferimento al Mibact dei
relativi immobili ed unità di personale (funzionari archivisti, bibliotecari,
storici dell’arte e archeologi in servizio a tempo indeterminato), nonché la
individuazione di altri istituti e luoghi della cultura delle province da trasferire
sempre al Mibact. |
In materia di attività
ed impianti per lo spettacolo, ai comuni spettano, anzitutto, funzioni amministrative, riferibili, in
particolare, alla concessione di licenze
di esercizio delle attività, all’autorizzazione
di agibilità per i luoghi di pubblico spettacolo e alla messa a disposizione di locali o aree.
Più in generale, gli
enti locali, unitamente alle regioni, collaborano
con lo Stato nella programmazione e promozione della presenza delle
attività teatrali, musicali e di danza sul territorio e possono attivare
specifiche iniziative di sostegno alle
produzioni cinematografiche che vengono realizzate nei territori di propria
competenza.
Per lo sport, gli enti
locali possono occuparsi direttamente della gestione dei propri impianti
sportivi.
|
Con riguardo
all’assetto costituzionale derivante dalla riforma del 2001, si rimanda,
relativamente alla materia “promozione
e organizzazione di attività culturali”, a quanto già esposto nella
scheda relativa a “I beni e le attività culturali”. In questa sede si
ricorda unicamente che la Corte costituzionale ha chiarito che in tale ambito
rientrano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione
della cultura e, dunque, anche le attività di sostegno degli spettacoli (sentenza n. 255/2004) e quelle di sostegno
delle attività cinematografiche (sentenza n. 285/2005). L’art. 117, terzo
comma, della Costituzione include anche l’”ordinamento sportivo” - ambito nel quale, in base alla sentenza n. 424/2004 della
Corte costituzionale rientra la disciplina degli impianti e delle
attrezzature sportive – fra le materie di legislazione concorrente. In materia, è
peraltro utile rammentare che, ai sensi dell’art. 1 del D.L. 220/2003 (L.
280/2003), la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale
articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al
Comitato Olimpico Internazionale. A livello normativo,
l’art. 60 del DPR 616/1977 ha attribuito ai comuni le funzioni
amministrative in materia di promozione
delle attività ricreative e sportive. Inoltre, in base
all’art. 19 dello stesso DPR, ai comuni spetta: a) la concessione
della licenza per rappresentazioni
teatrali o cinematografiche; b) la licenza di agibilità per i teatri ed i luoghi di
pubblico spettacolo; c) i regolamenti del
prefetto per la sicurezza nei locali
di pubblico spettacolo. Successivamente, il d.lgs.
112/1998 ha conferito alle regioni ed agli enti locali le funzioni e i
compiti amministrativi non espressamente riservati allo Stato. Per quanto
concerne lo spettacolo, i compiti attribuiti allo Stato sono enunciati
nell’art. 156, che prevede, peraltro, la collaborazione
di regioni ed enti locali nella programmazione e promozione della presenza
delle attività teatrali, musicali e di danza sul territorio, garantendone
la circolazione, perseguendo obiettivi di equilibrio ed omogeneità della loro
diffusione, favorendone l’insediamento in località che ne sono sprovviste. Più di recente,
l’art. 19 del d.lgs. 28/2004 ha disposto che province e comuni (oltre che
regioni) possono attivare specifiche iniziative di sostegno alle produzioni cinematografiche che vengono realizzate nei
territori di propria competenza. Si ricorda, altresì,
che, con riferimento alla messa a disposizione di locali o aree, l’art. 23
della L. 800/1967 ha previsto che i comuni sede di ente lirico o di istituzione
concertistica devono mettere a disposizione degli stessi i teatri ed i locali occorrenti per lo svolgimento
dell'attività. Inoltre, i comuni sono coinvolti nella governance
degli stessi enti lirici (ora, fondazioni lirico-sinfoniche). Infine, l’art. 9
della L. 337/1968 ha disposto che ogni comune deve compilare periodicamente
un elenco delle aree disponibili per
le installazioni dei circhi, delle attività dello spettacolo viaggiante e dei
parchi di divertimento e deve occuparsi direttamente della concessione delle medesime aree agli
esercenti autorizzati dal Ministero. Con riguardo alla realizzazione degli impianti sportivi – la programmazione
dei quali spetta alle regioni in base all’art. 157 del d.lgs. 112/1998 –, si
ricorda che questa, ricadendo nell’ambito più generale dei lavori pubblici,
spetta essenzialmente (oltre che alle società sportive) a comuni e comunità
montane. Per la gestione degli impianti sportivi,
l’art. 90, co. 25, della L. 289/2002 ha stabilito che, nei casi in cui l’ente
pubblico territoriale non intenda provvedervi direttamente, questa è affidata
in via preferenziale a società e associazioni sportive dilettantistiche, enti
di promozione sportiva, discipline sportive associate e Federazioni sportive
nazionali, sulla base di convenzioni. La definizione delle modalità di
affidamento è demandata alle regioni |
|
L’art. 11 del D.L. 91/2013 (L. 112/2013),
confermando quanto già disposto dall'art. 11 del d.lgs. 367/1996 circa
l’attribuzione della presidenza delle
fondazioni lirico-sinfoniche al sindaco del comune nel quale hanno sede –
ad eccezione dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia (presieduta dal
presidente dell'Accademia stessa) – ha previsto la possibilità che lo stesso
sindaco nomini in sua vece un’altra persona. L'art. 1, co. 304-305,
della L. 147/2013 (legge di
stabilità 2014) ha introdotto una nuova
procedura per la realizzazione e l'ammodernamento degli impianti sportivi,
con particolare riguardo alla sicurezza degli stessi impianti e degli
spettatori. Gli interventi sono realizzati prioritariamente mediante recupero
di impianti esistenti o relativamente ad impianti localizzati in aree già
edificate. Al fine indicato, è semplificata
la procedura amministrativa – che prevede il coinvolgimento dei comuni – e sono introdotte modalità
innovative di finanziamento. Per approfondimenti,
si veda il dossier
del Servizio Studi n 95/3, del 31 gennaio 2014. Ai sensi dell’art.
15, co. 5, del D.L. 185/2015 (L.
9/2016), la procedura semplificata prevista dalla legge di stabilità 2014 può essere utilizzata anche per la realizzazione
degli interventi previsti dal Piano
finanziato con le risorse del Fondo
“Sport e periferie”, istituito
dal co. 1 dello stesso art. 15 nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle
finanze, per il successivo trasferimento al bilancio autonomo della
Presidenza del Consiglio dei ministri, e finalizzato, in particolare, al
potenziamento dell’attività sportiva agonistica e allo sviluppo della
relativa cultura in aree svantaggiate e zone periferiche urbane, anche
mediante la realizzazione e l’adeguamento o il completamento di impianti
sportivi esistenti. |
Ai comuni spettano
funzioni amministrative di assegnazione
degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica nell’ambito delle varie discipline regionali.
I comuni, inoltre,
svolgono funzioni di pianificazione
laddove, nell’ambito della loro programmazione urbanistica, provvedono
all’individuazione di aree idonee alla realizzazione degli interventi di
edilizia residenziale pubblica.
I comuni, in coerenza
con i programmi regionali finalizzati a soddisfare il fabbisogno abitativo,
procedono all'alienazione di immobili di
edilizia residenziale pubblica (ERP) per esigenze connesse ad una più
razionale ed economica gestione del patrimonio.
|
Nell’ambito della
materia dell’edilizia residenziale pubblica possono essere ricompresi gli
interventi di edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata; a seconda
degli interventi ricompresi la materia dell’edilizia residenziale pubblica
può pertanto essere considerata con un’accezione estensiva o restrittiva. In
attuazione dell’articolo 5 della legge n. 9 del 2007, il decreto ministeriale
22 aprile 2008 ha definito l’”alloggio sociale”; su tale definizione è, da
ultimo, intervenuto l’articolo 10, comma 3, del D.L. 47/2014. Il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha elencato le funzioni in materia di edilizia
residenziale pubblica, che residuano in capo allo Stato, ossia: la
definizione dei livelli minimi del servizio abitativo; la determinazione
degli standard di qualità; il concorso, unitamente a regioni ed enti locali
interessati, all’elaborazione di programmi di ERP aventi interesse a livello
nazionale; la definizione dei criteri per favorire l'accesso al mercato delle
locazioni dei nuclei familiari meno abbienti e gli interventi concernenti il
sostegno finanziario al reddito. L’articolo 60 del citato decreto conferisce
alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative non
espressamente indicate tra quelle mantenute allo Stato ai sensi dell'
articolo 59 e, in particolare, quelle relative: - alla determinazione
delle linee d'intervento e degli obiettivi nel settore; - alla programmazione
delle risorse finanziarie destinate al settore; - alla gestione e
all'attuazione degli interventi, nonché alla definizione delle modalità di
incentivazione; - alla determinazione
delle tipologie di intervento anche attraverso programmi integrati, di
recupero urbano e di riqualificazione urbana; - alla fissazione dei
criteri per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale destinati
all'assistenza abitativa, nonché alla determinazione dei relativi canoni. Nella sentenza n. 121/2010 la Corte
costituzionale ha ribadito che la materia dell’edilizia residenziale
pubblica, non espressamente contemplata dall’art. 117 della Costituzione, si
estende su tre livelli normativi. Il primo riguarda la determinazione
dell’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti
meno abbienti; in tale determinazione – che, qualora esercitata, rientra
nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
lettera m), della Costituzione – si inserisce la fissazione di principi che
valgono a garantire l’uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il
territorio nazionale, secondo quanto prescritto dalla sentenza n. 486 del
1995. Il secondo livello normativo riguarda la programmazione degli
insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia
“governo del territorio”, ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., come
precisato con la sentenza n. 451 del 2006. Il terzo livello normativo, rientrante
nel quarto comma dell’art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio
immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti
autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati
sostituiti ad opera della legislazione regionale (sentenza n. 94 del 2007). Le funzioni degli
enti locali sono disciplinate in dettaglio nell’ambito delle varie normative
regionali. Tra le funzioni
amministrative svolte dagli enti locali rilevano quelle riguardanti la pianificazione degli interventi di
edilizia residenziale pubblica; lo strumento principale in tale fase
programmatoria è stato istituito dalla
legge n. 167/1962 ed è il piano di
zona, che disciplina l’individuazione da parte del comune delle zone da
destinare alla costruzione di alloggi a carattere economico o popolare nonché
alle opere e servizi complementari, urbani e sociali, ivi comprese le aree a
verde pubblico. L’articolo 1, comma 258, della legge n. 244 del 2007 (legge
finanziaria 2008) ha disposto che negli strumenti urbanistici sono definiti ambiti la cui trasformazione è
subordinata alla cessione gratuita da parte dei proprietari, singoli o in
forma consortile, di aree o immobili da destinare a edilizia residenziale
sociale. Il comma 3 dell’articolo 10 del D.L. 47/2014 dispone che le aree o
gli immobili da destinare ad alloggio sociale non si computano ai fini delle
quantità minime inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi, previste dal decreto del Ministro
dei lavori pubblici del 2 aprile 1968, n. 1444. Con l’articolo 11 del
D.L. 112/2008 è stato adottato un Piano
di edilizia residenziale pubblica (cd. Piano casa) volto a prevedere
l'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta
di alloggi di edilizia residenziale, da realizzare con il coinvolgimento di
capitali pubblici e privati, destinati alle categorie sociali svantaggiate.
Il Piano, che è stato approvato con il D.P.C.M. del 16 luglio 2009, era
articolato in sei linee di intervento tra le quali i programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche
sociale. Con riguardo al Piano casa e ai provvedimenti successivamente
adottati che hanno disciplinato gli interventi per la riqualificazione delle
aree urbane degradate, tra i quali il cd. Piano città (articolo 5 del D.L.
70/2011, articolo 12 del D.L. 83/2012) si rinvia all’approfondimento
riguardante i “Piani casa” e i “piani città”,con riguardo alle norme approvate nella precedente
legislatura Le funzioni amministrative concernenti
l’assegnazione degli alloggi di
edilizia residenziale pubblica, prima di competenza degli Istituti
Autonomi per le Case Popolari (IACP), sono state attribuite al comune dall’art. 95 del D.P.R. n.
616/1977. I comuni sono competenti in ordine all’emanazione dei bandi,
all’istruttoria delle relative domande ed all’attribuzione dei punteggi
secondo quanto previsto dalla normativa regionale. Con la legge n.
560/1993 è stato, inoltre, avviato un processo di alienazione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica. L’art. 13 del D.L n. 112 del 2008, su cui è
intervenuto da ultimo l’articolo 3 del D.L. 47/2014 (v. infra), aveva previsto la conclusione di accordi con regioni ed
enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di
alienazione degli immobili di proprietà degli Istituti Autonomi case
popolari. |
|
Il D.L. n. 47 del 2014 contiene una serie di norme in materia di politiche abitative. In particolare,
l'articolo 3, comma 1, è volto, da un lato, ad accelerare il processo di
definizione delle nuove regole di alienazione degli immobili di proprietà
degli Istituti autonomi case popolari (IACP) o degli enti, comunque
denominati che li hanno sostituiti, nonché degli immobili di proprietà dei
comuni e degli enti pubblici anche territoriali, dall'altro a concedere
contributi per l'acquisto di tali alloggi. Il D.M. 24 febbraio 2015, pubblicato nella Gazz. Uff. 20 maggio
2015, n. 115, in attuazione di tale norma, ha disciplinato le procedure di
alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica: l’articolo 1,
comma 1, di tale decreto dispone che i comuni, gli enti pubblici anche
territoriali, gli istituti autonomi per le case popolari comunque denominati,
in coerenza con i programmi regionali finalizzati a soddisfare il fabbisogno
abitativo, procedono all'alienazione di unità immobiliari per esigenze
connesse ad una più razionale ed economica gestione del patrimonio. Il comma 2 dell’articolo 4 del D.L. 47/2014
disciplina, inoltre, la definizione di un Programma di recupero e razionalizzazione degli immobili e degli
alloggi di edilizia residenziale pubblica di proprietà dei comuni e degli
Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, costituiti anche
in forma societaria, e degli enti di edilizia residenziale pubblica aventi le
stesse finalità degli IACP sia attraverso il ripristino di alloggi di risulta
sia per il tramite della manutenzione straordinaria degli alloggi anche ai
fini dell'adeguamento energetico, impiantistico statico e del miglioramento
sismico degli immobili. Il decreto del
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 16 marzo 2015, pubblicato
nella Gazz. Uff. 21 maggio 2015, n. 116, reca criteri per la formulazione di
un programma di recupero e razionalizzazione degli immobili e degli alloggi
di edilizia residenziale pubblica, le cui disposizioni sono state integrate
con il decreto 12 ottobre 2015 (pubblicato sulla
G.U. n. 265 del 13 novembre 2015) che prevede l’ammissione a finanziamento
degli interventi e l’assegnazione alle regioni delle risorse per il suddetto
programma. Il D.L. 47/2014
contiene, inoltre, disposizioni che riguardano l'edilizia sociale, anche al fine di incrementarne l’offerta. Il D.L. 133/2014
(c.d. sblocca Italia) contiene
alcune disposizioni, che introducono novità in materia di politiche abitative, tra le quali
rilevano le disposizioni finalizzate a semplificare e accelerare le procedure
di valorizzazione degli immobili pubblici inutilizzati, con priorità di
valutazione per i progetti di recupero di immobili a fini di edilizia residenziale pubblica (art.
26). L'ERP rientra inoltre tra le opere di pubblica utilità da finanziare, in
via d'urgenza e prioritariamente, nell'ambito degli investimenti immobiliari
dell'INAIL (art. 27). La legge di stabilità 2015 (comma 235
dell’articolo 1 della legge 190/2014) reca, infine, uno stanziamento
pluriennale per l'attuazione del Programma
di recupero e razionalizzazione degli immobili e degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica e per la realizzazione di altri interventi in
materia di edilizia sociale, previsti dall'art. 4, comma 2, del D.L. n. 47
del 2014. Al fine di
incentivare il programma di recupero di immobili e alloggi di ERP, anche per prevenire fenomeni di
occupazione abusiva, l'art. 14 del D.L. 185/2015 ha autorizzato la spesa di
25 milioni di euro, per l'anno 2015, da ripartire sulla base del programma
redatto ai sensi del citato art. 4 del D.L. 47/2014. Nella legge di stabilità 2016 (L. 208/2015)
sono contenute numerose disposizioni in materia di politiche abitative, tra
cui diverse prevedono interventi relativi ad agevolazioni fiscali. Il comma
58 prevede l’applicazione dell'imposta di registro in misura fissa e
l'esenzione dalle imposte ipotecarie e catastali per gli atti di
trasferimento delle aree che rientrano negli interventi di edilizia convenzionata,
indipendentemente dal titolo di acquisizione della proprietà da parte degli
enti locali; il comma 87 stabilisce che le detrazioni fiscali per interventi
di efficienza energetica, di cui all'articolo 14 del D.L. n. 63 del 2013,
sono usufruibili anche dagli Istituti
autonomi per le case popolari, comunque denominati, per le spese
sostenute, dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2016, per interventi realizzati
su immobili di loro proprietà adibiti ad edilizia residenziale pubblica; i
commi 89 e 90 estendono l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste
per gli Istituti autonomi case popolari (IACP), comunque denominati (e loro
consorzi), anche agli enti aventi le stesse finalità sociali degli IACP, purché siano stati costituiti e
siano operanti al 31 dicembre 2013 e siano stati istituiti nella forma di
società che rispondono ai requisiti della legislazione comunitaria in materia
di in house providing. Per una disamina
delle norme adottate in materia di politiche abitative nella presente
legislatura si rinvia al relativo tema dell’attività
parlamentare pubblicato a cura del Servizio Studi sul sito della Camera. |
Lo Sportello Unico per le Attività Produttive (SUAP) è l’unico soggetto pubblico di riferimento territoriale per
tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto l'esercizio di attività produttive
e di prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione,
realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o
trasferimento, nonché cessazione o riattivazione delle suddette attività.
Le competenze degli
enti locali in merito al SUAP sono
delineate nel d.lgs. n. 112/2008,
con il quale lo Stato ha trasferito determinate funzioni e compiti
amministrativi alle Regioni e agli enti locali. In particolare, l’art. 23 ha
attribuito ai Comuni le funzioni amministrative concernenti gli impianti
produttivi e l’art. 24 ha prescritto che tali funzioni devono essere esercitate
attraverso uno sportello unico. L’art. 25 ha stabilito che in materia di
impianti produttivi il procedimento amministrativo deve essere unico, e l’art.
38 ha delegato il Governo a emanare uno o più regolamenti per la disciplina
dell’organizzazione e del funzionamento del SUAP (D.P.R. 7 luglio 2010 n. 160).
|
Lo Sportello unico
per le attività produttive (Suap) nasce con il D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, “Regolamento di semplificazione
dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione di impianti produttivi”.
La normativa prevede che i Comuni, singoli o associati, istituiscano una
nuova struttura organizzativa, denominata “Sportello unico per le attività
produttive”, alla quale deve rivolgersi l’imprenditore che intenda realizzare
un impianto produttivo. Lo Sportello unico è
incaricato di gestire l’intero procedimento per la realizzazione e/o la
trasformazione dell’impianto produttivo. A tal fine esso deve coordinare le
pubbliche amministrazioni chiamate ad esprimere pareri tecnici o a rilasciare
autorizzazioni, evitando così il carico burocratico prima sostenuto
dall’imprenditore e dai suoi tecnici, dovuto al rapporto diretto con ciascuna
pubblica amministrazione. Lo Sportello deve anche garantire l’accesso degli
interessati a tutte le informazioni relative ai procedimenti, nonché a quelle
relative agli interventi di assistenza e sostegno predisposti a favore delle
imprese e dei lavoratori. Già a partire dalla legge di semplificazione 28 novembre
2005, n. 246 (art. 5), è stato previsto il potenziamento dello sportello
unico e la sua estensione a tutte le formalità concernenti l’esercizio
dell’attività d’impresa. E’ poi seguita la direttiva CE/2006/123, relativa ai servizi nel mercato interno,
cosiddetta Direttiva servizi, che ha profondamente
innovato la disciplina per l'esercizio
delle attività economiche, dalle attività di commercio a quelle di
somministrazione, perseguendo l’obiettivo primario della rimozione dei
vincoli ed obblighi che frenano lo sviluppo delle attività stesse. Nella
direttiva è stato poi espressamente previsto che gli Stati membri dovessero
consentire ai prestatori di servizi di espletare le procedure e le formalità
necessarie a svolgere la loro attività attraverso gli sportelli unici; che
mediante quest’ultimi i prestatori e i destinatari potessero reperire le
informazioni sugli adempimenti da effettuare per l’esercizio della loro
attività; che tali procedure potessero essere svolte con facilità, a distanza
e per via telematica, mediante lo sportello unico (cfr articoli 6, 7 e 8). Il
funzionamento del SUAP ha così assunto la natura di vincolo europeo. Nel 2008 è stato poi
adottato il d.l. 25 giugno 2008, n.
112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che,
all’art, 38, ha autorizzato il Governo ad adottare un regolamento di
delegificazione per il riordino della normativa SUAP, dettandone i princìpi
ispiratori e stabilendo che i comuni che non hanno istituito e reso operativo
lo Sportello unico “esercitano le funzioni relative allo Sportello unico,
delegandole alle camere di commercio. Subito dopo è stato
approvato il D.lgs 26 marzo 2010, n.
59, che ha all’art. 25, ha ripreso i criteri sanciti dall’art 38 del
citato d.l. n.l 112. Con il D.P.R. 9 luglio 2010, n. 159, è stata
disciplinata la procedura di accreditamento delle Agenzie per le imprese e
con il D.P.R. n. 160/2010 è stato
emanato il nuovo Regolamento dello Sportello unico per le attività
produttive. Più in particolare l’ufficio competente e il responsabile del
SUAP sono individuati secondo gli ordinamenti propri dei comuni o secondo gli
accordi in caso di SUAP associato. Nel caso in cui il Comune non individui il
responsabile del SUAP, tale ruolo è affidato ex lege al segretario
comunale. Inoltre è prevista libertà di autorganizzarsi per l’esercizio delle
attività di sportello unico. Dal 28 dicembre 2010
i Comuni, compilando un modulo attraverso il portale www.impresainungiorno.gov.it - predisposto
dal Ministero dello Sviluppo Economico in collaborazione con Unioncamere –
possono accreditarsi come SUAP. Col medesimo D.P.R. 160/2010 sono state
quindi introdotte numerose innovazioni, quali l’obbligo di presentazione
esclusivamente telematica di tutte le domande ed i relativi allegati,
l’attuazione del principio di unicità del SUAP come punto di accesso pubblico
ai servizi e alle vicende amministrative riferite alle attività produttive, i
nuovi ruoli del sistema camerale e delle agenzie per le imprese. In linea con
l'orientamento europeo di modernizzazione della normativa, al fine di
massimizzare i benefici per i cittadini, le imprese e le pubbliche
amministrazioni, è stato infine emanato il decreto 10 novembre 2011, recante "Misure per l'attuazione dello sportello
unico per le attività produttive di cui all'art. 38, comma 3-bis, D.L. 112/ 2008. |
|
Il D.L. n. 5 del
2012, ha previsto l’attivazione di “percorsi sperimentali di semplificazione amministrativa per gli
impiantì produttivi e le iniziative ed attività delle imprese sul territorio”,
ed in particolare, all’articolo 12, commi 2-4, un procedimento di
delegificazione in cui il Governo era delegato ad adottare uno o più
regolamenti “al fine di semplificare
i procedimenti amministrativi concernenti l’attività d’impresa” e al fine di
“ individuare le attività sottoposte ad autorizzazione, a segnalazione
certificata di inizio di attività (SCIA) con asseverazioni o a segnalazione
certificata di inizio di attività (SCIA) senza asseverazioni ovvero a mera
comunicazione e quelle del tutto libere”. Le norme di delegificazione
sopra indicate – alle quali non è stata data attuazione – sono state abrogate dal D.Lgs. n. 10/2016, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 21 della
Legge 7 agosto 2015, n. 124 di riforma
della P.A.. L’articolo 4 di tale legge autorizza
ora il Governo ad emanare un regolamento di delegificazione per la
semplificazione e accelerazione dei procedimenti amministrativi concernenti
le seguenti tre attività economiche: insediamento di importanti attività produttive;
opere di interesse generale; avvio di attività imprenditoriali. Lo schema di regolamento - che doveva essere emanato
entro il 24 febbraio 2016, previa intesa in sede di Conferenza unificata, ai
sensi dell’art. 17, comma 2, L. 400/1988 - non risulta ancora presentato alle
Camere per l’espressione del parere da parte delle Commissioni parlamentari
competenti. La stessa legge di riforma della P.A. all’articolo 5,
comma 1, contiene poi una delega al
Governo per l’individuazione – con uno o più decreti legislativi delegati - dei
procedimenti oggetto di SCIA o di
silenzio assenso, nonché di quelli per i quali è necessaria l’autorizzazione
espressa e di quelli per quali è sufficiente una comunicazione preventiva; l’introduzione
di una disciplina generale delle attività non assoggettate ad autorizzazione
preventiva espressa. Il termine per l’esercizio della delega è fissato in un
anno dalla data di entrata in vigore della legge n. 124 (28 agosto 2016). E’ attualmente all’esame delle Camere lo schema di decreto
legislativo-Atto del Governo n. 291 che reca disposizioni per l’attuazione
della delega contenuta nell’articolo 5, comma 1, della legge n. 124. Come
chiarisce l’Atto del Governo, il legislatore delegato ha scelto di attuare la
delega prevista dall’articolo 5 con l’adozione di più decreti legislativi. Lo schema di decreto presentato detta alcune disposizioni generali applicabili ai
procedimenti relativi alle attività non assoggettate ad autorizzazione
espressa e delimita gli ambiti dei relativi regimi amministrativi. Viene
rinviata, invece, a successivi decreti
legislativi la individuazione dei procedimenti da ricondurre ai quattro
regimi amministrativi definiti nella norma di delega, ossia: segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA) di cui all’art. 19 della legge
241/1990; silenzio assenso di cui all’art. 20 della legge 241/1990; comunicazione
preventiva; autorizzazione espressa. La delega in oggetto segue i principi del diritto
dell’Unione europea relativi all’accesso alle attività di servizi. Si ricorda
al riguardo che il D.lgs 26 marzo 2010, n. 59, che ha
recepito la Direttiva servizi, ha stabilito in via generale il principio per
cui i regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se
giustificati da motivi imperativi di interesse generale (articolo 14). Per le
attività produttive, il D.Lgs. n. 59 (Parte II del Titolo II, articoli 64-81),
come modificato ed integrato dal D.Lgs. n. 147/2012, ha seguito anche un
approccio elencativo, indicando
specificamente casi di attività produttive da dichiarare comunque sottoposte
a SCIA (tranne enunciare specifiche condizioni in presenza delle quali
sottoporre le medesime attività ad autorizzazione). A seguito della
riformulazione dell’art. 19 della legge 241/1990, le incertezze
interpretative circa l’applicazione concreta dell’istituto sono state
risolte attraverso alcune circolari interpretative e pareri del Ministero
dello sviluppo economico. E’ pertanto nata l’esigenza di operare una più
ampia e esaustiva ricognizione
specifica dei regimi applicabili alle attività private. Lo
schema di decreto legislativo all’ esame delle Camere, che prevede che con
successivi decreti legislativi si provveda all’individuazione delle attività
oggetto di procedimento di mera comunicazione o segnalazione certificata di
inizio attività, risponde dunque, in sostanza, a quest’esigenza. |
A seguito della
modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia
"commercio" rientra nella competenza esclusiva residuale delle
Regioni. Tuttavia, in base alla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale,
attengono alla competenza legislativa esclusiva dello Stato le regole in
materia di commercio direttamente afferenti alla tutela della concorrenza nel
settore della distribuzione commerciale.
L’attuale disciplina
del commercio è contenuta nel cosiddetto “Decreto Bersani” (Decreto Legislativo
n. 114 del 31 marzo 1998) che fonda il presupposto per il raggiungimento dei
propri obiettivi nel trasferimento a pieno titolo agli enti territoriali delle
funzioni di gestione del settore commerciale, non solo in termini operativi,
rinviando alla piena autonomia dei medesimi le scelte per uno sviluppo armonico
ed efficace del tessuto distributivo.
In materia di riassetto
istituzionale il citato D.lgs. si pone l’obiettivo di dettare i principi e le
norme-quadro, affidando alle Regioni e ai Comuni la emanazione della disciplina
di dettaglio. Questo ha consentito agli
stessi di decidere autonomamente, ovviamente nel rispetto dei principi statali,
gli interventi che hanno ritenuto più adatti al settore in relazione alle
caratteristiche del territorio e dell’impresa ivi presente e della realtà
socio-economica che lo caratterizza. Pertanto è stata garantita una tipologia
di programmazione molto dettagliata che ha consentito a Regioni e Comuni di
utilizzare criteri diversificati a secondo delle peculiarità e delle esigenze
dei vari ambiti territoriali.
In materia di esercizi commerciali, spettano ai
Comuni le funzioni legate in generale alla verifica di requisiti e rilascio di
autorizzazioni di varia natura. In particolare per quanto riguarda i centri
storici e le aree o edifici aventi valore storico, archeologico, artistico e
ambientale, è prevista l’attribuzione di maggiori poteri ai Comuni
relativamente alla localizzazione e all’apertura degli esercizi di vendita, in
particolare al fine di rendere compatibili i servizi commerciali con le
funzioni territoriali in ordine alla viabilità, alla mobilità dei consumatori e
all’arredo urbano, utilizzando anche specifiche misure di agevolazione
tributaria e di sostegno finanziario.
Sono allocate in capo
agli enti locali altresì le competenze in materia di orari degli esercizi commerciali, anche se le stesse vanno valutate alla luce degli interventi di
liberalizzazione a livello nazionale e di recepimento di principi comunitari.
|
In materia di
commercio la disciplina fondamentale è contenuta nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n.
114, emanato sulla base di un’ampia delega al Governo per riordinare il
settore.. Il D.Lgs. n. 114 ha
disciplinato ex novo i requisiti di
accesso all’attività commerciale, l’esercizio dell’attività di commercio al
dettaglio in sede fissa e sulle aree pubbliche, le forme speciali di vendita,
il regime degli orari e le vendite straordinarie. Le novità più rilevanti
hanno riguardato la programmazione della rete distributiva di vendita. È
stato completamente modificato, altresì, il sistema di accesso al settore,
anche in termini di meccanismi autorizzatori. Ai Comuni e, nello
specifico, ai dirigenti/responsabili degli uffici competenti è attribuita
la competenza a rilasciare le autorizzazioni. Aperture In via generale,
fatta salva l’eventuale diversa disposizione regionale, l’apertura, il
trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie degli esercizi di
vicinato, fino ai limiti, rispettivamente di mq. 150 e di mq. 250, sono
assoggetti a semplice Segnalazione certificata di inizio attività (SCIA),
come disciplinata dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990. Per l’insediamento
degli esercizi di media e grande superficie di vendita è stato invece
mantenuto un regime autorizzatorio sull’insediamento fondato sia sul rispetto
delle esigenze di ordine urbanistico e di organizzazione del territorio, che
sulla verifica dell’impatto ambientale ed economico delle strutture. L’apertura, il
trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie delle medie strutture
di vendita, sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente
per territorio sulla base degli indirizzi regionali ed osservando i criteri
che lo stesso Comune si è dato, dopo avere sentito le organizzazioni dei
consumatori e le organizzazioni imprenditoriali del commercio. Per questi
esercizi non si possono fornire indicazioni valevoli per tutto il territorio
nazionale in quanto devono essere osservate (e dai Comuni recepite) le
indicazioni specificamente emanate dalle rispettive Regioni, le quali,
peraltro, sovente variano notevolmente. La disciplina
nazionale prevede che ai fini del rilascio dell’autorizzazione il Comune
adotta dei propri criteri, sulla base degli indirizzi e direttive regionali,
sentite le organizzazioni di tutela dei consumatori e le rappresentanze degli
operatori del commercio. In attuazione della
legge n. 241 del 1990, il Comune determina anche le norme sul procedimento
stabilendo il termine, non superiore a novanta giorni, decorso il quale,
senza che sia stato comunicato il diniego, la domanda si intende accolta. Anche l’apertura
delle grandi strutture di vendita è soggetta ad autorizzazione rilasciata dal
Comune competente per territorio. La domanda è esaminata da una conferenza di
servizi indetta dal Comune ed è composta da tre membri, in rappresentanza
della Regione, della Provincia e del Comune medesimo. Le deliberazioni della
conferenza sono adottate a maggioranza, ma il voto contrario del
rappresentante della Regione è vincolante. Per i centri
commerciali deve essere seguita la procedura autorizzatoria prevista e
prescritta per le strutture corrispondenti alla somma delle superfici dei
singoli negozi che costituiscono il centro (media o grande struttura). Orari Il potere di
coordinamento degli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali
venne attribuito ai Comuni già a partire dall'art. 54 D.P.R. n. 616/1977.
Tale potere venne confermato dalla successiva normativa in tema di Enti
locali dapprima dall'art. 36, comma 3, l. n. 142/1990, poi dall'art. l'art.
11 legge 3 agosto 1999 n. 265, il quale novellò il medesimo comma 3°
dell'art. 36 cit. e venne sostanzialmente riprodotto nel vigente all'art. 50,
comma 7, TUEL. Le amministrazioni
comunali possono dunque regolare l'attività degli esercizi commerciali, dei
pubblici esercizi e dei servizi pubblici mediante l'esercizio del potere
previsto dall'art. 50, comma 7, del d.lgs. 267/2000, graduando, in funzione
della tutela dell'interesse pubblico prevalente, gli orari di apertura e
chiusura al pubblico. Inoltre va ricordato
che la legge n. 53 del 2000 ha indicato come compito della Regione quello di
indicare ai Comuni "criteri generali di amministrazione e coordinamento
degli orari di apertura al pubblico", fra l'altro, dei "pubblici
esercizi commerciali" (art. 22), tenendo conto degli effetti "sul
traffico,sull'inquinamento e sulla qualità della vita cittadina (art. 24,
comma 5). In particolare si ricorda l'articolo 24 comma 1 della legge n. 53
del 2000 in merito al piano territoriale degli orari, che è strumento
unitario per finalità ed indirizzi, articolato in progetti, anche
sperimentali, relativi al funzionamento dei diversi sistemi orari dei servizi
urbani e alla loro graduale armonizzazione e coordinamento. Il piano territoriale
degli orari consiste in un sistema di progetti coordinati fra loro
finalizzato a riorganizzare i sistemi orari dei servizi urbani e alla loro
graduale armonizzazione e coordinamento e, più in generale, a coordinare i
tempi di funzionamento delle città e a promuovere l'uso del tempo per fini di
solidarietà sociale. Dunque l’art. 50,
comma 7, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267
(“Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”),
attribuisce al Sindaco la competenza nell’ambito della disciplina regionale e
sulla base degli indirizzi espressi dal Consiglio comunale, a coordinare gli
orari in generale e degli esercizi commerciali. Tuttavia, dopo
l’intervento del cd. D.L. “salva-Italia” (art. 31, primo comma, del D.L. 6
dicembre 2011, n. 201), gli esercizi commerciali possano svolgere la propria
attività senza alcun vincolo di orario e senza l’obbligo di chiusura
domenicale e festiva (si veda paragrafo
seguente). La prescrizione si applica anche nel caso in cui le Regioni e
i Comuni non abbiano provveduto ad adeguare le proprie disposizioni
legislative o regolamentari in materia. Commercio su aree pubbliche La materia del commercio su aree pubbliche trova la
sua disciplina nell’articolo articolo 28 del D.lgs. n. 114/1998 così come
modificato dall’articolo 70 del D.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, che ha recepito
la cd. “direttiva Servizi”. Ai sensi del citato articolo 28, il commercio
sulle aree pubbliche può essere svolto: su posteggi dati in concessione per
dieci anni; su qualsiasi area, purché in forma itinerante. Le funzioni dei
Comuni in merito all'esercizio del commercio sulle aree pubbliche consistono
essenzialmente nei poteri autorizzatori. Per il rilascio delle
autorizzazioni, infatti, si fa riferimento esclusivamente al Comune, mentre
alla Regione, chiamata ad emanare gli indirizzi e la disciplina di dettaglio
in materia di commercio su area pubblica, non è affidato alcun potere in tema
di rilasci. Sia l'autorizzazione
all'esercizio dell'attività di vendita sulle aree pubbliche esclusivamente in
forma itinerante, sia quella all’esercizio mediante l’utilizzo di un
posteggio e’ rilasciata, in base alla normativa emanata dalla Regione, dal
Comune nel quale il richiedente, persona fisica o giuridica, intende avviare
l'attività. Una volta ottenuta
l’autorizzazione, sia essa per l’esercizio in via esclusiva del commercio
itinerante, sia essa per l’esercizio tramite il posteggio, il possessore è
abilitato ad utilizzarla per la partecipazione alle fiere che si svolgono
nella Regione alla quale appartiene il Comune che l’ha rilasciata e nelle
altre regioni del territorio nazionale. Ai Comuni spetta il
secondo livello di regolamentazione: questi, infatti, sulla base delle
disposizioni emanate dalle Regioni, sono chiamati ad individuare l’ampiezza
complessiva delle aree da destinare all’esercizio dell’attività, le modalità
di assegnazione dei posteggi, la loro superficie e i criteri di assegnazione,
ivi compreso il caso di agricoltori che vendano i loro prodotti, nonché,
qualora ciò garantisca la possibilità di rendere al consumatore un servizio
migliore, la tipologia merceologica dei posteggi nei mercati e nelle fiere,.
Nella deliberazione comunale sono poi individuate le aree aventi valore
archeologico, storico, artistico e ambientale per la cui salvaguardia il
commercio su area pubblica è vietato o sottoposto a limitazioni, nonché eventuali
divieti e limitazioni all’esercizio per motivi di viabilità, di carattere
igienico sanitario o per altri motivi di pubblico interesse. Nella medesima
deliberazione, inoltre, vengono deliberate le norme procedurali relative alla
presentazione e all’istruttoria della istanza di rilascio e il termine del
silenzio assenso e tutte le altre norme atte ad assicurare trasparenza e
snellezza all’azione. Per quanto attiene
inoltre alla partecipazione a mercati
e fiere, nei mercati comunali che si svolgono per almeno cinque giorni
alla settimana ed in quelli settimanali e bisettimanali, sono ammessi
soltanto gli assegnatari di posteggi dati in concessione dal Comune ed in
possesso della relativa autorizzazione all’esercizio del commercio su aree
pubbliche rilasciata dallo stesso comune in cui ha sede il mercato. Per
contro sono ammessi alle fiere e sagre, per il disposto del comma 6 dell’art.
28 del D.Lgs. n. 114/1998, tutti i soggetti titolari di una qualsiasi
autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale su area pubblica,
rilasciata da un qualsiasi Comune. Sanzioni Le norme del D.Lgs.
n. 114 indicano nel Sindaco l’organo competente ad emettere i provvedimenti
sanzionatori, di sospensione, di revoca delle autorizzazioni, di chiusura
degli esercizi ed anche di irrogazione delle sanzioni. Tale individuazione si
è posta, fin da subito, in contrasto con il principio di separazione delle
funzioni di indirizzo politico-amministrativo e quelle di attuazione e
gestione, affermato prima dall’art. 3 del D.Lgs. n. 29 del 1993,
successivamente dall’art. 4 del D.Lgs. n. 165 del 2001, dall’abrogato art. 51
della legge n. 142 del 1990 ed attualmente dall’art. 107 del Testo Unico
delle Leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali, di cui al D.Lgs. 18 agosto
2000, n. 267, per i quali spetta al dirigente/responsabile l’adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi, compresi quelli a rilevanza esterna, e,
pertanto, anche quelli di irrogazione delle predette sanzioni. |
|
Nel corso del 2011,
nel quadro delle riforme sistemiche anticrisi sono intervenute diverse norme
volte alla liberalizzazione delle
attività commerciali, impattanti altresì sulle funzioni degli enti locali
in materia, con particolare riguardo all’accesso alle attività e agli orari
degli esercizi commerciali. In particolare l'articolo 34 del D.L. 201/2011 tende a promuovere una sostanziale liberalizzazione
di tutte le categorie di attività economiche: imprenditoriali, commerciali,
artigianali e autonome. A tal fine elenca una serie di principi e alcune
tipologie di restrizioni, eventualmente preesistenti, da considerarsi
abrogate. Tra queste rientrano le norme che prevedono l'imposizione di
distanze minime per l'esercizio di determinate attività e il divieto, nei
confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti. L’art. 31, comma 2,
del medesimo decreto legge, integrato dall’art. 30, comma 5 ter, del D.L. n. 69/2013 interviene in materia
di liberalizzazione degli esercizi commerciali, stabilendo che Regioni ed
Enti locali, chiamati ad adeguare i propri ordinamenti al principio di
libertà di iniziativa economica senza vincoli anticoncorrenziali, possono
“prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree
interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano
insediarsi attività produttive e commerciali”. Tale disposizione è stata però
modificata dall’articolo 22-ter del D.L.
24 giugno 2014, n. 91, che ha circoscritto la possibilità di interdizione
e limitazione di attività produttive e commerciali alle sole ipotesi di necessità
di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi
incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Con riguardo alla
disciplina degli orari degli esercizi commerciali, la piena liberalizzazione
dei giorni e orari di apertura degli esercizi commerciali, è stata realizzata
con l’art. 35, D.L. 6 luglio 2011, n.
98 e poi con l'articolo 31, comma 1, del D.L. 201/2011 che elimina qualsiasi vincolo su questo specifico
aspetto: la limitazione dell'estensione del nastro orario giornaliero di
apertura (precedentemente di tredici ore); l'obbligo di mezza giornata di
chiusura infrasettimanale; l'obbligo di chiusura nei giorni festivi per i
quali non sia prevista una specifica deroga. In ragione di ciò la
giurisprudenza amministrativa si è espressa nel senso del’illegittimità di
ordinanze dei sindaci limitative della possibilità di apertura degli esercizi
commerciali ovvero disponenti limiti orari di apertura per gli esercizi
commerciali di vendita al dettaglio e deroghe all'obbligo di chiusura
domenicale (tra le altre: T.A.R. Sicilia – Catania – sez. II – sentenza 4
marzo 2013 n. 700, T.A.R. Abruzzo L'Aquila Sez. I, Sent., 25-01-2013, n. 99 ;
T.A.R. Sicilia Palermo Sez. III, Sent., 19-03-2013, n. 643; T.A.R. Lombardia
Milano Sez. I, Sent., 14-02-2013, n.
411). Come ha precisato il
Consiglio di Stato “Dopo l'entrata in vigore degli artt. 35, comma 6, del
d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio
2011, n. 111, e 31, comma 1, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con
modificazioni dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, costituisce principio
generale dell'ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi
commerciali sul territorio, senza contingenti, limiti territoriali o altri
vincoli di qualsiasi genere, compresi gli orari di apertura e chiusura
dell'esercizio, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei
lavoratori, dell'ambiente, ivi compreso quello urbano, e dei beni culturali,
con conseguente automatica caducazione di tutti i provvedimenti
amministrativi, anche di natura generale e regolamentare, che ponevano limiti
agli orari stessi” (Cons. Stato Sez. V, 27-10-2014, n. 5288). Inoltre il regime di
liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali e di
somministrazione, di cui all'art. 31, D.L. n. 201 del 2011, convertito nella
L. n. 214 del 2011 (c.d. decreto "salva Italia"), non preclude
all'amministrazione comunale la possibilità di esercitare il proprio potere
di inibizione delle attività, per comprovate esigenze di tutela dell'ordine e
della sicurezza pubblica, nonché del diritto dei terzi al rispetto della
quiete pubblica. Ciò, tuttavia, solo in caso in cui sia accertata una lesione
di interessi pubblici tassativamente individuati quali quelli richiamati
(sicurezza, libertà, dignità umana, utilità sociale, salute), interessi che
non possono considerarsi violati in via aprioristica e senza dimostrazione
(Cons. Stato Sez. V, 30-06-2014, n. 3271) Di conseguenza è
stata ritenuta legittima l'ordinanza sindacale che, in applicazione dell'art.
31, c. 1, del D.L. n. 201/2011, liberalizza gli orari di attività dei
pubblici esercizi in contrasto con norme regionali restrittive, in quanto
secondo la giurisprudenza costituzionale detta disciplina rientra nella
materia della concorrenza ed appartiene alla potestà legislativa dello Stato
(Cons. Stato Sez. V, 27-05-2014, n. 2746). |
In materia di esercizi pubblici, spettano ai Comuni
le funzioni di polizia amministrativa relative al rilascio di licenze – ad
esempio per fiere, alberghi, osterie, giochi – alle verifiche di agibilità (per
locali di pubblico spettacolo), e più in generale alla verifica di requisiti e
rilascio di autorizzazioni di varia natura.
Rimangono in capo agli
enti locali le competenze in materia di orari e di programmazione dei pubblici esercizi di intrattenimento e di
vendita e consumo di alimenti e bevande, anche se con il tempo si sono molto
sfumate per via degli interventi di liberalizzazione a livello nazionale e di
recepimento di principi comunitari.
|
Gli esercizi pubblici
sono quelli per la cui gestione è necessaria ed indispensabile anche la
licenza o autorizzazione di polizia. Per lungo tempo il rilascio
è stato competenza degli organi di pubblica sicurezza e le norme applicabili
erano contenute R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico delle Leggi di
Pubblica Sicurezza - Tulps) e nel relativo regolamento di esecuzione (R.D. 6
maggio 1940, n. 635), che individuavano nelle Questure gli organismi
demandati alla verifica dei requisiti e al relativo rilascio. Nel corso degli
anni la competenza, per molte delle attività, è stata trasferita ai Comuni, anche se - ai fini della legittimazione all’avvio
e all’esercizio - le norme alle quali fare riferimento continuano ad essere
quelle del Tulps. In tal senso, attualmente si usa la locuzione polizia
amministrativa. Né il R.D. n. 773, né
il n. 635 recano una definizione degli esercizi pubblici, né una elencazione
esaustiva degli stessi. Dall’art. 86 del Tulps e dall’art. 174 del
regolamento si può però ricavare un elenco.
Rientrano nella
categoria degli esercizi pubblici i seguenti: alberghi, compresi quelli
diurni, locande, pensioni, dormitori privati; ristoranti, trattorie, osterie
con cucina, spacci di cibi cotti con consumo sul posto; caffè, bar e altri
esercizi in cui si vendono al minuto o si consumano vini, birra, liquori
(nonché spacci di) altre bevande anche non alcoliche; spacci al minuto o per
il consumo di vino, birra o di qualsiasi bevanda alcolica presso enti
collettivi o circoli privati di qualunque specie, anche se la vendita od il
consumo siano limitati ai soli soci; sale pubbliche per bigliardi o per altri
giochi leciti; stabilimenti di bagni, alberghi diurni e bagni pubblici. La competenza sulle funzioni di polizia amministrativa spettanti ai
Comuni è stata attribuita originariamente dall’art. 19 del D.P.R. 24 luglio
1977, n. 616, che ha trasferito ai medesimi alcune funzioni di cui al R.D. 18.6.1931,
n. 773, come: - il rilascio della
licenza temporanea di esercizi pubblici in occasione di fiere, mercati o
altre riunioni straordinarie; - la concessione
della licenza per rappresentazioni (teatrali o cinematografiche), accademie,
feste da ballo, corse di cavalli, altri simili spettacoli o trattenimenti,
per aperture di esercizio di circoli, scuole di ballo e sale pubbliche di
audizione; - la licenza per
pubblici trattenimenti, esposizioni di rarità, persone, animali, gabinetti
ottici ed altri oggetti di curiosità o per dare audizioni all’aperto; - i poteri in ordine
alla licenza per vendita di alcolici e autorizzazione per superalcolici; - la licenza per
alberghi, locande, pensioni, trattorie, osterie, caffè o altri esercizi in
cui si vendono o consumano bevande non alcoliche, sale pubbliche per biliardi
o per altri giochi leciti, stabilimenti di bagni; - la verifica di
agibilità per teatri o luoghi di pubblico spettacolo (sostituibile con una
relazione del tecnico abilitato ove la capienza del locale/area non superi le
200 persone). Ulteriori competenze
sono state successivamente attribuite ai Comuni dall’art. 163 del D.Lgs. 31
marzo 1998, n. 112: - il ricevimento
della dichiarazione relativa all’esercizio dell’industria di affittacamere o
appartamenti mobiliati o comunque relativa all’attività di dare alloggio per
mercede; - il rilascio
dell’autorizzazione per l’espletamento di gare con autoveicoli, motoveicoli o
ciclomotori su strade ordinarie ricadenti nel territorio del Comune. La competenza a
rilasciare autorizzazioni, licenze amministrative e di polizia amministrativa
è attribuita ai Comuni e, nello specifico, ai dirigenti/responsabili degli
uffici competenti. La licenza di polizia
amministrativa può essere legittimamente sostituita in molti casi dalla SCIA
di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990, ove ne ricorrano i presupposti
(in generale, in assenza di un contingente numerico di licenze rilasciabili e
di uno specifico strumento di programmazione settoriale). Le licenze di polizia
amministrativa in via generale hanno carattere permanente. Fanno eccezione le
licenze rilasciate in forza di legge speciale per un tempo determinato: detto
periodo, inizialmente stabilito a un anno, a seguito delle modifiche apportate
dall’art. 13 del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito dalla legge 4 aprile
2012, n. 35, deve intendersi di durata triennale. In particolare, per
quanto concerne i pubblici esercizi di vendita e consumo di
alimenti e bevande, l’art.
54 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 attribuisce ai Comuni le funzioni
amministrative relative alla
fissazione, sulla base dei criteri stabiliti dalla Regione, degli orari di apertura e chiusura. L’art. 50, comma 7,
del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (“Testo Unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali”), attribuisce al Sindaco la competenza nell’ambito della
disciplina regionale e sulla base degli indirizzi espressi dal Consiglio
comunale, a coordinare gli orari in generale e degli esercizi commerciali. Tuttavia, dopo gli
interventi del cd. D.L. “Bersani” (lett. d-bis dell’art. 3, comma 1, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223) e del
cd. D.L. “salva-Italia” (art. 31, primo comma, del D.L. 6 dicembre 2011, n.
201), gli esercizi commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande
possano svolgere la propria attività senza alcun vincolo di orario e senza
l’obbligo di chiusura domenicale e festiva. La prescrizione si applica anche
nel caso in cui le Regioni e i Comuni non abbiano provveduto ad adeguare le
proprie disposizioni legislative o regolamentari in materia (in merito di rinvia alla specifica scheda
sul Commercio). In merito alla programmazione della rete degli
esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, la normativa è stata
adeguata alla Direttiva 2006/123/CE (cosiddetta Direttiva Servizi) con il
comma 3 dell’art. 64 del D.Lgs. n. 59/2010, che ha dettato i nuovi indirizzi
di programmazione ai quali i Comuni si devono attenere nel programmare lo
sviluppo del settore, senza citare, peraltro, l’ente territoriale regionale.
Si tratta di programmazione del tutto sganciata da meccanismi di
predefinizione dell’offerta, essendo totalmente improntata al rispetto di
principi di concorrenza che possono prevedere limiti solo se giustificati da
interessi generali. |
|
Prima con il decreto
“Valore-cultura” (D.L. 91/2013, art. 4-bis)
e l’anno successivo con il D.L. 83/2014 (articolo 4) il Governo è intervenuto
per contrastare l’esercizio - nelle aree pubbliche aventi particolare valore
archeologico, storico, artistico e paesaggistico - di attività commerciali e
artigianali, in forma ambulante o su
posteggio, non compatibili con le esigenze di tutela del patrimonio culturale. E’ stato integrato, a
tal fine, il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 42/2004, art.
52, comma 1-ter) per prevedere che i
competenti uffici territoriali del Ministero, d'intesa con i Comuni, vietino
con apposite determinazioni gli usi non compatibili con le esigenze di tutela
e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a
concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio,
nonché l'uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio
di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico. In tale
ottica, i competenti uffici territoriali del Ministero e i Comuni avviano,
d'intesa, procedimenti di riesame
delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche in deroga a eventuali disposizioni
regionali che regolano le modalità di esercizio del commercio su aree
pubbliche e ai criteri per il
rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per il commercio su aree
pubbliche stabiliti nell’intesa in sede di Conferenza unificata. La norma
disciplina anche l’importo dell’indennizzo
da corrispondere in caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il
trasferimento dell'attività commerciale in una collocazione alternativa
potenzialmente equivalente. Sempre il decreto
“Valore-cultura” (D.L. 91/2013, articolo 2-bis) ha previsto che i Comuni,
sentito il Soprintendente, individuano i locali, a chiunque appartenenti, nei
quali si svolgono attività di artigianato
tradizionale e altre attività
commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell'identità
culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO, al fine di
assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica.
|
La riforma
costituzionale del Titolo V (legge costituzionale n. 3/2001) ha reso il turismo
una materia di competenza esclusiva per
le Regioni ordinarie, alla stregua di quanto previsto per le Regioni
speciali che già prima del 2001 erano dotate di tale competenza.
Il turismo rientra
dunque tra le materie "residuali" (art.117, comma 4), in riferimento
alle quali le Regioni non sono più soggette ai limiti dei principi fondamentali
stabiliti dalle leggi statali.
Si ricorda che il Testo di legge
costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma
inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante «Disposizioni per
il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei
parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la
soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della
Costituzione» (C.2613-D), prevede che nella materia turismo sia attribuita allo
Stato la competenza esclusiva per le disposizioni generali e comuni in tale
ambito, mentre sia riconosciuta alle Regioni
la competenza legislativa per la valorizzazione
e organizzazione regionale del turismo.
Un primo elemento che
accomuna tutti i sistemi amministrativi regionali è la natura delle funzioni amministrative mantenute in capo alle Regioni, che possono essere così
schematizzate:
– programmazione, di
norma attraverso l'adozione di piani triennali di sviluppo turistico e dei
relativi programmi annuali di attuazione di tutte le iniziative e coordinamento
delle attività dei diversi soggetti operanti nel territorio;
– promozione
dell'immagine unitaria della Regione all'Italia ed all'estero, anche attraverso
le relazioni internazionali;
– finanziamento e dei
progetti di sviluppo del territorio e loro selezione (riconoscimento dei
sistemi turistici locali e simili), incentivazione degli operatori del settore;
– coordinamento della
raccolta, elaborazione e diffusione dei dati concernenti la domanda e l'offerta
turistica regionale.
Per lo svolgimento di
queste competenze, le Regioni si avvalgono, oltre che della loro
amministrazione diretta (Assessorati al turismo), di strutture rientranti nella
c.d. "amministrazione regionale indiretta".
I principali modelli
organizzativi sono:
– società per azioni,
di cui la Regione conserva il capitale di maggioranza, nonché una serie di
poteri di controllo;
– "agenzie"
di ambito regionale, per l'elaborazione e la concertazione delle linee
strategiche e programmatiche per lo sviluppo delle attività di promozione e
commercializzazione turistica.
Il ruolo regionale di
"governo" del settore trova inoltre conferma in un complesso di
funzioni che pongono la Regione al centro delle relazioni con gli altri
soggetti istituzionali, a partire dallo Stato, attraverso la partecipazione
alla Conferenza Stato- Regioni ed alla Conferenza Unificata.
Una seconda costante di
tutte le leggi regionali è rappresentata dal riconoscimento del ruolo centrale dei Comuni nella
promozione dei sistemi integrati di offerta turistica e nella creazione di reti
di cooperazione pubblico-privata.
Inoltre operano a
livello locale le tradizionali Pro loco (associazioni di diritto privato che,
in ambito locale, promuovono il turismo e forniscono assistenza ai turisti), e altri organismi destinati alla promozione ed
alla assistenza turistica in ambiti territoriali circoscritti, ovvero, alla
promozione di un determinato segmento di offerta. La natura giuridica di questi
soggetti è molto diversificata, ma analoga è la partecipazione contestuale di
soggetti pubblici e privati e l'importante ruolo riconosciuto al loro interno
agli enti locali, ed in particolare ai comuni. Le funzioni comunali acquistano,
peraltro, ulteriore significato se lette congiuntamente alle rilevanti
competenze amministrative comunali in materia di pianificazione urbanistica ed
edilizia, comprendenti la realizzazione e l'esercizio di strutture ricettive;
alle competenze in materia di gestione del demanio marittimo e fluviale; alle
competenze in materia di valorizzazione dei beni culturali e di promozione ed
organizzazione di attività culturali: tutti aspetti che, sommati insieme,
denotano l'importante ruolo del livello locale in materia di turismo. Quanto
alle funzioni amministrative di vigilanza e controllo sugli operatori turistici
(ed in particolare sulle strutture alberghiere e simili; sulle agenzie di
viaggio; sugli operatori delle professioni turistiche), l'entità delle
competenze comunali varia invece notevolmente da Regione a Regione, a seconda
del maggiore o minore peso attribuito alle Province dalla legislazione
regionale.
Le stesse Province
hanno assunto in molti casi un peso assai rilevante, tanto da essere
individuate da alcune Regioni come enti ai quali spetta, in via residuale,
l'esercizio di tutte le funzioni non conferite espressamente ad altri livelli
di governo. Tale ruolo è stato ulteriormente valorizzato laddove alle Province
non sono stati attribuiti solo compiti di vigilanza o di amministrazione
attiva, ma anche il coordinamento delle attività di promozione (che ha portato
in alcuni casi, alla sottoposizione alla loro direzione e vigilanza delle
preesistenti aziende di promozione turistica, ridenominate spesso come
agenzie), e l'elaborazione di atti di programmazione.
|
Il D.Lgs. 112/1998, in materia di
conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed
agli enti locali, prevede che alle regioni sono conferite le funzioni
amministrative relative alla materia "turismo ed industria
alberghiera", che concernono i profili relativi ad ogni attività
pubblica o privata attinente al turismo, ivi incluse le agevolazioni, le
sovvenzioni, i contributi, gli incentivi, comunque denominati, anche se per
specifiche finalità, a favore delle imprese turistiche. Più in particolare
l’articolo 56 del D.P.R. 616/1977
specifica che le funzioni amministrative relative alla materia “turismo ed industria
alberghiera” concernono tutti i servizi, le strutture e le attività pubbliche
e private riguardanti l'organizzazione e lo sviluppo del turismo regionale,
anche nei connessi aspetti ricreativi, e dell'industria alberghiera, nonché
gli enti e le aziende pubbliche operanti nel settore sul piano locale. Le funzioni predette
comprendono fra l'altro: a) le opere, gli impianti, i servizi complementari
all'attività turistica; b) la promozione di attività sportive e ricreative e la
realizzazione dei relativi impianti ed attrezzature, di intesa, per le
attività e gli impianti di interesse dei giovani in età scolare, con gli
organi scolastici. Restano ferme le attribuzioni del CONI per
l'organizzazione delle attività agonistiche ad ogni livello e le relative
attività promozionali. Per gli impianti e le attrezzature da essa promossi,
la regione si avvale della consulenza tecnica del CONI; c) la vigilanza sulle attività svolte e sui servizi
gestiti, nel territorio regionale, per quanto riguarda le attività turistico-ricreative,
dagli automobil club provinciali. Le Province e i
Comuni operano, eventualmente, su delega delle Regioni e quindi le loro
competenze si differenziano da regione a regione. Analizzando la
normativa regionale di conferimento delle funzioni, va anzitutto rilevato
come la quasi totalità delle regioni abbia provveduto, seppure in maniera
diversa, al riordino delle competenze amministrative nel comparto del
turismo. In relazione alle
scelte operate nelle singole leggi, si può affermare che in capo alla regione
sono conservate funzioni di programmazione, di indirizzo e di amministrazione
attiva. Per quanto concerne
il livello di governo provinciale, la legge dell'Abruzzo prevede una
competenza di carattere residuale, mentre quelle della Basilicata e della
Puglia non operano alcun riordino delle funzioni amministrative. Nelle leggi
dell'Emilia Romagna e della Liguria, per contro, si rinvia alla ripartizione
compiuta con precedenti provvedimenti legislativi regionali. Dalle scelte
effettuate, si rileva come alle province siano conferite, soprattutto,
funzioni di amministrazione attiva. Esse riguardano, ad esempio, la
classificazione delle strutture ricettive, l'accertamento dell'idoneità per
esercitare la professione di direttore tecnico di agenzia di viaggio e
l'attività delle guide, nonché degli accompagnatori turistici. Fanno
eccezione le leggi della Toscana, del Piemonte, del Veneto e del Lazio che
conferiscono anche competenze dirette alla promozione del comparto turistico
locale e delle attività imprenditoriali, congiunte all'attività di
coordinamento degli interventi promozionali di spettanza comunale e di
elaborazione di programmi turistici, in coerenza con gli indirizzi dettati a
livello regionale. Alla eterogeneità della tipologia delle funzioni allocate
a livello provinciale, fa da contraltare una maggiore uniformità nella
metodologia di definizione del titolo del loro conferimento. Si riscontra, in
effetti, un ricorso pressoché unitario alla diretta attribuzione di
competenze. Un diverso criterio è seguito, soltanto, dal legislatore della
Lombardia, che utilizza esclusivamente lo strumento della delega e da quello
del Lazio. Quest'ultimo, oltre ad attribuire specifiche funzioni
amministrative, prevede che all'esercizio di determinate competenze si
provveda mediante delega. Per quanto riguarda i
comuni, le leggi della Toscana e del Lazio, riconoscono una generale
competenza residuale. Nelle altre regioni, in via di principio, i
conferimenti riguardano prevalentemente le funzioni di amministrazione
attiva, alle quali si aggiunge, in taluni casi, l'attività di vigilanza.
Così, nelle leggi del Molise, del Piemonte, del Lazio, della Puglia,
dell'Umbria, del Veneto e della Calabria, ai comuni spettano competenze nel
settore della realizzazione e dell'esercizio delle strutture ricettive. Al
riguardo, la loro attività concerne la dichiarazione di pubblica utilità per
l'espropriazione ai fini della costruzione di nuovi alberghi o ampliamento e
trasformazione di quelli esistenti, le autorizzazioni per le deroghe ai regolamenti edilizi
comunali ai fini della determinazione dell'altezza degli edifici destinati ad
uso alberghiero, le autorizzazioni per l'esercizio, il vincolo di
destinazione delle strutture turistiche e la vigilanza/ispezione, anche ai sensi
delle vigenti normative igienico-sanitarie, sugli alberghi e sugli esercizi a
tali effetti assimilati. In ordine al titolo del conferimento, salvi i
residuali casi di utilizzo della delega emerge un quasi costante ricorso allo
strumento dell'attribuzione. Il comune turistico L’articolo 92 del T.U. n. 267/2000 prevede che nei
comuni interessati da mutamenti demografici stagionali in relazione a flussi
turistici o a particolari manifestazioni anche a carattere periodico, al fine
di assicurare il mantenimento di adeguati livelli quantitativi e qualitativi
dei servizi pubblici, il regolamento comunale può prevedere particolari
modalità di selezione per l'assunzione del personale a tempo determinato per
esigenze temporanee o stagionali, secondo criteri di rapidità e trasparenza
ed escludendo ogni forma di discriminazione. Codice mondiale etica del turismo L’Organizzazione
Mondiale del Turismo (OMT) ha adottato il Codice Mondiale di Etica del
Turismo nel 1999, a Santiago del Cile, fatto proprio dall’Assemblea Generale
dell’ONU il 21 dicembre 2001. Alcuni principi enunciati nel Codice Etico del
Turismo afferiscono al ruolo ed alle responsabilità delle comunità locali,
nobilitandone il compito ma anche chiedendo alle stesse consapevolezza ed
impegno. Nel codice etico del turismo il ruolo dei comuni assume una
posizione di rilievo infatti l’obiettivo dello sviluppo del turismo nei
comuni deve avvenire attraverso l’adozione di una strategia gestionale
interdisciplinare ponendo in relazione e verificando ogni scelta con
l’obiettivo di restituire risorse economiche, culturali, ambientali e sociali
al territorio attraverso un turismo di qualità. Più in particolare l’ente
locale ha il compito di interagire con le strutture scolastiche e di
formazione professionale per ottenere la disponibilità di personale
adeguatamente preparato sul territorio Infine i comuni sono
titolari delle competenze relative all’istallazione e manutenzione dei
segnali turistici stradali, mentre la gestione del servizio è affidata in
concessione ad altro soggetto e regolano e controllano, sulla base delle
normative regionali, l’attività di agriturismo. |
|
Il Decreto Legge 83/2012, articolo 66-bis, interviene a favore del turismo
montano con l’istituzione di un fondo a favore del comune montano per
finanziare progetti relativi allo sport in montagna, alla tutela e
valorizzazione delle reti sentieristiche e dei rifugi, al potenziamento del
soccorso alpino e speleologico. Il Decreto c.d. “Destinazione Italia”
(decreto legge 145/2013) al fine di migliorare la capacità di attivazione
della dotazione di beni storici, culturali e ambientali, nonché dei servizi
per l'attrattività turistica di specifiche aree territoriali, ha previsto un
finanziamento sino ad un massimo di 500 milioni di euro per i progetti,
presentati da comuni con una popolazione compresa tra i 5.000 e i 150.000
abitanti, aventi la finalità di promuovere su tutto il territorio nazionale il
coordinamento dell'accoglienza turistica, la valorizzazione di beni culturali
e ambientali, nonché il miglioramento dei servizi per l'informazione al
turista, anche in vista dell'EXPO 2015. Il decreto legge proroga termini
(D.L. 192/2014) ha posticipando dal 30 giugno al 30 settembre 2015 il termine
che i comuni devono rispettare per ottenere il finanziamento di tali
progetti. Il Decreto legge c.d. “Artbonus e turismo”
(D.L. 83/2014), ha previsto l'adozione di un piano straordinario della
mobilità turistica e la convocazione ad parte del MiBACT di apposite
conferenze di servizi per semplificare e velocizzare il rilascio di atti
autorizzativi di varia natura relativi alla realizzazione di circuiti
nazionali di eccellenza. Il 16 ottobre 2014 si
è insediato il tavolo permanente MiBACT ANCI per condividere e sostenere le
politiche di promozione della cultura e di rilancio del turismo. Il tavolo ha
l’obiettivo di individuare citta pilota per sperimentare forme di
integrazione delle politiche culturali, locali e statali: dal sistema
tariffario, agli orari degli accessi ai musei, a campagne unitarie di
comunicazione e promozione della cultura e rilancio del turismo. Per le disposizioni
relative alla fiscalità locale, si rinvia al capitolo sulle entrate degli
enti locali. |
La pianificazione urbanistica in ambito comunale e la partecipazione
alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale rientrano tra le funzioni
fondamentali espressamente attribuite dalla legge ai comuni.
I comuni sono
competenti per la formazione del Piano
Regolatore Generale (PRG) quale strumento principale di pianificazione e
controllo dello sviluppo urbano, da attuare attraverso piani attuativi predisposti dai comuni medesimi.
Sono stati, inoltre,
disciplinati strumenti urbanistici finalizzati al recupero e alla
riqualificazione delle aree urbane.
|
Nell’ambito delle funzioni fondamentali dei comuni (individuate
dall’art. 14, comma 27 del decreto legge n. 78/2010) è espressamente
ricompresa la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale
nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovra
comunale (lett. d)). Il governo del
territorio, in cui sono ricomprese l'urbanistica e l'edilizia (come
sottolineato in più occasioni dalla Corte costituzionale), è materia
assegnata dall'art. 117 della Costituzione alla competenza concorrente di
Stato e regioni. Ciò significa che in tale ambito le leggi regionali devono
osservare i principi fondamentali ricavabili dalla legislazione statale.
Numerose, infatti, sono le leggi regionali che hanno disciplinato la materia,
anche introducendo innovazioni e sperimentazioni diverse da territorio a
territorio. La legge che oggi
reca la disciplina più organica della materia urbanistica a livello nazionale
risale al 1942 (legge n. 1150 del 17 agosto) e, nonostante l’incompleta
attuazione (a partire dal regolamento di esecuzione, mai emanato) e
l’impianto centralizzatore, ha rappresentato la principale fonte di
riferimento per l’individuazione dei princìpi fondamentali della materia,
princìpi ai quali ha dovuto comunque uniformarsi la legislazione regionale di
dettaglio sorta a partire dal 1970, sulla base della competenza concorrente
riconosciuta in materia urbanistica dall’art. 117 della Costituzione, prima
della riforma del Titolo V. Ritornando ai
contenuti principali della legge n. 1150/1942 (c.d. legge urbanistica
nazionale, d’ora in poi indicata con l’acronimo LUN), essa ha previsto, in
estrema sintesi, l'istituzione di un Piano Regolatore Generale (PRG) quale
strumento principale, affidato alla responsabilità del Comune, di
pianificazione e controllo dello sviluppo urbano, da attuare attraverso Piani
Particolareggiati Esecutivi (PPE) redatti dal Comune medesimo (artt. 7-17
LUN). Occorre altresì
ricordare, per l’importanza che riveste a livello comunale il Piano Esecutivo
Convenzionato (PEC), denominazione aggiornata del c.d. piano di lottizzazione
convenzionato previsto dall’art. 28 LUN, che viene proposto dai privati in
attuazione del PRG. Sempre a livello di
pianificazione comunale occorre considerare i regolamenti di attuazione della
c.d. legge ponte (L. 765/1967) con cui sono stati introdotti i cosiddetti
"standard urbanistici", cioè la quantità minima di spazio che ogni
PRG deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico e le distanze e altezze
minime da osservare nell'edificazione degli e tra gli edifici, nonché ai lati
delle strade (D.M. 1444/1968; D.M. 1404/1968). A livello
territoriale più ampio, la stessa legge ha istituito il Piano Territoriale di
Coordinamento (PTC), finalizzato ad orientare e coordinare l’attività
urbanistica di aree vaste e vincolante per i piani subordinati (artt. 5-6
LUN). Tali piani
territoriali, nella legislazione regionale, sono denominati Piano
Territoriale Regionale (PTR) e Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale (PTCP) e costituiscono il primo livello di pianificazione
urbanistica, con efficacia di orientamento e indirizzo, in una logica
gerarchica di pianificazione del territorio: i piani comunali devono
rispettare i piani provinciali, che a loro volta devono rispettare quelli
regionali. I piani territoriali
rappresentano quindi il quadro di riferimento per la valutazione della
compatibilità degli atti di governo del territorio e indicano, ciascuno nella
propria scala di influenza, gli obiettivi generali di sviluppo socioeconomico e infrastrutturale del territorio, nonché i criteri operativi per la
salvaguardia dell’ambiente e gli ambiti destinati all’attività agricola e/o
oggetto di tutela paesaggistica, garantendo quindi il coordinamento con gli
atti di pianificazione settoriale (a mero titolo di esempio si ricordano i
piani paesaggistici). Le leggi regionali adottate negli ultimi anni hanno introdotto
novità in termini di istituti, strumenti e modalità di pianificazione per
rispondere alle esigenze dei territori e adeguarsi all’evoluzione
dell’assetto istituzionale. La disciplina contenuta nella LUN (legge n. 1150/1942) riguarda
inoltre due materie strettamente connesse e compenetrate nella normativa
urbanistica: la regolazione dell'attività costruttiva edilizia (successivamente
confluita nel Testo unico in materia edilizia di cui al D.P.R. 380/2001,) e
la disciplina degli espropri (successivamente confluita nel Testo unico in
materia di espropriazione per pubblica utilità di cui al D.P.R. 327/2001). Se l’obiettivo della LUN era quello di regolare lo sviluppo
edilizio-urbanistico del territorio, a partire dalla fine degli anni ’70
l’obiettivo della legislazione nazionale è stato anche quello di recuperare e
riqualificare aree degradate del tessuto urbano. I primi strumenti urbanistici indirizzati a questa specifica
finalità sono stati i “piani di recupero” istituiti dalla legge 5 agosto
1978, n. 457. Successivamente, altri strumenti urbanistici finalizzati al
recupero e alla riqualificazione sono stati varati. Si citano ad esempio il
D.M. 22 ottobre 1997 - con cui è stato approvato il bando di gara per la
selezione dei progetti denominati “Contratti di quartiere”, relativo ad interventi
sperimentali nel settore dell'edilizia residenziale sovvenzionata (è
attualmente ancora in corso la fase II di tale programma, avviata con i
decreti 27 dicembre 2001 e 30 dicembre 2002) – ed il D.M. 8 ottobre 1998,
quest’ultimo dedicato alla promozione di iniziative in ambito urbano
denominate "Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo
sostenibile del territorio - PRUSST” e, prima ancora, i
programmi integrati di intervento disciplinati dall’art. 16 della L.
179/1992. Interventi più
recenti sono stati adottati nel corso della XVI legislatura con i cosiddetti “piani casa” e “piani città”. Questi ultimi, in particolare, avviati con l’art. 5 del
D.L. 70/2011 e con l’art. 12 del D.L. 83/2012, hanno introdotto,
rispettivamente, una normativa nazionale quadro per la riqualificazione delle
aree urbane degradate e una procedura per il finanziamento di contratti di
valorizzazione urbana proposti dai Comuni e selezionati da un’apposita Cabina
di regia. |
|
Anche nel corso della
XVII legislatura la riqualificazione urbana rappresenta una delle tematiche
in primo piano. I commi 431-434 della legge di stabilità 2015 (L. 190/2014),
hanno infatti previsto la predisposizione e il finanziamento (per un ammontare di 200 milioni di euro nel
triennio 2015-2017) di un Piano nazionale per la riqualificazione sociale e
culturale delle aree urbane degradate nel cui ambito i comuni elaborano
progetti di riqualificazione costituiti da un insieme coordinato di
interventi diretti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado
sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del
tessuto sociale ed ambientale. Nella medesima legge viene disposto (comma
271) che le misure incentivanti e premiali, previste dalle norme per la
riqualificazione delle aree urbane degradate di cui ai commi 9 e 14 dell'art.
5 del D.L. 70/2011 (c.d. Piano per la città), prevalgono sulle disposizioni
dei piani regolatori generali (PRG) anche relative a piani particolareggiati o
attuativi. Si tratta di premialità che prevedono, tra l'altro, il
riconoscimento di volumetrie aggiuntive e la cui attuazione è demandata alle regioni. La legge di stabilità
2016 (legge 208/2015) stabilisce, per la riqualificazione urbana e sicurezza
delle periferie, procedure finalizzate alla predisposizione di un
"Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e
la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo
di provincia" (commi da 974 a 978). Per il finanziamento del programma
viene prevista l'istituzione di un apposito Fondo, con una dotazione di 500
milioni di euro per il 2016. Il tema della
rigenerazione urbana è affrontato infine anche nel disegno di legge A.C.
2093, concernente il contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo
edificato, all'esame dell’Assemblea
della Camera. Numerose norme in
materia di urbanistica sono state inoltre introdotte nell'ambito di
provvedimenti di urgenza emanati nel corso dell’attuale legislatura. In
particolare, si tratta di misure di carattere puntuale comprese in pacchetti
di norme aventi come finalità precipua la semplificazione in materia
edilizia. E' il caso ad esempio
del comma 3-bis dell'art. 30
(rubricato "Semplificazioni in materia edilizia") del D.L. 69/2013,
che ha prorogato di 3 anni il "termine di validità nonché i termini di
inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero degli accordi
similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31
dicembre 2012". Più numerose le
disposizioni di carattere urbanistico contenute nell'art. 17 (rubricato
"Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia") del D.L.
133/2014 (c.d. sblocca Italia). Si citano, tra le altre, la lettera b) del
comma 1, che introduce la definizione di "interventi di
conservazione". La norma stabilisce che lo strumento urbanistico
individua gli edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi della
pianificazione e che, in tal caso, l'amministrazione comunale può favorire,
in alternativa all'espropriazione, la riqualificazione delle aree attraverso
forme di compensazione incidenti sull'area interessata e senza aumento della
superficie coperta. Rilevante è altresì
la disposizione di cui alla lettera q) del comma 1, che introduce la
disciplina del permesso di costruire convenzionato, nonché le norme dettate
dai successivi commi 3-4, che prevedono che la legislazione regionale assicuri
l'attivazione del potere sostitutivo allo scadere dei termini assegnati ai comuni
per l'adozione, da parte degli stessi, dei piani (urbanistici) attuativi, e
che consentono l'attuazione per stralci funzionali e per fasi e tempi
distinti delle convenzioni di lottizzazione previste dall’art. 28 LUN o degli
accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale. Ulteriori
disposizioni sono contenute nella legge 28 dicembre 2015, n. 221 (c.d.
collegato ambientale) e vanno dall'art. 22 (che modifica l'art. 9 del nuovo
testo della legge generale sui libri fondiari, al fine di inserire nel novero
dei diritti che possono essere intavolati o prenotati nel libro fondiario
anche i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti
edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali,
ovvero da strumenti di pianificazione territoriale) all'art. 74, che
disciplina l'espropriabilità dei beni gravati da uso civico. L’art. 52
prevede inoltre un meccanismo per agevolare la rimozione o la demolizione, da
parte dei comuni, di opere ed immobili abusivi, realizzati in aree a rischio
idrogeologico. |
Gli enti locali conformano o adeguano gli strumenti di
pianificazione urbanistica e territoriale alle
previsioni dei piani paesaggistici definiti dalle Regioni.
Nell’ambito del
procedimento di autorizzazione
paesaggistica, inoltre, la regione può delegare
l’esercizio della propria funzione autorizzatoria agli enti
locali.
|
L’art. 9 della
Costituzione affida alla Repubblica tutta, e non solo allo Stato, il compito
di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. In linea con tale
statuizione, l’art. 117 della Costituzione affida la tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni culturali (in cui rientra anche la tutela del
paesaggio, come sottolineato dalla Corte costituzionale in più occasioni)
alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato, mentre fa rientrare nelle materie di legislazione concorrente la
valorizzazione dei beni culturali e ambientali. La Corte
costituzionale ha sottolineato in più occasioni (si veda la sentenza n. 367
del 2007) che il paesaggio (e la sua tutela) costituiscono valori primari e assoluti
e che, pertanto, la disciplina statale costituisce un limite minimo di tutela
non derogabile dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale, e dalle
Province autonome (sentenza n. 101/2010 e, in precedenza, sentenze n. 272 del
2009 e n. 378 del 2007). Il D.Lgs. 42/2004
(Codice dei beni culturali e del paesaggio) prevede che il Ministero e le
regioni definiscono d'intesa le politiche per la conservazione e la
valorizzazione del paesaggio e che cooperano, altresì, per la definizione di
indirizzi e criteri riguardanti l'attività di pianificazione territoriale,
nonché la gestione dei conseguenti interventi, al fine di assicurare la
conservazione, il recupero e la valorizzazione degli aspetti e caratteri del
paesaggio. Il Codice prevede,
inoltre, uno speciale regime di tutela per i seguenti beni paesaggistici individuati dall’art. 134: § gli immobili e le aree individuati dall’art. 136 e che sono
dichiarati (in seguito ad apposito procedimento) di “notevole interesse
pubblico” o sono sottoposti a tutela da un piano paesaggistico regionale; L’art. 136 elenca i seguenti beni: cose immobili che hanno cospicui caratteri di
bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica, ivi compresi gli
alberi monumentali; ville, giardini e parchi che si distinguono per la loro
non comune bellezza; complessi di cose immobili che compongono un
caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; bellezze
panoramiche e punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai
quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze. § le aree che risultano essere tutelate per legge (cioè indipendentemente da una dichiarazione di
interesse pubblico) e che l’art. 142 individua in maniera precisa. L’art. 142 fornisce un
lungo elenco che può essere riassunto, in linea di massima nelle seguenti
aree: territori costieri o contermini ai laghi, corsi d’acqua, zone alte di
montagna, ghiacciai; parchi e riserve nazionali o regionali; foreste e
boschi; zone umide; vulcani e zone di interesse archeologico. Per i citati beni di
interesse paesaggistico l’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 prevede, in capo ai
proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo, il divieto di
distruggerli e di introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione. A tal fine i citati soggetti hanno
l'obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli
interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta
documentazione, ed astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non abbiano
ottenuto l'autorizzazione
paesaggistica, salvo particolari casi di esclusione (disciplinati
dall’art. 149). Sull’istanza di
autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il
parere vincolante del soprintendente. La
regione può delegare la propria funzione autorizzatoria agli enti locali. L’art. 146, comma 6, del Codice, dispone che la delega
può essere concessa, per i rispettivi territori, a province, a forme
associative e di cooperazione fra enti locali, agli enti parco, ovvero a
comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in
grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche
nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica
ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia. L’autorizzazione
concessa è efficace per un periodo
di cinque anni. Come si è detto
poc’anzi, uno dei presupposti per la tutela del bene paesaggistico è che esso
sia incluso in un piano paesaggistico.
L’art. 135 del D.Lgs.
42/2004 affida infatti allo Stato e alle regioni il compito di assicurare che
tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato
e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che
lo costituiscono e, a tale fine, prevede che le regioni sottopongano a
specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero
piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori
paesaggistici. Lo stesso piano,
secondo quanto stabilito dall’art. 145 del Codice, non è derogabile da parte
di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, e
le sue disposizioni sono cogenti (e prevalenti, in caso di disposizioni
difformi) per gli strumenti
urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province.
Conseguentemente i comuni, le città metropolitane, le province (nonché, per
espressa previsione, anche gli enti gestori delle aree naturali protette) conformano o adeguano gli strumenti
di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici. |
|
Il filo conduttore
della produzione legislativa in materia di tutela del paesaggio nel corso
della XVII legislatura continua ad essere quello della semplificazione, che
già aveva caratterizzato anche la precedente legislatura. Una serie ripetuta di
modifiche all’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 è stata finalizzata a chiarire la
decorrenza e lo spirare dei termini di efficacia dell’autorizzazione
paesaggistica in relazione all’efficacia del titolo edilizio e alla data di
inizio dei lavori (art. 39, comma 1, del D.L. 69/2013; art. 3-quater, comma 1, del D.L. 91/2013;
art. 12, comma 1, lett. a), del D.L. 83/2014), nonché a prorogare di tre anni
il termine delle autorizzazioni paesaggistiche (comma 2 dell’art. 3-quater del D.L. 91/2013). Un’altra modifica
all’art. 146, ad opera dell’art. 25, comma 3, del D.L. 133/2014 (c.d. decreto
sblocca Italia), è intervenuta sul procedimento per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, stabilendo che decorsi inutilmente sessanta
giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che
questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede
comunque sulla domanda di autorizzazione (una norma identica era già stata
introdotta dall’art. 12, comma 1, lett. b), del D.L. 83/2014 e prima ancora dall’art.
39, comma 1, lett. b), n. 3, del D.L. 69/2013, senza tuttavia essere
convertita in legge). Sul medesimo procedimento è intervenuto l’art. 39,
comma 1, lett. b), n. 2), del D.L. 69/2013, che ha dimezzato da 90 a 45
giorni il termine per l’espressione del parere obbligatorio non vincolante
del soprintendente, nel caso specifico in cui siano state approvate le
prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati e sia stato positivamente
verificato l’adeguamento degli strumenti urbanistici alle medesime
prescrizioni. La stessa disposizione stabilisce che, decorso tale termine,
l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione. Sono state adottate,
inoltre, talune disposizioni riguardanti la semplificazione relativa agli
interventi di lieve entità. L’art. 12, comma 2, del D.L. 83/2014 prevede
l’emanazione di un regolamento di delegificazione finalizzato ad ampliare e
precisare le ipotesi di interventi di lieve entità contemplate dal D.P.R.
139/2010, con cui è stato disciplinato il procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica per tale tipologia di interventi, e di operare
ulteriori semplificazioni procedimentali (si tratta di una disposizione che
riproduce, nella sostanza, la norma, che non ha trovato attuazione, contenuta
nell’art. 44, comma 1, del D.L. 5/2012, e che
è stata recentemente abrogata dal D.Lgs. 10/2016). Su tale disposizione si è
innestata quella dettata dal comma 2 dell’art. 25 del D.L. 133/2014, che ha ampliato l’ambito
del citato regolamento di delegificazione alla definizione degli interventi per
cui è esclusa la richiesta di autorizzazione paesaggistica e di quelli di
lieve entità regolabili tramite accordi di collaborazione tra Ministero dei
beni culturali, regioni ed enti locali. Dal punto di vista
della valorizzazione del paesaggio, merita ricordare, infine, la disposizione
introdotta dal comma 3-ter dell’art.
11 del D.L. 83/2014, che prevede la predisposizione, da parte di regioni ed enti
locali, d'intesa con i Ministeri dei beni culturali e dello sviluppo
economico, di progetti per la valorizzazione del paesaggio anche tramite la
realizzazione di itinerari turistico-culturali finalizzati a migliorare la
fruizione pubblica dei siti di interesse culturale e paesaggistico tramite la
messa in rete degli stessi. Tale disposizione specifica che i suddetti
progetti di valorizzazione assumono priorità nell'ambito del Piano strategico
nazionale per lo sviluppo del turismo in Italia. |
Nell’ambito dei
principi generali in materia di tutela dell’ambiente, nei rapporti tra lo
Stato, le regioni e gli enti locali opera il principio di sussidiarietà e di
leale collaborazione in base al quale si prevede l’intervento dello Stato in
questioni involgenti interessi ambientali ove gli obiettivi dell'azione
prevista, in considerazione delle dimensioni di essa e dell'entità dei relativi
effetti, non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli
territoriali inferiori di governo o non siano stati comunque effettivamente
realizzati. Il principio di sussidiarietà opera anche tra le regioni e gli enti
locali.
Ai comuni spettano
tutte le funzioni amministrative concernenti l’assetto e l’utilizzazione del
territorio, mentre tra le funzioni fondamentali delle province è espressamente
inclusa la tutela e la valorizzazione dell’ambiente per gli aspetti di
competenza.
Agli enti locali sono,
inoltre, conferite le funzioni riguardanti la programmazione, la pianificazione
e la gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitati
costieri.
|
L’art. 117, secondo
comma, lettera s), della Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva
dello Stato la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema. In proposito, la
Consulta ha ripetutamente affermato che "non si può discutere di materia
in senso tecnico, perché la tutela ambientale è da intendere come valore
costituzionalmente protetto, che in quanto tale delinea una sorta di «materia
trasversale», in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche
regionali, fermo restando che allo Stato spettano le determinazioni
rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero
territorio nazionale" (ex multis: sentenze n. 278/2012, n. 171/2012, n.
235/2011, n. 225/2009, n. 12/2009, n. 378/2007). Dunque, la competenza
statale, quando è espressione della tutela dell’ambiente, costituisce
"limite" all’esercizio delle competenze regionali, anche in altri
ambiti materiali. Le Regioni, nell’esercizio delle loro competenze, debbono
dunque rispettare la normativa statale di tutela dell’ambiente, ma possono
stabilire per il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze (in
materia di tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione
dei beni ambientali, etc.) livelli di tutela più elevati (si vedano in
proposito la sentenza n. 58/2013). Occorre ricordare che
con la sentenza n. 232 del 2009 la Corte costituzionale ha chiarito che la
"difesa del suolo" così come la "tutela delle acque
dall'inquinamento" sono riconducibili alla materia "tutela
dell'ambiente". Uno degli atti
legislativi più importanti in materia ambientale è sicuramente il cd. Codice
dell’ambiente (D.Lgs. 152/2006) che, seppur non costituisca un testo unico
dell’intero settore ambientale, contiene un rilevante aggregato di norme in
materia di valutazioni ambientali, difesa del suolo, tutela delle acque,
rifiuti e bonifiche, inquinamento atmosferico e danno ambientale. Lo stesso codice
enuncia alcuni principi cardine in materia ambientale, tra cui si ricordano
in particolare (per l’importanza che rivestono per gli enti locali) quelli di
sussidiarietà e di leale collaborazione. Secondo l’art. 3-quinquies del D.Lgs. 152/2006 i
principi in esso contenuti costituiscono le condizioni minime ed essenziali
per assicurare la tutela dell'ambiente su tutto il territorio nazionale. Lo
stesso articolo consente alle regioni e alle province autonome di Trento e di
Bolzano di adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente più restrittive,
qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò
non comporti un'arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati
aggravi procedimentali. Viene altresì previsto l’intervento dello Stato in
questioni involgenti interessi ambientali ove gli obiettivi dell'azione
prevista, in considerazione delle dimensioni di essa e dell'entità dei
relativi effetti, non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli
territoriali inferiori di governo o non siano stati comunque effettivamente
realizzati. Tale principio di sussidiarietà opera anche nei rapporti tra
regioni ed enti locali minori. Proprio a tali enti
locali (in particolare comuni e province), in virtù del loro trovarsi “in
prima linea” nel controllo e pianificazione del territorio, spetta di fatto
il compito primario per l’attuazione concreta dei principi volti alla tutela
e valorizzazione dell’ambiente: attraverso la loro azione diretta e
soprattutto con quella regolatrice e di vigilanza sulle attività che si
intraprendono sui loro territori. Ai servizi di polizia
(anche ambientale[17]) e tecnico-urbanistici dei Comuni ed ai servizi di
prevenzione e vigilanza sanitaria delle A.S.L. compete la vigilanza costante
del territorio e il tempestivo intervento per impedire che l’ambiente sia
danneggiato da inquinamenti ed altri interventi dannosi. Con l’adozione del
Codice dell’ambiente, le competenze relative alle funzioni amministrative di
tutti i soggetti della pubblica amministrazione, ed in particolare di regioni
ed enti locali, sono state definite ed ordinate nell’ambito di ciascuna delle
sei parti che lo costituiscono. Merita altresì
ricordare che la legge n. 56/2014, nel disciplinare le province, prevede che
tra le funzioni fondamentali ad esse attribuite rientrino la pianificazione
territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e la
valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza. Ai Comuni, ai
sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 267/2000 (T.U. enti locali), spettano poi tutte
le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio
comunale, con rilievo precipuo per il settore organico dell’assetto e
dell’utilizzazione del territorio. Un altro settore
normativo di rilievo è quello delle valutazioni e autorizzazioni ambientali
(valutazione di impatto ambientale - VIA,
valutazione ambientale strategica - VAS, e autorizzazione integrata
ambientale - AIA). La normativa nazionale è contenuta nella parte seconda del
D.lgs. 152/2006 ed individua i progetti e le attività assoggettate a
valutazione/autorizzazione statale o regionale. Occorre inoltre segnalare che diverse regioni hanno
delegato le funzioni in materia alle province. Gli adempimenti
amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e
sugli impianti non soggetti ad AIA sono invece ricondotti alla disciplina
dell’autorizzazione unica ambientale (AUA), introdotta dall’art. 23 del D.L.
5/2012. Per quanto riguarda
la difesa del territorio, le linee essenziali della governance del settore sono contenute (come anticipato) nel cd.
Codice dell’ambiente (articoli 53-63 del D.Lgs. 152/2006, costituenti il
Titolo I della Sezione I della parte terza). Con l'emanazione del citato
Codice, il sistema delle autorità di bacino è stato ridisegnato, in linea con
il dettato della cd. direttiva acque (direttiva 2000/60/UE), suddividendo il
territorio nazionale in otto distretti idrografici, nei quali è stata
prevista l'istituzione di autorità di bacino distrettuali, responsabili della
pianificazione di bacino (nelle more della loro costituzione sono state
prorogate quelle esistenti, tuttora operanti). Tra le citate disposizioni di governance, merita in particolare
ricordare quella dettata dall’art. art. 65, commi 4-6, secondo cui il piano
di bacino è sovraordinato agli strumenti di pianificazione. Oltre al piano di
bacino, l'art. 67 prevede l'approvazione, da parte delle Autorità di bacino,
di piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio
idrogeologico, redatti anche sulla base delle proposte delle regioni e degli
enti locali. Lo stesso articolo prevede che, nelle more dell'approvazione dei
piani di bacino, le Autorità di bacino adottino piani stralcio di distretto
per l'assetto idrogeologico (PAI). In tema di tutela del
mare, invece, si ricorda che il D.Lgs. 112/1998 ha mantenuto, tra i compiti
di rilievo nazionale, quelli relativi alla protezione, alla sicurezza e
all'osservazione della qualità dell'ambiente marino (art. 69), nonché la
definizione del piano generale di difesa del mare e della costa marina
dall'inquinamento e la prevenzione e la sorveglianza nonché gli interventi
operativi per azioni di inquinamento marino (art. 80), conferendo invece a
regioni ed enti locali la programmazione, la pianificazione e la gestione
integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitati costieri
(art. 89). Al Ministero
dell’ambiente viene infine assegnato, dal D.Lgs. 190/2010, il ruolo di
autorità competente per il coordinamento delle attività previste dal medesimo
decreto, con cui nell’ordinamento nazionale si è dato attuazione alla
direttiva 2008/56/CE che istituisce un quadro per l'azione comunitaria nel
campo della politica per l'ambiente marino. |
|
Una delle modifiche
più recenti che coinvolge le funzioni degli enti locali è sicuramente
l’approvazione della legge sui delitti ambientali. In particolare l’art. 1,
comma 9, della L. 68/2015, che introduce nel D.Lgs. 152/2006 la nuova parte
sesta-bis, che disciplina l’attività degli organi di vigilanza (quindi
anche polizia municipale e provinciale) finalizzata all’emanazione di
prescrizioni per la regolarizzazione di ipotesi contravvenzionali in materia
ambientale che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di
danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. In materia di
valutazioni e autorizzazioni ambientali, le principali modifiche adottate nel
corso dell’attuale legislatura sono sicuramente individuabili nel D.Lgs.
46/2014 che, in attuazione della direttiva 2010/75/UE, ha riscritto parte
della disciplina di AIA contenuta nel Titolo III-bis, della Parte Seconda, del Codice dell’ambiente, e il D.M.
Ambiente 30 marzo 2015 che ha dettato, in attuazione dell’art. 15 del D.L.
91/2014, le linee guida per la verifica di assoggettabilità a valutazione di
impatto ambientale (c.d. screening
di VIA) dei progetti di competenza delle regioni e province autonome. E’
stato altresì emanato il D.P.R. 13 marzo 2013, n. 59, con cui è stata
regolamentata la disciplina dell'autorizzazione unica ambientale (AUA), dando
così attuazione alle norme introdotte dall’art. 23 del D.L. 5/2012. Per un
approfondimento della normativa emanata in materia, nel corso dell’attuale
legislatura, si rinvia alla scheda web
“Autorizzazioni e valutazioni ambientali”). Merita infine
ricordare la legge n. 10/2013, approvata poco prima della fine della XVI
legislatura, che ha introdotto disposizioni per incentivare lo sviluppo degli
spazi verdi urbani attraverso una serie di misure tra le quali: la
possibilità di stipulare contratti di sponsorizzazione per promuovere
iniziative finalizzate all’incremento e alla valorizzazione del patrimonio
arboreo; la promozione di iniziative locali per lo sviluppo degli spazi verdi
urbani; la salvaguardia e la gestione delle dotazioni territoriali di
standard previste nell'ambito degli strumenti
urbanistici attuativi dal D.M. 1444/1968. Per quanto riguarda
la tutela del territorio, la legislatura in corso è stata finora
caratterizzata da una serie di interventi finalizzati precipuamente, tramite
meccanismi di semplificazione e accelerazione delle procedure, norme per
migliorare l’utilizzo delle risorse stanziate e la destinazione di risorse ad
hoc, a realizzare e a portare a compimento le opere considerate necessarie
per rimediare alle numerose situazioni di dissesto idrogeologico presenti sul
territorio nazionale (si rinvia in proposito alla scheda web “Dissesto idrogeologico”). Tali misure sono
state recentemente integrate da una serie di disposizioni in materia di
difesa del suolo dettate dal c.d. collegato ambientale (L. 221/2015). In
particolare l'articolo 51 contiene un'articolata disciplina volta
prevalentemente alla riorganizzazione e ridefinizione dei distretti
idrografici in materia di difesa del suolo, modificando diversi articoli del
Codice dell'ambiente (D.Lgs 152 del 2006). L'articolo 52 prevede un
meccanismo per agevolare la rimozione o la demolizione, da parte dei comuni,
di opere ed immobili abusivi, realizzati nelle aree a rischio idrogeologico.
L'articolo 54 modifica in più punti il testo unico in materia edilizia
(D.P.R. n. 380/2001) al fine di richiamare nelle varie disposizioni e
procedure la normativa, gli interessi e i vincoli collegati alla tutela
dell'assetto idrogeologico. Si prevede, inoltre, che agli atti e procedimenti
riguardanti la tutela dal rischio idrogeologico non si applichi la disciplina
generale sul silenzio-assenso. L'articolo 59 disciplina i contratti di fiume,
(inserendo l'articolo 68-bis al cd.
Codice dell'ambiente), che concorrono alla definizione e all'attuazione degli
strumenti di pianificazione di distretto a livello di bacino e sottobacino
idrografico, quali strumenti volontari di programmazione strategica e
negoziata che perseguono la tutela, la corretta gestione delle risorse
idriche e la valorizzazione dei territori fluviali, unitamente alla
salvaguardia dal rischio idraulico, contribuendo allo sviluppo locale di tali
aree. Relativamente alla
tutela dell’ambiente marino si ricorda che, in attuazione della direttiva
quadro dell’UE sull'ambiente marino, il D.M. Ambiente 17 ottobre 2014 ha
determinato i requisiti del buono stato ambientale e definito i relativi
traguardi ambientali da conseguire. Si ricorda altresì il
decreto 29 gennaio 2013, di approvazione del piano operativo di pronto
intervento per la difesa del mare e delle zone costiere dagli inquinamenti
accidentali da idrocarburi e da altre sostanze nocive[18], che costituisce lo strumento per il coordinamento delle
operazioni da porre in essere per contrastare inquinamenti marini di
rilevante entità. Con il D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 145, è stata invece data
attuazione alla direttiva 2013/30/UE sulla sicurezza delle operazioni in mare
nel settore degli idrocarburi. Ulteriori misure
connesse alla tutela del mare sono state dettate dalla legge n. 221/2015
(c.d. collegato ambientale). Si ricordano l’art. 1, volto alla sensibilizzazione
dei proprietari dei carichi inquinanti trasportati via mare, e gli articoli 8
e 27 relativi agli scarichi in mare e alla pulizia dei fondali marini. |
Gli enti locali partecipano obbligatoriamente all'ente di governo dell'ambito ottimale in cui ricadono, al quale è trasferito l'esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche.
|
Il corpo centrale
della normativa nazionale in materia di tutela delle acque dall'inquinamento
e gestione delle risorse idriche è contenuta nella parte terza del D.Lgs.
152/2006 (c.d. Codice dell’ambiente). Per quanto riguarda
il riparto di competenze, l’art.
75 e l’art. 142 di tale decreto stabiliscono che, nelle materie in questione,
lo Stato esercita le competenze ad esso spettanti per la tutela dell'ambiente
e dell'ecosistema attraverso il Ministro dell'ambiente (fatte salve le
competenze in materia igienico-sanitaria spettanti al Ministro della salute),
mentre regioni ed enti locali esercitano le funzioni e i compiti ad essi
spettanti nel quadro delle competenze costituzionalmente determinate e nel
rispetto delle attribuzioni statali. Il comma 3 dell’art.
142 stabilisce altresì, con riferimento alla gestione delle risorse idriche,
che gli enti locali, attraverso l'ente di governo dell'ambito (EGATO), cui
sono obbligati a partecipare (v. infra),
svolgono le funzioni di organizzazione del servizio idrico integrato (SII),
di scelta della forma di gestione, di determinazione e modulazione delle
tariffe all'utenza, di affidamento della gestione e relativo controllo,
secondo le disposizioni della parte terza del Codice. Alle autorità
competenti, la disciplina in questione affida, tra l’altro, il compito di
provvedere al raggiungimento ed al mantenimento degli obiettivi di qualità ambientali (disciplinati dagli artt. 76 e
ss.) mutuati dalla direttiva europea quadro in materia di acque (direttiva
2000/60/CE, le cui disposizioni sono state recepite proprio dalla parte terza
in questione). Al fine di
raggiungere tali obiettivi di qualità, la parte terza del Codice ambientale
prevede, in linea con le disposizioni della direttiva acque, un sistema di pianificazione delle
utilizzazioni delle acque, volta ad evitare ripercussioni sulla qualità delle
stesse e a consentire un consumo idrico sostenibile (art. 95). Gli strumenti
utilizzati a tale scopo, risultano essere i c.d. piani di tutela, adottati
dalle regioni, e i c.d. piani di gestione, articolazioni dei piani
distrettuali di bacino. Ai fini della tutela
e della gestione delle acque il territorio
nazionale è infatti diviso in otto
distretti idrografici governati da autorità di bacino distrettuali (artt.
63-64). Nelle
more della costituzione di tali autorità distrettuali continuano ad operare
le autorità di bacino istituite dalla L. 183/1989. In tali distretti,
l’Autorità di bacino provvede a redigere il Piano di bacino distrettuale, che
“ha valore di piano territoriale di settore ed è lo strumento conoscitivo,
normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e
programmate le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla
difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione della
acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio
interessato” (art. 65). I piani di bacino possono essere redatti ed approvati
anche per sottobacini o per stralci relativi a settori funzionali (art. 65,
comma 8). Il “piano di
gestione” è disciplinato dall’art. 117, secondo cui tale piano rappresenta
un’articolazione interna del Piano di bacino distrettuale e “costituisce
pertanto piano stralcio del Piano di bacino e viene adottato e approvato
secondo le procedure stabilite per quest'ultimo”. Il servizio idrico integrato (SII) è
costituito, ai sensi della definizione recata dall’art. 141, comma 2, del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (c.d. Codice ambientale),
“dall'insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione
di acqua ad usi civili di fognatura e di depurazione delle acque reflue”. Secondo la disciplina
(contenuta negli articoli da 147 a 158-bis
del citato decreto), l’organizzazione del
servizio idrico integrato si articolava, territorialmente, per Ambiti Territoriali Ottimali
(ATO), definiti dalle Regioni in attuazione della c.d. legge Galli (L.
36/1994, le cui disposizioni sono confluite nella parte del Codice). Il D.L. 133/2014
(c.d. decreto sblocca Italia) ha modificato l’articolo in esame prevedendo
che gli enti locali partecipano
obbligatoriamente all’Ente di governo dell’ambito (EGATO) individuato
dalla competente Regione per ciascun ATO, al quale è trasferito l’esercizio
delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse
idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche. Come è stato anche
ribadito dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 62/2012) non spetta
alla Regione esercitare il servizio idrico, ad esempio scegliendo la società
cui affidare il servizio idrico, ma spetta all'EGATO; la Regione individua
solo le funzioni e i compiti degli EGATO. Si
ricorda che i “nuovi” EGATO sostituiscono le "vecchie" AATO
(Autorità d'ambito territoriale ottimale) soppresse, a far data dal 31
dicembre 2012, dal decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2. La tariffa costituisce, ai sensi
dell’art. 154 del d.lgs. 152/2006, il corrispettivo
del SII e viene determinata tenendo conto: - della qualità della
risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti
necessari; - dell’entità dei
costi, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di
investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e
secondo il principio “chi inquina paga”. La tariffa è
applicata e riscossa dai soggetti gestori, nel rispetto della convenzione e
del relativo disciplinare che regolano il rapporto tra l'EGATO ed il soggetto
gestore del SII (art. 156). L’art. 144, comma 1,
del Codice dell’ambiente, dispone che tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal
sottosuolo, appartengono al demanio
dello Stato, mentre il precedente art. 143 stabilisce che gli acquedotti, le
fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di
proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o misurazione, fanno parte
del demanio e sono quindi inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti
dalla legge. In proposito merita
ricordare che il D.Lgs. 85/2010 (emanato in attuazione della legge 42/2009
sul “federalismo fiscale”) disciplina il trasferimento
(a titolo gratuito) agli enti locali, della quasi totalità dei beni
mobili ed immobili dello Stato, tra i quali figurano i beni del demanio marittimo e del demanio idrico e relative
pertinenze, opere idrauliche e di bonifica di competenza statale (ad
eccezione di fiumi e laghi sovra regionali). Gli enti locali, una
volta divenuti a pieno titolo proprietari dei beni in questione, dovranno
rispettarne il relativo status
(demaniale o patrimoniale) e disporne (ad esempio alienandoli) nell’interesse
della collettività rappresentata, favorendone la massima valorizzazione
funzionale, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale
rappresentata. Lo strumento
principale per la tutela qualitativa della risorsa idrica è, dal punto di
vista operativo, la disciplina degli
scarichi, che si basa sul principio generale secondo cui tutti gli
scarichi devono essere preventivamente autorizzati (art. 124) e sono
disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi
idrici e devono comunque rispettare i valori limite (art. 101) previsti
nell'Allegato 5 alla parte terza del D.lgs. 152/2006. Il regime
autorizzatorio degli scarichi di acque reflue domestiche e di reti fognarie,
servite o meno da impianti di depurazione delle acque reflue urbane, è
definito dalle regioni. Salvo quanto previsto
dalla normativa in materia di autorizzazione integrata ambientale (AIA), l'autorizzazione allo scarico è valida per quattro anni dal momento
del rilascio. Salvo diversa disciplina regionale, la domanda di autorizzazione è presentata alla provincia o all'EGATO se lo scarico è in pubblica fognatura. Per quanto riguarda
gli scarichi di acque reflue domestiche in reti fognarie, l’art. 124, comma
3, del D.Lgs. 152/2006, stabilisce che, in deroga all’obbligo generale di
autorizzazione, essi “sono sempre ammessi nell'osservanza dei regolamenti
fissati dal gestore del servizio idrico integrato ed approvati dall'ente di
governo dell'ambito”. |
|
Nel corso della
legislatura sono state adottate varie norme in materia di tutela delle acque
e di servizio idrico. In particolare l'articolo 7 del D.L. 133/2014 (c.d.
"sblocca Italia") è intervenuto, tra l'altro, sulla governance del servizio idrico. In
particolare tale articolo fissa il termine perentorio del 31 dicembre 2014,
entro il quale le Regioni devono emanare una delibera di individuazione degli
enti di governo dell'ATO che subentrano alle soppresse autorità d'ambito e
ribadisce l'obbligatorietà della
partecipazione degli enti locali agli EGATO e il conseguente trasferimento, a
tali enti di governo dell’ambito, delle competenze spettanti agli enti locali
in materia di gestione delle risorse idriche (nuovo ultimo periodo del comma
1 dell'art. 147 del Codice che riproduce, per i nuovi enti d'ambito, quanto
già disposto per le autorità d'ambito dall'art. 148 del Codice). L’art. 7
provvede inoltre a ripristinare il requisito dell'unicità della gestione, in
luogo di quello (meno stringente) dell'unitarietà (che era stato introdotto
dal D.Lgs. 4/2008, c.d. secondo correttivo al Codice), facendo però salve le
gestioni del servizio idrico in forma autonoma esistenti nei comuni montani
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti. Diversi interventi
normativi sono stati adottati al fine di accelerare le procedure, anche
tramite il ricorso alla nomina di commissari straordinari da parte del
Governo, e finanziare gli interventi per l'adeguamento dei sistemi di
collettamento, fognatura e depurazione, anche al fine di superare le
procedure di infrazione in corso e le sentenze di condanna emesse dalla Corte di Giustizia dell'UE concernenti
l'applicazione della Direttiva 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue
urbane. In proposito si ricorda l'art. 58 della legge n. 221/2015 (c.d.
collegato ambientale), che istituisce un Fondo di garanzia per gli interventi
finalizzati al potenziamento delle infrastrutture idriche, ivi comprese le
reti di fognatura e depurazione. Nel “collegato
ambientale” sono contenute ulteriori disposizioni relative al servizio
idrico, che riguardano: l'istituzione, presso la Cassa conguaglio per il
settore elettrico, di un Fondo di garanzia per il potenziamento delle
infrastrutture idriche; il contenimento della morosità; la concessione di
agevolazioni per gli utenti in condizioni economico-sociali disagiate; nonché
l'aggiunta di fattispecie derogatorie che consentono di fare salve le
gestioni del servizio idrico in forma autonoma esistenti, in deroga alla
disciplina generale dettata dall'articolo 147 del D.Lgs. 152/2006. Una serie di
modifiche sono state infine introdotte, nel corso della legislatura, in materia
di tutela della qualità delle acque. Per una trattazione più approfondita delle norme emanate,
nella legislatura in corso, in materia di tutela delle acque e di servizio
idrico, si rinvia alla scheda web “Gestione e tutela delle acque”. |
Nell’ambito delle
funzioni fondamentali assegnate dallo Stato ai comuni, rientrano l'organizzazione
e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei
rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi, a partire dal 31
dicembre 2016.
Gli enti locali, qualora
si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della
salute pubblica e dell'ambiente, possono adottare, nell'ambito delle rispettive
competenze, ordinanze contingibili ed
urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle
disposizioni vigenti, garantendo un elevato livello di tutela della salute e
dell'ambiente.
Gli enti locali,
infine, partecipano ai procedimenti regionali di bonifica dei siti inquinati.
|
La disciplina
generale in materia di rifiuti, si colloca, per
giurisprudenza costituzionale, nell'ambito della tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema, di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117,
secondo comma, lettera s), della Costituzione, anche se interferisce con
altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo
Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero territorio
nazionale, restando ferma la competenza delle Regioni alla cura di interessi
funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (ex multis, sentenze n. 62 del 2008)
(sentenza Cost. n. 249/2009). L’articolo 14, comma 27, lettera f) del
D.L. 78/2010 elenca, tra le funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi
dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione,
l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e
recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi. L'art. 1,
comma 1, del D.L. 14 gennaio 2013, n. 1 e successive modificazioni, ha
previsto l’applicabilità di tale disposizione a partire dal 31 dicembre 2015. Tale termine è stato prorogato di
un anno, vale a dire fino al 31 dicembre 2016, dall’art. 4, comma 4, del D.L.
210/2015. L’articolo 14, comma
27, stabilisce inoltre per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti,
ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità
montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello
di una o di più isole e il comune di Campione d’Italia, l’esercizio
obbligatorio in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione,
anche delle suddette funzioni. La disciplina in
materia di rifiuti è contenuta nella Parte quarta, Titolo I (artt. 177-216-ter), del D. Lgs. 152/2006 (c.d.
Codice dell’ambiente) e contiene le disposizioni attuative della direttiva
2008/98/CE (direttiva quadro in materia di rifiuti). Il decreto
legislativo n. 152 del 2006, in coerenza con le competenze costituzionalmente
stabilite, ha disciplinato il riparto delle attribuzioni in materia di
rifiuti tra Stato, regioni, province e comuni. L’articolo 197 del
D.lgs. 152/2006 prevede che alle province
competono in linea generale le funzioni amministrative concernenti la programmazione ed organizzazione del
recupero e dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, mentre
l’art. 198 disciplina le competenze dei comuni stabilendo, tra l’altro, che i comuni concorrono a disciplinare la gestione dei rifiuti urbani con
appositi regolamenti che, nel rispetto dei principi di trasparenza,
efficienza, efficacia ed economicità e, in coerenza con i piani d'ambito
adottati ai sensi dell'articolo 201, comma 3, stabiliscono in particolare
(comma 2): le misure per assicurare la tutela igienico-sanitaria in tutte le
fasi della gestione dei rifiuti urbani; le modalità del servizio di raccolta
e trasporto dei rifiuti urbani; le modalità del conferimento, della raccolta
differenziata e del trasporto dei rifiuti urbani ed assimilati. I comuni sono tenuti a fornire alla
regione, alla provincia e agli Enti gestori tutte le informazioni sulla
gestione dei rifiuti urbani da essi richieste e sono altresì tenuti ad
esprimere il proprio parere in ordine
all'approvazione dei progetti di bonifica dei siti inquinati rilasciata dalle
regioni (commi 3 e 4). Ai sensi
dell’articolo 192 del citato decreto legislativo, qualora si verifichino
situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute
pubblica e dell'ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente
della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco
possono adottare, nell'ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili ed urgenti per
consentire il ricorso temporaneo a speciali
forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti,
garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente. Riguardo al divieto
di abbandono dei rifiuti, disposto dall’art. 192 del D. Lgs. 152/2006, il
sindaco dispone con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione dei
rifiuti abbandonati ed il termine entro cui il responsabile deve provvedere,
decorso il quale il sindaco medesimo procede all'esecuzione in danno dei
soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate. La disciplina sulla
bonifica dei siti inquinati è contenuta nella Parte quarta, Titolo V (artt.
239-253), del decreto legislativo 152/2006. In generale, gli
interventi in materia di bonifiche prevedono l’applicazione di una procedura
di carattere ordinario (articoli 242 e 252 del decreto legislativo 152/2006),
che assegna alle autorità competenti (Stato, regioni e province autonome) l’approvazione del progetto di bonifica,
contenente gli interventi previsti a carico del responsabile dell’inquinamento. L’art.
242 del D.Lgs 152/2006 definisce le
procedure operative ed amministrative per le bonifiche di competenza
regionale o delle province autonome.
Il comma 7, nel caso in cui
la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito sia superiore ai valori
di concentrazione soglia di rischio (CSR), prevede che il soggetto
responsabile sottoponga alla regione il progetto
operativo degli interventi di bonifica
o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le
ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale. La regione,
acquisito il parere del comune e
della provincia interessati mediante apposita conferenza di servizi e sentito
il soggetto responsabile approva il progetto, con eventuali prescrizioni ed
integrazioni entro sessanta giorni dal suo ricevimento. L’art.
250 stabilisce che,
qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano
direttamente agli adempimenti previsti ovvero non siano individuabili e non
provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui
all'articolo 242 sono realizzati
d'ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non
provveda, dalla regione, secondo l'ordine di priorità fissato dal piano
regionale per la bonifica delle aree inquinate. |
|
Per una disamina
delle norme adottate nel corso della legislatura in materia di rifiuti, si
rinvia ai temi dell’attività parlamentare Rifiuti e discariche e Emergenze rifiuti, pubblicati a cura del Servizio Studi sul sito web della Camera dei deputati. In
questa sede si richiama la proroga sino al 31 dicembre 2015 della durata del
periodo durante il quale, nel territorio della regione Campania, le sole attività
di raccolta, di spazzamento e
di trasporto dei rifiuti e di smaltimento o recupero
inerenti alla raccolta differenziata continuano ad essere gestite dai comuni, in luogo del subentro in tali
funzioni da parte delle province (art. 3, comma 3-bis, del D.L. 43/2013 e, successivamente, art. 10, comma 2, del
D.L. 150/2013 e art. 14, comma 3, del D.L. 91/2014 e, da ultimo, art. 9,
commi 4-ter e 4-quater, del D.L. 192/2014) e
l’introduzione di una speciale disciplina per l'adozione, nella Regione Lazio, di ordinanze contingibili e urgenti in
materia di rifiuti (art. 14, comma 1, del D.L. 91/2014). Sulla disciplina
relativa all'emanazione delle ordinanze contingibili e urgenti nel settore
dei rifiuti è intervenuto anche l’art. 44 della legge n. 221/2015 (c.d.
collegato ambientale), precisando, in particolare, che devono sempre essere
comunque rispettate le disposizioni contenute nelle direttive dell'Unione
europea. Anche in materia di
bonifica dei siti inquinati sono state adottate numerose norme per lo più finalizzate
a favorire ed accelerare i processi di bonifica e di riqualificazione delle
aree contaminate per le quali si rinvia al tema Bonifiche dei siti inquinati. L'articolo 33 del D.L. 133 del 2014 (cd. "D.L.
Sblocca Italia") detta una disciplina generale per la realizzazione di interventi di bonifica ambientale e di
rigenerazione urbana in aree territoriali di rilevante interesse nazionale
e norme specifiche per il comprensorio Bagnoli-Coroglio, riconosciuto come area
di rilevante interesse nazionale. Numerose disposizioni
in materia di gestione dei rifiuti sono state recentemente introdotte dalla
legge n. 221/2015 (c.d. collegato ambientale). Si ricordano ad esempio l'art.
32 che contiene disposizioni volte a incrementare la raccolta differenziata
(RD) e il riciclaggio, prevedendo in particolare che gli obiettivi di RD
possano essere riferiti al livello di ciascun comune invece che a livello di
ambito territoriale ottimale (ATO) e variazioni del tributo speciale per il
deposito dei rifiuti solidi in discarica (c.d." ecotassa") per
premiare o penalizzare i comuni che abbiano o meno raggiunto le percentuali
di RD. Analoga finalità ha l’art. 45,
che consente l'introduzione di incentivi economici, da parte delle regioni,
per incrementare la RD e ridurre la quantità dei rifiuti non riciclati nei
comuni. Viene altresì posta particolare enfasi sulle attività di prevenzione
prevedendo, tra l’altro, la possibilità per i Comuni di prevedere riduzioni
tariffarie ed esenzioni della tassa sui rifiuti in caso di effettuazione di
attività di prevenzione nella produzione di rifiuti. L'art. 42 modifica
invece le modalità (stabilite dal comma 667 dell'art. 1 della L. 147/2013)
con cui disciplinare i criteri per la realizzazione da parte dei comuni di
sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio
pubblico o di sistemi di gestione finalizzati ad attuare un effettivo modello
di tariffa commisurata al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei
rifiuti assimilati. Gli articoli 37 e 38 prevedono norme finalizzate ad
incentivare le pratiche di compostaggio di rifiuti organici effettuate sul
luogo stesso di produzione, come l'autocompostaggio e il compostaggio di
comunità, e consente ai comuni di applicare riduzioni della tassa sui rifiuti. |
L’attività di polizia
locale, diretta alla protezione degli interessi della comunità locale, è
materia di competenza legislativa regionale, in base all’art. 117, quarto
comma, della Costituzione. Alle regioni compete quindi dettare le norme di
principio, mentre permane la competenza di comuni e provincie all’emanazione di
regolamenti ed ordinanze nell’ambito della polizia locale.
Una ulteriore
specificazione di tale potestà regolamentare e del relativo rapporto con la
legislazione regionale è contenuta nel D.Lgs. n. 112/1998 (in attuazione della
cd. Legge Bassanini), che ha conferito alle regioni e agli enti locali tutte le
funzioni ed i compiti di polizia amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente
trasferite o attribuite, specificando inoltre che il servizio di polizia locale
è disciplinato dalle leggi regionali e dai regolamenti degli enti locali, nel
rispetto dei principi della legislazione statale nelle materie alla stessa
riservate. Inoltre ai sensi dell’art. 48, comma 3, TUEL, l’organo competente ad
approvare il regolamento del servizio di Polizia municipale (o provinciale) è
individuabile nella Giunta comunale (o provinciale).
La materia è in gran
parte ancora disciplinata nella L. 7
marzo 1986, n. 65, “Legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale”.
Gli ambiti di intervento e le tipologie di azioni della polizia municipale sono molto eterogenei. Accanto alle funzioni di
polizia amministrativa, la polizia municipale svolge interventi di polizia
giudiziaria, di polizia stradale, nonché attività di pubblica sicurezza e di
sicurezza urbana.
Alla base
dell’istituzione dei corpi di polizia
provinciale è la legge quadro del 1986 sull’ordinamento della polizia
municipale, che prevede che gli enti locali diversi dai comuni svolgono le
funzioni di polizia locale di cui sono titolari, anche a mezzo di appositi servizi
(L. n. 65/1986, art. 12).
Per avere un quadro
degli interventi e delle attività svolte sul territorio, si rinvia al Rapporto
Nazionale sull’attività della Polizia Locale 2014,
a cura della CITTALIA - Fondazione ANCI.
|
La legge n. 65/1986
assegna al personale di polizia municipale lo svolgimento di quattro ordini
di funzioni: - di polizia
locale (art. 1); - di polizia
giudiziaria (art. 5, lett. a)); - di polizia
stradale (art. 5, lett. b)); - di pubblica
sicurezza (art. 5, lett. c)). a) Funzioni di
polizia locale Le funzioni di polizia locale (ossia le
funzioni di polizia amministrativa di competenza del comune) definiscono i
compiti propriamente di istituto della polizia municipale. I servizi di polizia
locale sono espletati nei seguenti settori: polizia commerciale, (con il fine
di controllare che le attività commerciali si svolgano nel rispetto delle
disposizioni vigenti in materia e quindi non in danno dei consumatori, anche
sotto l’aspetto igienico-sanitario); polizia edilizia, (vigilanza e controllo
sull'attività urbanistica ed edilizia; concessioni edilizie e autorizzazioni;
provvedimenti repressivi); polizia urbana, (tutela della convivenza sociale e
della sicurezza pubblica, disciplina dei servizi pubblici all’interno dei
centri abitati, uso e conservazione del demanio comunale); polizia
veterinaria, (prevenzione delle malattie infettive degli animali); polizia
mortuaria, (disciplina delle sepolture e del trasporto delle salme,
cimiteri); polizia rurale, (applicazione delle leggi e dei regolamenti che
attengono in genere alle colture agrarie; adozione del regolamento di polizia
rurale). b) Funzioni di
polizia giudiziaria La L. n. 65/1986
articola il corpo di polizia municipale in tre distinti livelli: a) responsabile
del corpo (comandante); b) addetti al coordinamento e al controllo; c) operatori
(vigili). L’art. 5 della stessa legge attribuisce la qualità di ufficiali di polizia giudiziaria ai livelli a) e b), e la qualità di agenti di polizia giudiziaria al livello c). Tali funzioni di polizia
giudiziaria sono esercitate ai sensi dell’art. 57, comma 2, lett. b) del C.p.p., in base al quale sono
considerate agenti di polizia giudiziaria “nell’ambito territoriale dell’ente
di appartenenza, le guardie delle provincie e dei comuni quando sono in
servizio”: si segnala che tale delimitazione, dell’ambito territoriale e
dell'effettiva prestazione del servizio, costituiscono limiti esclusivamente
per l’attività di polizia giudiziaria svolta dai vigili urbani e non per gli altri
soggetti che esercitano l’attività di polizia giudiziaria previsti dalla L.
65/1986 (cioè responsabile del corpo ed addetti al coordinamento ed al
controllo). Tuttavia, il ricorso al personale di polizia municipale da parte
dell’autorità giudiziaria deve ritenersi eventuale in quanto l’art. 58, comma
3, del C.p.p. prevede che l’autorità giudiziaria, oltre al personale delle
sezioni di polizia giudiziaria (agenti ed ufficiali della Polizia di Stato),
possa altresì avvalersi di ogni servizio o altro organo di polizia
giudiziaria. c) Funzioni di
polizia stradale A norma dell’art. 5
della L. n. 65/1986 il personale di polizia municipale esercita, nell’ambito
dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, anche il
servizio di polizia stradale, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. 30 aprile 1992,
n. 285 "Nuovo codice della
strada". Le funzioni di polizia stradale sono definite dall’art. 11
del D.Lgs. 285. A norma di tale articolo, costituiscono servizi di polizia stradale: a) la prevenzione e l’accertamento delle
violazioni in materia di circolazione stradale; b) la rilevazione degli incidenti stradali; c) la predisposizione e l’esecuzione dei
servizi diretti a regolare il traffico; d) la scorta per la sicurezza della
circolazione; e) la tutela ed il controllo sull’uso della
strada. Gli organi di polizia
stradale concorrono altresì alle operazioni di soccorso automobilistico e
stradale in genere. Possono, inoltre, collaborare all’effettuazione per studi
sul traffico. Ai servizi di polizia stradale provvede il Ministero dell’interno,
salve le attribuzioni dei comuni per quanto concerne i centri abitati. Al
Ministero dell'interno compete, altresì, il coordinamento dei servizi di
polizia stradale da chiunque espletati”. A norma dell’articolo 12 del
medesimo D.Lgs. l’espletamento dei servizi di polizia stradale spetta in via principale agli appartenenti
alla specialità polizia stradale della Polizia di Stato; alla Polizia di
Stato, all’Arma dei Carabinieri ed al Corpo della Guardia di Finanza; ai
funzionari del Ministero dell'interno addetti al servizio di polizia
stradale; nonché ai corpi ed ai servizi di polizia municipale, nell'ambito del territorio di appartenenza. d) Funzioni di
pubblica sicurezza La L. 65/1986 prevede
che il personale di polizia municipale, oltre ai compiti di istituto, debba anche
collaborare, previa disposizione del sindaco e su richiesta delle competenti
autorità, con le forze della polizia di Stato. L’art. 5 della legge
stabilisce in particolare che il personale appartenente al corpo della
polizia municipale può essere chiamato a svolgere anche funzioni di ausiliarie di pubblica sicurezza. Per esercitare
questa seconda attività è necessario che il prefetto, previo accertamento di
particolari requisiti, conferisca al personale interessato la qualifica di
agente di p.s., abilitandolo a portare, senza licenza, le armi occorrenti per
lo svolgimento del servizio. Nell’espletamento delle funzioni di agente di
p.s. gli appartenenti al corpo di polizia municipale dipendono operativamente
dalle competenti autorità di p.s. nel rispetto di eventuali intese tra dette
autorità e il sindaco. |
|
Con il DL 78/2015,
recante disposizioni in materia di enti territoriali, è stato disposto (art.
5) il transito del personale
appartenente al Corpo ed ai servizi di Polizia provinciale, nei ruoli degli enti locali per funzioni
di polizia municipale. Più in particolare, è
stato specificato che agli enti di area vasta e alle città metropolitane è
attribuita l'individuazione del personale di polizia provinciale necessario
per l'esercizio delle loro funzioni fondamentali. Spetta inoltre alle leggi
regionali la riallocazione delle funzioni di polizia amministrativa locale e
del relativo personale nell'ambito dei processi dì riordino delle funzioni
provinciali. Il personale non
individuato o non riallocato, entro il 31 ottobre 2015, in base alle suddette
leggi regionali e all'individuazione operata dagli enti di area vasta e dalle
città metropolitane, è trasferito ai comuni, singoli o associati. Per il
transito sono poste agli enti locali alcune condizioni o facoltà: -
limiti della dotazione organica; -
programmazione triennale dei fabbisogni di personale; -
deroga alle vigenti disposizioni in materia di
limitazioni alle spese ed alle assunzioni di personale; -
rispetto del patto di stabilità interno nell'esercizio di
riferimento, e sostenibilità di bilancio; -
divieto per gli enti locali - a pena di nullità e fino a
quando il personale appartenente al Corpo ed ai servizi di polizia
provinciale non sia stato completamente assorbito - di qualsivoglia
assunzione per lo svolgimento di funzioni di polizia locale. Fanno eccezione
le assunzioni a tempo determinato effettuate dopo l'entrata in vigore del
decreto-legge in commento per esigenze di carattere strettamente stagionale e
per periodi non superiori a 5 mesi nell'anno solare (comma 6). Modalità e procedure
del transito del personale sono definite con decreto del Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, previa consultazione con le
confederazioni sindacali rappresentative e previa intesa in sede di Conferenza
unificata (ai sensi dell'articolo 1, comma 423 della legge n. 190 del 2014,
espressamente richiamato dal testo, che a sua volta rinvia all'articolo 30,
comma 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001). Nelle more
dell'emanazione del suddetto decreto, le modalità di avvalimento immediato
del personale da trasferire sono concordate dagli enti di area vasta e dalle
città metropolitane con i comuni del territorio, singoli o associati. |
Tra le funzioni
fondamentali assegnate ai comuni, ai
sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, rientrano
le attività, in ambito comunale, di pianificazione
di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi.
Gli enti locali sono inclusi espressamente tra le
componenti del Servizio nazionale di protezione civile.
Ogni comune può dotarsi
di una struttura di protezione civile e approva con delibera il piano di emergenza comunale.
Il sindaco rappresenta l’autorità comunale di protezione civile e, nel
caso di emergenze, assume la direzione
dei servizi di emergenza che insistono sul territorio del comune, nonché il
coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite.
|
L’articolo 14, comma 27 del D.L. 78/2010,
come modificato dall’articolo 19 del D.L. 95/2012, indica tra le funzioni
fondamentali assegnate ai comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma,
lettera p), della Costituzione, le attività, in ambito comunale, di
pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi. La legge 225 del 1992 disciplina
l’istituzione del Servizio nazionale della protezione civile e individua in
particolare le funzioni del Presidente del consiglio, la tipologia degli
eventi e gli ambiti di competenze, le attività e i compiti di protezione
civile, lo stato di emergenza e il potere di ordinanza, nonché le componenti
coinvolte e le fonti di finanziamento. Tale legge è stata oggetto di riforma
nel corso della XVI legislatura ad opera dapprima del D.L. 225/2010 - le cui
disposizioni (art. 2, commi dal 2-quater
al 2-octies) sono state dichiarate
parzialmente incostituzionali con la sentenza della Corte costituzionale n. 22/2012
- e, successivamente, del D.L. 59/2012. L’articolo 1-bis della legge 225/1992, inserito dal
D.L. 59/2012, al comma 2 stabilisce in capo al Presidente del Consiglio dei
Ministri, ovvero, per sua delega, al Ministro con portafoglio o al
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
segretario del Consiglio, la promozione e il coordinamento delle attività
delle amministrazioni dello Stato centrali e periferiche, delle regioni,
delle province, dei comuni, degli enti pubblici nazionali e territoriali e di
ogni altra istituzione e organizzazione pubblica e privata presente sul
territorio nazionale. L’articolo 2 della
legge 225/92 disciplina la tipologia degli eventi e gli ambiti di competenze,
ai fini dell'attività di protezione civile, distinguendoli in: a) eventi naturali o connessi con
l'attività dell'uomo che possono essere fronteggiati
mediante interventi attuabili dai singoli
enti e amministrazioni competenti in via ordinaria; b) eventi naturali o
connessi con l'attività dell'uomo che per loro natura ed estensione
comportano l'intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti
in via ordinaria; c) calamità naturali o
connesse con l'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità ed
estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con
mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti
periodi di tempo. L’articolo 3, comma 6,
della citata legge prevede il coordinamento dei piani e dei programmi di
gestione, tutela e risanamento del territorio con i piani di emergenza di
protezione civile, con particolare riferimento a quelli approvati dal comune, previsti dall'articolo 15,
comma 3-bis, della medesima legge e
a quelli deliberati dalle regioni mediante il piano regionale di protezione
civile. Lo stato di emergenza
e il potere di ordinanza sono disciplinati dall’articolo 5 della legge
225/1992, modificato dal D.L. 59/2012 e dal D.L. 93/2013, che dispone in
particolare in merito alla durata degli stati di emergenza, alla procedura
per l'emanazione delle ordinanze di protezione civile, al subentro delle
amministrazioni competenti in via ordinaria e alle gestioni commissariali Il Servizio nazionale
della protezione civile ha come sue componenti
(art. 6, comma 1, della legge n. 225/92) le amministrazioni dello Stato, le regioni,
le province, i comuni e le comunità montane, e vi concorrono gli enti
pubblici, gli istituti ed i gruppi di ricerca scientifica con finalità di
protezione civile, nonché ogni altra istituzione ed organizzazione anche
privata. Le strutture nazionali e locali di protezione civile possono stipulare
convenzioni con soggetti pubblici e privati. L’articolo 15 della
legge 225/1992, modificato dall’art. 1 del D.L. 59/2012, specifica le competenze del comune e le
attribuzioni del sindaco. Ogni comune può dotarsi di una struttura di
protezione civile, favorita dalla regione, nei modi e con le forme ritenuti
opportuni. Il sindaco è autorità comunale di protezione civile e, al
verificarsi dell'emergenza nell'ambito del territorio comunale, assume la
direzione dei servizi di emergenza che insistono sul territorio del comune,
nonché il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle
popolazioni colpite, provvedendo agli interventi necessari e dandone
immediata comunicazione al prefetto e al presidente della giunta regionale. Il medesimo articolo
15 disciplina inoltre il piano di emergenza comunale, approvato con
deliberazione consiliare, secondo i criteri e le modalità di cui alle
indicazioni operative adottate dal Dipartimento della protezione civile e
dalle giunte regionali |
|
Nella XVII legislatura,
la legge n. 225 del 1992 è stata ulteriormente modificata ad opera
dell'articolo 10 del decreto-legge 93/2013. Le modifiche attengono al
contenuto della deliberazione dello stato di emergenza e delle ordinanze di
protezione civile, alla durata dello stato di emergenza e al finanziamento
degli interventi, in particolare attraverso l'istituzione del Fondo per le
emergenze nazionali. Con il D.P.C.M. 8
agosto 2013 (pubblicato nella G.U. n. 244 del 17 ottobre 2013) si è invece
provveduto alla nuova costituzione e alla definizione di nuove modalità di
funzionamento del Comitato operativo
della protezione civile, istituito presso il Dipartimento della
protezione civile, al fine di assicurare la direzione unitaria e il
coordinamento delle attività di emergenza. Inoltre, il comma 112
dell’articolo unico della legge n. 56
del 2014 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle
unioni e fusioni di comuni) ha specificato che, qualora i comuni appartenenti all'unione
conferiscano all'unione la funzione della protezione civile, all'unione
spettano l'approvazione e l'aggiornamento dei piani di emergenza di cui
all'articolo 15, commi 3-bis e 3-ter, della legge n. 225/1992, nonché
le connesse attività di prevenzione e approvvigionamento, mentre i sindaci
dei comuni restano titolari delle funzioni previste dall’articolo 15, comma
3, della predetta legge n. 225 del 1992. E’ in
corso di esame al Senato, l'A.S. 2068, approvato dalla Camera in prima lettura,
che delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi di
ricognizione, riordino, coordinamento, modifica e integrazione delle
disposizioni legislative vigenti che disciplinano il Servizio nazionale della
protezione civile e le relative funzioni. Per una
disamina delle disposizioni adottate nel corso della legislatura in materia
di protezione civile si rinvia al relativo tema web. |
Il decreto
legislativo n. 112/1998 ha conferito alle Regioni e agli enti locali le
funzioni e competenze, tra le altre, in materia di viabilità. La materia della
mobilità è riconducibile alla materia "governo
del territorio" attribuita dall'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione alla competenza legislativa concorrente e su cui si è espressa la giurisprudenza
della Corte costituzionale (ex plurimis sentenza n. 303/2003) ammettendo
l'intervento statale in materie attribuite alla competenza legislativa
concorrente o residuale delle regioni, sulla base del principio di
sussidiarietà (c.d. "attrazione in sussidiarietà") a condizione che
siano individuate adeguate procedure concertative e di coordinamento orizzontale
tra lo Stato e le regioni.
Rientrano tra le
competenze degli enti locali, in base all’art. 5 del Codice della Strada (D.
Lgs 285/92), i provvedimenti per la regolamentazione della circolazione che
devono essere emessi dagli enti proprietari delle strade, con ordinanze dei
rispettivi organi (Sindaco, Presidente della Provincia o Presidente della
Regione a seconda del tipo di strada) motivate e rese note al pubblico, mentre
il Ministero delle infrastrutture e trasporti può impartire ai prefetti e agli
enti proprietari delle strade le direttive per l'applicazione delle norme di
regolamentazione della circolazione sulle strade.
Il tema della sicurezza
stradale è invece riconducibile,
sulla base della giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 428/2004 e n.
9/2009), alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine
pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h),
Cost.).
Si ricorda infine che,
a norma dell’art. 5 della L. n. 65/1986 il personale di polizia municipale
esercita, nell’ambito dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie
attribuzioni, il servizio di polizia stradale (si veda la scheda Polizia municipale e provinciale).
|
L'art. 20 del
decreto-legge n. 69/2013 (c.d. "DL Fare") ha consentito il
pagamento in forma elettronica e la riduzione del 30 per cento dell'importo
delle sanzioni in caso di pagamento entro cinque giorni dalla contestazione o
dalla notificazione. Si segnalano inoltre le disposizioni recentemente dettate
dalla legge di stabilità 2016 (L. 208/2015). Il comma 656 autorizza infatti
l'ANAS a stipulare accordi (che devono essere pubblicati sui siti internet
istituzionali degli enti firmatari) con regioni ed enti locali finalizzati a
trasferire alla medesima società le funzioni relative a progettazione,
esecuzione, manutenzione e gestione delle strade non rientranti nella rete
autostradale e stradale nazionale. Il
successivo comma 875 prevede che nei territori per i quali è stato dichiarato
lo stato di emergenza, e completata la procedura di ricognizione dei
fabbisogni, l’ANAS possa essere autorizzata, mediante apposita delibera del
Consiglio dei ministri, sentita la Protezione civile, ad effettuare
interventi di manutenzione straordinaria sulle strade provinciali. |
Nell’ambito della
sicurezza urbana il ruolo dei comuni si esplica in un insieme di
attività che i sindaci svolgono in collaborazione con altri soggetti
istituzionali tra cui, in particolare, il Ministero dell’interno, i prefetti,
le forze di polizia e le forze dell’ordine in generale.
In tale quadro, nel
corso degli anni sono stati definiti strumenti quali i patti per la sicurezza, quale forma
di collaborazione tra le istituzioni
coinvolte negli interventi finalizzati alla sicurezza urbana, la cui base
normativa risiede nell’art. 1, co. 439, della legge n. 296/2006 (finanziaria
2007), che ha autorizzato i prefetti a stipulare convenzioni con le regioni e
gli enti locali per incrementare i servizi di polizia, di soccorso tecnico
urgente e per la tutela della sicurezza dei cittadini, accedendo alle risorse
logistiche, strumentali o finanziarie che le regioni e gli enti locali
intendono destinare nel loro territorio per questi scopi. L’art. 7 del DL
92/2008, convertito, con modificazioni, dalla L. 125/2008 (c.d. decreto
sicurezza) ha esteso la predisposizione di piani coordinati di controllo del
territorio, per specifiche esigenze, anche ai comuni minori e alle forme
associative sovracomunali, per potenziare la capacità di intervento della
polizia locale nelle attività ordinarie.
Al sindaco, in qualità
di ufficiale del Governo, spetta sovrintendere all'emanazione degli atti che
gli sono attribuiti dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica; allo
svolgimento delle funzioni affidategli dalla legge in materia di pubblica
sicurezza e di polizia giudiziaria; alla vigilanza su quanto possa interessare
la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone preventivamente il prefetto
(art. 54 TUEL). In tale ambito, soprattutto a partire dal citato DL 92/2008, sono
state previste una serie di misure volte a riconoscere maggiori poteri ai
sindaci per il controllo del territorio
e per contrastare il degrado urbano
nonché a valorizzare, per tali finalità, forme
di cooperazione tra polizia municipale e forze di polizia ed a prevedere il
concorso delle forze armate nel controllo del territorio.
I sindaci possono in
particolare adottare ordinanze, contingibili ed urgenti, nel rispetto dei
principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi
pericoli che minaccino l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana (art. 54,
co. 4, TUEL). In proposito, la previsione, introdotta dal citato DL 92/2008 e
declinata dal decreto del ministro dell’interno del 5 agosto 2008, in base alla
quale i sindaci sono autorizzati ad adottare ordinanze “anche” contingibili ed
urgenti”, è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte nella parte in cui
comprende la locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili e urgenti» (sentenza
115/2011).
Sotto altro profilo, a
seguito di ricorso promosso dalla regione Trentino Alto Adige, la Corte
costituzionale, prescindendo da una valutazione sul merito dei poteri di
ordinanza attribuiti ai sindaci, ha affermato che spetta allo Stato definire le
nozioni di “incolumità pubblica” e di “sicurezza urbana” (sentenza
196/2009).
Il sindaco assicura
inoltre la cooperazione fra le forze di
polizia locali e statali, nell'ambito
delle direttive di coordinamento del Ministro dell'interno - autorità nazionale
di pubblica sicurezza, con la finalità di una maggiore partecipazione
dell’amministratore locale alla tutela della sicurezza dei cittadini. E’
altresì previsto che il prefetto disponga le misure necessarie per il concorso
delle forze di polizia per assicurare l'attuazione delle ordinanze sindacali
(art. 54, co. 9, TUEL), fermo restando il potere di ispezione in capo al
prefetto.
I comuni sono altresì autorizzati
ad impiegare sistemi di videosorveglianza
nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, a fini di tutela della sicurezza
urbana (art. 6, co. 7, DL 11/2009, convertito, con modificazioni, dalla L.
38/2009).
A partire dal 2009 è
stata altresì prevista dalla legge la possibilità per il sindaco, previa intesa
con il prefetto, di avvalersi della collaborazione di associazioni volontarie di cittadini non armati nel presidio del
territorio (art. 3, co. 40, L. 94/2009), con la finalità di segnalare alle
forze di polizia eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana. La
legge prevede che venga fatto prioritario riferimento alle associazioni
costituite tra gli appartenenti, in congedo, alle forze dell’ordine, forze
armate ed altri Corpi dello Stato e, quindi, alle altre associazioni iscritte
in apposito elenco tenuto presso le prefetture.
|
Il sindaco, quale
ufficiale del Governo, sovrintende: all'emanazione degli atti che gli sono
attribuiti dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica; allo svolgimento delle funzioni
affidategli dalla legge in materia di pubblica sicurezza e di polizia
giudiziaria; alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e
l'ordine pubblico, informandone preventivamente il prefetto (art 54, co. 1
del TUEL). I patti per la sicurezza sono
interventi concreti sul territorio, definiti da protocolli e programmi
congiunti, condivisi tra la prefettura, il comitato provinciale per l’ordine
e la sicurezza pubblica, il comune e la provincia. L’art. 7 del D.L. 92/2008
ha esteso la predisposizione di piani coordinati di controllo del territorio,
per specifiche esigenze, anche ai comuni minori e alle forme associative
sovracomunali, per potenziare la capacità di intervento della polizia locale
nelle attività ordinarie. Lo sviluppo di forme pattizie e collaborative
finalizzate alla realizzazione di politiche integrate di sicurezza tra enti
territoriali ed autorità di pubblica sicurezza ha assunto particolare
rilevanza attraverso la valorizzazione dei patti per la sicurezza,
sottoscritti nel nostro Paese fin dal 1997. La base normativa di questi
strumenti risiede nell’art. 1, co. 439, della legge n.296/2006 (finanziaria
2007) che ha autorizzato i prefetti a stipulare convenzioni con le regioni e
gli enti locali per incrementare i servizi di polizia, di soccorso tecnico
urgente e per la tutela della sicurezza dei cittadini, accedendo alle risorse
logistiche, strumentali o finanziarie che le regioni e gli enti locali
intendono destinare nel loro territorio per questi scopi. Sulla base di tale
previsione è stato stipulato, nel marzo 2007, un Patto per la sicurezza tra
il Ministero dell’Interno e l’ANCI, che coinvolge tutti i comuni italiani e,
nell’ambito di questo accordo cornice, un’intesa per la sicurezza delle aree
urbane con i sindaci delle città sedi di aree metropolitane. Il Patto con
l’ANCI costituisce l’accordo quadro di riferimento per sviluppare gli accordi
e le iniziative congiunte da realizzarsi in collaborazione tra gli enti
locali e il Ministero dell’interno. Riguardo ai poteri di
intervento del sindaco, il decreto-legge 92/2008 (c.d. decreto sicurezza) ha
previsto una serie misure tra le quali si citano i maggiori poteri
riconosciuti ai sindaci per il controllo del territorio e per agire sul
degrado urbano (art. 6); la cooperazione tra polizia municipale e forze di
polizia (art. 7); il concorso delle forze armate nel controllo del territorio
(art. 7-bis). Le attribuzioni dei
sindaci, in particolare, riguardano i poteri volti a prevenire e eliminare
gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana e
che possono condurre all’adozione, con atto motivato, di ordinanze contingibili e urgenti nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento. Tali attribuzioni sono esercitate dal sindaco in
qualità di ufficiale di governo, ossia di organo del decentramento statale
che ha nei confronti del prefetto un vero e proprio obbligo di informazione
preventiva in ordine all’attivazione dei poteri di sovrintendenza alla
vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico
e del Ministro dell’interno. L’ambito di
applicazione della disposizione che, come introdotta dal citato DL 92/2008 e
prima della pronuncia della Corte costituzionale 151/2011, autorizzava i
sindaci ad emanare ordinanze, “anche” indifferibili ed urgenti (art. 54, co.
4, TUEL), è stato poi individuato dal decreto del ministro dell’interno del 5
agosto 2008 (ai sensi dell’art. 54, co. 4-bis, TUEL). Il citato decreto
ministeriale ha specificato che l’incolumità pubblica riguarda l’integrità
fisica della popolazione mentre la sicurezza urbana costituisce “un bene
pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell'ambito delle comunità
locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare
le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione
sociale”. Viene fatto espresso riferimento, in particolare, alle attività a
carattere criminoso, a quelle che comportano danneggiamento al patrimonio e
fenomeni di scadimento della qualità urbana, intralcio alla pubblica
viabilità, abusivismo commerciale, prostituzione su strada e comportamenti
contro la pubblica decenza. Sul punto è
intervenuta la Corte costituzionale, dapprima con la sentenza 196/2009, con
cui ha affermato che spetta allo Stato definire le nozioni di “incolumità
pubblica” e di “sicurezza urbana”, prescindendo da una valutazione sul merito
dei poteri di ordinanza attribuiti ai sindaci. Successivamente, con la
sentenza 115/2011 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
citato art. 54, comma 4, del TUEL, come sostituito dall’art. 6 del DL
92/2008, nella parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle
parole «contingibili e urgenti». La Corte ha ravvisato, al riguardo, una
violazione degli artt. 3, 23 e 97Cost. In particolare, la
Corte costituzionale ha evidenziato come la formulazione della norma sia tale
che il riferimento al rispetto dei soli principi generali dell’ordinamento si
riferisca ai provvedimenti contingibili e urgenti e non anche le ordinanze
sindacali di ordinaria amministrazione. L’estensione anche a tali atti del
regime giuridico proprio degli atti contingibili e urgenti avrebbe richiesto
una disposizione così formulata: «adotta con atto motivato provvedimenti,
anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento» anziché “adotta con atto motivato provvedimenti, anche
contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento”.
La dizione letterale della norma implica che non viene consentito alle
ordinanze sindacali “ordinarie” – pur rivolte al fine di fronteggiare «gravi
pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» – di
derogare a norme legislative vigenti, come invece è possibile nel caso di
provvedimenti che si fondino sul presupposto dell’urgenza e a condizione
della temporaneità dei loro effetti. La Corte ha infatti precisato, con
giurisprudenza costante e consolidata, che deroghe alla normativa primaria,
da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza, sono
consentite solo se «temporalmente delimitate» (ex plurimis, sentenze n. 127 del 1995, n. 418 del 1992, n. 32 del
1991, n. 617 del 1987, n. 8 del 1956) e, comunque, nei limiti della «concreta
situazione di fatto che si tratta di fronteggiare» (sentenza n. 4 del 1977). La Corte ha
evidenziato inoltre come la norma richiamata attribuisca ai sindaci il potere
di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo
derogare a norme legislative o regolamentari vigenti, si presentano come
esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non
quello finalistico, genericamente identificato dal legislatore nell’esigenza
«di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità
pubblica e la sicurezza urbana». Nella costante giurisprudenza costituzionale
è stata, in proposito, sottolineata l’imprescindibile necessità che in ogni
conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di
legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non
consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad
una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica,
una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza
n. 307 del 2003; in senso conforme, ex
plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982). Non è dunque
sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene
o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel
contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur
elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa. Sotto altro profilo
la Corte costituzionale ha evidenziato come le citate ordinanze sindacali
incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza
urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio),
sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate,
ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non
fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono
comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati.
Viene quindi in rilievo, ai sensi dell’art. 23 Cost., il principio di riserva
di legge a carattere relativo: la riserva de
qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire
giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi
concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in
bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una
precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione
amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini. Come
già detto in attuazione della norma era infatti intervenuto il decreto del
ministro dell’interno del 5 agosto 2008 che aveva specificato i contorni del
potere di ordinanza dei sindaci. Ad avviso della
Corte, la natura amministrativa del potere del Ministro, esercitato con il
decreto citato, se assolve alla funzione di regolare i rapporti tra autorità
centrale e periferiche nella materia, non può soddisfare la riserva di legge,
in quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità
amministrativa nei rapporti con i cittadini. Solo se le limitazioni e gli
indirizzi contenuti nel citato decreto ministeriale fossero stati inclusi in
un atto di valore legislativo, la Corte avrebbe potuto valutare la loro
idoneità a circoscrivere la discrezionalità amministrativa dei sindaci. Nel
caso di specie, al contrario, le determinazioni definitorie, gli indirizzi e
i campi di intervento – ad avviso della Corte - non potrebbero essere
ritenuti limiti validi alla suddetta discrezionalità, senza incorrere in un
vizio logico di autoreferenzialità. La Corte ha quindi
ritenuto che la norma in questione, nel prevedere un potere di ordinanza dei
sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai casi contingibili e
urgenti – pur non attribuendo agli stessi il potere di derogare, in via
ordinaria e temporalmente non definita, a norme primarie e secondarie vigenti
– viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non
prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in
un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella
generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti, secondo
un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli
obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge. Il contrasto della
citata disposizione con l’art. 97, primo comma, Cost. è dovuto, a sua volta,
sul fatto che l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a
fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza;
l’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente
pertanto – ad avviso della Corte - che l’imparzialità dell’agire
amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo,
ancorché non dettagliato, nella legge. La Corte costituzionale ha infine
riscontrato una violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto la
citata disposizione consente all’autorità amministrativa – nella specie
rappresentata dai sindaci – restrizioni diverse e variegate, frutto di
valutazioni molteplici, non riconducibili ad una matrice legislativa
unitaria. Il sindaco,
nell'esercizio delle funzioni di ordine e sicurezza pubblica, concorre ad
assicurare anche la cooperazione della
polizia locale con le forze di polizia statali, nell'ambito delle
direttive di coordinamento del Ministro dell'interno - autorità nazionale di
pubblica sicurezza (art. 54, co. 2, TUEL). La polizia municipale – o il
personale addetto ai servizi di polizia stradale, con qualifica di agente di
pubblica sicurezza – può in conseguenza accedere agli schedari del CED (la banca
dati delle Forze di Polizia) dei veicoli rubati e dei documenti d’identità
rubati o smarriti e ai dati sui permessi di soggiorno. Successivamente,
l'art. 8 DL 187/2010 ha sostituito l'art. 54, co. 9, TUEL, prevedendo che il prefetto disponga le misure
necessarie per assicurare il concorso delle forze di polizia ai fini
dell'attuazione delle ordinanze sindacali. Tale novella ha mantenuto fermo il
potere di ispezione in capo al prefetto per accertare il regolare svolgimento
dei compiti affidati, nonché per l'acquisizione di dati e notizie
interessanti altri servizi di carattere generale. Infine, la legge
94/2009 (art. 3, co. 40-44) ha introdotto la facoltà per il sindaco, previa
intesa con il prefetto, di avvalersi del concorso
di associazioni volontarie di cittadini non armati nel presidio del
territorio. Le associazioni – da iscrivere in un apposito elenco provinciale
istituito in ciascuna prefettura - possono segnalare alle forze di polizia
eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana (in origine era
prevista anche l’ipotesi del disagio sociale poi dichiarata illegittima dalla
Corte costituzione per violazione della competenza regionale residuale nella
materia “servizi sociali”, sentenza 226/2010). I sindaci si avvalgono in via
prioritaria delle associazioni costituite tra gli appartenenti, in congedo,
alle Forze dell’ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato. Le
associazioni diverse da queste ultime sono iscritte negli elenchi solo se non
siano destinatarie, a nessun titolo, di risorse economiche a carico della
finanza pubblica. Con decreto ministeriale 8 agosto 2009 sono stati
determinati gli ambiti operativi e i requisiti richiesti alle associazioni
operanti sul territorio. Il sindaco, se intende avvalersi della collaborazione
delle associazioni, deve emanare apposita ordinanza. Successivamente, può
stipulare convenzioni con le associazioni iscritte nell'elenco, volte ad
individuare l'ambito territoriale e temporale in cui l'associazione è
destinata a svolgere la propria attività nonché a disciplinare il piano
d'impiego contenente i presupposti oggettivi per effettuare le segnalazioni
alla polizia locale e alle Forze di polizia dello Stato. Il contenuto delle
convenzioni viene concordato con il prefetto competente per il territorio,
sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. È stato
inoltre previsto, nel D.L. 11/2009, che i comuni sono autorizzati ad
impiegare sistemi di videosorveglianza
nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, a fini di tutela della sicurezza
urbana. Si ricorda infine, in
relazione al tema in esame, che alcuni provvedimenti d’urgenza (a partire
dall’art. 7-bis del DL 92/2008) hanno inoltre introdotto la possibilità, in
relazione a specifiche ed eccezionali esigenze di prevenzione della
criminalità, di ricorrere alle Forze armate, in concorso e congiuntamente
alle Forze di polizia, per lo svolgimento di compiti di vigilanza su siti
istituzionali e obiettivi sensibili e per il presidio del territorio. |
|
La materia della
sicurezza urbana è stato oggetto di interventi legislativi in particolare nel
corso della XVI legislatura, contenuti, in particolare, nel D.L. n. 92/2008 (c.d.
pacchetto sicurezza) e nel D.L. n. 187/2010 (Misure urgenti in materia di
sicurezza) nonché nella L. 94/2009 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica). Su alcuni profili, quali in particolare il potere del sindaco di
adottare ordinanze “anche” contingibili ed urgenti per prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana e
il riferimento al “disagio sociale” quale elemento che consente al sindaco d
avvalersi della collaborazione di associazioni volontarie di cittadini non
armati è intervenuta la Corte costituzionale dichiarando la parziale
illegittimità costituzionale (rispettivamente, sentenze 115/2011 e 226/2010). |
[1]
Si ricorda che la disciplina del patto di
stabilità interno è incentrata, per gli enti locali, sul controllo dei saldi
finanziari e, per le regioni, sul principio del contenimento delle spese
finali. In concreto, per ciascun anno finanziario, la legge stabilisce un tetto
massimo di spesa che non può essere superato per l'intero comparto delle regioni
(sono distinti gli obiettivi per le regioni a statuto ordinario e per le regioni
a statuto speciale). Il livello complessivo di spesa, viene poi determinato per
ciascuna regione che, purché rimanga al di sotto del tetto, può modulare le
diverse voci di spesa. Come disposto dall’art. 31 della L. 183/2011, sono
assoggettati al patto di stabilità interno le province e i comuni con
popolazione superiore a 5.000 abitanti e, a decorrere dal 2013, anche i comuni
con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti.
[2] Alcune disposizioni hanno previsto la
possibilità di derogare, in specifici casi, ai suddetti vincoli legislativi e
di spesa (tra l’altro, art. 2, c. 551, e art. 3, c. 113, della L. 244/2007,
art. 9, c. 5, del D.L.102/2013 e art. 11, c. 4-ter e 4-quater, del D.L.
90/2014)
[3] Tali azioni consistono nella riduzione
dell’incidenza percentuale delle spese per il personale sul totale delle spese
correnti, attraverso una parziale reintegrazione dei cessati e il contenimento
del lavoro flessibile; nello snellimento delle strutture con accorpamento di
uffici e la riduzione della percentuale delle posizioni dirigenziali; nel
contenimento della crescita della contrattazione integrativa anche in coerenza
con le disposizioni dettate per le amministrazioni statali.
[4] L’articolo 76, comma 7, del D.L. 112/2008 (così come da ultimo modificato dall’articolo 1, comma 558, della L. 147/2013) stabiliva il divieto, per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale fosse pari o superiore al 50% delle spese correnti, di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale; i restanti enti potevano procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. Specifici limiti erano poi previsti per il personale destinato allo svolgimento delle funzioni in materia di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale. Ai fini del computo della richiamata percentuale venivano calcolate le spese sostenute anche dalle aziende speciali, dalle istituzioni e società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero con funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero svolgenti attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica (tali disposizioni non si applicavano alle società quotate su mercati regolamentati). Inoltre, si disponeva che con apposito D.P.C.M., da adottare entro il 30 giugno 2014, potesse essere modificata la richiamata percentuale, al fine di tenere conto degli effetti del computo della spesa di personale in termini aggregati. Per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale fosse pari o inferiore al 35% delle spese correnti erano ammesse, in deroga al citato limite del 40% e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale, le assunzioni per turn over in grado di consentire l'esercizio di specifiche funzioni.
[5] A decorrere dalla data di efficacia del decreto gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 20% rispetto alla media non possono effettuare assunzioni a qualsiasi titolo; gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 40% rispetto alla media applicano le misure di gestione delle eventuali situazioni di soprannumero di cui all’art. 2, c. 11 e ss., del D.L. 95/2012.
[6] Sul punto, si veda anche la Nota del 27 marzo
2015 del Dipartimento della funzione pubblica.
[7] In sostanza, viene modificato il catalogo
delle materie e soppressa la competenza concorrente, con una redistribuzione
delle materie tra competenza esclusiva statale e competenza regionale:
l'intervento del legislatore statale è circoscritto ad ambiti determinati,
quali le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le
politiche sociali e per la sicurezza alimentare, della riscritta lettera m),
mentre alle Regioni spetta la potestà legislativa in materia di programmazione
e organizzazione dei servizi sanitari e sociali (qui un
approfondimento).
[8] Sono obbligati ad esercitare in forma associata i servizi sociali, mediante unione di comuni o convenzione, i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di Campione d’Italia.
[9] In tale perimetro altri soggetti sono chiamati ad intervenire: le Regioni, che dettano gli indirizzi della programmazione ed erogano servizi sociosanitari attraverso le ASL; le Province, che possono partecipare al finanziamento dei Piani di Zona; lo Stato, che, di anno in anno, determina i fondi nazionali destinati alle politiche sociali.
[10]
In proposito si segnala il portale
OpenCoesione, una iniziativa di open government sulle
politiche di coesione in Italia, coordinata dal Dipartimento per le Politiche
di Coesione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in cui sono presenti
dati e informazioni anche sui finanziamenti ai servizi sociali.
[11] Più in dettaglio, essi sono: misure di sostegno
alla povertà; misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a
domicilio; interventi di sostegno ai minori e ai nuclei familiari anche
attraverso l'affido e l'accoglienza in strutture comunitarie; misure per
sostenere le responsabilità familiari; misure di sostegno alle donne in
difficoltà; interventi per l'integrazione sociale delle persone disabili, ivi
compreso la dotazione di centri socio-riabilitativi, di comunità alloggio e di
accoglienza; interventi per le persone anziane e disabili per favorire la
permanenza a domicilio, nonché la socializzazione e l'accoglienza presso
strutture residenziali e semiresidenziali; prestazioni socio-educative per
soggetti dipendenti; informazione e consulenza alle famiglie per favorire la
fruizione dei servizi e l'auto aiuto.
L'articolo 22 della legge 328/2000 inoltre
richiede che le regioni, secondo i modelli organizzativi adottati, provvedano
per ogni ambito territoriale all'erogazione delle seguenti prestazioni:
a) servizio sociale professionale e segretariato
sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari;
b) servizio di pronto intervento sociale per le
situazioni di emergenza personali e familiari;
c) assistenza domiciliare;
d) strutture residenziali e semiresidenziali per
soggetti con fragilità sociali;
e) centri di accoglienza residenziali o diurni a
carattere comunitario.
In definitiva, per l'individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, lo
Stato ha indicato i seguenti principi:
· le aree d'intervento (art. 22 della L. 328/2000)
· le categorie di utenti
· l'ambito territoriale
· i limiti delle risorse
rese disponibili dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali.
[12]
Più in dettaglio, si tratta di:
servizi territoriali
· segretariato sociale,
informazione e consulenza per l'accesso alla rete dei servizi;
· interventi di
prevenzione e sensibilizzazione;
· pronto intervento
sociale;
· attività di supporto
alla persona, alla famiglia e rete sociale;
· integrazione sociale;
· interventi e servizi
educativo-assistenziali e per il supporto all'inserimento lavorativo;
· interventi volti a
favorire la domiciliarità sia di natura sociosanitaria (Assistenza Domiciliare
Integrata, ADI) che sociale (Servizio di Assistenza Domiciliare, SAD);
· servizi di supporto
(quali mensa e trasporto sociali).
servizi residenziali e semiresidenziali
· centri e strutture
semiresidenziali (ludoteche, centri di aggregazione sociale, centri per
famiglie);
· strutture
semiresidenziali (asili nido, servizi integrativi per la prima infanzia, centri
diurni estivi, centri diurni);
· strutture comunitarie
(quali centri estivi o invernali con pernottamento, area attrezzata per
nomadi);
· strutture residenziali
(classificate secondo target di utenza e secondo tre livelli: carattere
della residenzialità, funzioni di protezione sociale, assistenza sanitaria).
trasferimenti in denaro:
· trasferimenti per il
pagamento di rette (per asili nido e rete dei servizi per la prima infanzia,
per l'accesso a centri diurni, per accesso a servizi semi residenziali e
residenziali);
· trasferimenti per
attivazioni di servizi (fra gli altri contributi per servizi alla persona, per
l'inserimento lavorativo);
· integrazioni al reddito
(voucher per spesa/alloggio/prestiti).
[13] Il
nuovo ISEE ha introdotto disposizioni innovative:
• nella nozione di reddito vengono
inclusi – a fianco del reddito complessivo ai fini IRPEF – tutti i redditi
tassati con regimi sostitutivi o a titolo di imposta (quali cedolare secca
sugli affitti, premi di produttività) e tutti i redditi esenti, compresi tutti
i trasferimenti monetari ottenuti dalla Pubblica Amministrazione, quali:
assegni al nucleo familiare, pensioni di invalidità, assegno sociale, indennità
di accompagnamento; i redditi figurativi degli immobili non locati e delle
attività mobiliari. Viceversa sono sottratte, dalla somma dei redditi, spese e
franchigie riferite al nucleo familiare;
• per quanto riguarda la
componente patrimoniale, riferita ai costi dell'abitare: il valore della prima
casa viene abbattuto a due terzi e viene considerato solo il valore
dell'immobile eccedente il valore del mutuo ancora in essere;
• la scala di equivalenza viene
modificata con un ammontare crescente al numero di figli;
• con riferimento alla disabilità:
vengono introdotte tre distinte classi di disabilità - media, grave e non
autosufficienza - e franchigie che corrispondono a diversi trattamenti
economici;
• per quanto riguarda le
prestazioni agevolate di natura sociosanitaria: si prevede la possibilità per
il disabile adulto convivente con la famiglia di origine, di costituire nucleo
anagrafico a sé stante;
• viene introdotto l'ISEE
corrente, riferito ad un periodo di tempo più ravvicinato, in caso di
variazioni significative in corso d'anno dell'indicatore della situazione
reddituale dovute a modifiche della situazione lavorativa (licenziamenti/cassa
integrazione);
• per le prestazioni agevolate
rivolte a beneficiari minorenni: viene stabilito il principio secondo il quale
il genitore non convivente nel nucleo familiare, non coniugato con l'altro
genitore, che abbia riconosciuto il figlio, fa parte del nucleo familiare del
figlio, a meno che non sia coniugato con persona diversa dall'altro genitore o
via sia legale separazione;
• per le prestazioni erogate
nell'ambito del diritto allo studio universitario: vengono di regola
considerati come facenti parte dello stesso nucleo familiare i genitori dello
studente richiedente non conviventi, salvo eccezioni, puntualmente enunciate;
• il sistema dei controlli sulla veridicità dei dati utili per il calcolo ISEE viene rafforzato affidando un ruolo centrale all'INPS che, al fine di rilevare la veridicità di quanto autocertificato dai cittadini, può avvalersi di controlli incrociati con le banche dati dell'Agenzia delle Entrate e degli archivi amministrativi delle altre amministrazioni pubbliche. In relazione ai dati autodichiarati, l'Agenzia delle entrate, sulla base di controlli automatici, individua e rende disponibili all'INPS, l'esistenza di omissioni o difformità.
[14]
La disposizione istitutiva ha configurato il
Casellario dell’assistenza come un’anagrafe generale delle prestazioni sociali,
contenente i dati forniti da Regioni, Province autonome, Comuni e dagli altri
enti erogatori.
Gli enti locali e ogni altro ente erogatore di
prestazioni dovrà mettere a disposizione del Casellario tutte le informazioni
di propria competenza, consentendo, fra l’altro, di segnalare agli organi
competenti gli importi indebitamente percepiti per l’applicazione delle
relative sanzioni. Il Casellario sarà articolato in tre sezioni: Banca dati
delle prestazioni sociali agevolate, condizionate all’ISEE; Banca dati delle
prestazioni sociali, condizionate all’ISEE; Banca dati delle valutazioni
multidimensionali, se l’erogazione della prestazione sociale prevede anche la
presa in carico di prestazioni sociali da parte del servizio sociale
professionale. Le informazioni sono organizzate in tre sezioni corrispondenti a
distinte aree di utenza: Infanzia, adolescenza e famiglia definite attraverso
il modulo SINBA; Disabilità e non autosufficienza definite
attraverso il modulo SINA; Povertà, esclusione
sociale e altre forme di disagio definite attraverso il modulo SIP.
[15] La sentenza del Tar del Lazio n. 2458 ha annullato l'articolo 4, comma 2, lettera f) del regolamento, nella parte in cui è previsto che “Il reddito di ciascun componente il nucleo familiare è ottenuto sommando le seguenti componenti […] f) trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, laddove non siano già inclusi nel reddito complessivo di cui alla lettera a)”, vale a dire nel reddito complessivo IRPEF.
[16] Il Consiglio di Stato ha motivato la sentenza,
tra l’altro, sostenendo che "l'indennità di accompagnamento e tutte le forme
risarcitorie servono non a remunerare alcunché, né certo all'accumulo del
patrimonio personale, bensì a compensare un'oggettiva ed ontologica
(cioè indipendente da ogni eventuale o ulteriore prestazione assistenziale
attiva) situazione d'inabilità che provoca in sé e per sé disagi e diminuzione
di capacità reddituale. Tali indennità o il risarcimento sono accordati a chi
si trova già così com'è in uno svantaggio, al fine di pervenire in una
posizione uguale rispetto a chi non soffre di quest'ultimo ed a ristabilire una
parità morale e competitiva. Essi non determinano infatti una
"migliore" situazione economica del disabile rispetto al non
disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi
richiede la prestazione assistenziale, prima o anche in assenza di essa".
[17] Sulle funzioni di polizia ambientale v. www.camera.it/temiap/2015/05/08/OCD177-1278.pdf.