Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari comunitari | ||
Titolo: | Adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea - Legge europea 2013 bis - A.C. 1864 - Schede di lettura | ||
Riferimenti: |
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Serie: | Progetti di legge Numero: 99 | ||
Data: | 11/12/2013 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | XIV - Politiche dell'Unione europea |
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione per l’esame di |
Adempimento degli
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia A.C. 1864 |
Schede di
lettura |
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n. 99 |
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11 dicembre 2013 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Affari comunitari ( 066760-9409 – * st_affari_comunitari@camera.it |
Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici: |
Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea ( 066760-2145 – * cdrue@camera.it |
§
La nota
di sintesi e le schede di lettura sono state redatte dal Servizio Studi. §
Le parti
relative ai documenti all’esame delle istituzioni dell’Unione europea e alle
procedure di contenzioso sono state curate dall'Ufficio Rapporti con l'Unione
europea. |
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La
documentazione dei servizi e degli uffici della Camera è destinata alle
esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e
dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la
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File:
ID0008.doc |
INDICE
§ Articolo 17 (Ulteriori disposizioni in materia di danno ambientale)
§ Articolo 24 (Clausola di invarianza finanziaria)
Il disegno di legge in esame, recante Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013 bis, è stato presentato alla Camera dei deputati il 28 novembre 2013 (AC 1864) in base alle disposizioni di cui alla legge 24 dicembre 2012, n. 234, sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea.
La legge n. 234 del 2012 prevede infatti che ogni anno il Governo presenti, insieme al disegno di legge di delegazione europea, un disegno di legge europea, che contiene norme di diretta attuazione volte a garantire l’adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento europeo, con particolare riguardo ai casi di non corretto recepimento della normativa europea.
In particolare l’art. 30 della legge n. 234 del 2012 prevede che la legge europea contenga le seguenti disposizioni:
a) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea;
b) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti oggetto di procedure d'infrazione avviate dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana o di sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea;
c) disposizioni necessarie per dare attuazione o per assicurare l'applicazione di atti dell'Unione europea;
d) disposizioni occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell'Unione europea;
e) disposizioni emanate nell'esercizio del potere sostitutivo di cui all'art. 117, quinto comma, della Costituzione in conformità ai princìpi e nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 41 della stessa legge n. 234 per l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte dello Stato.
Si segnala peraltro che gli articoli 11 e 16 del disegno di legge recano due disposizioni di delega al Governo. La relazione per l’analisi tecnico-normativa giustifica così l’inserimento delle due disposizioni di delega nell’ambito del disegno di legge europea:
In realtà, l’articolo 30 sembra riservare le disposizioni di delega al disegno di legge di delegazione europea (comma 2), attribuendo al contenuto proprio della legge europea disposizioni di immediata applicazione per far fronte alle procedure di infrazione ed al contenzioso (comma 3). Andrebbe quindi valutata l’opportunità di trasferire i contenuti degli articoli 11 e 16 nell’ambito del disegno di legge di delegazione europea per il secondo semestre, contestualmente all’esame della Commissione Politiche dell’Unione europea (A.C. 1836).
Nel disegno di legge, secondo quanto previsto dall’articolo 30 della legge n. 234 del 2012, sono inserite le disposizioni finalizzate a porre rimedio ai casi di non corretto recepimento della normativa dell’Unione europea nell’ordinamento nazionale che hanno dato luogo a procedure di pre-infrazione, avviate nel quadro del sistema di comunicazione EU Pilot, e di infrazione, laddove il Governo abbia riconosciuto la fondatezza dei rilievi mossi dalla Commissione europea.
Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (25 in tutto in quanto Malta e Lussemburgo non hanno ancora aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione.
Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
EU PILOT, di fatto, ha sostituito l’inoltro delle lettere amministrative agli Stati membri tramite le Rappresentanze permanenti a Bruxelles e spesso ha portato alla conclusione positiva di molti casi, senza cioè l’apertura di una vera e propria procedura d’infrazione.
Si ricorda che il 31 luglio 2013 la Camera ha approvato in via definitiva la legge europea 2013 (L. 6 agosto 2013, n. 97). Come segnalato nella relazione del disegno di legge in esame, il Governo ha ritenuto necessario fare nuovamente ricorso allo strumento legislativo fornito dalla legge n. 234 del 2012 al fine di porre rimedio alla parte ancora residua di pre-contenzioso e contenzioso - per la quale si sia riconosciuta la fondatezza delle censure della Commissione europea - entro i tempi ristretti dettati dall’obiettivo prioritario di presiedere il semestre europeo nel 2014 con il minor numero di infrazioni possibili a carico dell’Italia.
L’articolo 29 della legge 234 prevede espressamente la
possibilità per il Governo, nel caso in cui rilevi ulteriori esigenze di
adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione
europea, di presentare nel secondo semestre dell’anno un ulteriore disegno di
legge di delegazione europea, mentre non vi è nessuna previsione esplicita per
quanto riguarda un secondo disegno di legge europea.
Articolo 1
(Modifica alla legge 30 novembre 1989, n.
398, recante norme in materia di borse di studio universitarie per il
perfezionamento all’estero. Caso EU Pilot 5015/13/EACU)
L’articolo 1 apporta alcune novelle all’articolo 5, comma 2, della legge 398/1989 in materia di ammissione al concorso per l’assegnazione di borse di studio per la frequenza di corsi di perfezionamento all’estero, modificando i requisiti richiesti per il laureato aspirante alla borsa.
In particolare:
- è richiesto il conseguimento della laurea nelle università italiane in luogo del requisito della cittadinanza italiana previsto dalla normativa vigente;
- le istituzioni che il laureato aspirante alla borsa di studio indica nella documentazione relativa all’attività di perfezionamento devono trovarsi in uno Stato diverso da quello di residenza. Pertanto si sopprime implicitamente la specificazione che tali istituzioni siano “estere ed internazionali”.
La norma è volta all’adeguamento alla normativa comunitaria della legislazione italiana vigente in materia di concessione di borse di studio universitarie per il perfezionamento all’estero, a seguito delle contestazioni sollevate dalla Commissione UE nell’ambito del caso EU Pilot 5015/13/EACU.
Con lettera del 13 maggio 2013 la Commissione europea ha rilevato come la disposizione dell’articolo 5, comma 2, della legge n. 398 del 1989, secondo la quale possono essere ammessi ai concorsi per l’attribuzione di dette borse di studio soltanto i laureati di cittadinanza italiana, sia incompatibile con il diritto comunitario. Oltretutto, come rilevato dalla Commissione europea, la norma contestata non è applicata in maniera uniforme, dal momento che alcuni atenei consentono anche ai cittadini non italiani di presentare domanda per l’assegnazione di borse di studio all’estero.
Secondo la Commissione, che richiama anche la giurisprudenza della Corte di giustizia, la citata norma italiana violerebbe il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, dettato dall’articolo 18 del Trattato sul funzionamento dell’UE, nonché le disposizioni del regolamento n. 492 del 2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori, della direttiva 2003/109/CE relativa allo status dei soggiornanti di lungo periodo e della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto di circolazione dei cittadini dell’Unione nel territorio degli Stati membri.
Sulla base di tali disposizioni, infatti, pur non essendo in discussione la competenza degli Stati membri di determinare il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione dei sistemi nazionali di istruzione e formazione, non può tuttavia essere posta una limitazione ingiustificata al diritto di circolare e soggiornare nel territorio degli altri Stati membri e la parità di trattamento deve essere garantita tanto ai cittadini di altri Stati membri quanto ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.
Articolo 2
(Disposizioni in materia di immigrazione
e rimpatri. Sentenza pregiudiziale della Corte di giustizia UE del 6 dicembre
2012
C-430/11)
L’articolo 2 interviene su diverse disposizioni in materia di espulsione dello straniero irregolare per adeguarle al diritto comunitario.
Con gli interventi stabiliti dalle lettere a), e b) si prevede che lo straniero, in possesso del permesso di soggiorno rilasciato da un altro Paese membro, sia espulso solo se si trattenga oltre 3 mesi, periodo massimo previsto per la libera circolazione nell’area Schenghen (attualmente la normativa italiana prevede l’espulsione dopo 60 giorni nel caso lo straniero non abbia ottemperato all’obbligo di dichiarare la propria presenza in questura).
La lettera d) dispone l’inserimento del divieto di reingresso, irrogato dal prefetto con il decreto di espulsione, nel sistema informativo Schenghen.
Gli interventi previsti dalle altre lettere adeguano il diritto interno alle norme comunitarie anche alla luce della loro interpretazione recata da alcune sentenze della Corte di giustizia europea.
In particolare, la lettera c) adegua il testo unico in materia di immigrazione alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 6 dicembre 2012, C-430/11 (caso Sagor). Con questa sentenza la Corte UE ha ravvisato l’incompatibilità di alcune disposizioni del testo unico in materia di immigrazione con la direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva “rimpatri”). La novella operata al testo unico prevede che, nel caso dei reati di immigrazione illegale e di violazione all’ordine di allontanamento, qualora la pena dell’ammenda sia sostituita con la pena della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, l’espulsione amministrativa sia comunque eseguita celermente.
La lettera e) prevede l’interruzione del trattenimento dello straniero in attesa di espulsione qualora non esista una ragionevole prospettiva che questa sia eseguita (sentenza CGUE del 30 novembre 2009, C-357-09).
Le lettere f) e g) rimodulano la durata del divieto di reingresso a seguito di condanna per il reato immigrazione irregolare, attualmente di non meno 5 anni, equiparandola a quella del divieto di reingresso per altre ipotesi, ossia da 3 a 5 anni (sentenza CGUE 6 dicembre 2011, C-430/11).
Le lettere a), e b) prevedono che lo straniero in possesso del permesso di soggiorno rilasciato da un altro Paese membro sia espulso solo se si trattenga oltre 3 mesi, periodo massimo previsto per la libera circolazione nell’area Schenghen (attualmente la normativa italiana prevede l’espulsione dopo 60 giorni nel caso lo straniero non abbia ottemperato all’obbligo di dichiarare la propria presenza in questura).
Il regolamento (CE) n. 562/2006 del 15 marzo 2006 che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen) prevede che i cittadini non comunitari possono circolare liberamente nell’area Schenghen se in possesso di un titolo di soggiorno valido (art. 5).
Le condizioni per il soggiorno sono tassativamente indicate dal regolamento e sono, oltre al possesso di un titolo di soggiorno valido:
§ il possesso del visto di ingresso, se previsto da uno Stato membro;
§ la giustificazione circa lo scopo e le condizioni del soggiorno;
§ la disposizione dei mezzi di sussistenza sufficienti;
§ non essere segnalato nel sistema informativo Schenghen ai fini della non ammissione;
§ non essere considerato una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri.
In presenza di queste condizioni il cittadino ha diritto a circolare liberamente e a non essere espulso.
L’articolo 5, comma 7, del testo unico in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998) prevede che lo straniero titolare di un regolare permesso di soggiorno rilasciato da un altro Paese membro dell’Unione è tenuto, come tutti gli altri stranieri, a dichiarare la propria presenza al questore. Se la dichiarazione non è resa entro 60 giorni lo straniero è passibile di espulsione.
L’articolo in esame rimuove tale ultima previsione adeguando la norma al citato regolamento 563/2006.
Inoltre, vengono introdotti 3 nuovi commi all’articolo 5 per disciplinare:
§ l’espulsione con intimazione a lasciare il territorio nazionale dello straniero in possesso di un titolo di soggiorno rilasciato da altro Paese membro che si è trattenuto oltre tre mesi in Italia (comma 7-bis);
§ l’espulsione in caso di violazione all’intimazione di cui sopra (comma 7-ter). Andrebbe valutata l’opportunità di indicare in questo caso che l’espulsione è eseguita con accompagnamento coatto alla frontiera;
§ la riammissione dello straniero espulso da un altro Paese membro ed in possesso di regolare titolo di soggiorno rilasciato dall’Italia.
In particolare, la lettera c) adegua il testo unico in materia di immigrazione alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 6 dicembre 2012, C-430/11 (caso Sagor). Con questa sentenza la Corte UE ha ravvisato l’incompatibilità di alcune disposizioni del testo unico in materia di immigrazione con la direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva “rimpatri”). La novella operata al testo unico prevede che, nel caso dei reati di immigrazione illegale e di violazione all’ordine di allontanamento, qualora la pena dell’ammenda sia sostituita con la pena della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, l’espulsione amministrativa sia comunque eseguita celermente.
Nel nostro ordinamento l’espulsione dello straniero è disciplinata dal testo unico in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998).
Il testo unico contempla diversi tipi di espulsione riconducibili sostanzialmente a due categorie giuridiche: l’espulsione quale sanzione amministrativa, comminata, appunto, dall’autorità amministrativa (ministro o prefetto) in caso di violazione delle regole relative all’ingresso e al soggiorno e l’espulsione applicata dal giudice nell’ambito di un procedimento penale (l’espulsione a titolo di misura di sicurezza e l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa a sanzione penale).
Esse rispondono a due distinte finalità: la prima punisce coloro che trasgrediscono le procedure fissate per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri e costituiscono dunque una sanzione necessaria ai fini del loro rispetto.
La seconda colpisce il comportamento delinquenziale dello straniero a prescindere dalla regolarità della sua posizione amministrativa. Tuttavia, alcune forme di espulsione “giudiziaria” possono essere eseguite solo nei confronti degli stranieri passibili di espulsione amministrativa.
Il regime dell’espulsione è stato notevolmente modificato nel 2011, a seguito del recepimento della direttiva 2008/115/CE (la cosiddetta “direttiva rimpatri”) operato dal decreto-legge 89/2011 (art. 3, 4 e 5). Per il mancato recepimento della direttiva, il cui termine di trasposizione era scaduto il 24 dicembre 2010, era stata avviata, da parte della Commissione, la fase prodromica all’apertura della procedura di infrazione.
La direttiva 2008/115 ha introdotto norme comuni sul rimpatrio dei cittadini stranieri che, ai sensi del diritto interno, si trovano in condizioni di irregolarità e si basa sul principio che il rimpatrio deve avvenire ordinariamente in maniera volontaria e solamente in presenza di determinate condizioni può essere effettuato coattivamente.
In conformità a tale principio il decreto-legge 89, invertendo l’impostazione precedente risalente alla legge del 189 del 2002 (Bossi-Fini) ha stabilito che l’espulsione immediata con accompagnamento alla frontiera è disposta esclusivamente nei casi individuati dalla direttiva (pericolo di fuga, diniego della domanda di permesso di soggiorno in quanto infondata o fraudolenta, espulsione disposta dal giudice, ecc.). Negli altri casi l’espulsione è attuata con l’intimazione ad allontanarsi volontariamente il territorio nazionale, lasciando allo straniero (come previsto dalla direttiva) un congruo periodo di tempo (da 7 a 30 giorni) per adempiere.
Nel 2009, prima dell’emanazione del decreto-legge 89 e dopo l’approvazione della direttiva 115, il legislatore nazionale ha introdotto diverse misure in materia di repressione dell’immigrazione irregolare e clandestina, tra cui il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, ad opera della legge 94/2009 (art. 1, comma 16, lett. a) che ha introdotto l’articolo 10-bis del testo unico immigraizone) Si tratta di uno dei provvedimenti del c.d. “pacchetto sicurezza”, adottato all’inizio della scorsa legislatura dal Governo pro-tempore, recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, in cui ampio spazio è dedicato a disposizioni volte a contrastare l’immigrazione illegale e a fare fronte a questioni di ordine e sicurezza pubblica connesse con il fenomeno migratorio.
Il reato di immigrazione clandestina di cui dall’articolo 10-bis del testo unico punisce con una ammenda da 5 mila a 10 mila euro lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato illegalmente. Sul procedimento penale è competente il giudice di pace (art. 4, comma 2, lett. s-bis, del D.Lgs. 274/2000, introdotta dall'art. 1, comma 17, lett. a), L. 94/ 2009).
Tale reato non è oggetto di sindacato della sentenza Sador che anzi ribadisce il proprio orientamento secondo il quale la direttiva non vieta che il diritto di uno Stato membro qualifichi il soggiorno irregolare quale reato e lo punisca con sanzioni penali.
Tuttavia, la Corte individua nella procedura penale connessa alla punizione del reato alcune misure che compromettono l’applicazione delle norme previste dalla direttiva, “privando quest’ultima del suo effetto utile”.
La prima risiede nella previsione, contenuta nella legge sulla competenza penale del giudice di pace, che la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi. Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro sostitutivo oppure si sottrae ad esso si applica l’obbligo di permanenza domiciliare al massimo di 45 giorni (art. 55, D.Lgs. 274/2000).
Secondo la Corte la previsione dell’obbligo della permanenza domiciliare applicata allo straniero irregolare contraddice il principio della direttiva secondo il quale l’allontanamento deve essere adempiuto con la massima celerità.
Infatti, l’articolo 8 della direttiva prevede che gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria (da 7 a 30 giorni).
E’ vero che il giudice può sostituire la pena dell’ammenda con l’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (art. 16, comma 1 TU). Ma in questo caso l’espulsione è immediata; infatti l’art. 16, comma 2, TU fa rinvio per le modalità di espulsione all’art. 13, comma 4 TU, espulsione con accompagnamento alla frontiera, e “immediata”, come definita dal successivo comma 5.
E qui interviene la seconda censura della Corte che ribadisce che la facoltà di sostituire l’ammenda con l’espulsione non è di per sé vietata dalla direttiva, ma tuttavia l’espulsione immediata, ossia senza la concessione di un periodo di tempo per la partenza volontaria, può essere disposta esclusivamente in presenza di precise condizioni (quali il pericolo di fuga ecc.) e che “qualsiasi valutazione al riguardo deve fondarsi su un esame individuale della fattispecie in cui è coinvolto l’interessato” e quindi non può applicarsi automaticamente allo straniero per il solo fatto di essere in posizione irregolare e condannato per il reato di immigrazione clandestina.
L’articolo in esame interviene appunto a modificare il testo unico per superare le censure della Corte.
Decisiva in questo senso è la modifica operata dalla lettera c) del comma 1 dell’articolo in esame, consistente nell’inserimento di un comma 3-septies dell’articolo 13 del TU che disciplina l’espulsione amministrativa. Il nuovo comma precisa che la pena della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità per il reato di immigrazione clandestina (ed anche per i reati connessi alla violazione dell’obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale di cui all’articolo 14, commi 5-ter e 5-quater) non ostano alla espulsione prevista dal medesimo articolo 13, e che questa “è eseguita in ogni caso”; i giorni residui dei domiciliari e o di lavoro di pubblica utilità si convertono in una corrispondente quota di pena pecuniaria.
Tale modifica recepisce la prima censura della Corte, quella secondo la quale la pena detentiva dei domiciliari osta alla pronta esecuzione dell’espulsione.
Non sembra invece attuata pienamente la seconda censura, in quanto il riferimento è fatto genericamente all’espulsione di cui all’articolo 13, che comprende sia l’espulsione immediata per pericolo di fuga ed altre condizioni (comma 4), sia l’espulsione differita (comma 5).
Anche la modifica all’articolo 16 ad opera delle lettere f) e g) non sembra realizzare un pieno adeguamento. Viene infatti previsto che, per il reato di immigrazione clandestina, l’espulsione che il giudice di pace può comminare a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione (articolo 16, comma 1) comporti il divieto di reingresso per una periodo da tre a cinque anni (attualmente non può essere inferiore a 5 anni), ma tuttavia non viene modificato il comma 2 dell’articolo 16 che dispone che l’espulsione è disposta secondo le modalità di cui all’articolo 13, comma 4 (espulsione immediata).
Si osserva che andrebbe valutata l’opportunità di modificare il comma 2
dell’articolo 16, escludendo il condannato per immigrazione clandestina
dall’espulsione immediata a meno che non ricorrano le particolari condizioni
previste dall’articolo 13, comma 4 TU.
La lettera d) dispone l’inserimento del divieto di reingresso, irrogato dal prefetto con il decreto di espulsione, nel sistema informativo Schenghen.
La disposizione è finalizzata a sottolineare la dimensione europea e la valenza del divieto di rientrare non solo nel territorio italiano ma in tutto il territorio dell’Unione europea.
Inoltre, si prevede che l’espulsione dello straniero irregolare verso un altro Stato membro dell’Unione può essere effettuato esclusivamente se ciò sia previsto da accordi o intese bilaterali entrati in vigore prima della direttiva rimpatri (13 gennaio 2009).
La lettera e) prevede, attraverso una modifica dell’articolo 14, comma 5-bis, del testo unico, l’interruzione del trattenimento dello straniero in attesa di espulsione qualora non esista una ragionevole prospettiva che questa sia eseguita.
Si tratta di una disposizione espressamente prevista dall’articolo 15, paragrafo 4, della citata direttiva 2008/115/CE che così recita: “Quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le condizioni di cui al paragrafo 1, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”.
La disposizione si adegua all’interpretazione che ne ha fornito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 30 novembre 2009 nella causa C-357/09 (Kadzoev contro Bulgaria).
Nella tabella che segue sono confrontate le novelle previste dall’articolo
in esame con le corrispondenti disposizioni vigore del testo unico in materia
di immigrazione.
D.Lgs.
286/1998 |
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Testo
vigente |
Modifiche
A.C. 1864, art. 2 |
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Articolo 5 |
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Permesso di
soggiorno |
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(...) |
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7. Gli
stranieri muniti del permesso di soggiorno o titolo equipollente rilasciato
dall'autorità di uno Stato appartenente all'Unione europea, valido per il
soggiorno in Italia sono tenuti a dichiarare la loro presenza al questore con
le modalità e nei termini di cui al comma 2. Agli stessi è rilasciata idonea
ricevuta della dichiarazione di soggiorno. Ai contravventori si applica la
sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 103 (lire 200
mila) a euro 309 (lire 600 mila). Qualora la dichiarazione non venga resa
entro 60 giorni dall'ingresso nel territorio dello Stato può essere disposta
l'espulsione amministrativa. |
7. Gli
stranieri muniti del permesso di soggiorno o altra autorizzazione che conferisce il diritto a soggiornare rilasciato
dall’autorità di uno Stato membro dell’Unione europea, valido per il
soggiorno in Italia, sono tenuti a dichiarare la loro presenza al questore
entro il termine di cui al comma 2. Agli stessi è rilasciata idonea ricevuta
della dichiarazione di soggiorno. Ai contravventori si applica la sanzione
amministrativa del pagamento di una somma da euro 103 a euro 309 |
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7-bis.
Allo straniero di cui al comma 7, che si è trattenuto nel territorio
nazionale oltre i tre mesi dall’ingresso, il questore intima di recarsi
immediatamente, e comunque non oltre sette giorni dalla notifica
dell’intimazione, nello Stato membro dell’Unione europea che ha rilasciato il
permesso di soggiorno o altra autorizzazione che conferisce il diritto di
soggiornare, in corso di validità. |
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7-ter. Nei
confronti dello straniero che ha violato l’intimazione di cui al comma 7-bis, è adottato il provvedimento di
espulsione ai sensi dell’articolo 13, comma 2, e l’allontanamento è eseguito
verso lo Stato membro che ha rilasciato il permesso di soggiorno o altra
autorizzazione al soggiorno. Nel caso sussistano i presupposti per l’adozione
del provvedimento di espulsione ai sensi dell’articolo 13, comma 1, ovvero
dell’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144,
convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155,
l’espulsione è adottata sentito lo Stato membro che ha rilasciato il permesso
di soggiorno o altra autorizzazione e l’allontanamento è eseguito fuori dal
territorio dell’Unione europea. |
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7-quater.
E’ autorizzata la riammissione nel territorio nazionale dello straniero
espulso da altro Stato membro dell’Unione europea in possesso di un permesso
di soggiorno o altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare
rilasciati dall’Italia ed in corso di validità, che non costituisce un
pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. |
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Articolo 13 |
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Espulsione
amministrativa |
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(...) |
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3-septies.
Nei confronti dello straniero sottoposto alle pene della permanenza
domiciliare o del lavoro di pubblica utilità per i reati di cui agli articoli
10-bis, 14, comma 5-ter, e 14, comma 5-quater, l’espulsione prevista dal
presente articolo è eseguita in ogni caso, e i giorni residui di permanenza
domiciliare o di lavoro di pubblica utilità non eseguiti si convertono nella
corrispondente pena pecuniaria secondo i criteri di ragguaglio indicati nei
commi 2 e 6 dell’articolo 55 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274. |
(...) |
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13. Lo
straniero destinatario di un provvedimento di espulsione non può rientrare
nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro
dell'interno. In caso di trasgressione lo straniero è punito con la
reclusione da uno a quattro anni ed è nuovamente espulso con accompagnamento
immediato alla frontiera. La disposizione di cui al primo periodo del
presente comma non si applica nei confronti dello straniero già espulso ai
sensi dell'articolo 13, comma 2, lettere a) e b), per il quale è stato
autorizzato il ricongiungimento, ai sensi dell'articolo 29. |
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13-bis. Nel caso di espulsione disposta
dal giudice, il trasgressore del divieto di reingresso è punito con la
reclusione da uno a quattro anni. Allo straniero che, già denunciato per il
reato di cui al comma 13 ed espulso, abbia fatto reingresso sul territorio
nazionale si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni. |
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13-ter. Per i reati previsti dai commi 13
e 13-bis è obbligatorio l'arresto
dell'autore del fatto anche fuori dei casi di flagranza e si procede con rito
direttissimo. |
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14. Il divieto
di cui al comma 13 opera per un periodo non inferiore a tre anni e non
superiore a cinque anni, la cui durata è determinata tenendo conto di tutte
le circostanze pertinenti il singolo caso. Nei casi di espulsione disposta ai
sensi dei commi 1 e 2, lettera c), del presente articolo ovvero ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144,
convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, può essere
previsto un termine superiore a cinque anni, la cui durata è determinata
tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti il singolo caso. Per i
provvedimenti di espulsione di cui al comma 5, il divieto previsto al comma
13 decorre dalla scadenza del termine assegnato e può essere revocato, su
istanza dell'interessato, a condizione che fornisca la prova di avere
lasciato il territorio nazionale entro il termine di cui al comma 5. |
|
|
14-bis. Il
divieto di cui al comma 13 è registrato dall’autorità di pubblica sicurezza e
inserito nel sistema di informazione Schengen di cui alla Convenzione di
applicazione dell’Accordo di Schengen, ratificata con la legge 30 settembre
1993, n. 388. |
|
14-ter. In
presenza di accordi o intese bilaterali con altri Stati membri dell’Unione
europea entrati in vigore in data anteriore al 13 gennaio 2009, lo straniero
che si trova nelle condizioni di cui al comma 2 può essere rinviato verso
tali Stati. |
|
|
Articolo 14 |
|
Esecuzione
dell'espulsione |
|
(...) |
|
5-bis. Allo scopo di porre fine al
soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per
eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione o di respingimento, il
questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il
termine di sette giorni, qualora non sia stato possibile trattenerlo in un
Centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza presso tale
struttura non ne abbia consentito l'allontanamento dal territorio nazionale.
L'ordine è dato con provvedimento scritto, recante l'indicazione, in caso di
violazione, delle conseguenze sanzionatorie. L'ordine del questore può essere
accompagnato dalla consegna all'interessato, anche su sua richiesta, della
documentazione necessaria per raggiungere gli uffici della rappresentanza
diplomatica del suo Paese in Italia, anche se onoraria, nonché per rientrare
nello Stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, nello Stato
di provenienza, compreso il titolo di viaggio. |
5-bis. Allo scopo di porre fine al
soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per
eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione o di respingimento, il
questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il
termine di sette giorni, qualora non sia stato possibile trattenerlo in un
Centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza presso tale
struttura non ne abbia consentito l'allontanamento dal territorio nazionale ovvero, dalle circostanze concrete, non
emerga più alcuna prospettiva ragionevole di eseguire l’allontanamento e che
lo straniero possa essere riaccolto dal Paese di origine o di provenienza. L'ordine
è dato con provvedimento scritto, recante l'indicazione, in caso di
violazione, delle conseguenze sanzionatorie. L'ordine del questore può essere
accompagnato dalla consegna all'interessato, anche su sua richiesta, della
documentazione necessaria per raggiungere gli uffici della rappresentanza
diplomatica del suo Paese in Italia, anche se onoraria, nonché per rientrare
nello Stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, nello Stato
di provenienza, compreso il titolo di viaggio. |
|
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Articolo 16 |
|
Espulsione
a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione |
|
1.
Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o
nell'applicare la pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle
situazioni indicate nell'articolo 13, comma 2, quando ritiene di dovere
irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le
condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi
dell'articolo 163 del codice penale ovvero nel pronunciare sentenza di
condanna per il reato di cui all’ articolo 10-bis, qualora non ricorrano le
cause ostative indicate nell'articolo 14, comma 1, del presente testo unico,
che impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento
alla frontiera a mezzo della forza pubblica, può sostituire la medesima pena
con la misura dell'espulsione |
1.
Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o
nell'applicare la pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle
situazioni indicate nell'articolo 13, comma 2, quando ritiene di dovere
irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le
condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi
dell'articolo 163 del codice penale ovvero nel pronunciare sentenza di
condanna per il reato di cui all’ articolo 10-bis, qualora non ricorrano le
cause ostative indicate nell'articolo 14, comma 1, del presente testo unico,
che impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento
alla frontiera a mezzo della forza pubblica, può sostituire la medesima pena
con la misura dell'espulsione. Le disposizioni di cui al presente comma si
applicano, in caso di sentenza di condanna, ai reati di cui all'articolo 14,
commi 5-ter e 5-quater. |
|
1-bis. In
caso di sentenza di condanna per i reati di cui all’articolo 10-bis e all’articolo 14, commi 5-ter e 5-quater, la misura dell’espulsione di cui al comma 1 può essere
disposta per la durata di cui all’articolo 13, comma 14. Negli altri casi di
cui al comma 1, la misura dell’espulsione può essere disposta per un periodo
non inferiore a cinque anni. |
Articolo
3
(Disposizioni in materia di commercializzazione in Italia di camini o condotti
in plastica – Procedura di infrazione 2008/4541)
L’articolo 3 interviene sul Codice ambientale (D.Lgs. 152/2006) sostituendo la richiesta dell’obbligo di marcatura CE per i camini con il concetto di idoneità degli stessi all’uso previsto, come richiamato dalla direttiva comunitaria sui prodotti da costruzione.
Nel dettaglio, viene modificato l’allegato IX (sui requisiti tecnici degli impianti termici civili) alla parte quinta del Codice ambientale, sostituendo il requisito della “marcatura CE” per i camini con l’indicazione come requisito che il camino sia stato costruito con materiali idonei all’uso previsto.
La normativa comunitaria in materia è costituita dal nuovo regolamento dei prodotti da costruzione (Regolamento n. 305/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio che fissa condizioni armonizzate per la commercializzazione dei prodotti da costruzione e che abroga la direttiva 89/106/CEE). Tale regolamento definisce «uso previsto», l'uso previsto del prodotto da costruzione come definito nella specifica tecnica armonizzata applicabile.
L’art. 3 del disegno di legge europea è volto a sanare la procedura di infrazione 2008/4541, avviata dalla Commissione europea il 29 settembre 2011 con l’invio all’Italia di una lettera di messa in mora.
La Commissione ha, in particolare, sollevato rilievi circa l’applicazione in Italia della direttiva 89/106/CEE del 21 dicembre 1988, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti i prodotti da costruzione, e della direttiva 2009/142/CE del 30 novembre 2009 in materia di apparecchi a gas.
Ad avviso della Commissione, le disposizioni del decreto legislativo n. 152 del 2006 configurerebbero un divieto di circolazione di camini e condotti in plastica, segnatamente per quanto riguarda le caldaie a condensazione. Tale previsione sarebbe in contrasto con:
· la direttiva 89/106/CEE, che non consente agli Stati membri di limitare la circolazione di materiali da costruzione – intendendo per materiale da costruzione qualsiasi prodotto fabbricato al fine di essere permanentemente incorporato in opere di costruzione come ad esempio gli edifici – che rechino il marchio CE (attestante la conformità del prodotto alla norma nazionale che traspone la norma europea armonizzata) o che, in assenza di tale marchio, soddisfino prescrizioni nazionali vigenti in un altro Stato membro e conformi al trattato;
·
la direttiva 2009/142/CE
- che riguarda specificamente gli apparecchi a gas, di cui definisce i
requisiti di sicurezza e le procedure di valutazione di conformità – in base
alla quale gli Stati membri non possono
vietare, limitare o ostacolare l’immissione sul mercato di apparecchi
muniti della marcatura CE (articolo 10 della citata direttiva).
Più in dettaglio, la Commissione rileva che il citato decreto legislativo, all’allegato IX della parte V, relativo ai requisiti tecnici e costruttivi degli impianti termici civili, prescrive che gli impianti installati o che hanno subito una modifica relativa ai camini successivamente all'entrata in vigore del decreto siano dotati di camini realizzati con prodotti su cui sia stata apposta la marcatura "CE", aggiungendo ulteriori requisiti. Il decreto legislativo prescrive infatti, tra l’altro, che tali prodotti siano realizzati con materiali incombustibili, che consentano fenomeni di condensa e che i collegamenti tra l’apparecchio e i suoi condotti siano sempre metallici.
Su tali basi, la Commissione rileva che, in sostanza, la normativa italiana vieta l’uso di materiali plastici nei camini o nei condotti e rende di conseguenza impossibile l’accesso al mercato italiano ai fabbricanti di prodotti in plastica, nonostante che tali prodotti siano contrassegnati dalla marcatura “CE” in forza della direttiva 89/106/CEE.
In particolare, come rilevato dalla Commissione, i condotti in plastica possono fare parte di caldaie a condensazione, dal momento che non subiscono fenomeni ossidativi né danni a contatto con la condensa e sono in grado di sostenere senza problemi la bassa temperatura dei gas di scarico delle caldaie a condensazione. Dunque, in questo caso, essi sono immessi sul mercato coperti da un’ulteriore marchiatura CE, rilasciata ai sensi degli articoli 8 e 10 della direttiva 2009/142/CE. Ciononostante, l’Italia ostacola la libera circolazione sul mercato delle caldaie a condensazione con marchio CE, quando esse siano dotate di camini di plastica.
Inoltre, sempre secondo la Commissione, l’Italia - imponendo tra i requisiti richiesti che su tali prodotti sia posta la marcatura “CE” - rende obbligatorio per ogni fabbricante o importatore che intenda accedere al mercato italiano l’obbligo di ottenere per i propri prodotti tale marchio. Con ciò l’Italia verrebbe meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 34 del Trattato sul funzionamento dell’UE, che vieta l’imposizione di restrizioni quantitative all’esportazione o di qualsiasi altra misura di effetto equivalente. Sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, tale articolo va infatti interpretato alla luce del principio del riconoscimento reciproco, secondo cui uno Stato membro non deve vietare la vendita sul proprio territorio di un prodotto legalmente prodotto e commercializzato in un altro Stato membro, anche se è stato realizzato utilizzando specifiche tecniche o qualitative diverse.
Da ultimo, la Commissione europea ha rilevato che le disposizioni italiane menzionate, relative ai requisiti tecnici degli impianti, sono da intendersi a tutti gli effetti come regola tecnica e avrebbero dovuto esserle notificate, secondo quanto disposto dalla direttiva 98/34/CE che – all’articolo 8 - prevede che gli Stati membri comunichino immediatamente alla Commissione ogni progetto di regola tecnica.
In risposta alla lettera di messa in mora, con lettera del 30 dicembre 2011 il Governo italiano ha inviato le sue osservazioni, evidenziando come, rispetto ai rilievi sollevati dalla Commissione, fosse intervenuta una modifica dell’allegato in questione, che ha eliminato, dai requisiti tecnici richiesti, le restrizioni sul materiale per quanto riguarda gli impianti termici a condensazione conformi ai requisiti previsti dalla direttiva 90/396/CE (punti 2.7, 3.4 e 3.6 dell’allegato).
Per quanto riguarda invece l’esplicito riferimento, tra i requisiti richiesti, alla marcatura CE – che, come già detto, prefigurerebbe la restrizione alla circolazione dei prodotti su cui non sia apposta tale marcatura - ad avviso del Governo la disposizione di carattere generale contenuta nel decreto legislativo va interpretata, sulla base del principio di ragionevolezza, alla luce delle disposizioni specifiche applicabili alla commercializzazione e utilizzazione degli impianti termici a condensazione. In particolare, dall’esame delle disposizioni italiane relative all’installazione degli impianti (decreto 22 gennaio 2008, n. 37) e dal decreto 19 maggio 2010, si evincerebbe in maniera esplicita la prevalenza della normativa comunitaria specifica su quella nazionale e l’effettiva applicazione del principio di mutuo riconoscimento, qualora siano adottate soluzioni o utilizzati prodotti difformi dalle tecniche italiane ma legalmente destinati al medesimo scopo in un altro Stato membro.
Per quanto riguarda invece la mancata notifica, il Governo sostiene che le disposizioni del decreto legislativo in questione, se interpretate in combinazione con la legislazione vigente in materia di impianti e costruzioni, configurano disposizioni legislative che si conformano ad atti comunitari vincolanti che danno luogo all'adozione di specificazioni tecniche. Per disposizioni di tale natura, sulla base dell’articolo 10 della direttiva 98/34/CE non si applica l’obbligo di notifica.
In ogni caso, nella lettera il Governo ha manifestato la propria disponibilità a valutare tale situazione di concerto con le amministrazioni coinvolte e insieme ai servizi della Commissione per arrivare ad una totale eliminazione dal testo del decreto legislativo delle prescrizioni suscettibili di ulteriori interventi.
Successivamente, è intervenuta - a seguito di domanda pregiudiziale del Consiglio di Stato - la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (C-385/10 del 18 ottobre 2012) che ha stabilito che la normativa dell’Unione (articoli 34 e 27 del TFUE e direttiva 89/106/CEE) osta a prescrizioni nazionali che subordinino la commercializzazione di prodotti di costruzione provenienti da altro Stato membro all’apposizione della marcatura CE.
Articolo 4
(Disposizioni in materia di servizi
investigativi privati in Italia. Caso EU Pilot 3690/12/MARKT)
L’articolo 4 prevede che, allo svolgimento in Italia di servizi trasfrontalieri e di quelli temporanei di investigazione privata e di informazioni commerciali delle imprese legalmente autorizzate a svolgere la stessa attività presso un altro Stato membro, si applichi una procedura semplificata rispetto a quella prevista per le analoghe attività di vigilanza privata. La diposizione è finalizzata a superare le obiezioni mosse dalla Commissione europea nel caso EU Pilot 3690/12/MARK.
In particolare, l’articolo in commento modifica come segue l’art. 134-bis del testo unico di pubblica sicurezza (regio decreto 773/1931).
R.D.
773/1931 TULPS |
|
Testo
vigente |
Modifiche
A.C. 1864, art. 4 |
|
|
Art. 134-bis |
|
Disciplina
delle attività autorizzate in altro Stato dell'Unione europea |
|
Le imprese di
vigilanza privata stabilite in un altro Stato membro dell'Unione europea
possono stabilirsi nel territorio della Repubblica italiana in presenza dei
requisiti, dei presupposti e delle altre condizioni richiesti dalla legge e
dal regolamento per l'esecuzione del presente testo unico, tenuto conto degli
adempimenti, degli obblighi e degli oneri già assolti nello Stato di
stabilimento, attestati dall'autorità del medesimo Stato o, in mancanza,
verificati dal prefetto. |
Le imprese di
vigilanza privata o di investigazione
privata stabilite in un altro Stato membro dell'Unione europea possono
stabilirsi nel territorio della Repubblica italiana in presenza dei requisiti,
dei presupposti e delle altre condizioni richiesti dalla legge e dal
regolamento per l'esecuzione del presente testo unico, tenuto conto degli
adempimenti, degli obblighi e degli oneri già assolti nello Stato di
stabilimento, attestati dall'autorità del medesimo Stato o, in mancanza,
verificati dal prefetto. |
I servizi
transfrontalieri e quelli temporanei di vigilanza e custodia da parte di
imprese stabilite in un altro Stato membro dell'Unione europea sono svolti
alle condizioni e con le modalità indicate nel regolamento per l'esecuzione
del presente testo unico. |
|
|
Ai fini dello svolgimento dei servizi
transfrontalieri e di quelli temporanei di investigazione privata e di
informazioni commerciali, le imprese stabilite in un altro Stato membro
dell’Unione europea notificano al Ministero dell’interno – Dipartimento della
pubblica sicurezza le attività che intendono svolgere nel territorio
nazionale, specificando le autorizzazioni possedute, la tipologia dei
servizi, l’ambito territoriale nel quale i servizi dovranno essere svolti e
la durata degli stessi. I relativi servizi hanno inizio decorsi dieci giorni
dalla notifica, salvo il caso che entro detto termine intervenga divieto del
Ministero dell’interno, motivato per ragioni di ordine pubblico o di pubblica
sicurezza. |
Il Ministro
dell'interno è autorizzato a sottoscrivere, in materia di vigilanza privata,
accordi di collaborazione con le competenti autorità degli Stati membri
dell'Unione europea, per il reciproco riconoscimento dei requisiti, dei
presupposti e delle condizioni necessari per lo svolgimento dell'attività,
nonché dei provvedimenti amministrativi previsti dai rispettivi ordinamenti. |
|
Le guardie private (definite anche “particolari” in quanto agiscono nell’interesse di singoli soggetti, pubblici o privati, o “giurate” poiché sono ammesse all’esercizio delle loro funzioni dopo la prestazione del giuramento) esercitano attività di vigilanza o custodia di beni mobili o immobili per conto di privati o alle dipendenze di enti o di istituti di vigilanza, oppure attività investigativa alle dipendenze di istituti di investigazione.
Le due attività sono regolate dallo stesso complesso di disposizioni, pur sussistendo tra di loro una rilevante eterogeneità: l’attività di vigilanza è finalizzata a prevenire i reati contro il patrimonio, e gli atti in cui si concretizza sono affini a quelli compiuti dall’autorità di pubblica sicurezza; l’attività investigativa dei privati non ha invece scopi convergenti con le finalità della funzione di polizia.
La disciplina in materia di vigilanza e investigazione
privata trova collocazione:
§
nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T.U.L.P.S.), (artt. da 133 a
141);
§
nel regolamento di esecuzione del testo unico (artt. da 249 a 260-bis);
§
nel R.D.L. 1952/1935[1] (guardie particolari giurate);
§
nel R.D.L. 2144/1936[2] (istituti di vigilanza privata).
L’articolo 134-bis del TULPS, oggetto della novella recata dall’articolo in esame, disciplina le attività di vigilanza e investigazione già autorizzate in un altro Stato membro dell'Unione europea ed è stato introdotto dall’art. 4, comma 1, lett. c), del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59, convertito dalla L. 6 giugno 2008, n. 101. La disposizione è stata adottata in esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 13 dicembre 2007, causa C-465/05 cui era conseguita l’apertura di una procedura di infrazione (n. 2000/4196).
L’articolo 134-bis prevede che:
§ l’esercizio delle attività di vigilanza privata da parte di un’impresa legalmente autorizzata a svolgere la stessa attività presso un altro Stato membro sia sottoposto alle medesime condizioni dell’imprese ed istituti stabiliti in Italia, tenendo altresì conto degli adempimenti già assolti nello Stato di stabilimento. L’adempimento degli obblighi e degli oneri, qualora non sia attestato dallo Stato rilasciante, deve essere verificato dal prefetto (co. 1);
§ il Ministro dell’interno sia autorizzato a sottoscrivere accordi di collaborazione e di reciproco riconoscimento dei requisiti necessari per lo svolgimento dell'attività, nonché dei provvedimenti amministrativi previsti dai rispettivi ordinamenti (co. 3).
Il comma 2 dell’articolo 134-bis in esame demanda invece al regolamento di esecuzione la disciplina delle condizioni e delle modalità di svolgimento dei servizi transfrontalieri e temporanei di vigilanza e custodia da imprese di altri Stati membri dell’Unione.
Quest’ultima previsione è stata attuata con DPR 4 agosto 2008, n. 153 che ha introdotto un nuovo articolo (l’art. 260-bis) nel regolamento di esecuzione del TULPS (regio decreto 6 maggio 940 n. 635), in base al quale l'esercizio occasionale di servizi temporanei di vigilanza e custodia ammessi dalla legge ad imprese regolarmente autorizzate allo svolgimento dei medesimi servizi nello Stato di stabilimento è sottoposto al rilascio di una autorizzazione da parte del Ministero dell'interno - Dipartimento della pubblica sicurezza può inoltre autorizzare. La relativa domanda per il rilascio dell'autorizzazione va proposta almeno sessanta giorni prima dell'espletamento del servizio, corredata degli elementi descrittivi dell'istituto e delle autorizzazioni allo stesso rilasciate dallo Stato di stabilimento, del servizio da espletare, della sua durata, del personale e dei mezzi da impiegare. Entro tale termine il Dipartimento della pubblica sicurezza oppone il diniego per insussistenza dei presupposti, o per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, oppure adotta le prescrizioni occorrenti per assicurare che i servizi siano assolti alle medesime condizioni previste nel territorio della Repubblica per lo svolgimento di servizi analoghi. Qualora non siano adottate le prescrizioni da parte del Dipartimento della pubblica sicurezza l'autorizzazione si intende rilasciata.
Con l’intervento normativo in esame, tale procedura (autorizzazione da presentarsi almeno 60 giorni prima dell’inizio attività) permane nei confronti delle attività di vigilanza, ma per le attività di investigazione privata temporanee viene sostituita da quella semplificata (notifica di inizio attività) disposta direttamente con legge.
La disposizione è volta a superare le obiezioni mosse dalla Commissione europea nel caso EU Pilot 3690/12/MARK in considerazione del fatto che le attività di vigilanza privata e quelle di investigazione sono nettamente distinte. Mentre le prime, in quanto includono attività che comportano rischi per le persona coinvolte, compreso quelli derivanti dal ricorso all’uso delle armi, giustificano l’adozione di misure restrittive della libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, le attività di investigazione, invece, rientrano nella sfera di applicazione della disciplina comunitaria relativa ai servizi nel mercato interno (direttiva 2006/123/CE, c.d. direttiva servizi recepita con il D.Lgs. 59/2010) in base alla quale un regime autorizzatorio per le attività di prestazione dei servizi può essere adottato solamente in presenza di specifiche condizioni: regioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente (art. 16 dir. 2006/123/CE e art. 20, comma 2, D.Lgs. 59/2010).
La disposizione in
commento è intesa a risolvere uno dei rilievi avanzati dalla Commissione
nell’ambito della procedura EU Pilot[3] 3690/12/MARKT.
Con tale procedura, avviata sulla base di una denuncia, la Commissione europea ha rilevato la possibile incompatibilità con il diritto dell’Unione di alcune disposizioni nazionali che configurerebbero restrizioni al diritto di stabilimento e libera prestazione dei servizi di vigilanza privata e dei servizi di investigazione. In particolare la Commissione segnala che:
·
l’art. 134 del testo unico 18 giugno 1931, n.
773, delle leggi di pubblica sicurezza e l’art. 257-bis del relativo regolamento di esecuzione (regio decreto del 6
maggio 1940, n. 635) prescrivono l’ottenimento di un’autorizzazione per gli
operatori che intendano fornire servizi di investigazione privata e servizi di
vigilanza.
Ad
avviso della Commissione, i servizi di investigazione privata – a differenza
dei servizi di vigilanza per i quali, comportando essi rischi per le persone
coinvolte ed eventuale ricorso ad armi, l’interpretazione è più articolata -
rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, che prevede una distinzione tra i casi
di stabilimento e i casi di libera prestazione di servizi. Nei casi di stabilimento gli Stati membri possono subordinare
l’accesso ad un’attività di servizio e il suo esercizio ad un regime di
autorizzazione soltanto a determinate
condizioni e, in particolare, se il
regime di autorizzazione non è discriminatorio nei confronti del prestatore e
nel caso in cui debbano essere tutelate ragioni di interesse pubblico. Nei casi
di libera prestazione di servizi,
gli Stati membri non possono imporre requisiti che non rispondano ai principi
di: non discriminazione; proporzionalità e necessità. La Commissione chiede
dunque all’Italia di spiegare come mai si sia scelto il regime
dell’autorizzazione invece di soluzioni meno restrittive e chiede altresì di
sapere se tale regime di autorizzazione sia richiesto anche per la libera prestazione di servizi.
In risposta alle richieste della Commissione europea, con nota del Ministero dell’Interno del 27 giugno 2013, il Governo ha segnalato che, con il decreto legislativo n. 59 del 2008, sono state introdotte modifiche al testo unico e al relativo regolamento (art. 134-bis del testo unico e art. 260-bis del regolamento) su richiesta della stessa Commissione. Di conseguenza è stabilito che l’autorizzazione per poter operare in regime di stabilimento viene rilasciata agli istituti stabiliti in un altro Stato membro tenuto conto degli adempimenti e degli oneri già assolti nello Stato di origine e che gli istituti di vigilanza e di investigazione privata stabiliti in altri paesi dell’Unione possono conseguire la licenza a parità di condizioni con quelle nazionali. Per quanto riguarda la libera prestazione di servizi, l’art. 260-bis del regolamento di esecuzione prevede che gli istituti (sia di investigazione sia di vigilanza) stabiliti in altri paesi dell’UE possano svolgere attività occasionali o transfrontaliere senza conseguire la licenza nel nostro paese, con un iter autorizzatorio agevolato. Tuttavia, sulla base delle richieste avanzate dalla Commissione, anche per le vie brevi, di rendere più semplice l’iter per gli istituti di investigazione rispetto a quelli di vigilanza, il Governo propone l’intervento normativo di cui all’art. 4 in esame che contempla per le imprese di investigazione privata la possibilità di svolgere attività occasionale o transfrontaliera previa notifica alla competente autorità nazionale, presentata almeno dieci giorni prima dell’inizio dell’attività;
·
gli artt.
257, 257-bis e 257-ter del regolamento esecutivo impongono,
al momento di richiedere la licenza, di dichiarare
l’ambito territoriale in cui si intenda svolgere l’attività, introducono
l’obbligo di possedere qualifiche professionali, oltre alla capacità tecniche,
e fissano un obbligo di notifica nel caso in cui si dovesse esercitare fuori
dall’ambito territoriale dichiarato.
Su
tale aspetto, nel richiamare la sentenza emessa dalla Corte di giustizia
europea nei confronti dell’Italia nella causa C-465/05, la Commissione europea rileva che i limiti territoriali alle autorizzazioni
per servizi di vigilanza privata sono in contrasto con il trattato e dunque
chiede alle autorità italiane di eliminare tale requisito sia per i servizi
investigativi sia per i servizi di vigilanza privata.
Secondo
il Governo, la normativa italiana non
impone un limite territoriale prestabilito ma richiede al prestatore di
opera di determinare l’ambito in cui intenda operare (ambito che può coincidere
con una o più province o regioni o anche con l’intero territorio nazionale);
·
in relazione agli artt. 257 e 257-bis del regolamento di esecuzione, il
decreto ministeriale 1 dicembre 2010, n. 269, stabilisce, oltre alla capacità
tecnica, requisiti professionali minimi
per il titolare della licenza e gli altri componenti l’impresa e impone requisiti finanziari relativi ai
capitali e ai beni dell’impresa che richieda il rilascio della licenza.
Per
quanto riguarda i requisiti minimi professionali, dalla denuncia ricevuta
risulterebbe alla Commissione europea che i requisiti richiesti ostacolerebbero i prestatori di servizi di altri
Stati membri dato il loro carattere specifico, quale aver prestato servizio presso istituti nazionali o
aver partecipato a determinati programmi.
Su tale aspetto la Commissione chiede alle autorità italiane di sapere se tali
professioni siano o meno regolamentate
e, in caso positivo, come vengano prese in considerazione le qualifiche
professionali ottenute presso altri Stati membri e come si differenzino i casi
di libertà di stabilimento da quelli di libera prestazione dei servizi.
Secondo
quanto indicato dal Governo nella citata nota, non essendo state ancora
regolamentate le professioni di guardia
giurata e di responsabile di un’impresa di vigilanza privata, al momento è
richiesto che, prima dell’entrata in servizio, si segua un percorso formativo di almeno 48 ore, su tematiche professionali,
curato dall’impresa di vigilanza. Tale requisito vale per coloro che intendano
ottenere il riconoscimento nel nostro paese e non per coloro che siano già stati riconosciuti in altri Stati membri,
per i quali si tiene conto delle selezioni, della formazione e delle
valutazioni di pubblica scurezza effettuate nel paese d’origine (articolo 138
del TULPS). Per i titolari di impresa i
requisiti richiesti sono: il diploma di scuola media superiore, l’esperienza
professionale presso imprese di vigilanza non necessariamente nazionali o la
frequenza di corsi di formazione a livello universitario in materia di
vigilanza privata. Tali requisiti non si applicano ai soggetti già stabiliti
presso altri Stati membri.
Per
quanto riguarda i requisiti finanziari
si tratterebbe di una cauzione da
versare a un organismo nazionale. La Commissione chiede di sapere se tale
requisito si applichi anche alle prestazioni di servizi transfrontalieri e se
le garanzie ottenute in altri Stati membri vengano tenute in considerazione.
Il Governo chiarisce che, come previsto dall’articolo 260-bis
del regolamento di esecuzione del TULPS, si deve tener conto degli adempimenti
economici assolti nello Stato di origine. Pertanto, una nuova cauzione non è
necessaria se quella versata presso lo Stato di origine sia adeguata per
ammontare a quella richiesta in Italia e assistita da idonea clausola di
pagamento a favore delle competenti autorità italiane, a richiesta del
prefetto, ai fini dell’eventuale incameramento totale o parziale. In ogni caso,
la cauzione non è richiesta per i servizi transfrontalieri o occasionali.
Articolo 5
(Modifiche
al regime fiscale applicabile ai contribuenti che pur essendo fiscalmente
residenti in un altro Stato membro dell’UE o SEE, producono e/o ricavano la
maggior parte del loro reddito in Italia (c.d. “non residenti Schumacker”).
Procedura di infrazione 2013/2027)
L’articolo 5, al fine di sanare la procedura di infrazione 2013/2027, estende le agevolazioni fiscali – in termini di deduzioni, detrazioni e regime fiscale agevolato dei cd. “minimi” – previste per i soggetti residenti nel territorio dello Stato ai contribuenti che, pur essendo fiscalmente residenti in un altro Stato membro dell’UE o dello Spazio economico europeo (SEE), producono almeno il 75% del proprio reddito complessivo in Italia (cd. “non residenti Schumacker”).
Per questi ultimi l’IRPEF sarà calcolato dunque in base alle norme ordinarie, senza le vigenti limitazioni agli oneri deducibili dal reddito o detraibili dall’imposta lorda; alle condizioni di legge, essi saranno dunque eleggibili per l’applicazione del regime dei cd. “contribuenti minimi”.
Viene al fine modificato, in primo luogo, l’articolo 24 del Testo unico delle imposte sui redditi – TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986), che precisa le modalità di calcolo dell’IRPEF nei confronti dei soggetti non residenti.
Si rammenta in merito che, ai sensi delle norme generali, nei confronti dei soggetti non residenti l’IRPEF trova applicazione secondo le regole ordinarie, con due significative eccezioni:
§ una limitazione della disciplina degli oneri deducibili; per i non residenti potranno essere dedotti dall’imponibile solo alcuni oneri e, in particolare, quelli dall’articolo 10, comma 1, lettere a), g), h), i), e l). Si tratta rispettivamente di somme e canoni gravanti sui redditi degli immobili che concorrono a formare il reddito complessivo; di contributi, donazioni e oblazioni erogati in favore delle organizzazioni non governative; di indennità per perdita dell'avviamento corrisposte per disposizioni di legge al conduttore in caso di cessazione della locazione di immobili urbani adibiti ad usi diversi da quello di abitazione; di erogazioni liberali in denaro a favore dell'Istituto centrale per il sostentamento del clero della Chiesa cattolica italiana; di erogazioni liberali ad altre confessioni religiose;
§ una limitazione degli oneri detraibili dall’imposta lorda. Ai non residenti si applicano le sole detrazioni di cui all’articolo 13 TUIR (per redditi di lavoro dipendente e assimilati), all'articolo 16-bis TUIR (per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici) nonché quelle di cui all’ articolo 15, comma 1, lettere a), b), g), h), h-bis) e i) TUIR (relative a interessi su mutui agrari ed interessi sui mutui per l’acquisto della “prima casa”, a spese per manutenzione e restauro delle cose vincolate, per finalità culturali, per il settore dello spettacolo). Le detrazioni per carichi di famiglia non competono.
Al fine di sanare la suddetta procedura di infrazione, viene quindi aggiunto il comma 3-bis al richiamato articolo 24, ai sensi del quale - in deroga alle disposizioni generali - nei confronti di alcuni soggetti non residenti in Italia l’IRPEF si applica secondo le regole generali del TUIR (articoli da 1 a 23, senza dunque le predette limitazioni, alle seguenti condizioni concomitanti:
§ che si tratti di soggetti residenti in uno dei Paesi membri dell’Unione europea o in uno Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo che assicuri un adeguato scambio di informazioni;
§ che il reddito prodotto in Italia sia pari almeno al 75 per cento del reddito dagli stessi complessivamente prodotto;
§ che nello Stato di residenza manchino agevolazioni fiscali analoghe.
Viene per coordinamento modificato anche l’articolo 1, comma 99 della legge finanziaria 2008 (legge n. 244 del 2007), che reca la disciplina dei cd. “contribuenti minimi”, al fine di includere in tale regime agevolato anche i soggetti non residenti, alle predette condizioni.
Il vigente articolo 99, comma 1, lettera b) non considera infatti i soggetti non residenti eleggibili per il regime agevolato dei contribuenti minimi.
Si ricorda che il regime dei cd. “minimi” (istituito dalla richiamata legge finanziaria 2008, in articolo 1, commi da 96 a 117, della L. 24 dicembre 2007, n. 244) prevede in sintesi:
§
esclusione
dalla soggettività passiva ai fini IRAP;
§ applicazione - anche per le imprese - del criterio di cassa ai fini della determinazione del reddito;
§
assoggettamento
del reddito ad imposta sostitutiva di IRPEF e addizionali;
§ estensione dell’ambito applicativo del regime di franchigia IVA di cui all’articolo 32-bis del D.P.R. n. 633 del 1972 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto);
§
esclusione
dell’applicazione degli studi di settore;
§
riduzione
degli adempimenti contabili.
Tale regime è stato profondamente innovato dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98 per favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani o di coloro che perdono il lavoro.
Di conseguenza potranno godere del regime agevolato dei minimi, sussistendone le condizioni di legge, anche i soggetti residenti in uno degli Stati Membri dell’Unione europea o in uno Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo che assicuri un adeguato scambio di informazioni, i cui redditi siano prodotti nel territorio dello Stato italiano in misura pari almeno al 75 per cento del reddito complessivamente prodotto.
L’art. 5 del disegno di legge europea è volto a sanare la procedura di infrazione 2013//2027.
Il 25 aprile 2013 la Commissione europea ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora nella quale solleva rilievi sulla possibile incompatibilità con il diritto europeo, in particolare con i principi relativi alla libera circolazione delle persone, dei lavoratori dipendenti e autonomi di cui agli artt. 21, 45 e 49 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE), di alcune disposizioni del DPR 917/86 di approvazione del testo unico imposte sul reddito (TUIR), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), del D.L. del 29 dicembre 2011, n. 216, della legge del 24 dicembre 2012, n 288 e della legge del 24 dicembre 2007, n. 244, in quanto stabiliscono una serie di detrazioni e deduzioni fiscali, nonché un regime agevolato per i cosiddetti “contribuenti minimi, a beneficio dei contribuenti residenti nel territorio italiano, e non per i cittadini residenti in un altro Stato aderente all’UE e al SEE che si trovino in situazione comparabile.
La Commissione ricorda che la Corte di giustizia dell’UE, nella sentenza emessa nella causa C-279/93 (Schumacker), ha invece stabilito che principi in materia di libera circolazione delle persone e, in particolare, dei lavoratori dipendenti previsti dal TFUE e dall’Accordo sullo Spazio economico europeo, non consentono ad uno Stato membro di trattare un cittadino di un altro Stato membro — il quale, essendosi avvalso del proprio diritto di libera circolazione, svolge un'attività lavorativa subordinata nel territorio del primo Stato — meno favorevolmente di un cittadino nazionale che si trovi nella stessa situazione.
La sentenza, in deroga al principio generale secondo cui i contribuenti residenti e non residenti si trovano in situazioni oggettivamente diverse nei confronti del Fisco di un determinato Stato membro, stabilisce, in particolare, che i non residenti che producono e/o ricavano la parte preponderante delle proprie risorse imponibili nello Stato di occupazione, si trovano in una condizione comparabile a quella dei residenti. Lo Stato membro in cui il soggetto esercita la propria occupazione o da cui trae le proprie risorse deve, quindi, secondo la Corte, applicare lo stesso regime fiscale, incluse le agevolazioni, previste a beneficio dei residenti.
Articolo 6
(Disciplina in materia d’imposta di
successione. Esenzione in favore degli organismi senza scopo di lucro
fondazioni e associazioni costituite all’estero e titoli di stato). Procedure
di infrazione 2012/2156 e 2012/2157)
L’articolo 6 apporta modifiche alla disciplina dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni; in primo luogo equipara gli enti pubblici, le associazioni e le fondazioni istituite in uno stato UE o SEE a quelli italiani, ai fini del godimento del regime fiscale agevolato riconosciuto dalla legge in relazione alla predetta imposta.
Sono infine esentati da imposta sulle successioni i titoli del debito pubblico e gli altri
titoli similari emessi da altri Stati aderenti all’UE o allo SEE.
Le modifiche intendono sanare due procedure di infrazione (2012/2156 e 2012/2157) relative a taluni regimi di esenzione dalle imposte sulle successioni e sulle donazioni, entrambe avviate il 26 febbraio 2013, con l’invio, da parte della Commissione europea, di una lettera di messa in mora.
Con le disposizioni in commento si apportano modifiche alla disciplina dell’imposta sulle donazioni e sulle successioni, disciplinata dal decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346.
Più in dettaglio, viene novellato il comma 4 dell’articolo 3 (lettera a)), che reca l’elenco dei trasferimenti non soggetti all'imposta.
In sintesi, non sono soggetti all'imposta i trasferimenti a favore dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni, né quelli a favore di enti pubblici e di fondazioni o associazioni legalmente riconosciute, che hanno come scopo esclusivo l'assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l'educazione, l'istruzione o altre finalità di pubblica utilità, nonché quelli a favore delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) e a fondazioni bancarie; i trasferimenti che, pur effettuati a favore di enti diversi dai predetti, hanno gli stessi scopi; i trasferimenti a favore di movimenti e partiti politici; i trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta. La legge prevede specifiche condizioni per le suddette esenzioni.
Ai sensi del vigente comma 4, le esenzioni operano a condizione di reciprocità per gli enti pubblici esteri e per le fondazioni e associazioni costituite all'estero.
Per effetto delle modifiche apportate dalle norme in esame, invece, le esenzioni si estendono in automatico per gli enti pubblici, le fondazioni e le associazioni istituiti negli Stati appartenenti all’Unione europea e negli Stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo; resta ferma la condizione di reciprocità per gli enti pubblici, le fondazioni e le associazioni istituiti in tutti gli altri Stati.
La lettera b) apporta modifiche al comma 1 dell’articolo 12, che elenca i beni i quali non fanno parte dell’attivo ereditario.
Più in dettaglio si precisa che non concorrono a formare l'attivo ereditario, dunque non sono colpiti da imposta:
§ accanto ai titoli del debito pubblico (tra cui BOT e CCT), anche i titoli del debito pubblico emessi dagli Stati appartenenti all’Unione europea e dagli Stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo (lettera b), numero 1), che modifica la lettera h) del comma 1);
§ oltre agli altri titoli di Stato, garantiti dallo Stato o equiparati, nonché ogni altro bene o diritto, dichiarati esenti dall'imposta da norme di legge, anche i titoli di Stato e gli altri titoli ad essi equiparati emessi dagli Stati appartenenti all’Unione europea e dagli Stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo (lettera b), numero 2), che modifica la lettera i) del comma 1).
L’art. 6 del disegno di legge europea interviene a sanare due procedure di infrazione (2012/2156 e 2012/2157) relative a taluni regimi di esenzione dalle imposte sulle successioni e sulle donazioni, entrambe avviate il 26 febbraio 2013, con l’invio, da parte della Commissione europea, di una lettera di messa in mora.
Entrambe le procedure di infrazione sollevano dubbi sulla possibile incompatibilità, di talune disposizioni del decreto legislativo n. 346 del 1990 (Testo unico sull’imposta sulle successioni e donazioni, TUSD) con il principio di libera circolazione dei capitali previsto dall’art. 63 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE).
In particolare, con la procedura di infrazione 2012/2156 la Commissione rileva che l’art. 3 del TUSD stabilisce l’esenzione dall’imposta di successione per le fondazioni e le associazioni legalmente riconosciute che hanno come scopo esclusivo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione o altre o altre finalità di pubblica utilità, nonché per le ONLUS e le fondazioni bancarie che siano residenti in Italia. Per gli enti pubblici esteri e per le fondazioni e associazioni costituite all’estero il medesimo regime fiscale vantaggioso è riconosciuto solo a condizione di reciprocità, ovvero se e in quanto l’Italia abbia concluso un accordo con le autorità dei rispettivi Stati di residenza dei suddetti organismi, accordo che preveda che i trasferimenti mortis causa a beneficio di organismi senza scopo di lucro italiani non siano soggetti ad un’imposta di successione o equivalente in tale Stato.
Ad avviso della Commissione, la previsione di una condizione di reciprocità costituisce un ostacolo per il soggetto che effettua il testamento alla sua libertà di disporre il trasferimento di beni a favore di organismi senza scopo lucro residenti in uno Stato membro dell’Ue o in un Paese dello SEE con i quali non siano stati conclusi accordi di reciprocità. In questo caso, infatti, i suddetti organismi sarebbero soggetti ad imposta, anziché esentati.
Nella procedura di infrazione 2012/2157 la Commissione europea rileva che l’art. 12 del TUSD prevede che i titoli del debito pubblico italiano (buoni ordinari del tesoro e certificati del credito del tesoro), nonché gli altri titoli di Stato italiani, non concorrono a formare l’attivo ereditario. Anche questa disposizione, ad avviso della Commissione, potrebbe violare il sopra citato principio di libera circolazione dei capitali: la legislazione italiana, infatti, non prevede un analogo regime di esclusione dall’asse ereditario per i titoli del debito pubblico e gli altri titoli similari emessi da altri Stati aderenti all’UE o allo SEE. Si verrebbe pertanto a configurare un effetto discriminatorio, dal momento che ai fini dell’imposta di successione il regime più gravoso a cui sono soggetti i titoli esteri è idoneo a disincentivare l’investimento in tali beni.
Articolo 7
(Modifiche alla disciplina delle Imposte
sul Valore delle Attività Finanziarie all’Estero (IVAFE) - Caso EU Pilot 5095/13/TAXU)
L’articolo 7, apportando modifiche all’articolo 19 del D.L. n. 201 del 2011, restringe l’ambito oggettivo dell’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE) dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato. Si prevede in particolare che, a decorrere dall’anno 2014, l’imposta è dovuta sul valore dei prodotti finanziari, dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all’estero, in luogo della precedente formulazione che la rapportava al più ampio concetto di “attività finanziarie”.
La norma in commento è finalizzata a risolvere i rilevi mossi dalla Commissione europea nell’ambito del Caso EU Pilot 5095/12/TAXU. In particolare la Commissione ha evidenziato criticità relative all’applicazione della disciplina dell’IVAFE con riferimento alla disparità di trattamento che si determina rispetto alla norma concernente l’applicazione dell’imposta di bollo sui prodotti finanziari (articolo 13, comma 2-ter, della Tariffa allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642). Nello specifico è stato rilevato che la normativa sul bollo si applica ai “prodotti finanziari” (ivi compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati), mentre quella dell’IVAFE si applica attualmente alle “attività finanziarie”. Ciò determina una disparità di trattamento tra attività finanziarie detenute in Italia e attività finanziare detenute all’estero.
L’articolo 7, modificando i commi 18, 20 e 21 dell’articolo 19 del D.L. n. 201 del 2011, uniforma l’ambito oggettivo di applicazione delle due discipline facendo riferimento, per entrambe, ai “prodotti finanziari”.
In particolare la lettera a) modifica il comma 18 prevedendo che l’imposta è dovuta sul valore dei prodotti finanziari, dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti in Italia.
Al riguardo si rammenta che l’Agenzia delle entrate, con la circolare 28/E del 2 luglio 2012, ha chiarito l’ambito oggettivo dell’attuale versione, elencando le attività finanziarie soggette ad imposta:
§ partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti residenti o non residenti, obbligazioni italiane o estere e i titoli similari, titoli pubblici italiani e i titoli equiparati emessi in Italia o all’estero, titoli non rappresentativi di merce e certificati di massa (comprese le quote di OICR), valute estere, depositi e conti correnti bancari costituiti all’estero indipendentemente dalle modalità di alimentazione (ad esempio, accrediti di stipendi, di pensione o di compensi);
§ contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui, finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli, nonché polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione stipulate con compagnie di assicurazione estere;
§ contratti derivati e altri rapporti finanziari stipulati al di fuori del territorio dello Stato;
§ metalli preziosi allo stato grezzo o monetato;
§ diritti all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni estere o strumenti finanziari assimilati;
§ ogni altra attività da cui possono derivare redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria di fonte estera.
Con la modifica apportata dall’articolo 7 saranno soggetti ad IVAFE solo i prodotti finanziari, i conti correnti e i libretti di risparmio detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti in Italia.
Si evidenzia che il comma 20 dell’articolo 19 del D.L. n. 201 del 2011 prevede che per i conti correnti e i libretti di risparmio l'imposta è stabilita in misura fissa pari a quella prevista dall'articolo 13, comma 2-bis, lettera a), della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 642 del 1972, ovvero 34,20 euro. Tale misura va applicata con riferimento a ciascun conto corrente o libretto di risparmio detenuti all’estero dal contribuente. L’imposta in misura fissa non è dovuta qualora il valore medio di giacenza annuo risultante dagli estratti conto e dai libretti sia non superiore a euro 5.000.
La lettera b) modifica il comma 20 sostituendo dove ricorrono le espressioni “attività finanziarie” con “prodotti finanziari”. Il comma 20 concerne la misura dell’imposta, fissata al 1,5 per mille. Si evidenzia che il disegno di legge di stabilità per il 2014 (A.C. 1865) prevede l’innalzamento di tale misura al 2 per mille a decorrere dal 2014.
La lettera c) sostituisce al comma 21 l’espressione “attività finanziaria” con “prodotti finanziari, i conti correnti e i libretti di risparmio”. Il comma 21, al fine di evitare una doppia imposizione, prevede un credito di imposta pari all’importo dell’eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato estero in cui sono detenute le attività finanziarie, che si detrae dall’IVAFE. Il credito d’imposta non può in ogni caso superare l’imposta dovuta in Italia.
Il comma 2 fa decorrere la norma sopra descritta dal periodo d’imposta relativo all’anno 2014.
La norma, restringendo l’ambito di applicazione dell’imposta, determina una perdita di gettito stimata dalla relazione tecnica in settecentomila euro a decorrere dal 2014.
IVAFE
Il D.L. n. 201 del 2011 ha introdotto l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE), disciplinata dai commi da 18 a 21 dell’articolo 19. Base imponibile è il valore di mercato delle attività finanziarie, rilevato al termine di ciascun anno solare nel luogo in cui esse sono detenute, anche utilizzando la documentazione dell’intermediario estero di riferimento e, in mancanza, secondo il valore nominale o di rimborso. Dall’imposta si deduce, per evitare fenomeni di doppia imposizione, un credito d’imposta, fino a concorrenza del suo ammontare, pari al valore dell’eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui sono detenute le predette attività finanziarie. Per quanto concerne i versamenti, la liquidazione, l’accertamento e la riscossione, le sanzioni, i rimborsi e il contenzioso la normativa rimanda alla disciplina in materia di IRPEF.
La legge di stabilità per il 2013 (L. n. 228 del 2012, articolo 1, commi 518-519) ha previsto il differimento dell'istituzione dell'IVAFE dal 2011 al 2012; i versamenti già effettuati per l’anno 2011 si considerano eseguiti in acconto per l’anno 2012.
La misura dell’imposta, attualmente dell’1,5 per mille, a decorrere dal 2013, è stata incrementata al 2 per mille a decorrere dal 2014 dall’articolo 1, comma 392, del disegno di legge di stabilità 2014 (attualmente all’esame della Camera). Tale comma, inserito nel corso dell’esame al Senato, armonizza l’aliquota dell’IVAFE all’incremento disposto dal precedente comma 391 dell'imposta di bollo sulle comunicazioni periodiche alla clientela relative a prodotti finanziari, compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati. Il coordinamento si è reso necessario al fine di evitare che un regime fiscale più appetibile all’estero non provocasse una fuoriuscita di capitali dall’Italia.
Nell’ambito della procedura EU Pilot[4] 5095/13TAXU, la Commissione europea ha rilevato la possibile incompatibilità con il diritto europeo di alcune disposizioni - contenute nel D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, come modificato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16 - concernenti l’imposta di bollo su conti correnti, titoli, strumenti e prodotti finanziari e su attività finanziarie detenute all’estero. In particolare, la Commissione contesta la disparità di trattamento tra l’imposta di bollo sui prodotti finanziari e quella sulle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE).
Più specificamente, la Commissione osserva che l’IVAFE si applica sulle seguenti attività finanziarie se detenute all’estero:
- partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti residenti o non residenti; obbligazioni italiane o estere e titoli similari; titoli pubblici italiani e titoli equiparati emessi in Italia o all’estero; titoli non rappresentativi di merce e certificati di massa (comprese le quote di OICR); valute estere; depositi e conti correnti bancari costituiti all’estero;
- contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui: finanziamenti; riporti; pronti contro termine; prestito titoli; polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione stipulate con compagnie estere;
- contratti derivati e altri rapporti finanziari stipulati al di fuori del territorio dello Stato;
- metalli preziosi allo stato grezzo o monetato;
- diritti all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni estere o strumenti finanziari assimilati;
- ogni altra attività da cui possono derivare redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria.
Ad avviso della Commissione, questa nozione di “attività finanziarie” detenute all’estero e soggette ad IVAFE è più ampia di quella di prodotti finanziari soggetti ad imposta di bollo: a titolo esemplificativo, si osserva che l’IVAFE viene applicata in caso di detenzione di quote di società a responsabilità limitata estere, mentre le quote di SRL italiane non sono soggette all’imposta di bollo. Il diverso trattamento fiscale degli investimenti di natura finanziaria, a seconda che siano effettuati in Italia o in un altro Stato membro dell’UE o dello Spazio economico europeo (SEE), determinerebbe una violazione del principio di libera circolazione dei capitali sancito dall’art. 63 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) e dall’art. 40 dell’Accordo sullo Spazio economico europeo.
La Commissione rileva altresì che l’IVAFE impone alle persone fisiche
(fiscalmente) residenti in Italia l’obbligo
di dichiarare annualmente in Italia tutti i conti correnti, i depositi e le
altre attività finanziarie detenute
al’estero. Questa norma contrasterebbe
con il Protocollo sui privilegi e le immunità del personale impiegato presso le
Istituzioni dell’UE, in base al quale “i funzionari e altri agenti
dell’Unione sono esenti da imposte nazionali sugli stipendi, salari ed
emolumenti versati dall’Unione”, dal momento che i loro redditi risultano tassati
dalla medesima Unione europea. Pertanto, gli Stati membri – e quindi anche
l’Italia - non possono imporre – direttamente o indirettamente ulteriori
obblighi dichiarativi e/o impositivi per quanto concerne i redditi agli stessi
corrisposti dalle Istituzioni dell’UE.
Sotto questo secondo profilo, nella risposta inviata il 19 luglio scorso, il Ministero dell’economia e delle finanze non rileva un incompatibilità dell’IVAFE con il Protocollo sui privilegi e le immunità, laddove esenta dall’imposizione gli stipendi, i salari e gli altri emolumenti connessi al rapporto di lavoro: infatti, oggetto dell’imposizione è il conto corrente su cui affluiscono tali emolumenti, a prescindere dalle componenti che lo alimentano. Ad avviso del Ministero, rapportare l’imposta all’ammontare dei soli accrediti non derivanti da stipendi comporterebbe un onere eccessivo a carico dell’amministrazione fiscale.
Nella successiva replica, la Commissione europea chiede alle autorità italiane di chiarire come il versamento di stipendi e di emolumenti equivalenti sul conto corrente del personale delle Istituzioni dell’UE possa far perdere a questi ultimi la loro peculiarità, trasformandoli in un’indefinita attività finanziaria, anche qualora, in ipotesi, su tale conto corrente non confluiscano accrediti di fonti diverse. Inoltre, ad avviso della Commissione, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, l’esclusione dagli obblighi dichiarativi in sede nazionale dei redditi corrisposti dall’UE non può essere in alcun modo legata agli eventuali oneri amministrativi di accertamento da parte delle amministrazioni nazionali.
E’ all’esame delle
Istituzioni dell’UE la proposta di modifica della direttiva della
direttiva 2003/48/CE
sulla tassazione dei redditi da
risparmio (COM(2008)727),
presentata dalla Commissione europea il 13 novembre 2008 il 13 novembre 2008.
La proposta mira ad estendere il campo di applicazione della direttiva, basato sullo scambio automatico di informazioni, per includervi non solo i pagamenti di interessi ma anche tutti i redditi da risparmio, nonché i prodotti che generano interessi o redditi equivalenti.
Tale proposta è strettamente connessa al negoziato in corso tra la Commissione europea e alcuni Stati terzi (Svizzera, Andorra, Liechtenstein, San Marino, Principato di Monaco) per la revisione degli accordi in materia di tassazione dei redditi da risparmio, al fine di introdurre - anche in questi accordi - il principio dello scambio automatico delle informazioni.
Il Parlamento europeo,
che su questa materia viene solo consultato, si è già espresso favorevolmente
il 24 aprile 2009. Il negoziato in seno al Consiglio dell’UE è tuttora bloccato
a causa dell’opposizione, in
particolare, dei Governi di Lussemburgo e
Austria, che sono contrari a qualsiasi ipotesi di attenuazione del segreto bancario e subordinano l’adozione di
una normativa comune a livello UE alla stipula di accordi di contenuto analogo
con i sopra citati Stati terzi, che attualmente contendono loro il primato di
sedi privilegiate per il deposito dei redditi da risparmio.
Articolo 8
(Riscossione coattiva dei debiti aventi
ad oggetto entrate che costituiscono risorse proprie ai sensi della decisione
2007/436/CE, Euratom del Consiglio)
L’articolo 8 dispone che, per la riscossione di somme da corrispondere a titolo di dazi doganali e dell’Iva all’importazione, di ammontare fino a mille euro, non si applica la sospensione di 120 giorni delle azioni cautelari ed esecutive, decorrenti dall’invio al debitore delle comunicazioni concernenti il dettaglio delle iscrizioni a ruolo.
Più in dettaglio, le norme in esame stabiliscono che alle entrate che costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio dell’Unione Europea non si applichi quanto previsto dall’articolo 1, comma 544 della legge n. 228 del 2012 (legge di stabilità 2013).
La richiamata norma prevede che, in tutti i casi di riscossione coattiva di debiti fino a mille euro intrapresa successivamente al 1° gennaio 2013, non si proceda alle azioni cautelari ed esecutive prima del decorso di centoventi giorni dall'invio, mediante posta ordinaria, di una comunicazione contenente il dettaglio delle iscrizioni a ruolo, fatto salvo il caso in cui l'ente creditore abbia notificato al debitore la comunicazione di inidoneità della documentazione da lui prodotta per dimostrare l’infondatezza della pretesa tributaria (ai sensi dell’articolo 1, comma 539 della richiamata legge di stabilità 2013).
La legge di stabilità 2012 ha introdotto, ai commi da 537 a 545 dell’articolo 1, disposizioni volte, nel complesso, a semplificare i flussi informativi tra fisco e contribuente, ove la pretesa tributaria sottesa alle procedure di riscossione non possa essere soddisfatta (in via temporanea o definitiva) per ragioni formali o sostanziali.
Per effetto delle norme in commento (comma 537), gli enti e le società incaricate della riscossione dei tributi dal 1° gennaio 2013 hanno l’obbligo di sospendere immediatamente ogni ulteriore iniziativa finalizzata alla riscossione delle somme iscritte a ruolo o affidate, ove intervenga una dichiarazione del debitore sulla base della quale - alle condizioni di legge – la pretesa tributaria appaia infondata. A tale scopo, entro novanta giorni dalla notifica del primo atto di riscossione utile o di un atto della procedura cautelare o esecutiva eventualmente intrapresa, il contribuente presenta all’agente della riscossione una dichiarazione - anche con modalità telematiche - con la quale venga documentato che gli atti emessi dall'ente creditore prima della formazione del ruolo, ovvero la successiva cartella di pagamento o l'avviso per i quali si procede, sono stati interessati:
· da prescrizione o decadenza del diritto di credito sotteso, intervenuta in data antecedente a quella in cui il ruolo è reso esecutivo;
·
da un
provvedimento di sgravio emesso dall'ente creditore;
·
da una
sospensione amministrativa comunque concessa dall'ente creditore;
·
da una
sospensione giudiziale, oppure da una sentenza che abbia annullato in tutto o
in parte la pretesa dell'ente creditore, emesse in un giudizio al quale il concessionario
per la riscossione non ha preso parte;
· da un pagamento effettuato, riconducibile al ruolo in oggetto, in data antecedente alla formazione del ruolo stesso, in favore dell'ente creditore;
·
da
qualsiasi altra causa di non esigibilità del credito sotteso.
In particolare, il richiamato comma 539 prevede che, entro dieci giorni dalla data di presentazione della dichiarazione del debitore, l’agente della riscossione trasmette all'ente creditore la dichiarazione stessa e la relativa documentazione allegata, al fine di avere conferma dell'esistenza delle ragioni del debitore ed ottenere, in caso affermativo, la sollecita trasmissione della sospensione o dello sgravio direttamente sui propri sistemi informativi.
Decorsi ulteriori sessanta giorni l'ente creditore è comunque tenuto a fornire una risposta, inviata al debitore a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno o a mezzo posta elettronica certificata ai debitori obbligati all'attivazione, che potrà confermare al debitore la correttezza della documentazione prodotta e contestualmente trasmettere in via telematica all’agente della riscossione il provvedimento di sospensione o sgravio, ovvero avvertire il debitore dell'inidoneità di tale documentazione a mantenere sospesa la riscossione, dandone anche in questo caso immediata notizia al soggetto incaricato della riscossione, per la ripresa dell'attività di recupero del credito iscritto a ruolo.
Le disposizioni in esame prevedono che le suddette norme non si applicano, in particolare, a quei dazi e prelievi doganali che costituiscono risorse proprie UE ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2007/436/CE, Euratom del Consiglio del 7 giugno 2007.
La suddetta lettera fa riferimento a prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione del trattato, ormai scaduto, che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero.
E’ all’esame delle
Istituzioni dell’UE, unitamente agli atti legislativi relativi al quadro
finanziario pluriennale 2014-2020, la proposta
di decisione sulle risorse proprie dell'UE (COM(2011)510).
Sulla proposta il Consiglio europeo ha già raggiunto un accordo politico di
principio, quale parte del più ampio compromesso sul QFP 2014-2020; dopo la
pronuncia del Parlamento europeo, secondo la procedura di consultazione, la
proposta dovrebbe essere adottata dal Consiglio
nel corso del 2014.
L’accordo raggiunto dal Consiglio europeo prevede che l’importo totale delle risorse proprie attribuite al bilancio dell’Unione per gli stanziamenti annuali per i pagamenti non superi l'1,23 % della somma degli RNL di tutti gli Stati membri e che l’importo totale degli stanziamenti per gli impegni iscritti nel bilancio dell’Unione non superi l'1,29 % della somma degli RNL di tutti gli Stati membri.
L’accordo prevede le seguenti risorse:
·
risorsa
propria basata sull'imposta sulle transazioni finanziarie. Il 14 febbraio 2013 la Commissione europea ha presentato una proposta di
decisione che attua una cooperazione
rafforzata tra 11 Paesi (Belgio, Germania, Estonia, Grecia, Spagna,
Francia, Italia, Austria,
Portogallo, Slovenia e Slovacchia) nel settore dell’imposta sulle transazioni finanziarie (COM(2013)71).
L’imposta si applicherebbe a tutte
le transazioni di strumenti finanziari tra enti finanziari per le quali almeno
una controparte della transazione sia stabilita all’interno dell’UE. Lo scambio
di azioni e obbligazioni sarebbe tassato con un’aliquota dello 0,1%, mentre per
i derivati l’aliquota sarebbe dello 0,01%. Sarebbero escluse le transazioni con
la BCE e le banche centrali nazionali, con i fondi di stabilizzazione
dell’eurozona (EFSF ed ESM) e con le organizzazioni internazionali riconosciute
dagli Stati membri. Sarebbero altresì esclusi i titoli di Stato collocati nel
mercato primario.
La proposta
segue una procedura legislativa speciale (già procedura di consultazione), che
richiede l’unanimità in seno al Consiglio dell’UE e la mera consultazione del
Parlamento europeo, che ha espresso il parere il 3 luglio scorso. Il negoziato
in seno al Consiglio sta evidenziando alcuni nodi legati, da un lato, al fatto
che alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, hanno già una tassa analoga a livello nazionale e incontrano delle difficoltà nel
passaggio alla soluzione europea; dall'altro, all'individuazione degli elementi
da escludere dall'ambito di applicazione della tassa (Italia, Francia e Spagna richiederebbero l’esenzione dalla tassa
delle transazioni relative ai titoli di
debito pubblico);
Il
Consiglio europeo ha invitato gli Stati membri che partecipano alla
cooperazione rafforzata nel settore dell'imposta sulle transazioni finanziarie,
autorizzata con la decisione del Consiglio del 22 gennaio 2013 ad esaminare
la possibilità che essa possa servire da base per una nuova risorsa
propria del bilancio UE.
Si prevede, altresì, che gli attuali meccanismi di correzione per il Regno Unito continueranno ad applicarsi. Per quanto riguarda gli altri meccanismi di correzione, limitatamente al periodo 2014-2020, l'aliquota di prelievo della risorsa propria basata sull'IVA per la Germania, i Paesi Bassi e la Svezia è fissata allo 0,15% (attualmente per il 2007-2013 è al 0,15% per la Germania; 0,225% per l’Austria; 0,10% per i Paesi Bassi e la Svezia); la Danimarca, i Paesi Bassi e la Svezia beneficeranno di riduzioni lorde del proprio contributo RNL annuo pari rispettivamente a 130 milioni, 695 milioni e 185 milioni di EUR. L'Austria beneficerà di una riduzione lorda del proprio contributo RNL annuo pari a 30 milioni di EUR nel 2014 a 20 milioni di EUR nel 2015 e a 10 milioni di EUR nel 2016.
Su richiesta del Parlamento europeo è stata concordata l’istituzione di un gruppo ad alto livello, composto da membri designati dal Consiglio, dalla Commissione e dal Parlamento europeo, con il compito di rivedere l'attuale sistema UE delle "risorse proprie", con l'obiettivo di assicurare semplicità, trasparenza, equità e controllo democratico. Il gruppo dovrà presentare una prima relazione alla fine del 2014.
I Parlamenti nazionali saranno invitati a una conferenza interistituzionale nel 2016 per valutare l'esito del lavoro del gruppo al alto livello.
Sulla base dei risultati di tale esercizio, la Commissione europea valuterà se saranno necessarie iniziative per nuove risorse proprie per il periodo di programmazione successivo al 2020.
Articolo 9
(Disposizioni attuative del regolamento
(UE) n. 648 del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012
concernente gli strumenti derivati OTC, le controparti centrali e i repertori
di dati sulle negoziazioni)
L’articolo 9 è volto a recepire alcune norme in materia di autorità competenti per il rispetto degli obblighi posti dal regolamento n. 648 del 2012 (c.d. EMIR – European Market Infrastructure Regulation) in capo ai soggetti già vigilati dalle medesime autorità, nonché per l’applicazione delle sanzioni, secondo le rispettive attribuzioni di vigilanza previste dall’ordinamento vigente.
Il
Regolamento (UE) n. 648/2012 del
Parlamento europeo e del Consiglio del 4
luglio 2012 reca norme in materia di strumenti
derivati OTC, controparti centrali
e repertori di dati sulle negoziazioni.
Gli
strumenti derivati OTC sono
generalmente negoziati privatamente. Le informazioni sono di conseguenza
accessibili soltanto alle parti contraenti, per cui diviene difficile
determinare la natura e il livello dei rischi incorsi. Per ovviare a tali
carenze, regolamento si propone di fornire un quadro normativo per determinati
prodotti derivati, quali i contratti derivati OTC (vale a dire, i contratti la
cui esecuzione non ha luogo su un mercato regolamentato), attraverso
l’introduzione di obblighi di
compensazione e di gestione del
rischio bilaterale. Fissa anche norme per gli obblighi di segnalazione per i contratti derivati, nonché obblighi
uniformi per l'esercizio delle attività delle controparti centrali (cioè la persona giuridica che si interpone
tra le controparti di contratti negoziati su uno o più mercati finanziari
agendo come acquirente nei confronti di ciascun venditore e come venditore nei
confronti di ciascun acquirente) e dei repertori
di dati sulle negoziazioni (la persona giuridica che raccoglie e conserva
in modo centralizzato le registrazioni sui derivati).
Il
regolamento si applica a:
Sono
esclusi:
Prodotti derivati
OTC: gestione dei rischi
I
contratti derivati OTC sono soggetti all'obbligo di compensazione da parte di
una controparte centrale. Una volta conclusa, l'autorizzazione deve essere
notificata all'Autorità europea dei
valori mobiliari (AEVM).
L’AEVM
ha il compito di tenere un registro
pubblico in cui siano aggiornate le categorie di prodotti derivati OTC, le
controparti centrali autorizzate, la durata dei contratti derivati. La sede di
negoziazione deve offrire i flussi di dati sulle negoziazioni alla controparte
centrale, su richiesta della controparte stessa. Le controparti finanziarie e
non finanziarie devono fare in modo di misurare, monitorare e attenuare il
rischio operativo e il rischio di credito della controparte, affidandosi a
processi formalizzati solidi.
Controparti centrali:
requisiti e vigilanza
Le
controparti centrali sono soggette ai seguenti requisiti:
Accordi di
interoperabilità
A
seguito dell'approvazione preliminare da parte delle autorità competenti, le
controparti centrali che concludono un accordo di interoperabilità devono:
Repertori di dati
sulle negoziazioni
I
repertori di dati sulle negoziazioni sono dotati di personalità giuridica stabilita nell'UE e sono tenuti a registrarsi
presso l'AEVM. Devono essere dotati di solidi dispositivi di governo
societario, una chiara struttura organizzativa con linee di responsabilità ben
definite.
Autorità competente
Ai
sensi dell’articolo 22 del regolamento,
ogni Stato membro designa l'autorità competente incaricata di
svolgere le funzioni in materia di autorizzazione e vigilanza delle CCP
stabilite sul proprio territorio e ne informa la Commissione e l'AESFEM.
Qualora
uno Stato membro designi più di un'autorità competente, specifica chiaramente i
rispettivi ruoli e designa una sola di esse come responsabile del coordinamento
della cooperazione e dello scambio di informazioni con la Commissione,
l'AESFEM, le autorità competenti degli altri Stati membri, l'ABE e i membri
interessati del SEBC.
Gli
Stati membri, inoltre, assicurano che l'autorità competente disponga dei poteri di vigilanza e di indagine
necessari per l'esercizio delle sue funzioni e che possano essere adottate misure amministrative idonee nei
confronti delle persone fisiche o giuridiche responsabili del mancato rispetto del regolamento. Tali
misure sono efficaci, proporzionate e
dissuasive e possono comprendere la richiesta di azioni correttive entro un
termine stabilito.
L'AESFEM
pubblica sul suo sito web l'elenco delle autorità competenti designate.
L’attuazione del
regolamento n. 648 è avvenuta ad opera della legge europea 2013. In
particolare, tale legge ha:
§ introdotto nel TUF la definizione di "controparti
centrali";
§ ha previsto che la Banca
d'Italia e la CONSOB possano scambiare
informazioni con gli organismi preposti sia alla compensazione che alla
liquidazione delle negoziazioni dei mercati;
§ ha individuato le autorità
competenti ai sensi del regolamento, prevedendo che la Consob è l’autorità competente per il coordinamento della
cooperazione e lo scambio di informazioni con la Commissione UE, l’AESFEM, le
autorità competenti degli altri Stati membri, l’Autorità bancaria europea (ABE)
e i membri interessati del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), nonché
per il rispetto degli obblighi imposti alle controparti non finanziarie; la Banca d’Italia è l’autorità che
istituisce e presiede il collegio di autorità previsto dall’articolo 18 del
regolamento (competente in materia di procedure di autorizzazione e di
vigilanza) e che vigila sul corretto riconoscimento delle controparti centrali
dei paesi terzi;
§ ha attribuito alla Banca d'Italia il compito di disciplinare
il funzionamento dei servizi di
liquidazione (in luogo del servizio di compensazione e di liquidazione,
nonché del servizio di liquidazione su base lorda) delle operazioni aventi a
oggetto strumenti finanziari non derivati;
§ ha disciplinato la procedura
di autorizzazione e l’attività di
vigilanza sulle controparti centrali;
§ ha stabilito che i margini
e le prestazioni di garanzia acquisite
dalle controparti centrali non possono essere oggetto di azioni esecutive o
cautelari da parte dei creditori del singolo partecipante o del gestore della
controparte centrale, anche in caso di apertura di procedure concorsuali.
§ ha previsto la possibilità
per le imprese di investimento e le banche comunitarie autorizzate di accedere
alle controparti centrali.
§ in materia di abusivismo, ha esteso la sanzione (reclusione da sei mesi a
quattro anni e multa da 4.130 euro a 10.329 euro) a chiunque eserciti il ruolo
di controparte centrale, previsto dal regolamento, senza aver ottenuto la
relativa autorizzazione;
§ ha disciplinato le sanzioni amministrative pecuniarie in
tema di disciplina degli intermediari, dei mercati e della gestione accentrata
di strumenti finanziari.
Il comma 1 dell’articolo 9 in esame apporta alcune modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, TUF).
La lettera a) del comma 1, modifica l’articolo 4-quater inserendo un nuovo comma 2-bis, ai sensi del quale la Banca d’Italia, la Consob, l’IVASS e la Commissione di vigilanza sui fondi pensione sono individuate quali autorità competenti per il rispetto degli obblighi posti dal regolamento.
Si ricorda che il comma 1 del medesimo articolo ha già individuato la Banca d'Italia e la Consob quali autorità competenti per l'autorizzazione e la vigilanza delle controparti centrali.
La lettera b) sostituisce il primo periodo del comma 3 del medesimo articolo 4-quater, specificando che la Consob è l’autorità competente nei confronti delle controparti non finanziarie che non siano soggetti vigilati da altra autorità, per il rispetto degli obblighi previsti in materia di segnalazione, compensazione e attenuazione dei rischi dei contratti derivati OTC non compensati mediante CCP.
La precedente formulazione non conteneva il riferimento ai soggetti non vigilati da altre autorità.
La lettera c) sostituisce il comma 3 dell’articolo 193-quater, in materia di informazione societaria e doveri dei sindaci, dei revisori legali e delle società di revisione legale, prevedendo che le sanzioni amministrative ivi previste sono applicate dalla Consob, dalla Banca d’Italia, dall’IVASS e dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione secondo le rispettive attribuzioni di vigilanza.
La precedente formulazione non conteneva il richiamo alle autorità di vigilanza.
Il 20 ottobre 2011 la Commissione europea ha presentato un pacchetto di proposte sui mercati finanziari, comprendente:
· una proposta di direttiva relativa ai mercati degli strumenti finanziari che abroga la direttiva 2004/39/CE (COM(2011)656);
· una proposta di regolamento sui mercati degli strumenti finanziari e che modifica il regolamento sugli strumenti derivati over the counter (OTC), le controparti centrali e i repertori di dati sulle negoziazioni (COM(2011)652).
Il pacchetto mira a migliorare la struttura dei mercati attraverso la creazione di nuove piattaforme di negoziazione, a
rafforzare la trasparenza e l’efficienza delle informazioni, a ridurre le attività di negoziazione
speculative e a breve termine, a potenziare la tutela degli investitori. In
particolare, la proposta di regolamento
definisce i requisiti in materia di:
·
comunicazione al pubblico dei dati relativi alla trasparenza delle negoziazioni
e alle autorità competenti dei dati sulle operazioni;
·
rimozione degli ostacoli all'accesso non
discriminatorio ai servizi di
compensazione;
·
negoziazione obbligatoria degli strumenti derivati in sedi organizzate;
·
specifiche azioni di sorveglianza degli strumenti
finanziari e delle posizioni in strumenti derivati;
·
prestazione di
servizi da parte di imprese di Paesi terzi senza una succursale nell'UE.
Sulle proposte, che seguono entrambe la procedura legislativa ordinaria, già procedura di codecisione), il 26 ottobre 2012 il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza due risoluzioni legislative che recano emendamenti, e che costituiscono la base negoziale per i rappresentanti del PE i quali, in sede di trilogo (con i rappresentanti di Commissione europea e Consiglio dell'UE) dovranno concordare il testo delle proposte medesime. Il Consiglio ECOFIN, da parte sua, il 21 giugno 2013 ha raggiunto un orientamento generale, invitando la Presidenza, sulla base di tale orientamento, ad avviare i negoziati con il Parlamento europeo.
Articolo 10
(Modifiche al decreto legislativo 9
aprile 2008, n. 81, in materia di salute e sicurezza dei lavoratori durante il
lavoro – Procedura di infrazione 2010/4227)
L’articolo 10 reca alcune modifiche al D.Lgs. 81/2008, recante disposizioni in materia di tutela e sicurezza sui luoghi di lavoro. Più specificamente, l’articolo in esame interviene modificando gli articoli 28 e 29, relativi, rispettivamente, all’oggetto ed alle modalità di effettuazione della valutazione dei rischi.
In merito alla regolamentazione della valutazione dei rischi, si ricorda che l’articolo 28, così come modificato dall’articolo 16 del D.Lgs. 106/2009, ha stabilito che tale verifica debba riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri Paesi, nonché quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro.
Più specificamente, con il comma 3-bis del richiamato articolo 28 è stato reintrodotto il termine di 90 giorni (peraltro già previsto dall’articolo 96-bis del D.Lgs. 626/1994) dall’inizio attività entro il quale le imprese di nuova costituzione sono obbligate ad elaborare il documento di valutazione dei rischi.
L’articolo in esame:
§ aggiungendo un periodo all’articolo 28, comma 3-bis, del D.Lgs. 81/2008, evidenzia l’obbligo per il datore di lavoro, anche in caso di costituzione di nuova impresa, di adempiere a specifici obblighi in materia attraverso idonea documentazione (si tratta, nello specifico, delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali; delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza; dell'individuazione delle procedure per l'attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione aziendale che vi debbono provvedere; dell'indicazione del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o di quello territoriale e del medico competente; dell'individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici, e che richiedono capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento; nonché delle ulteriori in materia previste dallo stesso provvedimento). A tale documentazione accede su richiesta il rappresentante dei lavoratori per l sicurezza (comma 1, lettera a));
§ aggiungendo un periodo al comma 3 dell’articolo 29 del D.Lgs. 81/2008, concernente l‘obbligo di aggiornamento delle misure di prevenzione in seguito alla rielaborazione della valutazione dei rischi dovuta a modifiche significative del processo produttivo o dell’organizzazione di lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi (o nel caso in cui i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità), si stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro, anche in caso di rielaborazione di tale valutazione, di evidenziare immediatamente, con idonea documentazione, l’aggiornamento delle misure di prevenzione. A tale documentazione accede su richiesta il rappresentante dei lavoratori per l sicurezza (comma 1, lettera b)).
La disposizione è volta a risolvere la procedura di infrazione n. 2010/4227, per il non corretto recepimento degli articoli 5 e 9 della direttiva quadro europea 89/391/CEE sulla sicurezza sul lavoro.
La procedura è stata avviata dalla Commissione con una lettera di costituzione in mora dell’Italia, il 21 gennaio 2011, cui ha fatto seguito un parere motivato ex art. 258 TFUE, il 21 novembre 2012. Le autorità italiane, con lettera del 24 gennaio 2013, hanno fornito elementi al fine di rispondere ai rilievi sollevati dalla Commissione nel parere motivato.
La procedura di infrazione fa peraltro seguito ad una procedura di EU Pilot (n. 953/10/EMPL)[5], in relazione alla quale i chiarimenti forniti dalle autorità italiane (in data 2 giugno 2010 e 21 gennaio 2011) hanno contribuito al superamento di alcuni dei rilievi sollevati dalla Commissione.
Nel parere motivato, la Commissione contesta in via preliminare la mancata notifica alle autorità europee del decreto legislativo n. 81/2008 (Testo Unico delle norme in materia di salute e sicurezza dei lavoratori) che, abrogando o modificando le previgenti misure in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attualmente costituisce, di fatto, il recepimento nell’ordinamento italiano della direttiva 89/391/CEE. In secondo luogo, la Commissione solleva rilievi in merito ai seguenti punti:
· la deresponsabilizzazione del datore di lavoro in caso di delega e subdelega, prevista dagli articoli 16 e 30 del TU (violazione dell’articolo 5 della direttiva).
La direttiva sopra richiamata prevede la possibilità di delegare i poteri del datore di lavoro unicamente in caso di circostanze a loro estranee, eccezionali ed imprevedibili, laddove la normativa italiana, non chiarendo il contenuto e il grado di intensità della vigilanza del datore di lavoro, sembra permettere un’interpretazione blanda del contenuto del potere delegato, implicando, di fatto, un’esclusione di responsabilità. L’esclusione dell’obbligo di vigilanza e, quindi, della responsabilità del datore di lavoro, sarebbe, inoltre, esplicitata dalla norma, qualora si sia provveduto all’adozione e all’attuazione del modello di verifica e controllo, previsto dall’articolo 30 del TU. La violazione della direttiva è ravvisata dalla Commissione anche in relazione alla possibilità che il soggetto delegato, d’accordo con il datore di lavoro, subdeleghi ad altro soggetto funzioni specifiche, non escludendosi l’obbligo del delegato (e non del datore di lavoro) di vigilare sull’operato del subdelegato (articolo 16).
Nelle osservazioni inviate l’8 dicembre 2012 e non ritenute esaustive dalla Commissione, l’Italia evidenzia la conformità della normativa italiana a quella europea. In particolare, ad avviso delle autorità italiane, il sistema di responsabilità si articola su quattro livelli, basati su norme di natura legislativa e su pronunce giurisdizionali:
- una responsabilità civile (disciplinata dal codice civile e, in particolare, dall’articolo 2087);
- una responsabilità penale (o amministrativa, a seconda dei casi), in caso di violazione di una norma di tipo prevenzionale, sanzionata penalmente;
- una responsabilità individuale penale, nel caso in cui dalla violazione di una norma di tipo prevenzionale sia disceso un infortunio o una malattia professionale (articoli 589 e 590 del codice penale);
- una responsabilità amministrativa del datore di lavoro, inteso come ente collettivo o persona giuridica, rispetto ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (articolo 300 del TU).
Tuttavia, ad avviso della Commissione, le norme richiamate dalle autorità italiane farebbero riferimento, più che al datore di lavoro, all’imprenditore e non sempre le due figure coincidono. Inoltre, le pronunce giurisdizionali, seppure indicative di una tendenza ad ampliare le tutele dei lavoratori, non avrebbero forza vincolante nell’ordinamento. Inoltre, sulla base dell’articolo 10 del DPR 1124/1965 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), richiamato dalle autorità italiane, la responsabilità del datore di lavoro risulterebbe sanzionabile solo nel caso in cui sia stato commesso un reato penale. In tutti gli altri casi, per le attività per cui è obbligatoria l’assicurazione previdenziale prevista dal DPR n. 1124/1965, il datore di lavoro non sarebbe soggetto a responsabilità civile in quanto coperto da un regime obbligatorio di assicurazione pubblica. Ciò, ad avviso della Commissione, da un lato, è utile ad assicurare ai lavoratori danneggiati il risarcimento del danno ma, dall’altro, potrebbe indurre il datore di lavoro a non adottare le necessarie misure di prevenzione.
Nella lettera di risposta del 21 gennaio 2013, le autorità italiane, nel ribadire quanto già affermato nella documentazione precedentemente inviata, precisano che il rilascio della delega in modo formalmente corretto non implica affatto l’esclusione di responsabilità in capo al datore di lavoro. Infatti sia il codice civile (art. 2049) sia la costante giurisprudenza considerano la responsabilità del datore di lavoro, in caso di delega, come una responsabilità oggettiva (che sussiste a prescindere dal requisito della colpa in capo al datore di lavoro. Tale responsabilità, nel caso della violazione della normativa antinfortunistica (articoli 10 e 11 del DPR n. 1124/1965, che hanno, come finalità ultima quella di garantire al lavoratore danneggiato il risarcimento del danno), sussiste comunque nella duplice forma della responsabilità penale e della responsabilità civile.
L’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, ad avviso della Commissione, risulterebbe anche dalle disposizioni in materia di obbligo del datore di lavoro di adottare un sistema di controllo del modello organizzativo, che preveda il riesame e la modifica del modello medesimo, in caso di manifeste violazioni delle norme di tutela dei lavoratori o in caso di progresso tecnologico. L’assenza di responsabilità è dimostrata dal fatto che l’adozione di un nuovo modello segue (e non precede) il verificarsi di violazioni della normativa che tutela i lavoratori, a cui, tra l’altro, spetta l’onere della prova.
Gli elementi forniti dalle autorità italiane sul contenuto della delega e della subdelega, funzionali agli adempimenti attribuiti dalla legge al datore di lavoro e soggette a condizioni molto rigorose, ad avviso della Commissione, attenuano ma non risolvono i problemi sollevati in merito alla violazione della direttiva, in quanto sembrerebbero confermare l’esclusione della responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui la delega sia esercitata nel rispetto di tutte le condizioni di legge. Infatti, l’affermazione che rimane in capo al datore di lavoro delegante l’obbligo di sorveglianza sull’operato del delegato non appare corroborata da informazioni puntuali, tenendo presente soprattutto il fatto che le osservazioni della Commissione non riguardano tanto la conformità o meno al diritto comunitario della delega quanto, piuttosto, la conservazione in capo al datore di lavoro della responsabilità, in mancanza della quale egli potrebbe non avere interesse ad adottare misure per la tutela dei lavoratori.
· proroga dei termini impartiti per la redazione del documento di valutazione dei rischi per le nuove imprese o per modifiche sostanziali apportate ad imprese esistenti.
Su tale punto, la Commissione rileva che l’ordinamento italiano sembrerebbe permettere ai datori di lavoro di essere dispensati, sia pure per un periodo di tempo limitato (90 o 30 giorni, a seconda dei casi), dall’obbligo di disporre di un documento di valutazione dei rischi (anche se la valutazione è immediata) nonché dell’obbligo di assicurarsi che i lavoratori abbiano accesso al documento stesso (articoli 28 e 29 del TU). Ciò, ad avviso della Commissione, appare contrario alla direttiva 89/391 in quanto questa, in primo luogo, non lascia spazio all’interpretazione degli Stati membri sul momento di formalizzazione della valutazione dei rischi (articolo 9), indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, anche alla luce della giurisprudenza della la Corte di giustizia (condanna della Germania, nella causa 5/00). In secondo luogo, il rinvio della redazione del documento di valutazione dei rischi, ad avviso della Commissione, appare contrario anche alle finalità della direttiva, che consiste nel’introdurre la prevenzione e la programmazione della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro (articolo 6). In particolare, il rinvio della redazione del documento potrebbe comportare per un periodo non trascurabile la mancata o insufficiente valutazione del rischio per i lavoratori e, quindi, un’insufficiente tutela degli stessi. Infatti, ad avviso della Commissione, soltanto la formalizzazione di un documento costituisce una valida certificazione dell’effettiva esecuzione della valutazione dei rischi. Tale mancanza, infine, viola anche l’articolo 10 della direttiva, laddove prevede il diritto dei lavoratori di accedere al documento di valutazione dei rischi.
Le osservazioni delle autorità italiane in risposta alla lettera di costituzione in mora, che pongono l’accento sul fatto che si tratterebbe di una possibilità, più che di un obbligo, per il datore di lavoro di rinviare la formalizzazione della valutazione dei rischi, non sono considerate dalla Commissione idonee al superamento dei rilievi. Le argomentazioni delle autorità italiane sono state ribadite nella sostanza dalla documentazione inviata alla Commissione il 21 gennaio 2013, in cui si contesta, tra l’altro, la pertinenza del richiamo alla causa 5/00, in quanto, in quel caso, la normativa della Germania prevedeva la possibilità di non disporre affatto della documentazione relativa alla valutazione dei rischi, concretizzandosi in un vero e proprio esonero per le imprese con meno di 10 addetti.
Su altri punti, in merito ai quali la Commissione aveva formulato rilievi nella lettera di costituzione in mora dell’Italia, il 21 gennaio 2011, i chiarimenti forniti dalle autorità italiane (in data 2 giugno 2010 e 21 gennaio 2011) sono stati giudicati esaustivi dalla Commissione medesima che non li ha pertanto ripresi nel parere motivato. Si trattava, in particolare:
·
violazione dell'obbligo di disporre di una valutazione dei rischi per la sicurezza
e la salute durante il lavoro per i
datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori;
·
posticipazione dell'obbligo di valutazione del rischio
di stress legato al lavoro;
·
posticipazione dell'applicazione della legislazione in materia di
protezione della salute e sicurezza sul lavoro per le persone appartenenti a cooperative sociali e a organizzazioni di
volontariato della protezione civile;
·
proroga del termine per completare l'adeguamento alle
disposizioni di prevenzione incendi per le strutture ricettive
turistico-alberghiere con oltre 25 posti letto esistenti in data 9 aprile 1994.
Articolo 11
(Delega al Governo per il riordino della
normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori
nel settore delle navi da pesca- Procedura di infrazione 2011/2098)
L’articolo 11 delega il Governo ad adottare, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge in esame, un decreto legislativo in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori per il settore delle navi da pesca, al fine di coordinare le relative disposizioni speciali di cui al D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 298, con le disposizioni del D.Lgs. 81/2008 (comma 1).
Contestualmente, a fini di coordinamento con la normativa vigente, il comma 6 provvede a sopprimere i richiami alle disposizioni del D.Lgs. 298/1999, in materia di sicurezza e di salute per il lavoro a bordo delle navi da pesca, contenuti nell’articolo 3, commi 2 e 3, del D.Lgs. 81/2008.
Si ricorda che l’articolo 3, comma 2, del D.Lgs. 81/2008 ha disposto, in relazione alla peculiarità di determinati settori lavorativi, che le disposizioni del medesimo decreto si applicassero tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative. Inoltre, per appositi ambiti (tra i quali rientra il settore delle navi da pesca di cui al D.Lgs. 298/1999) ad appositi D.P.R. (cioè regolamenti governativi) è stata altresì demandata la definizione delle disposizioni di coordinamento con la disciplina generale, disponendo altresì (comma 3) che fino all’emanazione dei richiamati regolamenti restino in vigore le norme speciali di settore.
Si fa presente che le disposizioni dell’articolo in esame comportano
una rilegificazione della disciplina per il settore delle navi da pesca di cui
al D.Lgs. 298/1997 (disciplina che ai sensi del richiamato articolo 3, comma 2,
del D.Lgs. 81/2008, avrebbe dovuto essere ridefinita attraverso D.P.R. ex articolo 17, comma 2, della L. 400/1988).
Il decreto legislativo deve essere adottato (comma 2) in conformità all'articolo 117 della Costituzione e agli statuti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano (e relative norme di attuazione), garantendo l'uniformità della tutela dei lavoratori nel territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (anche con riguardo alle differenze di sesso e alla condizione dei lavoratori immigrati), nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi (comma 3):
a) riordino e coordinamento delle disposizioni vigenti, tenendo conto della normativa nazionale, comunitaria ed internazionale in materia di sicurezza del lavoro nel settore delle navi da pesca in ottemperanza a quanto disposto dall'articolo 117 della Costituzione;
b) garanzia dei livelli di protezione, di sicurezza e di tutela nonché dei diritti e delle prerogative dei lavoratori e delle loro rappresentanze già previsti dalle disposizioni vigenti;
c) applicazione della normativa in materia di salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro a tutte le tipologie di rischio, anche tenendo conto delle peculiarità o della particolare pericolosità degli stessi e della specificità di settori e ambiti lavorativi;
d) definizione delle misure di sicurezza tecniche, organizzative e procedurali volte alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, nonché dei contenuti relativi alla pianificazione dell'emergenza;
e) determinazione degli obblighi, dei ruoli, delle funzioni e delle responsabilità propri di ciascuno dei soggetti coinvolti nelle attività di prevenzione;
f) applicazione delle disposizioni del D.Lgs. 81/2008, per quanto non disciplinato dal decreto legislativo di attuazione;
g) riformulazione dell'apparato sanzionatorio, penale e amministrativo, e adeguamento delle relative sanzioni alle peculiarità del settore delle navi da pesca nel rispetto dei seguenti principi e criteri:
1. coordinamento delle disposizioni del D.Lgs. 81/2008, con la peculiare disciplina della responsabilità e delle funzioni di ciascun soggetto, con particolare riguardo:
I. alla disciplina del lavoro nel settore delle navi da pesca;
II. alla figura del comandante, nei casi in cui non rivesta il ruolo di datore di lavoro, dirigente o preposto.
2. razionalizzazione e rimodulazione delle sanzioni secondo i seguenti criteri:
I. previsione della sanzione dell'ammenda da un minimo di euro 500 fino ad un massimo di euro 4.500 per le infrazioni formali, dell'arresto da un minimo di tre mesi fino a un massimo di sei mesi per le infrazioni che ledono più gravemente la salute e la sicurezza dei lavoratori marittimi e dell'arresto da un minimo di due mesi fino a un massimo di 4 mesi ovvero dell'ammenda da euro 750 fino a euro 6.400 negli altri casi;
II. rimodulazione del sistema sanzionatorio amministrativo prevedendo il pagamento di una somma di denaro da un minimo di 50 euro a un massimo di 6.600 euro;
h) semplificazione degli adempimenti formali nel rispetto dei livelli di tutela;
i) abrogazione espressa delle norme incompatibili.
Ai sensi del comma 4, lo schema del citato decreto legislativo è trasmesso alle Commissioni parlamentari competenti per materia, che devono esprimere il relativo parere entro quaranta giorni dalla trasmissione; scaduto inutilmente tale termine, si può comunque procedere all’adozione del decreto. Nel caso in cui la scadenza del termine per l’espressione del suddetto parere cade nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine di quattro mesi (dalla data di entrata in vigore della legge in esame) per l’adozione del richiamato decreto legislativo, o successivamente, il termine per l’adozione del decreto è prorogato di tre mesi.
E’ inoltre prevista la possibilità (comma 5), da parte del Governo, di integrare e correggere il richiamato decreto legislativo entro 12 mesi dalla sua entrata in vigore.
Infine, dall’adozione del richiamato decreto legislativo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (comma 7).
La norma è volta a chiudere la procedura di infrazione n. 2011/2098, aperta dalla Commissione europea, con lettera di messa in mora del 30 maggio 2013, per il non corretto recepimento della Direttiva 93/103/CE in materia di prescrizioni minime di sicurezza e salute a bordo delle navi da pesca.
La procedura di infrazione fa seguito ad una procedura EU-Pilot[6] (222/08/EMPL) avviata dalla Commissione europea nel novembre 2008 per avere dalle autorità italiane informazioni e chiarimenti circa il recepimento, operato con il decreto legislativo n. 298/1999, di alcune disposizioni della medesima direttiva 93/103/CE, relative: alla responsabilità del capitano e la sua eventuale limitazione dovuta alle condizione tecniche operative della nave, prevista dalla normativa italiana e non anche dalla direttiva europea; ai controlli periodici delle navi; alle informazioni dei lavoratori: la normativa italiana appare restrittiva con riferimento al contenuto delle informazioni che i lavoratori hanno diritto a ricevere a bordo; alla formazione ed aggiornamento dei lavoratori in materia di prevenzione degli incendi; alla consultazione e partecipazione dei lavoratori; alle vie e uscite di sicurezza; alle attrezzature antincendio azionate manualmente; al pronto soccorso.
Il Governo italiano, dopo aver trasmesso alla Commissione risposte che essa non ha giudicato esaustive, nell’agosto 2010 ha inviato alla Commissione stessa un progetto di regolamento per la fusione dei decreti legislativi n. 271/1999 e 298/1999 e per l’adeguamento della normativa vigente. La Commissione, dopo avere sommariamente valutato in senso positivo la conformità di tale progetto alla direttiva europea, con successive lettere del settembre e dicembre 2010 e aprile 2011, ha richiesto precise informazioni circa i tempi di adozione delle nuove disposizioni.
Tale termine è risultato più volte prorogato e, non essendo esplicitamente applicabile al settore marittimo la normativa generale del decreto legislativo n. 81/2008, ad avviso della Commissione la mancata adozione del progetto di regolamento avrebbe comportato una lacuna giuridica.
Nella lettera di messa in mora, la Commissione contesta la mancanza di chiarezza delle richiamate disposizioni dell’ordinamento italiano e la mancanza di certezza giuridica. Pertanto, ad avviso della Commissione, che fa riferimento ad una costante giurisprudenza della Corte di giustizia, le norme italiane in questione violerebbero diversi principi fondamentali del diritto UE, in quanto non permettono agli interessati di conoscere i propri diritti ed obblighi in modo chiaro e preciso e ai giudici di garantirne l’osservanza.
Il Governo ha replicato alla messa in mora con una lettera del 29 luglio 2013, con la quale si ribadisce la organicità delle norme di recepimento della direttiva, affermando, nel contempo, che al fine di evitare lacune normative, con il decreto-legge n. 57/2012, si è disposto che, fino all’emanazione dei regolamenti di coordinamento, resteranno in vigore le discipline speciali di settore.
Con riferimento ai rilievi specifici formulati dalla Commissione, le autorità italiane hanno precisato quanto segue:
· responsabilità del capitano: l’assimilazione della figura del capitano, quale è definita dalla direttiva europea, alla figura del comandante, definita dal codice italiano della navigazione consente di ricondurre a tale ultimo ruolo i compiti e le responsabilità previste dalla direttiva 93/103/CE, garantendone il corretto recepimento. Inoltre, il riferimento alle specifiche tecniche della nave, invece di limitare la responsabilità del capitano, al contrario garantisce ulteriormente la sicurezza, in linea con le intenzioni del legislatore europeo e italiano;
· controlli periodici: la normativa italiana (decreti legislativi n. 298/1999 e 271/1999), non solo prevede verifiche periodiche delle navi, ma prescrivono anche un’apposita certificazione in esito a tali verifiche;
· informazione, formazione e partecipazione dei lavoratori: le autorità italiane ribadiscono la presenza nel nostro ordinamento di disposizioni, generali e di settore, che garantiscono la corretta e chiara informazione dei lavoratori la formazione nonché la loro partecipazione;
· vie d’uscita e sicurezza e attrezzature antincendio: il rinvio alla normativa vigente anziché alla direttiva, considerato dalla Commissione europea indizio di un non corretto recepimento della direttiva stessa, costituisce, al contrario, la garanzia dell’automatica applicazione della regolamentazione vigente, anche se modificata, senza che si renda necessario ricorrere all’aggiornamento delle disposizioni di riferimento;
· ambito di applicazione e pronto soccorso: le autorità italiane confermano la compatibilità della normativa nazionale con le disposizioni della direttiva.
Articolo 12
(Disposizioni in materia di
partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani o programmi in
materia ambientale – Caso EU pilot 1484/10/ENVI)
L’articolo 12 disciplina le modalità attraverso le quali l’autorità competente all’elaborazione ed all’approvazione di taluni piani o programmi in materia ambientale assicura la partecipazione del pubblico al procedimento di elaborazione, modifica e riesame dei medesimi piani o programmi.
In particolare, l’articolo 12 novella l’articolo 3-sexies del decreto legislativo n. 152/2006 (recante norme in materia ambientale) allo scopo di rispondere ai rilievi avanzati dalla Commissione europea, nell’ambito della procedura EU Pilot 1484/10/ENVI, e di un corretto recepimento dell’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2003/35/CE.
L’articolo 3-sexies del d.lgs. 152/2006, introdotto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 4/2008, in attuazione della legge n. 241 del 1990 (in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) e della Convenzione di Aarhus (ratificata dall'Italia con la legge 16 marzo 2001, n. 108), consente l’accesso alle informazioni relative allo stato dell'ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale, a prescindere dalla dimostrazione della sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante.
Gli articoli 3-5 del decreto legislativo n. 195 del 2005 (attuativo della direttiva 2003/4 sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale, adottata per allineare la normativa europea alla Convenzione di Aarhus) disciplinano il diritto all’informazione ambientale, prevedendo in particolare che l'informazione ambientale venga resa disponibile dall'autorità pubblica a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse. In particolare, i casi di esclusione del diritto di accesso all'informazione ambientale sono disciplinati dall’articolo 5.
La Convenzione ONU/ECE sull'accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale (cd. Convenzione di Aarhus) è stata firmata il 25 giugno 1998 dall’Unione europea.
La direttiva 2003/35/CE (di seguito direttiva), che prevede la partecipazione del pubblico nell'elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale, ha modificato le direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE, relativamente alla partecipazione del pubblico e all'accesso alla giustizia, ed è stata adottata in attuazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione di Aarhus.
Passando nel dettaglio all’analisi del contenuto della norma, l’articolo 12 aggiunge sei nuovi commi al citato articolo 3-sexies del d.lgs. 152/2006. In particolare:
1) il comma 1-bis prevede che l'autorità competente all’elaborazione dei piani o programmi , specificati nell’Allegato I della direttiva 2003/35/CE, a cui non si applica la procedura di valutazione ambientale nei casi indicati dall’articolo 6, comma 2, del D.Lgs. 152/2006, assicura la partecipazione del pubblico nell'ambito del procedimento di elaborazione, modifica e riesame dei predetti piani o programmi;
L’Allegato I della direttiva prevede la partecipazione del pubblico ai piani e ai programmi relativi ai rifiuti, alle pile ed agli accumulatori contenenti sostanze pericolose, alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole, ai rifiuti pericolosi, sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, in materia di valutazione e di gestione della qualità dell'aria ambiente.
L’articolo 2 della direttiva disciplina, al paragrafo 1, la partecipazione del pubblico ai piani e ai programmi specificamente indicati nell’Allegato I alla direttiva medesima, prevedendo che gli Stati membri garantiscano tempestive ed effettive opportunità di partecipazione del “pubblico”, intendendosi per “pubblico” una o più persone fisiche o giuridiche nonché, ai sensi della legislazione o prassi nazionale, le associazioni, le organizzazioni o i gruppi di tali persone. L’articolo 2, paragrafo 2, prevede che gli Stati membri provvedono affinché:
a) il pubblico sia informato, attraverso pubblici avvisi oppure in altra forma adeguata quali mezzi di comunicazione elettronici, se disponibili, di qualsiasi proposta relativa a tali piani o programmi o alla loro modifica o riesame, e siano rese accessibili al pubblico le informazioni relative a tali proposte, comprese tra l'altro le informazioni sul diritto di partecipare al processo decisionale e sull'autorità competente a cui possono essere sottoposti osservazioni o quesiti;
b) il pubblico possa esprimere osservazioni e pareri quando tutte le opzioni sono aperte prima che vengano adottate decisioni sui piani e sui programmi;
c) nell'adozione di tali decisioni, si tenga debitamente conto delle risultanze della partecipazione del pubblico;
d) dopo un esame delle osservazioni e dei pareri del pubblico, l'autorità competente faccia ragionevoli sforzi per informare il pubblico in merito alle decisioni adottate.
L’articolo 2, paragrafo 3, della direttiva dispone che gli Stati membri definiscono il pubblico ammesso alla partecipazione ai fini di cui al paragrafo 2, includendo le organizzazioni non governative interessate che soddisfano i requisiti imposti dalla legislazione nazionale, quali quelle che promuovono la protezione dell'ambiente.
L’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva dispone che il medesimo articolo non si applica a piani e programmi di cui all'allegato I per i quali è attuata una procedura di partecipazione del pubblico ai sensi della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente, o ai sensi della direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque.
L’articolo 6, del D.Lgs. 152/2006 stabilisce, al comma 2, i piani e programmi che possono avere impatti significativi sull'ambiente e sul patrimonio culturale:
a) elaborati per la valutazione e gestione della qualità dell'aria ambiente, per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l'approvazione, l'autorizzazione, l'area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II (Progetti di competenza statale), III (Progetti di competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano) e IV del decreto (Progetti di competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano);
b) per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione d'incidenza nella pianificazione e programmazione territoriale ai sensi dell'articolo 5 del D.P.R. 8 settembre 1997, n. 357.
Il comma 3 dell’articolo 6 prevede inoltre che per i suddetti piani e programmi che determinano l'uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei medesimi piani e programmi, la valutazione ambientale è necessaria qualora l'autorità competente valuti che producano impatti significativi sull'ambiente, secondo le disposizioni riguardanti la verifica di assoggettabilità, di cui all'articolo 12, e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell'area oggetto di intervento.
2) il comma 1-ter dispone, nei casi disciplinati dal comma 1-bis, l’avviso a mezzo stampa e mediante pubblicazione sul proprio sito web da parte dell’autorità competente, contenente l’indicazione del titolo del piano o del programma, l’autorità competente e le sedi ove può essere presa visione del piano o programma;
2) il comma 1-quater prevede che l’autorità competente mette, altresì, a disposizione del pubblico il piano o programma mediante il deposito presso i propri uffici e la pubblicazione sul proprio sito web;
3) il comma 1-quinquies stabilisce che, entro 60 giorni dalla pubblicazione dell’avviso di cui al comma 1-ter, chiunque può prendere visione del piano o programma e presentare proprie osservazioni o pareri in forma scritta;
4) il comma 1-sexies dispone che l’autorità competente tiene adeguatamente conto delle osservazioni del pubblico nell’adozione del piano o programma;
5) il comma 1-septies prevede che il piano o programma adottato è pubblicato sul sito web dell’autorità competente unitamente ad una dichiarazione di sintesi nella quale si da conto delle considerazioni che sono state alla base della decisione. Detta dichiarazione contiene, altresì, informazioni sulla partecipazione del pubblico.
Le disposizioni riguardanti la partecipazioni del pubblico nell’elaborazione di taluni piani o programmi in materia ambientale sono volte alla risoluzione della procedura Eu Pilot 1484/10/ENVI[7], con la quale la Commissione europea ha richiesto alle autorità italiane chiarimenti in merito al recepimento della direttiva 2003/35/CE relativa alla partecipazione del pubblico nell'elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale.
In particolare, con una lettera del 29 ottobre 2010, cui il Governo italiano ha risposto il 16 febbraio 2011, la Commissione, dopo avere elencato le disposizioni del diritto dell’UE e i precedenti giurisprudenziali in materia, chiede come sia stata data attuazione alle seguenti previsioni della medesima direttiva:
· controllo giurisdizionale in merito alla decisione amministrativa (art. 3.7 e 4.4 paragrafo 3): la Commissione chiede se la normativa italiana conferisce al pubblico la facoltà di impugnare le decisioni, le azioni o le omissioni in termini di legalità procedurale e sostanziale.
Le autorità italiane precisano che per il diritto di impugnazione occorre fare riferimento alle disposizioni generali del processo amministrativo (decreto legislativo n. 104/2010) nonché a quelle riguardanti il ricorso straordinario al Capo dello Stato;
· possibilità di adire ad un giudice in merito alla partecipazione ad un procedimento specifico (art. 3.7 e 4.4): la Commissione chiede se gli individui e le organizzazioni non governative devono necessariamente avere partecipato al procedimento per poter adire il giudice e impugnare una decisione amministrativa.
Le autorità italiane sottolineano che, ai fini dell’impugnazione di una decisione amministrativa, il nostro ordinamento non prevede la previa partecipazione al procedimento di autorizzazione di impatto ambientale (AIA);
· soddisfacimento dei requisiti di tempestività, onerosità non eccessiva, assistenza giudiziaria ed efficacia del provvedimento (art. 3.7, 4.4 paragrafo 5): la Commissione chiede all’Italia come garantisce l’accesso alla giustizia senza spese eccessivamente onerose; se la parte soccombente deve sostenere le spese processuali e a che cosa queste corrispondono; quali sono le norme che garantiscono un’efficace tutela giurisdizionale e quali sono i tempi e i medi del giudizio amministrativo.
A giudizio delle autorità italiane, le richieste della Commissione non attengono specificamente alle procedure inerenti l’AIA ma alle condizioni generali della giustizia amministrativa in Italia;
· pubblicità delle informazioni pratiche sull’accesso alle procedure di ricorso amministrativo e giurisdizionale (art. 3.7 e 4.4 paragrafo 6): la Commissione chiede alle autorità italiane qual è la struttura del sistema adottato per garantire al pubblico un effettivo accesso alle informazioni.
Ad avviso delle autorità italiane, il nostro ordinamento soddisfa pienamente l’esigenza di pubblicità delle informazioni pratiche in esame, mediante la notifica al richiedente e la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell’avvenuto rilascio dell’AIA nonché mediante la messa a disposizione del pubblico, sia in forma cartacea sia tramite internet, degli atti dei procedimenti AIA, conclusi o ancora in corso;
· recepimento degli altri articoli della direttiva, con particolare riferimento alla partecipazione del pubblico ai piani e ai programmi (art. 2 e allegato I).
Le autorità italiane rinviano al decreto legislativo n. 152/2006 e successive modificazioni, che ha provveduto alla trasposizione nell’ordinamento italiano dei restanti articoli della direttiva 2003/35/CE.
Articolo 13
(Modifiche alla legge 11 febbraio 1992,
n.157, e successive modificazioni, recante norme per la protezione della fauna
selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio. Caso EU Pilot 1611/10/ENVI)
L’articolo 13 prevede che l’autorizzazione alla gestione degli impianti che svolgono l’attività di cattura per l’inanellamento e per la cessione a fini di richiamo deve essere autorizzata dalle regioni nel rispetto delle condizioni e delle modalità che definiscono l’attività di caccia in deroga.
L’articolo in esame apporta, infatti, una modifica all’articolo 4, comma 3, della legge 157/1992, relativa alle norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio.
In particolare l’articolo 4 detta disposizioni in materia di cattura temporanea ed inanellamento; il comma 3 prevede che tale attività può essere svolta esclusivamente da impianti della cui autorizzazione siano titolari le province e che siano gestiti da personale qualificato e valutato idoneo dall’Istituto nazionale per la fauna selvatica. Il secondo periodo del comma 3, sul quale incide la modifica, prevede che l’autorizzazione alla gestione degli impianti è concessa dalle regioni su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica. La modifica introdotta specifica che le regioni, nel concedere tale autorizzazione, devono rispettare le condizioni e le modalità previste dall’articolo 19-bis della medesima legge.
La disposizione
richiamata è stata da ultimo modificata dall’articolo 26, comma 2, della legge
n. 97/2013 (legge europea 2013) al fine di adeguare
la normativa italiana alla sentenza di condanna della Corte di giustizia
europea del 15 luglio 2010 nella causa C/573/08 (procedura di infrazione
2006/2131).
Il comma 2, in particolare, ha sostituito l’articolo 19-bis della legge n. 157 del 1992, relativo all'attuazione del regime europeo della caccia in deroga, prevedendo che le deroghe siano adottate dalle regioni e dalle province autonome con provvedimento amministrativo, che le stesse siano giustificate da un’analisi puntuale dei presupposti e delle condizioni che ne giustificano l’adozione, dando conto dell’assenza di altre soluzioni soddisfacenti.
I soggetti abilitati
al prelievo in deroga vengono individuati dalle regioni le quali prevedono sistemi
periodici di verifica allo scopo di sospendere tempestivamente il
provvedimento di deroga qualora sia accertato il raggiungimento del numero dei
capi autorizzato al prelievo. Le deroghe sono adottate sentito l’ISPRA e non
possono avere comunque ad oggetto specie la cui consistenza numerica sia in
diminuzione. Nei limiti stabiliti dall’ISPRA, la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano
dispone la ripartizione tra le regioni interessate del numero dei capi
prelevabili per ciascuna specie. Il provvedimento di deroga è pubblicato e
comunicato al Ministero dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare; il Presidente del Consiglio dei Ministri ha la facoltà
di diffidare la regione interessata ad adeguare i provvedimenti di deroga
adottati in violazione delle disposizioni della legge n. 157 del 1992 e della
direttiva 2009/147/CE, pena l'annullamento. Le
deroghe adottate ai fini di studio e di
ripopolamento non necessitano della determinazione annuale da parte dell'
ISPRA della piccola quantità, né della conseguente ripartizione fra le regioni
da parte della Conferenza Stato-Regioni.
Le regioni hanno l’obbligo di attenersi alle linee guida emanate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e devono trasmettere, entro il 30 giugno, al Presidente del Consiglio e all’ISPRA una relazione sull’attuazione delle deroghe. Qualora dalla relazione risulti che una regione ha superato il numero massimo di capi prelevabili, la stessa non può essere ammessa al riparto nell’anno successivo.
In relazione alle disposizioni che modificano la legge n. 157/1992 in materia di protezione della fauna selvatica omeoterma e di prelievo venatorio, si segnala che è in atto una procedura Eu Pilot (1611/10/ENVI)[8] con la quale la Commissione europea ha chiesto alle autorità italiane chiarimenti sulla trasposizione nel nostro ordinamento della direttiva n. 2009/147/CE (conservazione degli uccelli selvatici – Direttiva Uccelli) in relazione alla cattura in cinque regioni italiane (Emilia Romagna, Lombardia, Marche, Toscana e Veneto) di sette specie di uccelli (Columba palumbus, Turdus pilaris, Turdus iliacus, Turdus merula, Vanellus vanellus, Alauda arvensis).
In particolare, ad una prima lettera (25 novembre 2009) con la quale la Commissione chiedeva chiarimenti sui metodi di cattura utilizzati in Italia, le autorità nazionali indicavano al riguardo l’utilizzo delle reti, vietato dalla direttiva 2009/147/CE. Tuttavia, con lettera del 10 dicembre 2010, la Commissione ha sottolineato che le deroghe concesse dall’Italia, pure previste dalla direttiva, non sono tuttavia conformi alla disciplina della direttiva (articolo 9) che deve essere esplicitamente richiamata.
Si segnala che, a norma dell’art. 8 e dell’allegato IV, della direttiva Uccelli, la cattura degli uccelli mediante l’utilizzo di reti è vietata. Tuttavia, a norma dell’articolo 9 della direttiva medesima, gli Stati membri possono derogare alle disposizioni dell’articolo 8 purché le deroghe soddisfino le condizioni stabilite dallo stesso articolo 9.
Quanto alle condizioni necessarie per la concessione della deroga, la Commissione ha ricordato che la Corte di giustizia (causa C-118/94) ha identificato tre condizioni specifiche: mancanza di una soluzione alternativa soddisfacente; esistenza di almeno uno dei motivi tassativamente indicati medesimo e volti alla limitazione rigorosa dei casi di deroga. Il mancato rispetto anche di uno solo di tali motivi da parte di uno Stato membro comporta l’illegittimità della deroga concessa. Ad avviso della Commissione, le deroghe concesse dall’Italia sono illegittime in quanto non rispettano le prime due condizioni.
In particolare, la Commissione, con riferimento ai singoli motivi, precisa:
- mancanza di soluzioni alternative: il radicamento della caccia nella tradizione italiana non costituisce un motivo riconducibile a quelli elencati dalla direttiva. Inoltre, la cattura degli uccelli con le reti è finalizzata non alla caccia di tali uccelli ma all’utilizzo di questi come esca per gli uccelli migratori. Tale obiettivo, ad avviso della Commissione, potrebbe essere raggiunto con il sistema alternativo di un programma di allevamento in cattività degli uccelli in questione;
- sussistenza di uno dei motivi di deroga indicati dall’articolo 9 della direttiva: perché sia conforme a quanto disposto dall’articolo 9 della direttiva, la deroga deve riguardare impieghi misurati; deve riferirsi a piccole quantità; deve operare in condizioni rigidamente controllate; la cattura deve avvenire in modo rigidamente selettivo. Ad avviso della Commissione, le deroghe autorizzate dall’Italia non sono esercitate in condizioni rigidamente controllate[9] e non soddisfano il requisito del metodo selettivo[10].
Sulla base di tali elementi, ad avviso della Commissione, l‘Italia avrebbe violato l’articolo 9 della direttiva 2003/35/CE autorizzando la cattura delle sette specie di uccelli. Inoltre, sebbene la legge n. 157/1992 abbia attribuito all’ISPRA la responsabilità del controllo e della certificazione della cattura degli uccelli da richiamo nonché dei periodi di attività degli impianti di cattura, tale istituto, come risulta alla Commissione, non svolgerebbe da anni la certificazione dell’attività degli impianti e ha espresso parere negativo sui piani annuali di cattura delle regioni, ritenendoli non conformi all’articolo 9 della direttiva 2003/35/CE.
Pertanto, la Commissione ritiene necessario che l’Italia modifichi la legge n. 157/1992 in modo da chiarire che la cattura degli uccelli può essere autorizzata esclusivamente nel rispetto di tutti i requisiti di cui all’articolo 9 della direttiva.
Nella risposta inviata il 25 marzo 2011, le autorità italiane hanno, in primo luogo, sottolineato che il mancato riferimento testuale all’articolo 9 della direttiva costituisce un’omissione formale e non sostanziale dal momento che le regioni non hanno autorizzato deroghe per la cattura di uccelli da utilizzare come richiami vivi prive di riferimento, formale e sostanziale, a tale articolo. Quanto all’individuazione di soluzioni alternative, le autorità italiane segnalano di avere concordato con l’ISPRA un progressivo ampliamento dell’utilizzo di uccelli provenienti da allevamento. Per ciò che concerne il controllo delle condizioni con cui le deroghe sono esercitate, le autorità italiane segnalano che alcune amministrazioni regionali si stanno attivando per marcare gli uccelli con anelli metallici e per alimentare apposite banche dati. Infine, le autorità italiane concordano con l’assenza di selettività dei sistemi di cattura adottati, auspicando l’adozione di metodi diversi[11], segnalano l’attività di vigilanza degli impianti di cattura degli uccelli e la previsione della revoca della concessione, oltre alle sanzioni penali e amministrative a carico dei tenditori che non si attengono ai protocolli gestionali degli impianti o che catturano o detengono specie ornitiche vietate.
Articolo 14
(Modifiche al decreto legislativo 27
gennaio 2010, n. 32, recante attuazione della direttiva 2007/2/CE, che
istituisce un'infrastruttura per l'informazione territoriale nella Comunità
europea (INSPIRE) - Caso EU-Pilot 4467/13/ENVI)
L’articolo 14 reca modifiche alla disciplina nazionale vigente riguardante l’istituzione di un'infrastruttura per l'informazione territoriale nell’Unione europea (Inspire) con la finalità di consentire lo scambio, la condivisione, l'accesso e l'utilizzo di dati geografici e ambientali interoperabili e di servizi legati a tali dati. In particolare, l’articolo novella in più punti il d.lgs. n. 32/2010, attuativo della direttiva 2007/2/CE, (di seguito direttiva), che istituisce un'infrastruttura per l'informazione territoriale nella Comunità Europea (Inspire), allo scopo di rispondere alle considerazioni e ai rilievi della Commissione europea nell’ambito della procedura EU Pilot 4467/13/ENVI. Le modifiche alla disciplina investono profili di carattere formale e sostanziale e riguardano: l’ambito di applicazione; i metadati; il Geoportale nazionale; l’interoperabilità dei set di dati territoriali e dei servizi ad essi relativi; l’accesso al pubblico dei servizi di rete; la condivisione e il riutilizzo dei dati tra le autorità pubbliche; l’attività di monitoraggio e di rendicontazione.
La direttiva Inspire (acronimo per Infrastructure for Spatial Information in Europe - Infrastruttura per l'Informazione Territoriale in Europa) reca le norme per l’istituzione di un’infrastruttura per l’informazione territoriale nell’Unione europea, con la finalità di consentire lo scambio, la condivisione, l'accesso e l'utilizzo di dati geografici e ambientali interoperabili e di servizi legati a tali dati. L’interesse principale della direttiva è, infatti, rivolto soprattutto alle politiche ambientali comunitarie e alle politiche o alle attività che possono avere ripercussioni sull’ambiente.
Inspire si fonda sulle infrastrutture per l'informazione territoriale create e gestite dagli Stati membri (art. 1). La direttiva è diretta soprattutto alle pubbliche amministrazioni che gestiscono la maggior parte dei dati territoriali. Si applica ai set di dati territoriali su cui uno Stato membro ha e/o esercita diritti giurisdizionali, che sono disponibili in formato elettronico, che sono detenuti da (o per conto di) un’autorità pubblica, oppure terzi (artt. 3 e 4). Gli Stati membri sono, inoltre, tenuti ad inviare alla Commissione una relazione sull’attuazione della direttiva comprendente, tra l’altro, anche un’analisi dei relativi costi/benefici, che deve essere aggiornata con cadenza triennale (art. 21). Anche la Commissione europea (art. 23) è tenuta a presentare al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione sull'attuazione della direttiva entro il 15 maggio 2014 e successivamente ogni sei anni.
Per l'attuazione della direttiva, sono stati emanati il regolamento (CE) n. 1205/2008 (per quanto riguarda i metadati), la decisione 2009/442/CE (per quanto riguarda il monitoraggio e la rendicontazione), il regolamento (CE) n. 976/2009 (per quanto riguarda i servizi di rete), il regolamento (UE) n. 268/2010 (per quanto riguarda l'accesso ai set di dati territoriali e ai servizi ad essi relativi degli Stati membri da parte delle istituzioni e degli organismi comunitari in base a condizioni armonizzate) e il regolamento (UE) n. 1089/2010 (per quanto riguarda l'interoperabilità dei set di dati territoriali e dei servizi di dati territoriali).
Le modifiche al testo del decreto legislativo richiamato sono confrontate nel prosieguo della trattazione con la normativa vigente e con le prescrizioni della direttiva.
Finalità e ambito di applicazione
(lettere a) - d) del comma 1)
Il comma 1, lettere a)-d), reca modifiche all’articolo 1 sulle finalità e sull’ambito di applicazione del d.lgs. 32/2010 (di seguito decreto), in relazione ai set di dati territoriali e alle condizioni previste per l’applicazione delle norme del decreto medesimo. In particolare:
- la lettera a), che modifica il comma 3, lettera b), numero 2, dell’articolo 1 del decreto, stabilisce che i set di dati territoriali[12] considerati per l’applicazione delle norme del decreto riguardano i dati detenuti da o per conto di terzi che possono accedere alla rete ai sensi dell’articolo 7 del decreto, in cui sono disciplinati i servizi di rete e la tipologia dei servizi offerti;
- la lettera b) inserisce al comma 3, con la nuova lettera c-bis), un’ulteriore condizione sui set di dati territoriali considerati, ai fini dell’applicazione del decreto. Si richiede, infatti, che i dati riguardino un territorio soggetto alla giurisdizione italiana, come indicato dalla direttiva;
- la lettera c), che sostituisce al comma 5 il riferimento ai dati di cui alla lettera c) con quelli di cui alla lettera b), riguarda la possibilità dell’autorità pubblica di intervenire sui set di dati territoriali, detenuti da terzi in base a diritti di proprietà intellettuale, solo previa autorizzazione dei terzi medesimi, come previsto dalla direttiva;
- la lettera d) modifica il comma 7 e prevede l’applicazione del decreto ai set di dati territoriali detenuti da o per conto dei comuni, soltanto nei casi in cui l'obbligo di raccolta o divulgazione da parte di tali enti è espressamente previsto da norme vigenti, come indicato dalla direttiva.
Definizioni
(lettera e) del comma 1)
Il comma 1, lettera e) inserisce all’articolo 2, comma 1, la lettera i-bis) recante la definizione di “terzi”, identica a quella prevista nella direttiva, ossia qualsiasi persona fisica o giuridica diversa da una autorità pubblica.
Metadati e Geoportale nazionale
(lettere f), g), n) ed u) del comma 1)
Il comma 1, lettera f), inserisce all’articolo 4, comma 1, la previsione che i metadati siano creati in conformità con le disposizioni di esecuzione adottate a livello europeo.
L’art. 3, par. 6, della direttiva definisce i metadati come le informazioni che descrivono i set di dati territoriali e i servizi relativi ai dati territoriali e che consentono di ricercare, repertoriare e utilizzare tali dati e servizi.
Conseguentemente:
- la lettera g) abroga il comma 4 dell'articolo 4 del decreto che detta una disciplina in fase di prima applicazione, che prevede l’emanazione di decreti ministeriali e, in attesa dei medesimi decreti, il recepimento delle norme di esecuzione europee nell’Allegato IV del decreto medesimo;
- la lettera n) modifica l’articolo 8, comma 3, relativo allo sviluppo del Geoportale nazionale da parte del Ministero dell’Ambiente, che dovrà essere aggiornato anche in conformità con le disposizioni di esecuzione adottate a livello europeo;
- la lettera u) abroga l’Allegato IV recante le Regole tecniche riguardanti i metadati.
Ai sensi dell’art. 5, par. 4 della direttiva è stato emanato il regolamento 1205/2008 a cui si è conformato il D.M. 10 novembre 2011 recante le regole tecniche per la definizione del contenuto del Repertorio nazionale dei dati territoriali, nonché delle modalità di prima costituzione e di aggiornamento dello stesso, emanato ai sensi dell’art. 59, comma 5, del d.lgs. 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale).
Interoperabilità dei set di dati
territoriali e dei servizi ad essi relativi (lettere h) - i), l)-m) del comma 1)
Il comma 1, lettera h), modifica l'articolo 6 inserendo il comma 1-bis, specificando che i servizi di conversione di cui al comma 1, lettera d), dell'articolo 7 sono combinati con gli altri servizi di cui al medesimo comma 1 in modo tale che tutti i servizi operino in conformità alle disposizioni di esecuzione adottate a livello europeo, come dispone l’articolo 11, paragrafo 3, della direttiva.
L’articolo 7 del decreto disciplina i Servizi di rete che a norma dell’art. 3 del medesimo decreto costituiscono parte dell’infrastruttura nazionale per l'informazione territoriale e del monitoraggio ambientale. In particolare, il comma 1 elenca i servizi erogati per i set di dati territoriali e del monitoraggio ambientale, nonché per i servizi ad essi relativi per i quali sono stati creati metadati a norma del decreto tra i quali, alla lettera d), sono inclusi i servizi di conversione che consentano di trasformare i set di dati territoriali, onde conseguire l'interoperabilità. I suddetti servizi sono gli stessi indicati all’articolo 11 par. 1 della direttiva.
Le disposizioni di esecuzione dell’articolo 7, par. 1 della direttiva stabiliscono modalità tecniche per l'interoperabilità e, se fattibile, l'armonizzazione dei set di dati territoriali e dei servizi ad essi relativi, intese a modificare elementi non essenziali della direttiva integrandola.
Il comma 1, lettera i), aggiunge all'articolo 6 il comma 3-bis e dispone che il Ministero dell'ambiente provvede affinché le informazioni, inclusi i dati, i codici e le classificazioni tecniche, necessarie per garantire la conformità alle disposizioni di esecuzione europee siano messe a disposizione delle autorità pubbliche o dei terzi a condizioni che non ne limitino l'uso, come previsto dall’articolo 10, paragrafo 1 della direttiva.
Il Ministero dell’Ambiente provvede per quanto sopra disposto, sentita la Consulta nazionale per l'informazione territoriale e ambientale di cui all'articolo 11, attraverso la piattaforma di cui all'articolo 23, comma 12-quaterdecies, del D.L. 95/2012.
L’articolo 23, comma 12-quaterdecies, al fine di sostenere lo sviluppo delle applicazioni e dei servizi basati su dati geospaziali e per sviluppare le tecnologie dell'osservazione della terra anche a fini di tutela ambientale, di mitigazione dei rischi e per attività di ricerca scientifica, prevede che tutti i dati e le informazioni, acquisiti dal suolo, da aerei e da piattaforme satellitari nell'ambito di attività finanziate con risorse pubbliche, sono resi disponibili per tutti i potenziali utilizzatori nazionali, anche privati, nei limiti imposti da ragioni di tutela della sicurezza nazionale. La norma affida all’ISPRA la catalogazione e la raccolta dei dati geografici, territoriali ed ambientali generati da tutte le attività sostenute da risorse pubbliche. Con decreto del Presidente della Repubblica, sulla base di una intesa tra Presidenza del Consiglio - Dipartimento della protezione civile, Ministero della difesa, Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e regioni, adottata dalla Conferenza Stato-regioni sono definite le modalità per la gestione della piattaforma e per l'accesso, l'interoperatività e la condivisione, anche in tempo reale, dei dati e delle informazioni in essa conservati, e gli obblighi di comunicazione e disponibilità dei dati acquisiti da parte di tutti i soggetti che svolgono tale attività con il sostegno pubblico, anche parziale.
Il comma 1, lettere l) e m), interviene sull’articolo 7, commi 4 e 5, del decreto, che prevedono l’erogazione di determinati servizi per i set di dati territoriali e del monitoraggio ambientale, e dei servizi relativi ai metadati (vedi supra comma 1 lett. h) e lett. u). In particolare, l’intervento della lettera m) all'articolo 7, comma 5 del decreto è volto a rendere disponibile a favore di terzi, su richiesta, il servizio svolto dall’ISPRA per la progressiva integrazione dei set di dati territoriali nell’ambito del Sistema informativo nazionale ambientale (S.I.N.A.) per il tramite della rete SINAnet.
L’art. 12, paragrafo 1, della direttiva definisce il
servizio a cui i terzi possono accedere come la possibilità tecnica per
collegare i rispettivi set di dati territoriali e servizi ad essi relativi alla
rete.
Accesso al pubblico dei servizi
di rete
(lettere o), p), e q) del comma 1)
Il comma 1, lettera o) modifica l'articolo 9, comma 4, lettera b), sulle limitazioni per l’accesso al pubblico dei servizi di rete, apportando correzioni di carattere formale.
La lettera p) modifica l'articolo 9, comma 6, sulla libertà di accesso del pubblico ai servizi di rete (vedi supra l’articolo 7 del decreto), inserendo nella disposizione il comma 3 dell’art. 9, chiarendo in tal modo che il divieto di accesso ai servizi di rete, previsto in determinati casi, non è applicabile in caso di accesso alle informazioni sulle emissioni nell’ambiente.
Il comma 3 dell’articolo 9 del decreto vieta l’accesso del pubblico ai set di dati territoriali e ai servizi ad essi relativi, qualora l'accesso a tali servizi possa recare pregiudizio alle relazioni internazionali, alla pubblica sicurezza o alla difesa nazionale.
Il comma 1, lettera q) modifica l'articolo 9, comma 8, primo periodo, in materia di applicazione di tariffe per i servizi forniti dalle pubbliche amministrazioni per l’accesso al pubblico dei dati territoriali. In particolare, per l’applicazione delle suddette tariffe, è inserita una ulteriore condizione - oltre a quella relativa al mantenimento di set di dati territoriali e dei servizi ad essi relativi – quando sono coinvolte quantità particolarmente consistenti di dati frequentemente aggiornati.
L’articolo 14, paragrafo 2, della direttiva prevede che gli Stati membri possono consentire ad un'autorità pubblica che fornisce un servizio ai sensi dell'articolo 11, paragrafo 1, lettera b) di applicare tariffe quando tali tariffe garantiscono il mantenimento di set di dati territoriali e dei corrispondenti servizi ad essi relativi, in particolare quando sono coinvolte quantità particolarmente consistenti di dati frequentemente aggiornati.
Condivisione e riutilizzo dei
dati tra autorità pubbliche
(lettere r) ed s) del comma 1)
Il comma 1, lettere r) e s), interviene sull’art. 10 del decreto, rispettivamente, per sostituire il comma 3 e aggiungere il comma 3-bis, in merito alla condivisione e al riutilizzo dei dati tra autorità pubbliche.
In particolare, come previsto dalla direttiva, il nuovo comma 3 stabilisce che i set di dati territoriali ed i servizi ad essi relativi siano forniti agli Stati membri e alle istituzioni e organismi europei (nella norma vigente sono forniti solo a quest’ultimi organi), anche ai fini delle funzioni pubbliche che possono avere ripercussioni sull'ambiente, e non solo al fine di adempiere agli obblighi informativi in virtù della legislazione europea in materia ambientale, come previsto nella disposizione vigente.
Il comma 3-bis prevede, come stabilito dalla direttiva, che le autorità pubbliche forniscono, su base reciproca ed equivalente, agli organismi istituiti da accordi internazionali di cui l'Unione europea e l'Italia sono parte, l'accesso ai set di dati territoriali ed ai servizi ad essi relativi. I set di dati territoriali ed i servizi ad essi relativi forniti sia ai fini delle funzioni pubbliche che possono avere ripercussioni sull'ambiente che al fine di adempiere agli obblighi informativi in virtù della legislazione europea in materia ambientale, non sono soggetti ad alcuna tariffa.
L’articolo 3, numero 9, della direttiva, come l'articolo 2, comma 1, lettera i), numeri 1) e 2) del decreto, definisce autorità pubblica:
a) ogni governo o altra amministrazione pubblica, compresi gli organi consultivi pubblici a livello nazionale, regionale o locale;
b) ogni persona fisica o giuridica svolgente funzioni di pubblica amministrazione ai sensi della legislazione nazionale, compresi incarichi, attività o servizi specifici connessi con l'ambiente.
Monitoraggio e rendicontazione
(lettera t) del comma 1)
Il comma 1, lettera t), modifica l'articolo 12, comma 5, del decreto specificando che i risultati del monitoraggio e della rendicontazione sono messi a disposizione del pubblico - tramite il sito internet del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare – in via permanente, come stabilito dalla direttiva.
Con riferimento alla disposizione che riguarda l’attuazione della direttiva 2007/2/CE (che istituisce un’infrastruttura per l’informazione territoriale nella Comunità europea – INSPIRE), si segnala che è stata avviata dalla Commissione, con lettera del 17 gennaio 2013, la procedura EU Pilot 4467/13/ENVI[13].
In particolare, la Commissione europea ha richiesto chiarimenti all’autorità italiana in merito al mancato recepimento di alcune disposizioni della direttiva e l’incompleto o non corretto recepimento di altre.
Come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge, lo scopo della direttiva 2007/2/CE è quello di creare, grazie a norme comuni di attuazione, integrate da misure comunitarie, una struttura condivisa che renda l’informazione ambientale georeferenziata (c.d. informazione territoriale) detenuta dai vari Stati membri compatibile ed utilizzabile in un contesto transfrontaliero, superando in tal modo i problemi relativi alla disponibilità, alla qualità, all’organizzazione ed alla accessibilità dei dati territoriali oggi disponibili all’interno della Comunità europea.
Il successivo 28 marzo 2013, le autorità italiane hanno fornito elementi di risposta.
In particolare, le autorità italiane propongono, da un lato, modifiche formali alla normativa di recepimento (in particolare, nel decreto legislativo n. 32/2010 e nel decreto ministeriale dell’10 novembre 2011), dall’altro modifiche sostanziali, specificando, ad esempio, il ruolo del Geoportale nazionale; le modalità di scambio delle informazioni tra le istituzioni, nazionali e comunitarie; il raccordo tra la normativa nazionale e i regolamenti comunitari attuativi di INSPIRE; le condizioni di accesso ai set di dati territoriali ed ai servizi relativi; l’attività di monitoraggio e reporting.
L’articolo 14 in esame recepisce le modifiche proposte e segnalate dalle autorità italiane alla Commissione europea.
Articolo 15
(Disposizioni in materia di
assoggettabilità alla procedura di valutazione di impatto ambientale)
L’articolo 15 modifica in più punti la disciplina relativa alla valutazione di impatto ambientale (VIA) ed alla valutazione ambientale strategica (VAS), contenuta nella parte seconda e nei relativi allegati del D.Lgs. 152/2006 (recante norme in materia ambientale), al fine di superare le censure mosse dalla Commissione europea nell’ambito della procedura di infrazione 2009/2086. Le modifiche alla disciplina vigente riguardano: la definizione di “progetto”; i progetti soggetti a verifica di assoggettabilità alla VIA (screening); l’accesso alle informazioni ed alla partecipazione al pubblico ai processi decisionali in materia di VIA e VAS.
Il comma 1, lettera a), novella, integrandola, la definizione di “progetto” contenuta nell’art. 5, comma 1, lettere g) e h), del D.Lgs. 152/2006, trasponendo integralmente la definizione recata dall’art. 1, paragrafo 2, lett. a), della direttiva 2011/92/UE.
La nuova definizione di "progetto" fa riferimento alla realizzazione di lavori di costruzione o di altri impianti od opere e di altri interventi sull'ambiente naturale o sul paesaggio, compresi quelli destinati allo sfruttamento delle risorse del suolo.
Inoltre, riprendendo la vigente formulazione della norma, si precisa che:
§ per le opere pubbliche, gli elaborati del progetto preliminare e del progetto definitivo sono predisposti in conformità all'art. 93, commi 3 e 4, del D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture);
§ negli altri casi, il progetto preliminare e quello definitivo sono predisposti con un livello informativo e di dettaglio almeno equivalente ai fini della valutazione ambientale.
Poiché la nuova definizione unifica le due precedenti definizioni di progetto preliminare e definitivo contenute nelle citate lettere g) ed h), la lettera b) del comma 1 dispone quindi l’abrogazione della lettera h) del comma 1 dell’articolo 5.
Con le lettere c), d) ed e) del comma 1 vengono introdotte nuove disposizioni, sostitutive di quelle recentemente introdotte dall’art. 23 della L. 97/2013, al fine di pervenire ad un recepimento della direttiva capace di superare in maniera definitiva le censure mosse dalla Commissione europea nell’ambito della procedura di infrazione 2009/2086, avviata, principalmente, per non conformità delle norme nazionali che disciplinano la verifica di assoggettabilità a VIA (screening) con l’articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2011/92/UE.
Il paragrafo 2 dell’art. 4 della direttiva 2011/92/UE prevede che gli Stati membri debbano determinare se sottoporre o meno a VIA una serie di progetti (elencati nell’allegato II della direttiva) o conducendo un esame caso per caso oppure fissando delle soglie e/o dei criteri. Attraverso tali soglie o criteri gli Stati membri hanno la facoltà di definire quali progetti, rientranti nell’allegato II, debbano essere assoggettati a procedura di VIA.
L’art. 4, paragrafo 3, della citata direttiva stabilisce invece che, nel fissare le soglie, gli Stati devono tenere in considerazione i criteri dettati dall’allegato III della direttiva. Al riguardo la Commissione europea, nell’ambito della richiamata procedura d’infrazione, stigmatizza come la normativa italiana prenda in considerazione solo alcuni di tali criteri (in particolare la “dimensione del progetto” e le “zone classificate o protette dalla legislazione degli Stati membri”, v. infra) senza tenere conto di tutti i criteri elencati nell’allegato III della direttiva.
Con riferimento ai succitati criteri presi in considerazione dalla normativa italiana, l’esame delle vigenti disposizioni del d.lgs. 152/2006 evidenzia che:
§ i progetti sottoposti a screening, elencati nell’allegato IV alla parte seconda del d.lgs. 152/2006, sono grosso modo gli stessi previsti dall’allegato II della direttiva, ma, a differenza della direttiva, l’allegato IV contempla sovente delle soglie dimensionali minime per sottoporre il progetto a verifica di assoggettabilità;
§ l’art. 6, comma 6, del D.Lgs. 152/2006 stabilisce che per i progetti di cui all'allegato IV relativi ad opere o interventi di nuova realizzazione, che ricadono, anche parzialmente, all'interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394, la fase di screening sia bypassata e si proceda direttamente alla valutazione di impatto ambientale;
§ l’art. 6, comma 9, prevede, in capo alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, non l’obbligo ma solo la facoltà di modificare le soglie previste in sede statale e di fissare criteri o condizioni di esclusione dalla verifica di assoggettabilità, con la conseguenza – secondo la relazione illustrativa all’A.S. 588 – che non sussiste alcuna garanzia che le soglie fissate dal D.Lgs. 152/2006, in maniera giudicata (dalla Commissione europea) non conforme al diritto dell’Unione, vengano modificate dalle regioni e dalle province autonome.
Al fine di superare le criticità sollevate dalla Commissione europea nell’ambito della procedura di infrazione, l’art. 23 della L. 97/2013 ha introdotto nuove disposizioni, invece che novellare – come sarebbe stato più opportuno – le disposizioni del Codice del D.Lgs. 152/2006. Tali nuovi disposizioni hanno previsto una procedura in due fasi per addivenire, da parte delle regioni, alla definizione di soglie e criteri per l'assoggettamento alla procedura di screening.
Le disposizioni dettate dalle lettere c), d) ed e) in commento sostituiscono la citata procedura con una procedura che prevede un’unica fase, delegificando l’individuazione delle soglie e dei criteri, che viene direttamente demandata ad un decreto ministeriale (il coinvolgimento delle regioni viene garantito prevedendo che in sede di emanazione del citato decreto venga acquisita l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni). Le disposizioni dettate dalle citate lettere novellano direttamente le disposizioni del D.Lgs. 152/2006.
Passando a un’analisi del contenuto in dettaglio, si segnala che la lettera c) novella l’art. 6, comma 6, lettera b), del Codice, eliminando quella parte della disposizione che prevede, come condizione per l’assoggettamento a VIA dei progetti elencati dall’allegato IV, che tali progetti ricadano, anche parzialmente, in aree naturali protette.
Al riguardo, andrebbe valutata l’opportunità di modificare tale
disposizione in quanto, per come è formulata, sembrerebbe implicare l’assoggettamento
a VIA (superando la fase di screening)
di tutti i progetti dell’allegato IV rendendo di fatto inapplicabili tutte le
disposizioni relative allo screening di tali progetti dettate dai commi
successivi dell’art. 6 del Codice. Nel caso in cui si volessero espungere solo
i criteri relativi alle aree protette andrebbe valutata l’opportunità di
sopprimere l’intera lettera b) del comma 6 lasciando che sia la fase di
screening a stabilire se il progetto debba essere sottoposto a VIA.
Ai sensi del comma 4 le modifiche introdotte dalla lettera c) si applicheranno solo a partire dalla data di entrata in vigore del D.M. Ambiente previsto dalla seguente lettera d).
La lettera d) del comma 1 integra, infatti, il disposto dell’art. 6, comma 7, lettera c), del D.Lgs. 152/2006, prevedendo che, per i progetti elencati nell’allegato IV, siano emanate con D.M. Ambiente (d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni), disposizioni volte a definire i criteri e le soglie per ciascuna tipologia di progetto prevista nell’allegato IV per l’assoggettamento alla procedura di screening, sulla base dei criteri stabiliti nell’Allegato V.
Il comma 2 dell'articolo in commento prevede che il citato D.M. sia emanato entro 90 giorni dall’entrata in vigore della presente legge.
La lettera e) del comma 1 riscrive il comma 9 dell’art. 6 del D.Lgs. 152/2006, introducendo una disposizione transitoria, secondo la quale le soglie previste nell’allegato IV continuano ad applicarsi fino all’entrata in vigore del D.M. Ambiente previsto dalla precedente lettera d).
Si osserva che sarebbe opportuna una migliore formulazione della disposizione,
al fine di chiarire che le soglie previste nell’allegato IV si applicano fino
alla data di entrata in vigore del citato D.M.
Un’ulteriore disposizione transitoria è contenuta nel comma 3, ai sensi del quale le disposizioni dell’art. 6, comma 8, del D.Lgs. 152/2006, continuano ad applicarsi fino all’entrata in vigore del D.M. Ambiente previsto dalla precedente lettera d).
Il citato comma 8 prevede il dimezzamento delle soglie dimensionali, ove previste, per i progetti (di cui agli allegati III e IV) ricadenti all'interno di aree naturali protette. Lo stesso comma prevede che le medesime riduzioni si applichino anche per i progetti di cui all'allegato II, punti 4-bis) e 4-ter), relativi agli elettrodotti facenti parte della rete elettrica di trasmissione nazionale.
La cessazione dell’applicazione del citato comma 8 dopo l’entrata in vigore del previsto D.M. Ambiente si spiega in ragione del fatto che tale disposizione risulterebbe in contrasto con tale decreto che dovrà definire ex-novo i criteri e le soglie per ciascuna tipologia di progetto e non più limitatamente al solo criterio finalizzato alla tutela delle aree naturali protette.
Il comma 5 dispone l’abrogazione dell’art. 23 della L. 97/2013, la cui disciplina è sostituita da quella delineata dalle lettere c), d) ed e) testé commentate.
Le lettere da f) ad l) del comma 1 introducono modifiche agli articoli 12, 17, 20, 24 e 32 del D.Lgs. 152/2006 relativamente all’accesso alle informazioni ed alla partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia di VIA e VAS.
In particolare, la lettera f) riscrive il comma 5 dell’art. 12 del citato decreto al fine di prevedere la pubblicazione integrale sul sito web dell'Autorità competente del risultato (comprensivo delle motivazioni) della verifica di assoggettabilità a VAS.
Il testo vigente si limita invece a prevedere che tale risultato (comprensivo delle motivazioni) deve essere reso pubblico.
La lettera g) riscrive il comma 1 dell’art. 17 del D.Lgs. 152/2006 precisando che la pubblicazione della decisione finale della procedura di VAS (nonché delle altre informazioni contemplate dall’art. 17: parere dell’autorità competente; dichiarazione di sintesi; misure di monitoraggio) deve sempre essere effettuata sui siti web delle autorità interessate.
Il testo vigente prevede invece che la decisione finale sia pubblicata nella Gazzetta Ufficiale o nel Bollettino Ufficiale della Regione, mentre per le altre informazioni contemplate dall’art. 17 la pubblicazione sui siti web delle autorità interessate è contemplata solamente come eventuale.
Con riferimento alle lettere f) e g) si ricorda che la disciplina europea in materia di VAS è contenuta nella direttiva 2001/42/CE e che tale direttiva non impone la pubblicazione tramite internet, ma demanda agli Stati membri la determinazione delle “specifiche modalità per l'informazione e la consultazione delle autorità e del pubblico” (art. 6, comma 5, della direttiva 2001/42/CE).
È pur vero che l’art. 6, paragrafo 2, della direttiva 2011/92/UE prevede, in materia di VIA, che il pubblico sia “informato, attraverso pubblici avvisi oppure in altra forma adeguata come i mezzi di comunicazione elettronici, se disponibili”.
La lettera h) riscrive il comma 2 dell’art. 20 del D.Lgs. 152/2006 modificando le modalità di pubblicazione:
§ della notizia dell’avvenuta trasmissione all'autorità competente, da parte del proponente, del progetto preliminare e dello studio preliminare ambientale dei progetti sottoposti a screening di VIA;
§ nonché dei citati documenti progettuali.
Rispetto al testo vigente, che prevede la pubblicazione nella G.U. (per i progetti di competenza statale) o nel Bollettino Ufficiale della Regione (per i progetti di rispettiva competenza), nonché all'albo pretorio dei comuni interessati, il testo previsto dalla norma prevede la pubblicazione:
§ sul sito web dell’autorità competente;
§ a mezzo stampa. In tal caso viene precisato che la pubblicazione deve avvenire a cura e spese del proponente. Viene altresì stabilito che la pubblicazione avvenga:
- su un quotidiano a diffusione nazionale e su un quotidiano a diffusione regionale, nel caso di progetti di competenza statale;
- su un quotidiano a diffusione regionale o provinciale, nel caso di progetti di competenza delle Regioni e delle Province autonome.
Viene altresì disposto che la documentazione sia depositata su supporto informatico presso i Comuni ove il progetto è localizzato e, nel caso di progetti di competenza statale, anche presso la sede delle Regioni e delle Province autonome interessate. Viene ammessa la presentazione cartacea nei casi di particolare difficoltà di ordine tecnico.
Si fa notare che il testo vigente contempla la sola presentazione cartacea.
Tale ultima disposizione consente di allineare il testo vigente del comma 2 dell’art. 20 a quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo ove già si prevede che il proponente trasmette all'autorità competente il progetto preliminare, lo studio preliminare ambientale in formato elettronico, ovvero nei casi di particolare difficoltà di ordine tecnico, anche su supporto cartaceo.
Il nuovo testo del comma 2 previsto dalla lettera in esame prevede inoltre che l’avviso sia predisposto utilizzando l’apposito formato reso disponibile sul sito web dell’autorità competente.
Viene altresì stabilito che tale avviso dia conto della procedura e della data di avvio della medesima.
Queste ultime innovazioni in merito al formato e all’obbligo di informare sulla procedura e sulla data di avvio sono introdotte anche al comma 3 dell’art. 24 del D.Lgs. 152/2006 (relativo alla procedura di consultazione in materia di VIA) ad opera della successiva lettera i).
Analoghi obblighi di pubblicità e chiarezza informativa per il pubblico sono inseriti nell'articolo 24, sulla procedura di valutazione di impatto ambientale.
Analoghi obblighi di pubblicità sui siti web è prevista per i progetti "transfrontalieri" (articolo 32, D.Lgs. 152/2006).
La lettera l) introduce, per le consultazioni transfrontaliere in materia di VIA-VAS, l’obbligo di dare evidenza pubblica alla notifica mediante pubblicazione sul sito web dell’autorità competente.
Si ricorda che il testo vigente dell’art. 32 prevede, al comma 1, che in caso di piani, programmi, progetti e impianti che possono avere impatti rilevanti sull'ambiente di un altro Stato, o qualora un altro Stato così richieda, il Ministero dell'ambiente provveda alla notifica dei progetti e di tutta la documentazione concernente il piano, programma, progetto o impianto.
La lettera n) modifica il punto 10), terzo trattino, dell’Allegato II (che elenca i progetti sottoposti a VIA statale) alla parte seconda del D.Lgs. 152/2006, eliminando l’aggettivo “extraurbane”. In tal modo risultano sottoposte a VIA le opere relative a tutte le strade (non solo extraurbane, ma anche urbane) a quattro o più corsie, in linea con quanto previsto dall’Allegato I, n. 7), lettera c), della direttiva 2011/92/UE che fa riferimento generico alla costruzione di “nuove strade a quattro o più corsie”.
Le lettere m) ed o) si limitano a meglio precisare le disposizioni di cui ai punti 7-ter) e 17) dell’Allegato II alla parte seconda del D.Lgs. 152/2006, relative ad opere connesse allo stoccaggio di CO2, facendo rinvio alle pertinenti definizioni recate dall’art. 3 del D.Lgs. 162/2011 con cui è stata recepita la direttiva 2009/31/CE in materia di stoccaggio geologico del biossido di carbonio (CO2).
La lettera p), infine, aggiunge la costruzione di strade urbane di quartiere tra le opere assoggettate a screening di VIA elencate nell’Allegato IV alla parte seconda del D.Lgs. 152/2006.
La modifica non sembra presentare problemi di compatibilità con la direttiva, il cui allegato II, al numero 10), lettera e), fa generico riferimento alla “costruzione di strade”.
Il 27 febbraio 2012 la Commissione europea, nell’ambito della procedura di infrazione n. 2009/2086, ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora complementare per la non conformità della normativa italiana alla direttiva 85/337/CEE concernente la valutazione dell’impatto ambientale (VIA), come modificata dalle direttive 97/11/CE, 2003/35/CE e 2009/31/UE, con particolare riferimento alle disposizioni contenute nella parte seconda del D.Lgs n. 152/2006 - come modificato dal D.Lgs. 4/2008.
La procedura di infrazione, era stata avviata il 14 aprile 2009 con l’invio inviato all’Italia di una lettera di messa in mora, che considerava non correttamente recepite le disposizioni relative alla disciplina del c.d. screening o verifica di assoggettabilità a VIA come definita dall’articolo 4, paragrafi da 1 a 3 della direttiva, in combinato con gli allegati I e II (elenco dei progetti cui si applica la direttiva) e III (criteri di selezione dei progetti cui si applica la procedura di screening)[14].
L’articolo 4, della direttiva VIA prevede che:
- paragrafo 1: i progetti elencati nell'allegato I siano sottoposti a valutazione d’impatto ambientale (VIA) a norma degli articoli da 5 a 10 della direttiva stessa;
- paragrafo 2: per i progetti elencati nell’allegato II della direttiva gli Stati membri determinano se il progetto debba essere sottoposto a VIA mediante a) un esame del progetto caso per caso; o b) soglie o criteri fissati dagli Stati membri;
- paragrafo 3: gli Stati membri tengono conto dei criteri di selezione riportati nell'allegato III nell'esaminare caso per caso o nel fissare soglie o criteri ai fini del paragrafo 2.
Secondo la Commissione, la legislazione italiana[15] (allegati II, III, o IV del D.Lgs. 152/2006 modificato) fissa per i progetti cui si applica la direttiva, elencati all’allegato II, soglie dimensionali al di sotto delle quali si presuppone che i progetti siano tali da non avere in nessun caso impatti notevoli sull’ambiente.
Richiamando una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia europea, la Commissione sottolinea, al contrario, come gli Stati membri, anche nel caso in cui decidano di stabilire soglie per facilitare la determinazione dei progetti da assoggettare a VIA, hanno l’obbligo di prendere in considerazione tutti i criteri elencati nell’allegato III della direttiva (art 4, par. 3 della direttiva), che dunque non possono considerarsi automaticamente assorbiti dalla fissazione di soglie, determinate, peraltro, tenendo conto prevalentemente di soli criteri di tipo dimensionale.
In particolare, la Commissione ribadisce che uno Stato
membro il quale, sulla base dell’articolo 4(2) della direttiva, stabilisce
soglie e/o criteri che tengono conto solo della dimensione dei progetti, senza
prendere in considerazione gli altri criteri elencati nell’allegato III della
direttiva, eccede i limiti della discrezionalità di cui dispone ai sensi degli
articolo 2(1) e 4(2) della direttiva stessa.
Infine, la Commissione osserva come il D.Lgs. 152/2006 modificato, in riferimento alla trasposizione degli articoli 4, paragrafi 2 e 3 della direttiva, ha in sostanza mantenuto lo stesso approccio della legislazione da esso abrogata, e di cui la Commissione aveva già segnalato l’incompatibilità nell’ambito di una precedente procedura d’infrazione.
Lo scorso 7 novembre 2013, le autorità italiane hanno inviato alla Commissione europea le proposte di modifiche al decreto legislativo n. 152/2006 che consentirebbero di superare i rilievi mossi. Tali modifiche sono state recepite dall’articolo 15 in esame.
E’ attualmente all’esame
delle istituzioni europee la proposta di direttiva (COM(2012)628) che modifica la
direttiva 2011/92/UE[16] concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati.
La proposta, presentata dalla Commissione il 26 ottobre 2012, è stata approvata in prima lettura dal Parlamento europeo, nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, lo scorso 9 ottobre 2013. Il Coreper (Comitato delle regioni), lo scorso 30 novembre ha approvato il mandato negoziale per il primo trilogo informale con il Parlamento Europeo, con la prospettiva di pervenire ad un accordo in prima lettura entro il mese di dicembre.
L’obiettivo generale della proposta è la correzione delle carenze della legislazione vigente (individuate, principalmente, nell’assenza di disposizioni volte a garantire la qualità delle informazioni e gli standard qualitativi della procedura di VIA e in lacune a livello di attuazione), tenendo conto dei cambiamenti e degli attuali problemi ambientali e socioeconomici in corso e rispettando i principi della regolamentazione intelligente.
Al fine di semplificare la normativa, rendendo lo strumento della VIA più agile e più aderente alle finalità per le quali è stato introdotto, la proposta di direttiva razionalizza la procedura di screening, richiedendo la VIA stessa solo in presenza di impatti ambientali chiaramente significativi. Inoltre, si prevede la possibilità di non svolgere una valutazione completa nei casi in cui il progetto adattato affronti adeguatamente gli impatti ambientali più significativi. La necessità di svolgere una VIA rimane legata alla natura, complessità, ubicazione ed alle dimensioni del progetto proposto e deve basarsi su fattori oggettivi, come le dimensioni del progetto, l’uso di risorse preziose, la sensibilità ambientale del sito e l’entità o irreversibilità dell’impatto potenziale.
Si ricorda che la proposta fa parte delle iniziative per l’attuazione della tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse[17]. Inoltre, la revisione della direttiva VIA è in linea con la strategia Europa 2020[18], in particolare rispetto alla necessità di attribuire priorità a una crescita sostenibile. La direttiva riveduta può anche contribuire in maniera significativa all’obbligo da parte dell’Unione di tenere conto degli aspetti culturali in tutte le sue politiche e azioni.
Articolo
16
(Delega al Governo in materia di inquinamento acustico. Armonizzazione della
normativa nazionale con le direttive 2002/49/CE, 2000/14/CE e 2006/123/CE
e il regolamento (CE) n. 765/2008)
L’articolo 16 reca disposizioni di delega al Governo per il riordino dei provvedimenti normativi vigenti inerenti la tutela dell'ambiente esterno e dell'ambiente abitativo dall'inquinamento acustico prodotto dalle sorgenti sonore fisse e mobili. In particolare, la disposizione elenca una serie di principi e criteri direttivi per l’adozione dei decreti legislativi al fine di semplificare ed aggiornare al progresso tecnologico la normativa nazionale vigente, anche al fine di renderla maggiormente coerente con talune prescrizioni previste dalla disciplina europea. In tale ambito, peraltro, si rammenta che è in corso la procedura d’infrazione 2013/2022, avviata per una non corretta attuazione della direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione ed alla gestione del rumore ambientale, recepita dall’Italia con il d.lgs. 194/2005.
Relativamente alle osservazioni sollevate dalla Commissione europea, si fa notare che esse non riguardano, almeno in maniera diretta, la normativa nazionale, ma attengono principalmente ad aspetti di carattere organizzativo. Nella “Relazione del Ministro dell'ambiente concernente le procedure di infrazione avviate dalla Commissione Europea a decorrere dal 19 gennaio 2013”, viene infatti sottolineato che i rilievi della Commissione riguardano la mancata trasmissione di alcune mappe acustiche strategiche, delle curve di livello (che rappresentano requisiti minimi, ai sensi della direttiva 2002/49/CE, delle citate mappe), nonché il fatto che “l'Italia non ha elaborato in modo appropriato i piani d'azione per nessuno dei 444 assi stradali principali e per nessuno degli 11 agglomerati con più di 250.000 abitanti”.
Per quanto riguarda la disciplina nazionale in materia, si ricorda, in estrema sintesi, che la disciplina della tutela dell’ambiente dall’inquinamento acustico risale alla legge quadro 26 ottobre 1995, n. 447, che riguarda sia l’ambiente esterno che l’ambiente abitativo, in cui sono ricompresi anche i locali pubblici ma non l’ambiente lavorativo, per il quale il riferimento normativo di base è costituito dal D.Lgs. 81/2008.
La citata legge quadro prevede una serie di adempimenti attuativi, la cui emanazione ha richiesto un lungo percorso di completamento della normativa avvenuto principalmente nel corso delle legislature XIII e XIV[19]. Nel corso di quest’ultima legislatura si è inoltre provveduto al recepimento, sulla base delle deleghe concesse da alcune leggi comunitarie, a tre direttive relative:
§ alla determinazione ed alla gestione del rumore ambientale sulla qualità dell’ambiente, in particolare dei grandi ambienti urbani e delle principali infrastrutture di trasporti (direttiva 2002/49/CE, recepita con il D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 194);
§ all’inquinamento acustico originato dall’esercizio delle infrastrutture aeroportuali e di rumorosità degli aeromobili (direttiva 2002/30/CE, recepita con il D.Lgs. 17 gennaio 2005, n. 13);
§ all'emissione acustica ambientale delle macchine ed attrezzature destinate a funzionare all'aperto (direttiva 2000/14/CE, recepita con il D.Lgs. 4 settembre 2002, n. 262).
Con riferimento alla direttiva 2002/49/CE, che rappresenta l’oggetto della procedura di infrazione avviata dalla Commissione, si ricorda che tale direttiva – che rappresenta la prima direttiva quadro del settore - non mira alla regolamentazione di tutti gli aspetti del rumore ambientale (come, invece, intendeva fare la legge quadro n. 447 del 1995), ma unicamente quelli che riguardano i c.d. “grandi protagonisti” del rumore in Europa, ossia i gestori delle principali infrastrutture di trasporti – stradale, ferroviari ed aeroportuali – e dei principali agglomerati urbani.
I punti chiave della direttiva sono, in sintesi estrema, così focalizzati:
§ introduzione di (nuovi per l’Italia) descrittori acustici e dei relativi metodi di determinazione del rumore, al fine di determinare parametri omogenei a quantificare il rumore ambientale nei diversi Stati europei;
§ determinazione di questi parametri sul territorio, attraverso le mappature acustiche strategiche;
§ permettere una progressiva riduzione all’esposizione al rumore, attraverso piani d’azione mirati, con la finalità di gestire i problemi di inquinamento acustico e i relativi effetti, compresa, se necessario, la sua riduzione. Le misure dei piani di azione sono lasciate alla discrezionalità delle autorità competenti, ma devono corrispondere alle priorità che possono derivare dal superamento dei valori limite pertinenti o di altri criteri scelti dagli Stati membri e sono applicate in particolare alle zone più importanti determinate dalla mappatura strategica;
§ indicazione dei principali soggetti responsabili della gestione del rumore ambientale (gestori delle grandi infrastrutture e dei grandi agglomerati urbani);
§ gestione dell’informazione nei confronti della popolazione esposta.
In relazione agli adempimenti delle autorità competenti designate dagli Stati membri, la direttiva prevede una precisa scansione temporale (artt. 7 e 8). Nessuna indicazione, né alcun obiettivo, invece, sono previsti per quanto riguarda gli agglomerati di dimensioni inferiori a 100.000 abitanti e le infrastrutture di trasporto (assi stradali e ferroviari, aeroporti) non classificati come “principali”.
Vengono definite, dall’art. 3 della direttiva quali: "asse stradale principale", una strada regionale, nazionale o internazionale, designata dallo Stato, su cui transitano ogni anno più di 3 milioni di veicoli, "asse ferroviario principale", una ferrovia, designata dallo Stato, su cui transitano ogni anno più di 30.000 treni e un "aeroporto principale", un aeroporto civile, designato dallo Stato, in cui si svolgono più di 50.000 movimenti l'anno (intendendosi per movimento un'operazione di decollo/atterraggio), esclusi i movimenti a fini di addestramento su aeromobili leggeri (le corrispondenti definizioni sono recate dall’art. 2 del D.Lgs. 194/2005).
Con riferimento al recepimento della citata direttiva, operata dal D.Lgs. 194/2005 sulla base della delega conferita dalla legge comunitaria 2003 (L. 306/2003), si fa notare che i problemi che la delega prevista dall'articolo in esame cerca di superare, erano già ben noti nel corso della XIV legislatura, tanto che l’art. 14 della citata L. 36/2003 aveva previsto una ulteriore delega volta all’emanazione di “un decreto legislativo di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative in materia di tutela dall'inquinamento acustico”. Si richiama in proposito quanto riportato nel dossier di inizio della XV legislatura da questo Servizio studi, nella scheda intitolata “Inquinamento acustico e luminoso”: “anche se il decreto legislativo rappresenta il primo passo dell’adattamento delle norme italiane esistenti alla disciplina europea, tale recepimento risulta particolarmente delicato in quanto l’Italia, …, gode (già) di un corpus normativo completo in materia … Peraltro, il nuovo provvedimento - destinato ai gestori delle infrastrutture ed ai grandi centri urbani - si limita ad individuare le competenze e le procedure, senza, però, entrare nel merito delle questioni tecniche, per le quali si rinvia a successivi decreti attuativi che dovranno, altresì, provvedere al coordinamento della normativa vigente con le nuove disposizioni. Infatti, uno dei problemi che si pone è proprio quello di coordinare i nuovi strumenti di programmazione con quelli previsti dalla legge quadro. Proprio a tal fine, l’art. 14 della legge comunitaria 2003 ha previsto anche l’emanazione, entro il 30 giugno 2004, di un decreto legislativo di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative in materia di tutela dall’inquinamento acustico, nel rispetto dei principi e delle disposizioni comunitarie già vigenti in materia. Tale delega, però, non è stata ancora esercitata. In particolare, si dà il caso dei piani di risanamento comunali e dei piani di abbattimento e contenimento del rumore, già previsti dalla legge quadro (tramite il decreto attuativo emanato dal Ministro dell’ambiente in data 29 novembre 2000), che non vengono espressamente ricondotti dal nuovo decreto legislativo all’interno dei nuovi strumenti programmatori quali i piani di azione. … D’altro canto, l’esigenza di coordinamento tra le nuove disposizioni con la normativa vigente è emersa anche nel corso dell’esame parlamentare del decreto da parte della VIII Commissione (Ambiente). In sede di espressione del parere (favorevole con condizioni ed osservazioni), reso in data 14 luglio 2005, tra le osservazioni è stata rilevata la necessità di un coordinamento tra i piani d'azione e i piani previsti dalla legge quadro, e l’eventuale opportunità di specificare se tale coordinamento comporti o meno l'abrogazione delle disposizioni che prevedono i citati piani, nonché la possibilità di indicare espressamente i parametri ed i criteri in base ai quali deve essere effettuato il coordinamento normativo tra le disposizioni del decreto legislativo e gli atti - di competenza statale - emanati ai sensi dell'art. 3 della legge n. 447 del 1995, nonché i regolamenti adottati in base all'art. 11 della stessa legge. In linea generale, nel parere si auspica l’adozione di ogni possibile modifica tendente ad uniformare la disciplina dello schema di decreto legislativo con quella stabilita dalla legge quadro, che già contiene, al suo interno, molti dei principi previsti dalla direttiva 2002/49/CE, anche al fine di non rendere inutile il lavoro già svolto, in attuazione della citata legge n. 447, dai soggetti tenuti ai relativi adempimenti e di consentire un notevole risparmio in termini economici e temporali”.
Nel corso della XVI legislatura la delega per il riordino della normativa in materia di inquinamento acustico è stata riaperta dall’art. 11 della L. 88/2009, senza che tuttavia si sia mai pervenuti all’emanazione di un decreto legislativo di riordino. Ulteriori norme di delega erano contenuti nei disegni di legge comunitari per il 2010 (art. 33 dell’A.C. 4059-A) e per il 2011 (art. 13 dell’A.C. 4623-A).
Il comma 1 dell'articolo 16 chiarisce che la delega viene concessa al fine di assicurare la completa armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico:
§ con la direttiva 2002/49/CE, relativa alla determinazione ed alla gestione del rumore ambientale (recepita dall’Italia con il d.lgs. 194/2005);
§ e con la direttiva 2000/14/CE, relativa all’ emissione acustica ambientale delle macchine ed attrezzature destinate a funzionare all’aperto (recepita dall’Italia con il d.lgs. 262/2002).
Per le citate finalità, il comma 1 delega il Governo ad adottare, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi per il riordino della normativa sull’inquinamento acustico (nell’ambiente esterno e nell’ambiente abitativo) prodotto dalle sorgenti sonore fisse e mobili, definite dall’art. 2, comma 1, lettere c) e d), della L. 447/1995 (legge quadro sull'inquinamento acustico).
Ai sensi della citata lettera c) sono sorgenti sonore fisse gli impianti tecnici degli edifici e le altre installazioni unite agli immobili anche in via transitoria il cui uso produca emissioni sonore; le infrastrutture stradali, ferroviarie, aeroportuali, marittime, industriali, artigianali, commerciali ed agricole; i parcheggi; le aree adibite a stabilimenti di movimentazione merci; i depositi dei mezzi di trasporto di persone e merci; le aree adibite ad attività sportive e ricreative. Sono mobili - ai sensi della successiva lettera d) - tutte le sorgenti sonore diverse da quelle indicate alla lettera c).
Il comma 2 detta i principi e criteri direttivi che dovranno informare l’esercizio della delega.
Viene infatti previsto che i decreti delegati siano adottati:
§ nel rispetto delle procedure, dei principi e dei criteri direttivi generali di cui agli artt. 31-32 della L. 234/2012;
Si ricorda che l’art. 31 della L. 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea) disciplina le procedure per l'esercizio delle deleghe legislative conferite al Governo con la legge di delegazione europea. Il successivo articolo 32 elenca invece i principi e criteri direttivi generali di delega per l'attuazione del diritto dell'Unione europea.
§ nonché secondo i principi e criteri specifici elencati nel seguito del comma.
Principi
e criteri direttivi specifici
a) coerenza degli strumenti di intervento e pianificazione (piani di azione e mappature acustiche);
La lettera a) in commento fa esplicito e specifico riferimento alla coerenza dei piani degli interventi di contenimento e di abbattimento del rumore previsti dal D.M. Ambiente 29 novembre 2000 (attuativo dell’art. 10, comma 5, della L. 447/1995 e recante “Criteri per la predisposizione, da parte delle società e degli enti gestori dei servizi pubblici di trasporto o delle relative infrastrutture, dei piani degli interventi di contenimento e abbattimento del rumore”), con i piani di azione, con le mappature acustiche e con le mappe acustiche strategiche previsti dalla direttiva 2002/49/CE e di cui agli articoli 2, comma 1, lettere o), p) e q), 3 e 4 e agli allegati 4 e 5 del d.lgs. 194/2005, nonché con i criteri previsti dal decreto emanato ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera f), della legge 447/1995;
Si ricorda, in proposito, che le citate lettere o), p) e q) dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 194/2005 contiene le seguenti definizioni dei termini richiamati dalla lettera a):
o) «mappatura acustica»: la rappresentazione di dati relativi a una situazione di rumore esistente o prevista in una zona, relativa ad una determinata sorgente, in funzione di un descrittore acustico che indichi il superamento di pertinenti valori limite vigenti, il numero di persone esposte in una determinata area o il numero di abitazioni esposte a determinati valori di un descrittore acustico in una certa zona;
p) «mappa acustica strategica»: una mappa finalizzata alla determinazione dell'esposizione globale al rumore in una certa zona a causa di varie sorgenti di rumore ovvero alla definizione di previsioni generali per tale zona;
q) «piani di azione»: i piani destinati a gestire i problemi di inquinamento acustico ed i relativi effetti, compresa, se necessario, la sua riduzione.
La disciplina della mappatura acustica, delle mappe acustiche strategiche e dei piani d'azione è contenuta negli articoli 3 e 4 del medesimo decreto legislativo (n. 194/2005), nonché negli allegati 4 e 5, che dettano i requisiti minimi per la loro predisposizione.
Si ricorda altresì che la citata lettera f) del comma 1 dell’art. 3 della L. 447/1995 prevede l’emanazione (non ancora avvenuta) di uno o più decreti interministeriali finalizzati all’indicazione dei criteri per la progettazione, l’esecuzione e la ristrutturazione delle costruzioni edilizie e delle infrastrutture dei trasporti, ai fini della tutela dall’inquinamento acustico.
b) recepimento nell’ambito della normativa nazionale, come disposto dalla direttiva 2002/49/CE e dal D.Lgs. 194/2005 con cui essa è stata recepita, dei descrittori acustici diversi da quelli disciplinati dalla L. 447/1995 e introduzione dei relativi metodi di determinazione a completamento e integrazione di quelli introdotti dalla medesima legge;
c) armonizzazione della normativa nazionale relativa alla disciplina delle sorgenti di rumore delle infrastrutture dei trasporti e degli impianti industriali e relativo aggiornamento ai sensi della L. 447/1995;
d) adeguamento della normativa nazionale alla disciplina della rumorosità prodotta nell’ambito dello svolgimento delle attività sportive;
e) adeguamento della normativa nazionale alla disciplina della rumorosità prodotta dall’esercizio degli impianti eolici;
f) adeguamento della disciplina dell’attività e della formazione della figura professionale di tecnico competente in materia di acustica ai sensi degli artt. 2-3 della L. 447/1995 ed armonizzazione con la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi del mercato interno e con l’art. 3 della L. 148/2011;
Si ricorda che l’art. 2, comma 6, della L. 447/1995 dispone che, ai fini di tale legge, è definito tecnico competente la figura professionale idonea ad effettuare le misurazioni, verificare l'ottemperanza ai valori definiti dalle vigenti norme, redigere i piani di risanamento acustico, svolgere le relative attività di controllo. Il tecnico competente deve essere in possesso del diploma di scuola media superiore ad indirizzo tecnico o del diploma universitario ad indirizzo scientifico ovvero del diploma di laurea ad indirizzo scientifico.
L’art. 3 della medesima legge affida allo Stato le competenze in materia.
L’art. 3 del D.L. 138/2011 (convertito dalla L. 148/2011) riguarda l’abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche, che rappresenta una finalità analoga a quella perseguita dalla direttiva 2006/123/CE, che si propone di eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri, nonché garantire ai destinatari e ai prestatori la certezza giuridica necessaria all'effettivo esercizio di queste due libertà fondamentali del trattato” (5° considerando della direttiva).
Si osserva che il rinvio all’art. 3 della L.
148/2011 andrebbe riformulato al fine di fare corretto riferimento all’art. 3
del D.L. 138/2011.
g) semplificazione delle procedure autorizzative in materia di requisiti acustici passivi degli edifici;
In proposito la relazione illustrativa sottolinea che l’attuale normativa nazionale, costituita dal D.P.C.M. 5 dicembre 1997 (recante “Determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici”, pubblicato nella G.U. 22 dicembre 1997, n. 297) “ha condotto all’insorgenza di un notevole contenzioso giudiziario tra acquirenti e costruttori di abitazioni a causa delle complesse azioni autorizzative e di sorveglianza a carico delle amministrazioni comunali, delle difficoltà interpretative ed attuative del decreto stesso e di palesi errori contenuti nel suo testo. Tale normativa risulta inoltre non conforme alle attuali tendenze di regolamentazione a livello comunitario ed alla recente normazione tecnica di settore (norme UNI)”[20].
Si segnala in proposito che l’art. 15, comma 1, lett. c) della L. 96/2010 (legge comunitaria 2009) aveva modificato la norma di delega contenuta nell’art. 11 della L. 88/2009 al fine di introdurre una disposizione transitoria di interpretazione autentica volta ad escludere – nelle more dell’emanazione dei decreti legislativo di riordino della normativa in materia di rumore previsti dal citato art. 11 – l’applicazione della disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi, fermi restando gli effetti derivanti da pronunce giudiziali passate in giudicato e la corretta esecuzione dei lavori a regola d’arte asseverata da un tecnico abilitato. Tale novella è stata tuttavia giudicata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 103/2013 della Corte costituzionale.
h) introduzione nel panorama normativo nazionale di criteri relativi alla sostenibilità economica degli obiettivi della L. 447/1995 relativamente agli interventi di contenimento e di abbattimento del rumore previsti dal D.M. Ambiente 29 novembre 2000 e dai regolamenti di esecuzione di cui all’art. 11 della L. 447/1995 per il graduale e strategico raggiungimento dei principi contenuti nella direttiva 2002/49/CE;
L’art. 11 della L. 447/1995 prevede l’emanazione di regolamenti di esecuzione, distinti per sorgente sonora relativamente alla disciplina dell'inquinamento acustico avente origine dal traffico veicolare, ferroviario, marittimo ed aereo, avvalendosi anche del contributo tecnico-scientifico degli enti gestori dei suddetti servizi, dagli autodromi, dalle aviosuperfici, dai luoghi in cui si svolgono attività sportive di discipline olimpiche in forma stabile, dalle piste motoristiche di prova e per attività sportive, da natanti, da imbarcazioni di qualsiasi natura, nonché dalle nuove localizzazioni aeroportuali. In attuazione di tale norma sono stati emanati, relativamente al traffico ferroviario, il D.P.R. 18 novembre 1998, n. 459, relativamente alle emissioni sonore prodotte nello svolgimento delle attività motoristiche, il D.P.R. 3 aprile 2001, n. 304 e, relativamente al traffico veicolare, il D.P.R. 30 marzo 2004, n. 142.
i) adeguamento della disciplina riguardante la gestione ed il periodo di validità dell’autorizzazione degli organismi di certificazione previsti dalla direttiva 2000/14/CE, alla luce del nuovo iter di accreditamento ai sensi del regolamento (CE) n. 765/2008 che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato;
Si ricorda che la direttiva 2000/14/CE concernente l'emissione acustica ambientale delle macchine ed attrezzature destinate a funzionare all'aperto è stata recepita con il D.Lgs. 4 settembre 2002, n. 262. L’art. 12 di tale decreto disciplina gli organismi di certificazione.
l) armonizzazione con la direttiva 2000/14/CE per quanto concerne il settore inerente le competenze delle persone fisiche e giuridiche che mettono a disposizione sul mercato macchine ed attrezzature destinate a funzionare all’aperto;
m) adeguamento del regime sanzionatorio in caso di mancato rispetto del livello di potenza sonora garantito previsto dalla direttiva 2000/14/CE e definizione delle modalità di utilizzo dei proventi derivanti dall’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 15 del d.lgs. 262/2002.
Il comma 3 disciplina le modalità di adozione dei decreti delegati, prevedendo che essi siano adottati su proposta dei Ministri dell’ambiente e per gli affari europei, di concerto con i Ministri delle infrastrutture e dei trasporti, della salute, dell’economia e delle finanze e dello sviluppo economico, acquisito il parere della Conferenza unificata.
Il comma 4 reca la clausola di invarianza finanziaria, disponendo che dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e che le amministrazioni adempiono ai compiti in esso previsti con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
In materia di inquinamento acustico, si segnala che la Commissione, con una lettera di messa in mora del 25 aprile 2013, ha avviato una procedura di infrazione (n. 2013/2022) nei confronti dell’Italia per la non corretta attuazione della direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale, con particolare riferimento alle mappe acustiche strategiche.
Come si legge nella relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge, l’articolo in esame non è specificamente volto al superamento della procedura di infrazione, che continuerà, pertanto, ad avere il suo corso, ma, piuttosto, alla razionalizzazione, alla semplificazione ed alla riduzione degli adempimenti e degli oneri posti a carico dei gestori delle infrastrutture dei trasporti.
E’ in fase avanzata l’iter di approvazione della proposta di regolamento per limitare l’inquinamento acustico dei veicoli a motore (COM(2011)856).
Infatti, il Parlamento europeo (che si era espresso in prima lettura il 6 febbraio 2013), il Consiglio e la Commissione hanno raggiunto un accordo in sede di trilogo, che dovrà essere ora approvato formalmente dai due colegislatori (Parlamento europeo e Consiglio).
La proposta mira a ridurre il rumore emesso nell’ambiente introducendo un nuovo metodo di prova per misurare le emissioni di rumore, riducendo i valori limite di rumorosità più rigorosi e aggiungendo nuove disposizioni sulle emissioni sonore alla procedura di omologazione. Essa mira anche a contribuire alla sicurezza stradale e del lavoro introducendo una serie di requisiti relativi alla rumorosità minima dei veicoli elettrici e ibridi-elettrici. Il testo riconosce che il rumore del veicolo dipende anche dalla superficie stradale e dal rumore dei pneumatici. Per la sicurezza di pedoni e ciclisti, il testo prevede, infine, l'armonizzazione dei sistemi audio per rendere più udibili i veicoli ibridi ed elettrici.
Articolo 17
(Ulteriori disposizioni in materia di
danno ambientale)
L’articolo 17 modifica in più punti la disciplina in materia di danno ambientale, incidendo sulle fattispecie giuridiche di riferimento e sulla qualificazione del danno, sull’azione risarcitoria e sulle misure preventive e di ripristino, nonché sulla riassegnazione delle somme derivanti dalla riscossione dei crediti in favore dello Stato per il risarcimento del danno ambientale medesimo. Le modifiche si traducono in gran parte in una serie di novelle alle disposizioni del D.Lgs. 152/2006 (norme in materia ambientale), alcune delle quali già modificate dall’art. 25 della legge europea 2013 (legge 6 agosto 2013, n. 97).
In particolare, il comma 1, lettere a) e b), dell'articolo in commento novella l’art. 298-bis del D.Lgs. 152/2006 al fine di chiarire le fattispecie giuridiche di riferimento concernenti la qualificazione di danno ambientale.
La lettera a), infatti, novella le lettere a) e b) del comma 1 del citato articolo 298-bis al fine di chiarire che il riferimento al “danno ambientale” è da intendersi alla corrispondente definizione recata dall’art. 300, comma 2, del citato decreto legislativo.
In base a tale definizione, costituisce danno ambientale ai sensi della direttiva 2004/35/CE il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato:
a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla L. 157/1992 e di cui al D.P.R. 357/1997, nonché alle aree naturali protette di cui alla L. 394/1991;
b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate;
c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali;
d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell'introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l'ambiente.
Le modifiche recate alle lettere a) e b) vanno a integrare la disciplina nazionale della responsabilità oggettiva per il danno ambientale nel caso in cui le fattispecie di danno rientrino tra quelle oggetto della direttiva.
Si ricorda in proposito che l’art. 298-bis è stato introdotto nel testo del D.Lgs. 152/2006 dal comma 1, lettera a), dell’art. 25 della L. 97/2013 (legge europea 2013), al fine di superare le censure mosse dalla Commissione europea con la procedura di infrazione 2007/4679.
In particolare con tale nuovo articolo viene inquadrato l’ambito di applicazione del decreto. La previsione della regola della responsabilità oggettiva risarcitoria è introdotta, in particolare, sganciando dai requisiti del dolo e della colpa la responsabilità per danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato 5 alla parte sesta del D.Lgs. 152/2006 (omologo dell’allegato III della direttiva).
L’art. 298-bis precisa infatti che la disciplina della parte sesta si applica:
§ al danno ambientale, causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato 5, e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività;
§ al danno ambientale, causato da un’attività diversa da quelle elencate nell’allegato 5, e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo.
Si rammenta altresì la formulazione dell’articolo 3, par. 1, della direttiva 2004/35/CE, che limita il campo di applicazione:
§ al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività;
§ al danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionali non elencata nell'allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività, in caso di comportamento doloso o colposo dell'operatore.
La lettera c) novella il comma 2 dell’articolo 298-bis specificando il riferimento al danno ambientale di cui alle lettere a) e b) del comma 1 del medesimo articolo, come novellate dalla norma in commento, relativamente al quale si prevede che la riparazione debba avvenire nel rispetto dei principi e dei criteri stabiliti nel titolo II e nell'allegato 3 alla parte sesta del D.Lgs. 152/2006.
La lettera b) introduce una lettera b-bis) all’articolo 298-bis al fine di ampliare il campo di applicazione, disciplinato dal citato articolo, al danno ambientale di cui all’articolo 300, comma 1, causato da un’attività svolta in modo doloso o colposo in violazione di leggi o provvedimenti.
Ai sensi dell’art. 300, comma 1, è danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima.
La disposizione sembra volta a rafforzare gli strumenti di tutela al di fuori delle ipotesi di danno ambientale previste dalla direttiva in quanto viene chiarito che, oltre alle ipotesi disciplinate dalle lettere a) e b), l’autore della condotta dannosa, al ricorrere dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, è tenuto a riparare il danno in linea con la disciplina di carattere generale della riparazione dell’illecito prevista dall’articolo 2043 del Codice civile.
Merita ricordare le affermazioni risalenti, ma ancora attuali, in tema di danno ambientale, secondo cui quanti agiscono per ottenerne il risarcimento devono “dimostrare in primo luogo il dolo o la colpa del danneggiante e, quindi, la violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge” (Cassazione civile, 3 febbraio 1998, n. 1087).
Il comma 2 reca due novelle al comma 4 dell’art. 308 del D.Lgs. 152/2006 al fine di precisare che:
- non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e ripristino se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di opportune misure di sicurezza (lettera a);
Il testo vigente fa invece riferimento all’esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee.
- anche a tale fattispecie si applica l’attività del Ministro dell'ambiente, finalizzata all’adozione delle misure necessarie per consentire all'operatore il recupero dei costi sostenuti (lettera b).
Si rammenta che il testo vigente dell’articolo 308, comma 4, prevede che, oltre all’ipotesi disciplinata alla lettera a) di tale comma cui si è fatto precedentemente cenno, non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e ripristino se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica, diversi da quelli impartiti a seguito di un'emissione o di un incidente imputabili all'operatore (lettera b). Il testo vigente prevede che solo per tali ipotesi il Ministro dell’ambiente adotti le misure necessarie per consentire all'operatore il recupero dei costi sostenuti.
Il comma 3 reca una serie di novelle all’art. 311 del D.Lgs. 152/2006 che disciplina l’azione risarcitoria (in forma specifica) del danno ambientale.
Si rammenta che l’articolo 25 della legge 97/2013 (legge europea 2013) ha novellato l’art. 311 d.lgs. 152/2006 con riferimento alle procedure risarcitorie modificando l’ambito di applicazione ed eliminando sia nella rubrica della norma che al comma 2 ogni riferimento al risarcimento per danno equivalente.
Merita soffermarsi in particolare sulle novelle di cui alle lettere b), e) ed f) del comma, poiché le altre novelle paiono limitarsi ad introdurre utili precisazioni alle formulazioni vigenti.
In particolare, la lettera b) novella il comma 2 dell’art. 311 al fine di circoscriverne l’applicazione al danno ambientale definito dall’art. 300, comma 2, ossia al danno ambientale la cui fattispecie corrisponde a quella oggetto della direttiva.
Il comma 2 dell’articolo 311 prevede che, nel caso in cui si verifichi un danno ambientale cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell’allegato 5 alla parte sesta del medesimo decreto, gli stessi sono obbligati all’adozione delle misure di riparazione di cui all’allegato 3 alla medesima parte sesta. Alle misure di riparazione è, altresì, obbligato anche chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa.
La lettera e) introduce un periodo aggiuntivo al citato comma 2 volto a disciplinare il caso di danno ambientale contemplato dalla lettera b-bis) dell’art. 298-bis, introdotta dal comma 1 dell'articolo in commento, ossia il danno ambientale le cui fattispecie non rientrano tra quelle oggetto della direttiva. In tale caso, ai sensi della lettera e), viene previsto l’obbligo, in capo ai responsabili, per qualsiasi tipo di matrice ambientale danneggiata, di rimessione in pristino, analogamente a quanto previsto per il danno disciplinato dalla direttiva.
Per tali fattispecie di danno viene prevista, inoltre, la possibilità di risarcimento per equivalente, in caso di impossibilità o di eccessiva onerosità.
La lettera f) introduce un comma 2-bis all’art. 311 del D.Lgs. 152/2006, in base al quale oltre alle misure di ripristino o, nei casi previsti dal comma 2, al risarcimento per equivalente, sono a carico del responsabile i costi di cui all’art. 302, comma 13.
Il citato comma 13 definisce «costi» gli oneri economici giustificati dalla necessità di assicurare un'attuazione corretta ed efficace delle disposizioni di cui alla parte sesta del decreto, compresi i costi per valutare il danno ambientale o una sua minaccia imminente, per progettare gli interventi alternativi, per sostenere le spese amministrative, legali e di realizzazione delle opere, i costi di raccolta dei dati ed altri costi generali, nonché i costi del controllo e della sorveglianza.
Il comma 4 novella l’art. 313, comma 4, del D.Lgs. 152/2006, nella parte in cui prevede un termine di decadenza di due anni per l’adozione, da parte del Ministero dell’ambiente, dell’ordinanza con cui ingiunge il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica a coloro che, in base agli accertamenti operati (ai sensi dell’art. 312, che disciplina la fase istruttoria), siano risultati responsabili del fatto.
Il comma 4 prevede infatti che tale termine sia sostituito dal termine di prescrizione dell’azione risarcitoria.
Si ricorda in proposito che il comma 5 dell’art. 313 dispone che nei termini di prescrizione indicati dai commi 1 e 3 dell'art. 2947 del Codice civile, il Ministro dell'ambiente può adottare ulteriori provvedimenti nei confronti di trasgressori successivamente individuati. La norma in commento sembra pertanto volta ad estendere il regime della prescrizione non solo ai provvedimenti che riguardano i trasgressori successivamente individuati, ma anche ai provvedimenti (nella fattispecie l’ordinanza ministeriale ingiuntiva delle misure di ripristino) destinati a coloro che siano risultati responsabili dei fatti a seguito degli accertamenti istruttori.
Si ricorda che l’art. 2947 c.c. dispone che il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato (primo comma) e che, in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (terzo comma).
Il comma 5 novella l’art. 317, comma 5, del D.Lgs. 152/2006, che prevede il versamento all’entrata del bilancio dello Stato, e la successiva riassegnazione ad un pertinente capitolo dello stato di previsione del Ministero dell'ambiente, delle somme derivanti dalla riscossione dei crediti in favore dello Stato per il risarcimento del danno ambientale.
In particolare, la modifica è volta a prevedere che la citata riassegnazione - che in base al testo vigente deve essere effettuata con D.M. economia e finanze - avvenga in deroga alle limitazioni disposte in materia, dall’art. 1, comma 46, della L. 266/2005 (legge finanziaria per il 2006) e dall’art. 2, commi 615, 616 e 617, della L. 244/2007 (legge finanziaria per il 2008).
Il citato articolo 1, comma 46 della legge n. 266/2005 ha introdotto, a decorrere dall'anno 2006, un limite massimo all’ammontare complessivo annuale delle riassegnazioni di entrate alla spesa del bilancio dello Stato, fissato in misura non superiore all’importo complessivo delle riassegnazioni effettuate nell'anno 2005. La limitazione non si applica alle riassegnazioni per le quali l'iscrizione della spesa non ha impatto sul conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni, nonché a quelle riguardanti l'attuazione di interventi cofinanziati dall'Unione europea.
La successiva legge
finanziaria ha disposto, a decorrere dal 2008, un vero e proprio divieto di iscrizione negli stati di
previsione della spesa dei Ministeri di stanziamenti provenienti da versamenti
di somme all’entrata del bilancio dello Stato, qualora autorizzati da particolari
provvedimenti legislativi (espressamente indicati all’elenco n. 1 allegato alla
legge), ad eccezione degli stanziamenti destinati a finanziare le spese della
categoria «redditi da lavoro dipendente» (art. 2, comma 615, L. 244/2007). Con
quota parte delle risorse non più riassegnate alla spesa sono stati costituiti
appositi fondi, da ripartire con decreti ministeriali, la cui dotazione
finanziaria – inizialmente costituita dal 50 per cento dei versamenti
riassegnabili nel 2006 - è rideterminata annualmente, in base
all’andamento dei versamenti riassegnabili effettuati entro il 31 dicembre dei
due esercizi finanziari precedenti.
Lo stesso comma prevede che il citato D.M. venga emanato su proposta del Ministro dell’ambiente.
Il comma 6 estende il nuovo meccanismo previsto dal precedente comma 5 anche ai proventi delle c.d. transazioni globali disciplinate dall’art. 2 del D.L. 208/2008.
Il comma 7 del citato art. 2, prevede che i soli proventi di spettanza dello Stato, derivanti dalle c.d. transazioni globali ed introitati a titolo di risarcimento del danno ambientale, affluiscono ad apposito fondo.
Si tratta del fondo istituito dall’art. 7-quinquies, comma 1, del D.L. 5/2009, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze al fine di assicurare il finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, con particolare riguardo ai settori dell’istruzione e agli interventi organizzativi connessi ad eventi celebrativi.
Il comma in esame novella tale disposizione al fine di prevedere che tali proventi non affluiscano al citato fondo, ma siano versati all’entrata del bilancio dello Stato in conformità a quanto stabilito dal comma 5 dell’art. 317 del D.Lgs. 152/2006.
Relativamente al contenuto del citato art. 2 del D.L. 208/2008 si ricorda, in estrema sintesi, che esso ha introdotto una procedura alternativa di risoluzione stragiudiziale del contenzioso relativo alle procedure di rimborso delle spese di bonifica e ripristino di aree contaminate e al risarcimento del danno ambientale. In particolare, nell’ambito degli strumenti di attuazione di interventi di bonifica e messa in sicurezza di uno o più siti di interesse nazionale, il Ministero dell’ambiente può predisporre uno schema di contratto per la stipula di una o più transazioni globali, con una o più imprese interessate, pubbliche o private, in ordine alla spettanza e alla quantificazione degli oneri di bonifica e di ripristino, nonché del danno ambientale, e degli altri eventuali danni di cui lo Stato o altri enti pubblici territoriali possano richiedere il risarcimento.
In materia di responsabilità per danni ambientali e azioni di risarcimento del danno ambientale, il 26 gennaio 2012 la Commissione europea ha inviato all’Italia un parere motivato complementare - ai sensi dell’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) (procedura di infrazione n. 2007/4679) contestando, in particolare, la non corretta trasposizione nell’ordinamento italiano della direttiva n. 2004/35/CE.
Precedentemente il 20 novembre 2009 la Commissione europea aveva trasmesso un parere motivato, contestando all’Italia varie non conformità del decreto legislativo 152/2006 alla direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. Le Autorità italiane avevano risposto con note dell’1 e del 2 dicembre 2009 e con nota del 2 febbraio 2010 notificando i provvedimenti legislativi intesi a risolvere alcuni dei problemi sollevati dalla Commissione.
Nel parere motivato complementare la Commissione ha affermato di ravvisare nel decreto legislativo n. 152/2006, con cui l’Italia ha recepito la direttiva, i seguenti profili di non conformità alla citata direttiva:
· il decreto legislativo restringe la responsabilità ambientale ai casi di dolo e colpa, laddove la direttiva prevede la limitazione del dolo e della colpa, e quindi dell’obbligo di ripristino, per i soli casi di danno alle specie e all’habitat naturale causato dall’esercizio di attività professionali non incluse nell’elenco allegato alla direttiva;
· limitazioni, non previste dalla direttiva, del campo di applicazione delle disposizioni in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente. In particolare, la normativa italiana prevede la non applicazione di tali disposizioni alle “situazioni di inquinamento per le quali siano effettivamente avviate le procedure relative alla bonifica, o sia stata avviata o sia intervenuta bonifica dei siti nel rispetto delle norme vigenti in materia, salvo che ad esito di tale bonifica non permanga un danno ambientale”;
· previsione della possibilità di sostituire le misure di riparazione con risarcimenti per equivalente pecuniario, laddove la direttiva dispone una gerarchia di misure di riparazione, complementari e compensative, non prevedendo il ricorso al risarcimento pecuniario. Inoltre, le modalità di calcolo dell’ammontare del risarcimento, previste dal decreto legislativo, appaiono svincolate dall’entità del danno ambientale arrecato.
Articolo 18
(Modifiche al decreto legislativo 12
aprile 2006, n. 163, codice dei contratti, relative agli affidatari di
incarichi di progettazione.
Caso EU Pilot 4680/13/MARKT)
L’articolo 18 è finalizzato a modificare la disciplina della progettazione, nel settore dei contratti pubblici, al fine di chiarire che il divieto di affidamento dei contratti pubblici medesimi agli affidatari del relativo incarico di progettazione non si applica laddove i progettisti possano dimostrare che l’esperienza acquisita nell’ambito dell’espletamento dell’incarico non determina un vantaggio rispetto agli altri concorrenti. Le modifiche alla disciplina vigente sono finalizzate a superare i rilievi della Commissione europea nell’ambito della procedura EU Pilot 4680/13/MARKT.
In particolare, il comma 1 dell’articolo apporta due modificazioni all’articolo 90 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, d’ora in avanti Codice), che reca la disciplina della progettazione in materia di lavori pubblici, come di seguito indicato.
La prima novella incide sul comma 8 dell’articolo 90 del Codice nel senso di precisare che gli affidatari di incarichi di progettazione non possono essere affidatari degli appalti o delle concessioni di lavori pubblici, nonché degli eventuali subappalti o cottimi (lettera a).
La lettera b), poi, aggiunge il comma 8-bis al citato articolo 90 del Codice, che introduce una deroga, al divieto di affidamento di appalto o di concessioni agli affidatari degli incarichi di progettazione, per i soggetti ivi indicati che dimostrino che l’esperienza acquisita nell’espletamento degli incarichi di progettazione non sia tale da determinare un vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori.
L’articolo 90, comma 8, del Codice prevede che gli affidatari di incarichi di progettazione non possono partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione; ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici, subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto controllato, controllante o collegato all'affidatario di incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di collegamento si determinano con riferimento a quanto previsto dall'articolo 2359 del codice civile. I predetti divieti sono estesi ai dipendenti dell'affidatario dell'incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello svolgimento dell'incarico e ai loro dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai loro dipendenti.
L’art. 2359 del codice civile considera in particolare società controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
L’articolo 90 del Codice elenca, al comma 1, i soggetti che espletano le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici.
In merito si evidenzia il parere n. 228 del 21 dicembre 2011 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP) che sull’art. 90 comma 8 del Codice evidenzia che il divieto di partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici posto dal legislatore a carico di chi sia stato affidatario di incarichi di progettazione e di supporto alla progettazione relativi alla medesima gara rappresenta un principio di carattere generale applicabile anche alle concessioni di servizi pubblici ed è volto ad evitare che si realizzi una qualsiasi commistione tra progettista dei lavori pubblici ed esecutore degli stessi che possa rivelarsi astrattamente pregiudizievole della par condicio dei concorrenti e potenzialmente dannosa per la stazione appaltante interessata a che la scelta del contraente si realizzi sulla base della libera concorrenza tra i partecipanti. Analogamente si è previsto che incorra nel divieto di cui al comma 8 dell’art. 90, del D.Lgs. n. 163 del 2006 il partecipante alla procedure di affidamento di lavori che abbia predisposto o abbia avuto modo di conoscere, anche indirettamente, la progettazione preliminare, in quanto è sufficiente il solo sospetto della possibile lesione della trasparenza nella circolazione delle informazioni legate all’intervento a costituire un vulnus al principio della par condicio (cfr. parere n. 161/2007).
Il citato parere dell’Autorità sottolinea che analoghi principi si ricavano dall’analisi della giurisprudenza in materia, laddove si precisa che costituisce regola generale delle incompatibilità quella che garantisce la genuinità della gara, e il suo rispetto prescinde dal fatto che realmente si sia dato un vantaggio per un concorrente a motivo di una qualche sua contiguità con l'amministrazione appaltante (CdS, Sez. VI, Sentenza n. 5087 del 2007). Il parere dell’Autorità precisa, inoltre, che la prevalente opinione giurisprudenziale ha parimenti statuito che, per pacifico principio generale, le cause di incompatibilità sono di stretta interpretazione in quanto limitative della libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita, con la conseguenza che a nulla vale il tentativo di un’estensione analogica a fattispecie non espressamente contemplate (cfr. Tar Piemonte 1510/2008 e CdS., Sez. VI, 13 febbraio 2004, n. 561): sulla base di tale principio infatti, è stata affermata la piena legittimità della partecipazione dell’affidatario della progettazione preliminare alla gara per l’affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva in assenza di disposizioni che dispongano in senso contrario. Infatti, il principio della par condicio non può essere irrigidito fino al punto di stigmatizzare asimmetrie competitive fondate su meriti acquisiti per effetto della partecipazione a procedure rette dalle disposizioni comunitarie e nazionali ispirate alla logica concorrenziale: il vantaggio concorrenziale sotteso al previo espletamento dell’incarico finalizzato alla redazione del progetto preliminare costituisce, al pari della condizione in cui versa l’aggiudicatario in caso di procedura di rinnovo di un pregresso affidamento ovvero della situazione in cui versa l’appaltatore di lavori in ambiti territoriali limitrofi, una differenziazione fattuale la cui positiva incidenza si atteggia ad esplicazione del giuoco concorrenziale piuttosto che fungere da fattore anticompetitivo.
Nel marzo 2013 la Commissione europea ha aperto il caso EU Pilot 4680/13/MARK[21] chiedendo alle autorità italiane chiarimenti in merito alla compatibilità con il diritto dell’UE dell’art. 90, comma 8, del Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163).
Tale disposizione prevede che gli affidatari di incarichi di progettazione non possono partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione. La Commissione ha rilevato la contrarietà della norma al diritto europeo in materia di appalti pubblici e concessioni - con particolare riferimento all’art. 10 della direttiva 2004/17/CE e all'art. 2 della Direttiva 2004/18/CE - e ai principi generali di parità di trattamento e proporzionalità derivanti dal TFUE. Secondo la Commissione infatti la norma, per raggiungere l’obiettivo della parità di trattamento fra tutti gli offerenti, eccede, in quanto la sua applicazione può avere la conseguenza che soggetti che hanno effettuato taluni lavori preparatori siano esclusi dalla procedura di aggiudicazione senza che la loro partecipazione alla stessa comporti un qualsiasi rischio per la concorrenza tra gli offerenti. In particolare, tale norma non permette a chi ha effettuato i lavori preparatori la possibilità di provare che, nelle circostanze del caso di specie, l’esperienza da lui acquisita non può falsare la concorrenza.
Con una nota del 19 settembre 2013, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha risposto alla nota della Commissione europea, dichiarando l’intenzione di modificare l’articolo in oggetto attraverso l'inserimento di una norma modificativa nel disegno di legge europea 2013.
Il 30 settembre 2013 la Commissione ha comunicato all’Italia di accettare la soluzione proposta e ha richiesto l'invio del testo del disegno di legge (europea) una volta approvato, così da poter archiviare il caso EU Pilot in commento.
L’art. 18 interviene pertanto nel senso indicato dalla Commissione, chiarendo che il divieto di affidamento del contratto ai soggetti incaricati della redazione del progetto non operi laddove essi dimostrino che l’espletamento dell’incarico di progettazione non determini una posizione di vantaggio rispetto agli altri concorrenti.
Articolo 19
(Disposizioni per la riduzione dei prezzi
dell’energia elettrica
e nuove attribuzioni dell’AEEG
Attuazione del regolamento (UE) n. 1227/2011)
L’articolo 19 integra i poteri dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG) al fine di attuare il regolamento UE n. 1227/2011, concernente l’integrità e la trasparenza del mercato dell’energia all’ingrosso (cd. REMIT).
Si ricorda che il 28 dicembre 2011 è entrato in vigore il REMIT (regolamento (CE) 1227/2011). Gli scopi del regolamento sono accrescere la trasparenza e migliorare il funzionamento dei mercati all’ingrosso dell’energia elettrica e del gas naturale, attraverso l’adozione di regole di sorveglianza e di prevenzione degli abusi di mercato relativamente alla manipolazione (o tentata manipolazione) di mercato e all’insider trading. L’adozione del regolamento segue il parere espresso congiuntamente dal Committee of European Securities Regulators (CESR) e dall’European Regulator’s Group for Electricity and Gas (ERGEG), nel dicembre 2008, a favore di un regime specifico di sorveglianza dei mercati all’ingrosso dell’energia.
Il regolamento REMIT introduce a livello europeo regole specifiche per la sorveglianza dei mercati all’ingrosso dell’energia, volte a:
• definire le pratiche abusive in tema di manipolazione (o tentata manipolazione) di mercato e insider trading;
• vietare le suddette pratiche abusive nei mercati dell’energia all’ingrosso;
• definire un nuovo quadro di regole per il monitoraggio dei mercati dell’energia all’ingrosso, volte a identificare e a contrastare casi di manipolazione (o tentata manipolazione) di mercato e insider trading;
• stabilire che le Autorità nazionali di regolazione dispongano dei necessari poteri di indagine, di enforcement e di sanzione relativamente ai suddetti divieti, entro 18 mesi dall’entrata in vigore del regolamento.
Il regolamento stabilisce che l’ACER (Agency for the Cooperation of Energy Regulators) assicuri il coordinamento tra le Autorità nazionali di regolazione, in particolare rispetto a ipotesi di comportamenti abusivi di natura transfrontaliera. Inoltre, sono previste disposizioni in materia di cooperazione tra l’ACER, l’European Securities and Market Authority (ESMA), le Autorità di regolazione nazionale, le Autorità antitrust e finanziarie nazionali, le altre Autorità competenti, al fine di favorire la condivisione delle informazioni e l’efficace sorveglianza dei mercati.
Nell’esercizio dei poteri di indagine ed esecuzione, l’AEEG può:
a) accedere ai documenti rilevanti e richiedere informazioni ai soggetti coinvolti, anche mediante audizioni personali;
b) effettuare sopralluoghi ed ispezioni;
c) richiedere i tabulati telefonici e i registri del traffico dati, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica;
d) intimare la cessazione delle condotte che violano il regolamento REMIT;
e) presentare presso il tribunale istanza di congelamento o confisca del prodotto o del profitto dell’illecito;
f) presentare istanze di divieto all’esercizio di un’attività professionale.
Tali poteri sono esercitati in modo proporzionato e nei limiti di quanto necessario al perseguimento delle finalità del regolamento REMIT.
L’AEEG può avvalersi della collaborazione del Gestore dei Mercati Energetici (GME) per lo svolgimento di indagini relative ai casi di sospetta violazione:
§ del divieto d’abuso di informazioni privilegiate (insider trading, articolo 3 del REMIT);
§ dell’obbligo di pubblicità delle informazioni privilegiate (articolo 4 del REMIT);
§ del divieto di manipolazione del mercato (articolo 5 del REMIT).
In relazione alla fattispecie trattata, e ferme restando le rispettive competenze, l’AEEG si coordina con
- l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (Antitrust);
- la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), ove opportuno, in relazione al divieto di insider trading.
I commi 1 e 2 dell’articolo in esame appena descritti traspongono nella
normativa nazionale l’articolo 13 del
REMIT, che richiede agli stati membri di garantire che le proprie autorità
nazionali di regolamentazione siano dotate dei poteri di indagine e di
esecuzione necessari per assicurare l’attuazione dei divieti di cui agli
articoli 3 e 5 e dell’obbligo di cui all’articolo 4 entro il 29 giugno 2013.
Le sanzioni sono trattate nei commi da 4 a 8 dell’articolo in esame e sono riassunte nella seguente tabella:
Sanzione
amministrativa pecuniaria |
Riferimento
normativo del REMIT |
Violazione |
Da euro 20.000 a 3 mln |
Art. 3, comma 1 |
Insider trading |
Da euro 20.000 a 5 mln |
Art. 2, punti 2 e 3, Art. 5 |
Manipolazione o tentata manipolazione del mercato. |
Da euro 20.000 a 3 mln |
Art. 4 |
Inadempienza dell’obbligo di pubblicazione delle informazione privilegiate. |
Da euro 10.000 a 200.000 |
Art. 8 e 9 |
Mancata comunicazione all’AEEG di informazioni da parte degli operatori di mercato |
Le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’AEEG possono essere aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto dell’illecito qualora la stessa sanzione appaia inadeguata anche se applicata nel massimo a causa:
- della rilevante offensività del fatto;
- delle qualità personali del colpevole;
- dell’entità del prodotto o il profitto conseguito.
L’AEEG, entro 90 giorni, disciplina con proprio regolamento i procedimenti sanzionatori, in conformità con l’articolo 45 del D.Lgs. 93/2011 (di recepimento del Terzo pacchetto energia), in materia di poteri sanzionatori dell’Autorità.
I commi da 4 a 9 dell’articolo in esame recepiscono le norme dell’articolo 18 del REMIT che richiedono agli Stati membri di stabilire la disciplina sanzionatoria applicabile in caso di violazioni del regolamento stesso e di adottare tutti i provvedimenti necessari a garantirne l’applicazione. Le sanzioni devono essere effettive, dissuasive e proporzionate, riflettere la natura, la durata e la gravità delle infrazioni commesse, i danni provocati ai consumatori e i potenziali vantaggi ottenuti dall’attività di negoziazione svolta sulla base delle informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato.
Si ricorda che l’articolo 2 della legge di delegazione europea 2013 (legge 96/2013) delega il Governo ad adottare, entro il 4 settembre 2015, la disciplina sanzionatoria di violazioni di atti normativi dell'Unione europea.
Articolo 20
(Stazioni
di distribuzione dei carburanti ubicate nelle aree urbane - Caso EU PILOT
4734/13/MARK)
L’articolo 20 interviene sulla disciplina della rete di distribuzione dei carburanti al fine di liberalizzare maggiormente i distributori self-service.
In particolare, la norma modifica l’articolo 28, comma 7, del decreto-legge n. 98/2011, eliminando la distinzione tra le stazioni di servizio nelle aree urbane e quelle poste al di fuori dei centri abitati.
La normativa attualmente in vigore (comma 5 del citato articolo 28), infatti, impone che le stazioni di servizio mettano a disposizione distributori self-service (modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato).
Il comma 7, tuttavia, prevede che non possano essere posti specifici vincoli all'utilizzo di apparecchiature self service:
- durante le ore in cui è contestualmente assicurata la possibilità di rifornimento assistito dal personale, a condizione che venga effettivamente mantenuta e garantita la presenza del titolare della licenza di esercizio dell'impianto rilasciata dall'ufficio tecnico di finanza o di suoi dipendenti o collaboratori;
- presso gli impianti stradali di distribuzione carburanti posti al di fuori dei centri abitati, continuativamente, anche senza assistenza.
Con l’intervento in esame, vengono escluse le limitazioni all’utilizzo continuativo delle apparecchiature self-service, anche senza assistenza, agli impianti di distribuzione ovunque ubicati (e non più solo per questi posti fuori dai centri abitati).
In relazione alla disposizione volta a eliminare l’obbligo di presidio delle stazioni di distribuzione dei carburanti, attualmente previsto esclusivamente nei centri urbani, si segnala che la Commissione europea ha avviato nei confronti dell’Italia una procedura EU Pilot (n. 4734/13/MARK)[22] con lettera dell’11 marzo 2013.
In particolare, la Commissione ha rilevato che la legislazione nazionale (segnatamente, l’articolo 28 del decreto-legge n. 98/2011, come modificato dal decreto-legge n. 1/2012) e regionale (in Toscana, Puglia e Friuli-Venezia Giulia) relative alle stazioni di servizio ubicate nei centri urbani, limitando l’apertura degli impianti di distribuzione di carburante non presidiati nell’arco delle 24 ore, viola il principio della libertà di stabilimento, previsto dall’art. 49 TFUE, e il divieto di restrizione territoriale previsto dell’art. 15, paragrafo 2, lettera a) della direttiva 2006/123/CE (cd. direttiva servizi).
In particolare, sulla base del decreto-legge n. 98/2011, le stazioni di servizio situate al di fuori delle zone urbane possono offrire modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato senza la presenza del personale, mentre le stazioni di servizio non presidiate non sono autorizzate nelle aree urbane, poiché la presenza di personale è sempre obbligatoria. Ciò, ad avviso della Commissione (richiesta di informazioni dell’11 marzo 2013), potrebbe costituire un vincolo alla libertà di stabilimento delle persone stabilite in altri Stati membri dell'UE che desiderino avviare una stazione di servizio completamente automatizzata nelle aree urbane in Italia, senza la presenza del titolare odei suoi dipendenti, secondo il modello imprenditoriale standard per le stazioni di servizio in molti Stati membri dell'UE che, tra l’altro, contribuisce in modo significativo all'abbassamento dei costi di distribuzione.
Facendo seguito alla risposta del Governo italiano, con lettera del 30 luglio 2013, la Commissione ha preso posizione sui seguenti elementi di approfondimento:
· ambito del giudizio: la Commissione conviene che la non conformità all’ordinamento europeo deve essere verificata solo al livello della normativa nazionale, dato il carattere applicativo delle disposizioni regionali;
· motivazioni della limitazione: la legislazione nazionale sarebbe volta, in primo luogo, ad evitare l'esclusione delle piccole imprese dal mercato e salvaguardare l'occupazione nel settore e, in secondo luogo, a tutelare la salute e la sicurezza pubbliche. La Commissione, tuttavia, ritiene che la protezione delle piccole imprese e la salvaguardia dell'occupazione nel settore sono obiettivi economici e non motivi imperativi di interesse pubblico atti a giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento. Quanto alla tutela della salute e della sicurezza pubbliche, il pericolo per la salute e la sicurezza costituito dalle stazioni di servizio non presidiate non è dimostrato e, se anche lo fosse, il rimedio non può essere costituito dal divieto assoluto imposto dalla normativa italiana.
Infine, con lettera del 6 novembre 2013, la Commissione si è dichiarata pronta all’archiviazione della procedura nel caso di approvazione della proposta di modifica formalizzata nel disegno di legge europea 2013 in esame, volta all’eliminazione di qualsiasi restrizione all’impianto di stazioni di servizio non presidiate.
Articolo 21
(Modifica del Codice della proprietà
industriale, articolo 239,
comma 1 – Caso EU Pilot 3955/12/MARKT)
L’articolo 21 riduce a 5 anni, rispetto ai 13 attualmente vigenti, il periodo transitorio di sospensione della protezione del diritto d’autore per i modelli di design industriale divenuti di pubblico dominio prima del 19 aprile 2001.
Si ricorda che il periodo di 13 anni attualmente vigente è stato introdotto con l’articolo 22-bis del D.L. 216/2011, che ha modificato l’art. 239 del Codice della proprietà industriale[23] in tema di limiti alla protezione accordata dal diritto d’autore concernente disegni e modelli.
Tale termine riguarda il regime transitorio che si applica ai terzi che avevano fabbricato o commercializzato, nei dodici mesi anteriori al 19 aprile 2001 (data di entrata in vigore della normativa nazionale di trasposizione della direttiva 98/71[24]), prodotti realizzati in conformità con le opere del disegno industriale allora in pubblico dominio. Tali soggetti, in base alla normativa vigente, non rispondono della violazione del diritto d'autore compiuta proseguendo questa attività anche dopo la data del 19 aprile 2001, limitatamente ai prodotti da essi fabbricati o acquistati anteriormente e a quelli da essi fabbricati nei 13 anni successivi a tale data, purché detta attività si sia mantenuta nei limiti anche quantitativi del preuso.
La modifica introdotta dall’articolo 21 attualmente in esame riporta a 5 anni il termine del regime transitorio, vigente prima della modifica operata dal D.L. 216/2011.
Sulla complessa questione inerente la disciplina transitoria della tutela del diritto d’autore nel campo del design industriale si è pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 27 gennaio 2011 nel procedimento Flos-Semeraro (causa C-168/09).
In Italia la materia è stata oggetto nel tempo di diversi interventi normativi, tutti finalizzati ad attenuare l’impatto dell’estensione del diritto d’autore alle opere del disegno industriale sul comparto produttivo dell’industrial design, al fine di consentire un graduale adattamento ai nuovi equilibri economici mutati in attuazione della Direttiva comunitaria 98/71/CE sulla protezione giuridica dei disegni e modelli (la direttiva), che estende la tutela del diritto d’autore ad alcune opere di design.
L’occasione per una pronuncia della Corte UE sulla compatibilità della normativa interna con il diritto comunitario è stata la sospensione del giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano sulla tutela d’autore della nota lampada Arco che vede contrapposte la Flos, produttrice del modello originale, e la Semeraro, importatrice della lampada Fluida prodotta in Cina che imita le caratteristiche stilistiche ed estetiche della lampada Arco.
La Flos aveva ottenuto nel 2006 dal giudice italiano il sequestro della lampada Fluida e un’inibitoria di ogni ulteriore importazione o commercializzazione di tale lampada da parte della Semeraro. Tuttavia la lampada Arco, all’epoca dei fatti, era caduta in pubblico dominio in quanto la protezione offerta dalla legislazione nazionale in vigore era scaduta. Di conseguenza, la Semeraro poteva aver copiato legittimamente il design della lampada, senza incorrere nella violazione dei diritti patrimoniali riconosciuti dalla normativa in tema di diritto d’autore sulle opere di design industriale secondo l’ art. 2, n. 10 della legge sul diritto d’autore.
Con la sospensione del giudizio, il Tribunale di Milano ha posto alla corte alcune questioni pregiudiziali tendenti essenzialmente a stabilire se fossero compatibili con la normativa comunitaria le disposizioni all’epoca vigenti della legge italiana di recepimento della direttiva che prevedevano.
a) l’esclusione dalla tutela del diritto d’autore per i modelli caduti in pubblico dominio anteriormente alla data in vigore della legge stessa;
b) l’annullamento, anche solo durante un periodo transitorio, della protezione del diritto d’autore per i modelli in base al fatto che un terzo abbia legittimamente acquisito il diritto di produrre e commercializzare un prodotto che imita la forma di un modello divenuto di pubblico dominio.
Vengono pertanto poste in rilievo principalmente due ipotesi: da un lato quella dei disegni e modelli che prima della data di entrata in vigore della normativa nazionale di trasposizione della direttiva (19 aprile 2001) sono di pubblico dominio in mancanza di una registrazione come disegni e modelli e, dall’altro, quella in cui, prima di tale data, essi siano divenuti di pubblico dominio in quanto la protezione derivante da una registrazione ha cessato di produrre i suoi effetti.
Nella sentenza del 27 gennaio, la prima questione sottoposta alla Corte UE viene risolta nel senso che la normativa comunitaria (art. 17 della direttiva) non consente agli Stati membri di escludere dall’ambito di applicazione della tutela del diritto d’autore quei design che, in possesso dei requisiti previsti e registrati in uno Stato membro o con effetti in uno Stato membro, siano divenuti di pubblico dominio anteriormente alla data di entrata in vigore della normativa di recepimento della direttiva.
Sulla seconda questione, si è posto il caso di come risolvere il conflitto tra gli interessi legittimi dei titolari dei diritti d’autore da un lato e, dall’altro, gli interessi dei terzi che in buona fede avevano fabbricato e commercializzato prodotti realizzati in conformità ai design caduti in pubblico dominio. Si è deciso che la previsione di un periodo transitorio deve essere conforme a principi di proporzionalità e ragionevolezza, e finalizzato ad un bilanciamento tra i suindicati interessi contrapposti.
Si segnala peraltro che, durante la pendenza della causa dinanzi la Corte Ue, è intervenuto il D.Lgs. 131/2010 a modifica del Codice della Proprietà Industriale, che ha esteso la tutela d’autore del design anche a quelle opere del disegno industriale che anteriormente alla data del 19 aprile 2001 erano, oppure erano divenute, di pubblico dominio, e ha introdotto il periodo transitorio di 5 anni nei limiti precedentemente descritti.
L’art. 21 del disegno
di legge europea è volto a sanare la procedura di infrazione 2013/4202, avviata dalla Commissione con lettera di
messa in mora del 17 ottobre 2013. In particolare, la Commissione europea ha rilevato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione
dell’articolo 239 del codice della
proprietà industriale, come modificato da ultimo con il decreto-legge 29
dicembre 2011, n. 216, convertito in legge 24 febbraio 2012, n. 14.
Con tale modifica
si è accordata la protezione dei diritto d’autore anche alle opere del disegno
industriale che, anteriormente alla data del 19 aprile 2011, erano o erano
diventate di pubblico dominio. Contestualmente, è stato introdotto un regime transitorio, in base al quale i
terzi che abbiano commercializzato o fabbricato, nei dodici mesi anteriori al
19 aprile 2011, prodotti realizzati in conformità con le opere del disegno
industriale allora in pubblico dominio non
rispondono della violazione del diritto d’autore limitatamente ai prodotti acquistati
prima del 19 aprile 2011 e a quelli fabbricati nei tredici anni successivi a
tale data.
Secondo la valutazione della Commissione, un regime transitorio di tredici anni è in contrasto con l’articolo 17 della direttiva 98/71/CE sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli, secondo cui “i disegni e modelli protetti come disegni o modelli registrati in uno Stato membro o con effetti in uno Stato membro a norma della presente direttiva sono ammessi a beneficiare altresì della protezione della legge sul diritto d'autore vigente in tale Stato fin dal momento in cui il disegno o modello è stato creato o stabilito in una qualsiasi forma”.
Inoltre la Commissione europea ricorda che la normativa italiana in materia è già stata modificata nel 2010 – introducendo per la protezione di disegni e modelli un regime transitorio di cinque anni in luogo dei precedenti dieci - a seguito di una sentenza della Corte di giustizia europea (C-168/09), intervenuta nell’ambito di una pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione degli articoli 17 e 19 della citata direttiva. In tale sentenza la Corte ha dato la sua interpretazione circa la durata accettabile di un regime transitorio in materia, stabilendo che essa va valutata sulla base del principio di proporzionalità e rilevando che tale durata deve limitarsi al periodo necessario ai terzi utilizzatori di modelli e disegni protetti per cessare progressivamente l’attività ed eliminare le scorte. Su tale base la Corte aveva rilevato che la normativa italiana, che – come anticipato – all’epoca prevedeva un regime transitorio di dieci anni, non era giustificata ed era in contrasto con il diritto dell’Unione.
Nella lettera di messa in mora, la Commissione segnala inoltre che la attuale disposizione italiana sottrae alla protezione del diritto d’autore i prodotti fabbricati nei tredici anni successivi alla data del 19 aprile 2011, con ciò contrastando con le finalità del regime transitorio che, come indicato dalla Corte, serve a cessare progressivamente l’attività e a smaltire le scorte e non a fabbricare nuovi prodotti.
Alla luce della sentenza della Corte di giustizia sopra richiamata e della procedura di infrazione avviata dalla Commissione, potrebbe risultare utile che il Governo chiarisse se l’art. 21 in commento, riducendo da tredici a cinque anni il periodo transitorio e mantenendo tuttavia il riferimento alla fabbricazione di nuovi prodotti, sia idonea a superare i rilievi formulati dalla Commissione stessa.
Articolo 22
(Norme di interpretazione e modifiche al
D.Lgs. 231/2002, recante “attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla
lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”
Caso EU PILOT 5216/13/ENTR)
L’articolo 22 chiarisce alcuni
dubbi interpretativi per l’applicazione della direttiva di disciplina dei ritardi nei pagamenti tra privati, e fra le pubbliche
amministrazioni e i privati. In particolare, si esplicita che la normativa di
attuazione della direttiva europea relativa alla lotta contro i ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali si applica anche ai contratti pubblici di lavori servizi e forniture. Le
disposizioni relative ai termini di pagamento e al tasso degli interessi dovuto
in caso di ritardato pagamento contenute nelle leggi che regolano il settore che
prevedono termini e tassi difformi rispettivamente da quelli previsti dalla
normativa di recepimento delle regole europee in materia, si applicano solo se
più favorevoli per i creditori.
Si ricorda che la prima direttiva UE sui ritardi di pagamento (direttiva 2000/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000) è stata recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 231/2002, sulla base della delega contenuta nell'articolo 26 della legge comunitaria 2001 (legge 1° marzo 2002, n. 39). Successivamente è stato introdotto nell’ordinamento nazionale un complesso di interventi legislativi finalizzati a dare concreta attuazione alla problematica relativa ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali relative a contratti di fornitura di beni e servizi, sia tra privati che tra privati e pubbliche amministrazioni[25]. Con l’adozione della nuova direttiva europea sui ritardi di pagamento (Direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), l’Unione Europea ha sottolineato la necessità di intensificare la lotta contro un fenomeno che mette a rischio la sopravvivenza di numerose imprese in Europa e rappresenta un grave ostacolo alla concorrenza e alla libera circolazione di merci e servizi nel mercato unico. I punti cardine del provvedimento adottato dalle istituzioni europee, infatti, sono l’indicazione di un termine massimo -fissato in 30 giorni - per il pagamento delle prestazioni e l’inasprimento delle sanzioni applicate in caso di ritardo. Le nuove regole europee sono state recepite in Italia con il D.Lgs. n. 192/2012 e trovano applicazione per i contratti stipulati a partire dal 1° gennaio 2013. La norma in esame concerne proprio l’applicabilità del D.Lgs. 192/2012 anche per i contratti pubblici di lavori servizi e forniture.
Il comma 1 dell’articolo 22 in esame reca una norma di interpretazione autentica della definizione di transazioni commerciali fornita dall’articolo 2, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, come sostituito dal decreto legislativo 9 novembre n. 192/2012.
La definizione di «transazioni commerciali» ricomprende i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo. La norma in esame esplicita che all’interno delle transazioni commerciali così definite sono ricompresi anche i contratti pubblici.
Il Codice dei
contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006) definisce “contratti pubblici” i contratti
di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, o di
forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle
stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai soggetti aggiudicatori
(articolo 3, comma 3). Il citato Codice contiene, peraltro, una disciplina apposita per questo tipo di
contratti anche per quanto riguarda i termini di adempimento, le penali,
l’adeguamento dei prezzi (articolo 133), che rinvia al regolamento di
attuazione (D.P.R. 207/2010). Il regolamento di attuazione del Codice, a sua
volta, reca disposizioni specifiche agli articoli 142 (ritardato pagamento), 143
(Termini di pagamento degli acconti e del
saldo) e 144 (Interessi per ritardato pagamento).
I dubbi che hanno inizialmente
accompagnato l’entrata in vigore del Decreto n. 192/2012 hanno riguardato proprio
l’applicazione della norma alla materia dei lavori pubblici.
Il considerando n.
11 della Direttiva, ai sensi del quale “La fornitura di merci e la prestazione
di servizi dietro corrispettivo a cui si applica la presente direttiva
dovrebbero anche includere la progettazione e l'esecuzione di opere e edifici
pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile” deponeva a favore
dell’applicabilità. Peraltro, la mancanza di ogni riferimento a tale materia
nella normativa di recepimento ha reso necessario l’intervento del Ministero dello
Sviluppo Economico che, con la circolare n. 1293 del 23 gennaio 2013
(rifacendosi alla Nota n. 2667 della Presidenza del Consiglio dei Ministri –
Settore legislativo del Ministro per gli affari europei), ha chiarito la nuova
disciplina dei ritardati pagamenti introdotta in attuazione della direttiva
7/2011/UE si applica ai contratti
pubblici relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i lavori, stipulati a
decorrere dal 1° gennaio 2013, ai sensi dell’articolo 3 del D.Lgs. n.
192/2012.
Sempre secondo il
Ministero, le disposizioni dettate dal Codice dei contratti pubblici e dal
regolamento di attuazione già vigenti per il settore dei lavori pubblici,
relative ai termini di pagamento delle rate di acconto e di saldo, nonché alla
misura degli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento, devono
essere interpretate e chiarite alla luce delle disposizioni del D.Lgs. n.
192/2012, ritenendosi prevalenti queste ultime sulle disposizioni di settore
configgenti, tenendo conto anche dell’espressa clausola di salvezza (articolo
11, comma 2, D.Lgs. 231/2002) secondo cui restano salve le vigenti disposizioni
del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più
favorevole al creditore.
Con la medesima
circolare, il Ministero ha fornito, in via interpretativa, alcuni chiarimenti
circa la compatibilità di alcune disposizioni del Codice dei contratti pubblici
e del suo regolamento di attuazione con la disciplina (prevalente) dei
ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, come ad esempio i termini di
pagamento delle prestazioni contrattuali (in quanto alcune disposizioni del DPR
207/2010 non sono compatibili con i termini massimi di pagamento previsti
dall’articolo 4 del D.Lgs. 231/2002) e gli interessi da corrispondere in caso
di ritardato pagamento (non sono da ritenersi più applicabili i commi 2 e 3
dell’articolo 144 del DPR 207/2010).
La medesima
interpretazione viene data dalla Corte
dei Conti (Sezione regionale di controllo per la Puglia) nella deliberazione n. 53 del 14 marzo 2013,
secondo la quale di conseguenza, non potranno essere considerate più
applicabili le disposizioni del D.P.R. n. 207/2010 che determinano la misura degli
interessi moratori in modo diverso da quello del decreto n. 231/2002, come modificato
dal D.Lgs. n. 192/2012; né potranno più ritenersi applicabili l’art. 144 commi
2 e 3 del Regolamento, che facevano riferimento a tassi moratori al saggio
stabilito annualmente con decreto interministeriale, né l’art. 142, commi 1 e
2. Parimenti, non saranno più applicabili le norme che fissano il termine di 45
giorni per l’emissione dei certificati di pagamento relativi agli acconti del
corrispettivo di appalto (art. 143 comma 1 D.P.R. n. 207/2010), oggi da
considerare fissato a 30 giorni dalla normativa di recepimento della Direttiva
europea.
Andrebbe
valutata l’opportunità, ai fini di una maggiore chiarezza normativa, di
intervenire direttamente sulla normativa riguardante i contratti pubblici, per
adeguarla alla nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali.
Il comma 2 precisa che le disposizioni relative ai termini di pagamento e al tasso degli interessi dovuto in caso di ritardato pagamento, contenute nel Codice dei contratti pubblici, nel relativo regolamento di attuazione, nonché in altre leggi speciali, che prevedano termini e tassi difformi rispettivamente da quelli previsti dalla normativa di recepimento della disciplina europea in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali si applicano solo se più favorevoli ai creditori.
Si ricorda che l’articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 231/2002 prevede che ai fini della decorrenza degli interessi moratori si applicano i seguenti termini:
a) trenta giorni dalla data di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente;
b) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento;
c) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;
d) trenta giorni dalla data dell'accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell'accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data.
Ai sensi del comma 4 del medesimo articolo, nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione le parti possono pattuire, purché in modo espresso, un termine per il pagamento superiore a quello previsto dal comma 2, quando ciò sia giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione (su tale previsione, peraltro, interviene il comma 3 della norma in esame). In ogni caso i termini di cui al comma 2 non possono essere superiori a sessanta giorni. La clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto.
Si ricorda inoltre che l’articolo 5 del D.Lgs. 231/2002 contiene le disposizioni relative al saggio degli interessi. Gli interessi moratori sono determinati nella misura degli interessi legali di mora. Il tasso di riferimento è così determinato:
a) per il primo semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in vigore il 1° gennaio di quell'anno;
b) per il secondo semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in vigore il 1° luglio di quell'anno.
Il Ministero dell'economia e delle finanze dà notizia del tasso di riferimento, curandone la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare.
Il comma 3 modifica una delle motivazioni che possono condurre a fissare un termine di pagamento superiore a quello previsto dalla normativa generale sulle transazioni commerciali, nel caso in cui il debitore sia una pubblica amministrazione.
In particolare, la norma interviene sull’articolo 4, comma 4, primo periodo, del decreto legislativo n. 231/2002, sostituendo le parole: “o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione” con “o da talune sue caratteristiche”.
Come si è accennato, il comma 4 dell’articolo 4 riguarda il caso particolare delle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione. In tal caso si prevede che le parti possano pattuire, purché in modo espresso, un termine per il pagamento (oltre al quale decorrono gli interessi moratori) superiore a quello previsto dal comma 2, quando ciò sia giustificato:
§ dalla natura del contratto;
§ dall'oggetto del contratto;
§ dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione.
In ogni caso i termini di cui al comma 2 non possono essere superiori a sessanta giorni e la clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto.
La norma in esame cambia la terza motivazione per lo spostamento in avanti del termine, che riguardava le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto, facendo invece riferimento a talune caratteristiche del contratto.
L’art. 22 del disegno di legge europea è volto a risolvere le contestazioni sollevate dalla Commissione europea nell’ambito del caso EU Pilot 5216/13/ENTR[26], avviata dalla Commissione con lettera del 12 luglio 2013.
In particolare, la Commissione ha sollevato rilievi in merito a tre aspetti del decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192, - che introduce modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 - con il quale l’Italia ha dato recepimento alla direttiva 2011/7/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali:
· l’articolo 4, comma 6 della direttiva[27] stabilisce una deroga al termine ordinario di trenta giorni per il pagamento soltanto nel caso in cui ciò sia giustificato dalla natura del contratto o da talune sue caratteristiche. Il termine non può comunque superare i sessanta giorni. Secondo la Commissione, la formulazione del comma 4 dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 192 (che recepisce la suddetta disposizione) non risulterebbe sufficientemente precisa e andrebbe oltre il disposto della direttiva. In primo luogo, la disposizione italiana sembrerebbe far intendere che i termini di pagamento possano essere in via generale pattuiti fra le parti; in secondo luogo viene inserito un ulteriore caso, oltre a quelli previsti dalla direttiva per un’eventuale deroga, - vale a dire “le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto” - peraltro in una formulazione ritenuta troppo ampia;
L’intervento normativo proposto dal Governo al comma 3 dell’articolo 22 in esame intende risolvere quest’ultimo rilievo, sostituendo l’espressione “o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione” con “o da talune sue caratteristiche”, come riportato dalla direttiva;
· la Commissione rileva come nel recepire l’articolo 7 della direttiva, relativo a clausole contrattuali e prassi inique, tale ultima fattispecie non sia stata esplicitamente riportata nel testo del decreto legislativo (articolo 7);
In una risposta inviata alla Commissione il 3 ottobre 2013, il Governo sosterebbe che il rilievo deriva da un mancato approfondimento del nostro sistema di diritto civile, in base al quale non è necessario inserire tale riferimento. Infatti, secondo il nostro ordinamento la prassi iniqua relativa al termine di pagamento non può porsi in contrasto con norme inderogabili e pertanto viene disapplicata dal giudice;
· infine, la Commissione chiede chiarimenti sul regime applicabile ai contratti aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori pubblici, dal momento che il regolamento d’attuazione ed esecuzione del codice dei contratti pubblici (decreto del Presidente della Repubblica del 5 0TT0BRE 2010 n. 207) prevede disposizioni relative agli interessi di mora e al termine di pagamento che si discostano da quelle previste dalla direttiva.
A tale proposito, nella citata nota di risposta, il governo rileva come non vi sia dubbio circa la prevalenza delle disposizioni del decreto legislativo n. 192 del 2012 rispetto al regolamento d’attuazione ed esecuzione del codice dei contratti pubblici, come per altro precisato già in precedenza da una nota del ministero per le infrastrutture e i trasporti del 22 gennaio 2013.
In ogni caso, per evitare ulteriori contestazioni da parte della Commissione, i commi 1 e 2 del presente articolo 22 intervengono ad ulteriore chiarimento: da un lato, si esplicita che anche i contratti aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori pubblici sono considerati tra le transazioni commerciali cui si applicano le disposizione del decreto legislativo n. 192 del 2012; dall’altro, si chiarisce che le norme relative ai termini di pagamento e al tasso degli interessi dovuto in caso di ritardato pagamento contenute nel citato regolamento di attuazione o in altre leggi che siano difformi da quanto previsto in sede di recepimento della direttiva si applicano soltanto se maggiormente favorevoli ai creditori.
Articolo 23
(Responsabilità per violazione manifesta
del diritto dell’Unione europea - Procedura d’infrazione n. 2009/2230)
Con l’articolo 23 del disegno di legge europea il Governo intende rispondere alla procedura di infrazione del 2009 (v. infra), con la quale la Commissione europea ha contestato all’Italia la violazione del principio generale della responsabilità degli Stati membri in caso di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un loro organo giurisdizionale. In particolare, gli addebiti mossi dalla Commissione riguardano la compatibilità rispetto al diritto dell’Unione europea delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 2 della legge n. 177 del 1988 in materia di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati.
La disposizione in esame, senza novellare la legge sulla responsabilità civile dei magistrati (v. infra), stabilisce l’obbligo per lo Stato di risarcire il danno conseguente alla violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempre che, quando ne ricorrono i presupposti, siano stati esperiti anche i mezzi straordinari di impugnazione (comma 1). L’azione si prescrive decorsi tre anni.
Si osserva che non sono tipizzati i mezzi straordinari di impugnazione
cui si fa riferimento.
Il comma 2 individua alcuni elementi di cui si deve tenere conto per considerare realizzata la fattispecie di violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea. L’elencazione riprende in parte i contenuti del c.d. emendamento Pini, approvato nella scorsa legislatura in sede di esame del disegno di legge comunitaria 2011 (v. infra) e non ha carattere esaustivo, dal momento che la disposizione stabilisce che, ai fini della determinazione della violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea si tiene conto, “in particolare”, dei seguenti elementi:
§ il grado di chiarezza e di precisione della norma violata;
§ il carattere intenzionale della violazione;
§ la scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto;
§ la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell’Unione europea;
§ la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale a norma dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
In base all’art. 267 del TFUE, la Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull'interpretazione dei trattati; b) sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione.
Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri, tale organo giurisdizionale può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile.
Conformemente al disposto dell’articolo 267 TFUE, ogni giudice interessato dispone quindi della facoltà di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale relativa all’interpretazione di una norma del diritto dell’Unione, qualora lo ritenga necessario ai fini della soluzione della controversia ad esso sottoposta.
Tuttavia, un giudice avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno (giudice di ultima istanza) è tenuto a sottoporre alla Corte una tale domanda, salvo qualora esista già una giurisprudenza in materia (e il contesto eventualmente nuovo non sollevi alcun dubbio reale circa la possibilità di applicare tale giurisprudenza al caso di specie) o qualora non vi sia nessun dubbio quanto alla corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi (così le “raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (2012/C 338/01)" della Corte di Giustizia dell’Unione europea, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 6 novembre 2012).
L’obbligo del giudice di ultima istanza non è assoluto ma si ammette un margine di discrezionalità nel caso in cui: un'identica questione sia stata già oggetto di pronuncia da parte della corte (sentenza 28-30/62 Da Costa En Shaake NV e altri contro Amministrazione olandese delle imposte); le norme hanno un senso chiaro ed univoco per cui non vi è alcuna ragione per cui debba essere richiesta un'interpretazione pregiudiziale da parte della corte (sentenza nella causa 283/81 CILFIT/ Min. della sanità).
Analogamente, la Corte costituzionale (sent. n. 75/2012) ha sottolineato che «i giudici nazionali le cui decisioni sono impugnabili hanno il compito di interpretare il diritto comunitario e se hanno un dubbio sulla corretta interpretazione hanno la facoltà e non l’obbligo di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per ottenerla e farne applicazione, se necessario a preferenza delle contrastanti norme nazionali. Il giudice di ultima istanza, viceversa, ha l’obbligo di operare il rinvio, a meno che non si tratti di una interpretazione consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi (Corte di giustizia, CILFIT S.r.l. ed altri contro il Ministero della sanità, causa C-283/81, sentenza 6 ottobre 1982)».
La copertura finanziaria della disposizione è prevista all’articolo 25 del disegno di legge europea, al quale si rinvia, che prevede uno stanziamento annuale di 100.000 euro.
Si osserva che l’articolo 23 non chiarisce se si applichino, per quanto
non espressamente previsto, le disposizioni contenute nella legge 177/1988, ad
esempio in tema di delibazione preliminare o di rivalsa dello Stato.
Su quest’ultimo aspetto occorre in particolare valutare se l’attribuzione
della responsabilità al solo Stato sia compatibile con l’art. 28 Cost., in base
a cui i dipendenti statali rispondono direttamente degli atti compiuti in
violazione di diritti e la responsabilità civile si estende allo Stato.
La disposizione pare inoltre configurare un tipo di responsabilità
distinto – sia sotto il profilo soggettivo sia sotto il profilo oggettivo - rispetto
alla responsabilità riferita al diritto interno.
Occorre, in generale, verificare in che misura la formulazione
dell’art. 23 accolga la statuizione della Corte di giustizia dell’Unione
europea. Infatti, quest’ultima (v. infra)
ha ritenuto che l’Italia sia venuta meno agli obblighi di responsabilità degli
Stati membri per violazione del diritto UE laddove: a) ha escluso la
responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito
di violazione del diritto UE da parte di un organo giurisdizionale nazionale di
ultimo grado, qualora la violazione consegua a interpretazione di norme di
diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo
giurisdizionale; b) ha limitato tale responsabilità ai soli casi di dolo e
colpa grave ex art. 2, commi 1 e 2, della legge 177/1988.
Occorre pertanto considerare se il carattere grave e manifesto della
violazione del diritto dell’UE e gli indicatori di cui si deve tenere conto, in
particolare, a tal fine in base al comma 2 dell’art. 23 siano suscettibili di
riproporre, almeno in parte, fattispecie analoghe a quelle oggetto della
procedura di infrazione. Inoltre, occorre valutare se il riferimento alla
chiarezza e alla precisione della norma violata possa delineare una scriminante
altamente discrezionale ai fini della determinazione della responsabilità dello
Stato.
La disciplina proposta dal disegno di legge europea risulta strettamente connessa, pur senza farvi espresso richiamo, al tema della responsabilità civile dei magistrati e alla conseguente responsabilità dello Stato. Pare a tal fine utile ripercorrere il quadro normativo vigente, anche per poter verificare in che misura la disposizione della legge europea impatti sulle disposizioni della legge n. 117 del 1988. Si ricorda, infine, che la Commissione giustizia della Camera ha già avviato l’esame di una proposta di legge volta a riformare la responsabilità civile dei magistrati, proprio al fine di dare seguito alla procedura di infrazione europea.
Con “responsabilità civile del magistrato” si intende la responsabilità di chi svolge funzioni giudiziarie nei confronti delle parti processuali o di altri soggetti, a seguito di eventuali errori o inosservanze nell’esercizio delle funzioni. Diversamente, la responsabilità disciplinare concerne la violazione dei doveri funzionali che il magistrato assume nei confronti dello Stato al momento della nomina.
La responsabilità civile del magistrato, come quella dei pubblici dipendenti, trova il suo fondamento nell’art. 28 della Costituzione. In base ad esso, i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
La responsabilità civile dei magistrati è oggi disciplinata dalla legge 117/1988, che ha dato alla materia una nuova regolamentazione all’indomani del referendum del novembre 1987, che ha comportato l’abrogazione della previgente disciplina, fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice.
Il quesito referendario del 1987 riguardava l’abrogazione dei seguenti articoli del codice di procedura civile: art. 55, che delimitava i casi nei quali il giudice era civilmente responsabile; art. 56, che condizionava in vario modo l’esercizio della relativa azione; e art. 74, che estendeva tali norme anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile. Il referendum del 1987 ha raggiunto il quorum e ha visto prevalere la volontà abrogatrice delle disposizioni del codice di procedura civile.
Il vuoto normativo prodotto dal referendum è stato colmato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.
L’articolo 1 della legge n. 117/1988 ne delinea il campo d’applicazione, stabilendo che le disposizioni sulla responsabilità civile dei magistrati si applicano «a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria». Tali disposizioni si applicano anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.
Sotto il profilo sostanziale, l’articolo 2 della legge n. 117 afferma il principio della risarcibilità del danno ingiusto[28]. Il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente “a diniego di giustizia”[29].
L’art. 2, comma 3, della legge 117, prevede che costituiscano colpa grave[30]:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
La legge chiarisce, comunque, che non possono dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2), ferme restando le ipotesi di possibile responsabilità disciplinare del magistrato in presenza di un’abnorme o macroscopica violazione di legge ovvero di uso distorto della funzione giudiziaria. La tutela delle parti, in tali ipotesi, è di natura esclusivamente endoprocessuale, attraverso il ricorso al sistema delle impugnazioni del provvedimento giurisdizionale che si assume viziato.
In base all’articolo 3 della legge, costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, i termini previsti dalla legge. In particolare, il termine ordinario è di 30 giorni dalla data di deposito in cancelleria dell’istanza; se tuttavia l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine è di 5 giorni (improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza) o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.
Chi ha subito il danno ingiusto non può agire direttamente in giudizio contro il magistrato, ma deve agire contro lo Stato (art. 2, comma 1). Lo Stato, a determinate condizioni, può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7).
Sotto il profilo processuale (artt. 4 e 5), l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato:
§ deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri e davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p. e dell'articolo 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale;
§ è esperibile soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno;
§ deve essere proposta a pena di decadenza entro 2 anni dal momento in cui l’azione è esperibile (3 anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si è verificato);
§ è sottoposta a delibazione preliminare di ammissibilità (controllo presupposti, rispetto termini e valutazione manifesta infondatezza) da parte del tribunale distrettuale.
Nel giudizio di risarcimento è ammessa la facoltà d’intervento del magistrato (art. 6) il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio; questi non può essere assunto come teste né nel giudizio preliminare di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.
Se è accertata nel giudizio la responsabilità del magistrato, lo Stato, entro un anno dal risarcimento, esercita nei suoi confronti l'azione di rivalsa (artt. 7 e 8). In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare. L'azione di rivalsa, promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri, va proposta davanti allo stesso tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'articolo 11 c.p.p. e dell'articolo 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale.
La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.
Le citate disposizioni sulla misura della rivalsa dello Stato si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta.
L’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato ordinario per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento spetta al procuratore generale presso la Corte di cassazione; l’azione va proposta entro due mesi dalla comunicazione del tribunale distrettuale che dichiara ammissibile la domanda di risarcimento. Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa (articolo 9).
La legge 117/1988 prevede invece l’applicazione delle norme ordinarie nel caso in cui il danno sia conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni (articolo 13). In tal caso l'azione civile per il risarcimento del danno ed il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie; il danneggiato quindi potrà agire direttamente nei confronti del magistrato e dello Stato, quale responsabile civile, e l'azione di regresso dello Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato sarà disciplinata dalle norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti.
Si ricorda che la Commissione Giustizia ha avviato in questa legislatura l’esame in sede referente della proposta di legge C. 1735, che modifica alcune disposizioni sulla responsabilità civile dei magistrati. A tal fine la proposta novella la legge n. 117 del 1988, che disciplina l’azione per fare valere la responsabilità civile dello Stato per i danni causati dalla condotta illecita di un magistrato.
Come specificato nella Relazione illustrativa della proposta di legge n. 1735, la «proposta di legge intende farsi carico delle criticità che sono derivate dall’applicazione della legge n. 117 del 1988 e al tempo stesso cercare di recepire le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea».
L’articolo unico della proposta di legge interviene sugli articoli 2, 5 e 7 della legge n. 117 del 1988 in modo da:
§ equiparare, ai fini della responsabilità civile dello Stato, la condotta dei magistrati onorari a quella dei magistrati togati;
§ ridefinire il concetto di colpa grave;
§ limitare l’attuale clausola di salvaguardia, volta a individuare i casi in cui non si dà luogo a responsabilità;
§ eliminare il filtro di ammissibilità della domanda di risarcimento danni, attualmente attribuito alla valutazione del tribunale distrettuale;
§ integrare la disciplina dell’azione di rivalsa dello Stato.
Anche nella scorsa legislatura, in almeno quattro diversi momenti, il parlamento ha affrontato il tema della responsabilità civile dei magistrati.
In primo luogo, il disegno di legge costituzionale A.C. 4275, presentato dal Governo Berlusconi alla Camera dei deputati, e volto ad una riforma complessiva del Titolo IV della Parte II della Costituzione, “La Magistratura”, prevedeva (articolo 14) l’introduzione in Costituzione di una nuova sezione e un nuovo articolo, relativi alla responsabilità dei magistrati[31], che si caratterizzavano per l’introduzione della responsabilità diretta dei magistrati per gli atti compiuti in violazione dei diritti, senza quindi che il cittadino dovesse rivolgersi allo Stato. Il d.d.l. non ha concluso l’esame in sede referente.
In secondo luogo, in XVI legislatura la Commissione Giustizia della Camera ha avviato l’esame di una serie di proposte di legge in materia di responsabilità civile dei magistrati[32], senza concludere l’iter in sede referente.
Inoltre, a seguito della procedura di infrazione comunitaria (2009/2230) avviata dalla Commissione europea contro il nostro Paese (v. infra), proposte di modifica della legge 117 del 1988 sono state inserite in diversi momenti parlamentari nei disegni di legge comunitaria.
Si ricorda il disegno di legge comunitaria 2010 che, nel testo della Commissione Politiche dell’Unione europea (A.C. 4059-A), conteneva una specifica disposizione (articolo 18), incidente sui presupposti della responsabilità civile dei magistrati. Dopo il rinvio del disegno di legge in Commissione, disposto il 6 aprile 2011 dall'Assemblea, il provvedimento è tornato all'esame dell'Aula il 26 luglio, dove l'approvazione di un emendamento della Commissione ha disposto la soppressione dell'art. 18 sulla responsabilità civile dei magistrati.
La volontà di introdurre una disposizione di modifica della legge 117/1988 si manifesta pochi mesi dopo in sede di esame del disegno di legge comunitaria 2011 quando, il 2 febbraio 2012, l’Assemblea della Camera dei deputati approva un articolo aggiuntivo al disegno di legge (emendamento Pini 30.052), con il parere contrario del Governo (v. art. 25 dell’A.S. A.S. 3129)[33]. Sul testo si è espresso con un parere critico anche il Consiglio superiore della magistratura (14 marzo 2012). L’esame del disegno di legge comunitaria 2011, approvato dalla Camera, non si è poi concluso al Senato (A.S. 3129).
Con lettera di costituzione in mora ex articolo 226 del Trattato CE (oggi riferibile all’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) del 9 ottobre 2009, la Commissione europea ha contestato all’Italia di esser venuta meno agli obblighi imposti dal diritto dell’Unione in virtù del principio generale della responsabilità degli Stati membri in caso di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un loro organo giurisdizionale (procedura dì infrazione n. 2009/2230). In particolare, gli addebiti mossi dalla Commissione riguardano la compatibilità rispetto al diritto dell’Unione europea delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 2 della legge n. 177 del 1988 in materia di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati.
L’articolo 2, comma 1, della legge n. 177 del 1998, prevede che chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia possa agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
Al comma 2 del medesimo articolo è inoltre previsto che nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non possa dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
Le contestazioni mosse dalla Commissione europea nella citata lettera di messa in mora richiamano espressamente le valutazioni circa la disciplina italiana in materia contenute nella sentenza resa in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia dell’Unione europea del 13 giugno 2006 nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo).
Con tale pronuncia, la Corte di giustizia ha affermato che «Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale».
La Corte ha inoltre osservato che «Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler». Alla luce della sentenza da ultimo indicata, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).
Con lettera del 22 marzo 2010, la Commissione ha fatto pervenire alla Repubblica italiana un parere motivato, invitandola ad adottare le misure necessarie per conformarvisi entro il termine di due mesi a decorrere dalla sua ricezione. Ritenendo che tale parere motivato fosse rimasto senza risposta, il 29 luglio 2010, la Commissione europea ha convenuto la Repubblica italiana innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea mediante ricorso per inadempimento degli obblighi derivanti dai trattati ex articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Ribadendo considerazioni già espresse nella lettera di messa in mora (e, in precedenza, nella sentenza della Corte di giustizia citata), a sostegno del ricorso la Commissione ha sostanzialmente ribadito i due addebiti:
a) da un lato, ha contestato alla Repubblica italiana di avere escluso la responsabilità dello Stato per i danni causati a dalla violazione del diritto dell’Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale qualora tale violazione derivi da un’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo;
b) dell’altro, ha rilevato che il nostro ordinamento limita, in casi diversi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove, la possibilità di invocare tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.
Il Governo italiano ha
contestato l’inadempimento addebitatogli - a suo parere - dovuto ad
un’interpretazione erronea della la legge n. 117/88, sostenendo che, in base
all’art. 2 di detta legge, i presupposti (dolo
e colpa grave) fissati al primo comma dell’art. 2 della legge medesima (e
precisati, con riguardo alla nozione di «colpa grave», al successivo terzo
comma), si applicherebbero anche alla
fattispecie relativa all’interpretazione di norme di diritto ed alla
valutazione di fatti e prove. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto
dalla Commissione europea, nella menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo
la Corte non avrebbe respinto l’interpretazione dell’art. 2 della legge n.
117/88 sostenuta dalla Repubblica italiana, bensì si sarebbe limitata a rispondere alla questione
pregiudiziale formulata dal giudice del rinvio. Secondo la Repubblica
italiana, la disciplina contestata non sarebbe di per sé in contrasto con la
giurisprudenza della Corte, atteso che ai giudici nazionali sarebbe consentito
procedere ad un’interpretazione di tale legge conforme ai requisiti del diritto
dell’Unione e, in particolare, a quelli fissati nelle citate sentenze Köbler e
Traghetti del Mediterraneo; a tal proposito la nozione di «colpa grave» contenuta nella normativa italiana in esame
coinciderebbe con la condizione della «violazione grave e manifesta del diritto
dell’Unione», quale definita dalla giurisprudenza della Corte.
Il 24 novembre 2011 la
Corte di giustizia dell'Unione europea, accogliendo gli addebiti rilevati dalla
Commissione, ha stabilito (con sentenza nella causa C-379/10) che la Repubblica italiana.
La Repubblica italiana,
· escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e
· limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave,
ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.
La Corte rammenta che uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni arrecati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione da parte dei propri organi in presenza di tre condizioni:
- la norma giuridica violata dev'essere preordinata a conferire diritti ai singoli,
- la violazione deve essere sufficientemente caratterizzata e
- tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subìto dal soggetto leso deve sussistere un nesso causale diretto.
La responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado è disciplinata dalle stesse condizioni. In tal senso, una «violazione sufficientemente caratterizzata della norma di diritto» si realizza quando il giudice nazionale ha violato il diritto vigente in maniera manifesta. Il diritto nazionale può precisare la natura o il grado di una violazione che implichi la responsabilità dello Stato ma non può, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi.
Da ultimo si segnala che, con lettera di messa in mora ex articolo 260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il 26 settembre 2013 la Commissione ha contestato all’Italia di non aver adottato alcuna iniziativa volta ad adempiere la sentenza della Corte del 24 novembre 2011 nella causa C-379/10.
Si ricorda che ai sensi dell’articolo 260, paragrafi 1 e 2 del TFUE, quando la Corte di giustizia dell'Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte comporta; la Commissione, ove ritenga che lo Stato membro in questione non abbia preso le misure che l'esecuzione della sentenza della Corte comporta, dopo aver posto tale Stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la Corte. Essa precisa l'importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze. Infine, la Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità.
Articolo 24
(Clausola di invarianza finanziaria)
L’articolo dispone che - fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 25, il quale quantifica e reca la copertura degli oneri derivanti dagli articoli 5, 6, 7 e 23 del provvedimento - dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Si dispone, altresì, che le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dalla legge in esame con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Articolo 25
(Norma di copertura. Disposizioni in
materia di consumi medi standardizzati di gasolio in agricoltura)
L’articolo 25 indica l’ammontare degli oneri derivanti dalle disposizioni degli articoli 5, 6 e 7 – rispettivamente in materia di estensione di agevolazioni fiscali a non residenti, imposta di successione e Ivafe - nella misura di 3,7 milioni di euro per l’anno 2014, 20,44 milioni di euro per l’anno 2015 e 15,3 milioni di euro dall’anno 2016 (comma 1), disponendo che alla relativa copertura si provveda mediante riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all’impiego ad aliquota agevolata in agricoltura (comma 2).
Il comma 2 dispone che con decreto del Ministro delle politiche agricole, di concerto con il Ministro dell’economia e finanze, da emanare entro 60 giorni a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge si provvede alla riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all’impiego ad aliquota agevolata in agricoltura, come determinati nell’Allegato 1 al decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali del 26 febbraio 2002 (pubblicato nella G.U. n. 67 del 2002) in modo da garantire maggiori entrate pari a 4 milioni per il 2014, a 21 milioni per il 2015 e a 16 milioni a decorrere dal 2016.
Si ricorda che l’articolo 24 del D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 (testo unico delle accise) al n. 5 della tabella A prevede la possibilità di introdurre esenzioni o applicazioni di aliquote ridotte di accisa per taluni oli minerali impiegati in lavori agricoli, orticoli in allevamento, nella silvicoltura e piscicoltura e nella florovivaistica. In assenza del regime di esenzione, le aliquote ridotte applicabili sono pari al 10% dell’aliquota ordinaria per il gasolio impiegato nelle serre florovivaistiche (art. 2, co. 127, della legge n. 662/1996) e al 22% di quella ordinaria per l’impiego di gasolio nella altre serre (articolo 10 del D.L. n. 375/2000).
A norma dell'art. 24, comma 4, della legge n. 388 del 2000, l'aliquota normale di riferimento per il gasolio destinato agli impieghi agricoli, ivi compreso il riscaldamento delle serre, è quella prevista per il gasolio usato come carburante.
Si rammenta che attualmente l’accisa per il gasolio da autotrazione ammonta a 617,40 euro per mille litri. La tabella A del D.Lgs. n. 504/1995 prevede una agevolazione nella misura del 22 per cento dell’aliquota dell’accisa.
Con il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 14 dicembre 2001, n. 454 sono state definite le modalità applicative dell’agevolazione fiscale, mentre con il decreto del Ministero dell’agricoltura 26 febbraio 2002 sono stati determinati i consumi medi dei prodotti petroliferi impiegati in lavori agricoli, orticoli, in allevamento, nella silvicoltura e piscicoltura e nella florovivaistica ai fini dell'applicazione delle aliquote ridotte o dell'esenzione dall'accisa, secondo i parametri indicati nelle allegate tabelle. Per il gasolio essi sono espressi in litro su ettaro (l/ha).
Con la legge di stabilità 2013 (legge n. 228 del 2012) all’articolo 1, comma 517, si è disposto la riduzione del 5 per cento, a decorrere dal 1° gennaio 2014, dei consumi medi dei prodotti petroliferi da ammettere all'impiego agevolato in agricoltura, come determinati in modo standardizzato nell’Allegato 1 al decreto del Ministero delle politiche agricole del 26 febbraio 2002. Limitatamente all’anno 2013 i predetti consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all'impiego agevolato in agricoltura erano stati ridotti del 10 per cento.
Il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, ha previsto inoltre che la quantificazione dell’onere determinato dall’accisa agevolata per le coltivazioni in serra (articolo 6) fosse coperto mediante riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all’impiego agevolato, nella misura di 14,4 milioni per il 2013 e di 34,6 milioni per ciascuno degli anni 2014 e 2015.
Da ultimo, il d.d.l. stabilità 2014 (A.C. 1865),
all’articolo 1, comma 184 dispone l’incremento, con decreto del Ministro delle politiche agricole da emanare entro il 2
marzo 2014 della misura dei consumi medi
standardizzati di gasolio da ammettere all’impiego agevolato in agricoltura
nei limiti di spesa pari a 4 milioni per
il 2014, a 21 milioni per il 2015 e
a 16 milioni a decorrere dal 2016.
Alla luce di un quadro normativo interessato da così tante disposizioni legislative che si sono accavallate negli ultimi tempi, il comma 3 stabilisce che con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali si provvede, nei 30 giorni successivi alla emanazione del decreto di riduzione previsto dal precedente comma 2, alla modifica del decreto del 26 febbraio 2002.
In sostanza, si dispone l’aggiornamento dell’Allegato 1 al D.M. 26 febbraio 2002, che espone le tabelle dei consumi di gasolio per l'impiego agevolato in agricoltura, articolate per singolo prodotto e tipologia di attività lavorativa.
Il comma 4 quantifica gli oneri derivanti dall’articolo 23 - relativo all’obbligo dello Stato di risarcire il danno derivante dalla violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado – in 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2014 e dispone che ad essi si provveda mediante utilizzo delle maggiori entrate derivanti dalla riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio ad aliquota agevolata di cui al comma 2 dell’articolo in esame.
Il comma 5 dispone che il Ministero della giustizia provvede al monitoraggio degli oneri derivanti dall’attuazione dell’articolo 23.
Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa cui al comma 4, il Ministero della giustizia ne dà tempestiva comunicazione al Ministero dell’economia e delle finanze, il quale provvede, con proprio decreto, alla riduzione delle dotazioni finanziarie rimodulabili del bilancio statale di cui all’articolo 21, comma 5, lettera b), della legge n. 196/2009[34].
Si ricorda che – nel corso dell’attuale legislatura - una serie di ulteriori disposizioni legislative adottate prevedono - a titolo di clausola di salvaguardia finanziaria degli effetti delle misure in esse contenute - una riduzione delle dotazioni rimodulabili a legislazione vigente delle Missioni di spesa dei Ministeri, disponendo che tali riduzioni operino solo qualora si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa originarie. Tali clausole, però, a differenza di quella in esame, intervengono sulle spese rimodulabili iscritte nelle Missioni di spesa dei Ministeri interessati dalle misure delle quali si prevede il monitoraggio[35].
[1] R.D.L. 26 settembre 1935, n. 1952, Disciplina del servizio delle guardie particolari giurate.
[2] R.D.L. 12 novembre 1936, n. 2144, Disciplina degli istituti di vigilanza privata.
[3] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[4] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[5] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[6] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[7] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[8] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[9] La Commissione precisa che l’ISPRA non è a conoscenza del numero di richiami vivi in possesso dei cacciatori né è a conoscenza di banche dati che permettano di venirne a conoscenza.
[10] I metodi utilizzati dai cacciatori non consentono la cattura di un’unica specie, selettivamente individuata in quella oggetto di deroga.
[11] A tale proposito, tuttavia, la possibilità di catturare specie ulteriori è ridotta dalle dimensione delle reti utilizzate e dalla competenza del personale dell’ISPRA che estrae gli animali dalle reti.
[12] I dati territoriali sono dati che attengono, direttamente o indirettamente, a una località o un'area geografica specifica, il set di dati territoriali è una collezione di dati territoriali identificabili (art. 2, definizioni del D.Lgs 32/2010).
[13] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[14] La Commissione rileva profili di non conformità anche in relazione all’articolo 1, par. 2 (nozione di progetto) e all’articolo 6, paragrafo 2 (informazione del pubblico) della direttiva VIA.
[15] La Commissione rileva come la determinazione di assoggettabilità a VIA (art. 4 para. 2 e 3) sia regolata nell’ordinamento italiano dall’articolo 6, commi 6,7,8,9 nonché dell’articolo 20 del D.Lgs 152/2006 modificato, in collegamento con gli allegati II, III, IV e V della sua parte seconda.
[16] Tale direttiva ha codificato, riunendolo in un unico testo, la legislazione UE vigente in materia di valutazione d'impatto ambientale.
[17] (COM(2011)571).
[18] (COM(2010)2020).
[19] Per una analisi più approfondita del quadro normativo di completamento della L. 447/1995 nonché per una analisi dei contenuti dei decreti legislativi di recepimento di direttive comunitarie emanati nel corso della XIV legislatura in materia di inquinamento acustico, si rinvia alla scheda “Inquinamento acustico e luminoso” tratta dal dossier di inizio della XV legislatura.
[20] Le
norma UNI a cui la relazione illustrativa fa riferimento dovrebbero essere la
UNI 11367 e la UNI 11444.
[21] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[22] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito a questo strumento di pre-contenzioso) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[23] D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della L. 12 dicembre 2002, n. 273.
[24] Dir. 13 ottobre 1998, n. 98/71/CE, Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli.
[25] Si veda per approfondimenti il dossier del Servizio Studi “Le azioni di contrasto ai ritardi dei pagamenti delle Pubbliche Amministrazioni”.
[26] Il sistema EU PILOT (strumento informatico EU pilot - IT application) dal 2008 è lo strumento principale di comunicazione e cooperazione tramite il quale la Commissione, mediante il Punto di contatto nazionale - che in Italia è la struttura di missione presso il Dipartimento Politiche UE della Presidenza del Consiglio -, trasmette le richieste di informazione agli Stati membri (tutti gli Stati membri hanno aderito al sistema) al fine di assicurare la corretta applicazione della legislazione UE e prevenire possibili procedure d’infrazione. Il sistema viene utilizzato quando per la Commissione la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto all’interno di uno Stato membro è insufficiente e non permette il formarsi di un’opinione chiara sulla corretta applicazione del diritto UE e in tutti i casi che potrebbero essere risolti senza dovere ricorrere all’apertura di una vera e propria procedura di infrazione.
[27] “Gli Stati membri assicurano che il periodo di pagamento stabilito nel contratto non superi il termine di cui al paragrafo 3, se non diversamente concordato espressamente nel contratto e purché ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche, e non superi comunque sessanta giorni di calendario”.
[28] Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, il danno ingiusto risarcibile, secondo la nozione recepita dall'art. 2043 cod. civ., è quello che produce la lesione di un interesse giuridicamente rilevante, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo (Cass., III sez., ord. 10 agosto 2002, n. 12144; Sez. III, sent. 19 luglio 2002, n. 10549).
[29] Ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge 117/1988, i giudici di pace e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all'articolo 2, comma 3, lettere b) e c).
[30] La giurisprudenza della Cassazione civile ha affermato che «In tema di risarcimento del danno per responsabilità civile del magistrato, l'ipotesi di colpa grave di cui all'art. 2, comma 3, l. n. 117/88 sussiste quando il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (cfr. Sez. III, sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008). Per quanto riguarda il concetto di negligenza inescusabile, la Suprema Corte ha sostenuto che questo esige un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato (cfr. Sez. I, sent. n. 6950 del 26 luglio 1994 e Sez. III, Sent. n. 15227 del 5 luglio 2007).
[31] Sezione II-bis, Responsabilità dei magistrati - Art. 113-bis, «I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato. La legge disciplina espressamente la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale. La responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato».
[32] Cfr. AA.C. 1956 Brigandì, C. 252 Bernardini, C. 1429 Lussana, C. 2089 Mantini, C. 3285 Versace, C. 3300 Laboccetta e C. 3592 Santelli.
[33] In particolare, l’articolo 25 prevedeva la sostituzione del comma 1 dell’art. 2 della legge n. 117/1988 con la previsione della possibilità - per chi abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni nelle ipotesi considerate nel medesimo articolo 2, ovvero per diniego di giustizia - di agire non solo contro lo Stato, ma anche contro il soggetto riconosciuto colpevole, per ottenere il risarcimento dei danni. Un'ulteriore innovazione era poi l'introduzione dell'ipotesi della "violazione manifesta del diritto", aggiuntiva rispetto ai già previsti titoli di imputazione della responsabilità (dolo o colpa grave). L'ultima innovazione era infine rappresentata dall'aggiunta di un ultimo periodo al comma in questione, con il quale veniva esplicitamente specificato che costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto.
L’articolo 25 sostituiva anche il comma 2 dell’articolo 2 della legge 117/1988, eliminando la disposizione che attualmente esclude la configurabilità della responsabilità in presenza di attività di interpretazione di norme di diritto. Il suddetto comma 2 viene infatti riformulato prevedendo che, salvi i casi previsti dai commi 3 e 3-bis del medesimo articolo 2, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non possa dar luogo a responsabilità la sola attività di valutazione del fatto e delle prove.
La terza e ultima novella all'articolo 2 prevista dall’art. 25 consisteva nell’inserimento del comma 3-bis, in base al quale, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto ai sensi del comma 1, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato, con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea.
[34] Ai
sensi dell'articolo 21, comma 5, della legge di contabilità pubblica n.
196/2009, le spese del bilancio dello Stato, nell'ambito di ciascun programma,
si ripartiscono in: a) spese non rimodulabili; b) spese rimodulabili. Secondo
la definizione contenuta nella legge di contabilità, le spese non rimodulabili
sono quelle “per le quali l'amministrazione non ha la possibilità di esercitare
un effettivo controllo, in via amministrativa, sulle variabili che concorrono
alla loro formazione, allocazione e quantificazione”. Esse corrispondono alle
spese definite come “oneri inderogabili”. Secondo la norma interpretativa
dell’articolo 21, comma 6, secondo e terzo periodo, della legge di contabilità,
introdotta dal D.L. n. 98/2011 (articolo 10, comma 15) nell’ambito degli oneri
inderogabili rientrano esclusivamente le spese cosiddette obbligatorie, ossia:
le spese relative al pagamento di stipendi, assegni, pensioni e altre spese
fisse; le spese per interessi passivi; le spese derivanti da obblighi
comunitari e internazionali; le spese per ammortamento di mutui; le spese
vincolate a particolari meccanismi o parametri, determinati da leggi che
regolano la loro evoluzione.
Le spese rimodulabili - delle quali non è data una vera e propria
definizione - sono individuate:
§ nelle spese
derivanti da fattori legislativi, intendendo come tali quelle autorizzate da
espressa disposizione legislativa che ne determina l'importo, considerato quale
limite massimo di spesa, e il periodo di iscrizione in bilancio;
§ nelle spese di
adeguamento al fabbisogno, ossia spese non predeterminate legislativamente ma
quantificate tenendo conto delle esigenze delle amministrazioni.
[35] Si ricorda, in proposito la legge 97/2013 (Legge Europea 2013), all’articolo 14, comma 3, ha disposto, che, nel caso in cui si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa derivanti dallo stesso articolo 14, il Ministro dell'economia e delle finanze, provvede a decorrere dal 2013, con proprio decreto, alla riduzione corrispondente riduzione lineare delle dotazioni finanziarie disponibili iscritte a legislazione vigente delle spese rimodulabili delle missioni del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
L’articolo 13, comma 3 della stessa legge, reca una clausola di tenore simile alla precedente, relativamente agli eventuali maggior oneri rispetto alle previsioni recati dal medesimo articolo 13 e a tal fine dispone che il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro della giustizia, provvede, con proprio decreto, alla riduzione delle dotazioni di parte corrente iscritte delle spese rimodulabili del Programma Giustizia civile e penale della Missione Giustizia dello stato di previsione del Ministero della giustizia.
Con le stesse finalità di salvaguardia finanziaria, l’articolo 85 del D.L. n. 69/2013 (legge n. 98/2013) ha disposto che nel caso in cui si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa derivanti dalle misure per l'efficienza del sistema giudiziario e la definizione del contenzioso civile il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro della giustizia, provvede, con proprio decreto, alla riduzione, nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere, delle dotazioni finanziarie di parte corrente iscritte, nell'ambito delle spese rimodulabili del Programma Giustizia civile e penale della Missione Giustizia dello stato di previsione del Ministero della giustizia.
Clausola di salvaguardia finanziaria di tenore simile a quelle sopra commentate è inoltre prevista nell’articolo 3, comma 2, della legge n. 100/2013, nell’articolo 7 della legge n. 113/2013.