Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Affari Esteri
Titolo: L'evoluzione del quadro politico in Egitto dopo l'avvento di Al Sisi
Serie: Documentazione e ricerche   Numero: 312
Data: 04/09/2017
Organi della Camera: III Affari esteri


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L'evoluzione del quadro politico in Egitto dopo l'avvento di Al Sisi

4 settembre 2017
Documentazione e ricerche


Indice

La nuova Carta costituzionale|Il completamento della transizione|La lotta al terrorismo di matrice islamista e le scelte di politica estera|Le elezioni politiche del dicembre 2015|La repressione dei gruppi d'opposizione|Gli attacchi terroristici contro le comunità cristiane copte ed il viaggio di papa Francesco in Egitto|Il caso Regeni e le tensioni diplomatiche con l'Italia|


La nuova Carta costituzionale

Dopo la deposizione del presidente Morsi nel luglio del 2013, il nuovo governo provvisorio avviava una revisione radicale della Costituzione che era stata approvata alla fine del 2012 e che era stata criticata perché espressione esclusiva delle forze islamiste. Dopo settimane di trattative e conflitti interni, l'Assemblea costituente approvava il 4 dicembre 2013 una nuova Carta fondamentale.

Il testo, successivamente confermato a larga maggioranza da un referendum popolare nel gennaio 2014, sembra essere una riedizione della Costituzione del 1971, più volte emendata sotto Sadat e Mubarak. Il documento rafforza il ruolo preminente delle forze armate: i tribunali militari possono giudicare i civili; pieni poteri di controllo del budget da parte dell'esercito; autonomia del Consiglio supremo delle forze armate nella nomina del ministro della Difesa (per otto anni). Inoltre sono proibiti i partiti religiosi. È confermata la sharia alla base del diritto egiziano, ma vengono aboliti gli articoli che riguardano il ruolo della religione nel diritto e nell'esercizio del potere statale. Nel complesso la nuova Costituzione, sebbene conferisca ai militari uno status privilegiato, contiene, tuttavia, elementi progressivi sul piano della laicità dello stato e del diritto, rispetto al precedente testo.

A fronte dell'avanzamento formale della roadmap politica, il Paese appariva comunque fortemente polarizzato. La rimozione di Morsi era stata seguita dalla dispersione violenta dei sit-in di Raba'a in cui i suoi sostenitori si erano concentrati (agosto 2014, con oltre 700  vittime) e da un'ondata di arresti/condanne, finanche alla pena capitale, che non solo decimava la leadership della Fratellanza Musulmana, ma che ridimensionava fortemente la struttura organizzativa e la capacità operativa del movimento, che secondo le autorità aveva contiguità con i gruppi terroristi.

Al contrasto contro il terrorismo e all'azione di contenimento delle organizzazioni di stampo islamista si collegava poi una serie di misure contro esponenti dell'opposizione laica/liberale e della società civile e di provvedimenti legislativi che colpivano la libertà di espressione. La perdurante assenza di un parlamento eletto determinava una situazione in cui la Presidenza esercitava di fatto il potere legislativo in un contesto di "eccezionalità".

Diversi erano i decreti emanati, tra cui quello che limitava il diritto di manifestazione, quello che consentiva alla Presidenza di revocare i rettori delle università (considerate focolai di estremismo), quello che limitava fortemente le attività delle ONG straniere nel paese, quello che stabiliva l'estensione della competenza delle corti militari anche ai civili, laddove fosse minacciata l'integrità delle istituzioni e l'interesse nazionale.

Da parte della società civile egiziana si levavano numerose proteste, soprattutto relative all'ampio spazio di interpretazione e all'arbitrarietà delle limitazioni alla libertà d'espressione. La critica principale era quella di volere, attraverso la legislazione antiterrorismo, silenziare qualsiasi forma d'opposizione, aggirando le libertà costituzionali.

Era poi approvata anche una nuova legge elettorale, che prevede che solo 120 dei 596 parlamentari sia assegnato alle liste di partito, lasciando il restante numero di seggi ai candidati singoli nei collegi (448), con 28 membri nominati direttamente dal Presidente. Questo meccanismo è suscettibile di ridurre, secondo gli osservatori, la possibilità di formare blocchi omogenei di opposizione e di istituire un sistema multipartitico in Egitto.


Il completamento della transizione

Dopo le elezioni presidenziali di giugno 2014, che registravano la prevalenza dell'ex capo dell'esercito, il generale Abdel Fattah Al Sisi, l'Egitto iniziava il completamento del suo processo di transizione. A seguito di una sentenza della Corte costituzionale, nel mese di luglio erano approvati i nuovi emendamenti alla legge elettorale, e il 31 agosto la Commissione elettorale nazionale annunciava le date delle elezioni legislative, da svolgere in due distinte fasi per area geografica, ciascuna a doppio turno: la prima fase il 18 e 19 ottobre  e 26-27 ottobre 2015; la seconda fase il 22-23 e 1-2 dicembre 2015.

La commissione elettorale del paese vietava alle donne di indossare il niqab - e di avere dunque il volto coperto - alle urne, per motivi di sicurezza e trasparenza. Alle elezioni si presentavano nove liste, per un totale di 5.420 candidati che in gran parte appoggiavano Al Sisi. Tre erano i principali blocchi politici del paese. Il primo, la coalizione conservatrice "Per amore dell'Egitto", guidata da Sameh Seif Elyazal, ex funzionario dei servizi segreti, includeva anche importanti uomini d'affari e ex membri del Partito nazionale democratico (sciolto nel 2011) dell'ex presidente Hosni Mubarak. Il secondo blocco era rappresentato dal "Fronte egiziano", guidato dall'ex candidato alle presidenziali 2012 Ahmed Shafiq, anch'esso composto soprattutto da membri del disciolto Partito Democratico Nazionale di Mubarak.

Vi era infine la coalizione "Appello salafita", sostenuta dal partito islamista al–Nour di Younis Makhyoune. Al Nour era anche l'unico partito apertamente islamista in corsa e la formazione più ostile al Presidente. Nei giorni precedenti alle elezioni veniva ucciso nella regione del nord del Sinai proprio un candidato del partito Al Nour. Secondo il Ministero dell'Interno egiziano l'attentato sarebbe stato opera dei gruppi jihadisti intenzionati a fermare il processo elettorale in corso.

Tra i partiti che avevano invece deciso il completo boicottaggio delle elezioni, "denunciando un ambiente elettorale anti–democratico e poco favorevole", figuravano le formazioni islamiste più o meno ideologicamente collegate alla galassia della Fratellanza musulmana, messa fuori legge e dichiarata organizzazione terroristica, come Misr al–Qawia (Egitto Forte) dell'ex candidato presidenziale Abdel Moneim Abul Fotouh; il partito salafita Hizb al–Watan (Partito della Nazione) di Emad Eddine Abdel–Ghaffour; e il partito islamico moderato Hizb al Wasat (Partito di Centro).

Da parte di alcuni partiti emergevano critiche alla legge elettorale che, basandosi prevalentemente sul sistema della candidatura singola, avrebbe potuto favorire i candidati più ricchi e con maggiori relazioni familiari. Per il governo, invece, lo svolgimento delle elezioni doveva dimostrare l'impegno dell'Egitto nel rafforzare il processo democratico.


La lotta al terrorismo di matrice islamista e le scelte di politica estera

Dal punto di vista della sicurezza la strategia egiziana contro il terrorismo di stampo islamista, presente in particolar modo nel governatorato del Sinai, si è orientata verso due principali direttive: da una parte l'"approccio securitario", ove le forze di sicurezza hanno adottato la maggior forza d'urto possibile per reprimere gli elementi terroristi; dall'altra l'approccio politico-culturale, basato sull'innovativa idea di Al Sisi di affrontare non solo le conseguenze del messaggio islamista, bensì il messaggio in sé. Nel suo discorso del 1° gennaio 2015, il Presidente chiedeva infatti un nuovo sforzo d'esegesi alle istituzioni religiose e culturali egiziane (Università di Al-Azhar in primis) per confutare la fallace narrativa di gruppi come Ansar Bayt al-Maqdis (ABM).

In questo contesto emergeva una nuova strategia dei gruppi terroristi basata su un  continuum di attacchi a bassa intensità, con piccoli ordigni e mini-attentati che minavano la stabilità e la sicurezza del Paese - tra questi rientrava anche l'attentato al Consolato Generale italiano del Cairo (11 luglio 2015). Il 17 agosto 2015 il Presidente Al Sisi emanava una nuova legge antiterrorismo che prevede l'istituzione di tribunali speciali per rendere più veloci i processi, inasprisce le pene per terrorismo e incitamento alla violenza, fornisce tutela legale a soldati e forze dell'ordine che usano la forza nell'esercizio della loro missione. La norma prevede inoltre multe altissime per i giornalisti che non riportino correttamente la versione del governo sui fatti di terrorismo.

Il 7 settembre il governo dava avvio nel Sinai settentrionale all'operazione "Diritto dei martiri", con l'impiego congiunto di forze armate e polizia al fine di sradicare le cellule terroriste presenti nella regione. Nella sua prima fase l'operazione portava all'uccisione o alla cattura di centinaia di terroristi e alla diminuzione delle loro attività; tuttavia il 23 ottobre almeno quattro militari perdevano la vita in un attentato che colpiva un veicolo dell'esercito egiziano nella città di al Arish, nel Sinai settentrionale.

Una forte attenzione era data peraltro anche al tema delle riforme economiche. Il 20 agosto il Presidente Al Sisi emanava una serie di decreti concernenti il sistema di tassazione, le regole di investimento e la struttura del settore energetico. L'obiettivo era quello di promuovere condizioni di mercato più favorevoli agli investimenti. Un'altra priorità era la lotta alla corruzione nel settore pubblico e l'efficienza della burocrazia statale, questione affrontata in un provvedimento di riforma che legava gli incentivi economici alla produttività, e che sollevava numerose proteste.

Il 19 settembre 2015 entrava in carica il nuovo governo guidato dall'ex ministro del Petrolio Sherif Ismail, che sostituiva l'esecutivo di Ibrahim Mahlab, travolto da accuse di scandali e corruzione. Il nuovo governo, formato da 33 ministri, presentava poche novità rispetto al precedente. Restavano al loro posto il Ministro degli Esteri, quello degli Interni e della Giustizia, mentre entravano tre donne, alla cooperazione internazionale, alla solidarietà e all'immigrazione. Le priorità di Al Sisi erano da un lato il ripristino della sicurezza e la lotta contro il terrorismo (in particolare nel Nord del Sinai, ove operano anche gruppi di estremisti jihadisti, quali Ansar Baytel-Maqdis, collegati allo Stato Islamico), e dall'altro il rilancio dell'economia.

Sul piano diplomatico, sostenuto finanziariamente e politicamente da Arabia Saudita e Emirati Arabi, Al Sisi riportava diversi successi: dalla reintegrazione dell'Egitto nell'Unione Africana, alla mediazione sul conflitto a Gaza, al riconoscimento politico dell'Europa e degli Stati Uniti. L'Egitto di Al Sisi ha infatti inteso assumere un ruolo attivo nella politica internazionale, presentandosi all'Occidente come interlocutore responsabile e interessato al ripristino della sicurezza nell'area; il problema della diffusione del jihadismo, che tornava a colpire con alterna frequenza nei governatorati del Sinai e minacciava di espandersi lungo il confine con la Libia, ha richiesto lo sforzo congiunto delle forze di polizia e dell'esercito per riportare sotto il controllo delle autorità le aree a maggior rischio.

L'ascesa del sedicente "Califfato" islamico (Khilafat al-islamiyya) contribuiva a rafforzare ulteriormente e a legittimare il ruolo dell'Egitto, esposto direttamente alla minaccia del terrorismo di matrice islamista. Quest'ultimo si manifestava lungo quattro direttrici frontaliere: sul fronte settentrionale (Mediterraneo) in corrispondenza della costa nord, con i fenomeni di traffici illegali (armi, droga, esseri umani - migrazioni irregolari, al cui interno possono infiltrarsi elementi del terrorismo islamico - ; sul lato orientale, con la situazione nel Nord del Sinai e con la crisi in Yemen; sul fronte meridionale, per prevenire e contrastare i traffici di armi e di droga, dove Il Cairo si acconciava ad una relazione di buon vicinato con il Sudan, malgrado la distanza ideologica con il regime di Khartoum; sul quadrante occidentale, ovvero la Libia, quello che maggiormente preoccupava gli egiziani, i quali ritenevano che la situazione fosse ormai giunta ad un livello esplosivo ed estremamente pericoloso.

La crisi libica ha assunto un'importanza assolutamente prioritaria per l'Egitto, che ha sostenuto dapprima con decisione la legittimità della Camera dei Rappresentanti di Tobruk ed il governo (anti-islamista) di Al Thinni. Il Cairo teme che la Libia si trasformi in un paese "incubatore" di forze jihadiste, che diventi una piattaforma di gestione dei traffici illegali in grado di finanziare il terrorismo e che sia messa a rischio la sicurezza della numerosa comunità egiziana in Libia.

Sul fronte siriano l'Egitto ha condotto ampie consultazioni al fine di formulare un consenso internazionale su una soluzione politica del conflitto che preservi l'unità del paese. L'Egitto sostiene l'opposizione moderata al regime e intende favorire la creazione di un governo di unità nazionale, evitando interventi esterni e contrastando l'avanzata dell'ISIS. In Egitto sono presenti circa 500.000 profughi siriani.

Per quanto riguarda i rapporti con l'Unione europea, Il Cairo ha ritenuto che Bruxelles non sia sempre stata coerente nel valutare la situazione sul terreno, e che dunque abbia faticato a comprendere nella sua interezza le dinamiche alla base della rivoluzione anti-islamista. Suscitavano reazioni fortemente critiche anche i tentativi dell'Unione di segnalare il tema del rispetto dei diritti umani e delle libertà. A tal proposito, suscitava in Egitto viva preoccupazione la risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio 2015, la quale richiedeva maggiori aperture sul piano dei diritti umani e la liberazione dei detenuti politici.

Risultavano particolarmente buoni i rapporti con la Russia prima dell'incidente dell'airbus russo sui cieli del Sinai – v. infra -, e il presidente Putin si era anche recato in Egitto per siglare importanti accordi commerciali. Anche nei confronti degli Stati Uniti vi era un forte riavvicinamento: alla nomina di Al Sisi, la Casa Bianca dichiarava ufficialmente di essere pronta a collaborare con il nuovo Presidente, e il Presidente Obama riconosceva un turning point positivo nelle relazioni bilaterali, sbloccando la seconda tranche di finanziamenti militari (per 650 milioni di USD). D'altra parte Obama non nascondeva il disappunto per le incarcerazioni di attivisti e giornalisti, per i processi di massa e per le limitazioni alle libertà di espressione e manifestazione. Restavano poi assai buoni i rapporti con la Cina, e nel corso della visita del Presidente Al Sisi a Pechino del dicembre 2014 veniva siglato un accordo strategico bilaterale cha rafforza i legami tra i due paesi. La cooperazione si basa in particolare sui rapporti commerciali e sulle infrastrutture.

Come in precedenza accennato, un momento piuttosto critico nei rapporti russo-egiziani si è avuto a partire dal 31 ottobre 2015, quando un volo charter della compagnia russa Metrojet in servizio tra Sharm-el-Sheik e l'aeroporto di San Pietroburgo precipitava sulla penisola del Sinai, provocando la morte di 224 persone tra passeggeri e membri dell'equipaggio, tra le quali quattro ucraini, un bielorusso e 219 russi.

Nonostante il pronto recupero delle scatole nere e la presenza di funzionari di Mosca nel comitato investigativo sull'incidente, i rapporti tra i due paesi subivano un periodo di raffreddamento a partire da quando i russi si convincevano della presenza di una bomba a bordo del velivolo, e quindi della matrice terroristica della tragedia, che invece le autorità egiziane tendevano ad escludere - del resto il 18 novembre 2015 lo "Stato islamico" rivendicava l'attentato, mostrando l'ordigno che sarebbe stato imbarcato sull'aereo. L

La Russia disponeva per diversi mesi la sospensione dei voli sull'Egitto, che si vedeva quindi danneggiato dal mancato afflusso di turisti e dei relativi introiti. Inoltre, la strategia anti-terroristica che aveva costituito uno dei principali volani per l'accreditamento di Al Sisi nei confronti della Comunità internazionale subiva un grave vulnus. Oltre alla sospensione dei voli russi, molti altri governi decidevano infatti di interrompere i voli in Egitto, con ulteriore pregiudizio delle attività turistiche del paese.

A peggiorare ulteriormente la situazione giungeva il 29 marzo 2016 il dirottamento di un velivolo della Egypt Air in volo da Alessandria al Cairo, dirottamento non riconducibile a matrice terroristica, bensì all'iniziativa di un soggetto certamente instabile, che fortunatamente si limitava ad imporre l'atterraggio del velivolo a Cipro, senza provocare vittime - ma certamente colpendo una volta di più con durezza la credibilità del turismo egiziano, già depresso da gravissimi cali nelle prenotazioni per l'estate.


Le elezioni politiche del dicembre 2015

Le elezioni legislative egiziane hanno visto il completamento della complessa procedura alla metà di dicembre del 2015. La Camera dei Rappresentanti – il Parlamento egiziano è unicamerale – si compone di 596 seggi, dei quali 448 assegnati a candidati in collegi uninominali, 120 assegnati in circoscrizioni elettorali su liste di partito e 28 scelti dal Capo dello Stato.L'affluenza complessiva al voto è stata del 28,3 per cento.

La tabella che segue sintetizza i risultati delle elezioni legislative del 2015:

 

Partito, Gruppo o Movimento

 

 

Orientamento

 

Seggi da collegi uninominali

 

Seggi da liste di partito

 

Nomine presidenziali

 

SEGGI

TOTALI

 

Partito dei liberi egiziani

 

Liberale

 

57

 

 

8

 

-

 

65

 

Partito del futuro della nazione

 

-

 

43

 

10

 

-

 

53

 

Nuovo WAFD

 

 

Liberal-nazionale

 

27

 

8

 

1

 

36

 

Difensori della Patria

 

-

 

10

 

8

 

-

 

18

 

 

Partito repubblicano del popolo

 

-

 

13

 

-

 

-

 

13

 

Partito del Congresso

 

-

 

8

 

4

 

-

 

12

 

Partito della Luce (al-Nour)

 

Islamista

 

11

 

-

 

-

 

11

 

Partito conservatore

 

 

-

 

1

 

5

 

-

 

6

 

Partito democratico della pace

 

-

 

5

 

-

 

-

 

5

 

Partito dell'Egitto moderno

 

Filo-governativo

 

4

 

-

 

-

 

4

 

Partito socialdemocratico egiziano

 

 

4

 

-

 

-

 

4

 

Movimento nazionale egiziano

 

-

 

4

 

-

 

-

 

4

 

 

Partito della libertà

 

-

 

3

 

-

 

-

 

3

 

 

Partito della Patria Egitto

 

Filo-governativo

 

3

 

-

 

-

 

3

 

 

Partito della riforma e dello sviluppo

 

Filo-governativo

 

3

 

-

 

-

 

3

 

 

Partito unionista nazionale e progressista

 

Filo-governativo

 

1

 

-

 

1

 

2

 

Partito delle Guardie rivoluzionarie

 

Filo-governativo

 

3

 

-

 

-

 

3

 

 

Partito nasserista

 

Nasserista

 

1

 

-

 

-

 

1

 

Libero partito egiziano per la ricostruzione

 

-

 

1

 

-

 

-

 

1

 

Indipendenti

 

 

-

 

251

 

74

 

26

 

351

Come si vede, una netta maggioranza dei seggi è andata a candidati indipendenti e per ciò stesso - come paventato da alcuni oppositori - esponenti di un vasto notabilato naturalmente disponibile alle indicazioni e alle proposte del governo. Per converso, è apparsa assai problematica in base ai dati elettorali la possibilità della costituzione di blocchi di opposizione forti e durevoli.

In ogni modo, il 13 febbraio 2016 il potere legislativo era trasferito dalla Presidenza al nuovo Parlamento: secondo gli intendimenti della maggioranza che sostiene il Presidente Al Sisi si compiva in tal modo l'ultimo atto della transizione democratica egiziana.


La repressione dei gruppi d'opposizione

Gli oppositori a vario titolo del regime egiziano trovavano comunque un'occasione il 25 aprile - festività che commemora la fine dell'occupazione israeliana del Sinai - per manifestazioni di piazza duramente represse con l'uso di lacrimogeni e vari arresti da parte delle forze dell'ordine. Nell'occasione la polizia fermava anche diversi giornalisti, segno evidente della crescente tensione del governo nei confronti dei media, soprattutto internazionali.

Sul piano giudiziario, invece, contrariamente alle aspettative di molti, il 7 maggio l'ex presidente Mohammed Morsi, accusato di spionaggio a favore del Qatar, vedeva la propria posizione stralciata dalle richieste di parere segreto al Gran Muftì - autorità religiosa di vertice in Egitto che obbligatoriamente deve pronunciarsi sulle richieste di pena capitale.

Tuttavia, sempre nell'ambito dell'inchiesta sullo spionaggio per il Qatar, erano inoltrate al Gran Muftì due richieste di condanna a morte per altrettanti giornalisti di Al-Jazeera, emittente come è noto proprio del Qatar, da tempo sospetto agli occhi delle autorità egiziane per aver a loro dire appoggiato la Fratellanza musulmana nel breve periodo della presidenza di Morsi. Il 18 giugno la Corte d'assise del Cairo infliggeva complessivamente quaramt'anni di reclusione a Mohammed Morsi e pronunciava la condanna alla pena capitale per sei persone, tra cui i due giornalisti di Al-Jazeera, il tutto nell'ambito del processo sullo spionaggio con il Qatar.

Una nuova serie di provvedimenti giudiziari colpiva le opposizioni alla metà di maggio, dapprima con la condanna di 51 cittadini a due anni di carcere per le manifestazioni di protesta contro la decisione del Cairo di restituire in aprile all'Arabia Saudita due isole site nel Golfo di Aqaba -decisione conseguente all'accordo di ridefinizione delle frontiere con l'Arabia Saudita. Il giorno successivo, 101 condanne a cinque anni e 79 pesanti ammende erano inflitte a un altro gruppo di manifestanti contro il governo. Ben 25 anni di carcere venivano poi comminati ad otto sostenitori dell'ex presidente Morsi, accusati di aver compiuto alcuni attentati; altri 13 sostenitori dell'ex presidente subivano condanne dai 5 ai 10 anni di carcere.

Peraltro poco più di un mese dopo il Consiglio di Stato, istanza amministrativa superiore competente anche per le cause intentate contro il governo, accoglieva il ricorso contro la cessione delle due isole all'Arabia Saudita, sostenendone invece la piena appartenenza all'Egitto, in quanto situate all'interno dei suoi confini, e invalidando così di fatto l'accordo di demarcazione delle frontiere raggiunto con l'Arabia Saudita.

Una ulteriore difficoltà alle prospettive del turismo egiziano giungeva il 19 maggio, quando un volo di linea della Egypt Air, partito dall'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, si inabissava nel Mar Mediterraneo circa 300 km a nord di Alessandria d'Egitto, con la morte di 56 passeggeri - 15 le quali francesi -, sette membri dell'equipaggio e tre agenti della sicurezza. Nonostante la consueta ridda di ipotesi contrastanti sulle cause del disastro, certamente una nuova pesante ombra si allungava sulle possibilità di raggiungere l'Egitto in condizioni di sicurezza. Ambienti giornalistici riferentisi al governo egiziano iniziavano, di fronte al ripetersi invero inconsueto degli incidenti aerei, a parlare di un possibile complotto per screditare l'Egitto nei confronti dei migliori alleati, dapprima con l'incidente al velivolo russo e ora con le 15 vittime francesi del nuovo disastro aereo. Al possibile complotto veniva attribuito anche il peggioramento delle relazioni dell'Egitto con l'Italia a seguito dell'assassinio di Giulio Regeni (v. infra), imputato all'azione di servizi segreti stranieri.

Certamente tuttavia non contribuiva alla distensione nei confronti di Parigi, alla fine di maggio, l'espulsione di fatto del giornalista francese Remy Pigaglio, del quotidiano cattolico La Croix e di Radio RTL, che si vedeva vietare l'ingresso in Egitto al ritorno da una trasferta. Quanto accaduto provocava proteste dal  Quay d'Orsay, e, con più forza, da parte dei giornalisti stranieri operanti al Cairo, che denunciavano la crescente pressione esercitata dalle autorità sui media egiziani ed esteri.

Tra l'altro il comitato per la protezione dei giornalisti, nel suo ultimo rapporto, aveva da poco indicato l'Egitto al secondo posto tra i paesi nei quali risultava detenuto il maggior numero di giornalisti, e come quello nel quale le condizioni di lavoro per la stampa avevano subito il più rapido deterioramento.

Per tutta risposta giungeva proprio dopo pochi giorni la notizia del fermo dei vertici del sindacato dei giornalisti – poi subito rilasciati, ma con una cauzione pari a oltre mille euro -, perché accusati, oltre che della diffusione di notizie non vere, di aver protetto due giornalisti che il 1° maggio avevano cercato di sfuggire all'arresto rifugiandosi nella sede centrale del sindacato. Amnesty International definiva la violazione della sede del sindacato compiuta il 1° maggio dalle forze di polizia come il più grave attacco alla libertà dei media verificatosi in Egitto da molti decenni. Peraltro la risposta del sindacato dei giornalisti ai fatti del 1° maggio non avveniva unitariamente, poiché gli ambienti dei media più legati al governo si defilavano.

Sempre sul versante dei diritti umani, verso la metà di luglio le autorità egiziane reagivano duramente ad un rapporto di Amnesty International che accusava l'Egitto di essere responsabile nei primi mesi del 2015 di sparizioni forzate e torture nei confronti di studenti, attivisti e manifestanti, tra i quali anche molti minorenni. Nel rapporto in particolare erano descritti i casi di 17 persone detenute illegalmente per pochi giorni o anche per diversi mesi, accusando l'Agenzia per la sicurezza nazionale egiziana di essersi resa responsabile di rapimenti, torture e sparizioni forzate per eliminare il dissenso politico attraverso un generale senso di paura inculcato negli oppositori.

Quanto al caso di Giulio Regeni (cfr. infra), il rapporto di Amnesty lo collegava esplicitamente ad una più ampia serie di sparizioni, evidenziando anche le analogie tra i segni di tortura sul corpo del ricercatore italiano e quelli rinvenuti sui cittadini egiziani deceduti mentre si trovavano sotto la custodia dello Stato. Le accuse di Amnesty International si spingevano anche in direzione della Procura generale egiziana, che avrebbe accolto ripetutamente elementi di prova non sostenibili presentati alla Procura stessa dall'Agenzia per la sicurezza nazionale.

All'inizio di agosto le autorità egiziane asserivano di aver portato un duro colpo ai gruppi jihadisti operanti nel Sinai, che nel novembre 2015 avevano proclamato di aderire al "Califfato" di al-Baghdadi, con una serie di attacchi terrestri e aerei nei dintorni della città di el-Arish, nel Nord della penisola, nel corso dei quali avrebbe perso la vita il capo del gruppo terrorista, al-Ansari, unitamente a una cinquantina dei suoi più stretti collaboratori.

Il 3 novembre la politica economica egiziana conosceva una decisa svolta in senso liberista, quando la Banca centrale decideva la svalutazione della lira egiziana del 48% e indicava un rapporto di riferimento con il dollaro statunitense alla quota di 13 lire: tali misure sono state valutate come una risposta ai problemi riguardanti soprattutto le riserve di valuta estera egiziana, che dal 2011 erano scese da 36 miliardi di dollari a non più di 16, ponendo a rischio persino la possibilità dell'Egitto di garantire a lungo termine le importazioni di generi alimentari.

Di fronte a una certa soddisfazione degli ambienti degli operatori economici e finanziari, alcuni osservatori facevano tuttavia notare che, unitamente alla riduzione dei sussidi conseguente alle condizioni poste dal Fondo monetario internazionale per il prestito all'Egitto di 12 miliardi di dollari, le nuove misure erano suscettibili di elevare ulteriormente i prezzi del petrolio e dei carburanti, con notevole disagio della popolazione.

Alla metà di novembre la Cassazione egiziana annullava la sentenza che nel 2015 aveva condannato a morte l'ex presidente Mohammed Morsi per gli incidenti avvenuti durante un'evasione di massa nel gennaio-febbraio del 2011. Nella stessa sentenza la Cassazione egiziana annullava altresì le condanne all'ergastolo per altre 21 persone in relazione ai medesimi fatti, ordinando un nuovo procedimento giudiziario. Sempre la Cassazione nella stessa data, per mezzo di uno dei propri collegi giudicanti, riconosceva che i due figli di Mubarak Alaa e Gamal non avrebbero dovuto tornare in carcere, avendo già scontato i tre anni di detenzione previsti in relazione alle accuse di distrazione di fondi pubblici nel corso dei lavori di ristrutturazione e manutenzione del palazzo presidenziale.

A queste sentenze più "morbide" hanno fatto subito da contraltare pochi giorni dopo le pronunce della magistratura egiziana contro i vertici del sindacato dei giornalisti: un tribunale del Cairo ha condannato infatti in primo grado tre esponenti del sindacato per aver protetto nel mese di maggio 2016 due giornalisti ricercati dalla polizia che avevano cercato di sottrarsi all'arresto riparando nella sede centrale del sindacato dei giornalisti. Le accuse ai tre esponenti di vertice del sindacato egiziano dei giornalisti sono stati altresì estese alla diffusione di notizie ritenute false sul carattere violento del raid poliziesco nella sede sindacale.


Gli attacchi terroristici contro le comunità cristiane copte ed il viaggio di papa Francesco in Egitto

La precarietà dell'ordine pubblico è accresciuta all'escalation di attacchi di terroristi islamisti, alla comunità cristiana copta in Egitto, che vanta dieci milioni di fedeli, , che rappresenta il 10% della popolazione di un Paese a stragrande maggioranza musulmana.

Dalle Primavere Arabe del 2011 e dalla cacciata di Hosni Mubarak, che godeva del sostegno dell'ex patriarca Shenouda III, i copti hanno vissuto in uno stato di crescente tensione che ha avuto il suo apice durante il periodo del governo del presidente islamista, Mohamed Morsi. Solo dal 2013 vi sono stati una quarantina fra aggressioni di cristiani e attacchi a chiese, in pratica un episodio al mese, con decine di morti.

L'epicentro delle violenze è l'Egitto rurale e in particolare la regione di Minya, il turbolento governatorato con il mix esplosivo di un 35% di popolazione cristiana e un forte radicamento jihadista. E proprio nella regione di Minya, a circa 250 chilometri a sud-ovest del Cairo, si è verificato l'ultimo attacco armato.

I copti sono una minoranza che ha sempre avuto un ruolo chiave nell'economia e nell'establishment egiziano, anche se molti di loro oggi vivono sotto la soglia di povertà. Sono cristiani la maggioranza degli orafi e la gran parte degli impiegati nel settore farmaceutico del Paese, così come alcune delle famiglie più ricche dell'Egitto come i Sawiris, che controllano il gigante delle telecomunicazioni Orascom.

Dinastie di copti hanno ricoperto incarichi politici di primo piano: un membro della famiglia Boutros Ghali ha sempre fatto parte dei vari governi prima della caduta di Mubarak e un suo esponente, Boutros Boutros Ghali, è stato ministro degli Esteri prima di diventare segretario dell'Onu. 

Un tragico attentato, con oltre ottanta trra morti e feriti, si è avuto l'11 dicembre 2016, in una cappella vicino alla cattedrale copta del Cairo, San Marco. Fuori dalla cattedrale nella capitale egiziana, diverse centinaia di egiziani, soprattutto cristiani, si sono radunati per una protesta improvvisata per chiedere di trovare i responsabili dell'attentato di oggi. "Se il sangue degli egiziani è a buon prezzo, che il presidente se ne vada", gridavano i dimostranti.

In seguito, a pochi giorni del viaggio del Papa in Egitto, il 9 aprile, kamikaze dell'ISIS commettevano strage di copti in due chiese: a Tanta, a nord del Cairo, e ad Alessandria, lasciando sul terreno almeno 47 morti e 126 feriti.

La prima deflagrazione si è avuta nella chiesa di San Giorgio, a Tanta, mentre duemila persone assistevano alla messa per la domenica delle Palme. L'altra esplosione si è verificata davanti alla chiesa di San Marco, ad Alessandria, considerata la capitale copta dell'Egitto. Poco prima, riferiscono fonti ecclesiastiche all'agenzia Mena, il papa copto Tawadros aveva detto messa nell'edificio.

I due massacri hanno fatto ripiombare l'Egitto nell'incubo terrorismo del Califfato in una giornata fortemente simbolica per tutto il mondo cristiano.

Il 26 maggio infine una decina di miliziani dell'ISIS ha attaccato due bus di pellegrini che si stava recando verso il monastero di San Samuele lungo una strada desertica a circa 100 chilometri da Minya, 250 chilometri a sud-ovest del Cairo, causando, secondo fonti ufficiali, la morte di ventinove persone ed il ferimento di altre venti.

In trale quadro, grande rilevanza ha assunto il viggio di papa Bergoglio in Egitto, svoltosi dal 28 al 29 parile scorsi: il Pontefice si è recato al Cairo come "pellegrino di pace" per incontrare la comunità cattolica e i credenti di diverse fedi, come  ha spiegato lui stesso nel messaggio indirizzato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dall'aereo, mentre ai giornalisti durante il volo ha dichiarato: "E' un viaggio di unità e di fratellanza". Francesco, che ha rinunciato ad una vettura blindata, è sbarcato in una città in massima allerta, tanto che i caccia egiziani hanno scortato l'Airbus papale nello spazio aereo egiziano.

Il Pontefice ha incontrato il presidente egiziano al-Sisi e poi è andato all'Università di Al-Azhar, la massima istituzione dell'islam sunnita. Durissime le sue parole contro il terrorismo, definito "la negazione di ogni vera religiosità e la falsificazione idolatrica di Dio", ed i populismi demagogici che "non aiutano la pace". Da parte sua il grande imam di Al-Azhar, Ahmed Al Tayyib ha sottolineato: "l'slam non è una religione del terrorismo" come non lo sono il cristianesimo e l'ebraismo. 

Secondo il quotidiano egiziano Ahram, vicino al Governo, "una fonte diplomatica europea" sostiene che, "su richiesta della famiglia", il Papa avrebbe affrontato con il presidente egiziano Abdel-Fattah Al-Sisi la questione dell'assassinio di Giulio Regeni. Tra gli altri temi affrontati a porte chiuse tra il Papa e Al-Sisi, riferisce lo stesso quotidiano, ci sarebbero stati "gli sviluppi in Medio Oriente, soprattutto la crescita del radicalismo, le relazioni tra la Chiesa cattolica e il mondo islamico, e alcune questioni bilaterali". Papa Francesco poi si è recato al Patriarcato copto ortodosso, dove è stato accolto dal patriarca Tawadros II.


Il caso Regeni e le tensioni diplomatiche con l'Italia

Il 3 febbraio 2016 il ricercatore italiano Giulio Regeni, dottorando dell'Università di Cambridge ed al momento residente al Cairo, scomparso dal 25 gennaio, veniva ritrovato morto in un fossato che costeggia la strada che collega la capitale egiziana alla città di Alessandria. Dopo le prime ipotesi delle autorità del Cairo in merito a un possibile incidente stradale, lo stesso procuratore Ahmed Magi affermava di aver rinvenuto sul corpo di Regeni bruciature di sigarette, segni di torture e ferite da coltello. In tal senso anche le risultanze della prima autopsia effettuata al Cairo.

Tre giorni dopo, il 6 febbraio, si aveva notizia dell'arresto di due persone in relazione al caso Regeni, poi tuttavia prontamente rilasciate. Il 7 febbraio la salma di Regeni giungeva in Italia, e qui veniva effettuata una nuova autopsia, che accertava la causa finale della morte e confermava i segni di pestaggi, abrasioni e lesioni varie, lamentando altresì la rimozione di alcuni reperti organici operata in sede di prima autopsia al Cairo, che pregiudicava parzialmente anche i risultati dell'autopsia italiana.

Iniziava a questo punto da parte del governo egiziano la formulazione di una ridda di ipotesi, ad una ad una poi revocate: si andava dall'omicidio a sfondo omosessuale ad un atto criminale puro e semplice e finanche all'uccisione di Regeni da parte di agenti dei Fratelli musulmani desiderosi di mettere in grave imbarazzo il governo di Al Sisi. Veniva inoltre formulata dal ministro dell'interno egiziano un'ulteriore versione, secondo la quale Regeni sarebbe stato ucciso per vendetta dettata da motivi strettamente personali.

Intanto la vicenda di Regeni destava attenzione anche in molti altri paesi, tanto che si giungeva ad una petizione firmata da più di 4.600 accademici per chiedere un'inchiesta sulla sua morte, ma anche sulle numerose sparizioni che si registravano in Egitto. Il 24 febbraio veniva lanciata da Amnesty International la campagna "Verità per Giulio Regeni", e contemporaneamente si apriva la sottoscrizione di una petizione on-line cui aderivano più di centomila sostenitori.

L'allarme delle autorità italiane veniva accresciuto da indiscrezioni trapelate il 1° marzo in merito all'autopsia effettuata in Egitto, secondo le quali sarebbe risultato che Regeni era stato torturato per più giorni, ad intervalli piuttosto regolari. Tutto ciò appariva dunque coerente con il sequestro del giovane ricercatore da parte di professionisti della repressione, tanto più che questa probabilità era accresciuta dall'impegno di Regeni nella ricerca sul movimento sindacale egiziano, in forte opposizione rispetto al governo di Al Sisi.

Il 10 marzo 2016 il Parlamento europeo approvava ad ampia maggioranza una risoluzione di condanna delle torture inflitte a Regeni e della sua uccisione, come anche delle ripetute violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo egiziano.

Il 14 marzo, mentre sembravano uscire spiragli positivi dai colloqui tra il procuratore generale di Roma Pignatone, recatosi al Cairo, e il suo omologo egiziano; si assisteva però all'ennesimo tentativo di depistaggio, in base al quale Regeni prima di scomparire avrebbe avuto un'accesa discussione con un altro straniero. L'ipotesi veniva facilmente confutata dall'inesistenza del presunto video sulla lite, che sarebbe per di più stato in possesso del Consolato italiano al Cairo!

Dieci giorni dopo era la volta della versione sulla banda dei sequestratori di stranieri, che le forze di sicurezza avevano eliminato, e in un'abitazione della quale erano stati rinvenuti il passaporto e altri documenti di Giulio Regeni.

L'atteggiamento delle autorità egiziane provocava la comprensibile reazione dei genitori di Regeni, che chiedevano al Governo italiano di opporsi a quella che definivano una "oltraggiosa messa in scena". Il Ministro degli Esteri pro-tempore Gentiloni faceva propria questa esigenza, facendo presente l'insistenza dell'Italia per ottenere la verità sulla vicenda.

Il 1° aprile sembrava aprirsi uno spiraglio promettente, quando gli egiziani ammettevano che gli apparati di sicurezza seguivano Regeni prima che fosse rapito: subito dopo, tuttavia, l'Egitto tornava a minimizzare la vicenda, qualificandola alla stregua di un atto isolato, e ponendo in dubbio anche la precedente ipotesi sulla banda dei sequestratori di stranieri come responsabile del rapimento, dei maltrattamenti e della morte del giovane ricercatore.

Il 7-8 aprile si svolgeva un vertice presso la Scuola superiore di polizia di Roma tra investigatori italiani ed egiziani, che si risolveva in un fallimento, sia per quanto riguardava la scarna documentazione fornita dalla delegazione egiziana che per quanto concerneva la vicenda della banda dei sequestratori di stranieri. La reazione italiana era a quel punto il richiamo dell'ambasciatore al Cairo Maurizio Massari alla Farnesina per consultazioni. Il ministro degli esteri egiziano Shoukry esprimeva irritazione per l'atteggiamento italiano. Mentre la diplomazia italiana iniziava a portare la questione anche in sede europea – qui il presidente del gruppo socialista e democratico al Parlamento europeo Gianni Pittella chiedeva alla Commissione europea una revisione dei rapporti con l'Egitto -, anche il Regno Unito sollecitava attraverso il Foreign Office all'Egitto un'investigazione completa e trasparente.

Il 13 aprile era lo stesso presidente egiziano Al Sisi ad escludere ogni coinvolgimento dei servizi del suo paese nella morte di Regeni, invitando gli investigatori italiani a tornare al Cairo e rinnovando le condoglianze ai genitori del ricercatore. Nel giro di due giorni era il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a replicare, ricordando l'impossibilità per l'Italia di dimenticare le sofferenze e la morte di Giulio Regeni. Tra l'altro, il New York Times premeva per una riconsiderazione globale delle relazioni con l'Egitto da parte dei paesi occidentali, senza omettere un duro attacco alla Francia per la mancanza di pressioni della sua diplomazia sul governo egiziano. Gli stessi Stati Uniti a breve giro rappresentavano al Cairo la necessità di un'investigazione trasparente sulla vicenda, collaborando pienamente con gli italiani.

Il 25 aprile veniva tratto in arresto il consulente al Cairo della famiglia Regeni, Ahmed Abdallah, amministratore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà: secondo le autorità egiziane, che successivamente estendevano per quasi cinque mesi il fermo di Abdallah, il suo arresto tuttavia non aveva nulla a che fare con il caso Regeni, essendo piuttosto collegato alle manifestazioni di aprile contro la cessione di due isole del Golfo di Aqaba all'Arabia Saudita.

Qualche progresso nella collaborazione investigativa da parte dell'Egitto si registrava nel vertice del Cairo dell'8-9 maggio, al termine del quale tuttavia alcune richieste avanzate dagli inquirenti italiani per rogatoria restavano ancora inevase; inoltre, dai documenti forniti perdeva ulteriormente credibilità la pista della banda di sequestratori.

L'8 giugno qualche ombra si estendeva anche sulla comunità universitaria di Cambridge, i cui esponenti si rifiutavano di rispondere alle domande degli investigatori italiani in ordine allo scambio di messaggi telefonici tra utenze presumibilmente britanniche e numeri egiziani, proprio nell'orario della scomparsa di Regeni il 25 gennaio.

Il Parlamento italiano, tra la fine di giugno e l'inizio di luglio, ha approvato un emendamento al decreto-legge di rifinanziamento delle missioni internazionali dell'Italia, mettendo in atto una forma di pressione nei confronti dell'Egitto, interrompendo di fatto la cessione gratuita al Cairo di pezzi di ricambio per i caccia F-16. L'Egitto reagiva con asprezza, annunciando contromisure e minacciando effetti negativi sul controllo dei flussi migratori e per quanto riguardava la situazione della Libia.

Ai primi di agosto emergevano indiscrezioni sulla figura di Mohammed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani oggetto specifico della ricerca di Regeni, che sarebbe stato un informatore dei servizi di sicurezza egiziani. Ciò poteva avvalorare quanto già avanzato in marzo in un'intervista a "Repubblica", ovvero che si sarebbe trattato di una vendetta dell'uomo nei confronti di Regeni, con il quale aveva avuto una vivace discussione per questioni personali legate all'acquisto di un cellulare e di biglietti aerei.

Anche la pista dei rapporti di Giulio Regeni con l'Università di Cambridge riassumeva una qualche importanza, alla luce della manifestazione contro Al Sisi svoltasi a Londra poche settimane dopo la partenza del ricercatore italiano per il Cairo. Al proposito il governo britannico rivolgeva alle autorità accademiche di Cambridge un invito a collaborare con gli inquirenti italiani.

Il 9 settembre si svolgeva a Roma un nuovo vertice tra magistrati italiani ed egiziani, definito da fonti giudiziarie del nostro Paese un salto di qualità, finalmente, per consentire indagini più penetranti e avvicinarsi alla verità sul caso Regeni. L'elemento nuovo sembrava essere l'ammissione da parte egiziana del fatto che la polizia avesse indagato su Regeni per alcuni giorni, dopo una denuncia a suo carico presentata dal capo del sindacato indipendente degli ambulanti. Inoltre, la documentazione consegnata agli investigatori italiani era giudicata approfondita e ben fatta, tale da consentire l'individuazione di ulteriori soggetti presenti nella zona in cui Regeni si trovava al momento della scomparsa il 25 gennaio, nonché il giorno del ritrovamento del cadavere il 3 febbraio.

A completare il quadro ottimistico destato dal vertice del 9 settembre, due giorni dopo giungeva la notizia della scarcerazione di Ahmed Abdallah.

Mentre il 10 ottobre vivaci contestazioni del sindaco di Trieste Roberto Dipiazza, protrattesi anche nell'aula del Consiglio comunale, per la decisione del primo cittadino di rimuovere dalla facciata del municipio lo striscione con la richiesta di verità per Regeni dimostravano quanto la questione fosse rimasta viva nella regione di origine del ricercatore barbaramente ucciso in Egitto; alla fine del mese l'Italia mostrava la propria insoddisfazione nei confronti del Cairo non votando per l'Egitto nelle elezioni del Consiglio ONU per i diritti umani - decisione preceduta da una precisa indicazione della Farnesina che, stante il carattere segreto del voto per il Consiglio dei diritti umani, è stata anticipata a tutte le parti coinvolte.

 L'atteggiamento italiano sembrava smentire l'ottimismo trapelato dopo la riunione del 9 settembre tra magistrati italiani ed egiziani, ma il 1° novembre in un incontro al Cairo erano consegnati ai pubblici ministeri romani i documenti rinvenuti il 24 marzo nell'abitazione della sorella di uno degli uomini che erano stati indicati come appartenenti alla banda di sequestratori cui in un primo momento era stato attribuito il sequestro e l'uccisione di Regeni - nella fattispecie si trattava del passaporto, di due tesserini universitari e del bancomat del ricercatore.

Il 6 e 7 dicembre a Roma si svolgeva il quinto vertice tra inquirenti egiziani e italiani, a seguito del quale era consegnata tutta la documentazione richiesta dalla rogatoria della procura di Roma del settembre 2016, e in particolare il verbale delle dichiarazioni rese dal capo del sindacato indipendente degli ambulanti del Cairo sui contatti da lui avuti con Regeni, nonché un video dell'incontro del 6 gennaio tra Mohammed Abdallah e lo stesso Regeni ripreso dal capo del sindacato ambulanti. Da parte italiana, invece, si procedeva a consegnare alle autorità giudiziarie egiziane la documentazione sugli accertamenti che queste avevano richiesto sui conti correnti bancari intestati a Regeni in Italia e nel Regno Unito.

Alla fine dell'anno lo stesso Mohammed Abdallah, in un'intervista all'edizione araba dell'Huffington Post confermava di aver denunciato egli stesso Regeni, nonché lo stretto rapporto del sindacato degli ambulanti con il ministero dell'interno egiziano. Secondo Abdallah, gli incontri con Regeni sarebbero stati sei, e la decisione di segnalare il ricercatore alle autorità di sicurezza sarebbe maturata il 22 gennaio 2016, dopo la registrazione del colloquio telefonico con il ricercatore italiano.

Il 22 gennaio 2017 le autorità egiziane davano luce verde all'arrivo di esperti italiani e tedeschi al fine di recuperare i dati delle videocamere di sorveglianza della stazione della metropolitana dove transitò passò prima della sua sparizione. Nel riferire ciò, l'agenzia ufficiale egiziana Mena rendeva noto come proprio dopo l'ascolto della registrazione inoltrata dal capo del sindacato ambulanti i servizi di sicurezza egiziani avrebbero deciso di cessare di controllare Regeni, in quanto sarebbe emerso che la sua attività non rappresentava una minaccia per la sicurezza del paese.

Il giorno successivo, 23 gennaio, la televisione di Stato egiziana diffondeva circa quattro minuti di stralci del video, girato a quanto pare il 6 gennaio 2016 da Abdallah con una microcamera nascosta in un bottone della camicia - il che però sembra mettere in dubbio quanto dichiarato dallo stesso Abdallah, ovvero di aver preso contatto con le autorità di sicurezza solo il 22 gennaio: la parte del video trasmessa televisivamente mostra la resistenza di Regeni alle richieste di denaro fatte da Abdallah, pur non escludendo la possibilità di reperire fondi attraverso procedure di finanziamento della ricerca accademica nella quale era impegnato.

Alla metà di marzo una nuova rogatoria della magistratura romana avrebbe richiesto alle autorità del Cairo la consegna dei verbali di interrogatorio di cinque agenti di sicurezza, appartenenti alla Agenzia nazionale per la sicurezza e al Dipartimento di investigazioni municipali, autori in prima persona dell'indagine su Regeni dopo la denuncia presentata da Abdallah. La chiave di lettura da parte della magistratura italiana sarebbe quella della reticenza degli apparati di sicurezza nei confronti dell'autorità giudiziaria egiziana. In particolare, oltre ai cinque poliziotti di cui in precedenza, l'attenzione degli inquirenti italiani si sarebbe spostata anche su altri tre ufficiali autori della perquisizione in casa della sorella del capo della banda di sequestratori, dove sarebbero stati rinvenuti gli effetti personali di Regeni già consegnati alle autorità italiane. Tra questi soggetti e i cinque poliziotti vi sarebbero stati contatti, che la magistratura italiana intendeva verificare richiedendo anche le eventuali registrazioni effettuate nel periodo in cui Regeni era sotto stretto controllo.

Nell'imminenza del viaggio di Papa Francesco al Cairo alla fine di aprile, la famiglia di Regeni, tornata dopo un anno nella sede del Senato, rivolgeva al Pontefice la richiesta di trattare del caso durante gli incontri con le autorità egiziane, e richiedeva altresì azioni concrete all'Unione europea per accrescere la pressione sulle autorità del Cairo. Secondo il legale della famiglia erano ormai noti nomi e volti dei responsabili della sparizione del ricercatore. In effetti il 29 aprile, come accennato, Papa Bergoglio confermava che la Santa sede aveva compiuto alcune mosse sulla questione, pur non potendo riferire per motivi di riservatezza del colloquio con il presidente Al Sisi.

L'11 luglio una delegazione della Commissione Difesa del Senato guidata dal senatore Latorre, e composta altresì dai senn. Gasparri e Santangelo si recava al Cairo nella prima visita a livello istituzionale dopo l'uccisione di Regeni: la delegazione incontrava lo stesso presidente Al Sisi, ribadendo con forza il bisogno di verità sulla vicenda, e riscontrandone il pieno impegno a scoprire i responsabili del crimine.

Il 14 agosto le Procure di Roma e del Cairo hanno diffuso un comunicato congiunto in cui si evidenziano passi avanti nella collaborazione sulle indagini relative all'omicidio di Giulio Regeni, grazie all'acquisizione, da parte degli organi inquirenti italiani, degli atti concernenti il nuovo interrogatorio dei poliziotti incaricati degli accertamenti sulla morte di Regeni.

. Lo stesso giorno la Franesna rendeva noto il rientro dell'ambasciatore italiano, Giampaolo Cantini, al Cairo.

"Alla luce degli sviluppi registrati nel settore della cooperazione tra gli organi inquirenti di Italia ed Egitto sull'omicidio di Giulio Regeni, di cui fa stato il comunicato congiunto emesso dalla Procura della repubblica di Roma e dalla Procura generale del Cairo, il Governo italiano ha deciso di inviare l'ambasciatore Giampaolo Cantini nella capitale egiziana, dopo che l'8 aprile 2016 l'allora capo missione Maurizio Massari venne richiamato a Roma per consultazioni", recita il comunicato del ministro degli Esteri, Angelino Alfano.

"L'impegno del Governo italiano – aggiunge il titolare della Farnesina – resta quello di fare chiarezza sulla tragica scomparsa di Giulio, inviando al Cairo un autorevole interlocutore che avrà il compito di contribuire, tramite i contatti con le autorità egiziane, al rafforzamento della cooperazione giudiziaria e, di conseguenza, alla ricerca della verità".

Aspro il commento della famiglia Regeni, indignata per le modalità e la tempistica della decisione del Governo italiano, adottata per di più nell'atmosfera ferragostana. Oltre alla famiglia, critiche alla decisione della Farnesina sono giunte anche da Amnesty International e dall'ONG Antigone, da mesi mobilitate per la verità sulla vicenda di Regeni. In tutti i casi è stato sottolineato il prevalere degli interessi economici e della ragion di Stato sulla difesa dei diritti umani e sulla ricerca della verità.

La vicenda di Regeni costituiva il 15 agosto l'oggetto di un lungo reportage sul New York Times Magazine, a firma del corrispondente dal Cairo, Declan Walsh, nel quale si asserisce che gli Stati Uniti erano entrati in possesso di prove incontrovertibili sulla responsabilità dei servizi di sicurezza egiziani e ne avevano informato il Governo Renzi.

Da parte italiana è stato chiarito che gli Stati Uniti non trasmisero elementi di prova tali da provocare un univoco convincimento italiano - lo stesso articolo del New York Times Magazine riconosce che, per non compromettere fonti informative essenziali, Washington non condivise con gli italiani materiali d'intelligence né indicazioni troppo precise su quali agenzie di sicurezza fossero direttamente responsabili. In ogni modo l'inchiesta del New York Times Magazine non poteva non riaccendere le polemiche in Italia, e le opposizioni hanno richiesto al Governo di riferire immediatamente in Parlamento.