Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||||
Titolo: | LXI Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile (CSW) (13-24 marzo 2017) I parte - Temi della Sessione, focus di approfondimento | ||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 289 | ||||
Data: | 08/03/2017 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||||
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Dossier n. 28
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Documentazione e ricerche
n. 289 (I parte)
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I N D I C E D E
L L A I P A R T E
I temi della LXI Sessione della Commissione delle
Nazioni Unite sulla condizione femminile
La LXI Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile (CSW) si svolgerà a New York, nella sede delle Nazioni Unite, dal 13 al 24 marzo 2017[1]. Alla sessione parteciperanno rappresentanti degli Stati membri, organismi delle Nazioni Unite ed organizzazioni non governative (ONG) accreditate presso l’ECOSOC da tutte le regioni del mondo.
La CSW
è una Commissione funzionale del Consiglio economico e sociale delle Nazioni
Unite (ECOSOC) ed è la principale sede politica mondiale dedicata
esclusivamente all’eguaglianza di genere e all’emancipazione della donna. E’
composta da 45 Stati membri delle Nazioni Unite, eletti dal Consiglio economico
e sociale per quattro anni, sulla base del principio dell’equa distribuzione
geografica.
La composizione
attuale prevede 13 membri dall’Africa, 11 dall’Asia,
9 dall’America Latina e Caraibi, 8 dall’Europa occidentale e altri Stati, 4
dall’Europa orientale. I Paesi che non fanno parte della Commissione
partecipano a tutte le fasi del dibattito e del negoziato, con diritto di
parola ma non di voto. Nella preparazione delle riunioni annuali, la CSW è
assistita da un Bureau, i cui
membri sono in carica per due anni.
Le
sessioni annuali sono un’occasione per valutare i progressi, identificare le
sfide, definire gli standard e formulare politiche concrete per
promuovere l’eguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Per tali
attività la CSW si avvale del supporto di UN Women,
organismo delle Nazioni unite per l’eguaglianza di genere e l’empowerment femminile.
Sessione
precedente
Alla LX Sessione della CSW, (New York,14-19
marzo 2016), ha partecipato una delegazione parlamentare composta dalle
senatrici Linda Lanzillotta, vicepresidente del Senato, Giuseppina Maturani e
Ornella Bertorotta e dalle deputate Pia
Locatelli e Tiziana Ciprini. In rappresentanza del Governo italiano hanno
partecipato Emma Bonino, come inviato speciale alla CSW per il segmento dei
lavori dal 14 al 17 marzo, e il sottosegretario agli esteri Benedetto Della
Vedova per il segmento 17-18 marzo.
Il tema prioritario della Sessione è stato l’empowerment delle donne e i suoi legami con lo sviluppo sostenibile, il tema di
revisione (59a Sessione) "l’eliminazione e la prevenzione di tutte le forme di violenza contro le
donne e le ragazze" e quello del
evento parlamentare UIP sul ruolo della legislazione nel empowerment delle donne in connessione
allo sviluppo sostenibile.
La
delegazione parlamentare ha preso parte a numerosi eventi collaterali su donne e cambiamento climatico, protezione
dei diritti delle donne rifugiate, potere della parità-parità di potere,
mutilazioni genitali femminili, empowerment
femminile nelle aree rurali, impatto delle politiche antidroga sulle donne, su
acqua e tematiche di genere, ed ha avuto
diversi incontri bilaterali con parlamentari della Turchia, dell’Iran, del
Paraguay e della Spagna.
Il
testo delle Conclusioni concordate adottate in seno alla LX Sessione è molto
più lungo rispetto alla versione inizialmente presentata da UNWOMEN, che ometteva il quadro normativo relativo
ai diritti umani delle donne, nella prospettiva di avere un documento operativo
focalizzato su raccomandazioni concrete sulla tematica prioritaria dell’anno (empowerment delle donne e legame con lo
sviluppo sostenibile), come indicato dalla risoluzione adottata alla CSW 2015
sui nuovi metodi di lavoro.
Su
impulso dei Paesi occidentali (USA, Canada, Svizzera, Norvegia e la stessa UE), è stata invece
inserita una serie di riferimenti
(diritto all’educazione; diritto al lavoro e protezione sociale; diritto all’acqua
potabile; diritti sessuali e riproduttivi; diritti dei disabili; pratiche
dannose come mutilazioni genitali femminili e matrimoni precoci e forzati) che
il Gruppo Africano, CARICOM (Comunità Caraibica), Federazione Russa, India,
Iran e Pakistan hanno contestato, sia alla luce dei nuovi metodi di lavoro sia
perché tali contenuti erano stati da poco ribaditi dalla Terza Commissione dell’Assemblea
Generale. L’UE ha cercato di limitare le proposte di modifica al testo ed ha
mostrato una buona dose di flessibilità, molto apprezzata dal resto della membership.
L’agenda
dei lavori della 61a
sessione sarà strutturata, come avviene di consueto, su un tema prioritario ed
uno emergente relativi ad aree critiche che necessitano di iniziative.
Il Segretario
generale dell’ONU presenterà una Relazione sul
tema prioritario "Empowerment economico delle donne in un mondo del lavoro
in evoluzione", ed un’altra Relazione sul
tema di revisione "le sfide e successi nella realizzazione degli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio per le donne e le ragazze". (Agreed
conclusion 58°). La sessione si concluderà con l’adozione
di Agreed Conclusions da inviare all’ECOSOC,
al fine di orientare l’azione degli Stati e degli organismi internazionali dell’ONU
competenti su sostenibilità e politiche di genere.
Negli
ultimi venti anni il mondo del lavoro ha conosciuto una consistente evoluzione:
da un lato la crisi economica ha moltiplicato i casi di lavoro informale, le
forme di flessibilità e di mobilità, la precarietà dei rapporti di lavoro; dall’altro
l’evoluzione tecnologica ha avuto il duplice effetto di creare nuovi lavori
specializzati e di ridurre il fabbisogno di manodopera nei settori tradizionali,
dove i lavoratori tendono ad essere sostituiti dai robot.
Se da
una parte l’aumento di forme di lavoro precario accresce le possibilità di
impiego femminile, questo d’altra parte non favorisce un aumento di posti di
lavoro dignitosi, con salari e forme di protezione sociale adeguati. Persistono
inoltre i più risalenti squilibri che penalizzano le donne nel mondo del
lavoro, quali il gender gap nei
salari, nella protezione sociale, nella formazione soprattutto scientifica, la
ridotta presenza femminile nelle posizioni apicali delle imprese, lo squilibrio
nella distribuzione tra uomini e donne dei lavori non retribuiti di cura
familiare.
Nel riaffermare i principi di Pechino e gli
obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, la
CSW sollecita i principali stakeholders
a prendere tutte le misure necessarie a favorire l’empowerment economico femminile nel mondo del lavoro. In primo
luogo, a livello normativo, questo comporta la ratifica delle principali
convenzioni in materia e il rafforzamento, con la previsione di sanzioni
adeguate in caso di inosservanza, delle norme nazionali contro la
discriminazione femminile nell’accesso e nella permanenza nel mercato del
lavoro; l’adozione di riforme che consentano l’accesso delle donne alle risorse
produttive; l’eliminazione della segregazione occupazionale e la promozione
della diversificazione nelle scelte occupazionali anche in settori emergenti;
il raggiungimento della parità retributiva uomo-donna; l’attuazione delle
convenzioni ILO sul lavoro domestico; l’eliminazione di ogni forma di violenza
sul posto di lavoro; la promozione delle pari opportunità per le donne che
fanno esperienza di forme multiple di discriminazione.
Sul piano delle politiche macroeconomiche volte
a favorire l’occupazione, andrebbero prese misure per aumentare il lavoro
retribuito nella care economy
pubblica e privata, che contrastino le penalizzazioni salariali per maternità e
garantiscano adeguati standard di protezione sociale e congedi parentali anche
paterni, che promuovano un maggior equilibrio nella distribuzione del lavoro di
cura familiare non retribuito; che dispongano l’adeguata misurazione del valore
del lavoro di cura non retribuito, che rendano prioritario l’accesso delle
giovani donne al mercato del lavoro.
Sul tema dell’economia informale, la
CSW sollecita un accresciuto livello di protezione sociale, la definizione di
salari minimi e la progressiva stabilizzazione. Importante in questo campo è
anche il miglioramento della raccolta e analisi dei dati che consenta di
fornire risposte adeguate alle criticità del lavoro informale. Sul tema dell’evoluzione
tecnologica e digitale la CSW incoraggia l’accesso delle donne alla formazione
nelle discipline scientifiche (STEM) e all’impiego nella green economy. La CSW si spende inoltre per la valorizzazione delle
associazioni collettive femminili, per una maggiore presenza delle donne nei
posti apicali delle gerarchie di impresa, per la responsabilizzazione del
settore privato nell’avanzamento dell’uguaglianza di genere e dell’empowerment economico femminile, per un
accresciuto finanziamento delle politiche volte ad accelerare l’empowerment economico femminile.
Il rapporto del
Segretario generale delle Nazioni Unite sul tema di revisione valuta la misura
in cui gli Stati membri hanno dato seguito alle "Conclusioni
concordate" della 58a sessione della
Commissione sulla condizione della donna sulle sfide e i risultati conseguiti
nell’attuazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per le donne e le
ragazze. L’adozione dell’Agenda 2030 e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
sono nelle prime fasi di attuazione, di conseguenza, il focus del riesame è
sulle azioni già intraprese per la transizione ai nuovi obiettivi.
Il
rapporto del Segretario generale riferisce che le Conclusioni concordate adottate dalla LVIII Sessione hanno avuto un notevole
impatto sul quadro normativo internazionale successivo, e in particolare sull’Agenda
2030 e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, anche se il contesto d’
attuazione si è complicato a causa di nuovi fattori critici quali la crisi
economica, il cambiamento climatico e i disastri naturali, che rischiano di
pesare in misura maggiore sul raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo da
parte femminile. I progressi realizzati sono ancora troppo lenti.
Sui diritti umani delle donne e delle
ragazze le "Conclusioni concordate" affermavano la necessità di
adottare un approccio globale che tenga conto delle interconnessioni tra i vari
diritti e fra questi e le politiche di genere, (non è sufficiente accrescere il
numero delle ostetriche per ridurre la mortalità materna, ma occorre anche
affrontarne i fattori strutturali quali i matrimoni precoci, le mutilazioni
genitali femminili, i servizi di salute riproduttiva e di informazione).
All’Italia sono
stati riconosciuti l’impegno ad adottare gli obiettivi di sviluppo insieme ad
altri strumenti internazionali e regionali quali la CERDP, la Risoluzione ONU
1325 e la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza domestica ed
interventi a favore delle donne Rom.
Sul gender
mainstreaming, l’Italia è citata per le sue iniziative in materia di
partecipazione femminile nel settore imprenditoriale.
Sul
tema degli investimenti richiesti
per le politiche di genere e l’empowerment
femminile le Conclusioni concordate sollecitavano incremento degli investimenti
domestici e per gli aiuti allo sviluppo. Alcuni paesi hanno risposto a questa
esigenza adottando modelli di bilancio gender-responsive,
o introducendo le analisi di genere nei bilanci su base regolare; in altri casi
sono stati istituiti fondi specifici per l’eguaglianza di genere o quote
riservate di procurement pubblico da
imprese femminili.
Le
Conclusioni concordate sottolineavano l’esigenza di migliorare la raccolta,
analisi, disseminazione e l’uso di statistiche
di genere e dati disaggregati, strumenti indispensabili per predisporre le
politiche di genere e valutarne i risultati. A questo proposito, il rapporto
sottolinea come, sebbene la raccolta di dati sia generalmente indicata dagli
Stati come elemento chiave dei piani d’azione per l’uguaglianza di genere, solo
alcuni dichiarano l’intenzione di sviluppare piani di sviluppo nazionale. All’Italia
è stato riconosciuto di aver compiuto passi avanti per sviluppare standard e
metodologie nuove, anche elettroniche, per misurare le ineguaglianze di genere
con un focus particolare sulla violenza contro le donne.
Sulla partecipazione e la leadership femminile
le Conclusioni concordate raccomandavano agli stati di adottare misure anche
temporanee, come le quote di genere, il rapporto lamenta gli scarsi risultati
ottenuti finora e, sottolineando l’efficacia delle quote di genere, cita anche
le misure adottate con successo da alcuni paesi, tra cui l’Italia.
Il
rapporto si conclude con una serie di raccomandazioni
volte ad accelerare il processo di attuazione delle azioni proposte dalle
Conclusioni concordate e sottolinea come sia necessario un approccio globale
all’attuazione, che riconosca le sinergie e l’interdipendenza tra le diverse
dimensioni dell’uguaglianza di genere e che affronti i legami tra l’Obiettivo
n. 5 e tutti gli altri Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.
(…)
Durante
i lavori della LXI Sessione si svolgerà, come di consueto, una giornata
parlamentare promossa dall’Unione interparlamentare e da UN-Women. L’evento
avrà luogo il 17 marzo 2017 nella sala dell’ECOSOC, presso la sede delle
Nazioni Unite.
Il tema
di questa giornata parlamentare è: Rafforzare i Parlamenti per rafforzare le
donne. Un’economia a favore delle donne.
Nella
consapevolezza che ancora molti ostacoli si frappongono all’empowerment economico femminile, che
pure apporterebbe un contributo stimato in 12 miliardi di dollari all’economia
globale, con ricadute positive anche sullo sviluppo e nella sfera dei diritti
umani, i parlamentari si interrogheranno sul ruolo dei Parlamenti nell’individuazione
e nel superamento di tali ostacoli, al fine di garantire politiche sociali ed
economiche gender sensitive, e di
controllarne l’attuazione e l’impatto reale.
I
lavori si articoleranno in tre sessioni: eliminare gli ostacoli all’empowerment economico delle donne;
rafforzare il lavoro delle donne; promuovere l’inclusione finanziaria delle
donne.
La
prima sessione, sull’eliminazione degli ostacoli all’empowerment economico femminile, muove dalla constatazione che per
affrontare le norme discriminatorie e le barriere legali all’autonomia delle
donne sono necessarie misure positive, in particolare nei settori dell’istruzione,
della formazione e delle opportunità lavorative. In linea più generale, i
maggiori ostacoli all’empowerment
delle donne vengono ravvisati nelle norme consuetudinarie e legali relative al
matrimonio, all’eredità, alla proprietà della terra alla proprietà in generale,
allo status e alla mancanza di misure
per combattere la violenza di genere.
La
seconda sessione, dedicata alle misure per garantire una maggiore
partecipazione femminile al mondo del lavoro, farà il punto sulle cause della
minore presenza delle donne nella popolazione attiva mondiale e degli svantaggi
cui sono soggette le donne in termini di ostacoli all’accesso, di pay gap, di
discriminazioni e molestie sul luogo di lavoro e di maggiori oneri di lavoro di
cura non retribuito. Saranno poi esaminate le varie misure per affrontare
questi problemi.
La
terza sessione, sulla promozione dell’inclusione finanziaria delle donne, parte
dalla constatazione che le donne rappresentano la percentuale più elevata tra
gli indigenti e devono superare barriere culturali, tecnologiche e legali per
avere accesso a risorse e servizi finanziari, per poi prendere in esame le
necessarie politiche che consentano di superare i divari di genere anche in
questo campo: dalla ricognizione delle esigenze alla regolamentazione del
settore finanziario.
(…)
L’uguaglianza di genere nel diritto primario
L’Unione
europea si fonda su un insieme di valori, tra cui l’uguaglianza, e promuove la parità
tra uomini e donne (articolo 2 e articolo 3, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione
europea - TUE). Tali obiettivi sono altresì sanciti dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali.
Inoltre,
l’articolo 8 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - TFUE
attribuisce all’Unione il compito di eliminare
le ineguaglianze e di promuovere la
parità tra uomini e donne in tutte le sue attività (questo concetto è noto
anche come gender mainstreaming - integrazione della dimensione di genere). Nella dichiarazione 19,
allegata all’atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il
Trattato di Lisbona, l’Unione e gli Stati membri si sono, tra l’altro,
impegnati a lottare contro tutte le forme
di violenza domestica per prevenire e punire questi atti criminali e per
sostenere e proteggere le vittime.
Il
principio della parità di retribuzione
tra uomini e donne per uno stesso lavoro
è sancito dai Trattati europei sin dal 1957 (e, attualmente, dall’articolo 157
del TFUE). Inoltre, l’articolo 153 del TFUE consente all’UE di intervenire nell’ambito
più ampio delle pari opportunità e della parità di trattamento nei settori dell’impiego e dell’occupazione. In tale contesto, l’articolo 157 del TFUE autorizza
anche l’azione positiva finalizzata all’emancipazione
femminile. L’articolo 19 del TFUE consente altresì l’adozione di
provvedimenti legislativi per combattere tutte
le forme di discriminazione, incluse quelle fondate sul sesso. La legislazione volta a contrastare la tratta di esseri umani, in particolare
di donne e bambini, è stata adottata a norma degli articoli 79 e 83 del TFUE, e
il programma Diritti, uguaglianza e cittadinanza finanzia, tra l’altro, le
misure volte a eradicare la violenza
contro le donne conformemente all’articolo 168 del TFUE.
L’uguaglianza di genere nel diritto
derivato
Per
quanto riguarda la legislazione dell’UE in materia di parità di genere si
ricordano, tra le altre:
·
la direttiva
2004/113/CE, del 13
dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e
donne per quanto riguarda l’accesso a
beni e servizi e la loro fornitura;
·
la direttiva
2006/54/CE del 5 luglio 2006 riguardante di trattamento
fra uomini e donne in materia di occupazione
e impiego (rifusione). Questa direttiva fornisce una definizione delle nozioni di discriminazione diretta e
indiretta, di molestie e di molestie sessuali. Inoltre essa
incoraggia i datori di lavoro ad adottare misure preventive per combattere le
molestie sessuali, aumenta le sanzioni per i casi di discriminazione
e prevede l’istituzione all’interno degli Stati membri di organismi incaricati
di promuovere la parità di trattamento tra uomini e donne.
Con la risoluzione del 24 maggio 2012 recante
raccomandazioni alla Commissione concernenti l’applicazione del principio della
parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso
femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, il Parlamento
europeo ha chiesto la revisione
delle disposizioni della direttiva che riguardano la parità di retribuzione;
· la direttiva 2010/18/UE, dell’8 marzo 2010 (come modificata alla fine del 2013), che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale concluso da BUSINESSEUROPE, EAPME, CEEP e CES e abroga la direttiva 96/34/CE;
· la direttiva 2010/41/CE, del 7 luglio 2010, che stabilisce gli obiettivi relativi all’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità, e che abroga la direttiva 86/613/CEE del Consiglio;
· la direttiva 2011/36/UE, del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. La disciplina, volta al ravvicinamento delle sanzioni per la tratta di esseri umani tra gli Stati membri e delle misure di sostegno per le vittime, invita, tra l’altro, gli Stati membri a valutare la possibilità di adottare misure affinché costituisca reato la condotta di chi ricorre consapevolmente ai servizi, oggetto di sfruttamento, prestati da una persona che è vittima della tratta, al fine di scoraggiare la domanda;
· la direttiva 2011/99/UE, del 13 dicembre 2011, che istituisce l’Ordine di protezione europeo allo scopo di proteggere una persona da atti di rilevanza penale compiuti da un’altra persona tali da metterne in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, la dignità, la libertà personale o l’integrità sessuale, e che consente all’autorità competente di un altro Stato membro di continuare a proteggere la persona all’interno di tale altro Stato membro. La direttiva è rafforzata dal regolamento (UE) n. 606/2013 del 12 giugno 2013 relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile;
· la direttiva 2012/29/UE, del 25 ottobre 2012, che stabilisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.
Ultimi sviluppi in materia di uguaglianza di genere
Il Quadro finanziario pluriennale (QFP
2014-2020) e il programma Diritti, uguaglianza e cittadinanza
Nell’ambito
del bilancio UE, il programma Diritti,
uguaglianza e cittadinanza finanzia progetti volti a raggiungere la parità di genere e porre fine alla violenza contro le donne (articolo 4).
Insieme al programma Giustizia
(regolamento 2013/1382), esso è stato dotato di 15.686 milioni di euro fino al 2020 (regolamento QFP 1311/2013) e
consolida sei programmi del periodo di finanziamento 2007-2013, tra cui il Programma Daphne III
(decisione 779/2007) ed entrambe le sezioni «Anti-discriminazione e diversità» e «Uguaglianza di genere» del Programma per l’occupazione e la solidarietà sociale
(PROGRESS) (decisione 1672/2006/CE).
Il
relativo allegato specifica che la promozione
dell’uguaglianza di genere sarà finanziata insieme ad altre misure antidiscriminatorie nell’ambito del Gruppo
1, al quale viene assegnata una quota del 57
per cento dei finanziamenti. La lotta alla violenza contro le donne è inclusa nel Gruppo 2, con il 43 per cento della dotazione finanziaria
complessiva del programma.
Per il
2016, alla linea di bilancio 33 02 02 (Promuovere
la non discriminazione e la parità) sono stati assegnati 33.546.000 euro in stanziamenti d’impegno
e 23.000.000 euro in stanziamenti di
pagamento, con un aumento considerevole nei pagamenti rispetto al 2015. Inoltre
sono stati assegnati ulteriori 25.306.000
euro per contribuire, tra gli altri obiettivi, alla protezione delle donne
contro tutte le forme di violenza e
alla lotta contro tale violenza.
L’ Istituto europeo per l’uguaglianza di
genere (EIGE)
Nel
dicembre 2006 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno creato l’Istituto
europeo per l’uguaglianza di genere, con sede a Vilnius, in Lituania, con l’obiettivo
generale di sostenere e rafforzare la
promozione della parità di genere, ivi compresa l’integrazione di genere in tutte
le politiche unionali e nazionali.
L’Istituto
si prefigge altresì l’obiettivo di combattere le discriminazioni fondate sul sesso
e di svolgere un’opera di sensibilizzazione
sul tema della parità di genere, fornendo assistenza
tecnica alle istituzioni europee mediante la raccolta, l’analisi e la
diffusione di dati e strumenti metodologici.
La Carta per le donne e l’impegno strategico
per la parità di genere 2016-2019
Il 5
marzo 2010 la Commissione ha adottato la Carta
delle donne nell’ottica di migliorare la promozione dell’uguaglianza
tra donne e uomini; nel dicembre 2015 ha altresì pubblicato l’impegno
strategico per l’uguaglianza di genere 2016-2019 al
fine di monitorare e prorogare la
strategia della Commissione per l’uguaglianza tra uomini e donne (2010-2015).
L’impegno
strategico è incentrato sui seguenti cinque settori:
· aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e pari indipendenza economica;
· riduzione del divario di genere in materia di retribuzioni, salari e pensioni e, di conseguenza, lotta contro la povertà tra le donne;
· promozione della parità tra donne e uomini nel processo decisionale;
· lotta contro la violenza di genere e protezione e sostegno delle vittime;
· promozione della parità di genere e dei diritti delle donne in tutto il mondo.
Piano d’azione sulla parità di genere
2016-2020
Il 26
ottobre 2015 il Consiglio ha adottato conclusioni relative al Piano d’azione
sulla parità di genere 2016-2020. Il Piano è basato sul
documento congiunto dei servizi della Commissione e del Servizio europeo per l’azione
esterna (SEAE) sul tema «Parità di genere ed emancipazione femminile:
trasformare la vita delle donne e delle ragazze attraverso le relazioni esterne
dell’UE (2016-2020)».
Nel
nuovo Piano d’azione si sottolinea, tra l’altro, la necessità di realizzare
pienamente il godimento, pieno e paritario, di tutti i diritti umani e le
libertà fondamentali da parte delle donne e delle ragazze e il conseguimento
della loro emancipazione e della parità di genere.
Proposte normative all’esame dell’UE
È
tuttora all’esame delle Istituzioni legislative europee la proposta di
direttiva COM(2012)614 che
fissa come obiettivo per il 2020 una percentuale
del 40% di amministratori senza incarichi esecutivi del sesso
sottorappresentato, approvata in prima lettura dal Parlamento europeo nel
novembre 2013.
Sulla
proposta il Consiglio non ha ancora adottato la propria posizione in prima
lettura a causa dell’opposizione di un blocco nutrito di Paesi. Si segnala che,
in tal senso, hanno sollevato rilievi sul rispetto del principio di sussidiarietà i Parlamenti nazionali di Danimarca,
Paesi Bassi, polonia, Svezia e Regno Unito, e la Camera dei deputati della
Repubblica ceca.
Si segnala infine che nel 2008 la Commissione
europea aveva presentato una proposta di riforma della direttiva 92/85/CEE
concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della
sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in
periodo di allattamento. Sulla proposta il Parlamento aveva approvato la
propria posizione in prima lettura, sostenendo un congedo di maternità pienamente retribuito di 20 settimane .
Tuttavia, poiché non è stato raggiunto un accordo tra il Parlamento e il
Consiglio sulla proposta della Commissione, quest’ultima ha ritirato la
proposta e l’ha sostituita con una tabella
di marcia per
l’iniziativa "Nuovo inizio per affrontare le sfide dell’equilibrio tra
vita professionale e vita privata incontrate dalle famiglie che lavorano".
Recente
attività del Parlamento europeo – Le risoluzioni non legislative
Negli
ultimi anni il Parlamento europeo ha contribuito alla definizione generale
delle politiche nel settore della parità di genere elaborando relazioni di
iniziativa e richiamando l’attenzione delle altre Istituzioni su problemi
specifici.
In
particolare, ogni anno il Parlamento europeo approva una risoluzione che valuta
i progressi compiuti verso il raggiungimento della parità tra donne e uomini.
Tra le iniziative più recenti si ricordano :
· la risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2015 sui progressi concernenti la parità tra donne e uomini nell’Unione europea nel 2013;
· la risoluzione dell’8 marzo 2016 sull’integrazione della dimensione di genere nei lavori del Parlamento europeo (gender mainstreaming);
· la risoluzione dell’8 marzo 2016 sulla situazione delle donne rifugiate e richiedenti asilo nell’UE;
Si segnala anche la recente risoluzione
del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato
del lavoro favorevoli all’equilibrio tra
vita privata e vita professionale;
Il
Parlamento europeo si sta adoperando per l’integrazione della dimensione di
genere nelle attività di tutte le sue Commissioni. A tal fine, sono state
istituite due reti sull’integrazione
della dimensione di genere, coordinate dalla commissione FEMM. La rete dei
presidenti e vicepresidenti per la dimensione di genere riunisce deputati che
sostengono l’introduzione di una dimensione di genere nel lavoro delle loro
rispettive commissioni. Sono assistiti da una rete di amministratori incaricati
dell’integrazione della dimensione di genere in ognuna delle segreterie di
commissione. Il gruppo ad alto livello sull’uguaglianza di genere promuove la formazione e la sensibilizzazione sull’integrazione
della dimensione di genere tra il personale del Parlamento europeo e dei
gruppi politici.
Posizione del Consiglio europeo
Il 16
giugno 2016 il Consiglio europeo ha adottato delle Conclusioni
sulla parità di genere. Dopo avere accolto con favore i cinque
settori di intervento prioritari e le questioni orizzontali indicati nell’impegno
strategico della Commissione per la parità di genere 2016-2019 (par. 19), il
Consiglio europeo rivolge specifici e dettagliati inviti alla Commissione
europea ed agli Stati membri per l’attuazione dell’impegno medesimo (par.
23-33). In particolare, la Commissione viene invitata a "integrare in
tutte le politiche e le attività dell’UE un piano d’azione concreto per l’attuazione
di una prospettiva di parità di genere sistematica e visibile" (par. 27).
Si auspica in quest’ottica l’adozione di una nuova strategia ad alto livello
sulla parità di genere sotto forma di comunicazione ma anche l’integrazione
della dimensione di genere nel contesto del semestre europeo (par. 31).
Il Consiglio dell’UE (EPSCO) del 3 marzo
2017
Da
ultimo si ricorda che il 3 marzo 2017 il Consiglio dell’UE Occupazione,
politica sociale, salute e consumatori ha approvato conclusioni
sul miglioramento delle competenze delle
donne e degli uomini nel mercato del lavoro dell’UE,
recanti una serie di indicazioni anche in materia di divario di genere.
In
particolare, il Consiglio ha, tra l’altro, invitato gli Stati membri:
·
a dare
la priorità, nell’attuazione della strategia Europa 2020, all’eliminazione
degli ostacoli alla partecipazione di donne e uomini al mercato del lavoro,
prestando particolare attenzione all’importanza delle competenze, al fine di
raggiungere l’obiettivo principale di innalzare al 75% il tasso di occupazione delle donne e degli uomini di età compresa
tra 20 e 64 anni;
·
a
intensificare gli sforzi tesi a integrare
la prospettiva di genere nelle rispettive politiche nazionali in materia di
competenze e mercato del lavoro e a tal fine, ove pertinente, includere
tali misure nei piani d’azione nazionali
e/o nell’ambito del semestre europeo,
conformemente agli orientamenti in materia di occupazione, prestando particolare attenzione agli svantaggi
specifici che le donne devono
affrontare nel mercato del lavoro e nel corso della vita. Secondo il Consiglio
misure che tengano conto della dimensione di genere dovrebbero essere concepite
in modo da conseguire, tra l’altro i seguenti obiettivi:
-
combattere la segregazione occupazionale
orizzontale basata sul genere e promuovere misure volte a migliorare il riconoscimento
e lo status di settori che occupano principalmente donne, quali i lavori domestici, il settore sanitario, i servizi sociali e il settore dell’assistenza, nonché prendere in considerazione misure per migliorare la retribuzione in tali settori
rispettando nel contempo le circostanze nazionali e il ruolo delle parti
sociali;
-
promuovere
la parità di accesso delle donne e degli
uomini alla professione docente, anche per offrire ai discenti modelli di riferimento sia maschili che femminili;
-
combattere la discriminazione di genere, la
segregazione e gli stereotipi basati sul genere nell’istruzione, nella formazione,
anche professionale, e nell’orientamento
professionale; promuovere la parità di genere nelle scuole, negli istituti
superiori e nelle università; incoraggiare ragazze, ragazzi, donne e uomini
provenienti da tutti i contesti a scegliere percorsi di studio e di lavoro
conformi alle loro capacità e competenze, non sulla base di stereotipi di
genere, in particolare promuovendo l’accesso
di donne e ragazze a settori di studio e lavoro come la scienza, la tecnologia,
l’ingegneria e la matematica ("STEM") e, per contro,
incoraggiando uomini e ragazzi a studiare e lavorare in settori quali i servizi
sociali, l’assistenza all’infanzia e l’assistenza a lungo termine;
-
continuare
ad analizzare il fenomeno dell’abbandono
scolastico da una prospettiva di genere prendendo in considerazione le
varie difficoltà che ostacolano il successo scolastico,
-
affrontare
il divario di genere in materia di
occupazione tra i lavoratori vicini alla pensione mediante un approccio intersettoriale, prestando
particolare attenzione alla necessità di fornire sostegno alle donne e agli
uomini in situazioni di disoccupazione di lungo periodo, salvaguardando le pari opportunità nell’occupazione, ad
esempio nell’avanzamento e progressione
di carriera nonché nelle retribuzioni
o nelle promozioni, e fornendo
servizi di sostegno per le donne e
gli uomini con responsabilità di assistenza.
Il
Consiglio dell’UE ha infine invitato la Commissione europea a:
Ø
sostenere gli Stati membri nei loro sforzi
volti ad integrare la prospettiva di genere nelle politiche relative al mercato
del lavoro, anche nell’ambito dell’attuazione della
strategia Europa 2020 (in particolare attraverso il semestre europeo) e della
nuova agenda per le competenze per l’Europa, nonché nell’ambito dei Fondi strutturali e di investimento europei e nel pilastro europeo dei diritti sociali annunciato nel programma di
lavoro della Commissione per il 2017;
Ø
garantire
che la prospettiva di genere sia integrata nelle politiche e nelle misure
finalizzate al miglioramento delle
competenze, in particolare nelle occupazioni connesse alla digitalizzazione, alla scienza, alla ricerca e allo sviluppo, nonché nei settori dell’apprendimento
permanente e nel mercato del lavoro;
Ø
promuovere
programmi e politiche che riconoscano e tengano conto delle diverse circostanze
ed esigenze di donne e uomini - in particolare di genitori e prestatori di assistenza in situazioni di lavoro precario
- in modo da migliorare l’accesso a iniziative favorevoli alla famiglia, a
modalità di lavoro flessibile e "agile" per donne e uomini e a
servizi di assistenza formale accessibili, di qualità e a costi sostenibili per i figli e le altre persone a carico
(compresa l’educazione e cura della prima infanzia); incoraggiare i padri a
utilizzare il congedo di paternità e parentale e i datori di lavoro ad
agevolarne l’esercizio, in modo da consentire alle donne di aumentare la loro
partecipazione al mercato del lavoro. La Commissione dovrebbe tenere conto di
tali aspetti al momento di porre in essere l’iniziativa
intesa ad affrontare le sfide incontrate dalle famiglie che lavorano per
equilibrare vita professionale e vita privata, annunciata nel programma di lavoro della Commissione per
il 2017;
Ø
fornire finanziamenti e sostegno per iniziative
di sensibilizzazione sulla parità e i
diritti in materia di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori, nonché sui
vantaggi dell’apprendimento permanente e i servizi disponibili per orientare e
assistere le persone scarsamente qualificate che desiderano migliorare la loro
capacità di trovare occupazione, anche nell’ambito dell’attuazione della nuova
agenda per le competenze per l’Europa.
Iniziative attese nel corso del 2017[2]
Nel Programma
di lavoro per l’anno 2017 (COM(2016)
710), la Commissione europea ha preannunciato l’intenzione
di presentare una serie di iniziative correlate al pilastro dei diritti sociali. Tra queste, l’Allegato I fa
specifico riferimento ad un’iniziativa che dovrebbe affrontare le problematiche
legate alla conciliazione tra vita
professionale e vita privata per le famiglie che lavorano (iniziativa 11).
Dovrebbe avere carattere sia legislativo che non legislativo ed essere
corredata da una valutazione d’impatto. Le Conclusioni del Consiglio "Occupazione" dell’8 dicembre 2016 preannunciano la presentazione di
tali iniziative per il mese di marzo 2017. In occasione del dibattito che ha
avuto luogo in Consiglio sono state inoltre tratteggiate, in generale, le
caratteristiche del "modello
sociale europeo", che dovrebbe realizzare al tempo stesso convergenza
sociale e un migliore equilibrio tra la crescita economica ed un’Europa
sociale. Ciò dovrebbe implicare, tra l’altro, "la riduzione delle
ineguaglianze e la promozione della parità (...) di genere". Del resto,
quello delle pari opportunità è uno dei tre principi basilari attorno ai quali
ruota il Pilastro europeo.
Anche
il Governo italiano, nella propria Relazione
programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione
europea, manifesta l’intenzione di mantenere un’attenzione costante sulla politica sociale, indicata anche tra le
priorità
generali della Presidenza maltese. Si individuano i seguenti
elementi principali:
1) l’attuazione delle direttive europee sulla parità di trattamento. Si ricorda che nei confronti dell’Italia è pendente una procedura di infrazione (2013_4199) per non conformità della legge 22 dicembre 2011, n. 214 (riforma delle pensioni) con la direttiva 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale;
2) la realizzazione di standard e buone prassi;
3) la non discriminazione e integrazione della parità nella strategia Europa 2020;
4) la realizzazione di piani di azione su LGBTI. Una Conferenza al livello ministeriale sulle questioni LGBTIQ[3] è prevista anche tra gli eventi organizzati dalla Presidenza maltese;
5) la realizzazione di piani di azione contro le discriminazioni per motivi di età, etnico-razziali e religiosi.
L’ordinamento italiano non
prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente
in danno di donne, né prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti
abbiano la donna come vittima.
Per il nostro diritto penale,
se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della
persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo (e
conseguentemente non è stato fino ad oggi censito nelle statistiche
giudiziarie).
Peraltro, questa legislatura si
è fino ad oggi caratterizzata per la ratifica della Convenzione di Istanbul, per l’introduzione di modifiche al codice
penale e di procedura penale per inasprire le pene di alcuni reati, più spesso
commessi in danno di donne, per l’approvazione del Piano d’azione straordinario
contro la violenza di genere e per la previsione di stanziamenti per il
supporto delle vittime.
La ratifica della Convenzione di Istanbul
Con la legge
27 giugno 2013, n. 77, l’Italia è stata tra i primi
paesi europei a ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla
violenza contro le donne e la violenza domestica - meglio nota come ‘Convenzione
di Istanbul’ - adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 ed entrata
in vigore il 1° agosto 2014, a seguito del raggiungimento del prescritto numero
di dieci ratifiche.
La Convenzione è il primo
strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro
normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza.
Particolarmente rilevante è il
riconoscimento espresso della violenza contro le donne quale violazione
dei diritti umani, oltre che come forma di discriminazione contro le donne
(art. 3 della Convenzione). La Convenzione stabilisce inoltre un chiaro legame
tra l’obiettivo della parità tra i sessi e quello dell’eliminazione della
violenza nei confronti delle donne.
Inoltre, il Parlamento ha
approvato la legge 119/2013, di conversione del decreto-legge
n. 93/2013, che contiene disposizioni volte a
prevenire e reprimere la violenza domestica e di genere.
In particolare, il
provvedimento approvato:
- interviene sul codice penale, introducendo un’aggravante comune (art. 61, n. 11-quinquies) per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori;
- modifica il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), con particolare riferimento al regime della querela di parte. In particolare, rispetto alla formulazione
- originaria del decreto-legge, che qualifica la querela come irrevocabile, la Camera ha circoscritto le ipotesi di irrevocabilità ai casi più gravi, prevedendo comunque che l’eventuale remissione possa avvenire soltanto in sede processuale;
- interviene sul codice di procedura penale, consentendo anche quando si indaga per stalking di disporre intercettazioni;
- introduce la misura di prevenzione dell’ammonimento del questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking;
- sempre per tutelare le vittime, inserisce alcune misure relative all’allontanamento - anche d’urgenza - dalla casa familiare e all’arresto obbligatorio in flagranza dell’autore delle violenze. In merito, la Camera ha introdotto la possibilità di operare anche un controllo a distanza (c.d. braccialetto elettronico) del presunto autore di atti di violenza domestica;
- prevede specifici obblighi di comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria alla persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonché modalità protette di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti particolarmente vulnerabili;
- modifica le disposizioni di attuazione del codice di procedura, inserendo i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d’udienza;
- estende alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili l’ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito;
- stabilisce che la relazione annuale al Parlamento sull’attività delle forze di polizia e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica debba contenere un’analisi criminologica della violenza di genere;
- riconosce agli stranieri vittime di violenza domestica la possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno;
- demanda al Ministro per le pari opportunità l’elaborazione di un Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per il quale è previsto un finanziamento di 10 milioni di euro per il 2013, prevedendo azioni a sostegno delle donne vittime di violenza.
Piano di azione straordinario
L’art. 5 del citato D.L. 93/2013 ha previsto l’adozione di un Piano d’azione straordinario
contro la violenza sessuale e di genere, con lo scopo di affrontare in modo
organico e in sinergia con i principali attori coinvolti a livello sia centrale
che territoriale il fenomeno della violenza contro le donne. Nonostante la
definizione del Piano come "straordinario" (definizione imposta nel
corso dell’esame parlamentare da una condizione della Commissione Bilancio),
esso dovrebbe costituire lo snodo centrale dell’azione di contrasto alla
violenza di genere.
Il Piano è elaborato dal
Ministro per le pari opportunità, con il contributo delle amministrazioni
interessate, delle associazioni di donne impegnate nella lotta contro la violenza
e dei centri antiviolenza, ed adottato dal medesimo Ministro, previa intesa in
sede di Conferenza unificata. Esso è inoltre predisposto in sinergia con la
nuova programmazione dell’Unione europea per il periodo 2014-2020.
Il Piano d’azione
è stato adottato con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 7 luglio 2015 e registrato dalla Corte dei Conti il
25 agosto 2015.
Le finalità del Piano sono
molto ampie e riguardano interventi relativi ad una pluralità di ambiti: dall’educazione
nelle scuole alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, anche attraverso un’adeguata
informazione da parte dei media; dal potenziamento dei centri antiviolenza e
del sostegno alle vittime al recupero degli autori dei reati; dalla raccolta di
dati statistici alla formazione degli operatori di settore.
Il Piano assicura il
coordinamento ed il coinvolgimento di tutti i livelli di governo interessati,
basandosi sulle buone pratiche già realizzate a livello territoriale, anche
grazie alle azioni di associazioni e soggetti privati.
Per l’adozione del Piano, il
Ministro delegato per le pari opportunità può avvalersi delle risorse del Fondo
per le pari opportunità. Il decreto-legge dispone al riguardo un incremento
del predetto Fondo per le pari opportunità di 10 milioni di euro,
limitatamente all’anno 2013, vincolati al finanziamento del piano
contro la violenza di genere (art. 5, comma 4). Per gli anni 2014, 2015,
e 2016 ha provveduto la legge di stabilità 2014, aumentando ulteriormente
il Fondo di 10 milioni per ciascuno di questi anni, con vincolo di destinazione
al piano medesimo (art. 1, comma 217, L. n. 147/2013).
Un ulteriore finanziamento,
di natura permanente, è invece specificamente destinato, nell’ambito del piano,
al potenziamento delle forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime
di violenza e ai loro figli attraverso il rafforzamento della rete dei
servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di
assistenza alle donne vittime di violenza: a tal fine il Fondo per le pari
opportunità è incrementato di 10 milioni di euro per il 2013, di 7
milioni per il 2014 e di 10 milioni annui a decorrere dal
2015 (art. 5-bis DL n. 93/2013).
Il Ministro delegato per le
pari opportunità, previa intesa in sede di Conferenza Stato- Regioni, provvede
annualmente a ripartire le risorse tra le regioni, tenendo conto di una serie di
criteri indicati dalla legge (art. 5-bis, comma 2, DL n. 93/2013).
Tutte le risorse confluiscono,
dunque, nel Fondo per le pari opportunità e sono appostate - unitamente
agli altri eventuali ulteriori interventi a carico del Fondo - nel cap. 2108
dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF),
per essere successivamente trasferite al bilancio della Presidenza del
Consiglio, dove sono ripartite tra i diversi interventi.
A seguito dell’approvazione
della legge di bilancio 2017 (legge n. 232
del 2016) sul capitolo 2108 risultano i
seguenti stanziamenti:
In particolare, l’incremento dello stanziamento per il
2017 rispetto ai precedenti esercizi deriva da un rifinanziamento di 39,6
milioni di euro disposto dal Governo in sede di presentazione del disegno di
legge di bilancio alla Camera.
A seguito dell’esame del disegno di legge alla Camera sono stati
inoltre aggiunti altri 10 milioni di euro per il 2017 e 5 milioni di euro per
ciascuno degli anni 2018 e 2019. Tali effetti sono determinati:
Ø
dall’art. 1, comma 359 della sezione I,
introdotto nel corso dell’esame parlamentare, che aumenta di 5
milioni di euro all’anno nel triennio 2017-2019 la dotazione finanziaria del Fondo per le pari opportunità in favore del
Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per
le attività di sostegno e potenziamento dell’assistenza alle donne vittime di
violenza e dei loro figli, attraverso il rafforzamento della rete dei servizi
territoriali e dei centri antiviolenza e delle case rifugio;
Ø
dall’art. 1, comma 371, anch’esso introdotto nel corso dell’esame
alla Camera, che aumenta di 5 milioni di euro le risorse del Fondo per le
misure anti-tratta per l’anno 2017.
Pertanto, nel complesso, le
previsioni del bilancio integrato per la promozione e la garanzia delle pari
opportunità, dopo l’approvazione della prima nota di variazioni, sono pari a 70,1 milioni di euro per il 2017, 24,7
milioni per il 2018 e di 22,1 milioni di euro per il 2019.
Nel bilancio 2017 della
Presidenza del Consiglio - sul cap. 496 (Somme da destinare al piano contro
la violenza alle donne), nel quale sono iscritti sia i fondi destinati al
Piano straordinario (art. 5, DL 93/2013) che quelli per i centri antiviolenza e
le case rifugio (art. 5-bis, DL
93/2013) - risultano stanziate per il 2017 risorse per 21,7 mln di euro.
I provvedimenti in corso di esame
E’ collegato alle iniziative di
legislatura volte a contrastare la violenza contro le donne, anche un
provvedimento recentemente approvato dalla Camera - e ora all’esame del Senato
- volto a rafforzare le tutele per i figli rimasti orfani a seguito di un
crimine domestico.
In particolare, l’A.S.
2719, approvato dalla Camera il 1° marzo 2017,
riconosce tutele processuali ed economiche ai figli minorenni e maggiorenni
economicamente non autosufficienti della vittima di un omicidio commesso da:
il coniuge, anche legalmente
separato o divorziato;
la parte dell’unione civile,
anche se l’unione è cessata;
una persona che è o è stata
legata da relazione affettiva e stabile convivenza con la vittima.
In primo luogo, il provvedimento
modifica il codice penale intervenendo sull’omicidio aggravato dalle
relazioni personali, di cui all’art. 577 c.p.
Rispetto alla norma vigente,
che punisce l’uxoricidio (omicidio del coniuge) con la reclusione da 24 a 30
anni (la pena base per l’omicidio non può essere inferiore a 21 anni di
reclusione), il provvedimento aumenta la pena ed estende il campo d’applicazione
della norma. Modificando l’art. 577 c.p., infatti, è prevista la pena dell’ergastolo
se vittima del reato di omicidio è:
il coniuge, anche legalmente
separato;
la parte dell’unione civile;
la persona legata all’omicida
da stabile relazione affettiva e con esso stabilmente convivente.
Il provvedimento dunque non
solo aumenta la pena per l’uxoricidio ma ne estende l’applicazione al
rapporto di unione civile e alla convivenza, prevedendo l’ergastolo in caso di
attualità del legame personale.
Con i vigenti limiti di pena
(reclusione da 24 a 30 anni) viene invece punito l’omicidio del coniuge
divorziato o della parte della cessata unione civile.
Dal punto di vista processuale,
la proposta di legge intende rafforzare, già dalle prime fasi del processo
penale, la tutela dei figli della vittima, modificando il testo unico sulle
spese di giustizia, per consentire loro l’accesso al patrocinio a spese
dello Stato, a prescindere dai limiti di reddito.
Mantenendo l’attenzione verso
il procedimento penale, e dunque alla fase che precede l’accertamento
definitivo della responsabilità penale dell’autore del reato, la proposta di legge
intende rafforzare la tutela dei figli della vittima rispetto al loro diritto
al risarcimento del danno.
A tal fine, il provvedimento
modifica la disciplina del sequestro conservativo e della provvisionale,
la cui finalità è anticipare il più possibile la liquidazione del danno patito
dalle vittime del reato.
La provvisionale è infatti una
somma di denaro liquidata dal giudice in favore della parte danneggiata, come
anticipo sull’importo integrale che le spetterà in via definitiva. Accade,
infatti, in base alla normativa vigente che, dopo un lungo processo penale nel
quale i figli si sono costituiti parte civile, alla condanna penale del genitore
si accompagna solo una generica condanna per la responsabilità civile, che obbliga
la parte civile ad avviare una nuova causa civile per ottenere la liquidazione
del danno.
La proposta di legge prevede
infatti che quando si procede per omicidio del coniuge (anche separato o
divorziato), della parte dell’unione civile (anche se l’unione è cessata) o della
persona che sia o sia stata legata all’imputato da relazione affettiva o
stabile convivenza, e le prove acquisite nel corso del procedimento penale non
consentono la liquidazione del danno, in presenza di figli della vittima che si
siano costituiti parte civile, il giudice in sede di condanna - a prescindere
dal carattere definitivo della stessa – deve assegnare loro a titolo di
provvisionale una somma pari almeno al 50% del presumibile danno, che sarà
liquidato poi in sede civile.
Venendo agli aspetti
esclusivamente economici, la proposta di legge interviene sull’istituto dell’indegnità
a succedere con la finalità di renderne automatica l’applicazione in caso
di condanna per omicidio in ambito domestico.
Viene rivista anche la
disciplina che già attualmente esclude dal diritto alla pensione di reversibilità
l’autore dell’omicidio del pensionato.
Ulteriori disposizioni della
proposta di legge:
demandano a Stato, regioni e
autonomie locali il compito di promuovere e organizzare forme di assistenza
delle vittime, di promuovere servizi informativi, assistenziali e di consulenza;
di predisporre misure per garantire il diritto allo studio e all’avviamento al lavoro
per i figli delle vittime di crimini domestici;
prevedono che i figli delle
vittime del reato di omicidio in ambito domestico abbiano diritto ad assistenza
medico psicologica gratuita e siano esenti dalla partecipazione alla spesa per
ogni tipo di prestazione sanitaria e farmaceutica;
modificano la disciplina dell’affidamento
del minore «temporaneamente privo di un
ambiente familiare idoneo» per
prevedere che il minore che si trovi in tale condizione a seguito della morte
del genitore causata volontariamente dal coniuge (anche separato o divorziato),
dalla parte dell’unione civile (anche cessata) o da persona legata al genitore
da relazione affettiva, debba essere affidato privilegiando la continuità delle
relazioni affettive tra il minore e i parenti fino al terzo grado e garantendo,
in quanto possibile, in presenza di fratelli o sorelle, la continuità affettiva
tra gli stessi.
Infine, la proposta di legge incrementa
la dotazione del Fondo di rotazione per le vittime dei crimini intenzionali
violenti, destinandolo anche agli orfani per crimini domestici. In
particolare, tale incremento è destinato all’erogazione di borse di studio per
gli orfani, al finanziamento del loro reinserimento lavorativo e alla copertura
delle spese per l’assistenza psicologica e sanitaria.
L’inchiesta parlamentare sul femminicidio
Con delibera
18/01/2017 (G.U. n. 20 del 25/01/2017) il Senato
ha istituito una Commissione
parlamentare monocamerale di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni
forma di violenza di genere[4].
La
Commissione, composta da 20 senatori, è chiamata, tra l’altro, a svolgere
indagini sulle reali dimensioni, condizioni, qualità e cause del femminicidio,
inteso come uccisione di una donna basata sul genere e, più in generale, di
ogni forma di violenza di genere; a monitorare la concreta attuazione della
Convenzione di Istanbul e di ogni altro accordo sovranazionale e internazionale
in materia, nonché della legislazione nazionale in materia; ad accertare le
possibili incongruità e carenze della normativa vigente; ad analizzare gli
episodi di femminicidio verificatisi a partire dal 2011, per accertare se siano
riscontrabili condizioni o comportamenti ricorrenti, valutabili sul piano
statistico, allo scopo di orientare l’azione di prevenzione; ad accertare il
livello di attenzione e la capacità di intervento delle autorità e delle
pubbliche amministrazioni competenti.
L’istituzione
della Commissione di inchiesta si inserisce tra i significativi interventi dell’attuale
legislatura in materia di violenza di genere. Si ricordano altresì la ratifica
nel 2013 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla
violenza contro le donne e la violenza domestica; il decreto legge 93/2013 che
dà attuazione alla Convenzione introducendo nuove norme di diritto penale
sostanziale e procedurale; la legge 107/2015 che promuove nelle scuole l’educazione
alla parità dei sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le
discriminazioni e il decreto legislativo 80/2015 che ha introdotto un congedo
retribuito di tre mesi per le lavoratrici vittime di violenza di genere.
In base
a dati EURES e ISTAT, la violenza contro le donne è un fenomeno ampio e
diffuso, che è costato la vita a 2.800 donne dal 2000 ad oggi e che matura in
particolare nel contesto domestico e all’interno di relazioni affettive: delle
1.740 donne uccise in Italia negli ultimi dieci anni, più del 70% sono state
uccise in famiglia, nel 67% dei casi dal partner e nel 26% dall’ex partner; nel
16,7% dei casi il femminicidio è stato preceduto da "violenze note",
l’8,7% delle quali denunciate alle forze dell’ordine.
Il 13 ottobre 2016, il Senato della
Repubblica ha approvato la mozione
1-00637 con prima firmataria le senatrice Fedeli, con la quale si impegnava
il Governo ad assumere tutte le opportune iniziative per la piena attuazione
della risoluzione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, nonché a
valutare in uno scambio sinergico con il Parlamento l’opportunità di prevedere,
quale nuova fattispecie delittuosa, il matrimonio forzato e tutte le attività
ad esso connesse al fine di tutelare le vittime di queste condotte stante la
loro particolare vulnerabilità.
In seguito alla mozione sono stati presentati in Senato tre
disegni di legge di iniziativa parlamentare: AS 638, prima firmataria sen.
Bonfrisco, AS 2241, primo firmatario sen. Buemi, AS 2683, prima firmataria sen
Maturani, che prevedono l’introduzione di un’apposita fattispecie penale per
contrastare la pratica dei matrimoni forzati.
Le spose bambine d’Italia provengono soprattutto dalle comunità
di India, Pakistan, Bangladesh ma anche da Albania e Turchia, sono
prevalentemente di religione musulmana e devono sottostare alla legge islamica
secondo la quale una bambina raggiunge la maggiore età già a nove anni. Quando si parla di matrimoni forzati in
Italia di solito si fa riferimento a bambine costrette a sposare uomini grandi,
ma non bisogna dimenticare che molto spesso avviene il contrario. Infatti,
questi fenomeni coinvolgono anche bimbi maschi promessi a donne adulte.
L’AS 638 introduce il delitto di matrimonio
forzato, punendo con la reclusione da uno a cinque anni, chiunque costringa o
induca taluno, con violenza o minaccia, a contrarre matrimonio (anche non
avente effetti civili) contro la propria volontà.
L’AS 2441 introduce il delitto di costrizione
al matrimonio o all’unione civile, attraverso il quale è punito con la
reclusione da tre ad otto anni, chiunque, con violenza o minaccia o facendo
leva su precetti religiosi ovvero sfruttando una situazione di vulnerabilità,
costringe altri a contrarre matrimonio o un’unione civile, anche in un Paese
estero.
L’AS 2683 introduce il delitto di matrimonio
forzato, punendo, con la reclusione da tre a sette anni, chiunque, con violenza
o minaccia o mediante abuso di autorità o di relazione domestica costringa un
minore di età a contrarre vincolo di natura personale, con sé o con terzi,
anche in un Paese estero, da cui derivano uno o più obblighi tipici del
matrimonio o dell’unione civile.
Tutti e tre prevedono, data la dimensione
ultra nazionale del fenomeno da colpire, una disposizione derogatoria al
principio di territorialità della legge penale. I matrimoni forzati infatti
hanno una dinamica accertata. In Italia viene stretto l’accordo: i genitori
della bimba la promettono in sposa a un uomo molto più grande in cambio di
denaro e del mantenimento della ragazzina.
Le nozze avvengono però nei Paesi d’origine,
perché nel nostro ordinamento i matrimoni con minori sono vietati, come
previsto dall’articolo 84 del codice civile, fatto salvo il caso in cui il
minore abbia compiuto i 16 anni e sia autorizzato dal tribunale per i minorenni
a contrarre matrimonio per comprovati gravi motivi.
L’AS 2441 introduce, poi, un’ulteriore
fattispecie criminosa: il reato di induzione al viaggio finalizzato al
matrimonio, punendo con la reclusione da uno a tre anni, salvo che l’autore non
abbia, ad esempio, concorso alla realizzazione della costrizione al matrimonio,
chiunque, con artifizi e raggiri, violenza o minaccia, o facendo leva su
precetti religiosi, ovvero sfruttando una situazione di vulnerabilità, induce
altri a recarsi all’estero per contrarre matrimonio o una unione civile. Il
reato si considera integrato anche se il matrimonio o l’unione civile non
vengono contratti.
Una maggiorazione della pena è prevista se i reati sono commessi
nei confronti di persona della famiglia, o un minore di anni diciotto, o una
persona sottoposta alla propria autorità, tutela o curatela, o a sé affidata
per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, la pena
della reclusione è da sei a quindici anni.
L’AS 2683, infine, prevede l’istituzione,
presso il Ministero della Giustizia, di un Osservatorio per il monitoraggio, la
prevenzione, il contrasto del fenomeno; nonché, la individuazione, da parte del
questore competente al rilascio dei permessi in ciascuna provincia, di uno o
più funzionari di polizia con l’incarico di referente per il contrasto del
fenomeno, per i rapporti con gli enti locali e le organizzazioni no profit
operanti nel settore.
La dimensione statistica del fenomeno
Il Ministero della Giustizia nel 2014 ha pubblicato Stalking. Indagine statistica attraverso la lettura
dei fascicoli dei procedimenti definiti con sentenze di primo grado, a cura della Direzione generale di statistica.
Le informazioni rilevate
riguardano il reato di cui all’art. 612-bis del codice penale, considerando il
fenomeno sotto molteplici aspetti: movente, modalità della condotta, tempi, autori,
vittime e relazione tra di loro. Si tratta di un’indagine, di tipo campionario,
è bassta sull’analisi della documentazione relativa ai procedimenti definiti
negli anni 2011-2012 presso 14 sedi di tribunale, rappresentative della realtà
nazionale per dimensione e ubicazione territoriale.
Lo studio evidenzia che il
91,1% dei reati di stalking è commesso da maschi, l’età media dell’autore
è di 42 anni contro i 38 della vittima e quasi un terzo degli stalker è
disoccupato o con lavoro saltuario. Nel 33,2% dei casi, inoltre, vittima e
autore hanno figli in comune e il movente più ricorrente che spinge l’imputato
alla condotta contestata è quello di "ricomporre il rapporto"
(30,4%), seguito dalla "gelosia" (11,1%) e dalla "ossessione
sessuale o psicologica" (3,3%).
Per quanto riguarda l’esito
delle sentenze, infine, le condanne (42,5%) e i patteggiamenti (14,9%) sono
più frequenti delle assoluzioni (11,5%). Una vittima su quattro, comunque,
ritira la querela.
Nel giugno 2015 l’ISTAT ha
pubblicato lo studio "La violenza contro le donne dentro e fuori
la famiglia", con dati aggiornati al 2014.
Lo studio conferma come la
violenza contro le donne sia un fenomeno ampio e diffuso:
6 milioni 788 mila donne hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza
fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha
subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di
violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che
hanno subito stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri.
3 milioni e 466 mila donne hanno subito stalking nel corso della vita, il 16,1% delle
donne.
Di queste, 1 milione e 524 mila
l’ha subito dall’ex partner, 2 milioni 229 mila da persone diverse dall’ex
partner.
I partner attuali o ex commettono
le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o
precedente. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di
molestie sessuali (76,8%).
Considerando il totale delle
violenze subìte da donne con figli, aumenta la percentuale dei figli che hanno
assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del dato del 2006
al 65,2% rilevato nel 2014).
Ciò nonostante, dallo studio
emergono anche importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine
precedente: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal
13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Ciò è frutto di una maggiore
informazione, del lavoro sul campo ma soprattutto di una migliore capacità
delle donne di prevenire e combattere il fenomeno e di un clima sociale di
maggiore condanna della violenza.
E’ in calo sia la violenza fisica sia la sessuale, dai partner e
ex partner (dal 5,1% al 4% la fisica, dal
2,8% al 2% la sessuale) come dai non partner (dal 9% al 7,7%). Il calo è particolarmente
accentuato per le studentesse, che passano dal 17,1% all’11,9% nel caso di ex
partner, dal 5,3% al 2,4% da partner attuale e dal 26,5% al 22% da non partner.
Di contro, le violenze sono
più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da
partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal18,8%
del 2006 al 34,5% del 2014).
Alla maggiore capacità delle
donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si affianca anche una maggiore
consapevolezza. Più spesso considerano la violenza subita un reato (dal
14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la denunciano di più alle forze dell’ordine
(dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e
cercano aiuto presso i servizi specializzati, centri antiviolenza, sportelli
(dal 2,4% al 4,9%).
Rispetto al 2006, le vittime
sono più soddisfatte del lavoro delle forze dell’ordine. Per le violenze
da partner o ex, le donne molto soddisfatte passano dal 9,9% al 28,5%.
Nel marzo dello scorso anno, il
Ministero dell’interno ha reso noti
i seguenti dati relativi alla violenza contro le donne.
Nel luglio 2016, infine, nell’ambito
della campagna informativa "Progetto Camper contro la violenza di
genere", il Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno
ha reso noti i seguenti ulteriori dati, relativi al primo semestre 2016,
che evidenziano una riduzione dei reati contro le donne.
L’Italia secondo gli indici internazionali
L’Istituto europeo per l’uguaglianza di
genere (EIGE), agenzia autonoma dell’Unione europea, il 13 giugno 2013 ha
pubblicato il primo rapporto sull’indice dell’uguaglianza di genere,
frutto di tre anni di lavoro; i dati sono stati aggiornati nel 2015, in
cui il Rapporto ha affinato gli indicatori di riferimento e offerto una
comparazione sui progressi compiuti dal 2005 al 2012, mentre il prossimo
aggiornamento sarà redatto nel 2017. Per la prima volta è stato elaborato un
indicatore sintetico ma esaustivo delle disparità di genere nell’Unione europea
e nei singoli Stati membri.
L’indice, che prende in considerazione 6
diversi settori (Lavoro, Denaro, Conoscenza, Tempo, Potere e Salute), ha un
valore tra 1 e 100, dove 1 indica un’assoluta disparità di genere e 100 segna
il raggiungimento della piena uguaglianza di genere.
Nonostante più di 50 anni di politiche per l’uguaglianza
di genere a livello europeo, il rapporto mostra come le disparità di genere
risultino ancora prevalenti nell’Unione europea.
Con un indice medio di 52,9, l’Unione
europea (UE-28) è ancora a metà nel cammino per raggiungere l’uguaglianza.
Un dato significativo è la fortissima
differenza tra gli indici dei singoli Stati membri, che vanno da un minimo di
33,7 (Romania) ad un massimo di 74,2 (Svezia), che attesta come gli Stati
prestino una diversa attenzione al raggiungimento degli obiettivi della parità.
Particolarmente negativa è la posizione
dell’Italia, che con un indice di 41,1 si attesta al 20° posto su 27
Stati membri, sopra a Slovacchia, Grecia, Bulgaria, Portogallo, Croazia e
Romania. Tuttavia, va messo in rilievo che l’Italia è tra i dieci Stati membri,
i cui indicatori mostrano un trend positivo nei tre intervalli considerati
(2005-2010-2012).
In cima alla graduatoria spiccano i Paesi
scandinavi, con valori superiori a 70, mentre il Regno Unito ha un indice di
58, la Francia di 55,7, la Spagna di 53,6 e la Germania di 55,3.
Analizzando la relazione tra l’indice dell’uguaglianza
di genere e la ricchezza dei paesi, misurata attraverso il PIL per abitante
(PPS), si nota altresì come l’Italia sia il più ricco tra i 13 paesi che hanno
un indice inferiore a 45 (Repubblica Ceca, Lettonia, Polonia, Lituania, Cipro,
Malta, Ungheria, Portogallo, Slovacchia, Italia, Grecia, Lituania, Bulgaria e
Romania).
Passando alla sfera specifica del Potere,
inteso come potere decisionale sia politico che economico, si segnala che in
questo settore l’indice dell’uguaglianza di genere evidenzia il valore più
basso, con un valore medio europeo di 39,7.
Anche in tal caso, la performance dell’Italia
è piuttosto negativa, con un indice di 21,8, che la colloca tra gli ultimi
posti tra i Paesi UE, sopra solo a Cipro, Portogallo, Romania, Croazia e
Slovacchia.
A livello mondiale, secondo l’analisi annuale
del World economic forum sul Global Gender Gap, nella
graduatoria diffusa nel 2016, l’Italia si colloca al 50° posto su 144 Paesi
(era al 41° nel 2015, 69° nel 2014, al 71° nel 2013, all’80° nel 2012, al 74°
nel 2011 e nel 2010, al 72° nel 2009, al 67° posto nel 2008, all’84° nel 2007 e
al 77° nel 2006).
L’indice tiene conto delle disparità di
genere esistenti nel campo della politica, dell’economia, dell’istruzione e
della salute.
Nella graduatoria generale svettano i Paesi
del Nord Europa (Islandia, Finlandia, Norvegia, Svezia e Irlanda); per quanto
attiene agli altri Paesi europei, la Slovenia si colloca al 9° posto, la
Germania al 13°, i Paesi Bassi al 16°, la Francia al 17°, il Regno Unito al 20°
e la Spagna al 29° posto.
Per ciò che attiene in particolare al settore
della politica, il nostro Paese si colloca al 25° posto della
graduatoria, risalendo dopo il brusco calo degli anni precedenti, che poteva probabilmente
essere ascritto alla sostanziale staticità dell’Italia in questo campo, a
fronte dei progressi registrati in altri paesi (l’Italia era al 44° posto nel
2013, al 71° nel 2012, al 55°nel 2011, al 54° nel 2012 e al 45° nel 2009). In
questo settore particolare, l’aumento registrato dall’Italia nella graduatoria
globale a decorrere dal 2013 è determinato principalmente dal significativo
aumento del numero delle donne in Parlamento (dal 22% Indice EIGE sull’uguaglianza
di genere nel 2012 al 31% nel 2013).
Il World
Economic Forum redige periodicamente anche un rapporto sulla
competitività dei paesi a livello globale ed è interessante notare come emerga
una correlazione tra il gender gap di un paese e la sua competitività
nazionale. Dal momento che le donne rappresentano la metà del talento
potenziale di un paese, la competitività nel lungo periodo dipende
significativamente dalla maniera in cui ciascun paese educa ed utilizza le sue donne.
Uno studio del Fondo monetario internazionale
del febbraio 2015, che fa il punto sul rapporto tra partecipazione delle donne
al mondo del lavoro e crescita economica, ha stimato per l’Italia che la
perdita derivante dall’esistenza del gender gap sia pari complessivamente
al 15% del prodotto interno lordo (PIL).
Le donne nelle istituzioni
I dati relativi alla presenza femminile negli
organi costituzionali italiani hanno sempre mostrato una presenza
contenuta nei numeri e molto limitata quanto alle posizioni di vertice.
In tale contesto, i risultati delle elezioni
politiche del 24-25 febbraio 2013 presentano un segnale di inversione di
tendenza: infatti, la media complessiva della presenza femminile nel
Parlamento italiano, storicamente molto al di sotto della soglia del 30%,
considerato valore minimo affinché la rappresentanza di genere sia efficace, è
salita dal 19,5 della XVI legislatura al 30,1 per cento dei parlamentari eletti
nella XVII legislatura (la media UE è il 29%).
Di seguito, due grafici mostrano l’andamento
storico della presenza delle donne in entrambi i rami del Parlamento.
Le prime donne elette alla Consulta nazionale
sono state 14; della Consulta faceva parte un numero variabile di membri
(circa 400) alcuni di diritto, altri di nomina governativa, su designazione
partitica e di altre organizzazioni. Le donne elette all’Assemblea Costituente,
composta da 556 membri, sono state 21 (3,8%).
Nella XII legislatura (la prima con il
sistema elettorale maggioritario e con il sistema delle quote dichiarato poi
illegittimo dalla Corte costituzionale) le donne elette alla Camera dei deputati
sono state 95, di cui 43 elette con la quota maggioritaria e 52 con quella proporzionale,
mentre nella XIII legislatura (senza l’applicazione del sistema delle
quote) le donne elette alla Camera dei deputati sono scesa a 70
(rispettivamente 42 e 28). Al Senato sono state elette nella XIII legislatura
26 donne. Nella XIV legislatura le donne elette alla Camera sono state
73. Al Senato le donne elette sono state 25.
Le donne elette alla Camera nella XV
legislatura sono state 108 (17,1 per cento) e le donne senatrici 44 (13,6 per
cento). Nella XVI legislatura sono state elette alla Camera dei deputati
133 donne, al Senato 58. Nella XVII legislatura sono state elette alla
Camera dei deputati 198 donne (31,4 per cento), al Senato 92 donne (28,8 per
cento).
Tra i senatori a vita, solo due volte,
nel 2001 e più di recente nel 2013, è stata nominata una donna: la prof.ssa
Rita Levi Montalcini e la prof.ssa Elena Cattaneo.
Quanto alle posizioni di
vertice, nessuna donna in Italia ha mai rivestito la carica di Capo dello
Stato, di Presidente del Consiglio o di Presidente del Senato.
Attualmente, nell’Unione
europea, la carica di Primo ministro o Presidente del Consiglio è ricoperta da
donne in 3 Stati (Germania, Polonia e Gran Bretagna), mentre vi sono tre donne
Capo dello Stato, in Lituania, Croazia e Malta (non sono presi in
considerazione gli ordinamenti monarchici).
La carica di Presidente
della Camera è stata declinata al femminile nelle legislature VIII, IX e X,
con l’elezione di Nilde Iotti, nella XII legislatura con l’elezione di Irene
Pivetti e nell’attuale legislatura con l’elezione di Laura Boldrini.
Nonostante il significativo
aumento della presenza femminile nei due rami del Parlamento, nella corrente
legislatura alla Camera sono presiedute da una donna solo 2 Commissioni permanenti
su 14 (Commissione giustizia, presieduta da Donatella Ferranti e Commissione Cultura,
scienza e istruzione, presieduta da Flavia Piccoli Nardelli); anche al Senato è
1 su 14 la Commissione permanente presieduta da una donna (Commissione Igiene e
sanità, presieduta da Emilia Grazia De Biasi).
Nell’attuale Governo, le
ministre sono 5 (Roberta Pinotti, Ministra della difesa; Valeria Fedeli,
Ministra dell’istruzione, dell’università e della ricerca; Beatrice Lorenzin, Ministra
della salute; Maria Anna Finocchiaro, Ministro per i rapporti con il
Parlamento; Maria Anna Madia, Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione) su 18 ministri (circa il 28%).
Si assesta sui medesimi livelli
la presenza femminile nelle posizioni di sottosegretario: le sottosegretarie
sono 12 su 42 (28,6%): Maria Elena Boschi (Sottosegretaria Presidenza del
Consiglio), Maria Teresa Amici (Rapporti con il Parlamento); Federica
Chiavaroli (Giustizia); Paola De Micheli (Economia e finanze); Teresa Bellanova
(Sviluppo economico); Simona Vicari (Infrastrutture e trasporti); Silvia Velo e
Barbara Degani (Ambiente); Franca Biondelli (Lavoro e politiche sociali);
Angela D’Onghia (Istruzione, università e ricerca); Ilaria Borletti Buitoni e Dorina
Bianchi (Beni, attività culturali e turismo).
In ambito UE-28, la media della
donne al Governo è del 27%, con risultati molto diversi tra gli Stati. La
presenza di donne nella compagine governativa non va oltre la parità, come in
Svezia (50%). Seguono la Francia (48%), la Bulgaria (47%), la Slovenia (44%) e
la Germania, al pari con i Paesi Bassi (38%).
Merita segnalare che nel corso
della legislatura, per la prima volta si è registrata una composizione
paritaria nel Governo Renzi (21 febbraio 2014 - 12 dicembre 2016): le ministre
erano 8 su un totale di 16 ministri.
Per quanto riguarda la
composizione della Corte costituzionale, dei quindici giudici costituzionali
tre sono donne: Marta Cartabia, professoressa ordinaria, nominata nel 2011; Silvana
Sciarra e Daria De Petris, entrambe professoresse ordinarie, nominate nel 2014.
Nella storia della Consulta ci
sono state altre due giudici donne: Fernanda Contri, avvocata, giudice della
Corte dal 1996 al 2005, e Maria Rita Saulle, professoressa ordinaria, giudice
dal 2005 al 2011.
Per quanto riguarda la presenza
femminile nel Parlamento europeo, (PE) nelle prime cinque legislature le
donne italiane elette risultavano sempre in percentuali inferiori al 15%.
Come si rileva dal grafico, con
l’introduzione delle quote di lista nel sistema elettorale nelle elezioni del
2004, il numero delle donne italiane elette al Parlamento europeo è aumentato della
metà, passando da 10 donne nella V legislatura (1999-2004) a 15 nella VI
(2004-2009). Si consideri, inoltre, che il numero dei seggi spettanti all’Italia
è diminuito, passando da 87 nella V legislatura a 78, in conseguenza dell’ingresso
di 10 nuovi Paesi. In termini percentuali, la componente femminile è passata,
dunque, nella VI legislatura dall’11,5 per cento al 19,2 per cento ed è salita
ulteriormente nella VII legislatura (2009-2014), dove le donne elette al
Parlamento europeo sono risultate 16 su 72 seggi spettanti all’Italia (pari al 22,2%).
Nelle ultime elezioni del 2014,
è stata introdotta e applicata la c.d. ‘tripla preferenza di genere’, in base
alla quale, nel caso in cui l’elettore decida di esprimere tre preferenze, queste
devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della terza preferenza.
All’esito della consultazione elettorale, il numero delle donne italiane elette
al PE risulta quasi raddoppiato, passando a 29 su 73 seggi spettanti all’Italia,
pari al 39,7% (per la prima volta, sopra la media delle donne al Parlamento
europeo, pari al 37%).
Per quanto riguarda gli organi
delle regioni, la presenza femminile nelle assemblee regionali italiane
si attesta in media intorno al 17,7% e risulta dunque molto distante dalla media
registrata a livello UE-28, pari al 33%. Più alto il dato nelle giunte
regionali, dove le donne sono il 35% (in linea con la media UE). Solo due donne
(su 20 regioni) rivestono la carica di Presidente della regione (in Umbria e
Friuli Venezia Giulia).
Di seguito, la tabella riporta,
nel dettaglio, la consistenza numerica e percentuale delle donne elette nei
consigli delle regioni e delle province autonome sulla base dei risultati delle
ultime consultazioni elettorali (2015), inserite in ordine decrescente di
percentuale di presenza femminile.
Dall’analisi dei meccanismi
elettorali nelle regioni a statuto ordinario, in cui sono adottati sistemi
elettorali che prevedono l’espressione di preferenze, emerge che le quote di
lista da sole non sembrano incidere in maniera rilevante sulla presenza
femminile nelle assemblee elettive, mentre la ‘doppia preferenza di genere’
determina un effetto positivo: le due regioni con la presenza femminile più
alta sono tra quelle che adottano la doppia preferenza di genere
(Emilia-Romagna e Toscana).
Non sembra un caso poi che l’unica regione nel cui consiglio non
siedono donne, la Basilicata, non preveda alcun meccanismo per incentivare la
rappresentanza di genere e che una delle due regioni nel cui consiglio siede
una sola donna, la Calabria, preveda una misura di incentivo molto blanda
(presenza di entrambi i sessi nelle liste).
Esistono comunque delle
eccezioni: in Piemonte la presenza femminile è relativamente alta (26%), pur in
assenza di meccanismi di incentivazione, mentre in Umbria tale presenza è
piuttosto bassa (15%), nonostante l’adozione della doppia preferenza di genere.
Un altro dato rilevante è che
la rappresentanza femminile è in generale maggiore nelle regioni del
Centro-Nord rispetto a quelle del Sud; questo dato molto probabilmente è dovuto
a fattori di ordine culturale e sociale. Fa però eccezione la Campania, unica regione
del Sud a prevedere la doppia preferenza di genere: qui la presenza di donne si
attesta al 22%. Questo dato sembra dimostrare come specifici strumenti
elettorali possano promuovere il superamento del gap tra i generi che
sussiste a livello economico e sociale.
Nell’ambito delle assemblee
degli enti locali, il dato della presenza femminile in Italia è pari al 30,7%
nelle assemblee dei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, a
circa il 26% nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (fonte:
rielaborazione di dati tratti da Anagrafe degli amministratori locali - Ministro dell’interno, dati aggiornati al 29 ottobre
2016). In ogni caso, la percentuale risulta inferiore al dato medio di presenza
femminile nelle stesse assemblee rilevato in ambito UE-28, pari al 35%.
Più visibile la presenza delle
donne nelle giunte degli enti locali, in quanto la percentuale di donne che
riveste la carica di assessore è pari al 39% nei comuni con popolazione fino a 15.000
abitanti, al 40% nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Le sindache
sono, in tutti i comuni di Italia, 1.105 su 7.854, pari al 14,1%.
Per quanto concerne le città
metropolitane delle regioni a statuto ordinario, a seguito delle elezioni
svolte con il sistema di secondo livello per i Consigli metropolitani previsto dalla
riforma introdotta con la legge n. 56/2014 (c.d. legge Delrio), risultano eletti 194 consiglieri
metropolitani in 10 città metropolitane, di cui 43 donne, pari al 22,2% del
totale
In relazione alle province,
tra i 76 presidenti di provincia, ci sono solo 7 donne, pari a circa il 9% del
totale.
Minore rilievo ha la presenza
delle donne a capo dei partiti politici: in Italia nessuno dei principali
partiti politici è guidato da una donna e anche in Europa si registra un modesto
19%.
Nelle autorità
amministrative indipendenti, infine, su un totale di 36 componenti attualmente
in carica, 12 sono donne (33%). Nessuna delle nove Autorità considerate è attualmente
presieduta da una donna. Non sono presenti donne nell’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (5 componenti). Solo nell’Autorità garante per la privacy,
si registra una maggioranza di donne (3 su 4).
Le autorità considerate sono
quelle di cui all’art. 22 del D.L. 90/2014 (conv. L. 114/2014), che ha dettato
alcune misure per la razionalizzazione delle autorità indipendenti: l’Autorità
garante della concorrenza e del mercato, la Commissione nazionale per le
società e la borsa, l’Autorità di regolazione dei trasporti, l’Autorità per l’energia
elettrica, il gas e il sistema idrico, l’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, il Garante per la protezione dei dati personali, l’Autorità
nazionale anticorruzione, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione e la
Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi
pubblici essenziali.
Si ricorda, infine, che è
ricoperto da una donna il ruolo di Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.
Tutti i dati relativi ai Paesi
europei e alle medie UE, nonchè quelli sui partiti politici sono tratti dal Database
della Commissione europea: Women and men in decision making. Per i
partiti politici, il database prende in
considerazione i partiti politici che hanno ottenuto almeno il 5% dei seggi nel
Parlamento nazionale.
I princìpi costituzionali
Norma fondamentale in tema di
partecipazione alla vita politica è l’articolo 51, primo comma, della
Costituzione, a mente del quale tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono
accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
A seguito di una modifica del
2003 (L. Cost. n. 1/2003), dovuta anche ad un orientamento espresso dalla Corte
costituzionale in una sentenza del 1995 (v. infra) è stato aggiunto un periodo
secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità
tra donne e uomini.
Si è in tal modo segnato un
passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento uomo-donna alla
prospettiva dinamica delle pari opportunità, nell’ottica del raggiungimento di
un’uguaglianza sostanziale, come già riconosciuta dall’art. 3, e secondo lo
spirito della Convenzione ONU per la eliminazione di ogni forma di
discriminazione contro le donne (CEDAW) del 1979 e della Dichiarazione
di Pechino del 1995, che mirano al raggiungimento di una parità de
facto.
A livello sovranazionale, la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea – che dopo il trattato di
Lisbona ha assunto valore vincolante per il nostro ordinamento – prevede che la
parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi e che il principio
della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che
prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (art. 23
inserito nel Capo III relativo all’uguaglianza.
L’articolo 117, settimo comma, Cost.
(introdotto dalla L. Cost. n. 3/2001) prevede inoltre che "Le leggi
regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e
delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità
di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive." Analogo principio è
stato introdotto negli statuti delle regioni ad autonomia differenziata dalla
legge costituzionale n. 2 del 2001.
Giurisprudenza costituzionale
Secondo un orientamento della Corte
costituzionale risalente alla metà degli anni Novanta, espresso nella sentenza
n. 422 del 1995, la previsione di quote di genere in campo elettorale si
pone in contrasto con il principio di uguaglianza, sancito dagli articoli 3 e
51 della Costituzione. Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni normative che avevano introdotto le quote per
le elezioni nazionali, regionali e locali, sulla base dell’assunto che, in
campo elettorale, il principio di uguaglianza deve essere inteso in senso
rigorosamente formale. In base a tale interpretazione i diritti di elettorato
passivo sono rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in
quanto tali ed è esclusa qualsiasi differenziazione in base al sesso, sia che
essa riguardi l’eleggibilità (quote di risultato, quali erano previste dalla
legge elettorale nazionale) sia che riguardi la candidabilità (quote di lista,
quali quelle previste dalla legge sulle elezioni amministrative).
Successivamente, il quadro costituzionale
è mutato, anche in conseguenza della posizione espressa dalla Corte.
Come già visto, le riforme costituzionali del
2001 hanno riaffermato il principio della parità di accesso alle cariche
elettive in ambito regionale e la legge costituzionale n. 1 del 2003 ha
riconosciuto espressamente la promozione, con appositi provvedimenti, delle
pari opportunità tra uomini e donne nella vita pubblica.
Nella sentenza n. 49 del 2003, dopo le
riforme costituzionali del 2001 relative agli ordinamenti regionali ma prime
della modifica dell’articolo 51, la Corte costituzionale dichiara infondata una
questione di legittimità costituzionale relativa ad una disposizione della
legge elettorale della Valle d’Aosta che impone l’obbligo di inserire nelle
liste elettorali candidati di entrambi i sessi. Viene dunque superata la
sentenza del 1995, che aveva affermato che il sesso non poteva essere
rilevante ai fini della candidabilità.
Nell’ordinanza n. 39 del 2005, la Corte
costituzionale affronta una questione sollevata dal Consiglio di Stato
riguardante l’obbligo legislativamente previsto di inserire almeno un terzo di donne
nelle Commissioni di concorso, quindi una vera quota di risultato sia pure
prevista per un organo amministrativo. Il Consiglio di Stato richiama proprio
la sentenza del 1995 a sostegno delle proprie argomentazioni nel senso dell’incostituzionalità
della disposizione che prevedeva l’obbligo della presenza femminile. La Corte
costituzionale ritiene peraltro che il richiamo alla sentenza del 1995 non è
sufficiente alla luce della modifica dell’articolo 51 intervenuta nel 2003 e dichiara
pertanto la questione manifestamente inammissibile per carenza di motivazione.
La pronuncia più rilevante sul tema è la sentenza
n. 4 del 2010, con cui la Corte, richiamando il principio di uguaglianza
inteso in senso sostanziale, ha dichiarato infondata la questione di
legittimità costituzionale sollevata dal Governo relativa all’introduzione
della ‘doppia preferenza di genere’ da parte della legge elettorale
della Campania, in considerazione del carattere promozionale e della finalità
di riequilibrio di genere della misura.
Secondo la Corte «il quadro normativo,
costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale
dell’effettiva parità tra i due sessi nella CEDAW che impone alla
Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una
piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del
Paese. Preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle
assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui
requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali,
i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche
volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente
sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed
elettorale.».
Quadro normativo
Nell’ordinamento italiano si rinvengono
diverse norme, sia nazionali che regionali, finalizzate alla promozione della
partecipazione delle donne alla politica e dell’accesso alle cariche elettive,
emanate in attuazione dei già richiamati articoli 51, primo comma, e 117, settimo
comma, Cost.
A livello nazionale
Il decreto-legge sull’abolizione del
finanziamento pubblico diretto ai partiti (D.L. 28 dicembre 2013, n. 149, conv.
dalla L. n. 13/2014) disciplina i requisiti di trasparenza e democraticità
richiesti ai partiti per accedere alle nuove forme di contribuzione previste (‘due
per mille’ sulla base delle scelte espresse dai cittadini e agevolazioni
fiscali sulle liberalità), istituendo a tal fine un apposito registro.
Ai fini dell’iscrizione del registro, la
legge prescrive una serie di requisiti per lo statuto dei partiti, tra i
quali rientra l’indicazione delle "modalità per promuovere, attraverso
azioni positive, l’obiettivo della parità tra i sessi negli organismi
collegiali e per le cariche elettive, in attuazione dell’art. 51 Cost."
(art. 3, comma 2, lett. f).
L’articolo 9 del D.L. n. 149/2013 del
medesimo decreto disciplina espressamente la parità di accesso alle cariche
elettive, sancendo innanzitutto il principio che i partiti politici promuovono
tale parità.
In attuazione di tale principio, sono riprese
e rafforzate due disposizioni contenute nella precedente legislazione sul
finanziamento pubblico ai partiti (L. n. 157/1999, art. 3; L. n. 96/2012, art.
1, comma 7, e art. 9, comma 13).
In primo luogo, per riequilibrare l’accesso
alle candidature nelle elezioni, è prevista la riduzione delle risorse
spettanti a titolo di ‘due per mille’ nel caso in cui, nel numero complessivo
dei candidati presentati da un partito per ciascuna elezione della Camera, del
Senato e del Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento. In particolare, la misura della riduzione è
pari allo 0,5% per ogni punto percentuale al di sotto del 40 per cento, fino al
limite massimo complessivo del 10% (art. 9, comma 2, D.L. n. 149/2013).
In secondo luogo, ai partiti politici che non
abbiano destinato una quota pari ad almeno il 10 per cento delle somme
ad essi spettanti a titolo di ‘due per mille’ ad iniziative volte ad accrescere
la partecipazione attiva delle donne alla politica, la Commissione di
garanzia sui partiti politici applica una sanzione amministrativa pecuniaria
pari a un quinto delle somme ad essi spettanti a titolo di ‘due per mille’.
(art. 9, comma 3).
E’ infine previsto un meccanismo premiale per
i partiti che eleggono candidati di entrambi i sessi. Le risorse derivanti dall’applicazione
delle due disposizioni esaminate confluiscono infatti in un apposito fondo,
annualmente ripartito tra i partiti iscritti nell’apposito registro, per i
quali la percentuale di eletti – e non di semplici candidati - del sesso meno rappresentato
sia pari o superiore al 40 per cento (art. 9, commi 4 e 5).
A livello di legge elettorale nazionale,
non si rinvengono ulteriori specifiche disposizioni, ad eccezione di una norma
di principio, contenuta della legge elettorale del Senato, secondo cui il
sistema elettorale deve favorire "l’equilibrio della rappresentanza tra
donne e uomini" (D.Lgs. n. 533/1993, art. 2 ).
Nell’attuale legislatura, è stato
approvato il nuovo sistema elettorale della Camera dei deputati (cd.
Italicum) con la legge n. 52 del 2015 (art. 1, comma 1, lett. b) e c), e art.
2, comma 10, lett. c) e d)), che detta alcune norme in favore della
rappresentanza di genere.
Il nuovo sistema elettorale prevede un premio
di maggioranza assegnato al partito che supera la soglia di sbarramento del 40
per cento. Il territorio nazionale è diviso in circoscrizioni, corrispondenti
alle regioni, in cui i seggi sono attribuiti in collegi plurinominali di
piccole dimensioni (da tre a nove seggi), sulla base di liste, composte da un
candidato capolista (che è "bloccato") e da un elenco di candidati
per i quali si possono esprimere una o due preferenze.
Esso introduce, a pena di inammissibilità, un
obbligo di rappresentanza paritaria dei due sessi nel complesso delle
candidature circoscrizionali di ciascuna lista (quindi, a livello regionale) e
prevede che, nella successione interna delle singole liste nei collegi, i
candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere. Inoltre è
stabilito, a pena di inammissibilità della lista, che nel numero complessivo
dei capolista nei collegi di ogni circoscrizione non può esservi più del 60 per
cento di candidati dello stesso sesso. Infine, è introdotta la c.d. doppia
preferenza di genere, ossia, in caso di espressione della seconda preferenza, l’elettore
deve scegliere un candidato di sesso diverso rispetto al primo, a pena di
nullità della seconda preferenza.
Per le elezioni del Parlamento europeo,
la legge 22 aprile 2014, n. 65, ha introdotto nella legge elettorale europea
disposizioni volte a rafforzare la rappresentanza di genere.
In considerazione del ravvicinato svolgimento
delle elezioni europee (già indette per il 25 maggio), la legge reca una
disciplina transitoria destinata ad applicarsi solo nelle elezioni del 2014 ed
una più incisiva disciplina a regime che troverà applicazione a partire dalle elezioni
del 2019.
In particolare la legge ha introdotto, limitatamente
alle elezioni europee del 2014, la cd. ‘tripla preferenza di
genere’, prevedendo che, nel caso in cui l’elettore decida di esprimere tre
preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l’annullamento
della terza preferenza.
Per quanto riguardala disciplina a regime,
destinata ad applicarsi dal 2019, viene prevista:
la composizione paritaria delle liste dei
candidati, disponendosi che, all’atto della presentazione della lista, i
candidati dello stesso sesso non possono essere superiori alla metà, a pena di
inammissibilità; inoltre, i primi due candidati devono essere di sesso diverso;
la ‘tripla preferenza di genere’, con
una disciplina più incisiva rispetto a quella prevista in via transitoria per
il 2014: le preferenze devono infatti riguardare candidati di sesso diverso non
solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due preferenze. In caso
di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, la seconda
preferenza viene annullata; in caso di espressione di tre preferenze, sono annullate
sia la seconda che la terza preferenza.
Sono poi disciplinate le verifiche dell’ufficio
elettorale al fine di garantire il rispetto delle disposizioni sull’equilibrio
di genere nelle liste, assicurando al tempo stesso, ove possibile, la conservazione
della lista.
Nel caso in cui risulti violata la
disposizione sulla presenza paritaria di candidati nelle liste, l’ufficio
elettorale procede dunque alla cancellazione dei candidati del sesso sovrarappresentato,
partendo dall’ultimo, fino ad assicurare l’equilibrio richiesto. Se, all’esito della
cancellazione, nella lista rimane un numero di candidati inferiore al minimo
prescritto dalla legge, la lista è ricusata e non può conseguentemente
partecipare alle elezioni.
Nel caso in cui risulti violata la
disposizione sull’alternanza di genere tra i primi due candidati, l’ufficio
elettorale modifica la lista, collocando dopo il primo candidato quello successivo
di genere diverso.
Dalla modifica costituzionale dell’articolo
51 discendono anche le norme inserite nella legge finanziaria 2008, che,
disponendo in tema di organizzazione del Governo, stabiliscono che la
sua composizione deve essere coerente con il principio costituzionale
delle pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche
elettive (art. 1, commi 376-377, L. 244/2007).
La legge n. 215/2012, modificando la legge
sulla par condicio, ha infine introdotto una disposizione di principio,
secondo cui i mezzi di informazione, nell’ambito delle trasmissioni per la
comunicazione politica, sono tenuti al rispetto dei principi di pari opportunità
tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione.
A livello comunale
Di grande rilevanza è stata l’approvazione,
sul finire della XVI legislatura, della legge 23 novembre 2012, n. 215,
recante disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di
genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.
Per l’elezione dei consigli comunali, nei
comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la legge, riprendendo
un modello già sperimentato dalla legge elettorale della Regione Campania,
contempla una duplice misura volta ad assicurare il riequilibrio di Elezioni europee
la previsione della cd. quota di lista:
nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in
misura superiore a due terzi. E’ previsto l’arrotondamento all’unità superiore
per il genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a
0,5;
l’introduzione della cd. doppia preferenza
di genere, che consente all’elettore di esprimere due preferenze (anziché
una, come previsto dalla normativa previgente) purché riguardanti candidati di
sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza. Resta comunque
ferma la possibilità di esprimere una singola preferenza.
In caso di violazione delle disposizioni
sulla quota di lista, peraltro, è previsto un meccanismo sanzionatorio
differenziato, a seconda che la popolazione superi o meno i 15.000 abitanti,
che di fatto rende la quota effettivamente vincolante solo nei comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti.
In particolare, nei comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato
rispetto della quota, riduce la lista, cancellando i candidati del genere più
rappresentato, partendo dall’ultimo, fino ad assicurare il rispetto della
quota; la lista che, dopo le cancellazioni, contiene un numero di
candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge è ricusata e, dunque, decade.
Nei comuni con popolazione compresa fra
5.000 e 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato
rispetto della quota, procede anche in tal caso alla cancellazione dei
candidati del genere sovrarappresentato partendo dall’ultimo; la riduzione
della lista non può però determinare un numero di candidati inferiore al minimo
prescritto dalla legge. Ne deriva che l’impossibilità di rispettare la quota non
comporta la decadenza della lista.
Per i comuni con popolazione inferiore a
15.000 abitanti è comunque previsto che nelle liste dei candidati è assicurata
la rappresentanza di entrambi i sessi. Tale disposizione ha particolare
rilievo per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, nei
quali non si applica la quota di lista.
La disposizione sulla presenza di entrambi i
sessi nelle liste risulta peraltro priva di sanzione.
Le disposizioni per l’elezione dei consigli
dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti volte a garantire la
parità di accesso di donne e uomini alle cariche elettive si applicano anche
alle elezioni dei consigli circoscrizionali, secondo le disposizioni dei
relativi statuti comunali.
Per gli esecutivi, la legge n.
215/2012 prevede inoltre che il sindaco nomina la giunta nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi
i sessi. Uguale disposizione è inserita nell’ordinamento di Roma capitale, per quanto
riguarda la nomina della Giunta capitolina.
Anche la legge n. 56/2014 è intervenuta su
questo punto introducendo una disposizione più incisiva: nelle giunte
comunali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico; sono esclusi dall’ambito
di applicazione della norma i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti.
La legge n. 215/2012 ha inoltre modificato la
norma che disciplina il contenuto degli statuti comunali e provinciali con
riferimento alle pari opportunità. In particolare, è previsto che gli statuti
stabiliscono norme per "garantire" - e non più semplicemente
"promuovere" - la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e
negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia,
nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
A livello di città metropolitane e province
La legge 7 aprile 2014, n. 56, sull’istituzione
delle Città metropolitane ed il riordino delle province ha eliminato
l’elezione diretta dei consigli provinciali.
I consigli metropolitani (organi delle
nuove città metropolitane) ed i consigli provinciali divengono organi
elettivi di secondo grado; l’elettorato attivo e passivo spetta ai sindaci ed ai
consiglieri comunali dei rispetti territori.
L’elezione di questi due organi avviene con
modalità parzialmente differenti, che comunque prevedono l’espressione di un
voto di preferenza e la ponderazione del voto (in base ad un indice rapportato
alla popolazione complessiva della fascia demografica di appartenenza del
comune).
Ai fini di promuovere la rappresentanza di
genere, nelle liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
superiore al 60 per cento, con arrotondamento all’unità superiore per i candidati
del sesso meno rappresentato, a pena di inammissibilità.
Tale disposizione troverà peraltro
applicazione decorsi 5 anni dall’entrata in vigore della legge n. 215/2012,
sulle rappresentanze di genere negli organi elettivi degli enti locali e quindi,
di fatto, dalle elezioni del 2018 (art. 1, commi 27-28 e commi 71-72).
Non è prevista la possibilità della doppia
preferenza di genere, in quanto ritenuta incompatibile con il sistema del voto
ponderato.
Non è inoltre più prevista la giunta, ma un
altro organo assembleare (consiglio metropolitano nelle città metropolitane e
assemblea dei sindaci nelle province), composto da tutti i sindaci del
territorio.
Agli statuti di città metropolitane e
province sono inoltre applicabili le già esaminate disposizioni volte a
garantire le pari opportunità negli organi collegiali non elettivi (si v. supra).
A livello regionale
Dopo la modifica degli articoli 122 e 123
della Costituzione, che ha dato avvio al processo di elaborazione di nuovi
statuti regionali e di leggi per l’elezione dei consigli nelle regioni a statuto
ordinario, tutte le regioni che hanno adottato norme in materia
elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche per favorire la parità
di accesso alle cariche elettive, in attuazione dell’art. 117, settimo
comma, Cost.
Nelle regioni che non hanno adottato una
propria legge elettorale – è questo il caso delle regioni Liguria, Molise e
Piemonte - il sistema elettorale è disciplinato dalla normativa nazionale,
costituita da un complesso di norme il cui nucleo fondamentale sono la legge n.
108/1968; la legge n. 43/1995, l’articolo 5 della legge costituzionale n.
1/1999 ed infine la legge n. 165/2004, che stabilisce i principi cui sottostà
la potestà legislativa della regione in materia elettorale.
Nelle fonti richiamate non si rinvengono
disposizioni specifiche sulla garanzia della parità di genere (al di là dei
principi sanciti nella L. n. 165/2004, rafforzati dalle recenti disposizioni
della L. n. 20/2016, su cui si v. infra). La normativa nazionale si applica
anche nella regione Basilicata, le cui uniche disposizioni in materia
elettorale sono state dichiarate illegittime della Corte costituzionale.
Le misure sono diverse e sono prevalentemente
incentrate sulle cosiddette ‘quote di lista’, ossia sull’obbligo di inserire
nelle liste di candidati una quota minima di candidati del genere meno
rappresentato, variabile tra un terzo e la metà. Le quote di lista sono
applicate in sistemi elettorali proporzionali, con premio di maggioranza e con
voto di preferenza. Alcune regioni hanno messo a punto uno strumento ulteriore,
ossia la ‘doppia preferenza di genere’, misura adottata per la prima volta
dalla regione Campania e successivamente ripresa dalla legge elettorale per i
comuni e da altre leggi elettorali regionali.
Nel dettaglio, le regioni Campania (L.R.
4/2009, art. 10, comma 2) e Lazio (L.R. 2/2005, art. 3, comma 2) pongono
il limite di due terzi alla presenza di candidati di ciascun sesso in ogni
lista provinciale o circoscrizionale, con arrotondamento all’unità più vicina.
La regione Marche (L.R. 27/2004, art. 9, comma 6), invece, individua il
limite minimo, per cui nessuno dei due generi può essere rappresentato in
misura inferiore ad un terzo dei candidati presentati, con
arrotondamento all’unità superiore in caso di decimale.
Per le regioni Abruzzo (L.R. 9/2013,
art. 1, comma 4), Puglia (L.R. 2/2005, art. 8, comma 13) e Umbria (L.R.
4/2015, art. 9), la nuova disciplina elettorale dispone che in ogni lista
circoscrizionale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
superiore al 60% dei candidati. In caso di quoziente frazionario si
procede all’arrotondamento all’unità più vicina (Abruzzo e Puglia) ovvero all’arrotondamento
all’unità superiore per il genere sottorappresentato (Umbria).
Nelle regioni Lombardia (L.R. 17/2012,
art. 1, comma 11) e Toscana (L.R. 51/2014, art. 8, comma 6) si prevede,
invece, che le liste devono essere composte seguendo l’ordine dell’alternanza
di genere.
Le regioni Veneto (L.R. 5/2012, art.
13, comma 6) ed Emilia Romagna (L.R. 21/2014, art. 8) dispongono che in
ogni lista provinciale o circoscrizionale i rappresentanti di ciascun genere
devono essere presenti in misura eguale, se il numero dei candidati è
pari. Nel caso in cui il numero dei candidati sia dispari, invece, ciascun
genere deve essere rappresentato in numero non superiore di una unità rispetto
all’altro. Solo la regione Veneto prevede anche l’ordine alternato di genere
nella composizione della lista.
Nelle liste regionali (tra le regioni citate,
presenti solo nella regione Lazio; si tratta del cd. ‘listino’) i
candidati di entrambi i sessi devono essere invece in numero pari; nella
regione Toscana, inoltre, in relazione alle candidature regionali, queste
devono essere distintamente indicate rispetto alle candidature circoscrizionali
ed elencate in ordine alternato di genere (art. 8, co. 5). Meno cogente la
prescrizione della regione Calabria (L.R. 1/2005, art. 1, co. 6) per la
quale nelle liste elettorali (provinciali e regionali) devono essere presenti
candidati di entrambi i sessi.
Nella maggioranza dei casi l’inosservanza
del limite è causa di inammissibilità della lista; nelle regioni Lazio e
Puglia, invece, è causa di riduzione dei rimborsi elettorali.
Oltre alla presentazione delle liste, le
leggi delle regioni Campania (L.R. 4/2009, art. 4, comma 3), Toscana (L.R.
51/2014, art. 14, comma 3), Emilia Romagna (L.R. 21/2014, art. 10, comma
2) ed Umbria (L.R. 4/2015, art. 13) hanno introdotto nel rispettivo
sistema elettorale disposizioni sul principio della c.d. doppia preferenza
di genere. La legge regionale, in questi casi, prevede la possibilità per l’elettore
di esprimere uno o due voti di preferenza, prescrivendo che nel caso di
espressione di due preferenze, esse devono riguardare candidati di genere
diverso della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza.
La legge della regione Campania,
infine, contiene disposizioni sulla rappresentanza di genere nella campagna
elettorale, in base alle quali i soggetti politici devono assicurare la presenza
paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di comunicazione
politica e nei messaggi autogestiti (L.R. 4/2009, art. 10, comma 4).
Per quanto concerne le regioni a statuto
speciale e le province autonome, anch’esse hanno adottato norme in materia
elettorale, tra cui disposizioni per favorire l’accesso alle cariche elettive
di entrambi i sessi, come disposto dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001,
n. 2, relativa all’elezione diretta dei Presidenti delle regioni a statuto
speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano.
Le disposizioni sono diversificate, tutte
contengono obblighi nella presentazione delle liste:
per la regione Valle d’Aosta, in ogni
lista di candidati all’elezione del Consiglio regionale ogni genere non può
essere rappresentato in misura inferiore al 20 per cento, arrotondato all’unità
superiore (art. 3-bis, L.R. 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R.
22/2007); in sede di esame e ammissione delle liste, l’Ufficio elettorale regionale
riduce al limite prescritto quelle contenenti un numero di candidati
superioreal numero massimo prescritto, cancellando gli ultimi nomi; dichiara
non valide le liste che non corrispondano alle predette condizioni (art. 9, comma
1, L.R. 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007);
per la regione Friuli-Venezia Giulia ogni
lista circoscrizionale deve contenere, a pena di esclusione, non più del 60 per
cento di candidati dello stesso genere; nelle liste i nomi dei candidati sono
alternati per genere fino all’esaurimento del genere meno rappresentato; al
fine di promuovere le pari opportunità, la legge statutaria prevede inoltre
forme di incentivazione o penalizzazione nel riparto delle risorse spettanti ai
gruppi consiliari (è considerato ‘sottorappresentato’ quello dei due generi
che, in Consiglio, è rappresentato da meno di un terzo dei componenti) e
disposizioni sulla campagna elettorale. I soggetti politici devono assicurare
la presenza paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di
comunicazione politica offerti dalle emittenti radiotelevisive pubbliche e
private e, per quanto riguarda i messaggi autogestiti previsti dalla vigente
normativa sulle campagne elettorali, devono mettere inrisalto con pari evidenza
la presenza dei candidati di entrambi i generi nelle liste presentate dal
soggetto politico che realizza il messaggio. (artt. 23, comma 2 e 32, L.R. 17/2007);
nella Regione siciliana, tutti i
candidati di ogni lista regionale dopo il capolista devono essere inseriti
secondo un criterio di alternanza tra uomini e donne; una lista provinciale non
può includere un numero di candidati dello stesso sesso superiore a due terzi
del numero dei candidati da eleggere nel collegio (art. 14, comma 1, L.R. 29/1951,
come modificato dalla L.R. 7/2005);
nella Provincia autonoma di Trento, in
ciascuna lista di candidati – a pena di inammissibilità - nessuno dei due
generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi del numero dei
candidati della lista, con eventuale arrotondamento all’unità superiore (art.
25 co. 6-bis e art. 30 co. 1 L.P. 2/2003 come modificata dalla L.P. 8/2008).
Nella Regione Sardegna, la legge
regionale statutaria n. 1 del 2013 stabilisce che in Regioni a statuto speciale
ciascuna lista circoscrizionale – a pena di esclusione - ciascuno dei due
generi non può essere rappresentato in misura superiore ai 2/3 dei candidati,
con arrotondamento all’unità superiore (Legge regionale statutaria n. 1/2013,
art. 4); l’elettore esprime un voto di preferenza;
nella Provincia autonoma di Bolzano,
in ciascuna lista di candidati nessuno dei due generi può essere rappresentato
in misura superiore a due terzi del numero dei candidati della lista, con
eventuale arrotondamento all’unità più prossima; nella lista in cui non venga
rispettata tale quota, sono cancellati i nominativi dei candidati che eccedono
la quota prevista, a partire dall’ultima candidata/dall’ultimo candidato del genere
che eccede la quota (art. 1, commi 13 e 15, L.P. 4/2003, come modificati dall’art.
1, commi 5 e 7, L.P. 8 maggio 2013, n. 5); non ci sono norme, invece,
concernenti la preferenza di genere (l’elettore
può esprimere fino a 4 preferenze, D.P.G.R. 29-1-1987 n. 2/L, art. 49).
Per un quadro di sintesi, si rinvia alla tabella
delle norme regionali e della presenza delle donne nei consigli regionali.
Per rafforzare le garanzie di parità nella
rappresentanza regionale, nella legislatura in corso il Parlamento ha approvato
la legge 15 febbraio 2016, n. 20, che introduce, tra i principi fondamentali in
base ai quali le Regioni sono tenute a disciplinare con legge il sistema
elettorale regionale, l’adozione di specifiche misure per la promozione
delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche
elettive.
A tal fine, si modifica la legge n. 165/2004,
che - in attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione - reca
per l’appunto i principi fondamentali concernenti il sistema di elezione
e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti
della giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali. Con le modifiche introdotte,
la legge nazionale non si limita a prevedere tra i principi, come stabilito
finora, la "promozione della parità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche
elettive attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare
l’accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive", ma indica
anche le specifiche misure adottabili, declinandole sulla base dei
diversi sistemi elettorali per la scelta della rappresentanza dei consigli
regionali.
Al riguardo, la legge prevede tre ipotesi:
1. Liste con preferenze: qualora la
legge elettorale regionale preveda l’espressione di preferenze, sono previsti
due meccanismi per promuovere la rappresentanza di genere:
a) quota di lista del 40 per cento (in
ciascuna lista i candidati di uno stesso sesso non devono eccedere il 60 per
cento del totale); b) preferenza di genere (deve essere assicurata l’espressione
di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso.
In caso contrario, le preferenze successive alla prima sono annullate).
2. Liste ‘bloccate’: nel caso in cui
la legge elettorale regionale preveda le liste senza espressione di preferenze,
deve essere prevista l’alternanza tra candidati di sesso diverso, in modo tale
che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale.
3. Collegi uninominali: nel caso in
cui il sistema elettorale regionale preveda collegi uninominali, nell’ambito
delle candidature presentate con il medesimo simbolo i candidati di un sesso
non devono eccedere il 60 per cento del totale.
Nell’ambito dell’occupazione femminile, la legislazione italiana è intervenuta, in particolar modo, in due direzioni: sono state introdotte, infatti, alcune misure volte a favorire, da una parte, l’assunzione di donne o la conservazione, per le stesse, del posto di lavoro (attraverso, ad esempio, il riconoscimento di sgravi contributivi, del diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo determinato ed indeterminato alla lavoratrice madre, nonché il contrasto delle cd. dimissioni in bianco), dall’altra, la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.
Di seguito, le principali misure.
Incentivi all’occupazione femminile
Sgravi
contributivi
La legge di riforma del mercato del lavoro (cd. Riforma Fornero) introduce un primo incentivo consistente nella riduzione, nella misura del 50%, dei contributi a carico del datore di lavoro (per un massimo di 12 mesi per assunzioni a tempo determinato e di 18 mesi per quelle a tempo indeterminato) per assunzione di donne prive di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, se residenti in regioni svantaggiate, o da almeno 24 mesi, ovunque residenti.
Inoltre, per favorire il rientro al lavoro dopo la gravidanza (in via sperimentale fino al 2018), si riconosce alla madre lavoratrice (dipendente, pubblica o privata, o autonoma), al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, la corresponsione di voucher (pari a 600 euro mensili) per l’acquisto di servizi di babysitting, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati, da richiedere al datore di lavoro.
Diritto
di precedenza
Il D.Lgs. 81/2015 (attuativo della legge delega in materia di lavoro 183/2014, cd. Jobs act) stabilisce che, per le lavoratrici, il congedo di maternità, usufruito nell’esecuzione di un contratto a tempo determinato presso lo stesso datore di lavoro, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile (superiore a sei mesi) a conseguire il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.
Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto, alle stesse condizioni di cui sopra, il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.
Dimissioni in bianco
Per contrastare la pratica (riguardante prevalentemente le lavoratrici) delle cd. dimissioni "in bianco", consistente nel far firmare le dimissioni al lavoratore al momento dell’assunzione (in bianco, appunto) e quindi nel momento in cui la sua posizione è più debole, il decreto legislativo n.151/2015 (attuativo del Jobs act) modifica la disciplina delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, prevedendo che le dimissioni sono valide solo se redatte in modalità telematica su appositi moduli, resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Come disposto recentemente dal primo decreto correttivo del Jobs act (D.Lgs. 185/2016) la procedura prevista per le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro non si applica ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001).
Conciliazione vita-lavoro
Il D.Lgs. 80/2015 (attuativo del D.Lgs. 183/2014, cd. Jobs act) contiene misure dirette, in particolare, alla tutela della maternità e a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali.
Tra le principali novità introdotte viene ampliato l’ambito temporale di applicazione del congedo di maternità in caso di parto anticipato e di ricovero del neonato; il congedo di paternità è riconosciuto anche se la madre è una lavoratrice autonoma; il congedo parentale viene esteso dall’ottavo al dodicesimo anno di vita del bambino e la fruizione può essere anche su base oraria; l’indennità di maternità viene corrisposta anche alle lavoratrici iscritte alla Gestione separata INPS anche nel caso di mancato versamento dei contributi da parte del committente.
Nelle misure volte a favorire la conciliazione vita-lavoro rientra anche quanto previsto dall’articolo 8, comma 7, del D.Lgs. 81/2015 (attuativo del D.Lgs. 183/2014, cd. Jobs act), secondo cui Il lavoratore può chiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale od entro i limiti del congedo ancora spettante, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento; il datore di lavoro è tenuto a dar corso alla trasformazione entro quindici giorni dalla richiesta.
Anche la legge delega di Riforma della P.A. (L. 124/2015) ha introdotto alcune disposizioni volte a favorire la conciliazione tra vita e lavoro.
In particolare, in tema di passaggio di personale tra amministrazioni diverse, dispone
§ che il genitore, dipendente di amministrazioni pubbliche, con figli minori fino a tre anni di età può chiedere di essere assegnato (a detrminate condizioni) ad una sede presente nella stessa provincia o regione nella quale lavora l’altro genitore. L’eventuale dissenso deve essere motivato.
In tema di cure parentali, dispone che le amministrazioni pubbliche:
§ adottino misure organizzative per l’attuazione del telelavoro e stipulino convenzioni con asili nido e scuole dell’infanzia e organizzino servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica
Ulteriori misure
Violenza di genere
Il decreto legislativo
80/2015 (attuativo del D.Lgs. 183/2014, cd. Jobs act) ha introdotto il congedo per le
donne vittime di violenza di genere, riconoscendo
alle lavoratrici dipendenti, pubbliche e private (con esclusione del lavoro
domestico) e alle lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa, inserite in percorsi certificati di protezione relativi alla
violenza di genere, la possibilità di astenersi dal lavoro (per motivi legati
al suddetto percorso) per un periodo massimo di tre mesi.
Da ultimo, la legge di bilancio per il 2017 ha
esteso il diritto di usufruire del predetto congedo anche alle lavoratrici
autonome vittime di violenza di genere, sempre per un periodo massimo di tre
mesi, con diritto a percepire una indennità giornaliera dell’80 per cento del
salario minimo.
Welfare aziendale
La legge di Stabilità 2016 ha reintrodotto, in via permanente, una tassazione sostitutiva per i premi di produttività e per le somme erogate a titolo di partecipazione agli utili dell’azienda, prevedendo anche, al fine di dare impulso allo sviluppo del welfare aziendale, la possibilità di convertire i premi in denaro in prestazioni di welfare aziendale (servizi di assistenza ad anziani, servizi di istruzione, ecc.) esclusi dall’imposizione IRPEF.
Si ricorda che il periodo di congedo di maternità viene computato ai fini dei premi di produttività.
La legge di bilancio per il 2017 ha confermato e rafforzato, sotto taluni aspetti, il predetto welfare aziendale.
Dati sulla partecipazione delle donne al
mercato del lavoro
(Fonte: ISTAT - Rapporto annuale 2016, dati su 2015)
“Cresce la partecipazione femminile al mercato del lavoro: il tasso di attività femminile passa dal 31,0 del 1976 al 45,9 del 1996 fino al 54,1 per cento del 2015, anche se resta ancora lontano dai livelli di attività maschili. Il lavoro diventa sempre più una componente importante della vita delle donne, che influisce sui percorsi di vita e sulle scelte riproduttive: non più solamente mogli e madri, ma protagoniste della vita economica e sociale. Basti pensare che il numero di donne che al momento del matrimonio sono in condizione non professionale cade vertiginosamente nel quarantennio, assestandosi nel 2014 al 18,0 per cento, con una diminuzione, rispetto al passato, del peso percentuale delle casalinghe.”
“Nella media dei paesi Ue l’incremento del tasso di occupazione nel corso dell’ultimo anno interessa sia gli uomini (0,7) sia le donne (0,9). Tuttavia, rispetto al 2008, mentre per le donne l’indicatore cresce di 1,5 punti percentuali, raggiungendo il 60,4 per cento, per gli uomini il tasso di occupazione (70,8 per cento) non raggiunge il livello pre-crisi (-1,8 punti percentuali). Pertanto, tra il 2008 e il 2015 nei tassi di occupazione si riduce il divario di genere, che scende a 10,4 punti (dai 13,7 del 2008). In alcuni paesi le distanze restano elevate: è il caso dell’Italia, dove il tasso d’occupazione maschile è del 65,5 per cento e quello femminile del 47,2 per cento, con un divario di 18,3 punti percentuali nel 2015.”[5]
“In Italia nel 2015 la crescita dell’occupazione ha riguardato soprattutto gli uomini, che nel corso della crisi avevano subito le maggiori perdite di occupazione. Il numero di occupati uomini aumenta dell’1,1 per cento tra il 2014 e il 2015, ma rimane comunque più basso di 736 mila unità rispetto al 2008; le donne occupate, aumentate dello 0,5 per cento nell’ultimo anno, superano di 110 mila unità il numero di sette anni prima. La crescita contenuta del tasso di occupazione femminile (47,2 per cento nel 2015) non è in grado di ridurre il divario dalla media Ue (60,4 per cento), che è anzi aumentato dal 2008 di 1,5 punti. L’incremento del tasso di occupazione delle donne interessa prevalentemente le regioni del Centro e del Mezzogiorno, mentre quello maschile è diffuso sul territorio.”
“La lettura degli andamenti di occupazione e disoccupazione tra il 1993 e il 2015 per classi quinquennali restituisce un panorama caratterizzato dalla forte riduzione di occupazione tra i giovanissimi, dall’incremento dell’occupazione femminile, soprattutto tra le adulte di 35-49 anni, dal ridimensionamento della componente maschile tra gli adulti e dall’incremento di occupazione tra le persone di 50 anni e più. Contestualmente, la disoccupazione è cresciuta soprattutto tra i giovani fino a 29 anni nella recente crisi 2008-2014 […] Tra il 1993 e il 2015, tra le persone di 25-29 anni, a fronte di un calo di oltre venti punti percentuali del tasso di occupazione maschile, quello femminile, comunque più basso, scende di soli 3,9 punti. La dinamica si differenzia ulteriormente nelle classi più adulte. Dai trent’anni in su, infatti, l’occupazione femminile aumenta rispetto all’inizio degli anni Novanta, mentre quella maschile continua a diminuire fino ai 50 anni.”
“Anche il tasso di disoccupazione è stato caratterizzato da fasi alterne di crescita e contrazione. Tra 1993 e 1998 l’indicatore cresce dal 9,8 all’11,3 per cento, poi cala nei successivi dieci anni toccando il minimo del 6,1 per cento nel 2007 e risale, a partire dal 2008, raggiungendo il 12,7 per cento nel 2014. Nell’ultimo anno scende all’11,9 per cento. In tutto il periodo il tasso aumenta di 4,2 punti per la componente maschile (dal 7,2 all’11,4[6] per cento), mentre diminuisce di 1,3 punti per quella femminile (dal 14,0 al 12,7[7] per cento). Tra gli uomini l’indicatore aumenta in tutte le classi di età, mentre tra le donne diminuisce per le ultraquarantanovenni e cresce per le altre classi.”
La
risoluzione 1325 (2000) e il Piano d’azione nazionale italiano
Il 31
ottobre 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità
la risoluzione 1325 su donne, pace e sicurezza, primo
documento del Consiglio che menziona esplicitamente l’impatto dei conflitti armati sulle donne e sottolinea il
contributo femminile per la risoluzione dei conflitti e per la costruzione di
una pace durevole.
La
risoluzione, considerata “madre” di risoluzioni ONU successive dal contenuto
più specifico (per le quali si veda più
avanti), delinea un sistema ampio di obiettivi a garanzia della
prevenzione, della partecipazione e protezione delle donne nei contesti di
conflitto (paradigma delle 3”P”), focalizzando tre elementi:
1.
le donne
ed i fanciulli rappresentano i gruppi più colpiti dai conflitti armati;
2.
le donne
svolgono un ruolo imprescindibile sia nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, sia nelle attività di
ricostruzione della pace;
3.
gli
Stati membri dell’Onu sono invitati ad assicurare una più ampia partecipazione
delle donne a tutti i livelli decisionali, con particolare riferimento ai
meccanismi di prevenzione, gestione e risoluzione del conflitto.
Il
principio ispiratore della risoluzione - la “tolleranza zero” rispetto a tali forme di violenza che violano le
norme internazionali e costituiscono comportamenti di rilievo penale - si
applica ai militari, alle parti in conflitto nonché al personale militare e
civile dell’Onu responsabile di abusi sessuali nelle aree di conflitto.
A
fronte dell’ampiezza del mandato della
risoluzione 1325 e della mancanza di indicazioni precettive in ordine all’attuazione
delle sue disposizioni, e mentre si continuavano a registrare numerosi casi
di violenza sessuale nelle aree di conflitto armato e post conflitto, il
Consiglio di Sicurezza ha previsto, nel Presidential
Statement del 28 ottobre 2004, la
possibilità che gli Stati membri proseguissero sulla strada dell’attuazione
della Risoluzione 1325 anche attraverso l’adozione di “National Action Plans”.
In
Italia, in particolare, nel dicembre 2010 è stato adottato il primo Piano di Azione Nazionale
2010-2013 e, nel novembre 2014, il secondo
Piano Nazionale dell’Italia su
“Donne Pace e Sicurezza”, relativo al periodo 2014-2016; come esplicitamente previsto
nel secondo Piano, il Governo ha presentato nel marzo 2015, un Progress
Report.
Il terzo Piano d’Azione nazionale dell’Italia in attuazione della Risoluzione del Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite 1325(2000) per gli anni 2016-2019 ha
visto la luce nel dicembre 2016.
Nella
prefazione del documento viene sottolineato come il Governo italiano attribuisca
la massima importanza al ruolo delle donne per la trasformazione della società,
asse centrale della Risoluzione 1325; si conferma, altresì, l’importanza attribuita
dal nostro Paese alla prevenzione di tutte le forme di discriminazione e
violenza contro le donne, restando inteso che eguaglianza di genere ed empowerment femminile sono essenziali, a
livello sia internazionale sia nazionale, per la prevenzione di tutte le forme
di violenza (quali la violenza domestica, la violenza sessuale quale arma e/o
tattica di guerra e nel contesto delle c.d. mass
atrocities).
Il
Piano si focalizza con particolare attenzione sulla situazione delle donne e
delle minori in situazioni di conflitto e post-conflitto come pure negli Stati
fragili, in quanto sopravvissute alla violenza e, soprattutto, quali “agenti
per il cambiamento”.
Ai fini
di una efficace attuazione del Piano si conferma l’approccio multi-stakeholder,
integrato e olistico, che prevede il pieno coinvolgimento delle Organizzazioni
della società civile, del mondo accademico, delle ONG, del settore privato e
delle organizzazioni sindacali, già adottato nei precedenti Piani nazionali.
Si rammenta che l’articolo 1, comma 3 della
legge 145/2016 (Disposizioni concernenti la partecipazione dell’Italia alle missioni
internazionali) prevede che
nell’ambito della partecipazione dell’Italia
alle missioni internazionali siano
adottate iniziative volte
ad attuare la risoluzione 1325
(2000) e le successive risoluzioni
1820 (2008), 1888 (2009), 1889 (2009), 1960 (2010), 2106 (2013) e 2122
(2013) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nonché il
Piano d’azione nazionale su «Donne, pace e sicurezza 2014-2016» e i piani
successivi.
Quanto
al contenuto, il Piano d’Azione Nazionale assicura l’inserimento della prospettiva di genere in tutte le aree
politiche riguardanti la pace nonché la sua adozione nelle misure pratiche
volte alla promozione e protezione della pace.
Gli obiettivi finali delle azioni
intraprese nella cornice del Piano sono:
1. riduzione
l’impatto dei conflitti su donne e minori, e promozione della loro
partecipazione efficace e trasformativa nei processi di prevenzione,
mitigazione e risoluzione del conflitto, così come nei processi decisionali a tutti
i livelli;
2. sensibilizzazione
e rafforzamento delle strutture esistenti, con riguardo all’Agenda Donne, Pace
e Sicurezza e alle questioni ad essa connesse.
Dal
punto di vista metodologico il Piano
è stato elaborato da un gruppo di lavoro
nazionale, interministeriale e partecipativo, aperto, guidato dal CIDU
(Comitato interministeriale per i diritti umani) che ha svolto numerosi
incontri che hanno visto coinvolti i relevant
stakeholders, ivi comprese le Organizzazioni della società civile, il mondo
accademico, le ONG, e gli altri attori istituzionali di settore. Specifica
attenzione è stata dedicata ai settori della cultura e della comunicazione.
Piano d’Azione
Nazionale – che per quanto abbia contenuto strategico è concepito anche come
work in progress oggetto
di ulteriori integrazioni nel triennio a venire - è organizzato intorno a 7 obiettivi (goals) rispetto ai quali si precisano impegni (commitments), azioni, attori ed indicatori per la valutazione dell’efficacia
e/o del risultato.
Di
seguito i 7 obiettivi:
Ø rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi decisionali;
Ø continuare a promuovere la prospettiva di genere nelle operazioni di pace;
Ø continuare ad assicurare una formazione specifica sui vari aspetti trasversali della Risoluzione 1325(2000), in particolare per il personale che partecipa alle operazioni di pace;
Ø valorizzare ulteriormente la presenza delle donne nelle Forze Armate e nelle Forze di Polizia nazionali, rafforzando il loro ruolo nei processi decisionali relativi alle missioni di pace;
Ø proteggere i diritti umani delle donne e delle minori in aree di conflitto e post-conflitto;
Ø accrescere le sinergie con la società civile, per implementare la Risoluzione 1325(2000);
Ø comunicazione strategica e result-oriented advocacy:
7.1 impegnarsi nella comunicazione strategica
(anche con l’utilizzo dei social media);
7.2 rafforzare la partecipazione italiana nei
forum, conferenze e meccanismi di settore, per sostenere ulteriormente l’attuazione
dell’Agenda Donne, Pace e Sicurezza.
Quanto
alle attività di monitoraggio e valutazione, è prevista la
predisposizione di un progress report
annuale, che sarà preparato dal CIDU in consultazione sia con la società civile,
sia con il Parlamento.
Responsabile dell’attuazione, applicazione e monitoraggio del Piano è
il Gruppo di lavoro aperto guidato dal CIDU. Il Gruppo si riunirà almeno una
volta ogni quattro mesi e fornirà informazioni ai membri del CIDU e che, con
cadenza annuale, rivedrà obiettivi, commitments,
azioni ed indicatori alla luce delle esperienze acquisite, del comprehensive approach dell’Unione
Europea alle tematiche in questione nonché delle questioni di volta in volta
emergenti.
Quanto
alle risorse finanziarie a sostegno
delle attività contemplate dal Piano, si rammenta che il comma 350 dell’articolo
1 della legge di bilancio 2017 (legge 232/2016) autorizza
la spesa di 1 milione di
euro per l’anno
2017 e di 500.000
euro per ciascuno degli anni 2018 e 2019 ai fini della predisposizione ed attuazione
del terzo Piano di azione da adottare in
ottemperanza della risoluzione n. 1325 (2000) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite (S/RES/1325) sulle donne,
la pace e la sicurezza e delle
risoluzioni seguenti, incluse le
azioni di promozione,
monitoraggio e valutazione.
Lo stato di implementazione della
Risoluzione 1325 a livello internazionale è riportato in appositi rapporti del Segretario generale Onu.
L’ultimo
di tali report, S/2016/822 rilasciato
il 29 settembre 2016, oltre a fornire informazioni sulle recenti tendenze e a mettere
in evidenza gli sviluppi ed i risultati più recenti, richiama l’attenzione anche
sulle aree di stagnazione e di regressione. Il rapporto presenta iniziative quali
il nuovo meccanismo istituito in seno al Consiglio di Sicurezza, ossia il Gruppo
informale di esperti sulle donne, la pace e la sicurezza, concepito per
assicurare maggiori flussi di informazioni utili al CdS; il nuovo Global acceleration instrument (GAI) for
women, peace and security and humanitarian action volto a catalizzare nuovi
finanziamenti per gli impegni dell’agenda donne pace e sicurezza, nonché i progressi
a livello nazionale derivanti dall’attuazione dei Piani d’azione nazionali per
l’aumento della leadership femminile nelle istituzioni responsabili per la pace
e la sicurezza.
Global
Acceleration Instrument (GAI) on
Women, Peace, Security and Humanitarian Action è un meccanismo di
finanziamento flessibile e rapido che supporta interventi di qualità per
migliorare la capacità di prevenire i conflitti, rispondere a crisi ed
emergenze, cogliere le opportunità di costruzione della pace ed incoraggiare la
sostenibilità e la titolarità nazionale degli investimenti. GAI migliorerà l’impegno
delle donne in pace e sicurezza e/o azione umanitaria attraverso il superamento
della distinzione tra investimenti destinati allo sviluppo ed investimenti a
sostegno di azioni umanitarie, di pace e di sicurezza attraverso forme di investimento
che coinvolgano la partecipazione femminile. Pertanto almeno il 50% di tutti i
fondi GAI dovrebbero essere assegnati alle organizzazioni della società civile.
Il fondo – che durerà dal febbraio 2016 a fine dicembre 2020 – si avvale di
finanziamenti provenienti dai governi di Australia, Regno Unito, Canada,
Irlanda. Lituania e Liechtenstein per un ammontare complessivo di oltre 6
milioni di dollari. La sua creazione era tra le raccomandazioni del Global study (si veda il box successivo).
Il 25
ottobre 2016, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha svolto il suo dibattito aperto annuale sulle donne, la
pace e la sicurezza, con un focus particolare su come gli Stati membri, le
organizzazioni regionali e le Nazioni Unite hanno dato seguito agli impegni
assunti ed alle raccomandazioni contenute nella precedente revisione (S/2015/716
rilasciato il 16 settembre 2015) nonché al Global Study sull’attuazione della
risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1325 (2000).
Il Global Study Preventing
conflict, transforming justice, securing the peace, che porta la
firma dell’ex Rappresentante speciale per i bambini nei conflitti armati,
Radhika Coomaraswamy affiancata da l’High-Level
Advisory Group, è stato lanciato nell’ottobre 2015. Si tratta di una
ricognizione sui quindici anni di implementazione della risoluzione 1325 del
2000 che ha coinvolto un ampio numero di stakeholders
a livello statale e della società civile a livello mondiale.
Nello studio si prende atto che molto è cambiato da quando il Consiglio
di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1325: la natura del conflitto in alcune
regioni è qualitativamente diversa, il contenuto stesso di ciò che intendiamo
per “pace” e “sicurezza” è in continua evoluzione, ed anche ciò che intendiamo
per “giustizia” si è trasformato. In tale mutato contesto vanno ora collocati i
quattro pilastri della 1325 e delle successive risoluzioni: prevenzione,
protezione, partecipazione, e costruzione della pace e recupero.
Tra i progressi
nell’implementazione della 1325 lo
studio annovera:
- l’adozione da parte della Comunità internazionale di
un quadro normativo completo per quanto riguarda per la violenza sessuale nei
conflitti, rammentando che lo Statuto di Roma del Tribunale penale
internazionale, in vigore dal 2002, delinea un elenco globale dei crimini
contro le donne;
- la comunità internazionale e nazionale i governi
hanno cominciato a comprendere l’importanza della guarigione nazionale e e
delle comunità come una parte della giustizia, con i correlati diritti di
risarcimento;
- l’adozione,
da parte del Committee on the Elimination
of Discrimination against Women di una raccomandazione sulle donne nelle
situazioni legate a conflitti che fornisce una guida dettagliata agli Stati
membri sulle questioni relative alle donne, la pace e la sicurezza ed ai
criteri di responsabilità, chiarendo che l’attuazione della 1325 è
responsabilità di ogni Stato membro;
- la
percentuale degli accordi di pace che fanno esplicito riferimento alle donne è
passata dall’11% del decennio 1990-2000 al 27% nel quindicennio successivo all’adozione
della 1325;
- si è registrato un aumento delle dirigenti donne all’interno
delle Nazioni Unite;
- è stata avviata una politica di aiuti bilaterali
sulla parità di genere a Stati fragili, che per quanto aurorale rappresenta una
notevole novità.
Tuttavia, molti
dei progressi registrati nell’implementazione della Risoluzione 1325 sono fermi
allo stadio iniziale e non raggiungono pertanto il livello standard
auspicabile. Ad esempio, quanto alla violenza
sessuale, nonostante la completezza del quadro normativo, pochissime sono
le azioni penali effettive, soprattutto a livello nazionale; nei processi di pace se si è registrato un
aumento della partecipazione formale delle donne, uno studio specifico di 31
grandi processi tra il 1992 e il 2011 ha rivelato che solo il 9% dei
negoziatori erano donne, una cifra ancor più trascurabile alla luce dell’entità
e ampiezza delle questioni che le vedono coinvolte; la percentuale femminile
del personale militare impiegato nelle missioni Onu è del 3% e con compiti
prevalentemente di supporto: e sono proprio le aree cruciali del peacemaking e del paecekeeping a vedere una persistente sotto rappresentazione
femminile.
Quanto ai Piani d’azione nazionali sono solo 54 i Paesi che li hanno predisposti (e
tra questi, come detto, anche l’Italia); la maggior parte dei Piani sono
peraltro privi sia di meccanismi di accountability
sia di risorse finanziarie a sostegno di una reale implementazione della
1325. L’aumento di estremismo violento in molte parti del mondo non solo
rappresenta una vera e propria minaccia per la vita delle donne, ma le espone
anche ad un ciclo di militarizzazione che spesso le vede in una posizione
ambivalente, tra la necessità di respingere le costrizioni dell’estremismo
violento e quella di proteggere le proprie famiglie e le comunità. Si assiste,
inoltre, al fenomeno delle donne che diventano combattenti unendosi a gruppi
estremistici, talvolta contro la propria volontà ma in molti casi con reale
convinzione. E le donne “peacebuilders”
si trovano spesso ad operare con margini di manovra assai limitati, strette tra
l’estremismo praticato nelle comunità di appartenenza e i vincoli posti al loro
operare dalle politiche antiterrorismo che limitano l’accesso ai fondi ed alle
risorse cruciali.
Sulla base dell’ampia ricognizione qui brevemente
riassunta il Global Study formula raccomandazioni
dettagliate per ciascuna questione, non senza aver evidenziato un set di principi generali, che sono:
1 -
riconoscere che la priorità è la prevenzione dei conflitti e non l’uso della
forza;
2 -
considerare che la Risoluzione 1325 si inserisce nel contesto dei diritti
umani;
3 –
riconoscere che la partecipazione delle donne è la chiave della pace
sostenibile;
4 – i
responsabili devono rendere conto e la giustizia deve essere trasformativa;
5 – approcci
locali e processi inclusivi e partecipativi sono cruciali per il successo degli
sforzi di pace nazionali ed internazionali;
6 - Sostenere
le donne peacebuilders di pace nel
rispetto della loro autonomia è un’ importante modalità di contrasto dell’estremismo;
7 – Stati
membri, Organizzazioni regionali, media, società civile, giovani hanno un ruolo
vitale da svolgere insieme per attuare l’agenda donne, pace e sicurezza;
8 – una lente
di genere deve essere introdotta in ogni aspetto del lavoro del Consiglio di
sicurezza;
9 – è
necessario affrontare la persistente incapacità di finanziare in modo adeguato
l’agenda donne, pace e sicurezza;
10 – una
robusta architettura di genere è essenziale per le Nazioni Unite.
Il Global Study
si conclude con un invito all’azione che
metta al centro il livello locale in
quanto più vicino alle donne. Queste, da ogni continente, hanno chiesto al
Consiglio di sicurezza – che ha un ruolo diretto di supervisione nel
mantenimento della pace – di prendere l’iniziativa di fermare il processo di militarizzazione che ha avuto inizio nel
2001 in un ciclo di conflitti sempre crescente che tende a normalizzare la
violenza ad ogni livello.
Nel suo
rapporto 2015 il Segretario generale ha osservato che dal Global Study, come del resto anche da altre analisi indipendenti
effettuate nel 2015, è emerso che la natura della guerra sta cambiando, essendo
essa caratterizzata da evidenti violazioni dei diritti umani e del diritto
umanitario internazionale, dalla partecipazione di un numero crescente di
attori armati non statali, dalla diffusione dell’estremismo violento e brutale
e di un’ondata di violenza organizzata, che espongono ulteriormente le donne e
le ragazze a ogni genere di sfida, spesso affrontata in solitudine.
Il rapporto,
inoltre, riflette sul ruolo degli attori chiave del sistema delle Nazioni Unite
per affrontare gli ostacoli alla piena attuazione della Risoluzione 1325. Per
quanto riguarda il mantenimento della pace, in cui il Consiglio di sicurezza,
come è noto, ha un ruolo diretto di supervisione, il report sollecita l’integrazione
della prospettiva di genere nei mandati delle missioni – dal che la necessità
di affrontare il tema dello sfruttamento sessuale e degli abusi - e chiede l’integrazione
delle competenze di genere nelle strutture del personale di missione e il
miglioramento dell’equilibrio nella rappresentanza di genere nei contingenti
delle Nazioni Unite.
Le altre risoluzioni Onu su donne, pace e
sicurezza
Sul tema donne, pace e sicurezza il Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato, dopo la 1325 del 2000, altre sei
risoluzioni.
La
prima di tale serie è la risoluzione
1820 adottata all’unanimità il 19 giugno 2008 nella quale si
afferma che la violenza sessuale in
situazioni di conflitto armato può costituire crimine di guerra, crimine contro l’umanità e prefigurare genocidio. L’Italia, membro non
permanente del Consiglio di Sicurezza nel biennio 2007-2008, aveva profuso un
intenso impegno in fase negoziale, con particolare riguardo al riconoscimento
del nesso tra sicurezza internazionale e
violenza sessuale nei casi in cui questa viene impiegata come tattica di
guerra.
La
risoluzione 1820 chiede a tutte le
parti nei conflitti armati di cessare immediatamente e del tutto la violenza
sessuale contro i civili evidenziando che, nonostante le reiterate condanne, la
violenza e l’abuso sessuale di donne e bambini intrappolati in zone di guerra è
praticata con un’ampiezza ed una sistematicità tali da configurare livelli di “spaventosa brutalità”. Il documento,
stabilito che l’utilizzo della violenza
sessuale come tattica di guerra può profondamente esacerbare i conflitti armati
ed impedire il ripristino della pace e della sicurezza internazionale, afferma
che lo stupro e le altre forme di violenza sessuale possono rappresentare crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed anche atti costitutivi di genocidio. Nella premessa, inoltre, il
documento richiama l’inclusione di una serie di offese sessuali nello Statuto
di Roma, atto fondativo della Corte penale internazionale dell’Aja. La risoluzione 1820, che prevede la
possibilità di imporre sanzioni mirate contro fazioni che commettono stupri e
altre forme di violenza contro donne e ragazze, chiedeva al Segretario generale
Onu di dare conto del quadro della situazione e dell’attuazione della
disposizioni in essa contenute entro il 30 giugno 2009, nonché di formulare
proposte volte a “minimizzare la
suscettibilità” delle donne e delle ragazze a tale violenza. Il Segretario
era inoltre richiesto di sviluppare linee guida e strategie efficaci per
migliorare le capacità delle operazioni di peacekeeping
Onu nella protezione dei civili da ogni forma di violenza sessuale.
Una
ulteriore risoluzione, 1960 (2010)
è stata adottata all’unanimità
il 16 dicembre 2010 dal Consiglio di
Sicurezza, il quale ha chiesto alle parti coinvolte in conflitti armati di
assumere specifici impegni ed
indicare precise scadenze della
lotta alla violenza sessuale, sollecitandole sul lato della prevenzione a
proibire tali crimini attraverso la somministrazione di ordini precisi alle catene di comando e l’imposizione di codici di condotta e, sul versante
giudiziario, ad indagare i presunti abusi affidandone tempestivamente alla
giustizia i responsabili. Il Segretario generale è tenuto a monitorare il
perfezionamento di tali impegni nonché, sulla base di una analisi più
approfondita, a favorire una migliore cooperazione tra tutti gli attori Onu
finalizzata a fornire una risposta
sistemica alla questione della violenza sessuale, nel frattempo procedendo
a più nomine femminili tra i protection
advisers delle missioni di peacekeeping.
Con la risoluzione 1888 (2009) il
Consiglio di Sicurezza, tra le misure atte a fornire protezione a donne e
bambini contro la violenza sessuale in situazioni di conflitto chiede al
segretario generale di nominare un rappresentante
speciale sulla violenza sessuale durante i conflitti armati.
L’ufficio del Rappresentante
Speciale ONU per le violenze sessuali in situazioni di conflitto è stato
istituito nell’aprile 2010 e la prima Rappresentante è stata Margot Wallström;
le è succeduta nella carica, dal 22 giugno 2012, Zainab Hawa Bangura, cittadina
della Sierra Leone.
I focal points del mandato della
Rappresentante Speciale sono costituiti dal contrasto all’impunità dei
responsabili, dall’empowerment delle
donne colpite al fine di ristabilire il godimento dei loro diritti, dall’implementazione
di politiche idonee a sostenere un approccio globale alla violenza sessuale,
dall’armonizzazione su scala internazionale della risposta alle violenze e dal
miglioramento della comprensione della violenza sessuale nella sua dimensione
di tattica di guerra. La Rappresentante, inoltre, mette in risalto la necessità
che sia condotta a livello nazionale titolarità, leadership e responsabilità
nel contrasto della violenza sessuale.
Il Rappresentante si avvale anche di un Team
of Experts on the Rule of Law/Sexual Violence in Conflict - TOE impiegato
in presenza di situazioni di particolarmente gravi come strumento di assistenza
per le autorità nazionali nel rafforzamento della rule of law.
Sul contrasto alla violenza sessuale si rammenta anche
la International Campaign to Stop Rape
& Gender Violence in Conflict (http://www.stoprapenow.org/take-action/) promossa da UN Action Against Sexual Violence, coordinamento
di 13 organismi delle Nazioni
Unite finalizzato a porre fine alla violenza sessuale nei conflitti attraverso
in uno sforzo concertato per migliorare il coordinamento e la responsabilità,
ampliare la programmazione e sostenere gli sforzi nazionali per prevenire la
violenza sessuale, rispondendo in modo efficace alle esigenze dei sopravvissuti.
La
successiva risoluzione 1889 (2009) si incentra, in particolare, sul rafforzamento
della partecipazione delle donne nei processi di pace, nonché sullo sviluppo di
indicatori adatti a misurare i progressi nella realizzazione della risoluzione
madre 1325.
La risoluzione 2106 (2013)
adottata all’unanimità il 24 giugno 2013, è specificamente focalizzata sul tema
della violenza sessuale in situazioni di conflitto armato. Il documento
aggiunge ulteriori dettagli operativi alle precedenti risoluzioni sul tema e
ribadisce la necessità di sforzi più intensi da parte di tutti gli attori, non
solo il Consiglio di Sicurezza e le parti di un conflitto armato, ma tutti gli
Stati membri e gli enti delle Nazioni Unite, per l’attuazione dei mandati
promananti dal complesso delle risoluzioni sul tema e per la lotta all’impunità
per questi crimini.
La risoluzione 2122 (2013) (alla quale si è già fatto cenno a proposito
del Global Study) rafforza le misure che consentono alle donne di
partecipare alle varie fasi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, nonché
della ripresa del paese interessato, ponendo agli Stati membri, alle
organizzazioni regionali ed alle stesse Nazioni Unite, l’obbligo di riservare seggi alle donne nei tavoli di
pace; essa, inoltre, riconosce la necessità di una tempestiva informazione
ed analisi dell’impatto dei conflitti armati su donne e ragazze.
La
risoluzione chiede poi ai responsabili delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle
violazioni dei diritti umani e degli abusi di donne nei conflitti armati e
nelle situazioni di post conflitto e richiede alle missioni di peacekeeping di dare risposta alle
minacce della sicurezza delle donne in situazioni di conflitto e post
conflitto. Incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni ad aumentare la
percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di polizia in esse
impiegate. Sottolinea la necessità di continuare gli sforzi per eliminare gli
ostacoli che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in situazioni di
conflitto o post conflitto.
A fine giugno
2016, l’Italia è stata eletta membro non permanente del Consiglio di
Sicurezza per il biennio 2017-18 e, nell’ambito di un accordo con i Paesi
bassi, occuperà il seggio nel 2017, per poi ritirarsi e lasciare il posto all’Aja
(che dovrà a sua volta essere eletta dall’Assemblea generale). |
1. INCONTRI
Il 6 ottobre 2016, la Presidente Boldrini
ha ricevuto a Roma la visita del Segretario generale uscente, Ban-Ki-Moon.
Il 26 luglio 2016 la Presidente Boldrini è
stata ricevuta a New York presso le Nazioni Unite dal Segretario generale , Ban-Ki-Moon, in occasione del suo
viaggio negli USA dal 26 al 29 luglio 2016.
Il 15 ottobre 2015, il Segretario generale
delle Nazioni Unite, Ban-Ki-Moon, ha
tenuto un discorso nell’Aula di Montecitorio, alla presenza del Presidente
della Repubblica Mattarella, dei Presidenti Boldrini e Grasso, in occasione
della cerimonia per la celebrazione del
60mo anniversario dell’adesione dell’Italia alle Nazioni Unite.
Il 1° settembre 2015, in occasione della
quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell’Unione interparlamentare,
svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2
settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario generale delle Nazioni
Unite Jan Kenneth Eliasson.
Il 20 novembre 2014, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento
presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.
Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente
della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a
New York (a latere della seconda riunione del Comitato preparatorio
della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in
rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace,
Hervé Ladsous, e il 18 novembre il
Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.
L’11 novembre 2014, la Presidente
Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma
Alimentare Mondiale.
Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini è
intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l’impatto umano. La prospettiva
dell’UNRWA (Agenzia dell’ONU per l’assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli
operatori dell’informazione".
Il 29 settembre 2014,
la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.
Il 22 settembre 2014, la
Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei
diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila
B. Keetharuth.
La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita
ufficiale negli Stati Uniti d’America dal 20 al 23 maggio 2014, si è recata in
visita, il 22 maggio, presso le
Nazioni Unite, dove ha incontrato
funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.
Il 14 novembre
2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la
Relatrice speciale dell’ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab Hawa Bangura.
Il 24 ottobre
2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno
"Un importante attore per la stabilità della regione", con il Commissario generale dell’Agenzia ONU
per l’assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), Filippo Grandi.
Il 18 settembre
2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la
Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.
Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto
innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di lungo
corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei
deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale
svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della
volontà popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile,
il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La
Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in
Mali e del conflitto in Siria.
LA PARTECIPAZIONE
PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite è la
principale sede di decisione e l’organo più rappresentativo, composto da rappresentanti
di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione
annuale ordinaria dell’Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e
prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano,
invitate, in qualità di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati
membri.
Nelle
precedenti legislature, una delegazione parlamentare di componenti della
Commissione Affari esteri si è recata a New York per ciascuna delle sessioni
annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale
Nella XVII legislatura la Camera dei deputati
ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni:
·
71ma Sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York 19-23 settembre 2016): la
delegazione era composta dal Presidente della Commissione Esteri Fabrizio
Cicchitto (AP, NCD-UDC), dal Vice Presidente Andrea Manciulli (PD) e Gianluca
Pini (Lega Nord), mentre per il Senato hanno partecipato la Vice Presidente
Linda Lanzillotta (PD), il Presidente della Commissione Affari esteri Pier
Ferdinando Casini (AP, NCD-UDC).
·
70ma sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015):
la delegazione era composta dagli onorevoli Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC), Presidente della Commissione Affari
esteri, Andrea Manciulli (PD), Vice
Presidente della Commissione Affari esteri nonché Presidente della delegazione
parlamentare presso l’Assemblea parlamentare della NATO e Manlio Di Stefano (M5S).
·
69ma sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la
delegazione era composta dai deputati Fabrizio
Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice
Presidente della Commissione Esteri e
Andrea Manciulli (PD) Vice
Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea
parlamentare della NATO.
·
68ma sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la
delegazione era composta dai deputati Deborah
Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed
i rapporti con l’Unione europea, Andrea
Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del
Comitato permanente per i diritti umani.
La partecipazione parlamentare alle
principali Conferenze ONU
Sotto l’egida
dell’ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a
migliorare le legislazioni mondiali, tramite l’adozione di Convenzioni, e a
sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni più delicate che l’ONU ha in
agenda. La frequenza e l’importanza di tali appuntamenti sono tali da
coinvolgere l’attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo,
ma anche dei Parlamenti e della
società civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di
associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell’Unione
Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali
iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine
delle Conferenze. La Camera partecipa
regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite
sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni
annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Società dell’informazione.
a) La Commissione sullo status delle donne (CSW)
La Commissione sullo status delle donne (CSW) è stata istituita dal Consiglio
Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC)
con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946,
come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito
principale della Commissione, il cui mandato è stato esteso nel 1987
(risoluzione ECOSOC 1987/22), è quello di elaborare rapporti e fornire
raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo
politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta,
inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti
che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.
La
Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea
Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne.
A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica
della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha
quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma
stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le
raccomandazioni necessarie per accelerarne l’attuazione[8].
Ogni
anno, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare il punto sui
progressi riguardanti la parità di genere, per individuare le sfide future, per
stabilire gli standard globali e per formulare politiche concrete di promozione
della parità di genere e dell’avanzamento delle donne in generale.
La
Commissione si riunisce annualmente per un periodo di dieci giorni di lavoro, alla fine di febbraio – inizio marzo.
Nella XVII
legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alle seguenti sessioni:
1.
alla 60ma Sessione, svoltasi dal 14 al
24 marzo 2016 con una delegazione composta dalle deputate Tiziana Ciprini (M5S), componente del
Comitato per le pari opportunità e Pia
Elda Locatelli (Misto-PSI,PLI), Presidente del Comitato diritti umani della
Commissione affari esteri; la
giornata parlamentare UIP si è tenuta il 15
marzo ed è stata dedicata al tema: ”The
power of legislation for women’s empowerment and sustainable development”.
2.
alla 59ma Sessione svoltasi dal 9 al
20 marzo 2015 con una delegazione composta dalle deputate Lorena Milanato (FI-PdL),
componente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli
obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all’Unione
interparlamentare,
3.
alla 58ma Sessione svoltasi a New
York dal 10 al 14 marzo 2014 con una
delegazione composta dalle deputate Valeria
Valente (PD), Presidente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI),
componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del
Gruppo italiano all’Unione interparlamentare;
La prossima sessione è in programma sempre a New York
dal 13 al 24 marzo 2017.
b) La
Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici
La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui
Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de
Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli
equilibri climatici della concentrazione in atmosfera dell’anidride carbonica.
Più recentemente, nel 1997, è stato approvato un Accordo
aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto. Esso è significativo
perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche procedure per ridurre
le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente vincolanti per i paesi
che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto
stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra
(anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi,
perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).
Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze
delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni
parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo si
riuniscono per monitorare i progressi e valutare il percorso
da seguire per l’attuazione della Convenzione. Il Segretariato dell’UNFCCC
supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo di cambiamento climatico,
in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L’Italia
ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di
Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.
Nella XVII
legislatura
1. L’ultima sessione, la XXII Conferenza delle Parti (COP22), si è svolta a Marrakech, in Marocco, dal 7 al 18 novembre 2016 e l’high level segment si è tenuto dal 14 al 18 novembre. Il 13 novembre ha avuto luogo un incontro parlamentare organizzato congiuntamente dall’Unione Interparlamentare e dal Parlamento del Marocco. Ai lavori hanno partecipato i deputati Ermete Realacci (PD), Massimo Felice De Rosa (M5S) ed Enrico Borghi (PD), rispettivamente Presidente, Vicepresidente e componente della Commissione Ambiente.
2. La XXI Sessione della Conferenza delle Parti (COP21) si è tenuta a Parigi dal 6 al 12 dicembre 2015. Vi hanno preso parte i deputati Gugliemo Epifani (PD), Presidente della Commissione Attività Produttive, Ermete Realacci (PD) Presidente della Commissione Ambiente, Serena Pellegrino (SI-SEL) Mirko Busto (M5S), Stella Bianchi (PD) e Chiara Braga (PD).
3.
La XX Sessione della Conferenza delle Parti (COP20)
si è tenuta a Lima, dal 6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i
deputati Mirko Busto (M5S)
e Stella Bianchi (PD), entrambi
componenti della Commissione Ambiente.
4. La XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) si è tenuta a Varsavia dal 18 al 23 novembre 2013. Vi hanno preso parte il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione Ambiente.
c)
Società dell’informazione
(World Summit on the Information Society – WSIS)
Il Vertice
Mondiale sulla società dell’informazione, organizzato dalle Nazioni Unite
fra il 2003 e il 2005 ha avuto un grande effetto di traino su tutte le
iniziative in corso a livello mondiale mirate a favorire uno sviluppo più equo
ed inclusivo delle tecnologie informatiche.
La prima sessione del World Summit si è
svolta a Ginevra dal 10 al 12 dicembre 2003, mentre la seconda ha avuto
luogo a Tunisi dal 16 al 18 novembre 2005. In ambedue le fasi era
presente una delegazione della Camera dei deputati. L’Unione interparlamentare
ha organizzato una riunione-dibattito sui temi oggetto del Vertice.
A
seguito dei Vertici di Ginevra, a Tunisi le Nazioni Unite si sono fatte
promotrici di una iniziativa volta, tra l’altro, a promuovere una “Carta dei
diritti della rete Internet”. Tale iniziativa, denominata Internet
Governance Forum, ha tenuto le seguenti riunioni: la prima ad Atene (30
ottobre-2 novembre 2006), la seconda a Rio de Janeiro, in Brasile, dal
12 al 15 novembre 2007 e la terza a Hyderabad,
dal 3 al 6 dicembre 2008. La quarta riunione ha avuto luogo a Sharm El Sheikh, in Egitto, dal 15 al 18 novembre 2009 e la quinta a
Vilnius, in Lituania, dal 14 al 17 settembre 2010. La sesta riunione
si è tenuta a Nairobi dal 27 al 30 settembre 2011, mentre la settima si è svolta a Baku dal 6 al 9
novembre 2012.
A
questi eventi non è stato designato a partecipare alcun deputato.
L’autonomia (empowerment)
economica delle donne
nel mondo del lavoro che cambia
1.
La Commissione sullo status delle donne riafferma la Dichiarazione e
la Piattaforma d’azione di Pechino, i documenti conclusivi della XXIIIª
sessione speciale dell’Assemblea generale e le dichiarazioni adottate dalla
Commissione in occasione del decimo, quindicesimo e ventesimo anniversario
della IVª Conferenza mondiale sulle donne. (cfr. CSW 60 AC, par. 1)
2.
La Commissione ribadisce che la Convenzione sull’eliminazione di ogni
forma di discriminazione nei confronti delle donne e il Protocollo opzionale
alla Convenzione, così come le altre convenzioni e trattati pertinenti,
forniscono un quadro giuridico internazionale e un insieme completo di misure
per realizzare la parità di genere e l’autonomia (empowerment) delle donne e delle ragazze e il pieno e paritario godimento di tutti i
diritti umani e libertà fondamentali da parte di tutte le donne e ragazze lungo
tutto l’arco della loro vita. (cfr. CSW60 AC, par. 2) La Commissione
conferma l’importanza delle pertinenti Convenzioni dell’Organizzazione
internazionale del lavoro (ILO) per la realizzazione del diritto al lavoro e
dei diritti sul lavoro delle donne. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 1)
3.
La Commissione ribadisce gli impegni a favore della parità di genere e
dell’autonomia di tutte le donne e ragazze, assunti in occasione dei pertinenti
vertici e conferenze delle Nazioni Unite. (cfr. CSW60 AC, par. 4) La
Commissione plaude al contributo del Gruppo ad alto livello del Segretario
generale sull’autonomia economica delle donne. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 4)
4.
La Commissione sottolinea che l’autonomia economica delle donne è
essenziale per la piena, efficace e rapida attuazione della Dichiarazione e
della Piattaforma d’azione di Pechino e per l’attuazione attenta alla
dimensione di genere dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. (cfr.
E/CN.6/2017/3, par. 2, 46)
5.
La Commissione sottolinea che l’autonomia economica delle donne, ivi
compreso il diritto delle donne a un lavoro dignitoso e a un’occupazione piena
e produttiva, è un mezzo decisivo per attuare l’Obiettivo di sviluppo
sostenibile (SDG) n. 5 relativo al raggiungimento della parità di genere e
dell’autonomia di tutte le donne e ragazze. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 2)
6.
La Commissione afferma che il raggiungimento di tutti i traguardi
dell’Obiettivo n. 5 - ossia: porre fine a tutte le forme di discriminazione nei
confronti di tutte le donne e ragazze ovunque nel mondo; eliminare tutte le
forme di violenza nei confronti di tutte le donne e ragazze nella sfera
pubblica e privata, compresi la tratta e lo sfruttamento sessuale e di altro
tipo; eliminare tutte le pratiche lesive, quali il matrimonio infantile,
precoce e forzato e le mutilazioni genitali femminili; riconoscere e
valorizzare il lavoro di cura e domestico non retribuito attraverso la
fornitura di servizi pubblici, infrastrutture e politiche di protezione sociale
e la promozione della responsabilità condivisa all’interno della casa e della
famiglia in modo adeguato ai singoli Paesi; garantire alle donne la piena ed
effettiva partecipazione e pari opportunità di accesso alla leadership a tutti
i livelli decisionali della vita politica, economica e pubblica; garantire
l’accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti
riproduttivi come convenuto in conformità al Programma d’azione della
Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo, alla Piattaforma d’azione
di Pechino e ai documenti conclusivi delle loro conferenze di revisione -
costituisce il presupposto determinante dell’autonomia economica delle donne
nel mondo del lavoro che cambia. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 2, e SDG 5)
7.
La Commissione riconosce che le diseguaglianze di genere sui mercati
del lavoro e nel mondo lavorativo persistono in tutto il mondo. Essa riconosce
inoltre che il ritmo e la portata della trasformazione verso il conseguimento
dell’autonomia economica delle donne nel mondo del lavoro che cambia è stato
inaccettabilmente lento e ha impedito la realizzazione del pieno potenziale
delle donne e dei loro diritti umani. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 9, 46 e
47)
8.
La Commissione esprime la sua preoccupazione specialmente per il
perpetuarsi di considerevoli divari di genere in materia di partecipazione alla
forza lavoro e alla leadership, salario, reddito, pensione, segregazione
occupazionale, norme sociali e cultura lavorativa, disparità delle condizioni
di lavoro e quota di lavoro domestico e di cura gravante sulle donne, disparità
nella protezione sociale e crescente informalità e precarietà dell’occupazione
femminile (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 6, 9, 15)
9.
La Commissione riconosce altresì che le barriere strutturali
all’autonomia economica delle donne possono essere accentuate da forme multiple
e interconnesse di diseguaglianza e discriminazione in ambito privato e
pubblico, e che tali barriere sono esacerbate nelle situazioni di conflitto e
post-conflitto, di crisi dei profughi e umanitarie, come pure dalla disabilità.
(cfr. E/CN.6/2017/3, par. 9 e 10)
10.
La Commissione afferma inoltre che l’accelerazione della
trasformazione del mondo del lavoro e un significativo rafforzamento
dell’ambiente propizio all’autonomia economica delle donne contribuiranno al
conseguimento di una crescita economica esponenziale, alla fine della povertà
in tutte le sue forme ovunque e a garantire il benessere di tutti, senza
lasciare indietro nessuna donna nel mondo del lavoro che cambia. (cfr.
E/CN.6/2017/3, par. 46 e 47)
11.
La Commissione ricorda di aver prescelto “l’autonomia delle donne
indigene” quale tema speciale per la sua LXIª sessione. Richiama inoltre il suo
programma di lavoro pluriennale per il 2016-2019, in base al quale esaminerà
“Sfide e opportunità nel conseguimento della parità di genere e dell’autonomia
delle donne e delle ragazze rurali” quale tema prioritario della sua LXIIª
sessione. (cfr. E/RES/2016/3)
12.
La Commissione ritiene che, per trasformare il mondo del lavoro a
beneficio delle donne, sia essenziale: rafforzare i quadri normativi e giuridici
miranti alla piena occupazione e a un lavoro dignitoso per tutte le donne;
attuare politiche economiche e sociali per l’autonomia economica delle donne;
affrontare la crescita del lavoro informale e della mobilità delle donne
lavoratrici; gestire il cambiamento tecnologico e digitale a beneficio
dell’autonomia economica delle donne; rafforzare la voce collettiva, la
leadership e il peso decisionale delle donne; rafforzare il ruolo del settore
privato nell’autonomia economica delle donne. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 47 e
intestazioni al par. 49)
13.
La Commissione sprona i Governi, le pertinenti entità del sistema
delle Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali e regionali, le
organizzazioni delle donne e altre organizzazioni della società civile e il
settore privato a intraprendere le seguenti azioni a livello nazionale,
regionale e globale:
Rafforzare i quadri normativi e giuridici a favore della piena
occupazione e di un lavoro dignitoso per tutte le donne
(a) conseguire la ratifica universale senza
riserve e la piena attuazione della Convenzione sull’eliminazione di tutte le
forme di discriminazione nei confronti delle donne e delle pertinenti
convenzioni e raccomandazioni dell’ILO; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (a))
(b) rafforzare le leggi e i quadri normativi
che vietano la discriminazione nei confronti delle donne riguardo all’ingresso
nel mercato del lavoro e alle condizioni contrattuali dell’impiego, e rendere
disponibili vie di ricorso in caso d’inosservanza; (cfr. E/CN.6/2017/3, par.
49 (c))
(c) rafforzare e applicare leggi e politiche
sulle condizioni di lavoro che vietino la discriminazione nell’assunzione,
mantenimento e promozione delle donne nel settore pubblico e nel privato, e
rendere disponibili vie di ricorso in caso d’inosservanza; (E/CN.6/2017/3,
par. 49 (d))
(d) intraprendere riforme legislative e
amministrative che garantiscano la parità di accesso delle donne alle risorse e
fattori produttivi e alla proprietà e controllo degli stessi, quali la terra e
altri tipi di patrimonio, risorse finanziarie, eredità, risorse naturali e
tecnologie dell’informazione e della comunicazione; (E/CN.6/2017/3, par. 49
(f))
(e) eliminare la segregazione occupazionale
ponendo mano alle norme sociali discriminatorie e favorendo la partecipazione
paritaria delle donne ai mercati del lavoro, all’istruzione e alla formazione,
e spronare le donne a diversificare le loro scelte occupazionali optando per
posti di lavoro nei settori emergenti e nei comparti economici in crescita; (cfr.
E/CN.6/2017/3, par. 49 (e))
(f) emanare e applicare leggi e regolamenti
che sostengano il principio del salario uguale per un lavoro di uguale valore,
in conformità con le norme internazionali del lavoro come la Convenzione ILO
sull’uguaglianza di retribuzione, 1951, (n. 100), e rendere disponibili vie di
ricorso; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (m))
(g) ratificare e attuare la Convenzione ILO
sulle lavoratrici e i lavoratori domestici, 2011 (n. 189), ed emanare e
applicare leggi e regolamenti che diano effetto alla Convenzione ILO sulla
protezione della maternità, 2000 (n. 183) e alla Convenzione ILO sui lavoratori
con responsabilità familiari, 1981 (n. 156), e alle altre Convenzioni dell’ILO
attinenti alla realizzazione del diritto delle donne al lavoro e dei diritti
delle donne sul lavoro; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 1, 49 (p) e par. 49 (t))
(h) rafforzare e applicare leggi e politiche
volte a eliminare la violenza e le molestie nei confronti delle donne nei
luoghi di lavoro e sostenere l’elaborazione di uno strumento ILO che fornisca
una norma internazionale per affrontare la violenza e le molestie nei confronti
delle donne nel mondo del lavoro; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (g))
(i) prendere misure specifiche per far sì
che le donne che subiscono forme molteplici e interconnesse di diseguaglianza,
discriminazione ed emarginazione abbiano pari opportunità di lavoro dignitoso e
di buona qualità nel settore pubblico e nel privato; (cfr. E/CN.6/2017/3,
par. 49 (h))
Attuare politiche economiche e sociali per l’autonomia economica delle
donne
(j) attuare politiche e riforme
macroeconomiche per la creazione di posti di lavoro e la promozione
dell’occupazione piena, paritaria e produttiva e del lavoro dignitoso delle
donne e verificare il loro impatto; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (i))
(k) creare
posti di lavoro dignitosi e di buona qualità per le donne nell’economia della
cura, sia nel settore pubblico che nel privato; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49
(k))
(l) ampliare, modificandone l’ordine di
priorità, la spesa fiscale destinata alla protezione sociale e alle
infrastrutture di cura, quali l’educazione della prima infanzia e l’assistenza
sanitaria come mezzi per porre rimedio al divario retributivo dovuto alla
maternità; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (l))
(m) stabilire livelli universali di protezione
sociale di base, in linea con la Raccomandazione ILO sui sistemi di protezione
sociale di base, 2012 (No. 202), nell’ambito dei sistemi di protezione sociale
nazionali, così da garantire l’accesso alla protezione sociale per tutti,
compresi i lavoratori che sono fuori dall’economia formale, e raggiungere
gradualmente livelli di protezione più elevati in linea con le norme di
sicurezza sociale dell’ILO; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (o))
(n) fare in modo che tanto le donne quanto
gli uomini abbiano accesso alle indennità di congedo di maternità o parentale e
non siano oggetto di discriminazione qualora fruiscano di tali prestazioni;
(cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (p))
(o) prendere misure mirate per riconoscere,
ridurre e ridistribuire l’onere sproporzionato di cura e lavoro domestico non
retribuiti gravante sulle donne mediante la flessibilità dei regimi di lavoro,
senza ridurre le tutele lavorative e sociali, e la fornitura di infrastrutture,
tecnologie e servizi pubblici, quali strutture per l’infanzia e l’assistenza in
generale accessibili e di qualità per i figli e le altre persone dipendenti;
(E/CN.6/2017/3, par. 49 (q))
(p) misurare e incorporare sistematicamente
il valore della cura e del lavoro domestico non retribuiti nel calcolo del PIL
e nella formulazione delle politiche economiche e sociali; (E/CN.6/2017/3,
par. 49 (r))
(q) rendere prioritari l’ingresso e la progressione
professionale delle donne giovani nei mercati del lavoro garantendo l’accesso
all’istruzione e alla formazione tecnico-professionale ed eliminando la
barriera che le ragazze e donne si
trovano ad affrontare nel passaggio dalla scuola al lavoro; (E/CN.6/2017/3,
par. 49 (s))
Affrontare l’informalità del lavoro e la mobilità crescenti delle
donne lavoratrici
(r) rendere l’occupazione informale delle
donne nel lavoro domestico, nel lavoro a domicilio e nelle piccole e medie
imprese, nonché in altre forme di lavoro autonomo e a tempo parziale, più
sostenibile economicamente estendendo la protezione sociale e il salario minimo
vitale, e favorendo il passaggio all’occupazione formale in linea con la
Raccomandazione ILO sulla transizione dall’economia informale verso l’economia
formale, 2015 (No. 204); (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (t))
(s) adottare politiche migratorie nazionali
che siano attente alla dimensione di genere, proteggano i diritti del lavoro e
favoriscano ambienti di lavoro sani e sicuri per le lavoratrici migranti,
regolamentare il ruolo degli intermediari e dei procacciatori di personale
privati nell’ambito della migrazione e applicare le leggi contro la tratta;
(E/CN.6/2017/3, par. 49 (u))
(t) rafforzare le sinergie fra migrazione e
sviluppo a livello internazionale garantendo politiche migratorie sicure,
ordinate e costanti nel tempo che tutelino i diritti umani delle donne nel
quadro dell’attuazione della Dichiarazione di New York per i rifugiati e i
migranti (risoluzione 71/1dell’Assemblea generale); (E/CN.6/2017/3, par. 49
(v))
(u) migliorare la raccolta e l’analisi dei
dati sull’economia informale, disaggregati
per sesso, reddito, età, razza, etnia, status migratorio, disabilità,
collocazione geografica e altri fattori pertinenti, facendo uso della
definizione ILO di informalità; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (w))
Gestire il cambiamento tecnologico e digitale a beneficio
dell’autonomia economica delle donne
(v) sostenere l’accesso delle donne, in
particolare delle giovani, alle capacità e alla formazione nei settori nuovi ed
emergenti, specie la scienza, la tecnologia, l’istruzione ingegneristica e
matematica e la padronanza digitale ampliando la gamma delle opportunità
d’istruzione e formazione; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (x))
(w) garantire l’accesso universale alle capacità,
alla conoscenza, alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione
facendo sì che siano economicamente, geograficamente, linguisticamente e
virtualmente accessibili alle donne lavoratrici, come pure un maggiore accesso
delle donne alla banda larga e alla telefonia mobile; (E/CN.6/2017/3, par.
49 (y))
(x) favorire il cambiamento delle tecnologie
produttive a sostegno di posti di lavoro dignitosi e di buona qualità nel
settore pubblico e privato per le donne nell’economia verde, specie nel
comparto della mitigazione del cambiamento climatico e dell’adattamento al
medesimo; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (z))
Rafforzare la voce collettiva, la leadership e il peso decisionale
delle donne
(y) porre in atto politiche e misure
specifiche per garantire la parità nella rappresentanza e nella leadership per
le donne all’interno delle strutture e istituzioni preposte alle decisioni
economiche, nonché delle imprese e dei consigli d’amministrazione; (Cfr.
E/CN.6/2017/3, par. 49 (n))
(z) tutelare i diritti alla libertà di
associazione e alla contrattazione collettiva per porre le donne lavoratrici,
comprese le lavoratrici informali e migranti, in condizione di organizzarsi,
aderire al sindacato e partecipare all’assunzione delle decisioni economiche e
all’elaborazione delle politiche per il mondo del lavoro; (E/CN.6/2017/3,
par. 49 (aa))
(aa) sostenere la collaborazione tripartita fra i
Governi, i datori di lavoro e le lavoratrici e le loro organizzazioni per
prevenire e correggere le diseguaglianze di genere nel mondo del lavoro;
(E/CN.6/2017/3, par. 49 (bb))
(bb) favorire e sostenere la leadership delle donne
nel sindacato e nelle organizzazioni dei lavoratori e sollecitare tutti i
dirigenti sindacali a rappresentare efficacemente gli interessi delle
lavoratrici; (E/CN.6/2017/3, par. 49 (cc))
Rafforzare il ruolo del settore privato nell’autonomia economica delle
donne
(cc) istituire e rafforzare meccanismi di conformità
che rendano il settore privato responsabile dell’avanzamento della parità di
genere e dell’autonomia economica delle donne, secondo quanto definito nei
Principi per l’autonomia delle donne stabiliti dall’Entità delle Nazioni Unite
per la parità di genere e l’autonomia femminile (UN-Women) e dal Global
Compact; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (dd), CSW60 AC, par. (h))
(dd) aumentare la quota di transazioni commerciali e
forniture operate da imprese, cooperative e gruppi di auto-aiuto femminili nel
settore pubblico e nel privato; (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (ee))
(ee) procedere a un’analisi sistematica e attenta
alla dimensione di genere della catena del valore, così da informare la progettazione
e l’attuazione di politiche che promuovano e proteggano i diritti e la dignità
del lavoro delle donne nelle catene globali del valore. (E/CN.6/2017/3, par.
49 (ff))
14.
La Commissione esorta i Governi a integrare queste azioni a
favore dell’autonomia economica delle donne nel mondo del lavoro che cambia in
strategie, politiche e piani d’azione nazionali per lo sviluppo
sostenibile, l’eliminazione della povertà e settoriali a tutti i
livelli. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49 (b), CSW 60 AC, par. 25)
15.
La Commissione esorta i Governi a potenziare le capacità, le risorse e
l’autorevolezza dei meccanismi nazionali per la parità di genere affinché
possano sostenere e verificare l’attuazione di tali iniziative e collaborare
efficacemente, nell’attuazione delle stesse, con tutte le istituzioni nazionali
e locali pertinenti, compresi gli enti preposti alle relazioni di lavoro. (cfr.
E/CN.6/2017/3, par. 49 (b), CSW 60 AC, par. 24 e 25)
16.
La Commissione esorta i Governi e tutti gli altri soggetti interessati
a incrementare e massimizzare in misura significativa i finanziamenti mirati,
così da accelerare il conseguimento dell’autonomia
economica delle donne nel mondo del
lavoro che cambia a tutti i livelli, attraverso ogni fonte di sostegno
economico pubblica e privata, risorse
interne e assistenza ufficiale allo sviluppo. (cfr. E/CN.6/2017/3, par. 49
(j))
17.
La Commissione incita uomini e ragazzi a prendere parte attiva e
impegnarsi a fondo quali agenti e beneficiari del cambiamento nella
realizzazione dell’autonomia economica femminile nel mondo del lavoro che
cambia. (cfr. CSW(AC) par. 22)
18.
La Commissione esorta il sistema delle Nazioni Unite, e specialmente UN-Women e l’Organizzazione
internazionale del lavoro a sostenere, nell’ambito dei rispettivi mandati, l’attuazione
delle presenti Conclusioni comuni e l’attuazione attenta alla dimensione di
genere dell’Agenda 2030. Invita UN-Women
a continuare a svolgere un ruolo centrale nella promozione della parità di
genere e dell’autonomia di donne e ragazze, nell’appoggio agli Stati membri su
loro richiesta, nel coordinamento del sistema delle Nazioni Unite e nella
mobilitazione della società civile, del settore privato e degli altri soggetti
interessati, a tutti i livelli, a sostegno della piena, effettiva e rapida attuazione
della Dichiarazione e della Piattaforma d’azione di Pechino e dell’Agenda 2030.
(cfr. E/CN.6/2017/3, par. 48, e CSW60 AC, par. 28)
19.
La Commissione invita tutti i soggetti interessati a mettere in campo
sforzi e investimenti straordinari, energici e costanti e a prendere
misure specifiche per accelerare l’attuazione e compiere progressi
misurabili in materia di autonomia economica, diritto al lavoro, diritti sul
lavoro e diritto a un’occupazione piena e produttiva delle donne entro il 2020,
quale traguardo sul percorso verso la realizzazione attenta alla dimensione di
genere dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, oltre che per
celebrare il venticinquesimo anniversario della IVª Conferenza mondiale
sulle donne.
[1] Per un approfondimento sulla storia della CSW e sui risultati raggiunti negli ultimi decenni si rimanda all’Approfondimento dell’Osservatorio parlamentare curato dal Cespi nel 2012.
[2] Per maggiori dettagli sulle iniziative l'anno 2017, si rinvia al Dossier n. 50/DE ("Il programma dell'Unione europea per il 2017"), realizzato dal Servizio studi del Senato della Repubblica assieme all'Ufficio rapporti con l'Unione europea della Camera dei deputati.
[3] "LGBTIQ" è acronimo di "Lesbians, gay, Bisexual, Transgender, Intersex, Questioning". La Conferenza della Presidenza maltese sarà finalizzata ad approfondire il piano d'azione della Commissione europea (si vedano, in proposito, la lista di azioni per fare avanzare l'eguaglianza della comunità LGBTI e lanciato la campagna "We all share the same dreams".
[4] Per approfondire, si veda la Nota breve del Servizio studi del Senato n. 153
[5] I dati riportati nel Rapporto annuale ISTAT 2016 si riferiscono al 2015. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT “Dati occupati e disoccupati mensili”, ad agosto 2016 il tasso di occupazione femminile (15-64 anni) è del 48%, mentre quello maschile (15-64 anni) è del 66,6%, con un divario di 18,6 punti percentuali.
[6] 10,5% ad agosto 2016, secondo l’ultimo rapporto ISTAT “Dati occupati e disoccupati mensili”.
[7] 12,6% ad agosto 2016, secondo l’ultimo rapporto ISTAT “Dati occupati e disoccupati mensili”.
[8] Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due risoluzioni contenenti, rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per attuare la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di Azione.