Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri |
Titolo: | Partecipazione alla LXXI Assemblea generale delle Nazioni Unite - (New York, 19-25 settembre 2016) |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 252 |
Data: | 16/09/2016 |
Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari |
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I
princcosti
XVII
legislatura Partecipazione
alla LXXI Assemblea
generale delle Nazioni Unite (New
York, 19-25 settembre 2016)
|
Servizi
responsabili:
Camera dei deputati
Servizio Studi –
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Documentazione
e ricerche n. 252
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Dossier n. 19
Servizio Studi
Ufficio Ricerche nel settore della politica estera
e della difesa
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ES0520
I N D I C E
L’UNHCR per le donne rifugiate (a cura del
Servizio Affari internazionali del Senato)
Il Soufan
Group (TSG) (a cura del Servizio Affari
internazionali del Senato)
La crisi
libica: cronologia degli ultimi avvenimenti (a
cura del Servizio Studi della Camera)
I recenti sviluppi della guerra civile libica
e del conflitto siriano di Stefania Azzolina e Marco Di Liddo
del Centro Studi Internazionali (CeSI)
Tra
resistenza e riforma: il processo di selezione del Segretario Generale
La selezione del Segretario Generale è
regolata dall’art. 97 dello Statuto delle Nazioni Unite, che stabilisce che “Il
Segretario Generale è nominato dall’Assemblea Generale su proposta del
Consiglio di Sicurezza”. Tale atto dell’Assemblea Generale rientra tra quelle
che l’art.18 dello Statuto definisce “altre decisioni”, distinte dalle “decisioni
importanti”; pertanto, tale decisione richiede una maggioranza semplice dei
membri presenti e votanti[2]. In sede di Consiglio di Sicurezza, invece,
la decisione necessita del voto favorevole di nove membri, “nel quale siano
compresi i voti dei membri permanenti” (art.27.3). Il candidato al ruolo di
Segretario Generale deve pertanto riscontrare il favore dei cinque paesi che
siedono in maniera permanente nel Consiglio di sicurezza e che godono di
diritto di veto sulle decisioni dello stesso: Francia, Cina, Regno Unito,
Russia, Stati Uniti.
Il processo di selezione del Segretario
Generale è ulteriormente regolamentato dalla Risoluzione 11/I dell’Assemblea,
adottata nel 1946, nella quale si riconosce di fatto la preminenza del
Consiglio di sicurezza: si definisce “desiderabile” il fatto che il Consiglio
fornisca all’Assemblea un solo nome, rendendo dunque il suo operato una mera
ratifica, e si auspica che in sede di Assemblea si eviti di dibattere della
nomina. A questo scopo, si raccomanda che tanto la discussione quanto la nomina
effettiva avvengano in incontri privati e che la stessa votazione avvenga a
scrutinio segreto[3].
Nella stessa risoluzione viene definita la
durata del mandato del Segretario Generale, cinque anni, rinnovabile per
ulteriori cinque anni, con la possibilità per Consiglio e Assemblea di decidere
diversamente qualora se ne presenti l’esigenza.
La preminenza del Consiglio e la prassi da
parte di quest’ultimo di fornire all’Assemblea un solo candidato per la mera
ratifica non è mai stata messa in discussione tranne che in un’occasione, nel
1950. In quell’occasione, l’impossibilità di ricomporre il disaccordo tra
Unione Sovietica e Stati Uniti circa il rinnovo del mandato del norvegese
Trygve Lie portò il Consiglio all’impasse;
l’Assemblea decise dunque in maniera autonoma di estenderne il mandato, per
evitare l’interruzione dei lavori dell’intera Organizzazione delle Nazioni
Unite[4].
Al di là di quel caso, l’Assemblea non ha mai
dato segnali di voler rigettare un candidato proposto dal Consiglio di
Sicurezza. Al contrario, la prassi che si è affermata fin dall’inizio è quella
della “lotta” in Consiglio tra i paesi che ne sono membri permanenti, e che
hanno spesso fatto uso del loro diritto di veto durante scrutini segreti per
opporsi alla nomina di candidati non graditi. Si è dunque affermata la
convinzione che l’elezione del Segretario Generale delle Nazioni Unite sia
prerogativa dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Un’innovazione nel processo di nomina del
Segretario Generale è intervenuta nel 1996, quando gli Stati Uniti comunicarono
che avrebbero posto il veto alla rielezione di Boutros Boutros-Ghali. Per
evitare di far cadere il processo in una nuova impasse, il presidente del Consiglio di Sicurezza propose l’introduzione
di alcune linee guida (linee guida Wisnumurti), che vennero adottate il 12
novembre 1996[5]. Esse introdussero il principio per il quale
membri permanenti e membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza avrebbero
utilizzato schede di colore diverso durante gli scrutini, così come il fatto
che le candidature al ruolo di Segretario Generale avrebbero dovuto essere
ufficialmente presentate dagli stati di provenienza dei candidati. L’introduzione
di queste linee guida permise di dirimere la controversia in Consiglio: a
seguito del veto formale degli Stati Uniti, il Consiglio propose un nuovo
candidato, il ghanese Kofi Annan, che venne approvato all’unanimità dall’Assemblea[6].
Il caso apertosi nel 1996 spinse però l’Assemblea
a prendere coscienza delle numerose limitazioni di cui soffre il processo di
elezione del Segretario Generale, e a promuovere un processo di riforma che
andasse nella direzione di una maggiore trasparenza e di una ripartizione di
poteri più equilibrata tra Assemblea e Consiglio. Nel 1997 l’Assemblea adottò
dunque la Risoluzione 51/241, che avallava il rapporto del gruppo di lavoro sul
rafforzamento del sistema Onu, e che invitava l’Assemblea a fare pieno uso del
potere di nomina del Segretario Generale conferitole dallo Statuto delle
Nazioni Unite[7]. La Risoluzione, inoltre, introduceva il
principio della rotazione per aree geografiche e dell’equilibrio di genere[8]. I due principi, entrambi non vincolanti,
hanno avuto diversa fortuna: mentre il primo è stato finora sempre rispettato,
il secondo non è stato ancora accolto. Dal 1946 a oggi, a esprimere un
Segretario Generale sono stati i gruppi Europa occidentale e altri (Trygve Lie,
Dag Hammarskjöld), Asia-Pacifico (U Thant), ancora Europa occidentale e altri
(Kurt Waldheim), America Latina e Caraibi (Javier Pérez de Cuéllar), Africa
(Boutros Boutros-Ghali, Kofi Annan), ancora Asia-Pacifico (Ban Ki Moon). A non
essere mai stato rappresentato è il blocco dei paesi dell’Europa orientale,
così come grandi assenti finora sono state le donne[9].
Un ulteriore sforzo nella direzione di una
maggiore trasparenza nel processo di selezione del Segretario Generale si è
avuto a partire dal 2015, sulla spinta di alcuni paesi (Spagna, Cile,
Venezuela, Regno Unito), di Ong e di associazioni della società civile (1 for 7
Billion Campaign e The Elders). Al processo sono stati aggiunti alcuni elementi
di riforma, contenuti nella Risoluzione 69/321 dell’11 settembre 2015, che
rendono l’elezione di quest’anno in un certo senso unica[10]. Per la prima volta nella storia delle
Nazioni Unite, i candidati al ruolo di Segretario Generale sono appoggiati e
presentati in maniera ufficiale dagli stati di provenienza e sono invitati a
redigere e presentare un documento (“Vision Statement”) che delinei la visione
del candidato per la futura evoluzione dell’Organizzazione e a partecipare a
incontri informali di dialogo con l’Assemblea Generale in modo tale da
condividere la propria visione circa il futuro sviluppo delle Nazioni Unite.
Come parte di uno sforzo ulteriore di
ribilanciamento dei poteri in favore dell’Assemblea, e dunque di una maggiore
emancipazione dalle logiche politiche del Consiglio di Sicurezza in favore di
una maggiore trasparenza del processo e professionalità della persona chiamata
a ricoprire il ruolo di Segretario Generale, la Risoluzione 69/321 introduce il
principio secondo il quale i candidati devono dimostrare di possedere
“comprovate abilità manageriali e di leadership, ampia esperienza nel settore
delle relazioni internazionali, e doti diplomatiche e comunicative”, oltre a
ribadire il principio dell’equa ripartizione territoriale e della parità di
genere.
I
candidati nel 2016: quale visione per il futuro delle Nazioni Unite?
Il nuovo processo di nomina ufficiale dei
candidati da parte degli stati membri dell’Organizzazione ha portato alla
presentazione di dodici candidature, tra le quali si registra una preponderanza
di paesi dell’Europa orientale (8 su 12) e un numero elevato di candidature
femminili (6 su 12). Al 13 settembre, i candidati ancora in lizza per la
posizione di Segretario Generale sono nove[11]. Di seguito verrà presentato brevemente il
profilo di ciascuno, con particolare enfasi sulla visione relativa allo
sviluppo futuro delle Nazioni Unite contenuta nei documenti programmatici
redatti da ciascuno.
·
Irina Bokova (Bulgaria), attuale Direttrice dell’Unesco. Irina
Bokova ha presentato all’Assemblea Generale un documento programmatico dal
titolo “Peace, Sustainability and Dignity – the new humanism for the world
today”. Come si evince dal titolo del documento, le tre parole chiave sulle
quali Bokova ha tarato la propria candidatura sono “pace”, “sostenibilità” e
“dignità”. Bokova individua nella questione dei rifugiati, nel persistere di
fame, persecuzione e discriminazione, nella violenza estremista e nel
cambiamento climatico alcune fra le principali minacce alla pace e alla
sicurezza internazionali, di fronte alle quali si avverte il bisogno, secondo
Bokova, di “più Nazioni Unite”, vale a dire di un’organizzazione che giochi un
ruolo più forte e incisivo. Citando la propria esperienza di Direttrice
generale dell’Unesco, Bokova afferma di credere nell’istruzione, nella tutela del patrimonio artistico e culturale,
nella difesa dei diritti umani e della parità di genere quali strumenti
prioritari per la prevenzione dei conflitti. “Prevenzione” è un’ulteriore
parola chiave: Bokova auspica infatti un rafforzamento della capacità di
prevenzione dei conflitti da parte delle Nazioni Unite; ciò si traduce in un
maggiore investimento nelle attività diplomatiche e in una revisione delle
attività di peacekeeping. Bokova pone
poi un forte accento sul tema dello sviluppo sostenibile, dichiarando che, se
eletta, agirebbe allo scopo di portare il sistema Onu ad accompagnare i paesi
membri verso la realizzazione degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo
sviluppo sostenibile, rivolgendo particolare attenzione alle Least Developed Countries, ai Small Island Developing States, più
vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico, e alle Middle Income Countries, che necessitano
di assistenza al fine di ridurre le disuguaglianze interne. Infine, per quanto
riguarda lo sviluppo organizzativo del sistema Onu, Bokova afferma di
appoggiare la Risoluzione 69/321 del 2015, che invoca una rivitalizzazione dell’operato
dell’Assemblea Generale, e si dichiara pronta ad agire per rendere il sistema
Onu più “trasparente e vicino alle persone”, obiettivo da raggiungere
attraverso una “razionalizzazione delle risorse e dei processi”.
·
Helen Clark (Nuova Zelanda), ex Primo Ministro della Nuova
Zelanda (1999-2008) e attuale direttrice dello UN Development Programme (Undp).
Il documento presentato da Hellen Clark si intitola “A better, fairer, safer
world”. Partendo dal riconoscimento del fatto che la capacità delle Nazioni
Unite di rispondere in maniera adeguata alle crisi è oggi messa duramente alla
prova, Clark delinea la propria visione per il futuro dell’organizzazione, un’organizzazione
che sia in grado di fare fronte alle principali minacce globali odierne, quali
terrorismo, guerre civili, crisi dei rifugiati, proliferazione nucleare,
mancanza di opportunità economiche e conseguente difficoltà di garantire uno
sviluppo sostenibile. Secondo Clark, le priorità per l’agenda delle Nazioni
Unite sono: mettere fine alla povertà e raggiungere una crescita inclusiva e
sostenibile; proteggere l’ambiente e aumentare la resilienza agli eventi
climatici estremi; garantire la parità di genere e l’empowerment femminile; creare opportunità per i giovani; assicurare
l’imparzialità e l’integrità del sistema Onu. Come dare esecuzione a queste
priorità? Clark auspica un sistema Onu che si focalizzi sui risultati, anziché
sui processi, che si impegni al fine di garantire reale trasparenza al proprio
operato e rispetto a ciò che è in grado o non è in grado di fare, e che investa
nelle persone ai fini della valorizzazione del talento e del capitale umano.
Come Bokova, anche Clark pone l’accento sulla necessità per le Nazioni Unite di
agire in maniera più rapida di fronte alle crisi, lavorando dunque sulle
proprie capacità di crisis management
al fine di proporsi come un partner affidabile per gli stati membri.
·
Natalia Gherman (Moldova), Vice-Primo Ministro e Ministro per l’Integrazione
Europea della Moldova (2013-2016). Il documento programmatico redatto da
Natalia Gherman pone l’accento sulla necessità per le Nazioni Unite di dare
esecuzione, nel prossimo futuro, agli accordi recentemente raggiunti tra gli
stati membri: l’Agenda 2030, l’Accordo di Parigi sul clima e l’Agenda di Addis
Abeba per lo sviluppo. Gherman elenca poi i settori nei quali dovrebbe
concentrarsi l’azione del prossimo Segretario, che sono quello tradizionali di
pace e sicurezza, sviluppo sostenibile, diritti umani. Anche il documento di
Gherman si distingue per una forte enfasi sulla necessità che l’Onu torni a
svolgere un’azione preventiva nei confronti delle grandi crisi del nostro
tempo. Infine, anche Gherman delinea un piano di gestione dell’Organizzazione
secondo principi di razionalità, efficienza e equità.
·
António Guterres (Portogallo), ex Primo Ministro del Portogallo
(1995-2002), ex Alto Commissario Onu per i rifugiati (2005-2015). Dal documento
di António Guterres, “Challenges and Opportunities for the United Nations”,
emerge la visione di un’Organizzazione che sia in grado di far fronte, con un
approccio olistico, alle sfide che riguardano i tre pilastri – pace e
sicurezza, sviluppo sostenibile, diritti umani. Il documento di Guterres si
distingue per una forte enfasi sulla dimensione umanitaria; il passato di
Guterres come Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati emerge dall’appello
a far sì che le politiche di sviluppo tengano maggiormente in considerazione la
grave crisi migratoria attuale. Gli attori che agiscono nei settori umanitario
e dello sviluppo rivestono poi grande importanza, secondo Guterres, nelle
attività di prevenzione delle crisi; infine, Guterres afferma che tra i
principali destinatari del supporto Onu vi debbano essere proprio gli stati che
si caratterizzano per essere i maggiori paesi di destinazione dei rifugiati,
che vengono identificati come pilastri della stabilità regionale e prima linea
di difesa per la sicurezza collettiva. Guterres, infine, auspica il
rafforzamento della partnership tra Onu e tre gruppi di attori: in primo luogo
le organizzazioni regionali, in secondo luogo le istituzioni finanziarie
internazionali; infine, la società civile e il settore privato. Nella parte
dedicata allo sviluppo organizzativo dell’Organizzazione, Guterres afferma di
voler dare piena applicazione ai principi, finora rimasti largamente
inapplicati, della ripartizione regionale e della parità di genere, affidando
gli incarichi di Inviati e Rappresentanti speciali proprio secondo questi
criteri.
·
Vuk Jeremić (Serbia), ex Ministro degli Affari Esteri (2007-2012),
ex Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (2012-2013). Vuk
Jeremić presenta un programma organizzato in cinque capitoli, che
corrispondono alle priorità su cui agire per lo sviluppo futuro dell’Organizzazione:
sviluppo sostenibile, cambiamento climatico, prevenzione dei conflitti e
operazioni di pace, diritti umani e rivitalizzazione del sistema Onu. Nel
programma compare più volte il riferimento al fatto che il Segretario Generale
dovrà svolgere un’azione propulsiva per lo sviluppo delle priorità individuate,
ma lo farà solo previa consultazione e approvazione del Consiglio di Sicurezza;
la prassi è comune e prevista dallo Statuto Onu, però il fatto che il candidato
lo espliciti chiaramente nel suo programma è indicativo della volontà di mandare
un segnale conciliante agli stati membri del Consiglio. Dal punto di vista
strettamente organizzativo, anche Jeremić riconosce come priorità il
raggiungimento della parità di genere, e promette dunque, se eletto, di
assegnare a figure femminili il 50% delle posizioni di sottosegretario.
·
Srgjan Kerim (Macedonia), economista e diplomatico, ex Ministro
degli Affari Esteri (2000-2001) e Presidente della 62a sessione dell’Assemblea
Generale Onu (2007-2008). “New Horizons Manifesto” è il titolo del programma
presentato dal macedone Srgjan Kerim. Un programma estremamente articolato, nel
quale Kerim dimostra di avere profonda conoscenza delle dinamiche in atto nell’Organizzazione.
Il programma si differenzia da quelli degli altri candidati per il fatto che Kerim
pone in cima all’agenda delle priorità proprio la riforma dell’intero sistema
Onu, indispensabile per raggiungere obiettivi ambiziosi negli altri settori.
Oltre allo sviluppo delle priorità “tradizionali” (pace e sicurezza, sviluppo
sostenibile e diritti umani), Kemer indica tra i campi d’azione prioritari la
crisi legata al fenomeno migratorio. Gli strumenti indicati per il
raggiungimento degli obiettivi delineati sono il multilateralismo, l’instaurazione
di partnership, il rafforzamento della diplomazia preventiva.
·
Miroslav Lajčák (Repubblica Slovacca), ex Alto
Rappresentante per la Bosnia ed Herzegovina (2007-2009), Ministro degli
Affari Esteri (2009-2010 e dal 2012 a oggi). “Responsibility, Accountability
and Leadership” sono le tre parole chiave che danno il titolo al documento
presentato da Miroslav Lajčák. Ribadendo la sua fiducia nell’Organizzazione
delle Nazioni Unite e nell’importanza di quest’ultima nel mantenimento della
pace e della sicurezza internazionali e nell’assicurare lo sviluppo sostenibile
e il rispetto dei diritti umani, Lajčák invoca la necessità di un maggior
dinamismo e una maggiore capacità di risposta alle crisi e delinea una serie di
priorità che a suo parere dovrebbero orientare l’azione del Segretario
Generale. Tra queste, il rafforzamento dell’azione di early warning da lui svolta. Come ricorda Lajčák, infatti, l’unico
ruolo “politico” assegnato al Segretario Generale è quello di portare all’attenzione
dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza le potenziali minacce alla pace e
alla sicurezza internazionali. Tale meccanismo di early warning riveste un’importanza fondamentale nell’azione di
prevenzione dei conflitti, sebbene nella storia non sia stato molto utilizzato.
Anche Lajčák, dunque, pone forte enfasi sulla desiderabilità dell’azione e
della diplomazia preventiva.
·
Susana Malcorra (Argentina), Sottosegretario dello United Nations for
Field Support (2008-2012), Capo di gabinetto del Segretariato delle Nazioni Unite
(2012-2015), attuale Ministro degli Affari Esteri (dal 2015). Il documento di
Susana Malcorra si intitola “A United Nations centred on people, planet and
prosperity; driven by issues; and focused on delivering impact”. Il titolo contiene di fatto l’intero programma:
Malcorra auspica un rinnovamento dell’Organizzazione nel senso di un maggior
dinamismo, indispensabile per fare fronte alle crisi attuali, che Malcorra
individua nel cambiamento climatico, nella crisi dei rifugiati, nello scoppio
di pandemie, nella violenza estremista e nel conflitto armato. Di fronte a tali
minacce alla pace e alla sicurezza internazionali, Malcorra invoca l’elezione
di un Segretario Generale dotato delle abilità diplomatiche e dell’’acume
politico tali da essere in grado di agire da intermediario tra gli stati membri
per la risoluzione delle crisi. Allo stesso modo, il Segretario Generale deve
poter lavorare insieme agli stati membri non solo alla risoluzione ma anche e
soprattutto alla prevenzione delle crisi.
·
Danilo Türk (Slovenia), ex Presidente della Slovenia (2007-2012),
ex Ambasciatore alle Nazioni Unite (1992-2000). L’ex Presidente sloveno
struttura la propria visione per il futuro delle Nazioni Unite attorno alla
necessità per l’Organizzazione di sviluppare tre partnership indispensabili per
lo sviluppo del proprio operato. In primo luogo, Türk ribadisce l’inviolabilità
e la preminenza del principio di sovranità e auspica pertanto che il Segretario
Generale sia pronto a lavorare insieme agli stati membri, ma anche a riconoscerne
l’importanza fondamentale. In secondo luogo, Türk afferma la necessità di
lavorare di concerto con le organizzazioni regionali, che sono divenute nel
tempo parte integrante del sistema internazionale e un partner fondamentale per
le Nazioni Unite. Infine, si delinea la necessità di interfacciarsi con membri
della società civile, settore privato e accademia, nell’ottica dello sviluppo
della diplomazia multilaterale.
Un
processo politico: quali le sensibilità e le convergenze attuali?
Si è visto come, su dodici candidature, otto
provengano da paesi appartenenti al blocco dell’Europa orientale e sei siano
femminili. Si è visto anche come il processo di selezione, nonostante i diversi
tentativi di riforma nel senso di una maggiore trasparenza e di un maggior
trasferimento di poteri all’Assemblea Generale, rimanga un processo nei fatti
essenzialmente politico e appannaggio dei paesi che siedono in maniera
permanente nel Consiglio di Sicurezza. A seguito di queste considerazioni, è
utile pertanto indagare quali siano gli equilibri di potere all’interno del
Consiglio e in quale modo le relazioni tra gli stati potranno influire sulla
scelta del prossimo Segretario Generale.
A questo scopo, un utile strumento è
rappresentato dall’osservazione dei risultati degli straw polls. Il Consiglio di
Sicurezza tiene diversi round di straw
polls: sono votazioni “di prova”, che avvengono a scrutinio segreto e che
servono a comprendere l’orientamento degli stati membri. Ciascuno stato può
esprimere un’opinione favorevole, sfavorevole o neutra nei confronti di
ciascuna candidatura; i voti dei membri permanenti non sono distinti da quelli
dei membri non permanenti (a meno che non si decida esplicitamente di
utilizzare schede di colore diverso per membri permanenti/non permanenti) e non
sono vincolanti: uno stato membro può esprimere indifferenza per un candidato
ma porre poi il veto in sede di votazione vera e propria, così come può
esprimere opinione sfavorevole nei confronti di un candidato allo scopo di
acquisire leva politica nei confronti dei paesi sponsor di quel candidato.
Al 13 settembre, si sono tenuti quattro round di straw polls. In tutti e quattro gli scrutini, il candidato che ha
ottenuto il maggior numero di opinioni favorevoli è stato António Guterres, la
cui candidatura ha avuto un trend
piuttosto stabile: nel primo straw poll
(21 luglio), il portoghese ha raccolto 12 pareri favorevoli, 0 sfavorevoli, 3
neutrali; negli scrutini successivi sono pervenuti pareri sfavorevoli, ma il
numero dei pareri favorevoli si è mantenuto elevato. Nel tempo sembra poi
essere cresciuto il supporto per lo slovacco Miroslav Lajčák, mentre
sembra essere destinata a sfumare l’ipotesi Irina Bokova, data inizialmente per
favorita in quanto donna e proveniente da un paese dell’Europa dell’est.
I risultati dei primi quattro round di straw poll
(F=opinione favorevole; S=opinione sfavorevole;
N=opinione neutra)
|
21 luglio |
5 agosto |
29 agosto |
9 settembre |
||||||||
F |
S |
N |
F |
S |
N |
F |
S |
N |
F |
S |
N |
|
António Guterres |
12 |
0 |
3 |
11 |
2 |
2 |
11 |
3 |
1 |
12 |
2 |
1 |
Miroslav Lajčák |
7 |
3 |
5 |
2 |
6 |
7 |
9 |
5 |
1 |
10 |
4 |
1 |
Vuk Jeremić |
9 |
5 |
1 |
8 |
4 |
3 |
7 |
5 |
3 |
9 |
4 |
2 |
Srgjan Kerim |
9 |
5 |
1 |
6 |
7 |
2 |
6 |
7 |
2 |
8 |
7 |
0 |
Irina Bokova |
9 |
4 |
2 |
7 |
7 |
1 |
7 |
5 |
3 |
7 |
5 |
3 |
Susana Malcorra |
7 |
4 |
4 |
8 |
6 |
1 |
7 |
7 |
1 |
7 |
7 |
1 |
Danilo Türk |
11 |
2 |
2 |
7 |
5 |
3 |
5 |
6 |
4 |
7 |
6 |
2 |
Helen Clark |
8 |
5 |
2 |
6 |
8 |
1 |
6 |
8 |
1 |
6 |
7 |
2 |
Christiana Figueres* |
5 |
5 |
5 |
5 |
8 |
2 |
2 |
12 |
1 |
5 |
10 |
0 |
Natalia Gherman |
4 |
4 |
7 |
3 |
10 |
2 |
2 |
12 |
1 |
3 |
11 |
1 |
Igor Lukšić* |
3 |
7 |
5 |
2 |
9 |
4 |
|
|||||
Vesna Pusić* |
2 |
11 |
2 |
|
*Ritirati
Fonte: Organizzazione delle Nazioni Unite
Come interpretare questi risultati?
Innanzitutto, nonostante sia di fatto in testa a questa speciale classifica,
António Guterres non è automaticamente il vincitore. Si è detto come gli straw polls siano uno strumento
sofisticato, atto a “filtrare” i candidati in modo tale che i più deboli
abbandonino la competizione e al tempo stesso utile a comprendere gli
orientamenti dei paesi dotati di maggiore peso politico, vale a dire i cinque
membri permanenti del Consiglio. Questi orientamenti non possono esulare da
regole tacite ma oramai assodate.
Considerando la natura prettamente politica
della nomina, è lecito aspettarsi che gli stati membri permanenti del Consiglio
di Sicurezza vedano con maggior favore un Segretario Generale potenzialmente
allineato con i propri interessi geopolitici. Secondo questa osservazione,
Russia e Cina potrebbero non essere a favore dell’elezione di António Guterres,
dal momento che la provenienza di quest’ultimo da un paese appartenente al
blocco europeo-occidentale e membro della Nato, nonché il suo passato nel
settore umanitario, lo renderebbero un candidato non di prima scelta; tuttavia,
il fatto che Guterres non abbia ricevuto voti di “scoraggiamento” nel primo
round di straw polls lascia supporre
che Russia e Cina siano pronte a negoziare per appoggiare la candidatura del
portoghese, che ha del resto ottenuto l’appoggio ufficiale di un altro membro
permanente del Consiglio, la Francia. La Russia, dal canto proprio,
preferirebbe con ogni probabilità un candidato proveniente dal blocco dei paesi
dell’Europa orientale, come Jeremić (Serbia) o Bokova (Bulgaria), mentre
candidati provenienti da paesi che hanno contenziosi aperti con Mosca, come
Gherman (Moldova) e Lukšić (Montenegro), potrebbero venire penalizzati.
Con ogni probabilità, tuttavia, Jeremić è destinato a incontrare l’opposizione
e dunque il veto degli Stati Uniti. Il serbo è infatti noto per la sua
opposizione all’indipendenza del Kosovo ed è considerato ostile ai paesi del
blocco Nato. Allo stesso modo, alcuni commentatori ipotizzano che il Regno
Unito possa non gradire l’elezione eventuale di Malcorra (Argentina), per via
del contenzioso aperto tra Londra e Montevideo sulle isole Falkland/Malvinas.
Malcorra, tuttavia, sembra essere la candidata favorita dagli Stati Uniti[12]. L’appoggio di Washington deriva in parte
dal fatto che l’amministrazione Obama preme per l’elezione di una donna in
vista delle elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre, nelle quali il
candidato democratico è per la prima volta una donna, Hillary Clinton.
La Cina sembra mantenere un basso profilo,
sebbene alcuni addetti ai lavori riportino che potrebbe offrire il proprio
appoggio in cambio dell’assegnazione a un cittadino cinese della guida delle
operazioni di peacekeeping. Francia e
Regno Unito non sembrano godere di peso politico e autonomia decisionale tali
da poter porre il veto su un candidato su cui convergono le altre potenze,
Stati Uniti, Russia e Cina. Quella di quest’anno, sotto ogni apparenza, sembra
dunque essere una riedizione del confronto tra Stati Uniti e Russia, già in
atto in altre sedi diplomatiche ed emblematico di un braccio di ferro in corso
su più ampia scala su diversi scenari geopolitici, da quello siriano a quello
ucraino. Dunque, con ogni probabilità nessuno dei due paesi acconsentirà all’elezione
di un candidato portatore di una visione netta a favore delle posizioni dell’avversario.
Alla luce delle dinamiche geopolitiche sopra
delineate, risulta evidente come i giochi siano quanto mai aperti per i tutti i
candidati ai vertici della classifica risultante dai primi quattro round di straw polls: Jeremić dovrebbe
superare il veto Usa, Malcorra dovrebbe ottenere il favore russo nonostante il
fatto che si tratti della favorita del principale rivale di Mosca, Guterres
dovrebbe portare Mosca a rinunciare al proprio desiderio che il prossimo
Segretario Generale provenga da un paese dell’Europa dell’Est, e Washington a
rinunciare al proprio desiderio che a essere eletta sia per la prima volta una
donna.
Conclusione
Il processo di selezione del Segretario
Generale delle Nazioni Unite ha subito diverse evoluzioni, risultato di
numerosi tentativi di riforma. L’elezione di quest’anno sembra essere la più
trasparente e competitiva nella storia delle Nazioni Unite. Tuttavia, i diversi
tentativi di riforma non hanno intaccato la regola principale che governa l’elezione
della massima carica della maggiore organizzazione internazionale: è necessario
l’accordo, o il non disaccordo, dei cinque paesi che siedono in maniera
permanente in Consiglio di Sicurezza. Da ciò consegue il fatto che spesso il
candidato più forte – e che in conclusione viene eletto – è quello che viene
percepito come la minore minaccia agli interessi dei cinque, anziché quello su
cui converge il parere favorevole della maggioranza dei paesi che siedono nell’Assemblea
Generale.
Del resto, tale è il principio che governa l’intero
sistema delle Nazioni Unite fin dalla sua fondazione: il Segretario Generale
deve essere, in ultima analisi, una persona con cui tutti i paesi membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza possano lavorare: ciò rappresenta tanto
una forza quanto una debolezza, ma sembra essere ancora oggi l’unico modo in
cui le Nazioni Unite possano continuare a operare.
La Conferenza Cop 21 si è conclusa il 12
dicembre 2015 con l’adozione per consenso da parte dei 195 paesi presenti nell’Assemblea
plenaria dell’Accordo di Parigi. L’Accordo, che è universale e legalmente
vincolante, definisce un nuovo piano di azione globale per evitare al pianeta
un cambiamento climatico pericoloso. I principali obiettivi dell’Accordo sono i
seguenti:
a) Realizzare interventi di mitigazione delle emissioni al fine di contenere l’aumento della temperatura "bene al di sotto" dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, intensificando gli sforzi per contenerla entro 1,5 gradi.
b) Smettere di incrementare le emissioni di gas serra il prima possibile e raggiungere nella seconda parte del secolo il momento in cui la produzione di nuovi gas serra sarà sufficientemente bassa da essere assorbita naturalmente.
c) Aumentare la capacità di adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico e di rafforzare la resilienza climatica e lo sviluppo di un’economia a basse emissioni senza compromettere la produzione di cibo
d) Controllare i progressi compiuti ogni cinque anni, tramite nuove Conferenze.
e) Garantire flussi finanziari in grado di sostenere gli interventi di mitigazione e adattamento. I paesi industrializzati si sono impegnati ad alimentare un fondo annuo da 100 miliardi di dollari (a partire dal 2011)per il trasferimento di tecnologie pulite ai paesi in via di sviluppo.
L’architettura dell’accordo si basa sui piani di azione climatici nazionali volontari (Intended Nationally Determined Contributions - INDCs) che i paesi sono chiamati a predisporre. I governi hanno concordato di verificare gli obiettivi ogni 5 anni e di definirne di più ambiziosi in coerenza con lo sviluppo scientifico. E’ previsto che i paesi comunichino pubblicamente i loro obiettivi e che vi sia un efficace sistema di trasparenza e verificabilità a lungo termine.
Sul piano dell’adattamento i governi hanno inoltre concordato di rafforzare le azioni per fronteggiare gli impatti del cambiamento climatico e di fornire un supporto internazionale per l’adattamento nei paesi in via di sviluppo.
Al fine di raggiungere l’obiettivo del contenimento della temperatura a lungo termine i paesi si impegnano a raggiungere il picco globale delle emissioni di gas a effetto serra nel più breve tempo possibile, riconoscendo un tempo maggiore per i paesi in via di sviluppo. La principale novità rispetto al Protocollo di Kyoto del 1997, che prevedeva obblighi di riduzione solo per i paesi sviluppati, riguarda il coinvolgimento di tutti paesi aderenti che sono chiamati ad assumere impegni differenziati alla luce delle diverse situazioni nazionali.
L’accordo riconosce l’importanza di prevedere e fronteggiare le perdite e i danni (loss and damage) causati dal cambiamento climatico e di sviluppare nelle varie aree sistemi di allerta, emergenza e assicurazione.
Il 22 aprile 2016, con una cerimonia di Capi di stato e di governo presso la sede delle Nazioni Unite a New York, l’Accordo di Parigi è stato posto alla firma degli Stati. Al 7 settembre 2016 sono 180 gli Stati che hanno già firmato l’accordo, mentre 27 hanno già depositato lo strumento di ratifica, corrispondenti al 39,08% delle emissioni globali. L’Accordo entrerà in vigore quando la somma delle emissioni dei paesi firmatari e ratificanti supererà il 55% del totale.
Il 3 settembre 2016, alla vigilia del Vertice G20 di Hangzhou, Usa e Cina hanno annunciato di avere aderito formalmente all’accordo sul clima siglato a Parigi. Il Presidente statunitense Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping hanno anche consegnato simbolicamente a Ban Ki-moon, il segretario generale delle Nazioni Unite, i documenti relativi alla ratifica. Le due principali economie del mondo sono responsabili, insieme, di circa 40% delle emissioni globali, ragione per cui la ratifica congiunta fa compiere un deciso passo in avanti al processo di raggiungimento della soglia del 55% che determinerà l’entrata in vigore dell’Accordo.
In una nota congiunta il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti hanno espresso soddisfazione per la convergenza sino-americana e hanno annunciato la prossima presentazione della legge italiana di ratifica dell’Accordo. “La ratifica dell’accordo raggiunto alla Cop21 di Parigi da parte di Stati Uniti e Cina - si legge nella nota - segna un passaggio storico nell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici e verso la trasformazione in senso sostenibile del modello economico globale. Nella cornice dell’ambizioso impegno europeo, l’Italia è a lavoro per definire la sua legge di ratifica, con l’obiettivo di trasmetterla entro settembre alle Camere e di poter completare l’iter parlamentare nel più breve tempo possibile
La prossima Conferenza ONU sul clima (Cop 22) si svolgerà a Marrakech(Marocco) dal 7 al 18 novembre 2016 e sarà dedicata principalmente a definire una "road map" per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi.
La risoluzione 1325 (2000) e il Piano d’azione
nazionale italiano
Il 31 ottobre 2000 il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione 1325 su donne, pace e sicurezza, primo
documento del Consiglio che menziona esplicitamente l’impatto dei conflitti armati sulle donne e sottolinea il
contributo femminile per la risoluzione dei conflitti e per la costruzione di
una pace durevole.
La risoluzione, considerata “madre” di
risoluzioni ONU successive dal contenuto più specifico (per le quali si veda più avanti), delinea un sistema ampio di
obiettivi a garanzia della prevenzione, della partecipazione e protezione delle
donne nei contesti di conflitto (paradigma delle 3”P”), focalizzando tre
elementi:
1.
le donne
ed i fanciulli rappresentano i gruppi più colpiti dai conflitti armati;
2.
le donne
svolgono un ruolo imprescindibile sia nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, sia nelle attività di
ricostruzione della pace;
3.
gli
Stati membri dell’Onu sono invitati ad assicurare una più ampia partecipazione
delle donne a tutti i livelli decisionali, con particolare riferimento ai
meccanismi di prevenzione, gestione e risoluzione del conflitto.
Il principio ispiratore della risoluzione -
la “tolleranza zero” rispetto a tali
forme di violenza che violano le norme internazionali e costituiscono
comportamenti di rilievo penale - si applica ai militari, alle parti in
conflitto nonché al personale militare e civile dell’Onu responsabile di abusi
sessuali nelle aree di conflitto.
A fronte dell’ampiezza del mandato della risoluzione 1325 e della mancanza di
indicazioni precettive in ordine all’attuazione delle sue disposizioni, e
mentre si continuavano a registrare numerosi casi di violenza sessuale nelle
aree di conflitto armato e post conflitto, il Consiglio di Sicurezza ha
previsto, nel Presidential Statement del 28 ottobre 2004, la possibilità che gli
Stati membri proseguissero sulla strada dell’attuazione della Risoluzione 1325
anche attraverso l’adozione di “National Action Plans”.
In Italia, in particolare, dopo l’adozione
nel dicembre 2010 del primo Piano di Azione Nazionale 2010-2013, nel 2014 è
stato adottato il secondo
Piano Nazionale dell’Italia su “Donne Pace e Sicurezza”,
relativo al periodo 2014-2016, presentato presso il Ministero degli Affari
esteri e della cooperazione internazionale in occasione della Giornata mondiale
contro la violenza sulle donne, il 26 novembre 2014. Il secondo Piano d’Azione
rappresenta l’esito di un processo di aggiornamento svolto dal Comitato
Interministeriale per i Diritti Umani, CIDU, attraverso la costituzione di un
Gruppo di Lavoro che ha operato in stretta collaborazione con la società
civile, individuando le modalità di attuazione Risoluzione 1325(2000) e delle
successive Risoluzioni sul tema.
Il Piano d’Azione Nazionale persegue l’obiettivo
di assicurare l’inserimento della gender perspective in tutti i
settori della politica di pace ed in tutte le misure concrete di promozione e
protezione della pace finalizzate al
raggiungimento dei tre obiettivi
principali fissati dalla Risoluzione 1325:
1.
prevenire
la violenza contro le donne ed i fanciulli e proteggere i diritti umani di
donne e fanciulli, durante e dopo i conflitti armati;
2.
promuovere
una maggiore partecipazione delle donne nella promozione della pace;
3.
promuovere
l’applicazione dell’approccio di genere nei progetti e programmi di promozione
della pace.
Per il perseguimento di tali obiettivi, il
secondo Piano d’Azione italiano ha individuato un panel di 7 sotto–obiettivi, che
vengono presentati nel documento e rispetto a ciascuno dei quali viene
riportato lo stato di attuazione e gli ulteriori impegni (commitments) che il l’Italia intende assumere, a livello sia
nazionale sia internazionale. Questi i sotto-obiettivi:
1.
valorizzare la presenza delle donne nelle Forze Armate nazionali e negli organi
di polizia statale, rafforzandone il ruolo negli organi decisionali delle
missioni di pace;
2.
promuovere l’inclusione della prospettiva di
genere nelle Peace-Support
Operations;
3.
assicurare training specifico, in particolare per il personale
partecipante alle missioni di pace, sui differenti aspetti della Risoluzione
1325;
4.
proteggere i diritti umani delle donne, dei fanciulli e delle fasce più
deboli della popolazione, in fuga dai teatri di guerra e/o presenti nelle aree
di post-conflitto;
5.
rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi
decisionali;
6.
prevedere
la partecipazione della società civile
nell’attuazione della Risoluzione 1325;
7.
svolgere
attività di monitoraggio e seguiti
operativi (follow-up).
Come previsto dal secondo Piano d’azione
nazionale, il Governo ha presentato nel marzo 2015, un Progress Report.
Quanto alle risorse finanziarie a sostegno delle attività contemplate dal
Piano, si rammenta che in sede di conversione del DL 67/2016[13], di proroga della partecipazione italiana
alle missioni internazionali e di interventi di cooperazione allo sviluppo per
tutto l’anno 2016, un emendamento ha modificato l’originaria formulazione dell’articolo
8, comma 1; a seguito di tale modifica, nell’ambito dello stanziamento di 90
milioni previsti dalla disposizione e destinato ad una serie di iniziative di
cooperazione[14] sono ricompresi anche gli interventi,
previsti dal Piano d’azione nazionale "Donne, pace e sicurezza - WPS
2014-2016", con particolare riguardo a programmi aventi tra gli obiettivi
la prevenzione, la protezione e il contrasto alla violenza sessuale sulle donne
e le bambine, soprattutto quando usata con tattica di guerra, la tutela e il
rispetto dei loro diritti umani, nonché le misure a sostegno delle iniziative
di pace promosse dalle donne in attuazione della risoluzione del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite n. 1325 del 31 ottobre 2000 e le successive
risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla stessa
materia.
Lo stato
di implementazione della Risoluzione 1325 a livello internazionale è
riportato in appositi rapporti del
Segretario generale Onu.
L’ultimo di tali report, S/2015/716 rilasciato il 16 settembre 2015, oltre a
presentare la usuale ricognizione annuale dei progressi compiuti e misurati
attraverso specifici indicatori, fa riferimento anche alla risoluzione 2122
(2013) del Consiglio di Sicurezza che, al paragrafo 16, invita il Segretario
Generale dell’Onu a commissionare uno studio
globale sull’implementazione della 1325, evidenziando esempi di good practices, difficoltà, sfide e
priorità di azione. Il Global Study
ha rappresentato parte essenziale dell’High-Level Review of Women, Peace and
Security celebrata dal Consiglio di Sicurezza nell’ottobre 2015 in
occasione del 15° anniversario della Risoluzione 1325.
Il
Global Study Preventing conflict, transforming justice, securing
the peace, che porta la firma dell’ex Rappresentante speciale per
i bambini nei conflitti armati, Radhika Coomaraswamy affiancata da l’High-Level Advisory Group, è stato
lanciato nell’ottobre 2015. Si tratta di una ricognizione sui quindici anni di
implementazione della risoluzione 1325 del 2000 che ha coinvolto un ampio
numero di stakeholders a livello
statale e della società civile a livello mondiale.
Nello
studio si prende atto che molto è
cambiato da quando il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1325:
la natura del conflitto in alcune regioni è qualitativamente diversa, il
contenuto stesso di ciò che intendiamo per “pace” e “sicurezza” è in continua
evoluzione, ed anche ciò che intendiamo per “giustizia” si è trasformato. In
tale mutato contesto vanno ora collocati i quattro pilastri della 1325 e delle
successive risoluzioni: prevenzione, protezione, partecipazione, e costruzione
della pace e recupero.
Tra
i progressi nell’implementazione della 1325 lo studio annovera:
-
l’adozione da parte della Comunità internazionale di un quadro normativo
completo per quanto riguarda per la violenza sessuale nei conflitti,
rammentando che lo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale, in
vigore dal 2002, delinea un elenco globale dei crimini contro le donne;
-
la comunità internazionale e nazionale i governi hanno cominciato a comprendere
l’importanza della guarigione nazionale e e delle comunità come una parte della
giustizia, con i correlati diritti di risarcimento;
- l’adozione, da parte del Committee on the Elimination of Discrimination against Women di una
raccomandazione sulle donne nelle situazioni legate a conflitti che fornisce
una guida dettagliata agli Stati membri sulle questioni relative alle donne, la
pace e la sicurezza ed ai criteri di responsabilità, chiarendo che l’attuazione
della 1325 è responsabilità di ogni Stato membro;
- la percentuale degli accordi di pace che
fanno esplicito riferimento alle donne è passata dall’11% del decennio
1990-2000 al 27% nel quindicennio successivo all’adozione della 1325;
-
si è registrato un aumento delle dirigenti donne all’interno delle Nazioni
Unite;
-
è stata avviata una politica di aiuti bilaterali sulla parità di genere a Stati
fragili, che per quanto aurorale rappresenta una notevole novità.
Tuttavia,
molti dei progressi registrati nell’implementazione
della Risoluzione 1325 sono fermi allo stadio iniziale e non raggiungono
pertanto il livello standard auspicabile. Ad esempio, quanto alla violenza sessuale, nonostante la
completezza del quadro normativo, pochissime sono le azioni penali effettive, soprattutto
a livello nazionale; nei processi di
pace se si è registrato un aumento della partecipazione formale delle
donne, uno studio specifico di 31 grandi processi tra il 1992 e il 2011 ha
rivelato che solo il 9% dei negoziatori erano donne, una cifra ancor più
trascurabile alla luce dell’entità e ampiezza delle questioni che le vedono
coinvolte; la percentuale femminile del personale militare impiegato nelle
missioni Onu è del 3% e con compiti prevalentemente di supporto: e sono proprio
le aree cruciali del peacemaking e
del paecekeeping a vedere una
persistente sotto rappresentazione femminile.
Quanto
ai Piani d’azione nazionali sono solo 54
i Paesi che li hanno predisposti (e tra questi, come detto, anche l’Italia);
la maggior parte dei Piani sono peraltro privi sia di meccanismi di accountability sia di risorse
finanziarie a sostegno di una reale implementazione della 1325. L’aumento di
estremismo violento in molte parti del mondo non solo rappresenta una vera e
propria minaccia per la vita delle donne, ma le espone anche ad un ciclo di
militarizzazione che spesso le vede in una posizione ambivalente, tra la
necessità di respingere le costrizioni dell’estremismo violento e quella di
proteggere le proprie famiglie e le comunità. Si assiste, inoltre, al fenomeno
delle donne che diventano combattenti unendosi a gruppi estremistici, talvolta
contro la propria volontà ma in molti casi con reale convinzione. E le donne “peacebuilders” si trovano spesso ad
operare con margini di manovra assai limitati, strette tra l’estremismo
praticato nelle comunità di appartenenza e i vincoli posti al loro operare
dalle politiche antiterrorismo che limitano l’accesso ai fondi ed alle risorse
cruciali.
Sulla
base dell’ampia ricognizione qui brevemente riassunta il Global Study formula raccomandazioni dettagliate per ciascuna
questione, non senza aver evidenziato un set di principi generali, che sono:
1 - riconoscere che la priorità è la
prevenzione dei conflitti e non l’uso della forza;
2 - considerare che la Risoluzione 1325 si
inserisce nel contesto dei diritti umani;
3 – riconoscere che la partecipazione delle
donne è la chiave della pace sostenibile;
4 – i responsabili devono rendere conto e la
giustizia deve essere trasformativa;
5 – approcci locali e processi inclusivi e
partecipativi sono cruciali per il successo degli sforzi di pace nazionali ed
internazionali;
6 - Sostenere le donne peacebuilders di pace nel rispetto della loro autonomia è un’
importante modalità di contrasto dell’estremismo;
7 – Stati membri, Organizzazioni regionali,
media, società civile, giovani hanno un ruolo vitale da svolgere insieme per
attuare l’agenda donne, pace e sicurezza;
8 – una lente di genere deve essere
introdotta in ogni aspetto del lavoro del Consiglio di sicurezza;
9 – è necessario affrontare la persistente
incapacità di finanziare in modo adeguato l’agenda donne, pace e sicurezza;
10 – una robusta architettura di genere è
essenziale per le Nazioni Unite.
Il Global Study si conclude con un invito all’azione che metta al centro
il livello locale in quanto più
vicino alle donne. Queste, da ogni continente, hanno chiesto al Consiglio di
sicurezza – che ha un ruolo diretto di supervisione nel mantenimento della pace
– di prendere l’iniziativa di fermare il
processo di militarizzazione che ha avuto inizio nel 2001 in un ciclo di
conflitti sempre crescente che tende a normalizzare la violenza ad ogni
livello.
Nel suo rapporto 2015 il Segretario generale
ha osservato che dal Global Study,
come del resto anche da altre analisi indipendenti effettuate nel 2015, è
emerso che la natura della guerra sta cambiando, essendo essa caratterizzata da
evidenti violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale,
dalla partecipazione di un numero crescente di attori armati non statali, dalla
diffusione dell’estremismo violento e brutale e di un’ondata di violenza
organizzata, che espongono ulteriormente le donne e le ragazze a ogni genere di
sfida, spesso affrontata in solitudine.
Il rapporto, inoltre, riflette sul ruolo
degli attori chiave del sistema delle Nazioni Unite per affrontare gli ostacoli
alla piena attuazione della Risoluzione 1325. Per quanto riguarda il
mantenimento della pace, in cui il Consiglio di sicurezza, come è noto, ha un
ruolo diretto di supervisione, il report sollecita l’integrazione della
prospettiva di genere nei mandati delle missioni – dal che la necessità di
affrontare il tema dello sfruttamento sessuale e degli abusi - e chiede l’integrazione
delle competenze di genere nelle strutture del personale di missione e il
miglioramento dell’equilibrio nella rappresentanza di genere nei contingenti
delle Nazioni Unite.
Le altre risoluzioni Onu su donne, pace e
sicurezza
Sul tema donne, pace e sicurezza il Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite ha adottato, dopo la 1325 del 2000, altre sei risoluzioni.
La prima di tale serie è la risoluzione 1820 adottata all’unanimità il 19 giugno 2008 nella quale si
afferma che la violenza sessuale in
situazioni di conflitto armato può costituire crimine di guerra, crimine contro l’umanità e prefigurare genocidio. L’Italia, membro non
permanente del Consiglio di Sicurezza nel biennio 2007-2008, aveva profuso un
intenso impegno in fase negoziale, con particolare riguardo al riconoscimento
del nesso tra sicurezza internazionale e
violenza sessuale nei casi in cui questa viene impiegata come tattica di
guerra.
La risoluzione 1820 chiede a tutte le parti nei conflitti armati di cessare
immediatamente e del tutto la violenza sessuale contro i civili evidenziando
che, nonostante le reiterate condanne, la violenza e l’abuso sessuale di donne
e bambini intrappolati in zone di guerra è praticata con un’ampiezza ed una
sistematicità tali da configurare livelli di “spaventosa brutalità”. Il documento, stabilito che l’utilizzo della violenza sessuale come
tattica di guerra può profondamente esacerbare i conflitti armati ed
impedire il ripristino della pace e della sicurezza internazionale, afferma che
lo stupro e le altre forme di violenza sessuale possono rappresentare crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed anche atti costitutivi di genocidio. Nella premessa, inoltre, il
documento richiama l’inclusione di una serie di offese sessuali nello Statuto
di Roma, atto fondativo della Corte penale internazionale dell’Aja. La risoluzione 1820, che prevede la
possibilità di imporre sanzioni mirate contro fazioni che commettono stupri e
altre forme di violenza contro donne e ragazze, chiedeva al Segretario generale
Onu di dare conto del quadro della situazione e dell’attuazione della
disposizioni in essa contenute entro il 30 giugno 2009, nonché di formulare
proposte volte a “minimizzare la
suscettibilità” delle donne e delle ragazze a tale violenza. Il Segretario
era inoltre richiesto di sviluppare linee guida e strategie efficaci per
migliorare le capacità delle operazioni di peacekeeping
Onu nella protezione dei civili da ogni forma di violenza sessuale.
Una ulteriore risoluzione, 1960 (2010) è stata adottata all’unanimità il 16 dicembre 2010 dal Consiglio di Sicurezza, il quale ha chiesto
alle parti coinvolte in conflitti armati di assumere specifici impegni ed indicare precise
scadenze della lotta alla violenza sessuale, sollecitandole sul lato della
prevenzione a proibire tali crimini attraverso la somministrazione di ordini precisi alle catene di comando e
l’imposizione di codici di condotta
e, sul versante giudiziario, ad indagare i presunti abusi affidandone
tempestivamente alla giustizia i responsabili. Il Segretario generale è tenuto
a monitorare il perfezionamento di tali impegni nonché, sulla base di una
analisi più approfondita, a favorire una migliore cooperazione tra tutti gli
attori Onu finalizzata a fornire una risposta
sistemica alla questione della violenza sessuale, nel frattempo procedendo
a più nomine femminili tra i protection
advisers delle missioni di peacekeeping.
Con la risoluzione
1888 (2009) il Consiglio di Sicurezza, tra le misure atte a fornire
protezione a donne e bambini contro la violenza sessuale in situazioni di conflitto
chiede al segretario generale di nominare un rappresentante speciale sulla violenza sessuale durante i conflitti
armati.
L’ufficio
del Rappresentante Speciale ONU per le
violenze sessuali in situazioni di conflitto è stato istituito nell’aprile 2010
e la prima Rappresentante è stata Margot Wallström; le è succeduta nella
carica, dal 22 giugno 2012, Zainab Hawa Bangura, cittadina della Sierra Leone.
I focal points del mandato della
Rappresentante Speciale sono costituiti dal contrasto all’impunità dei
responsabili, dall’empowerment delle donne colpite al fine di ristabilire il
godimento dei loro diritti, dall’implementazione di politiche idonee a
sostenere un approccio globale alla violenza sessuale, dall’armonizzazione su
scala internazionale della risposta alle violenze e dal miglioramento della
comprensione della violenza sessuale nella sua dimensione di tattica di guerra.
La Rappresentante, inoltre, mette in risalto la necessità che sia condotta a
livello nazionale titolarità, leadership e responsabilità nel contrasto della
violenza sessuale.
Il
Rappresentante si avvale anche di un Team of Experts on the Rule of Law/Sexual
Violence in Conflict - TOE impiegato in presenza di situazioni di
particolarmente gravi come strumento di assistenza per le autorità nazionali
nel rafforzamento della rule of law.
Sul
contrasto alla violenza sessuale si rammenta anche la International Campaign to Stop Rape & Gender Violence in Conflict (http://www.stoprapenow.org/take-action/) promossa da UN Action
Against Sexual Violence, coordinamento di 13 organismi delle Nazioni Unite finalizzato a porre fine alla
violenza sessuale nei conflitti attraverso in uno sforzo concertato per
migliorare il coordinamento e la responsabilità, ampliare la programmazione e
sostenere gli sforzi nazionali per prevenire la violenza sessuale, rispondendo
in modo efficace alle esigenze dei sopravvissuti.
La successiva risoluzione 1889 (2009) si incentra, in particolare, sul rafforzamento
della partecipazione delle donne nei processi di pace, nonché sullo sviluppo di
indicatori adatti a misurare i progressi nella realizzazione della risoluzione
madre 1325.
La risoluzione
2106 (2013) adottata all’unanimità il 24 giugno 2013, è
specificamente focalizzata sul tema della violenza sessuale in situazioni di
conflitto armato. Il documento aggiunge ulteriori dettagli operativi alle
precedenti risoluzioni sul tema e ribadisce la necessità di sforzi più intensi
da parte di tutti gli attori, non solo il Consiglio di Sicurezza e le parti di
un conflitto armato, ma tutti gli Stati membri e gli enti delle Nazioni Unite,
per l’attuazione dei mandati promananti dal complesso delle risoluzioni sul
tema e per la lotta all’impunità per questi crimini.
La risoluzione
2122 (2013) (alla quale si è già
fatto cenno a proposito del Global Study) rafforza le misure che consentono
alle donne di partecipare alle varie fasi di prevenzione e risoluzione dei
conflitti, nonché della ripresa del paese interessato, ponendo agli Stati
membri, alle organizzazioni regionali ed alle stesse Nazioni Unite, l’obbligo
di riservare seggi alle donne nei tavoli
di pace; essa, inoltre, riconosce
la necessità di una tempestiva informazione ed analisi dell’impatto dei conflitti
armati su donne e ragazze.
La risoluzione chiede poi ai responsabili
delle missioni di peacekeeping delle
Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle violazioni dei diritti umani e
degli abusi di donne nei conflitti armati e nelle situazioni di post conflitto
e richiede alle missioni di peacekeeping
di dare risposta alle minacce della sicurezza delle donne in situazioni di
conflitto e post conflitto. Incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni
ad aumentare la percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di
polizia in esse impiegate. Sottolinea la necessità di continuare gli sforzi per
eliminare gli ostacoli che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in
situazioni di conflitto o post conflitto.
La strategia del Migration
Compact
Il 15 aprile il governo italiano ha
presentato alle istituzioni europee un piano volto ad arginare l’emergenza
della gestione dei rifugiati, il cosiddetto Migration
Compact, elaborando – almeno nelle intenzioni – “un possibile percorso per migliorare l’efficacia delle politiche
migratorie esterne all’Unione” descritto in un documento cosiddetto non paper, cioè non ufficiale e per
avviare una discussione, di quattro pagine[16].
Un merito molto importante che va
riconosciuto all’iniziativa italiana è quello di porre risolutamente al centro
la necessità di superare la sterile ma tradizionale resistenza alla condivisione
sovranazionale del dossier. Un’intuizione
politica importante che ha orientato il disegno del documento su una strada non
certo facile e che, all’indomani del referendum del Regno Unito, appare ancora
più impervia. Da sempre, infatti, il tema delle politiche migratorie ha
incontrato veti politici insormontabili in tutte le sedi multilaterali, a
cominciare dall’Europa e passando in ambito G7/G8 e alle Nazioni Unite.
È sintomatico infatti che nel
sistema delle Nazioni Unite, che distingue nettamente il tema dei rifugiati da
quello delle migrazioni economiche, manchi un’organizzazione sulle migrazioni.
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) fornisce
protezione internazionale ed assistenza materiale ai rifugiati e, sempre più
col passare del tempo, anche a rimpatriati, richiedenti asilo, apolidi e
sfollati interni.
L’Organizzazione internazionale del lavoro (International Labour Organization, ILO), invece, che negli ultimi
anni non è riuscita a dar seguito alle promesse di collaborazione con l’UNHCR
fatte dai due enti negli anni ottanta[17], ha nel suo mandato molti temi che
si intrecciano con quello delle migrazioni economiche, mentre l’Organizzazione internazionale per le
migrazioni (International
Organization for Migration, IOM) si occupa specificamente di migrazioni
internazionali e risulta di fatto in diversi ambiti rivale dell’ILO, ma non fa
parte del sistema delle Nazioni Unite, anche se dal 1992 le è stato
riconosciuto lo status di osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni
Unite, collabora strettamente con le Agenzie specializzate dell’ONU e si
prevede che, in occasione della prossima Assemblea Generale a New York il 19
settembre del 2016, sarà siglato un nuovo accordo tra Nazioni Unite e OIM in
grado di concretizzare il fatto che “una
relazione più stretta tra Nazioni Unite e IOM non è solo naturale e
desiderabile, ma necessaria per raggiungere gli obiettivi di sviluppo
sostenibile per il 2030”[18], dal momento che i nuovi obiettivi
di sviluppo sostenibile includono esplicitamente il tema delle migrazioni
internazionali.
È
fonte di confusione, si è detto, combinare indistintamente situazioni molto
diverse come quelle degli sfollati interni, dei rifugiati, dei richiedenti asilo,
dei profughi e quelle dei migranti internazionali per motivi di lavoro (per ricongiungimento familiare o
altro); ma abbiamo anche detto che una divisione rigidamente manichea rischia
di avere altrettante controindicazioni. Alexander Betts, direttore del Refugee Studies Centre all’Università di
Oxford ha proposto una nuova categoria, quella dei “migranti per sopravvivere”
(survival migration)[19], che si è aggiunta a quella di
“rifugiati ambientali” introdotta nel 1976 da Lester Brown, fondatore del Worldwatch
Institute e dell’Earth Policy Institute, che interrogava il diritto
internazionale sulla necessità di riconoscere lo status di persone bisognose di
protezione internazionale ai più vulnerabili che subiscono gli effetti dei
cambiamenti climatici e quelli globali dell’ambiente[20].
Occorre ribadire che confondere
nella narrazione prevalente sulle minacce esterne la situazione dei migranti
internazionali per motivi di lavoro con quella dei rifugiati e richiedenti
asilo è fonte di distorsioni della realtà delle attitudini e delle percezioni,
portando lo stesso discorso de iure e
i piani d’azione politica a queste generalizzazioni improprie e contribuendo
così al crescere di populismi e xenofobia.
Tuttavia,
anche la radicale separazione dello status del rifugiato, nell’illusione che
sia una condizione temporanea,
riducendone l’identità a persona passiva e bisognosa di protezione
internazionale, certamente essenziale, si è dimostrato causa di problemi gravi
e ricorrenti.
Il caso dei palestinesi che vivono
segregati in campi profughi nei paesi vicini e “amici” del Medio Oriente può
essere preso ad esempio: più di settecentomila palestinesi furono espulsi dalla
Palestina nel 1948 ed oggi si è arrivati alla terza generazione di rifugiati
che vivono segregati in campi profughi nella Palestina stessa e nei paesi
vicini.
La
priorità esclusiva alla dimensione umanitaria ha reso molto difficile, quando
non impossibile, per i rifugiati costruirsi una vita dignitosa con opportunità
di lavoro regolare;
e la tendenza delle politiche più recenti a promuovere una sedentarizzazione
dei rifugiati nei campi, restringendone la mobilità di circolazione, aggrava le
condizioni disagiate di vita che si protraggono nel tempo, soprattutto quando
si limita la possibilità di insediarsi stabilmente nel paese ospitante in
ragione di una presunta volontà di favorire quanto prima il ritorno in patria[21].
Quando la condizione dei rifugiati
è tutto fuorché temporanea, la separazione netta tra la condizione di rifugiato
e quella di migrante economico cozza con la realtà, ma si spiega perché ha
precise ragioni storiche e di convenienza: secondo l’analisi proposta da Katy
Long dell’Università di Edimburgo[22], la prassi di distinguere tra
migranti economici e rifugiati prese piede negli anni cinquanta, proprio per
assicurare ai rifugiati la protezione e il connesso diritto di attraversare le
frontiere che la precedente assimilazione del rifugiato al migrante economico
aveva impedito, subordinando il diritto all’asilo politico a criteri di
convenienza economica.
Le critiche sovietiche all’Occidente
di ricorrere ai campi profughi come mercati di schiavi per attingere a forza
lavoro di riserva a basso costo avevano contribuito a spingere verso una più
netta distinzione tra rifugiati e
migranti economici, al punto che da allora continuano ad esserci forti
resistenze a considerare i rifugiati come potenziali lavoratori.
Il Migration Compact, nella sua proposta italiana e, ancor di più,
nell’interpretazione successiva europea, non dipana la materia e mantiene l’ambiguità
oggi prevalente sulla distinzione tra rifugiati e migranti economici, utile per
giustificare l’alto numero di decisioni di respingimento delle richieste di
protezione internazionale ma superflua quando si tratta di provvedere con
respingimenti generalizzati di migranti e profughi.
Il Migration compact si limitava a intravedere una possibile
ripartizione per rotte geografiche, per quanto la storia insegni che esse sono
molto rapidamente sostituibili: la rotta orientale interessata da una maggiore
componente congiunturale di rifugiati provenienti dalla Siria e la rotta
centro-occidentale del Mediterraneo composta soprattutto da migranti economici
destinati ad aumentare strutturalmente nel tempo.
Quello
che il Migration Compact si propone è
di introdurre esplicitamente una quinta generazione di condizionalità per l’erogazione
di aiuti pubblici allo sviluppo, che si aggiunge in un processo cumulativo a quelle ancora
vigenti di prima generazione degli anni Ottanta, legate all’adozione di
programmi di aggiustamento strutturale e piani di stabilizzazione finanziaria
monitorati dalle istituzioni finanziarie internazionali, a quelle introdotte
negli anni novanta dall’UE nell’Accordo di Cotonou con paesi di Africa, Caraibi
e Pacifico a sostegno della democrazia e a protezione dei diritti umani, a
quelle adottate alla fine degli anni Novanta dalla Comunità internazionale per
ridurre il debito estero dei paesi
poveri.
Tale orientamento prevedeva l’adozione
di politiche pubbliche per ridurre la povertà e, infine, a quelle – di quarta
generazione – imposte dagli Stati Uniti dai primi anni duemila con il Millennium Challenge Account ai paesi
poveri chiamati a partecipare alla lotta al terrorismo a tutti i livelli,
locali e internazionali.
Il Migration Compact condiziona più aiuti allo sviluppo, cioè
obiettivi di lungo periodo della cooperazione internazionale, a un maggiore
impegno dei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nel Sahel e nel Corno d’Africa,
a fianco dell’UE per frenare i flussi migratori che raggiungono l’Europa.
Le risorse in campo
Le parole del Vice-ministro agli
Esteri Mario Giro, intervistato dal quotidiano online e mensile cartaceo Vita[23] sono state nette sul rischio di
impoverimento del contenuto potenzialmente innovativo della proposta italiana
una volta che questa diventi politica europea in materia, frutto di negoziati
difficili, come nel caso concreto è la proposta della Commissione europea. Dopo
il Consiglio Affari Esteri tenuto a Bruxelles il 20 giugno che precede il
Vertice dei capi di Stato e di governo del 28 e 29 giugno, c’è, cioè, il
rischio molto concreto che la proposta della Commissione europea di un Nuovo
quadro di partenariato (New Partnership
Framework)[24], elaborata a partire dal Migration Compact italiano, sia troppo
modesta e finisca con l’essere controproducente, limitata a definire una nuova
condizionalità per pochi aiuti finanziari e senza le ambizioni di lungo periodo
che l’iniziativa italiana voleva assumere.
Il rischio del riduzionismo del
partenariato con i paesi di origine e transito dei flussi di migranti e
rifugiati in chiave securitaria col ricorso alla leva delle condizionalità era,
invero, almeno in parte già presente nel documento italiano, focalizzato su
misure europee di aiuto finanziario e operativo rafforzato a fronte di
corrispondenti impegni in termini di controllo delle frontiere, riduzione dei
flussi dei migranti, cooperazione in materia di rimpatri/riammissioni,
rafforzamento del contrasto al traffico di esseri umani.
Tuttavia, nelle intenzioni del
governo italiano lo scambio doveva essere in nome di un grande patto di lungo
periodo tra Europa e Africa, incentrato su politiche di investimenti nelle infrastrutture,
nell’energia e nell’agro-industria, come era stato affermato in occasione della
conferenza ministeriale Italia-Africa del 18 maggio a Roma. L’obiettivo
ambizioso e forse irrealistico era quello di creare attraverso gli aiuti
internazionali le condizioni di sviluppo e occupazione nei paesi di origine dei
flussi migratori, in modo da ridurre la pressione ad emigrare.
Il documento italiano di aprile
esprimeva l’obiettivo ambizioso di andare oltre iniziative sporadiche in nome
di un approccio integrato e coerente dell’azione esterna dell’UE volto ad
aggiornare l’approccio globale alle migrazioni e alla mobilità (Global Approach to Migration and Mobility,
GAMM), il piano d’azione della Valletta, l’accordo tra UE e Turchia, il
partenariato dell’UE coi paesi di Africa, Caraibi e Pacifico, i dialoghi
regionali del Processo di Rabat e quello di Khartoum. Tuttavia, il documento
non riusciva a trattare i temi strutturali delle politiche industriali,
occupazionali, energetiche, ambientali e fiscali, come anche mancava di
dettagli sugli aspetti del commercio e della finanza internazionale che un
obiettivo tanto ambizioso come quello enunciato implicherebbe.
La necessità avvertita dal
documento del governo italiano di trovare una sintesi di interessi diversi
capace di generare mutui benefici per UE e paesi partner - in particolare i
paesi da identificare come prioritari per l’azione esterna del’UE in funzione
delle rotte di origine e transito dei flussi di migranti e profughi - si
traduce nella proposta di una co-ownership
tra le parti (pagina 2 del non-paper
del governo italiano), alla base dei piani d’azione dell’UE specifici per ogni
paese partner. Soltanto dieci anni prima, nella Dichiarazione di Parigi sull’efficacia
degli aiuti del 2005, la comunità internazionale aveva posto come principio
cardine dell’APS un maggior peso riconosciuto ai paesi beneficiari nella
definizione delle politiche di cooperazione allo sviluppo (il principio dell’ownership), principio messo da parte nel
documento italiano per far prevalere la logica delle condizionalità in funzione
della priorità della gestione e controllo dei flussi migratori.
Tuttavia, non c’è dubbio che il documento italiano avanzasse una serie
di proposte di strumenti da mettere in campo, combinando strumenti
pre-esistenti da riorientare e molti strumenti innovativi da introdurre:
(i)
progetti d’investimento ad alto
impatto sociale ed infrastrutturale, come suggerito dalla task-force del G8 – cui partecipa l’Italia – sugli investimenti a
impatto sociale, reindirizzando fondi già esistenti, come il Fondo europeo di
sviluppo (FES), lo Strumento di cooperazione allo sviluppo (DCI) e lo Strumento
europeo di vicinato (ENI);
(ii)
un nuovo fondo, l’EU Fund
for Investments (EU-FI), complementare agli strumenti pre-esistenti;
(iii)
un nuovo strumento finanziario
specifico per l’azione esterna in tema di migrazioni (Instrument for the external action in the field of migration, IEAM)
da istituire come parte del bilancio comunitario e che operi in sinergia con il
Fondo Asilo, migrazione e integrazione (Asylum,
Migration and Integration Fund, AMIF) e il Fondo Sicurezza interna (Internal Security Fund, ISF) operativi
nel periodo di programmazione 2014-2020;
(iv)
emissione di nuove obbligazioni
euro-africane, per facilitare l’accesso africano ai mercati dei capitali
consentendo finanziamenti a tassi che le garanzie europee manterrebbero più
bassi di quelli prevalenti sul mercato;
(v)
strumenti finanziari innovativi, come la
valorizzazione delle rimesse e il ricorso a meccanismi di blending (che legano componenti a dono con linee di credito o altro
da parte di enti commerciali o istituzioni finanziarie pubbliche), in sinergia
con la Banca europea degli investimenti (BEI) e altre istituzioni finanziarie
europee;
Strumenti indirizzati anche a
promuovere:
(i)
cooperazione in materia di
sicurezza (sostegno con iniziative di capacity
building per il controllo alle frontiere, menzionando esplicitamente la
nuova guardia di frontiera europea, cooperazione giudiziaria e di polizia
contro organizzazioni criminali e traffico di migranti, gestione di migranti e
rifugiati – in questo caso i profili sono associati);
(ii)
incentivi e nuove opportunità di
ingresso legali (sbloccando quote di ingresso per lavoratori a partire da una
revisione della Blu card varata nel
2009 per attrarre talenti qualificati, offrendo in loco informazioni e
formazione linguistica e professionale preparatoria insieme alle imprese che
assumeranno, integrazione nei paesi di destinazione, programmi di mobilità di
studenti e ricercatori, iniziative di mobilità circolare e migrazione Sud-Sud);
(iii)
schemi di reinsediamento (resettlement) di una determinata quota di rifugiati e richiedenti
asilo.
I paesi partner, in cambio, sulla
base delle risorse finanziarie europee mobilitate dovrebbero impegnarsi sul
fronte di:
(i)
controllo delle frontiere e
riduzione dei flussi migratori verso l’UE,
(ii)
cooperazione per i rimpatri e le
riammissioni,
(iii)
istituzione di sistemi efficienti
di gestione dei migranti e dei rifugiati,
(iv)
istituzione di sistemi di asilo
politico e lotta al traffico di migranti in linea con gli standard
internazionali.
Una menzione specifica era
infine fatta alla Libia,
cui si dovrebbe indirizzare un supporto particolare per migliorare le capacità
della polizia e della giustizia penale, la lotta al terrorismo e la gestione
dei flussi, distinguendo in questo caso i rifugiati (cui indirizzare programmi
di reinsediamento) dai migranti economici (per i quali prevedere rimpatri).
La
logica degli accordi con la Libia di Gheddafi prima e il recente accordo con la
Turchia di Erdoğan
hanno, inevitabilmente, alcune assonanze, nella ricerca di soluzioni che
facciano rimanere gli africani – molti migranti economici che non rientrano nei
percorsi selettivi da sviluppare, la quasi totalità di profughi e richiedenti
asilo – in Africa.
Non è un caso, a dimostrazione dell’enfasi
anche nel documento italiano sui temi securitari piuttosto che su quelli di
sviluppo, che sia esplicitamente indicato il contributo che può venire da
organizzazioni come UNCHR e IOM, con finanziamento europeo, per istituire
centri per rifugiati in Africa, e non ci sia alcuna menzione di organizzazioni
come l’ILO che, insieme al settore privato soprattutto di piccole imprese, mira
invece a promuovere occupazione a condizioni dignitose di lavoro (pagina 3).
Il disegno italiano, del resto, si ispirava chiaramente e
anche esplicitamente all’accordo UE-Turchia siglato il 7 marzo 2016 e che
assicura sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro ad Ankara.
Ma è proprio sul fronte
della mobilitazione delle risorse finanziarie che si può muovere una critica
severa,
come afferma con preoccupazione il Vice-ministro agli Esteri Mario Giro. Per la
Turchia sono stati previsti 6 miliardi di euro; invece ogni paese africano da
qui al 2020 dovrebbe ricevere appena 20 milioni di euro l’anno con i fondi
attuali del nuovo fondo fiduciario europeo di emergenza Trust Fund for Africa, annunciato dal presidente Juncker alla
Valletta nel novembre 2015, per la stabilità e la lotta contro le cause
profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa e
per il quale la Commissione Europea mobilita 1,8 miliardi di euro per 23 paesi
africani dai fondi europei (provenienti dal bilancio dell’UE e dal Fondo
europeo di sviluppo (FES), aspettando che anche gli Stati membri partecipino
con risorse proprie.
Se la Commissione e gli Stati membri non sono in grado di
rilanciare mobilitando molte più risorse aggiuntive c’è ben poco da fare.
Negli auspici, il bilancio dell’UE dovrebbe mettere a
disposizione 4,6 miliardi di euro, utili come risorse per avviare l’iniziativa
che dovrà poi mobilitare investimenti privati o pubblici pari a 62 miliardi,
tramite anche la BEI, riproponendo una sorta di Piano Juncker per gli
investimenti nelle infrastrutture all’esterno dell’UE.
Fig. 7. Le risorse previste ed
auspicate per il Migration Compact (miliardi di euro)
Avvio con
4,6 miliardi di euro |
Leva per
62 miliardi di euro a lungo termine |
|
|
In realtà, molto manca per dare operatività concreta all’obiettivo
di raccogliere 4,6 miliardi di euro prima e altri 62 miliardi dopo. Al momento,
i soldi freschi previsti sono solo 500
milioni di euro provenienti dal fondo di riserva del FES, perché tutte le
altre risorse sono fondi già esistenti e finora erogati solo per la quota
spettante alla Commissione europea: 3,6 miliardi di euro sono quelli del Fondo
fiduciario per l’Africa lanciato alla Valletta, di cui la Commissione europea
ha versato 1,8 miliardi di euro di propria competenza, mentre gli Stati membri si sono finora limitati a versare solo 81
milioni di euro rispetto agli impegni di 1,8 miliardi.
Lo stesso discorso vale per il restante miliardo che, negli
auspici di Bruxelles, dovrebbe essere equamente ripartito tra Commissione (500
milioni di euro di soldi freschi, per l’appunto) e Stati membri (che dovrebbero
fare altrettanto).
Ancora maggiori sono le incertezze nel caso dei 62 miliardi
di euro da mobilitare per la parte a lungo termine del piano, perché l’avvio è
legato allo stanziamento di 3,1 miliardi di euro da parte della Commissione
Europea entro il 2020, anche questi ottenuti riorientando fondi di programmi
preesistenti (2 miliardi del FED, 1,6 miliardi della African Investment Facility, 0,4 miliardi di dotazioni finanziarie aggiuntive del FED,
0,94 miliardi dello Strumento europeo di vicinato e 0,16 miliardi dello
Strumento di cooperazione allo sviluppo): senza cioè mobilitare risorse
realmente nuove, con l’obiettivo di attivare un sistema di garanzie, fondi
pubblici e privati per 31 miliardi di euro. Anche in questo caso, il piano
prevede che gli Stati membri facciano altrettanto, mettendo a disposizione
altri 3,1 miliardi di euro, così da mobilitare altri 31 miliardi di euro ed
arrivare infine a mobilitare complessivamente 62 miliardi di euro.
Tutta da dimostrare è la
reale volontà da parte degli Stati membri di contribuire significativamente al
raggiungimento degli obiettivi finanziari: lo era sin dall’inizio al momento
della comunicazione di questa iniziativa, lo è a maggior ragione dopo l’esito
del referendum inglese. Successivamente, tutta da dimostrare sarà la capacità
di attivare un effetto leva che moltiplichi per dieci volte il volume delle
risorse messe a disposizione.
I rischi paventati dallo stesso
Vice-ministro agli Esteri Mario Giro d’incertezze sull’effettiva mobilitazione
di risorse finanziarie aggiuntive e di riduzionismo del partenariato con i
paesi di origine e transito dei flussi di migranti e rifugiati in chiave
securitaria, attraverso condizionalità stringenti in cambio di aiuti non
possono essere liquidati come infondati, alla luce delle conclusioni del
Consiglio Europeo di fine giugno.
Al di là del realismo dei
presupposti che reggono la proposta finanziaria della Commissione europea,
critiche all’impianto di fondo del disegno si sono levate dal mondo non
governativo, come nel caso di John K. Bingham, direttore delle politiche della International Catholic Migration Commission
(ICMC), che ha espresso la preoccupazione che risorse come quelle del Fondo
fiduciario per l’Africa, destinate a iniziative di sviluppo dei paesi poveri,
siano invece dirottate a programmi di gestione dei flussi migratori. Inoltre,
come dice Sara Tesorieri, responsabile in materia di politiche migratorie per l’ufficio
europeo dell’ONG internazionale Oxfam, l’UE si era impegnata, nella
dichiarazione e Piano d’azione finali de La Valletta, a incrementare la tutela
dei diritti umani e a salvare vite umane; dopo nemmeno sei mesi la priorità è
ora diventata dare finanziamenti a governi africani compresi casi noti per le
sistematiche violazioni dei diritti umani con l’obiettivo di contenere gli
arrivi in Europa.
La realtà dei paesi pilota del Corno d’Africa
La
strategia operativa dell’UE dovrebbe articolarsi in una serie di partenariati,
i Migration Compact, ovvero accordi
su misura negoziati in modo coordinato dall’UE e dagli Stati membri. La
proposta prevede 17 partner strategici in tre regioni africane:
·
Algeria, Egitto, Libia, Marocco e
Tunisia in Nord Africa,
·
Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan
nel Corno d’Africa e Sudan,
·
Costa d’Avorio, Gambia, Ghana,
Guinea, Mali, Niger, Nigeria e Senegal nel Sahel.
Il
Consiglio europeo del 28-29 giugno prevede che entro la fine del 2016 siano
resi operativi i primi accordi che, al momento, è ipotizzabile interesseranno 7
paesi-pilota:
·
Quattro
paesi d’origine dei flussi nel Sahel (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal),
·
un
paese di transito nel Sahel
(Niger)
·
un
paese di transito,
ma anche di origine in prossimità del Corno d’Africa (Sudan),
·
un
paese di destinazione, transito e origine nel Corno d’Africa (Etiopia).
Il piano prevede investimenti
europei per dieci miliardi di euro nei sette paesi africani pilota, ma anche
nuovi hotspot che si aggiungono ai
cinque già esistenti, da aprire in Italia anche su strutture mobili e
galleggianti, come navi e piattaforme.
Scorrendo la lista dei 17 partner
dell’Africa, identificati come strategici rispetto a un tema come i diritti
fondamentali dei migranti e dei profughi, la dignità e il valore della persona
umana, non possono che nascere dubbi, pensando a governi che non rispettano i
diritti fondamentali e l’obbligo di non-respingimento, in modo simile a quanto
avvenne nel caso degli accordi con la Libia di Gheddafi e con tutte le
incertezze che accompagnano oggi l’accordo con Turchia di Erdoğan. Oltre
alla stessa Libia, anche paesi del Corno d’Africa come Eritrea, Etiopia e
Somalia e il vicino Sudan pongono questi interrogativi, rischiando di
pregiudicare la credibilità di lungo periodo dello spirito dell’iniziativa.
Nel
caso del Corno d’Africa,
solo l’Etiopia al momento è proposto
come paese pilota, cui si affianca il vicino Sudan. Anche se non inserito nella
lista dei paesi pilota, vale la pena di fare alcune considerazioni sul caso
dell’Eritrea per la sua rilevanza nell’area, e poi sugli altri paesi, a
dimostrazione di una realtà complessa, dove la distinzione tra migrazioni
economiche e profughi è molto sfumata in contesti in cui povertà, calamità
naturali, crisi umanitarie, politiche e violazioni dei diritti umani creano una miscela
esplosiva, in cui convivono sfollati interni, profughi di altri paesi vicini e
persone che decidono di e/o sono costrette a lasciare il proprio paese.
Eritrea
In Eritrea, il governo dispotico
del Presidente Isaias Afwerki e del Fronte Popolare per la Democrazia e la
Giustizia è accusato dalle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità ed è
sottoposto a sanzioni.
Il rapporto 2015 di Freedom House colloca l’Eritrea tra i 12
peggiori paesi al mondo per quel che riguarda diritti e libertà civili e
politiche; il rapporto della Banca Mondiale Doing
Business lo colloca all’ultimo posto nella classifica in base alla
disciplina normativa e fiscale che si applica alle imprese. La povertà
aggravata dalla drammatica siccità che ha colpito la regione a cavallo tra 2015
e 2016, regole ferree che proibiscono alla popolazione assemblee pubbliche e l’obbligo
di fatto del servizio militare a tempo pressoché indeterminato e in condizioni
di lavoro forzato, a dispetto dei 18 mesi formali di leva e motivato dalla
prolungata ostilità con l’Etiopia, rendono le condizioni di vita di gran parte
della popolazione durissime, costringendo molte persone ad abbandonare la terra
in cerca di protezione internazionale[25].
Tuttavia, fintantoché i principali
partner commerciali e per la cooperazione allo sviluppo dell’Eritrea, cioè UE e
Cina, continueranno a mantenere relazioni molto strette col governo, è
difficile prevedere rapidi cambiamenti. La ricchezza minerale del paese, la
rilevanza dal punto di vista geo-strategico dovuta alla vicinanza del Golfo di
Aden (attraverso cui ogni anno passano decine di migliaia di somali che si
imbarcano alla volta dello Yemen) e soprattutto il bisogno di alleati per
arginare le pressioni migratorie e di profughi alle frontiere evidentemente
prevalgono nelle considerazioni strategiche.
L’UNHCR stimava che circa 5 mila
eritrei hanno abbandonato mensilmente il paese nel 2014. L’emorragia è
proseguita anche nel 2015 e l’Eritrea è diventata il nono paese al mondo di
origine di rifugiati, con 411.300 rifugiati alla fine del 2015 (cui si
aggiungono circa 63.500 richiedenti asilo in attesa di risposta), rispetto ai
363.200 a fine 2014, e soprattutto il quarto paese di origine degli arrivi in
Europa attraverso le rotte mediterranee, dietro siriani, afghani e iracheni.
Nel
2015 gli eritrei hanno rappresentato il 4% di tutti gli arrivi in Grecia,
Italia e Spagna, toccando il 19% di quanti sono arrivati per mare in Italia, anche se soltanto 700 persone
hanno fatto richiesta di asilo nel nostro paese. A livello europeo, invece, gli
eritrei richiedenti asilo sono molti, che considerano l’Italia solo paese di
transito per raggiungere Germania, Svizzera, Paesi Bassi o Svezia. Elevato è
anche risultato il numero di minori non accompagnati: ben 7.300.
L’ambiguità dei governi europei nei
confronti del governo eritreo ha portato alcuni paesi - come Regno Unito e
Danimarca (con il Danish Immigration
Service) - a considerare irricevibili le richieste di asilo, con la
conseguenza che nel 2015 è stata registrata una percentuale molto alta di
richieste respinte soprattutto nel Regno Unito, dove – in base ai dati Eurostat
– solo il 61% di domande sono state accolte (il 34% delle domande nel secondo
semestre dell’anno) rispetto all’87% di riconoscimenti in Europa, sposando
evidentemente la tesi del governo eritreo secondo cui si deve parlare di
migrazioni economiche.
Il rischio reale è che l’eventuale
rimpatrio forzato in Eritrea di profughi e richiedenti asilo respinti porti a
condanne in quel paese – dove le condizioni delle prigioni sono considerate tra
le peggiori al mondo da Amnesty International, che ha documentato casi di
tortura – per le accuse di espatrio clandestino e soprattutto di diserzione dal
servizio di leva obbligatorio.
In Etiopia, dove si registra
il perdurare di scontri al confine con l’Eritrea, la coalizione governativa del
Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope è responsabile – secondo l’ONG
statunitense Human rights watch –
dell’uccisione negli ultimi mesi di varie centinaia manifestanti
antigovernativi degli Oromo, il più importante gruppo etnico del paese (circa
31 milioni di persone su un totale di quasi 97 milioni di abitanti in Etiopia),
mantenendo alta la tensione nel paese, con migliaia di arresti e casi di
violenze e stupri.
Il governo etiope giustifica
la sua condotta e i comportamenti della polizia, giudicati brutali da
osservatori indipendenti, dinanzi alla comunità internazionale parlando di
lotta a reti terroristiche e sfruttando l’importanza geopolitica di un paese
“stabile” in una zona strategica e instabile come il Corno d’Africa.
Sul piano diplomatico, l’UE
ha assistito negli ultimi anni a un consolidamento dei legami dell’Etiopia con
la Cina, principale mercato di sbocco per le esportazioni etiopi (l’11,7% del
totale nel 2015) e principale paese di origine delle importazioni (il 20,4% del
totale nel 2015), ma soprattutto principale fonte – seguita da Turchia e India
– degli investimenti diretti esteri che sono decuplicati in pochi anni.
Ad aprile, una milizia di etnia
Murle proveniente dallo stato di Boma nel Sudan meridionale ha ucciso 208
contadini etiopi e rapito un centinaio di bambini nei villaggi della regione di
Gambella, una zona già instabile a causa di tensioni intra-etniche che
oppongono i Nuer e gli Anyuak.
L’arrivo nei primi mesi dell’anno
di 280 mila profughi Nuer dal Sudan meridionale ha fatto raddoppiare la
popolazione Nuer, accrescendo le tensioni. Il governo etiope, dopo la strage
della milizia di etnia Murle, ha avviato consultazioni col governo sudanese per
appoggiare quest’ultimo in un’operazione militare di normalizzazione nello
stato di Boma.
L’Etiopia, che si trova in
una posizione geografica molto critica, in prossimità di focolai di profughi
come il Sudan meridionale e la Somalia, è oggi il quinto paese al mondo per
popolazione rifugiata ospitata e il primo nell’Africa sub-sahariana, dando
ospitalità a oltre 736 mila rifugiati e quasi 80 mila richiedenti in attesa di
risposta, secondo i dati dell’UNHCR.
In particolare, l’Etiopia dà
rifugio a 281.500 profughi che hanno lasciato il Sudan meridionale, 256.700
somali e quasi 38 mila sudanesi; inoltre, il grave conflitto in Burundi, un
paese estremamente povero in cui l’80% della popolazione vive al di sotto la
soglia di povertà assoluta, ha provocato più di 280 mila sfollati interni e
rifugiati in tutta la regione dei Grandi Laghi e quasi 75 mila profughi hanno
raggiunto l’Etiopia. Considerando il basso livello di reddito dell’Etiopia, il
paese balza al secondo posto al mondo, dietro la Repubblica democratica del
Congo, se si considera il numero di rifugiati per ogni dollaro di reddito
nazionale lordo: 453 rifugiati per ogni dollaro di reddito prodotto, rispetto
per esempio ai 126 rifugiati per dollaro nel caso della Turchia.
Da questo punto di vista, l’Etiopia
è indicativa della situazione di molti paesi africani poveri che ospitano
numerosi rifugiati: sette dei primi dieci paesi in questa particolare classifica
sono, per l’appunto, africani (il Pakistan è terzo, dietro l’Etiopia, con 317
rifugiati per dollaro prodotto, l’Afghanistan è ottavo con 137 rifugiati,
chiude la top ten la Turchia con 126
rifugiati).
L’Etiopia è anche paese di
origine di quasi 86 mila rifugiati e quasi 80 mila richiedenti asilo all’estero.
In Sudan, sul governo del
colonnello Omar Hassan al-Bashir, al potere dal 1989 a seguito di un golpe
militare e sottoposto a sanzioni statunitensi, pende un mandato di arresto
della Corte penale internazionale per crimini di guerra dell’Aia per crimini
contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur.
Le condizioni di vita della
popolazione non sono certo facili, a cominciare proprio dal Darfur dove oltre
due milioni di sfollati a causa del conflitto iniziato nel 2003 vivono nei
campi profughi, cui si sono aggiunti altri 130 mila fuggiti dalla zona di Jebel
Marrad sotto attacco delle forze governative. Ad aprile del 2016 si è tenuto il
referendum, previsto dall’accordo di pace firmato a Doha nel 2011 ma boicottato
dalle opposizioni, il cui esito ha confermato la divisione in cinque parti,
anziché la riunificazione in un’unica regione come prima del 1994.
Le condizioni non sono facili
neanche nel vicino Sudan Meridionale, dove le forze lealiste del presidente
Salva Kiir si confrontano con il suo precedente vice, Riek Machar, con
frequenti violazioni del cessate il fuoco, il persistere di tensioni etniche e il
conseguente aumento di sfollati interni.
Sul piano delle relazioni
internazionali, al-Bashir sta cercando di rafforzare i legami con la Cina, che
però risentono del ribasso del prezzo del petrolio, del conflitto nel Sudan
Meridionale e del rallentamento della crescita cinese, e al contempo punta
molto sul partenariato coi paesi del Golfo, in primis l’Arabia Saudita. Le
difficoltà economiche sono aggravate dagli effetti delle calamità naturali
causate da El Niño che – secondo le
stime dell’Organizzazione mondiale della salute (World Health Organisation, WHO) – espongono 4,2 milioni di persone
al rischio di insicurezza alimentare.
Per queste ragioni, il governo di
al-Bashir ha tutto l’interesse a rafforzare i legami con partner strategici
come l’UE al fine di accreditarsi sul piano esterno come interlocutore chiave,
ottenere fiducia e contributi finanziari. L’opportunità di farlo sul tema delle
migrazioni e dei flussi di richiedenti asilo, in relazione alle politiche di
esternalizzazione del controllo delle frontiere per il controllo dell’immigrazione
portate avanti dall’UE, nello specifico attraverso il cosiddetto “Processo di
Khartoum”[26] caldeggiato dall’Italia e di cui
anche il Sudan è firmatario, è un’occasione ghiotta.
Il Sudan, infatti, oltre a essere
paese di origine di quasi 630 mila rifugiati e richiedenti asilo all’estero (in
aggiunta ai quasi 780 mila del Sudan meridionale), è un importante paese di
transito per migranti e profughi che arrivano dal Medio Oriente, dal Corno d’Africa
e dall’Africa sub-sahariana e attraversano il Sahara per arrivare poi in Libia
o in Egitto e di lì imbarcarsi per l’Europa.
A maggio centinaia di giovani
eritrei sono stati sottoposti a fermo di polizia, espulsi e consegnati alla
polizia di frontiera eritrea: evento che, secondo alcuni analisti e membri
della diaspora, è da ricondursi direttamente alla volontà del governo di
al-Bashir di accreditarsi davanti alle capitali europee come efficace partner
per la gestione “ordinata” dei movimenti di profughi e migranti, e al contempo
alimenta il mercato dei trafficanti che speculano sulle vite delle persone,
facendo aumentare il prezzo degli spostamenti clandestini e facilitando l’estorsione
da parte di forze di sicurezza corrotte ai danni di persone sempre più
vulnerabili e richiedenti asilo [27].
A conferma di tutto ciò, nell’ambito
del Fondo fiduciario per l’Africa l’UE ha destinato 40 milioni di euro al
progetto Better Migration Management
(Horn of Africa) che mira a dotare il Ministero dell’Interno sudanese di
due centri di detenzione, computer, telecamere, scanner e automobili per
rafforzare la capacità della polizia di frontiera.
Si tratta di un’iniziativa che
rende operativa la volontà sancita con il Processo di Khartoum di collaborare
per combattere il traffico di esseri umani e garantire percorsi più strutturati
per chi emigra, ed evidenzia il rischio e l’ambiguità di interventi come l’assistenza
alla creazione di centri d’accoglienza e l’addestramento della polizia di
frontiera per il contrasto delle migrazione quando si tratta di collaborare con
regimi non credibili sul piano della tutela del diritto d’asilo e la gestione
dei flussi migratori.
La realtà dei paesi pilota del Sahel
Il governo del presidente Alassane
Ouattara e dei suoi alleati sta affrontando le tensioni causate dalle
difficoltà economiche che non offrono prospettive occupazionali, dalla
percezione di una diffusa corruzione e dal persistente aumento del costo della
vita. Si registrano lenti progressi sul piano della riconciliazione e smobilitazione
delle milizie, composte da 20 mila combattenti in passato ribelli, e del
processo di rientro in patria di migliaia di persone fuggite all’estero, che ha
interessato nel 2015 oltre 12 mila persone, mentre oltre 70 mila sono i
rifugiati all’estero a fianco di quasi 15 mila richiedenti asilo che hanno
lasciato il paese in parte perché schierati col presidente deposto e temono
vendette.
Il rientro dei profughi all’estero
ha subito peraltro un rallentamento imprevisto da parte delle autorità
governative, che avevano deciso nel 2014 di chiudere le frontiere con le
nazioni confinanti più colpite (Liberia e Guinea) nel tentativo di impedire la
diffusione del virus Ebola. Ancora oggi, in Liberia vivono oltre 22 mila
profughi ivoriani che hanno lasciato il paese all’indomani degli scontri
post-elettorali nel 2010/2011. Resta aperto il contenzioso su beni e abitazioni
di chi è fuggito, di cui a oggi solo il 63% sarebbero state liberate per essere
restituite, secondo il ministro della solidarietà Mariatou Koné.
Il doppio attentato di un commando
terrorista a tre resort turistici nei
pressi di Grand Bassam, cittadina costiera a 40 km. da Abidjan, la capitale
della Costa d’Avorio, è stato rivendicato sia da Al Qaeda per il Maghreb che da
Mokhtar Belmokhtar, leader algerino del gruppo Al-Mourabitoun. Ciò ha spinto la
comunità internazionale a sostenere la normalizzazione del paese, portando il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad estendere, a fine aprile 2016, il
mandato dell’operazione di peace-keeping
Costa d’Avorio (United Nations Operation
in Côte d’Ivoire, UNOCI) fino al giugno 2017[28].
Al contempo, il 5 aprile il Gruppo di cinque esperti delle Nazioni
Unite, comprendente l’italiano Roberto Sollazzo (specializzatosi in
conflitti legati a risorse naturali e diamanti in Africa), ha pubblicato un
voluminoso rapporto che solleva molte preoccupazioni per la presenza di un
grande quantitativo di armi (circa 300 tonnellate, pari al 30% dell’arsenale in
dotazione alle forze armate) non registrate e in mano a forze militari non
governative, legate a traffici che coinvolgerebbero il Presidente dell’Assemblea
nazionale della Costa d’Avorio, Guillaume
Soro[29], in un contesto di reiterate
violazioni dell’embargo ONU sulle armi[30].
Ghana
Il prossimo 7 novembre si
terranno le elezioni legislative e presidenziali in Ghana, in un clima
prevedibilmente di forti tensioni, acuite da una congiuntura economica molto
critica e dai contrasti tra il partito del Presidente John Dramani Mahama, il National Democratic Congress (NDC), e il
principale partito d’opposizione, il New
Patriotic Party (NPP), guidato dal candidato alle presidenziali Nana Akufo
Addo. Proprio in ragione delle possibili tensioni, il governo prevede il
dispiegamento di 6mila soldati su tutto il territorio nazionale durante le
elezioni, in modo da garantire la loro regolarità e l’ordine pubblico.
Il discredito che ha
investito la magistratura per via di recenti casi di corruzione aggiunge
ulteriori timori circa la capacità di assicurare una transizione pacifica all’indomani
dei risultati elettorali di novembre, dal momento che le precedenti elezioni
nel 2012 avevano visto vincere di stretta misura John Dramani Mahama su Nana
Akufo Addo, che aveva subito rigettato i risultati come fraudolenti e
organizzato manifestazioni di protesta in piazza sedate dall’intervento della
polizia: in quel caso la soluzione pacifica fu garantita proprio grazie all’intervento
della Commissione Elettorale che ha decretato la vittoria di John Dramani
Mahama.
Nondimeno, il Ghana è a ragione ancora ritenuto uno
dei paesi politicamente più stabili di tutta l’Africa, il che ridimensiona
le preoccupazioni legate a possibili attacchi terroristici del fondamentalismo
islamico che nel 2016 ha colpito i paesi vicini, Burkina Faso e Costa d’Avorio.
Il carattere tradizionalmente poroso dei confini nella regione dell’Africa
occidentale e la disponibilità di significative quantità di armi – come
dimostra il caso della Costa d’Avorio – concorrono però a limitare la capacità
dello Stato in materia di controllo e di garanzia della sicurezza.
Il rischio di infiltrazioni
terroristiche provenienti dall’esterno ha determinato una crescente attenzione
alla presenza di migranti e profughi transfrontalieri, senza però una
accresciuta capacità istituzionale di monitorare nel dettaglio le dinamiche in
corso.
In Ghana ci sono quasi
17.500 rifugiati e 2 mila richiedenti asilo in attesa di risposta e non si
tratta di situazioni dell’ultima ora; il picco fu raggiunto piuttosto alcuni
decenni fa, nel 1993, quando il paese diede riparo ad oltre 150 mila rifugiati.
Il campo rifugiati Buduburam, ad Accra, fu aperto nel 1990 dalle Nazioni Unite
per dare riparo ai rifugiati fuggiti dalla guerra civile in Liberia (1989-1996)
e poi da quella in Sierra Leone (1991-2001), dalla seconda guerra civile in
Liberia (1999-2003) e dalle due guerre civili in Costa d’Avorio (2002-2004 e
2011). Il campo ha ospitato decine di migliaia di profughi; negli ultimi anni
ne è stata annunciata la chiusura a seguito del rimpatrio volontario nei
rispettivi paesi di molti rifugiati.
Nel frattempo, è diventato
una discarica a cielo aperto dove vengono abbandonati e spesso bruciati rifiuti
indifferenziati, ma continua ad essere area di insediamento di migranti
arrivati dai paesi vicini. Il Ghana, infatti, per quanto manchino statistiche
ufficiali regolari e dettagliate, è storicamente paese di destinazione
permanente di migranti economici, impiegati soprattutto nelle miniere, di
migranti stagionali da Burkina Faso, Niger e Mali, e di mandriani di bestiame
di etnia nomade Fulani (o Peul),
dediti alla pastorizia e al commercio in tutta l’Africa occidentale[31].
Sono invece 23 mila i
rifugiati ghanesi all’estero e 11 mila i richiedenti asilo. Rispetto ai circa
25 milioni di abitanti del Ghana, si stima che ci siano complessivamente oltre
4 milioni di persone originarie del paese che risiedono all’estero. Il Ghana è
attraversato da processi migratori sia interni - che hanno origine nelle zone
settentrionali per effetto tanto della mancanza di opportunità di impiego
remunerato quanto del peggioramento delle condizioni climatiche con il
prolungamento della stagione secca, e che sono diretti verso la capitale Accra
- sia internazionali, dinanzi all’impossibilità di trovare lavoro anche nella
capitale.
A dispetto delle critiche
rivolte dalle opposizioni di ridurre gli spazi di democrazia nel paese, il
governo del Parti nigérien pour la
démocratie et le socialisme (PNDS) e del presidente Mahamadou Issoufou -
eletto nel 2011 e nello stesso anno uscito indenne da un complotto ordito da
alcuni militari per ucciderlo, e poi riconfermato il 20 marzo 2016 in seguito a
un ballottaggio vinto nettamente (con il 92,5% dei voti) contro l’oppositore
Hama Amadou, che aveva condotto la campagna elettorale dal carcere (con l’accusa
di traffico di bambini) ed è poi riparato in Francia per ragioni di salute - è
un esempio paradigmatico del sostegno dell’Occidente, in questo caso
soprattutto di Francia e Stati Uniti, per i governi della regione saheliana,
diventata chiave nella guerra al terrorismo e al traffico di uomini, armi e
droga.
Le relazioni con gli Stati
Uniti sono imperniate sul tema della sicurezza e il Niger sta diventando una
base operativa molto importante per tutte le operazioni di lotta al terrorismo
condotte dagli Stati Uniti nella regione. L’UE è la principale fonte di Aiuti
pubblici allo sviluppo per il Niger, che ha nella Francia il primo donatore
bilaterale e il principale partner commerciale.
Da questo punto di vista, il
Niger è un caso esemplare non solo dell’interesse europeo verso la regione, ma
anche delle caratteristiche di quella stessa regione, in quanto si tratta di un
paese molto povero, con elevata disoccupazione, una popolazione molto giovane,
diffusa corruzione e crescente malessere sociale. Una regione considerata
strategica per il rischio di infiltrazioni della propaganda fondamentalista
islamica, come dimostrano i casi di Boko
Haram in Nigeria e la presenza di gruppi come al Qaida in the Islamic Maghreb (AQIM) responsabili degli attentati
in Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio, che può diventare molto concreto in
Niger.
La cooperazione militare a
livello regionale tra Nigeria, Ciad e Niger ha contribuito a riconquistare gran
parte del territorio nigeriano e a contenere l’avanzata di Boko Haram che, tuttavia, mantiene ancora la capacità di realizzare
azioni terroristiche che determinano flussi di rifugiati e di sfollati interni,
rischio che corre soprattutto Diffa, la regione sud-orientale del Niger vicina
al Lago Ciad e una delle più povere del paese. Le scarse capacità militari e di
amministrazione governativa, unite alla porosità dei confini, rendono molto
vulnerabile il paese.
Nel maggio 2015, il Niger ha
adottato una legge per reprimere i trafficanti di migranti che si dirigono in
Libia (passando per Séguédine) e in Algeria (attraverso Arli) per poter poi
raggiungere l’Europa, ma i risultati tardano a manifestarsi: nel 2014, oltre 80
mila migranti hanno attraversato il territorio nigerino per raggiungere il
Maghreb e poi l’Europa, nel 2015 il flusso è aumentando interessando 120 mila
migranti, nel 2016 il governo stima un’intensificazione del traffico che
dovrebbe portare a 160 mila il numero di migranti che transiteranno per il
Niger[32].
Le rotte delle migrazioni,
ma anche della droga, che legano l’Europa con il Nord Africa (soprattutto Libia
e Tunisia), il Sahel, l’Africa occidentale e il Golfo di Guinea si intrecciano
con gli interessi occidentali nell’area e il Niger può risultare uno snodo
molto importante.
Secondo l’ufficio per gli
affari umanitari delle Nazioni Unite (UN
Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, OCHA), a partire dal
febbraio 2015 si sono registrati oltre 115 incidenti che hanno inciso sulla
sicurezza, con l’effetto di uno sfollamento di oltre 241 mila persone nella
regione di Diffa. Agli attacchi di Boko
Haram sono avvenuti a cominciare da aprile 2016 e, tra maggio e giugno, per
sei volte è stata colpita la città di Bosso, sempre nella regione di Diffa,
mentre due assalti a bordo di moto e a cavallo hanno colpito il villaggio di
Yebi, nei pressi di Bosso, dove vivono sfollati interni e oltre 14 mila
rifugiati in fuga dalle violenze di Boko
Haram in Nigeria. A seguito di questi fatti, secondo UNHCR, oltre 50 mila
persone hanno abbandonato le loro abitazioni nel sud-est del Niger.
Oltre a
140 mila sfollati interni e altre 70 mila persone in condizioni di bisogno di
una qualche protezione internazionale, il Niger ospita 125 mila rifugiati.
Trattandosi di un paese molto povero, il numero di rifugiati che esso ospita
“pesano” molto: si tratta di 130 rifugiati per ogni dollaro di reddito
nazionale prodotto.
Negli ultimi mesi in Nigeria
si sono intensificati gli attacchi nella regione petrolifera del Delta del
Niger, determinando la riduzione di un terzo dell’estrazione del petrolio che
continua ad essere l’asse portante dell’economia, ma anche fonte di corruzione
e violenza diffusa nel paese. Ai primi di giugno un gruppo di militanti locali,
i “Vendicatori del delta del Niger (Niger
Delta Avengers), ha scritto su Twitter di aver attaccato in meno di una
settimana due delle infrastrutture gestite dall’ENI, la pipeline
Ogboinbiri-Tebidaba e quella Clough Creek-Tebidaba nello stato di Bayelsa, uno
dei 36 stati della Nigeria, situato nel cuore della regione del Delta del
Niger, dopo aver colpito in maggio impianti gestiti dalla Chevron e dalla Royal
Dutch Shell, ritenuti causa del degrado ambientale e della corruzione endemica
nella regione, a prevalenza cristiana. L’ENI ha confermato il fatto.
Il presidente della Nigeria
in carica da un anno, Muhammadu Buhari,
si propone insieme al suo partito All Progressives Congress (APC) l’obiettivo di normalizzare
il paese, focalizzandosi però più che su altre cause di tensione, sul rischio
di crescenti violenze riconducibili a movimenti fondamentalisti islamici,
etno-nazionalismi e tensioni inter-religiose.
Tuttavia, la mancanza di
concrete opportunità di impiego nel settore formale dell’economia continua ad
alimentare la rabbia e il malessere sociale tra i giovani, mentre il
consolidamento della dipendenza dell’economia del paese dalla rendita
petrolifera contribuisce a mantenere bloccato il sistema, impedendo proprio l’emergere
di nuove opportunità di lavoro necessarie per togliere terreno alla propaganda
del fondamentalismo, ma anche per liberare il paese da nepotismo, corruzione,
disoccupazione di massa ed elevata disuguaglianza: fenomeni che penalizzano
soprattutto le zone povere del Nord, da sempre roccaforte musulmana, dove ha
attecchito Boko Haram e dove si stima
che la crisi economica e l’insicurezza abbiano indotto negli ultimi anni più di
un milione di persone ad abbandonare le proprie case per sfuggire ai raid e ai
massacri di Boko Haram, riparando in
diversi campi profughi, mentre oltre 30 mila sarebbero le vittime del
terrorismo negli ultimi sei anni.
Solo
nel 2015, il numero di sfollati interni è aumentato da 1,2 milioni di persone
alla fine del 2014 a circa 2,2 milioni alla fine del 2015, con un aumento di 964 mila
persone (l’81%) concentrate nelle zone nord-orientali del paese, e circa 70
mila persone sono state costrette alla fuga dalla Nigeria.
L’organizzazione
jihadista sunnita,
diffusa nel nord della Nigeria, di Boko
Haram (che significa “l’educazione occidentale è sacrilega” e si
autodefinisce “Gente dedita agli
insegnamenti del Profeta per la propaganda e il jihad”) è peraltro sempre
più un fenomeno che mira a regionalizzarsi. Fondata nel 2002 nella città di
Maiduguri capitale del Borno, stato nel nord-est della Nigeria, da Ustaz
Mohammed Yusuf con l’idea di instaurare la shari’a
in quello stato rifiutando qualsiasi forma di governo al di fuori dalla legge
islamica, ha spostato poi la propria sede nel villaggio di Kanamma, vicino al
confine col Niger, concentrandosi inizialmente sulle predicazioni trasmesse
nella regione e considerate pericolose solo dal Consiglio dei dotti in scienze
religiose, gli Ulema, finché la polizia ha avviato indagini nel 2009 che hanno
portato alle prime azioni violente di Boko
Haram.
Assassinati senza processo
molti militanti, arrestato e ucciso in carcere il fondatore, il suo posto al
vertice dell’organizzazione è passato al suo collaboratore Abubakar Shekau, su
cui pendono taglie del governo nigeriano e di quello statunitense, che ha
sviluppato la strategia militare e stragista dell’organizzazione.
Gli attacchi e la violenza
sono andati da allora crescendo: nel 2013 la Nigeria ha dichiarato lo stato di
emergenza e l’apice della violenza è stato raggiunto nel 2015. In quell’anno,
gli attacchi dinamitardi di Boko Haram non si sono più limitati alla Nigeria,
al cui interno un’area più grande era finita sotto il controllo dell’organizzazione,
ma si sono estesi all’intero bacino del lago Ciad.
Il Camerun è stato il primo paese investito da aggressioni su vasta
scala già nel 2014, nella città di Kolofata nel Nord, e le forze militari del
paese si sono dovute impegnare nello smantellamento di campi di addestramento
di Boko Haram nel dipartimento di Logone e Chari, nella regione dell’Estremo
Nord del Camerun. Anche Niger e Ciad hanno subito attacchi a civili e militari,
con attentati, uccisioni, rapimenti di massa[33], tratta di schiave e prostituzione
e villaggi dati alle fiamme. In particolare, il Niger è diventato oggetto di
attacchi da quando, dal 2013, ha iniziato a ricevere nell’area di Diffa, un
numero elevato di profughi in fuga dalla Nigeria.
L’incapacità
dei paesi del Sahel di controllare le frontiere ha agevolato la nuova strategia
di internazionalizzazione a carattere transfrontaliero di Boko Haram, spingendo il governo nigeriano a
richiedere l’intervento di Camerun, Ciad e Niger al proprio fianco nel Nord-Est
contro Boko Haram. Sono stati così messi in campo 8.500 soldati dei paesi
vicini e le truppe del Camerun e della Nigeria stanno preparando una vasta
offensiva militare contro la principale base logistica di Boko Haram, nella
foresta di Sambisa nel Nordest della Nigeria: si tratta di un precedente da
segnalare, rispetto alla tradizionale rivendicazione nigeriana di piena
sovranità nazionale sul proprio territorio e di leadership regionale. Nel 2014
il leader di Boko Haram ha espresso la propria vicinanza al capo dei talebani,
il mullah Omar, e a quello di al Qaeda, Al-Zawahiri e nel 2015 ha affermato il
proprio supporto all’Isis e al Califfo al Baghdadi.
Il caso
di Boko Haram presenta diverse assonanze con quanto succede in Mali, a seguito
della rivolta dei Tuareg nel nord che ha portato alla dichiarazione d’indipendenza
della regione dell’Azawad (durata un anno) e del colpo di Stato militare che ha
deposto il presidente democraticamente eletto Amadou Toumani Touré nel 2012.
Nell’assenza di una presenza
governativa nel Nord del paese, i gruppi
estremisti avevano avuto facile gioco nel mettere radici tra la popolazione,
con gruppi come al-Qaeda in the
Islamic Maghreb (AQIM), il gruppo Ansar Dine
(Ausiliari della religione), il Movement
for Unity and Jihad in West Africa (MUJAO) e la brigata degli
“inturbantati” di Mokhtar Belmokhtar, poi fusasi con il MUJAO per costituire il
battaglione al-Mourabitoun
(Sentinelle della religione), allineato con AQIM.
Peraltro, circolavano anche voci sulla presenza di alcune centinaia di
combattenti di nazionalità nigeriana appartenenti a Boko Haram nella città di
Gao, nella regione dell’Azaward. Anche in questo caso, l’intervento militare
con l’assistenza straniera (in questo caso l’azione militare francese con l’operazione
Barkhane) si è rivelato decisivo, come pure importanti sono stati i successi
della coalizione promossa dalla Nigeria contro Boko Haram; ma non è stata
azzerata la capacità dei gruppi terroristici di realizzare attentati, come
dimostrano gli attacchi a luoghi frequentati da turisti in Mali, ma anche in
Burkina Faso e Costa d’Avorio[34].
Non solo le
milizie islamiche, ma sempre più anche i pirati del Golfo di Guinea operano
nella regione a livello transfrontaliero: dunque, la scarsa capacità (malgrado
le pretese dei governi dell’area) di controllare il territorio e le frontiere,
in realtà molto porose, e la debolezza in materia di intelligence e
monitoraggio rendono fondamentali processi di collaborazione e cooperazione
regionale (ivi compresa la promozione e valorizzazione di una mobilità umana a
livello regionale utile per lo sviluppo), più ancora che di accordi bilaterali
di cooperazione dell’UE con singoli paesi.
In questo contesto, L’Italia è il paese d’elezione
per i profughi nigeriani diretti verso l’Europa. Nel 2015, i
nigeriani hanno rappresentato il 2% degli arrivi in Europa via Mediterraneo;
31.460 nigeriani hanno fatto richiesta d’asilo in Europa, di cui più della metà
(17.895 pari al 57%, rispetto a 9.700 nel 2014) in Italia, a fronte di arrivi
nel nostro paese di oltre 22 mila nigeriani, secondo fonti sia UNHCR che
Eurostat, il che fa dei nigeriani la prima nazionalità per numero di
richiedenti asilo in Italia.
Non si tratta però di una presenza complessivamente numerosa in Italia:
pur essendo il paese africano più popoloso, in Italia risiedono poco più di 70
mila nigeriani. A dispetto delle gravi condizioni di vita in Nigeria, meno del
5% dei migranti ottiene lo status di rifugiato in Europa e nel complesso circa
il 25% ottiene protezione nelle varie forme previste dagli ordinamenti
nazionali: 2.955 decisioni positive (di cui 1.725 per motivi umanitari[35],
720 per protezione sussidiaria[36]
e 510 con lo status di rifugiato) su 11.340 casi nel primi tre trimestri del
2015.
Complessivamente, l’UNHCR stima che i rifugiati
nigeriani all’estero siano oltre 152 mila, cui si aggiungono
quasi 16 mila richiedenti asilo in attesa di risposta. Un dato importante è che
oltre un quinto delle richieste d’asilo presentate in Italia è rappresentato da
donne, per la maggior parte adolescenti o da poco maggiorenni (in generale
ragazze tra i 15 e i 24 anni) provenienti dal sud del paese, il che, secondo un
rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, è indice di un
alto rischio di finire nella tratta destinata allo sfruttamento sessuale.
Il Senegal è un paese che si caratterizza per la
relativa stabilità politica nella regione, ma certamente gli
attacchi terroristici nei paesi del Sahel hanno implicazioni anche per il paese
dove ci sono comunque tensioni per i progressi molto lenti sul piano delle
riforme, per la corruzione diffusa[37] e dove le spinte
separatiste nella regione della Casamance, dopo trenta anni di tensioni e
violenza, sembrano oggi trovare una disponibilità al negoziato da parte del
governo e del Mouvement des forces
démocratiques de Casamance (MFDC).
Proprio i
recenti attacchi dell’organizzazione fondamentalista AQIM in Burkina Faso e
Costa d’Avorio, che mostrano l’intenzione e la capacità del gruppo di agire al
di fuori della base tradizionale nel nord del Mali, rappresentano una minaccia
per tutti i governi della regione che appoggiano le operazioni francesi di
lotta al terrorismo, Senegal compreso. Questo paese ospita una delle due
principali basi militari francesi in Africa e, dopo gli attentati di marzo
rivendicati da AQIM, ha preso la decisione di condividere con Burkina Faso,
Mali e Costa d’Avorio azioni di intelligence per la lotta al terrorismo. Il
Senegal ha anche preso parte alla forza militare di peace-keeping in Mali.
L’effetto
collaterale e indesiderato di un’azione più incisiva di contrasto del
terrorismo all’interno del Senegal, in termini di restringimento delle libertà
individuali, politiche e di movimento delle persone, potrebbe essere quello di
far crescere rabbia e tensioni sociali, mettendo a repentaglio dinamiche
tradizionali di spostamento transfrontaliero di persone.
Un fattore chiave che determina l’emigrazione in
Senegal è il degrado ambientale e la mancanza di opportunità di lavoro. In effetti, le
migrazioni interne al paese sono molto maggiori rispetto a quelle
internazionali: in base a i dati del censimento del 2013, i migranti interni
che si sono sposati dalle zone rurali a quelle urbane (in particolare, i grandi
centri: Dakar su tutti, ma anche altre città che gravitano attorno a Dakar,
come Thiès, Diourbel e Kaolack) sono quasi 1,9 milioni di persone, mentre i
senegalesi emigrati all’estero negli ultimi cinque anni sono poco più di 156
mila individui, cioè rispettivamente il 14,6% e l’1,2% della popolazione
residente in Senegal[38].
Si è così attivato un circolo vizioso di crisi
ambientale che determina spostamenti permanenti di masse all’interno del paese, al di là di
migrazioni stagionali tradizionalmente presenti durante la stagione delle
piogge, il che a sua volta è un fenomeno che determina una pressione antropica
eccessiva su risorse naturali fragili, spezzando l’equilibrio storico tra
insediamenti umani ed ecosistemi locali e accentuando fenomeni di
desertificazione ed erosione dei suoli.
All’interno del Senegal, la capitale è di gran
lunga la prima meta, con un saldo migratorio netto positivo pari a 574 mila
immigrati. Per quanto riguarda le migrazioni internazionali, invece, le zone
costiere registrano molti pescatori che si dirigono verso gli Stati africani
frontalieri. Ma il fenomeno delle migrazioni internazionali non stagionali è
soprattutto rivolto verso l’Europa, dove si concentrano i due terzi dei
senegalesi residenti all’estero, con un numero elevato di famiglie nelle
regioni di Dakar, Diourbel, Thiès, Louga e Kaolack che hanno familiari emigrati
all’estero.
I dati relativi alle migrazioni internazionali variano molto a seconda
delle fonti e ciò è sicuramente dovuto alla difficoltà di stimare un fenomeno
che si caratterizza soprattutto per le vie informali, tenuto conto della
porosità dei confini, di pratiche tradizionalmente transfrontaliere e del
principio di libera circolazione delle persone all’interno della Comunità
Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Communauté Économique Des États de l’Afrique de l’Ouest, CEDEAO).
In ogni caso, le stime indicano che l’Italia è il
paese che accoglie il numero più alto di senegalesi (il 26,2%), seguita da
Spagna (20,9%) e Francia (11,7%). In Africa, invece, il principale paese di
destinazione dei senegalesi che emigrano all’estero è il Gambia (10,2%).
L’Italia ha
raggiunto nel 2015 il picco di richiedenti asilo (83.200 domande), e dopo
Nigeria, Pakistan e Gambia, il Senegal è risultato il quarto paese per numero
di richiedenti (6.400 domande).
Molti di
quanti partono dal Senegal per l’Italia sono ragazzi che partono da aree rurali
e sobborghi urbani in cui le prospettive di lavoro e reddito non sono elevate,
che hanno un livello di istruzione formale piuttosto basso e che si immaginano
di intraprendere un cammino coronato da successo in Europa, nel senso di
trovare facilmente un lavoro per sostenere la famiglia rimasta in patria. A
fianco di chi coltiva dunque il miraggio di un eden a portata di mano
attraversato il Mediterraneo, poco consapevole del rischio di perdere la vita
in viaggio ma anche di quello che la vita in clandestinità comporterà in
Europa, c’è un numero invece molto limitato di giovani migranti con livelli
elevati di istruzione che configurano per il Senegal un fenomeno di fuga di
cervelli.
In tutti questi casi, la strategia più opportuna di
cooperazione internazionale sembra essere quella di puntare sulla creazione in Senegal di reali
opportunità di impiego a condizioni dignitose e sostenibili nel tempo per i
giovani, una sfida centrale che la cooperazione allo sviluppo ha sempre evitato
di porre come prioritaria, piuttosto che favorire con incentivi finanziari il
rientro in patria di chi è già emigrato, che pone sempre problemi di
reputazione e vergogna dinanzi alle aspettative di familiari e conoscenti.
Si tratta di
considerazioni generali, che interessano qui il Senegal, ma che riguardano il
fenomeno degli arrivi di migranti e richiedenti asilo che attraversano il
confine tra Grecia e Turchia, perché le statistiche dicono che uno su tre è un
minorenne e nel 2015 si stima che 300 mila minori abbiano attraversato il Mar
Mediterraneo in cerca di rifugio. Evitare la detenzione amministrativa anche
quando per periodi brevissimi (che non è purtroppo la norma), come in generale
operazioni di respingimento in alto mare e la riconsegna a paesi come la Libia
dei migranti clandestini sarebbe ovviamente auspicabile in questi casi. In
relazione a questo, il compito della cooperazione internazionale allo sviluppo
dovrebbe essere creare le condizioni favorevoli per far scegliere di restare
chi si trova nel proprio paese, più che convincere a ritornare chi lo ha
lasciato.
Proprio per
questo l’idea di creare opportunità di impiego che rafforzino nei giovani la
voglia di restare in Senegal per costruirsi un progetto di vita, guardando
semmai con interesse a prospettive di mobilità umana a carattere regionale e
transfrontaliero come pure ai cosiddetti ambito del co-sviluppo, è un asse dell’impostazione
della nuova politica italiana di cooperazione allo sviluppo in Senegal da
seguire con particolare interesse per la valenza di indirizzo più generale che
può interessare molti paesi.
L’Italia ha
registrato negli ultimi anni, nonostante il flusso migratorio costantemente in
crescita, evidenti passi avanti nell’accoglienza di richiedenti asilo e
rifugiati. Anche grazie al recepimento della normativa europea in materia di
asilo e accoglienza, si è proceduto a creare un vero e proprio sistema,
strutturato e capillare, in grado di offrire risposte a un fenomeno
inarrestabile dai numeri in continuo aumento. La sfida attuale è il superamento
dell’approccio emergenziale che ha caratterizzato i decenni scorsi. Nel 2015
sono stati 153.842 i profughi sbarcati sulle nostre coste e 69.500 sono stati
gli arrivi registrati dal 1 gennaio al 1 luglio 2016, in linea con lo stesso
periodo del 2015. Sono però in costante aumento le richieste d’asilo: secondo i
dati del Ministero dell’interno, l’Italia nel 2015 ha ricevuto 83.970 richieste
d’asilo, con un aumento del 32% rispetto alle 63.456 del 2014.
Al 1 giugno
2016, secondo i dati del Ministero dell’interno, l’Italia accoglieva 119.294
richiedenti asilo su tutto il territorio nazionale, circa 16.000 in più
rispetto al 2015. Al 31 luglio 2016 le presenze sono risultate 139.724.
La
primissima fase, successiva allo sbarco, consiste nel soccorso e nella prima
assistenza dei migranti. Tali funzioni continuano ad essere svolte nei centri
di primo soccorso e accoglienza (Cpsa). Segue l’accoglienza vera e propria,
articolata in tre tipologie di strutture distribuite su tutto il territorio
nazionale: i centri governativi (Cara, Cda); i centri di accoglienza
straordinaria (Cas); le strutture del circuito Sprar (Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati).
Sempre
secondo i dati del Ministero dell’interno al 1 giugno 2016, nel sistema Sprar
vi sono circa 19.700 persone, nell’ambito di oltre 430 progetti, mentre circa
86.000 persone vengono ospitate negli oltre 3.000 CAS e circa 13.472 nei 16
centri governativi e nei 4 hotspot.
I centri
sono gestiti dal Ministero dell’interno attraverso le prefetture, che appaltano
i servizi dei centri a enti gestori privati attraverso bandi di gara. Devono essere
garantiti l’alloggio, i pasti, l’assistenza legale e sanitaria, la mediazione
linguistica, i servizi psico-sociali e l’insegnamento di base della lingua
italiana.
Quanto al Sistema di protezione per richiedenti asilo
e rifugiati, spetta ai Comuni la gestione dell’accoglienza con fondi del
Ministero dell’interno attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i
servizi dell’asilo. I singoli comuni interessati, insieme a organizzazioni del
terzo settore selezionate a livello locale, presentano il proprio progetto che
viene successivamente valutato e approvato dallo stesso Ministero.
A differenza
del panorama europeo, si tratta di progetti di accoglienza di piccole
dimensioni finalizzati a offrire al richiedente asilo percorsi di inserimento
socio-economico e di inclusione sociale nel territorio. È stato, infatti,
dimostrato dalla pratica dello Sprar che i progetti e le attività programmate a
livello nazionale rimangono esperienze non sostenibili, nel momento in cui
manchi una loro declinazione locale, in grado di adattare misure, strategie e
pratiche di intervento alle peculiarità del contesto dei singoli territori. La
spinta ‘locale’ dell’inclusione sociale è ulteriormente rafforzata dalle
competenze e dalle responsabilità che sono riconosciute in capo ai comuni nelle
politiche e nei servizi di welfare e alle regioni in termini di
programmazione"[39]. I servizi che
ciascun progetto deve offrire sono definiti nel Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di
accoglienza integrata in favore di
richiedenti e titolari di protezione
internazionale e umanitaria[40].
Dalla fine
del 2012 il Ministero dell’interno ha predisposto diversi allargamenti
straordinari della rete Sprar. Dal punto di vista dei beneficiari accolti, si è
passati dalle 2.013 persone del 2003, alle 8.412 del 2008; nel 2012 gli accolti
sono saliti a 7.823, nel 2013 a 12.631 e nel 2014 a 22.961. Nel 2015 si è
potuto dare accoglienza a 29.698 persone, ossia il 29,3% in più rispetto all’anno
precedente. Sono circa 1.500 i Comuni coinvolti, su un totale di 8.000.
È stato
approvato il 10 agosto 2016 un decreto ministeriale[41] che semplifica il
percorso di adesione all’accoglienza dei migranti attraverso i progetti Sprar e
introduce un sistema di accreditamento permanente a cui i Comuni potranno
aderire in ogni momento, senza la pubblicazione di bandi. Saranno esaminati i singoli progetti di
accoglienza, e se valutati positivamente, l’accreditamento sarà
permanente, assicurando allo stesso tempo un monitoraggio attento e continuo
dei progetti. Si sta inoltre mettendo a punto un sistema di incentivi economici
per spingere i Comuni a partecipare a
questo tipo di accoglienza.
La
realizzazione di progetti Sprar di dimensioni medio-piccole - ideati e attuati
a livello locale, con la diretta partecipazione degli attori presenti sul
territorio - dovrebbe contribuire a costruire e a rafforzare una cultura dell’accoglienza
presso le comunità cittadine e favorire la continuità dei percorsi di
inserimento socio-economico dei beneficiari nel territorio. Sono numerosi i
progetti su tutto il territorio nazionale che hanno saputo cogliere quest’idea
di accoglienza, riuscendo a raggiungere risultati tangibili in termini di
inclusione e sviluppo economico e sociale.
Donne richiedenti asilo e rifugiate
Nel periodo
compreso tra il dicembre 2014 e il novembre 2015, l’Eurostat certifica che i
richiedenti asilo in Europa sono stati 1.242.155 e tra essi ci sono 339.955
donne, ovvero una percentuale pari al 27% dell’intera popolazione dei rifugiati
arrivati. Molto più bassa la percentuale in Italia: al 30 giugno 2016, secondo
i dati OIM, la percentuale è del 14%.
Fonte: OIM
Per quanto
riguarda l’accoglienza delle donne richiedenti asilo e rifugiate, all’interno dei progetti SPRAR il 26% dei
beneficiari sono donne, le quali salgono al 46% nelle categorie
vulnerabili. I percorsi di accoglienza e di integrazione delle donne sono caratterizzati
da una maggiore complessità e difficoltà.
All’interno
dei singoli progetti Sprar, sono previste azioni di sostegno a vari livelli.
Per le donne più vulnerabili, spesso vittime di violenza nel paese di origine o
durante la fuga, vengono proposti specifici percorsi di sostegno per facilitare
il loro inserimento socio-culturale. Si tratta di sensibilizzare e informare
gli operatori socio-sanitari dei territori coinvolti riguardo alle necessità
specifiche delle richiedenti asilo e rifugiate, sulla loro situazione, sui
traumi di vario genere e grado a cui possono essere state soggette. Allo stesso
tempo si punta a favorire l’emancipazione e la presa di coscienza delle donne
richiedenti asilo e rifugiate riguardo alle loro capacità e potenzialità. Si va
dall’attivazione di servizi di consulenza etnopsichiatrici e/o transculturali
specifici alla realizzazione di corsi di italiano e alla creazione di gruppi di
auto-aiuto rivolti a donne finalizzati alla (ri)costruzione/ rafforzamento dell’autostima
e all’empowerment. Per facilitare la frequenza delle donne beneficiarie del
progetto e la loro partecipazione alle attività educative e formative sono
previste alcune misure specifiche (ad es. servizi di babysitting).
Molta
attenzione viene dedicata alle donne vittime di tratta a cui sono rivolti
programmi specifici previsti dall’art. 18 della legge n. 228 del 2003, i quali
consentono di regolarizzare la posizione giuridica delle vittime in Italia e
garantiscono assistenza offrendo adeguate condizioni di alloggio, di vitto, di
assistenza sanitaria e legale e la possibilità di accedere ad una serie di
servizi ed attività, in base al piano di assistenza individualizzato elaborato
in base ai loro bisogni specifici: accoglienza residenziale, counselling
psicologico, assistenza legale, mediazione linguistico-culturale,
accompagnamento ai servizi socio-sanitari, formazione professionale, tirocini
aziendali, supporto nella ricerca del lavoro, inserimento lavorativo.
Dal 2012 è
attivo presso il Dipartimento per le pari opportunità il progetto NO TRATTA – Osservatorio
Nazionale sulla tratta tra rifugiati e richiedenti asilo, co-finanziato dal
Programma “Prevenzione e lotta contro il crimine” della Commissione Europea, il
quale analizza le correlazioni tra tratta degli esseri umani e protezione
internazionale con l’obiettivo di aumentare la capacità di identificare e di
fornire assistenza alle vittime di tratta all’interno del sistema di asilo.
Questa linea di azione prevede iniziative di sensibilizzazione per la
costruzione di modelli virtuosi di intervento, diffondendo le buone prassi
sulla presa in carico delle vittime di tratta richiedenti/titolari la
protezione internazionale all’interno del Sistema Sprar. Il progetto consiste
nei seguenti filoni di attività: ricerca qualitativa e monitoraggio sul tema
della relazione tratta e protezione internazionale in diverse regioni italiane
ed europee; capacity building e
azioni di rete per gli operatori attraverso una cospicua attività di formazione
a quegli operatori che, a vario titolo, si occupano di richiedenti/titolari di
protezione internazionale e di vittime di tratta; benchmarking e modellizzazione degli interventi (manuale operativo,
raccolta di buone prassi); campagna di informazione rivolta sia ai beneficiari
finali del progetto che agli operatori.
L’United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per
i Rifugiati, è l’Agenzia delle Nazioni Unite preposta alla protezione ed all’assistenza dei rifugiati
nel mondo ai sensi di quanto stabilito dalla normativa internazionale in
materia (a partire dalla Convenzione di
Ginevra relativa allo status dei
rifugiati del 1951 e dal relativo Protocollo addizionale del 1967).
Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 14 dicembre 1950 con
la Risoluzione 428 (V), ha il compito primario di fornire e coordinare la
protezione internazionale e l’assistenza materiale ai rifugiati ed alle altre
categorie di persone incluse nella sua area di competenza (rimpatriati,
richiedenti asilo, sfollati interni ed apolidi).
Nell’esercizio
del suo mandato e nel quadro delle attività di protezione internazionale e di
assistenza, l’Agenzia assicura i seguenti compiti:
la registrazione dei rifugiati; la consulenza per la documentazione; la
raccolta dei dati anagrafici e biografici dei richiedenti asilo; la
localizzazione sul territorio per fornire protezione e altre soluzioni durevoli
alle esigenze derivanti dalla loro condizione, ovvero strumenti di assistenza
ai rifugiati in fuga nel corso di crisi umanitarie; la promozione di programmi
di istruzione, sanità ed alloggio ed operazioni di rimpatrio volontario,
qualora possibili, nonché forme di sostegno per favorire l’autosufficienza dei
rifugiati nei Paesi di asilo o per garantire loro condizioni per il
reinsediamento in Paesi terzi, laddove essi non possano essere rimpatriati e
non godano di sufficienti garanzie nel primo Paese di accoglienza.
A norma dell’articolo
35 della Convenzione di Ginevra del 1951, agli Stati parte del Trattato è
chiesto esplicitamente di cooperare all’esercizio delle funzioni svolte dall’Agenzia
al fine di agevolarne il compito di sorveglianza sull’applicazione delle
disposizioni della Convenzione stessa, fornendo in particolare informazioni ed indicazioni statistiche sullo
statuto dei rifugiati, sui meccanismi applicativi della normativa internazionale
e sulla legislazione domestica in itinere
in materia.
L’Agenzia,
strutturata nei suoi uffici di Ginevra e
di New York, è direttamente al
servizio dell’Assemblea generale e del Consiglio Economico e sociale delle
Nazioni Unite, cui è chiamata a riferire sugli aspetti di coordinamento
delle sue attività in forma verbale attraverso i contatti diretti fra l’Alto
Commissario ed il Consiglio e, in forma scritta, con una relazione annuale
presentata all’Assemblea di riepilogo complessivo.
A livello
organizzativo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha
nella figura dell’Alto Commissario
il suo responsabile di vertice e di controllo (attualmente la carica è
ricoperta da Filippo Grandi, primo
italiano a ricoprire tale ruolo). Ad un Comitato
Esecutivo composto da 78 membri (tra i quali l’Italia), spetta il compito
di approvare i programmi biennali dell’Agenzia e le relative previsioni di
spesa, nonché di autorizzare l’Alto Commissario a fare richiesta per fondi
aggiuntivi. Di norma tiene una sessione annuale dei suoi lavori, a Ginevra nel
corso del mese di ottobre.
Fra gli
uffici che rientrano nella gestione diretta dell’Alto Commissario si
annoverano, l’Ufficio esecutivo, l’Inspector
General’s Office (IGO), l’Ethics
Office, il The Policy Development and
Evaluation Service (PDES) e l’Ufficio di New York dell’Agenzia[42].
Da ultimo, l’ufficio
dell’UNHCR di New York assicura che i temi di interesse dell’Agenzia vengano
debitamente presi in considerazione nei vari consessi decisionali presso la
sede principale delle Nazioni Unite, a partire dalla discussione in seno al
Consiglio di Sicurezza, delle questioni relative ai Paesi in cui siano presenti
iniziative di peacekeeping o peacebuilding sotto l’egida dell’ONU.
Il budget complessivo dell’Agenzia per il
2015 è stato di 7 miliardi di dollari[43]. Dato il crescente
numero delle situazioni in cui è richiesto l’intervento dell’UNHCR, il bilancio
dell’Agenzia, che era complessivamente di circa un miliardo di dollari all’inizio
degli anni ‘90 era già salito a volumi che superavano, a giugno 2013, i 5
miliardi di dollari[44].
L’UNHCR è
finanziato quasi interamente mediante contributi volontari provenienti
principalmente dai governi, ma anche da organizzazioni intergovernative, da
aziende e da singoli individui. Riceve una sovvenzione limitata dal bilancio
ordinario delle Nazioni Unite per coprire i costi amministrativi ed accetta
contributi “in natura”, compresi elementi necessari nelle crisi umanitarie
quali tende, medicine, autocarri e trasporti aerei.
Per quanto
riguarda la composizione del finanziamento, oltre l’80% del finanziamento
complessivo proviene dai contributi volontari dei Governi e dell’Unione europea
ed in misura residuale da contributi di altre organizzazioni o da enti privati,
fondazioni, aziende e raccolte di fondi tra il pubblico.
I primi
contributori nel 2015 sono stati gli Stati Uniti, Regno Unito Unione Europea,
Giappone e Germania. L’Italia figura nel
2015 come 22° contributore[45].
Gli uffici
dell’UNHCR attualmente sono presenti in 123 Paesi, per un totale di oltre 9.300
operatori tra personale internazionale e personale locale[46]. Nel corso dei
cinque decenni di attività, l’Agenzia ha offerto un sostegno a milioni di
persone. Attualmente le persone assistite delle diverse categorie che rientrano
nella competenza dell’UNHCR (rifugiati, richiedenti asilo, rifugiati
rimpatriati, sfollati, apolidi) sono circa 55.000.000, la maggior parte dei
quali presenti in Asia ed Africa[47].
In Italia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite
per i Rifugiati (UNHCR) è presente fin dal 1953[48].
L’ufficio di
Roma dell’UNHCR, partecipa alla procedura di determinazione dello status di rifugiato in Italia e svolge
attività relative alla protezione internazionale, alla formazione ed al training, alla diffusione delle
informazioni sui rifugiati e richiedenti asilo in Italia e nelle varie aree di
crisi in tutto il mondo, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica ed alla
raccolta fondi presso governi, aziende e privati cittadini.
Dal 2006, l’ufficio
italiano dell’UNHCR ha ampliato le proprie competenze diventando Rappresentanza
Regionale responsabile, oltre che per l’Italia, anche per Cipro, Grecia, Malta,
Portogallo, San Marino e Santa Sede, con il ruolo di coordinare le attività
regionali in favore di richiedenti asilo e rifugiati presenti in questi paesi.
Dal 2009 la Rappresentanza Regionale è responsabile anche per l’Albania.
Lo Statuto dell’UNHCR assegna all’Alto Commissario la responsabilità di assicurare protezione
internazionale e di cercare soluzioni permanenti per le persone di sua
competenza.
Lo Statuto elenca,
o implica, una serie di attività e misure di cui l’Alto Commissario può
servirsi per ottemperare a queste sue funzioni. Queste consistono
essenzialmente di:
-
Promozione della ratifica e supervisione dell’applicazione di convenzioni internazionali
e altre misure per la protezione dei rifugiati (quali, ad esempio, la
Convenzione di Ginevra, il cui articolo 35 impone agli stati l’obbligo di
collaborare con l’Alto Commissario); questo include il monitoraggio e, in
alcuni paesi, la partecipazione diretta, alle procedure per la determinazione
dello status di rifugiato, nonché la promozione di legislazione nazionale in
linea con gli standard internazionali in materia;
-
Promozione dell’ammissione dei rifugiati nel territorio di Paesi d’asilo - inclusi
quelli non firmatari della Convenzione di Ginevra. Il monitoraggio e l’intervento
avvengono secondo le modalità ritenute più opportune in difesa dei diritti
fondamentali dei rifugiati quali, in primo luogo, il diritto a non essere
respinto alla frontiera se proveniente dal paese di persecuzione, o ad esservi
comunque rinviato. A questo fondamentale diritto, chiamato generalmente con
termine francese non-refoulement, si
aggiungono naturalmente i diritti previsti dalla convenzione di Ginevra e dalle
varie Convenzioni sui diritti umani in generale;
-
In alcuni paesi, ove il godimento di certi
diritti è soggetto al possesso di certificazioni che il paese d’asilo non
rilascia, l’UNHCR, in accordo con il paese in questione, svolge una funzione
quasi-consolare a favore dei rifugiati. In Italia, per esempio, l’UNHCR
rilascia il nulla osta ai rifugiati che intendono sposarsi;
-
Il processo di determinazione dello status
di rifugiato: benché in linea di principio i rifugiati siano tali non
appena ne abbiano i requisiti e indipendentemente dal riconoscimento, di fatto
il pieno godimento dei diritti loro assegnati dipende dal riconoscimento
formale della loro condizione. Nei Paesi che non hanno ratificato la
Convenzione di Ginevra, o che non hanno ancora messo in atto una procedura per
la determinazione dello status di rifugiato, i funzionari UNHCR determinano lo status ai sensi del mandato. È
importante notare che, benché la definizione di rifugiato contenuta nella
Convenzione e nello statuto sia pressoché la stessa, essere riconosciuto solo
dall’UNHCR spesso significa non avere altri diritti oltre quello al non-refoulement. L’UNHCR non può infatti
imporre agli Stati di consentire ad un rifugiato di risiedere in maniera
duratura sul loro territorio, o di permettere l’accesso al mercato del lavoro;
-
Assistenza a governi e organizzazioni per
favorire il rimpatrio volontario o l’assimilazione
all’interno di nuove comunità nazionali. Il rimpatrio volontario è
normalmente considerato la soluzione migliore, quando possibile. Quando questo
non appaia invece fattibile in un ragionevole lasso di tempo, o in certe
condizioni, l’UNHCR cerca di negoziare la possibilità dell’integrazione locale
nel paese d’asilo - integrazione che di fatto è facilitata nei paesi parte
della Convenzione di Ginevra. Il reinsediamento in un paese terzo può essere
estremamente utile per favorire il ricongiungimento familiare o nel caso in cui
il paese d’asilo non offra sufficienti garanzie di sicurezza (o, come nel caso
del programma di reinsediamento dall’Indocina negli anni ‘80, per facilitare la
gestione del problema nei paesi di prima linea). È però un’opzione estremamente
costosa, offerta solo da pochi Paesi, che hanno la possibilità di selezionare i
rifugiati che desiderano ospitare secondo i loro interessi. Benché l’Alto
Commissariato abbia facilitato, nei suoi cinquant’anni di attività, il
rimpatrio di diversi milioni di persone, e abbia negoziato il reinsediamento di
alcuni milioni d’altri, di fatto per la maggior parte dei rifugiati oggigiorno
le soluzioni vere sono elusive, e non mancano drammatici esempi di rifugiati
che hanno trascorso anni in campi profughi - talvolta in condizioni
miserabili..
-
Raccolta d’informazioni rispetto al numero, alle condizioni dei rifugiati, e alla legislazione
che li concerne nei vari paesi d’asilo. L’UNHCR ha anche una funzione di
raccordo e di stimolo per la ricerca e lo studio dei problemi che riguardano i rifugiati,
che utilizza nella sua funzione consultiva presso i governi e le organizzazioni
interessate;
-
Facilitazione del coordinamento degli sforzi delle organizzazioni private che si
occupano del benessere dei rifugiati.
Categorie di persone rientranti nel mandato dell’UNHCR
Sono circa 55 milioni le persone di cui, al momento,
si occupa l’UNHCR[49]. Si tratta in primo luogo di rifugiati (oltre 13 milioni) in paesi stranieri
e di persone che rientrano nella propria terra dopo un soggiorno forzato all’estero.
A questi si aggiungono gli sfollati
interni (oltre 32 milioni) nel proprio stesso paese[50].
-
Rifugiati
Il diritto
internazionale definisce rifugiato chiunque
si trovi al di fuori del proprio paese e non possa ritornarvi a causa del
fondato timore di subire violenze o persecuzioni. I rifugiati sono
riconosciuti tali dai governi che hanno firmato accordi sul loro status
giuridico con le Nazioni Unite, o dall’UNHCR stesso secondo la definizione
contenuta nello statuto dell’Alto Commissariato.
La protezione internazionale dei rifugiati
costituisce il nucleo principale del mandato dell’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Tale mandato, come espresso negli statuti
e nella Convenzione del 1951 sullo Status
dei Rifugiati, si è costantemente evoluto nel corso degli ultimi cinquanta
anni.
Inizialmente,
la protezione internazionale
consisteva in una sorta di surrogato della protezione consolare e diplomatica,
mentre oggi si è estesa notevolmente
fino ad assicurare ai rifugiati il godimento dei loro diritti umani
fondamentali e la sicurezza. Oltre alla Convenzione del 1951, la Comunità
internazionale si è dotata di altri strumenti, sia a carattere universale che
regionale, volti a proteggere i rifugiati.
L’Agenzia
collabora con i governi ospitanti per tutelare i diritti umani fondamentali dei
rifugiati ed adotta tutte le misure necessarie al fine di fornire assistenza
durante l’intero processo della protezione internazionale: dall’impedire che le
persone siano rimpatriate in un paese dove abbiano motivo di temere
persecuzioni (refoulement), alla
richiesta d’asilo, dall’ottenimento dello status di rifugiato fino al
raggiungimento di soluzioni durevoli (rimpatrio volontario, integrazione all’interno
dei paesi ospitanti o reinsediamento in un paese terzo).
L’UNHCR è
impegnato in molteplici attività, sia sul campo che in sede centrale, nel
tentativo di:
-
assicurare l’ottenimento
dell’asilo e l’ammissione ai Paesi d’asilo, intervenire, se necessario, per
evitare il refoulement ed agevolare
le procedure per determinare lo status
di rifugiato;
-
verificare le
necessità e monitorare il trattamento dei rifugiati e dei richiedenti asilo;
-
garantire, in
collaborazione con i governi, l’incolumità fisica dei rifugiati e delle altre
persone di sua competenze;
-
individuare i
gruppi vulnerabili assicurandone e privilegiandone l’assistenza;
-
collaborare con
alcuni governi per definire la registrazione e la documentazione, partecipando
alle procedure nazionali per la determinazione dello status di rifugiato;
-
favorire la
diminuzione degli apolidi;
-
perseguire
attivamente la rivitalizzazione dei regimi di protezione e collaborare con le
organizzazioni non governative (ONG) e con altre organizzazioni internazionali
a tale scopo;
-
promuovere la
legislazione in favore dei rifugiati, incoraggiare l’accesso alla Convenzione e
ai Protocolli, e favorire lo sviluppo delle istituzioni e della legislazione
nazionale in materia;
-
proteggere gli
sfollati ogniqualvolta siano soddisfatte le condizioni richieste dalle linee
guida dell’organizzazione;
-
sviluppare
costantemente la propria capacità di fornire protezione ai rifugiati;
-
promuovere e
realizzare soluzioni durevoli agevolando il rimpatrio volontario, l’integrazione
nel Paese ospitante o il reinsediamento in un Paese terzo;
-
occuparsi
personalmente delle procedure relative al reinsediamento nei Paesi terzi.
-
Rimpatriati
I rifugiati
sono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni sotto una minaccia estrema
e, quasi sempre, il desiderio è quello di rientrare al più presto, appena le
circostanze lo permettono. L’UNHCR assiste i rifugiati nella fase di ritorno
volontario a casa. Una volta che questo avviene, l’organizzazione li aiuta a
reintegrarsi nei paesi di origine e vigila sulla loro sicurezza. La durata di
questa attività varia da caso a caso, ma raramente supera i due anni.
Nel 2015 il
numero dei rimpatri volontari è sceso rispetto ai valori annui registrati nella
decade precedente, passando da circa un milione a 126.000 unità.
-
Richiedenti asilo
Di questa
categoria fanno parte coloro che, lasciato il proprio paese d’origine e avendo
inoltrato una richiesta di asilo, sono ancora in attesa di una decisione da
parte delle autorità del paese ospitante riguardo al riconoscimento dello
status di rifugiato. Si tratta di circa 1 miolione di persone ogni anno, in
larga parte residenti nei paesi di Nordamerica ed Europa. L’UNHCR li assiste
nelle pratiche necessarie per ottenere lo status richiesto. Nel 2014 le nuove
domande di asilo sono state 1,2 milioni[51].
Apolidi
L’apolide è
una persona che nessuno Stato riconosce come proprio cittadino. La prevenzione
di nuovi casi di apolidia e la soluzione degli attuali sono attività che fanno
parte integrante del mandato dell’UNHCR. A tale proposito l’Alto Commissariato
promuove l’adesione degli Stati alla Convenzione del 1954 relativa allo status degli apolidi e alla Convenzione
del 1961 sulla riduzione dell’apolidia. L’UNHCR fornisce inoltre agli Stati
sostegno tecnico e consulenza su questioni relative all’apolidia. Si stima che
attualmente nel mondo gli apolidi siano circa 9 milioni.
Se è vero
che alcuni rifugiati possono essere anche apolidi, non necessariamente tutti
gli apolidi sono anche dei rifugiati. Quella dell’apolidìa è comunque una
questione che rientra nella competenza dell’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati (UNHCR). Nel 1974 infatti l’Assemblea generale delle
Nazioni Unite ha richiesto all’UNHCR di fornire assistenza legale a questa
categoria di persone e nel 1996 ha incaricato l’Agenzia di ampliare il suo
ruolo anche alla prevenzione e alla riduzione del fenomeno dell’apolidia. Alla
fine del 2015 risultano apolidi circa
3,5 milioni di persone, ma in realtà il loro numero potrebbe essere
sensibilmente più alto[52].
-
Sfollati
A seguito di
una richiesta del Segretario generale delle Nazioni Unite, da qualche anno l’Alto
Commissariato ha progressivamente esteso protezione e assistenza anche ad
alcune categorie di persone che non sono incluse nel mandato originario dell’organismo,
contemplato nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nel Protocollo del 1967 sul
diritto dei rifugiati. Tra questi, il gruppo principale è costituito dagli
sfollati.
Come i
rifugiati, gli sfollati (in inglese, Internally Displaced Persons, o IDPs)
sono civili costretti a fuggire da guerre o persecuzioni, ma, a differenza dei
rifugiati, essi non hanno attraversato un confine internazionale.
Non esistono
statistiche certe sul numero di sfollati nel mondo. Si calcola però che a fine
2015 il numero degli sfollati fuggiti a causa di conflitti o persecuzioni e
rimasti nel proprio Paese oscillasse intorno ai 32 milioni di persone[53].
-
Rispetto alla definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione del
1951, una nozione più estesa adottata dall’UNHCR ricomprende le persone che
abbandonano il loro Paese poiché la loro vita, la loro sicurezza o libertà è
minacciata da conflitti, violenze generalizzate o eventi che hanno seriamente
compromesso l’ordine pubblico. In tale contesto, il genere può influenzare o
orientare il tipo di male inflitto. Donne e ragazze sono spesso i principali
obiettivi di violenze e abusi a causa del loro genere femminile. Per esempio,
donne e ragazze sono più esposte agli stupri e ad altre forme di violenza
legate al sesso, come violenze legate alla dote, matrimoni forzati, mutilazioni
genitali femminili: tali atti possono spingere a richiedere lo status di
rifugiate.
Le donne in molte società sono già esposte a specifici rischi e hanno
meno probabilità di accedere ai propri diritti degli uomini; in situazioni di
sfollamento questi rischi, in particolare di discriminazione e di violenza
basata sul sesso, possono essere esacerbati, perché le strutture di sostegno
delle loro comunità si sfaldano e la giustizia non è in grado di assicurare i
diritti delle donne. Donne e ragazze non accompagnate, donne capofamiglia o
incinte, disabili o anziane possono correre particolari rischi.
Le donne e le ragazze comprendono circa il
50% di ogni popolazione rifugiata, dispersa o apolide. UNHCR lavora per
promuovere l’uguaglianza di genere e assicurare pari accesso alla protezione e
all’assistenza. L’integrazione della prospettiva di genere è trasversale ad
ogni settore e tra gli altri: UNHCR offre assistenza nella costruzione e nel
mantenimento delle strutture di accoglienza in modo che siano sicure ed in
grado di garantire la privacy per le
donne; fa sì che i sistemi di distribuzione del cibo considerino i ruoli
familiari e raggiungano tutti; che le strutture sanitarie siano accessibili e
separate per uomini e donne; che le donne siano in grado di rifornirsi di acqua
e di carburante senza correre il rischio di stupri e altri abusi.
La politica dell’UNHCR per le
donne rifugiate, elaborata nel 1990 a seguito di numerose
conclusioni generali del Comitato Esecutivo, si pone 3 macro-obiettivi:
·
la
protezione che deve essere appropriata agli specifici bisogni;
·
le
soluzioni durature
·
l’assistenza
anche al fine della loro partecipazione all’individuazione di soluzioni
durature.
Successivamente nel 1991 l’UNHCR ha pubblicato le prime Linee guida per la protezione delle donne
rifugiate, sostituite nel 2008 dal Manuale per la protezione
di donne e ragazze, nonché più recentemente le Raccomandazioni
sull’armonizzazione degli standard di accoglienza per i richiedenti asilo nell’UE
e la Nota sulle denunce di rifugiate connesse alle mutilazioni genitali
femminili.
Le conclusioni
adottate dal Comitato Esecutivo, sebbene non vincolanti,
indicano ulteriori principi e misure per aumentare la protezione delle donne
rifugiate, sfollate o che vogliono rientrare; tali misure possono includere
procedure di asilo gender-sensitive (ad
esempio, l’impiego di skilled female
interviewers); tutela di coloro che subiscono violazioni ed accesso alle
autorità preposte; assistenza psicologica e medica; riservatezza delle
informazioni; assistenza per
riallocazione entro il paese o ristabilimento in un paese terzo.
I programmi di assistenza per le donne rifugiate agiscono sul piano dell’istruzione,
della sanità ma anche dell’aiuto al sostentamento per evitare che le donne
siano costrette a prostituirsi per sopravvivenza loro e delle loro famiglie.
La policy dell’UNHCR mira ad accrescere la resilienza delle donne
e a sostenere l’empowerment femminile
nella convinzione che dalla condizione di sfollate le donne possano essere
messe in condizione di assumere nuovi ruoli e di innescare cambiamenti
positivi.
UNHCR, insieme al Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) e
alla Commissione per le donne
rifugiate (WRC) ha condotto nel novembre 2015 una missione informativa in
Grecia e Fyrom i cui esiti sono contenuti in un Rapporto sui rischi connessi alla protezione
di donne e ragazze nella crisi dei migranti e rifugiati nel Mediterraneo,
pubblicato a febbraio 2016.
Partendo dalla constatazione che il viaggio dei migranti verso il
Mediterraneo (quasi 1 milione, da gennaio a novembre 2015, di cui il 17% donne)
espone i migranti stessi ad elevati livelli di violenza, incluse violenze
legate al sesso e al genere (sexual and
gender-based violence, SGBV) e sfruttamento lungo il tragitto, denuncia l’esposizione
di categorie particolarmente vulnerabili - donne non accompagnate, in stato di
gravidanza o di allattamento, ragazze adolescenti, bambini non accompagnati,
bambine sposate precocemente e spesso a loro volta mamme di neonati, disabili,
anziani - a particolari rischi e l’urgenza di una risposta effettiva in termini
di protezione. La situazione attuale (initial
assessment) è tale per cui donne e ragazze rifugiate e migranti incontrano
gravi problemi di protezione e le risposte di governi, attori umanitari,
Istituzioni dell’UE, agenzie e organizzazioni della società civile sono
inadeguate e devono essere urgentemente migliorate.
Tra le raccomandazioni rivolte ai governi e alle Istituzioni dell’UE
figurano: quella di elaborare dei criteri di vulnerabilità che orientino le
priorità della risposta alle persone in cerca di protezione; di dedicare
importanti risorse governative di staff con esperienza e capacità in materia
SGBV e di coinvolgere attori locali della società civile con altrettanta
expertise; a livello di servizi, di prevedere spazi adeguati per colloqui
riservati per donne e bambini, centri di accoglienza sicuri, accessibili e
rispondenti ai bisogni delle donne, di prevedere, in tutti i punti di ingresso,
transito ed uscita, servizi di pronto soccorso psico-sociale, clinical-management dello stupro (CMR)
tutela della salute riproduttiva.
L’avvio dell’Agenda 2030 sugli Obiettivi di
Sviluppo Sostenibile
di Marco Zupi del Centro Studi di Politica
Internazionale (CeSPI)[54]
L’importanza
di rafforzare la capacità dei sistemi nazionali di statistica
Il 25
settembre del 2015, a New York, con la Risoluzione 70/1 è stato sottoscritto in
ambito Nazioni Unite il piano di impegni politici per lo sviluppo sostenibile,
la cosiddetta Agenda 2030, fondata su 17 obiettivi (SDG, Sustainable development goals)[55]. A gennaio del 2016 ha formalmente preso avvio la
realizzazione del piano d’azione di lungo periodo (quindici anni) per
fronteggiare le principali priorità che definiscono quell’Agenda.
A distanza
di dodici mesi dalla sottoscrizione degli SDG, si tratta ora di fare il punto
sulla situazione mondiale rispetto a quegli stessi obiettivi, così da definire
una prima linea base di raffronto per misurare i progressi che dovrebbero
registrarsi nei prossimi anni e che dovranno essere adeguatamente e regolarmente
monitorati. L’appuntamento del settembre 2016 a New York, presso le Nazioni
Unite, sarà l’occasione per tracciare un primo quadro della situazione ai
blocchi di partenza. A tale scopo, due passaggi importanti meritano di essere
segnalati.
Nel marzo del
2016, in occasione della sua 47° sessione, la Commissione Statistica delle
Nazioni Unite ha definito una lista di 230 indicatori per misurare il grado di
raggiungimento dei 17 SDG e dei relativi 169 target[56]. Si tratta di una lista da intendere come provvisoria,
soggetta cioè a revisioni e miglioramenti nel corso del tempo, in funzione dei
progressi che si riuscirà a realizzare per quanto riguarda la definizione e la
disponibilità di dati, tenuto conto che il 40% degli indicatori contenuti nella
lista non esistono ancora o richiedono la definizione di variabili
corrispondenti (come nel caso di quelli relativi ai vari target correlati all’uguaglianza
di genere), mentre per il restante 60% di indicatori, per i quali una
metodologia è stata già sviluppata, non sempre i dati sono disponibili ovunque.
Il tema di
una maggiore quantità e migliore qualità dei dati statistici definisce, di per
sé, un primo preciso ambito prioritario di intervento della cooperazione
internazionale per i prossimi anni, a livello sia bilaterale che multilaterale
(tramite il sistema delle Nazioni Unite in primis, ma anche – nel caso dell’Italia
– mediante la cooperazione congiunta a livello di UE): si tratta del cosiddetto
rafforzamento della capacità dei sistemi nazionali di statistica.
La
necessità di tale miglioramento si lega ad una caratteristica qualificante che
distingue gli SDG dagli Obiettivi di sviluppo del millennio (gli MDG, Millennium Development Goals), relativi
al quindicennio 2001-2015 e di cui gli SDG hanno rilevato il testimone.
Rispetto agli MDG, focalizzati unicamente sulla dimensione sociale dello
sviluppo dei paesi poveri, gli SDG hanno infatti l’ambizione di caratterizzarsi
come:
·
tridimensionali,
ovvero riconducibili a tre macro-dimensioni dello sviluppo (economico, sociale
e ambientale), in una prospettiva cioè multidimensionale che tuttavia non
arriva a includere esplicitamente due dimensioni chiave (la dimensione politica
e quella culturale) in ragione del prevalere di cautele dettate dalla volontà
di evitare possibili contrapposizioni tra le parti;
·
tendenzialmente
integrati, cioè espressione di un approccio teorico che dovrebbe superare la
compartimentazione settoriale e di dimensioni distinte – ambito sociale,
economico o ambientale – in nome del riconoscimento dell’importanza delle
interconnessioni tematiche: un esempio classico è che attraverso il
miglioramento dell’accesso all’acqua potabile (Obiettivo 6) si contribuisce a
migliorare sia il quadro sanitario della popolazione (Obiettivo 3) che la
sicurezza alimentare (Obiettivo 2). Allo stesso modo la destinazione di più
terre all’agricoltura di piccola scala può contribuire sia ad aumentare la
sicurezza alimentare che a ridurre la perdita di biodiversità (Obiettivo 15),
mentre la sicurezza alimentare attiene essa stessa contemporaneamente alla
dimensione economica (la produttività agricola), sociale (la malnutrizione) ed
ambientale (la resilienza e la diversità genetica);
·
sinergici
a livello di perimetro di intervento di policy,
perché la natura delle tre dimensioni considerate obbliga a ricercare
sistematicamente la coerenza tra gli interventi a livello locale, nazionale,
regionale e globale: il caso più emblematico è quello della dimensione
ambientale, che si qualifica come un bene pubblico globale che richiede il
superamento di gap giurisdizionali tra il perimetro nazionale prevalente per la
legislazione, il coordinamento internazionale richiesto per dare efficacia agli
interventi e la sfera locale dei territori in cui ricade l’impatto diretto
delle trasformazioni in corso.
Le capacità
statistiche devono di conseguenza migliorare ovunque: principalmente nei paesi
più poveri, dove tradizionalmente le informazioni sono meno accurate, regolari,
tempestive e affidabili, ma anche nelle economie ad alto reddito, come i paesi
membri dell’Unione Europea, perché gli SDG mirano a definire un’agenda
universalistica, non più focalizzata solo sui paesi più poveri, e perché
inducono a guardare la realtà nella sua complessità di realtà
multidimensionale, integrata e sinergica, il che impone l’adeguamento del
corredo statistico utilizzato sin qui per aiutare a orientare le scelte di policy.
L’ambizione
di gettare lo sguardo sulla complessità della realtà, propria dell’agenda degli
SDG, ha due implicazioni dirette:
(i)
sollecita
un maggiore impegno di tutti sul fronte delle informazioni e dei dati
statistici disaggregati con cui monitorare lo stato del mondo;
(ii)
sottolinea
l’importanza di un maggiore approfondimento delle relazioni tra le diverse
dimensioni dello sviluppo.
Un maggiore
impegno di tutti vuol dire promuovere in senso pieno un sistema nazionale di
dati statistici (whole-of-country
approach) che non deleghi solo all’istituto nazionale di statistica il
compito di raccogliere i dati, ma ne faccia il perno promuovendo il concorso di
tutti – settore pubblico, privato profit e non profit – a tutti i livelli,
attingendo a fonti amministrative, censuarie e di indagini campionarie (ivi
comprese le rilevazioni di attitudini e percezioni), con l’auspicio che sia
garantito libero accesso alle informazioni disponibili.
Un maggiore
approfondimento delle relazioni è la conseguenza della numerosità e
integrazione degli SDG, che implica l’esistenza di molteplici relazioni causali
tra gli stessi obiettivi che devono essere ancora debitamente comprese: un
esempio classico della letteratura è il fatto che l’esistenza di istituzioni
trasparenti, responsabili ed efficaci per gestire le risorse idriche è un
obiettivo in sé, ma concorre anche a raggiungere l’obiettivo di migliorare l’accesso
all’acqua potabile. Tali relazioni devono essere analizzate e comprese nei
diversi contesti, perché la verifica o meno di certe ipotesi teoriche sui
legami causali (cioè su quale variabile obiettivo contribuisca, col suo
cambiamento, a determinare a cascata trasformazioni in altre variabili
obiettivo) è fondamentale per orientare meglio le scelte e le priorità d’azione
dei decisori politici. In altri termini, se gli obiettivi sono numerosi e
disparati, in assenza di un quadro teorico-concettuale che metta ordine e
chiarisca le interrelazioni e le sequenze, le sinergie e i trade-off tra obiettivi e target, si rischia di sprecare risorse
preziose investendo in modo disarticolato, non cogliendo l’opportunità di
avviare processi virtuosi di trasformazione a catena, che sarebbe invece
possibile facendo leva su variabili che determinano cambiamenti anche di altre.
Una volta
che sono stati identificati gli obiettivi (settembre 2015), la costruzione di
indicatori correlati, sulla base di una teorizzazione chiara (un primo step a
marzo 2016), precede la raccolta di dati e la successiva analisi a fini sia di
monitoraggio dei progressi attesi a seguito degli impegni politici assunti, sia
di valutazione della pertinenza e delle relazioni causali tra gli SDG.
Da tutto
ciò deriva che la raccolta e l’analisi dei dati diventano passaggi fondamentali
dell’agenda internazionale. Al di là del rilievo strumentale per misurare il
raggiungimento degli obiettivi, questo processo diventa in se stesso un
obiettivo chiave al servizio della democratizzazione dell’agenda di sviluppo,
come del resto lasciava intendere già il lascito degli MDG, che ha evidenziato
proprio le carenze nei paesi poveri e la necessità di maggiori investimenti
della cooperazione internazionale su questo fronte, tenendo conto che in quel
caso gli indicatori erano solo 60[57].
La situazione nel 2016 relativamente agli indicatori
degli SDG
A giugno
del 2016, come base informativa per la discussione di settembre, il Segretario
Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha presentato il primo rapporto che
analizza alcuni indicatori tra quelli che rientrano nel novero degli SDG a
livello globale, in particolare quelli per i quali sono disponibili i dati e
che consentono di evidenziare sfide chiave e carenze rilevanti[58].
Si tratta
di un rapporto scarno che si limita a indicare, a livello molto aggregato (a
livello regionale e non per singoli paesi[59]), pochi dati, non sempre allineati temporalmente
sullo stesso anno perché in diversi casi mancano dati aggiornati al 2015.
Questi limiti sono rinvenibili con riferimento a tutti e 17 gli SDG e il
rapporto non si avventura, sulla base di una base dati tanto ridotta, ad
esplorare empiricamente alcuna possibile relazione tra i diversi SDG[60].
Nel
limitato spazio a disposizione, piuttosto che presentare il quadro informativo
oggi disponibile relativo a tutti i 17 SDG, si circoscriverà la presentazione
ad alcuni di essi, che figurano tra quelli prioritari per la politica italiana
di cooperazione allo sviluppo e tenendo conto della decisione contenuta nella
recente bozza di risoluzione preparata dal Presidente dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite che prevede di concentrare la revisione nel 2017 da parte
del Forum politico di alto livello sullo sviluppo sostenibile (High-Level Political Forum on Sustainable
Development, HLPF)[61] e dell’Economic
and Social Council (ECOSOC) sugli SDG 1, 2, 3, 5, 9 e 14[62]. Al contempo si evidenzierà il fatto che
temi trasversali come la questione di genere e l’empowerment femminile, al di là del riconoscimento sancito dall’attribuzione
di uno specifico SDG (il numero 5), hanno una valenza strategica particolare
perché contaminano direttamente anche gli altri SDG, corrispondendo a una
chiave di lettura del tema trasversale delle disuguaglianze che è sottolineata
dallo slogan degli SDG – “leaving no one behind”, molto più di quanto però
sinora traspare dalla lista di indicatori presentati nel rapporto di giugno
delle Nazioni Unite, che mancano di disaggregazione per sesso (indicatori
cosiddetti gender-blind). Un’implicazione
che se ne può ricavare, perciò, è che nell’ambito degli SDG e dei relativi
target sarà utile operare una focalizzare degli investimenti in funzione delle
specificità dei contesti territoriali, delle specializzazioni degli attori, ma
anche a favore di temi chiave in sé e – come nel caso dei target dell’SDG-5 – i
cui miglioramenti si ipotizza generino una propagazione di effetti positivi
anche su altri SDG.
·
SDG 1: Povertà
estrema
La povertà
economica estrema era al centro degli MDG e rimane come obiettivo chiave degli
SDG, in termini di eliminazione della povertà entro il 2030, rispetto all’obiettivo
meno ambizioso degli MDG di dimezzare la proporzione di poveri tra il 1990 e il
2015.
A livello
mondiale, i dati indicano che la povertà estrema si era già dimezzata tra il
2002 e il 2012 (dal 26% al 13% della popolazione), il che significa comunque
che ancora una persona su otto al mondo vive in povertà estrema; il problema è
grave soprattutto per l’Africa sub-sahariana, dove il 40% della popolazione
viveva nel 2012 con meno di 1,9 dollari statunitensi al giorno.
Nel corso
della revisione di metà percorso degli MDG si era evidenziata la necessità di
dare maggior peso al tema del lavoro, associandolo agli indicatori sulla
povertà estrema. Si tratta di un’area che richiede particolare impegno: nel
2015 circa il 10% di tutti i lavoratori a livello mondiale e delle loro
famiglie vivevano con meno di 1,9 dollari al giorno a persona (era il 28% nel
2000), percentuale che toccava il 33% nel caso dell’Africa sub-sahariana. In
particolare, i giovani sono la fascia di popolazione che desta maggiori
preoccupazioni, dal momento che proprio chi ha un’età compresa tra i 15 e i 24
anni d’età ha la probabilità maggiore di rientrare nella categoria dei
lavoratori che vivono in povertà (il 16% di tutti i lavoratori giovani nel
2015). Al netto della sfida dell’elevata crescita demografica in Africa
sub-sahariana, occorre trasformare in grande potenzialità positiva l’enorme massa
di giovani che caratterizzerà questa zona del mondo e ciò sarà possibile solo
attraverso delle politiche economiche e sociali adeguate e urgenti per evitare
il prevedibile risultato in termini di esclusione e di flussi migratori
difficilmente gestibili.
Un’altra
componente chiave da associare a povertà estrema e lavoro è quella dei sistemi
di protezione o ammortizzatori sociali: una misura della vulnerabilità nei
paesi più poveri è il fatto che solo una persona su cinque ha ricevuto benefici
in termini assistenziali dallo Stato nei paesi a basso reddito, a fronte di una
proporzione di due su tre persone nei paesi a reddito medio-alto.
Creare
occasioni di impiego a condizioni dignitose e assicurare servizi pubblici
essenziali di protezione sociale restano due fattori chiave per vincere la
guerra contro la povertà nel mondo.
Se a queste
informazioni contenute nel rapporto delle Nazioni Unite si aggiunge una
prospettiva di genere, il fenomeno della femminilizzazione della povertà, la
discriminazione patita dalle donne sul mercato del lavoro (la disoccupazione
femminile è il doppio di quella maschile nel Nord Africa) e il ruolo sempre più
importante di ammortizzatore sociale delle donne (cui è delegata la
responsabilità finale della qualità della vita di uomini e donne vulnerabili) e
il contributo centrale del lavoro non retribuito alla crescita economica, la
loro subalternità in relazione all’accesso ai servizi pubblici di protezione
sociale concorrono a giustificare l’ipotesi – da sottoporre a verifica empirica
con l’analisi periodica dei dati statistici – che una focalizzazione sulle
donne degli interventi di contrasto della povertà estrema risulterebbe più
efficace e sostenibile, tenendo conto altresì del particolare ruolo da esse
svolto a favore della fascia vulnerabile dei minori.
·
SDG 2: Fame, sicurezza alimentare,
nutrizione e agricoltura sostenibile
La
proporzione di persone che soffrono la fame è diminuita tra il 2000 e il 2015,
ma solo in minima misura (dal 15% all’11% del totale della popolazione) e circa
800 milioni di persone continuano a non accedere a quantità e qualità adeguate
di cibo. Nel 2015, oltre la metà degli adulti in Africa sub-sahariana soffriva
di insicurezza alimentare – in forma moderata o grave (grave nel caso del 25%
della popolazione) - e il 25% dei minori di 5 anni aveva problemi di crescita
insufficiente (quasi 160 milioni di bambini); mentre la percentuale di bambini
della stessa età sovrappeso è aumentata del 20% tra il 2000 e il 2014, anno in
cui 41 milioni di bambini – per la metà asiatici – erano sovrappeso. Il Nord
Africa è la regione con la percentuale più alta di bambini sovrappeso (16% dei
minori di 5 anni).
Maggiori
investimenti a favore dell’agricoltura sostenibile (di piccola scala in
particolare) – già area prioritaria di intervento della politica bilaterale
italiana di cooperazione allo sviluppo oltre che delle agenzie del Polo Romano
delle Nazioni Unite, ma che registra da trenta anni un trend decrescente a
livello di impegni finanziari relativi della comunità globale dei donatori -
cercando di promuovere una maggiore produttività senza penalizzare lo sviluppo
sociale ed ambientale e migliorando il funzionamento dei mercati alimentari,
sono evidentemente da considerarsi cruciali. Peraltro, l’agricoltura è, insieme
a salute (SDG 3) e acqua (SDG-6), l’area prioritaria delle politiche di
adattamento definite, incluse e comunicate da 137 parti ad aprile 2016 alla
Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici – United Nations Framework Convention on Climate
Change, UNFCCC – come componenti dei piani d’azione sul clima, le “Intended
nationally determined contributions” (INDC), in conformità con gli impegni
assunti con l’accordo di Parigi a fine 2015.
Anche nel
caso di fame, sicurezza alimentare, nutrizione e agricoltura sostenibile, il
ruolo delle donne in quanto produttrici e riproduttrici è di gran lunga
prioritario, in particolare guardando alla realtà dell’Africa sub-sahariana,
dove è delegato alle donne il ruolo di alimentare e nutrire i bambini e la famiglia
in generale e dove persiste una forte discriminazione nei confronti delle
bambine, che sono nutrite meno e peggio. È evidente come trasformazioni
strutturali richiedano oltre che un impegno significativo delle amministrazioni
pubbliche – nazionali e internazionali – e del settore privato produttivo, un
cambiamento di mentalità e delle norme sociali per contrastare efficacemente le
molteplici forme di discriminazione esistenti.
·
SDG 3: Salute e benessere per tutti
e per tutte le età
Tra il 1990
e il 2015, il tasso di mortalità materna è diminuito del 44% e la mortalità
infantile si è più che dimezzata: ma 5,9 milioni di bambini sono morti nel 2015
prima di compiere 5 anni, in gran parte per cause che si potrebbero prevenire.
L’incidenza
di AIDS, malaria e tubercolosi è in calo; tuttavia, sempre nel 2015, si sono
registrati 2,1 milioni di nuovi infetti di AIDS e 214 milioni di persone hanno
contratto la malaria (l’89% dei casi in Africa sub-sahariana).
Nel 2015,
tre donne su quattro in età fertile – tra 15 e 49 anni d’età – coniugate o con
una relazione affettiva stabile hanno utilizzato metodi contraccettivi moderni
per la pianificazione familiare.
Nel 2012,
quasi due terzi delle morti per malattie non trasmissibili di persone con meno
di 70 anni sono state causate da malattie cardiovascolari e respiratorie
croniche, tumori e diabete.
Le priorità
previste sono quelle di continuare a dare centralità alla salute
materno-infantile, con un focus perciò sulle donne, alla lotta alle epidemie ma
anche al diffondersi di malattie croniche e legate all’insalubrità ambientale,
ponendo come obiettivo di politiche pubbliche la copertura universalistica dei
servizi sanitari di base e l’accesso per tutti a medicine e vaccini sicuri ed
efficaci, obiettivo che va riaffermato anche in Europa. A queste priorità si
deve poi aggiungere l’importanza di investire sulla promozione dei diritti
riproduttivi e sessuali, tenendo peraltro conto del fatto che nei paesi dove le
donne sono più libere di scelta sui loro corpi e sulla loro sessualità, le
scelte sulla maternità sono inevitabilmente più consapevoli.
SDG 4:
Istruzione di qualità inclusiva ed equa ed opportunità di formazione continua
per tutti
Nel 2013,
quasi 60 milioni di bambini in età scolare non frequentavano le primarie;
soprattutto, indagini recenti hanno confermato che i bambini delle famiglie più
povere (in particolare le bambine) hanno quattro volte più probabilità di
trovarsi nel gruppo di chi non frequenta la scuola rispetto ai figli di
famiglie ricche. L’alfabetizzazione è uno degli indicatori della forte
disuguaglianza tra economie ad alto reddito e paesi poveri: la grande
maggioranza dei ragazzi nei paesi ricchi sa leggere, scrivere e far di conto,
mentre la percentuale precipita al 5% tra i paesi più poveri. Nel mondo circa
757 milioni di adulti sono analfabeti e i due terzi sono donne.
L’istruzione
di base - ma anche quella tecnica e quella necessaria per colmare il digital divide - resta oggi un terreno
prioritario di intervento, anche in questo caso con una doverosa attenzione
alla questione di genere, perché la conoscenza (indipendentemente dalla forma
istituzionale di trasmissione e ancor di più se nutre di senso critico le
coscienze dei cittadini, un aspetto tutt’altro che garantito nel sistema di
istruzione e università dei paesi OCSE) è valore in sé, dà consapevolezza e
dignità, contribuisce allo sviluppo mentale, emotivo, fisico e sociale ed è
fonte di reale empowerment e
protagonismo decisionale delle persone. Guardando alla complessità della vita
secondo un approccio dimensionale e non settoriale, l’istruzione delle donne e
delle bambine può essere garantita solo se si considera come centrale anche la
lotta alla violenza (pensando al nesso con problemi come i matrimoni precoci,
il lavoro domestico delle bambine e lo sfruttamento).
·
SDG 5: Uguaglianza di genere ed
empowerment delle donne
Tra il 1990
e il 2015, la proporzione di donne che ha dichiarato di essersi sposata prima
del compimento dei 18 anni d’età è calata dal 32% al 26%. Il trend è positivo
ma lento, associato a cambiamenti di mentalità e costumi che sono possibili, in
particolare in presenza di un maggiore accesso femminile all’istruzione, come
nel caso del Nord Africa in cui il tasso di matrimoni precoci di bambine si è
più che dimezzato nel corso degli ultimi venticinque anni. La pratica delle
mutilazioni genitali femminili continua a essere molto diffusa in una trentina
di paesi, e le donne dedicano mediamente più del doppio del tempo dedicato
dagli uomini a occupazioni non retribuite (il 19% rispetto all’8%) in ragione
della discriminazione di carico di lavoro domestico e di cura, il che sottrae
tempo alle donne per la cura di sé, per relazioni sociali e per l’istruzione.
Milioni di donne subiscono ancora oggi forme di volenza fisica, sessuale,
psicologica ed economica, cioè gravi violazioni dei diritti umani che
compromettono il processo di sviluppo.
È
incoraggiante che il numero di parlamentari donne sia mediamente aumentato nei
diversi paesi negli ultimi quindici anni, ma ciò non è sufficiente ad
assicurare un più ampio processo di reale empowerment
e protagonismo consapevole (agency)
di tutte le ragazze e le donne nelle scelte relative al proprio corpo, alla
propria vita e alla collettività. Occorre investire perché cambino le attitudini
e le norme sociali, a fianco di una revisione del corpo legislativo che, in
molti paesi, è discriminatorio nei confronti delle donne, perché l’uguaglianza
di genere è obiettivo in sé ed è funzionale al raggiungimento durevole e pieno
degli altri obiettivi come quelli sin qui menzionati e dei restanti, compresi l’SDG
9 (Infrastrutture resilienti, industrializzazione inclusiva e sostenibile,
innovazioni) e l’SDG 14 (Conservazione e uso sostenibile degli oceani e delle
acque marine), che rientrano tra quelli che saranno oggetto di più attenta
analisi da parte dell’HLPF e dell’ECOSOC nel 2017.
Alcune indicazioni per un possibile impegno specifico
dell’Italia
Nel mese di
settembre ricorre anche un anniversario famigerato, relativo ad un fatto
apparentemente lontano dall’agenda degli SDG: la bancarotta della banca d’affari
Lehman Brothers, avvenuta il 15 settembre 2008. Per convenzione si è soliti far
risalire a quella data il precipitare della grave crisi economica statunitense,
poi trasformatasi in crisi finanziaria, economica e sociale mondiale, che
ancora oggi attanaglia i paesi della zona dell’Euro.
Finora, a
dispetto della retorica sulla priorità dello sviluppo sostenibile e sull’importanza
dell’economia verde, e sebbene la crisi avrebbe dovuto far vacillare le
certezze passate, l’agenda dell’equilibrio macroeconomico e finanziario e
quella dello sviluppo sostenibile restano ben distinte, quando non
contrapposte.
Si tratta
di due agende che coesistono e si impongono contemporaneamente a tutti i paesi,
toccando indistintamente la vita delle persone e richiedendo ai paesi di
dotarsi di un sistema di indicatori adeguati per monitorare e valutare i
progressi fatti. Schematizzando molto ed utilizzando un’espressione
anglosassone, da una parte c’è la comunità dei «musi duri» (hard-nosed)
– anzitutto Banche Centrali, Istituzioni finanziarie internazionali (IFI) e
Ministeri dell’Economia e delle Finanze (MEF) – che hanno come priorità la
stabilizzazione finanziaria e l’aggiustamento strutturale, attraverso politiche
di liberalizzazione finanziaria, privatizzazione e deregolamentazione; dall’altra
parte c’è la comunità dei «cuori teneri» (bleeding
hearts) che perseguono obiettivi sociali (gli MDG) e più in generale di
sviluppo sostenibile (gli SDG).
L’insostenibilità
dei cambiamenti globali, a cominciare da quelli climatici, e delle crescenti
disuguaglianze economiche all’interno dei paesi è percepita come una spinta
risolutiva a dare più peso agli SDG[63]. A seguito della crisi mondiale si sono
effettivamente aperti spiragli per rimettere in discussione l’ideologia della
teoria e politica macroeconomica convenzionale (mainstream), secondo cui politiche di austerità (contenimento della
spesa pubblica e quindi del welfare state,
pareggio di bilancio e controllo dell’inflazione) e di aggiustamento
strutturale, con una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e minore
protezione dell’impiego, avrebbero effetti espansivi sull’andamento dell’occupazione
e del reddito. Lo stesso Olivier Blanchard[64], fino a ottobre 2015 capo economista del Fondo
monetario internazionale, docente al Massachusetts
Institute of Technology (MIT) ed esponente di punta del mainstream, ha dovuto ammettere che
alcuni dogmi e presupposti teorici si sono rivelati sbagliati. La teoria
eterodossa e critica che sottolinea le relazioni tra maggiore disuguaglianza
distributiva dei redditi, caduta della domanda effettiva e riduzione della
crescita economica di lungo periodo, oggi non è più liquidabile come
irrilevante, perché ci sono sempre più numerose evidenze empiriche a suo
sostegno. Ciò può aprire prospettive inedite e interessanti per l’agenda
politica dello sviluppo e degli SDG, perché si impongano come agenda di
crescita economica verde e inclusiva. Ci sono, cioè, margini di contrattazione
politica per “allentare” la rigidità dogmatica del mainstream, e questo è un terreno di impegno specifico per il
governo italiano nei negoziati con Bruxelles e Francoforte, ma è un terreno che
si può allargare al campo degli accordi di tutti i paesi con le IFI.
Lo sviluppo
di una nazione non è riducibile alla ricchezza determinata dalle risorse
produttive di cui dispone (lavoro, capitale e conoscenze tecniche accumulate),
come suggerisce la teoria economica mainstream,
che le definisce grandezze fondamentali che determinano i livelli di produzione
e occupazione «di equilibrio naturale». Bisogna collegare gli ambiti sin qui
distinti della macroeconomia (e finanza) dei «musi duri» e lo sviluppo
sostenibile dei «cuori teneri». Non si tratta solo e tanto di correggere i
modelli di stima delle relazioni reciproche, stimando meglio il valore dei
cosiddetti «moltiplicatore» e «acceleratore» utilizzati per valutare gli
effetti delle diverse politiche sul reddito e l’occupazione, aggiungendo la
povertà e la disuguaglianza, ma occorre imporre la volontà politica di dare
reale priorità ai principi dello sviluppo sostenibile, considerandoli un
presupposto irrinunciabile delle politiche macroeconomiche.
Occorre,
perciò, creare un terreno di contaminazione e una base per un linguaggio
comune, di confronto aperto tra le due agende, al di là di auspici meno
ambiziosi ma comunque importanti perché l’agenda degli SDG e quella della
politica estera e di sicurezza dei vari Stati siano tra loro coerenti[65]. Un presupposto strategico a tal fine è rappresentato
dalla creazione di un sistema di raccolta di dati affidabili sugli SDG, sulla
cui base creare un tavolo inter-istituzionale che garantisca un’ampia
partecipazione (in rappresentanza dei diversi interessi e gruppi sociali in
campo) per la discussione e l’indirizzo politico, a fianco dei tavoli tecnici
già consolidati e promossi dalle IFI – con le Banche Centrali e il MEF – per
monitorare lo stato di realizzazione dei programmi di aggiustamento strutturale
e stabilizzazione finanziaria.
Al di là
della sua retorica, il liberismo si fonda paradossalmente su un’applicazione
del concetto di pianificazione pubblica, che ha la particolarità di affidarsi
alla presunta efficienza della libera concorrenza sui mercati per la
mobilitazione delle risorse produttive, basandosi su un sistema di
coordinamento delle relazioni economiche internazionali di tipo tecnocratico e
finanziario (le IFI, il G20, il dialogo tra Banche centrali e MEF). L’agenda
degli SDG mira a replicare lo stesso concetto di pianificazione e proporre un
sistema di coordinamento, in nome però di un modello di sviluppo alternativo
(di «trasformazione», come recita l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite) e di un
processo di maggiore democratizzazione delle scelte politiche.
In un paese
di prima priorità per la politica italiana di cooperazione allo sviluppo come
il Senegal, per esempio, che riflette bene l’orientamento africanista impresso
dal Vice Ministro Giro, il tavolo di coordinamento e il sistema di raccolta
dati sulle variabili macroeconomiche e finanziarie sono giudicati positivi e
promettenti dal Fondo monetario internazionale, rispetto agli standard dell’Africa
sub-sahariana e dell’Africa occidentale in particolare (in cui il Fondo ho
promosso tale esercizio), per il monitoraggio delle politiche e la valutazione
degli effetti. A quel tavolo, che gode di un’investitura politica di primo
rango riconosciuta dalla Presidenza della Repubblica, ha senso che se ne
aggiunga uno di pari livello sugli SDG, in una logica non concorrenziale ma
nemmeno di totale indifferenza, con uno spirito collaborativo, di reciproca
attenzione e riconoscimento: e ciò di per sé costituirebbe un primo grande
risultato.
Obiettivi,
target e indicatori sono tutt’altro che standardizzati e disponibili nei paesi
poveri e richiedono, comunque, un lavoro aggiuntivo di sintesi per tradurre
centinaia di indicatori in strumenti facilmente interpretabili e utilizzabili
al servizio dei cittadini e del processo decisionale, come dimostra l’intenzione
dell’esercizio, svolto in forma molto provvisoria all’interno del Sustainable Development Solution Network
(SDSN), di costruzione di un indice sintetico e un pannello di controllo a
colori (Dashboard) degli SDG[66].
Nel 2013, l’Aiuto
pubblico allo sviluppo (APS) ha destinato a livello mondiale solo 325 milioni
di dollari al rafforzamento delle capacità nazionali in campo statistico, il
che rappresenta una quota dello 0,3% dell’APS mondiale, come negli anni
passati, nonostante i frequenti richiami all’importanza dei dati per monitorare
e valutare l’andamento degli SDG e l’effetto delle politiche (cui è dedicato il
par. 57 della Risoluzione 70/1 delle Nazioni Unite). Poco più di un terzo dei
325 milioni sono andati a favore di paesi dell’Africa sub-sahariana, un
sub-continente che continua ad avere il più basso tasso di registrazione e di
certificati di morte al mondo (il che, per esempio, impedisce di monitorare con
precisione i dati sanitari), ma in cui più in generale i dati amministrativi –
dei diversi uffici pubblici, al di là perciò delle competenze dirette degli
istituti nazionali di statistica – sono una fonte informativa ampiamente
sottoutilizzata e che potrebbe invece produrre dati regolari, disaggregati e a
cadenza giornaliera su numerosi ambiti degli SDG.
In un paese
come il Senegal, per restare all’esempio citato, ci sono molti margini di
miglioramento del sistema e c’è un contesto favorevole, con l’interesse
esplicito dell’Agenzia senegalese di statistica, di numerosi uffici pubblici a
livello locale e di ministeri che concorrono a definire il sistema statistico
nazionale, con cui la cooperazione italiana (l’ufficio di Dakar dell’Agenzia
Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, AICS) e il sistema delle Nazioni
Unite (UN-Women) hanno peraltro già avviato una prima proficua collaborazione e
si ripromettono ora di sostenere il sistema di elaborazione e valutazione delle
politiche pubbliche attraverso un partenariato specifico. Il Senegal è un
paese, inoltre, in cui si sperimenterà nel prossimo futuro la pratica della
cooperazione europea congiunta (joint
programming), con un raccordo stretto tra le iniziative di tutti i paesi
membri.
In questa
prospettiva, l’Italia potrebbe esercitare un ruolo di traino e apripista
avviando un programma innovativo sul fronte del sostegno al rafforzamento della
capacità di raccolta e analisi dati del sistema nazionale con riferimento agli
SDG, non focalizzato sulla pratica prevalente nel mondo della cooperazione allo
sviluppo di realizzare indagini campionarie ad hoc, ma sul rafforzamento del sistema
nazionale in senso ampio, dando concretezza alla generica raccomandazione
contenuta nell’Agenda 2030 di «condurre processi regolari e inclusivi di
rassegna a livello nazionale e subnazionale dei progressi conseguiti».
In un
contesto di poche risorse dell’APS mondiale destinate alle statistiche, il
valore aggiunto e la visibilità di un impegno specifico italiano – per esempio
focalizzato sull’SDG 5, sulla base degli indicatori multidimensionali
sviluppati sin qui con il partenariato italiano e di UN-Women e un supporto al
sistema amministrativo di raccolta dati – risulterebbero ingigantiti; inoltre,
questo costituirebbe un utile precedente da spendere nella concertazione
intra-europea, laddove si potrebbero successivamente moltiplicare gli impegni sul
fronte di più SDG con il concorso finanziario contemporaneo e parallelo di
altri paesi membri, concretizzando l’auspicio della Risoluzione del Parlamento
Europeo a sviluppare posizioni comuni[67]. Un sistema standardizzato e comparabile di raccolta
e analisi dati a regime sui diversi SDG avrebbe anche una validità esterna,
rappresentando un modello per esperienze replicabili in altri paesi di prima
priorità per l’Italia, essendo tuttavia chiaro che occorrerà che i paesi
definiscano nello specifico la propria agenda nazionale che, in funzione dei
contesti, identifichi gli indicatori pertinenti e realmente misurabili.
Dal momento
poi che l’Africa saheliana è un’area molto vulnerabile ambientalmente e al
contempo fonte di flussi migratori verso l’Europa (il Senegal è la prima
comunità dell’Africa sub-sahariana presente in Italia), un’esperienza simile
potrebbe favorire una maggiore coerenza e coordinamento di vari rivoli di
cooperazione allo sviluppo, a cominciare da un maggiore raccordo con le
attività promosse dal Ministero dell’Ambiente che ha a disposizione un volume
di risorse finanziarie significative, quasi comparabili a quelle dell’AICS, e
con le risorse che ora anche il Ministero dell’Interno comincia a destinare a
progetti nei paesi di origine dei flussi migratori, Senegal in primis. Non c’è
dubbio, infatti, che la raccolta di dati affidabili sia un obiettivo in sé
prioritario per chi si prefigge la tutela dell’ambiente e per chi mira a una
più efficace gestione dei flussi migratori. Più in generale, infine, è palese
che dati regolari e affidabili per il monitoraggio e la valutazione delle
politiche, e quindi per una successiva programmazione di interventi, siano
essenziali per tutti gli attori coinvolti nella cooperazione allo sviluppo: le
ONG e le associazioni, i Comuni e le Regioni, l’AICS, il MAECI e il Parlamento
chiamati, in ordine inverso, a legiferare, decidere e realizzare sulla base di
un’adeguata conoscenza della realtà e degli effetti prodotti dalle politiche
attuate.
Nuove fonti
di dati e tecnologie per la loro raccolta e l’integrazione di diverse fonti di
dati sono un terreno promettente da esplorare, coinvolgendo forme di
partenariato allargate nei diversi sistemi nazionali. Del resto, nello spirito
di un’agenda universalistica, questa sfida interessa gli stessi paesi OCSE come
l’Italia (certamente avanti rispetto ad altri paesi), che hanno anch’essi un
pezzo di strada da percorrere, non disponendo di dati misurati adeguatamente
per le centinaia di indicatori riconducibili agli SDG, come si evince da un
recente studio che identifica in via preliminare (e non come esercizio di
valutazione finale) 86 indicatori relativi a 73 target riferiti a tutti i 17
SDG e per i quali fissa dei risultati da raggiungere entro il 2030,
concretizzando uno degli impegni assunti nel Piano d’azione 2016 dell’OCSE
sugli SDG. Per inciso, dallo studio si evince che l’ambito dell’SDG 5 è quello
in cui i paesi OCSE devono migliorare di più, essendo mediamente oggi solo a un
terzo del progresso necessario per conseguire i risultati attesi dell’uguaglianza
di genere[68].
In seno alla Commissione Affari esteri
della Camera dei deputati, il 4 novembre 2015 è stato istituito il Comitato
permanente sull’attuazione dell’Agenda 2030 e gli Obiettivi di Sviluppo
Sostenibile, ai sensi dell’articolo 22, comma 4, del regolamento. Il Comitato
è stato istituito in continuità con il Comitato Agenda post-2015, cooperazione
allo sviluppo e partenariato pubblico-privato che la Commissione aveva creato
all’inizio della XVII Legislatura.
Il Comitato, presieduto dall’on. Maria
Edera Spadoni, ha avviato la propria attività il 16 dicembre
2015 con una seduta dedicata ad una riflessione preliminare sui propri
lavori. In riferimento all’ambito di competenza del Comitato e in particolare
riguardo all’attività conoscitiva, la presidente ha sottolineato l’opportunità
di indirizzarla anzitutto a far chiarezza in ordine ad una maggiore trasparenza
sulla destinazione e l’effettivo utilizzo dei fondi previsti per il
raggiungimento degli SDGs (Sustainable
Development Goals), a livello sia internazionale sia nazionale, osservando,
inoltre, la necessità di venga aggiornata ed implementata la strumentazione
informatica predisposta dal Governo per accrescere il grado di trasparenza sui
progetti di cooperazione. In linea con quanto già fatto dal precedente Comitato
permanente sull’Agenda globale post-2015, cooperazione allo sviluppo e
partenariato pubblico e privato, la presidente ha proposto di procedere ad
audizioni, a cominciare da rappresentanti di organizzazioni non governative,
anche al fine di valutare una proposta di indagine conoscitiva da sottoporre
all’Ufficio di presidenza della Commissione.
Nel corso della medesima seduta del 16
dicembre 2015 l’on Spadoni ha reso comunicazioni sulla missione svolta a
Bruxelles in occasione della Riunione interparlamentare presso il Parlamento
europeo sul tema "Unfulfilled Millennium Development Goals and the
implementation of the newly-agreed Sustainable Development Goals" (13
ottobre 2015) nonché comunicazioni sulla missione svolta a Lussemburgo
in occasione della Riunione dei presidenti delle Commissioni competenti in
materia di cooperazione allo sviluppo (11 dicembre 2015).
Nella seduta del 14 giugno
2016 la Commissione Affari esteri ha deliberato all’unanimità lo svolgimento
di un’indagine conoscitiva sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile
ai sensi dell’articolo 144, comma 1 del regolamento, delegandone lo svolgimento
al Comitato permanente sull’attuazione dell’Agenda 2030 e gli Obiettivi di
Sviluppo Sostenibile. L’indagine dovrà concludersi il 31 dicembre 2016. Nel programma
dell’indagine conoscitiva si sottolinea che l’obiettivo è l’approfondimento
dell’attività posta in essere dalla Comunità internazionale e dal Governo
italiano per il raggiungimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile,
anche in quanto orizzonte di riferimento per il settore della cooperazione
italiana allo sviluppo.
Nel quadro dei diversi soggetti che operano
nella Comunità internazionale, l’indagine conoscitiva svolgerà in particolare
un’azione di monitoraggio sulle iniziative assunte dai Paesi del G7, di cui l’Italia
nel corso del 2017 assumerà la presidenza. L’indagine valuterà iniziative,
aspetti finanziari ed eventuali rapporti con istituzioni internazionali utili a
qualificare la posizione dell’Italia sulle diverse questioni e ad individuare
le modalità più opportune per dare maggiore visibilità, soprattutto nelle sedi
europee, all’impegno italiano per la realizzazione dell’Agenda 2030. L’attività
di indagine si articolerà principalmente in audizioni di soggetti rilevanti ai
fini dei temi trattati e, ove necessario, in sopralluoghi al di fuori della
sede parlamentare, di cui sarà di volta in volta richiesta l’autorizzazione
alla Presidenza della Camera. Tra i soggetti da audire il programma indica
rappresentanti dei Dicasteri competenti; rappresentanti di Organizzazioni
internazionali e regionali; rappresentanti delle Istituzioni Finanziarie
Internazionali; rappresentanti della società civile; rappresentanti del settore
privato; rappresentanti organi di informazione; accademici ed esperti.
L’indagine conoscitiva è stata avviata
il 5 luglio
2016 con l’audizione del Direttore per le relazioni esterne del Fondo globale
per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria, Christoph Benn. Nel corso
della seduta è stata presentata un’ampia ricognizione della struttura
organizzativa e delle attività del Fondo, che è al tempo stesso un’ istituzione
finanziaria progettata per combattere AIDS, tubercolosi e malaria nella loro
forma epidemica ed un partenariato tra governi, società civile, il settore
privato e le persone affette dalle malattie. Il Fondo, istituito nel 2001,
raccoglie ed investe circa 4 miliardi di dollari l’anno per sostenere programmi
gestiti da esperti locali - e non direttamente dal Fondo - nei paesi e nelle
comunità colpite dalle epidemia. Il Fondo ha base a Ginevra ed è composto da
personale dalla più varia esperienza professionale proveniente da oltre 100
differenti paesi.
Gli investimenti effettuati nelle aree
colpite dalle epidemie sono modellati sulle esigenze specifiche e sulle
caratteristiche di ciascun paese, nonché su quelle delle comunità più colpite
dalle tre malattie, in ossequio al principio della Country Ownership e dei complementari principi del finanziamento Performance-based, che correla il
finanziamento a risultati comprovati, monitorati e verificati dagli agenti
locali, ed al principio di trasparenza.
Replicando ad uno specifico quesito posto
dalla Presidente Spadoni, il direttore del Fondo ha precisato che l’incidenza
dei costi operativi è pari al 3% dei 4 mld di dollari annualmente spesi per i
programmi.
Con riferimento al contributo italiano al
Fondo, si rammenta che dal 2001, l’Italia ha erogato complessivamente 890
milioni di euro. Si segnala che, sul piano finanziario, si era registrata una
battuta d’arresto poiché, malgrado impegni formalmente assunti, l’Italia non
aveva onorato gli ultimi pledges per
gli anni 2009 e 2010.
Nel dicembre 2013, durante la Conferenza di
Replenishment di Washington il nostro
Paese è rientrato a pieno titolo tra i finanziatori del Fondo con un pledge per il triennio 2014-2016 pari ad un
totale di 100 milioni di euro. Si rammenta che sul finanziamento al Fondo la
Commissione esteri aveva approvato, il 14 giugno 2016, la risoluzione
conclusiva 8/00186 d’iniziativa dell’onorevole Quartapelle che impegna il
Governo a formalizzare in occasione della sessione finale della quinta
Conferenza di rifinanziamento del Fondo globale un significativo rafforzamento
dell’impegno dell’Italia per il triennio 2017-2019, a conferma del rinnovato
impegno italiano nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo ed
a promuovere, accanto al rafforzato impegno finanziario, un ruolo politico più
attivo dell’Italia in seno alla struttura di governo del Fondo Globale in
sinergia con le priorità nazionali di politica estera e di cooperazione
internazionale, assicurando di monitorare e incidere sulle decisioni che
riguardano la trasparenza e la rendicontazione nella gestione dei programmi di
finanziamento, il sostegno ai sistemi sanitari nazionali dei Paesi beneficiari,
nonché il pieno coinvolgimento dei Paesi fruitori e della società civile nelle
fasi decisionali.
Nella seduta del 13 luglio 2016 l’indagine è proseguita con l’audizione del portavoce dell’Alleanza
italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), Enrico Giovannini. Nel corso dell’audizione
sono stati estesamente trattati i profili relativi al raggiungimento degli
SDGs, processo nel quale si inquadra l’ASviS, sorta con l’obiettivo di
mobilitare la società italiana, i soggetti economici e le istituzioni. La missione dell’Alleanza è, come
accennato, proprio quella di far crescere nella società italiana, nei soggetti
economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda
globale per lo sviluppo sostenibile, mettendo in rete coloro
che si occupano già di aspetti specifici ricompresi nei Sustainable
Development Goals allo scopo di:
·
favorire lo
sviluppo di una cultura della sostenibilità a tutti i livelli,
orientando a tale scopo i modelli di produzione e di consumo;
·
analizzare le implicazioni
e le opportunità per l’Italia legate all’Agenda per lo sviluppo
sostenibile;
·
contribuire alla definizione
di una strategia italiana per il conseguimento degli SDGs, anche
utilizzando strumenti analitici e di previsione che aiutino la definizione di
politiche per lo sviluppo sostenibile, nonché alla realizzazione di un sistema
di monitoraggio dei progressi dell’Italia verso gli SDGs.
Attualmente l’ASviS riunisce oltre 100 tra
le più importanti istituzioni e reti della società civile. Si tratta di
associazioni rappresentative delle parti sociali (associazioni imprenditoriali,
sindacali e del Terzo Settore); reti di associazioni della società civile che
riguardano specifici Obiettivi (quali, ad esempio, salute, benessere economico,
educazione, lavoro, qualità dell’ambiente, uguaglianza di genere); associazioni
di enti territoriali; università e centri di ricerca pubblici e privati, e le
relative reti; associazioni di soggetti attivi nei mondi della cultura e dell’informazione;
fondazioni e reti di fondazioni; soggetti italiani appartenenti ad associazioni
e reti internazionali attive sui temi dello sviluppo sostenibile.
Nella seduta del 14 luglio
2016 si è svolta l’Audizione della Vice Direttrice Generale dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità per la Salute della Famiglia, delle Donne e dei Bambini,
Flavia Bustreo. La Vice Direttrice ha portato a conoscenza del Comitato la
strategia globale, cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dato impulso,
per la salute delle donne, dei bambini e degli adolescenti nel mondo, che
risulta strutturalmente legata agli Obiettivi di sviluppo 2030.
Si tratta di una strategia dal 2016 al
2030, che ha tre obiettivi principali: assicurare la sopravvivenza di donne,
bambini e adolescenti, in presenza di dati di salute pubblica internazionale
che, a livello globale, sono ancora estremamente preoccupanti; il secondo
obiettivo principale è la salute piena, cioè la possibilità di avere sia donne
sia bambini in grado di essere liberi dalla violenza e di avere accesso a
servizi sanitari qualificati; il terzo obiettivo è quello di permettere la
partecipazione attiva alle donne, soprattutto alle giovani, per dar loro modo di
contribuire allo sviluppo ed alla crescita economica dei propri Paesi.
La questione dei cosiddetti “caschi blu della cultura” trae origine da
esigenze ormai più che decennali: infatti il
26 ottobre 2004 l’allora Ministro per i beni e attività culturali Giuliano
Urbani firmava a Parigi una dichiarazione congiunta con il direttore generale dell’UNESCO, Koichiro Matsuura, dedicata alla mutua cooperazione per una
risposta di emergenza volta alla messa in atto, in scacchieri internazionali di
crisi, di interventi di salvaguardia e recupero dei beni culturali e naturali a
rischio di conflitti o di calamità naturali.
La dichiarazione congiunta traeva origine dalla vasta esperienza che l’Italia
aveva sviluppato nelle tecniche per il recupero del patrimonio culturale e
storico danneggiato in seguito a conflitti o calamità naturali quali i
terremoti, purtroppo frequenti nel nostro Paese.
Tra le
più significative esperienze internazionali dell’Italia nella materia già
allora si annoveravano gli interventi di archeologi ed i carabinieri del
Comando tutela patrimonio culturale per la ricostruzione del patrimonio
culturale iracheno sottoposto a distruzioni e saccheggi dopo la caduta di
Saddam Hussein; come anche i restauri operati nella città iraniana di Bam
devastata da un terremoto.
L’Italia era pertanto incaricata di dar vita all’asse portante
di una forza di intervento capace di operare rapidamente in tutto il mondo. Per
quanto concerne il nostro Paese, l’ossatura della task force era prevista con personale proveniente dal Ministero
degli esteri, da quello dei beni e attività culturali, dalla Protezione civile
e dai Carabinieri. Il gruppo d’azione di emergenza capitanato dall’Italia, si
prevedeva, avrebbe avuto un assetto variabile in rapporto alle specifiche
esigenze di volta in volta manifestate, e avrebbe agito su richiesta dei paesi
bisognosi di intervento.
La
questione è stata rilanciata in tempi più recenti e a un più alto livello dal
Ministro dei beni culturali e delle attività culturale e del turismo Dario Franceschini nel marzo 2015, dopo
la constatazione degli attacchi intenzionali di miliziani dell’ISIS contro
elementi di inestimabile valore del patrimonio culturale mondiale nel Medio
Oriente.
Secondo
il Ministro, infatti, era tempo di dar vita a una forza delle Nazioni Unite
che, in parallelo ai caschi blu impegnati nelle operazioni di peacekeeping, potesse attendere alla tutela dei siti del patrimonio culturale
dell’umanità per difenderli dai gravi attacchi intenzionali del terrorismo,
di fronte ai quali i tradizionali strumenti per la tutela del patrimonio
culturale durante i conflitti armati appaiono in parte superati.
Su
queste proposte il Ministro Franceschini riceveva immediato sostegno da parte
della direttrice generale dell’UNESCO
Irina Bokova, che concordava sulla necessità di dar vita con immediatezza
ad ulteriori passi per la realizzazione del progetto - proprio in sede UNESCO, ricordava del resto l’on.
Franceschini, l’Italia aveva già
presentato una risoluzione per la salvaguardia del patrimonio culturale nelle
aree di conflitto. Pochi giorni dopo, il 23 marzo, la ministra tedesca della cultura Monika Gruetters appoggiava con
convinzione la proposta italiana, nel corso di un incontro con lo stesso ministro
Franceschini a Berlino.
Va segnalata il 31 marzo 2015 l’approvazione
da parte dell’Assemblea della Camera di un ordine del giorno - in
un testo riformulato nel corso della seduta - d’iniziativa dell’on. Roberto
Rampi, con il quale si impegna il Governo a promuovere la costituzione e l’impiego
di appositi contingenti multinazionali di personale, da impiegare dopo la
stabilizzazione del paese interessato e su richiesta esplicita di quest’ultimo,
in attività di tutela del patrimonio artistico e culturale e nel contrasto del
traffico di opere d’arte finalizzato al finanziamento del terrorismo
internazionale, affidando, per quanto riguarda le forze italiane, all’Arma dei Carabinieri
la responsabilità dei nuclei operativi, composti anche da appositi reparti dell’Esercito
operanti nelle missioni internazionali di pace e di stabilizzazione.
Successivamente, il 19 maggio 2015, la
Commissione Cultura del Senato ha a sua volta approvato una risoluzione nella
quale, oltre ad unirsi nell’impegnare il Governo a proseguire nell’iniziativa
di costituzione dei caschi blu della cultura, inserisce lo specifico profilo
della necessità di una elevata qualificazione di questi operatori, tra i quali
dovrebbe essere inserito personale dei dipartimenti universitari per la
conservazione e il restauro dei beni culturali, nonché di istituti di
eccellenza nel settore.
La
risoluzione, inoltre, ha auspicato le opportune iniziative da parte delle
Nazioni Unite per il blocco della vendita di reperti archeologici trafugati dai
paesi in guerra, anche allo scopo di prevenire il finanziamento del terrorismo;
e, sul versante nazionale, mira a valorizzare il Comando carabinieri per la
tutela del patrimonio culturale.
La grave questione della minaccia dell’ISIS per l’inestimabile patrimonio
culturale delle regioni siriane e
irachene cadute nelle mani del "Califfato" ha costituito l’oggetto
della risoluzione 7-00694 dell’on. Amendola, discussa nelle sedute del 16 luglio e del 5 agosto 2015 delle Commissioni riunite Affari esteri e Cultura della Camera.
La discussione
si è conclusa con l’approvazione della risoluzione conclusiva 8-00130, nella
quale si impegna il Governo, tra l’altro, “a
promuovere un’efficace attuazione della convenzione dell’AJA sulla tutela dei
beni culturali in caso di conflitto armato anche non internazionale con la
possibile istituzione di ‘zone culturali protette’ e di una task force specializzata che ne possa assicurare
l’effettiva protezione, sul modello dei ‘caschi blu per la cultura’ attualmente
in discussione all’UNESCO” ed “a
verificare con rigore l’attuazione dei protocolli internazionali e della
normativa vigente in materia di traffico illecito transnazionale di beni
culturali”, nonché a promuovere “ogni
sforzo teso a preservare dalle operazioni militari i siti di particolare
interesse archeologico e artistico”.
Sul tema in esame è tornato alla fine di
settembre 2015 anche il Presidente del Consiglio Matteo
Renzi, durante una delle tante iniziative a margine dell’inaugurazione della
Sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: in particolare, Matteo Renzi ha inquadrato la costituzione
dei caschi blu della cultura all’interno degli sforzi con cui l’Italia vuole
contribuire a una più efficace azione del peacekeeping dell’ONU.
Sull’onda
dell’ennesimo intollerabile attentato al patrimonio culturale dell’umanità
perpetrato dall’ISIS nella città siriana di Palmira all’inizio di ottobre del
2015, il 17 dello stesso mese il
Consiglio esecutivo dell’UNESCO approvava la risoluzione italiana appoggiata da
altri 53 paesi e dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Il Ministro Franceschini, che
aveva esortato ad accelerare i tempi in questa direzione dopo l’attacco ai
monumenti di Palmira, esprimeva soddisfazione e richiamava anche l’approvazione
in margine all’Expo di Milano della Dichiarazione sulla protezione del
patrimonio culturale da parte di 83 paesi. La risoluzione approvata
dall’UNESCO, in particolare, dava impulso al lavoro diplomatico in sede ONU per
includere la componente culturale nelle missioni di pace.
Un
altro passaggio essenziale nella creazione di una forza multilaterale per la
tutela del patrimonio culturale mondiale si è avuto a Roma il 16 febbraio scorso con la firma di un Memorandum
d’intesa tra il Governo italiano e l’UNESCO relativo alla task
force nazionale italiana nel contesto della coalizione globale dell’UNESCO
denominata “United for Heritage”.
La task force italiana, composta
da personale specializzato civile e carabinieri operanti nella tutela del
patrimonio culturale, dovrà essere in grado di valutare i rischi e quantificare
i danni al patrimonio culturale, ideare piani di azione, formare personale
nazionale e locale, rafforzare la lotta contro il danneggiamento, il saccheggio
e il traffico illecito di reperti. Nella cerimonia istitutiva della task force italiana svoltasi a Roma il
Ministro degli esteri Gentiloni ha evidenziato lo specifico contributo italiano
nella lotta al terrorismo che la costituzione della task force rappresenta, in
considerazione del fatto che obiettivo degli attacchi terroristici negli ultimi
anni sono stati in modo deliberato elementi fondamentali del patrimonio
culturale mondiale. Nel corso della cerimonia svoltasi alle terme di
Diocleziano la direttrice generale dell’UNESCO Irina Bokova ha salutato con
entusiasmo e gratitudine l’istituzione della task force italiana, ed è stato
altresì sottoscritto un protocollo d’intesa con il Comune di Torino per
l’istituzione nel capoluogo piemontese di un centro di formazione relativo al
personale della task force.
La prima occasione di intervento della task force non è stata però all’estero, ma in seguito al devastante
terremoto del 24 agosto 2016, nelle zone colpite del Lazio, dell’Umbria e
delle Marche, e soprattutto ad Amatrice, dove appare necessario un intervento
sulla chiesa trecentesca di S. Francesco e su quella di S. Agostino.
A fine giugno 2016, l’Italia
è stata eletta membro non permanente del Consiglio di Sicurezza per il
biennio 2017-18 e, nell’ambito di un accordo con i Paesi bassi, occuperà il
seggio nel 2017, per poi ritirarsi e la sciare il posto all’Aja (che dovrà a
sua volta essere eletta dall’Assemblea generale) |
INCONTRI
Il 15 ottobre 2015, il Segretario generale
delle Nazioni Unite, Ban-Ki-Moon, ha
tenuto un discorso nell’Aula di Montecitorio, alla presenza del Presidente
della Repubblica Mattarella, dei Presidenti Boldrini e Grasso, in occasione
della cerimonia per la celebrazione del
60mo anniversario dell’adesione dell’Italia alle Nazioni Unite.
Il 1° settembre 2015, in occasione della
quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell’Unione interparlamentare,
svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2
settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario generale delle Nazioni
Unite Jan Kenneth Eliasson.
Il 20 novembre 2014, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento
presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.
Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente
della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a
New York (a latere della seconda riunione del Comitato preparatorio
della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in
rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace,
Hervé Ladsous, e il 18 novembre il
Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.
L’11 novembre 2014, la
Presidente Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma
Alimentare Mondiale.
Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini è
intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l’impatto umano. La
prospettiva dell’UNRWA (Agenzia dell’ONU per l’assistenza ai rifugiati
palestinesi) e degli operatori dell’informazione".
Il 29 settembre 2014,
la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.
Il 22 settembre 2014, la
Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei
diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila
B. Keetharuth.
La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita
ufficiale negli Stati Uniti d’America dal 20 al 23 maggio 2014, si è recata in
visita, il 22 maggio, presso le
Nazioni Unite, dove ha incontrato
funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.
Il 14 novembre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell’ONU sulla
violenza sessuale nei conflitti, Zeinab
Hawa Bangura.
Il 24 ottobre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore
per la stabilità della regione", con il
Commissario generale dell’Agenzia ONU per l’assistenza ai rifugiati palestinesi
(UNRWA), Filippo Grandi.
Il 18 settembre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite
sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.
La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha
ricevuto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il 9 aprile 2013.
Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha
voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di
lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei
deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale
svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della
volontà popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile,
il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente
Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del
conflitto in Siria.
LA PARTECIPAZIONE
PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)
La delegazione
parlamentare italiana alle sessioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite è la principale sede di
decisione e l’organo più rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti
gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale
ordinaria dell’Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e prosegue di
regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in
qualità di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.
Nelle precedenti legislature, una delegazione parlamentare di
componenti della Commissione Affari esteri si è recata a New York per ciascuna
delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale
Nella XVII legislatura la Camera dei deputati
ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni:
·
70ma sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015):
la delegazione era composta dagli onorevoli Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC), Presidente della Commissione Affari
esteri, Andrea Manciulli (PD), Vice
Presidente della Commissione Affari esteri nonché Presidente della delegazione
parlamentare presso l’Assemblea parlamentare della NATO e Manlio Di Stefano (M5S).
·
69ma sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la
delegazione era composta dai deputati Fabrizio
Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice
Presidente della Commissione Esteri e
Andrea Manciulli (PD) Vice
Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea
parlamentare della NATO.
·
68ma sessione dell’Assemblea
Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la
delegazione era composta dai deputati Deborah
Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed
i rapporti con l’Unione europea, Andrea
Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del
Comitato permanente per i diritti umani.
***
LA
PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE CONFERENZE IN AMBITO ONU
La partecipazione parlamentare alle principali
Conferenze ONU
Sotto l’egida dell’ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre
iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l’adozione di
Convenzioni, e a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni più
delicate che l’ONU ha in agenda. La frequenza e l’importanza di tali
appuntamenti sono tali da coinvolgere l’attenzione e le attese, non solo dei
Governi di tutto il mondo, ma anche dei
Parlamenti e della società civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG
e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell’Unione
Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali
iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine
delle Conferenze. La Camera partecipa
regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite
sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni
annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Società dell’informazione.
La Commissione sullo status delle donne (CSW)
La Commissione sullo status delle donne (CSW) è stata istituita dal Consiglio Economico e Sociale delle
Nazioni Unite (ECOSOC) con la
risoluzione 11 del 21 giugno 1946,
come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito
principale della Commissione, il cui mandato è stato esteso nel 1987
(risoluzione ECOSOC 1987/22), è quello di elaborare rapporti e fornire
raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo
politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta,
inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti
che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.
La Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea
Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne.
A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica
della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha
quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma
stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le
raccomandazioni necessarie per accelerarne l’attuazione[69].
Ogni anno, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare
il punto sui progressi riguardanti la parità di genere, per individuare le
sfide future, per stabilire gli standard globali e per formulare politiche
concrete di promozione della parità di genere e dell’avanzamento delle donne in
generale.
La Commissione si riunisce annualmente per un periodo di dieci giorni
di lavoro, alla fine di febbraio –
inizio marzo.
Nella XVII legislatura, la
Camera dei deputati ha partecipato alla 58ma
Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione
femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era
composta dai deputati Valeria Valente
(PD), Presidente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli
obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all’Unione
interparlamentare. Alla 59ma
Sessione svoltasi dal 9 al 20 marzo 2015 hanno partecipato le
deputate. Lorena Milanato (FI-PdL),
componente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli
obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all’Unione
interparlamentare. L’ultima sessione, la 60ma,
si è svolta dal 14 al 24 marzo 2016;
la giornata parlamentare UIP si è tenuta il 15 marzo ed è stata dedicata al tema: ”The power of legislation for women’s empowerment and sustainable
development”. Ai lavori hanno partecipato Tiziana Ciprini (M5S), componente
del Comitato per le pari opportunità e Pia Elda Locatelli (Misto-PSI,PLI),
Presidente del Comitato diritti umani della Commissione affari esteri.
La prossima sessione è in programma sempre a New York dal 13 al 24 marzo 2017.
La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici
La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici
(UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce
impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici
della concentrazione in atmosfera dell’anidride carbonica. Più recentemente, nel
1997, è stato approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il
Protocollo di Kyoto. Esso è significativo perché prescrive dei parametri fisici
e delle specifiche procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali
sono giuridicamente vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua
ratifica. Il Protocollo di Kyoto stabilisce quindi degli obiettivi di
riduzione delle emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano,
protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di
zolfo).
Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti
(COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed
in cui i Paesi firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare
i progressi e valutare il percorso da seguire per l’attuazione della
Convenzione. Il Segretariato dell’UNFCCC supporta tutte le istituzioni
coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli
organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L’Italia ha ratificato il
Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto è entrato
in vigore il 16 febbraio 2005.
Nella XVII legislatura si è tenuta a Varsavia dal 18 al 23
novembre 2013 la XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) relativa alla Convenzione Quadro
delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), cui hanno partecipato
per la Camera dei deputati, in qualità di osservatori, il vicepresidente della
Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi
(PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno
preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S),
componenti della Commissione Ambiente.
La XX Sessione della
Conferenza delle Parti (COP20) si è tenuta a Lima, dal 6 al 12
dicembre 2014 e vi hanno preso
parte i deputati Mirko
Busto (M5S) e Mariastella
Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente.
Una delegazione parlamentare
italiana ha preso parte, su invito del Ministro dell’Ambiente Gian Luca
Galletti, al Segmento ad Alto Livello della XXI Sessione della Conferenza delle
Parti (COP21), che ha avuto luogo a Parigi dal 7 al 12 dicembre 2015. La delegazione della
Camera era composta dal Presidente della Commissione Ambiente, Territorio Ermete Realacci (PD), dal Presidente
della Commissione Attività produttive, Guglielmo
Epifani (PD), dalla Vice Presidente della Ambiente, Serena Pellegrino (SI-SEL), nonché da Stella Bianchi (PD), Chiara
Braga (PD) e Mirko Busto (M5S),
sempre della Commissione Ambiente.
La prossima riunione, la XXII Sessione, della Conferenza delle Parti (COP22), si terrà a Marrakech
dal 7 al 18 novembre 2016.
Il Consiglio Affari esteri
dell’Unione europea ha adottato, il 18 luglio 2016, le priorità dell’UE nel contesto delle Nazioni
Unite e per la 71ª
sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Il Consiglio dell’UE evidenzia in via generale che:
·
persistono importanti sfide a livello
mondiale che necessitano di una risposta globale e di un’Organizzazione delle Nazioni Unite forte ed
efficace;
·
occorre riformare e rinvigorire i sistemi di governance globale, con particolare
riferimento a settori in cui non esistono ancora istituzioni mondiali forti,
quali l’informatica, l’energia o lo
spazio;
·
la crisi migratoria e dei rifugiati, di
livello mondiale, renderà necessaria una condivisione
della responsabilità realmente globale;
·
per
sostenere la pace servirà un approccio
coerente e integrato tra i pilastri, con un ruolo sempre più centrale della
prevenzione e, al proposito, si
richiama il contributo dell’UE nel contesto della nuova strategia globale dell’UE.
L’Alta Rappresentante,
Federica Mogherini, ha presentato al Consiglio
europeo del 28 e 29 giugno 2016 la nuova
strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell’UE, che aggiorna e sostituisce, alla luce del mutato
contesto globale, la strategia europea in materia di sicurezza approvata dal
Consiglio europeo nel dicembre 2003.
La nuova Strategia globale dell’UE
si concentra in particolare su:
l’interconnessione tra sicurezza interna ed esterna dell’UE
e il rafforzamento della coerenza
tra la dimensione esterna e quella
interna delle politiche dell’UE, con particolare riferimento agli ambiti
dello sviluppo sostenibile, della migrazione, della lotta al terrorismo, della cibersicurezza
e della sicurezza energetica;
il
rafforzamento della resilienza delle
democrazie, degli Stati e
delle società, ossia della loro
capacità di resistenza e riforma in relazione a crisi interne ed esterne, con
particolare riferimento agli Stati posti in prossimità dei confini orientali e meridionali dell’UE;
un approccio integrato alle situazioni di conflitto, sviluppando la capacità dell’UE di
intervenire tempestivamente in tutte le
fasi del ciclo di un conflitto ed ai diversi
livelli di governance locale, nazionale, regionale e globale e di
promuovere una pace sostenibile mediante accordi globali sulla base di partenariati regionali e internazionali;
il rilancio della politica estera e di
sicurezza dell’UE che, pur riconoscendo il ruolo della NATO per la
difesa collettiva, deve dotarsi di capacità sia per contribuire all’Alleanza
atlantica sia per agire autonomamente
se e quando necessario in particolare attraverso: una maggiore cooperazione e pianificazione
tra gli Stati membri nel settore della difesa,
anche facendo ricorso alla cooperazione
rafforzata tra gruppi di Stati membri; lo sviluppo di maggiori capacità di risposta rapida alle
situazioni di crisi; maggiori investimenti
nella sicurezza e difesa, anche nel settore della ricerca; la creazione di
una forte industria europea della difesa;
la
promozione di ordini regionali
cooperativi, attraverso partenariati regionali ed internazionali e lo
sviluppo di una governance globale
basata sul diritto internazionale,
la tutela e promozione dei diritti umani
ed uno sviluppo sostenibile.
Le priorità dell’UE per la
71ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si focalizzeranno nei
tre ambiti principali:
·
Sostenere la pace
·
occorre un’agenda comune e una risposta integrata dell’ONU
che ponga l’accento su diplomazia preventiva,
mediazione, costruzione della pace, resilienza, operazioni di mantenimento
della pace. A tal fine, è fondamentale sviluppare un approccio globale che preveda una integrazione delle azioni nei
vari settori quali: prevenzione delle crisi, aiuto umanitario, stabilizzazione
e costruzione della pace, sviluppo sostenibile, mitigazione dei cambiamenti
climatici tutela dei diritti umani;
·
l’UE si
impegna a potenziare la partecipazione
degli Stati membri dell’UE alle operazioni di mantenimento della pace e alle
missioni politiche speciali dell’ONU ed a intensificare gli sforzi di
mediazione e diplomazia preventiva;
·
l’UE si
adopererà insieme ai partner per eliminare
tutte le forme di violenza contro donne e ragazze, compresa la violenza sessuale nei conflitti;
·
occorre attuare integralmente le misure prevista
dalla strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo. La lotta
contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente
alla ricerca di soluzioni politiche
durature nelle regioni interessate volte ad affrontare le cause profonde del terrorismo;
·
in
relazioni alle diverse sfide regionali:
per quanto riguarda la Siria, l’UE
ribadisce il suo pieno sostegno agli sforzi a guida ONU per agevolare una
transizione politica. Solo un processo politico a guida siriana che conduca a
una transizione pacifica e inclusiva, sulla base dei principi del comunicato di
Ginevra del 30 giugno 2012 e delle pertinenti UNSCR, riporterà stabilità,
renderà possibili la pace e la riconciliazione e una lotta efficace contro il
terrorismo, preservando nel contempo la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità
territoriale dello Stato siriano; in Medio
Oriente l’UE si adopererà per rilanciare il processo di pace in Medio
Oriente e ribadisce l’impegno a raggiungere la soluzione fondata sulla
coesistenza di due Stati; in Libia,
l’UE continuerà a fornire un sostegno significativo al Governo di intesa
nazionale e alla popolazione libica nei settori chiave (tra cui lo stato di
diritto, la cooperazione economica e la riforma del settore della sicurezza),
su richiesta delle autorità del paese e a sostegno dell’UNSMIL. Il Consiglio di
sicurezza rivestirà un ruolo importante in Libia per quanto concerne le
sanzioni dell’ONU e l’eventuale autorizzazione di specifiche iniziative PSDC
dell’UE. In relazione alla crisi in Ucraina,
l’UE continuerà a sostenere gli sforzi internazionali, in particolare il
processo di Minsk, al fine di trovare una soluzione politica e pacifica
duratura alla crisi, sulla base del rispetto dell’integrità territoriale, della
sovranità e dell’indipendenza del paese e osservando rigorosamente le norme
internazionali; per quanto riguarda l’Afghanistan
si indica l’impegno dell’UE per la stabilità e le riforme a lungo termine e si
ribadisce il pieno sostegno alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in
Afghanistan (UNAMA). Per quanto riguarda le nazioni africane, l’UE intende mettere a punto un quadro
strutturato per rafforzare la cooperazione
trilaterale in Africa, sulla base dello scambio di esperienze sul terreno e
dei contatti frequenti a livello politico e tecnico che già esistono tra l’ONU, l’Unione africana e l’UE;
·
in
materia di disarmo e non proliferazione
delle armi, l’UE ritiene essenziale sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite
volti ad impedire agli attori non
statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire,
detenere e trasportare armi di
distruzione di massa. L’UE promuoverà,
inoltre, la piena attuazione e universalizzazione della Convenzione sulle armi chimiche; del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari e del Trattato sul commercio delle armi. Prioritario
è anche l’avvio immediato e la
rapida conclusione dei negoziati,
nell’ambito della Conferenza del disarmo, di un trattato sul bando della produzione di materiale fissile per armi
nucleari o altri ordigni esplosivi nucleari
·
Un mondo più giusto e umano
·
l’UE
ritiene necessari sforzi coerenti e
coordinati da parte dell’intera comunità internazionale per affrontare la crisi globale legata al movimento di sfollati e l’aumento dei flussi migratori e
di rifugiati e che dovrebbero condurre all’istituzione di un quadro di
cooperazione globale ed efficiente fondato su responsabilità condivise. La comunità internazionale dovrebbe
considerare della massima priorità
proteggere le vittime e salvare vite umane. Occorre affrontare le cause pluridimensionali all’origine dell’attuale
crisi dei rifugiati e della migrazione irregolare. È, inoltre, necessario
compiere maggiori sforzi per potenziare
i canali di migrazione legale e garantire la riammissione delle persone che
non possono beneficiare dell’asilo in conformità del diritto internazionale.
Infine, va rafforzato il nesso tra
assistenza umanitaria e allo sviluppo ed ampliata la base dei donatori, mobilitando i contributi provenienti
dal settore privato e impegnandosi a
utilizzare le risorse disponibili in
modo più efficiente;
·
l’UE si
impegna a favorire la promozione e la
protezione dei diritti umani in tutto il mondo sulla base dello stretto
partenariato con l’ONU. In tale ambito, è prioritario attribuire un ruolo importante alle organizzazioni della società civile e dei
difensori dei diritti umani e alla discussione sulle misure per consentire
la partecipazione delle istituzioni e dei rappresentanti dei popoli indigeni alle riunioni dei
pertinenti organi delle Nazioni Unite concernenti questioni che li riguardano.
L’UE continuerà altresì a prestare particolare attenzione a tutte le questioni di genere, tra cui il
progresso dei diritti delle donne, l’emancipazione femminile e la parità di
genere; alla protezione dei diritti dei minori in tutto il mondo ed al rispetto di principi di uguaglianza e non
discriminazione, compresa la discriminazione fondata sull’orientamento
sessuale e l’identità di genere. Occorre, inoltre prestare maggiore attenzione
alla protezione internazionale dei
rifugiati, al principio di non
respingimento e al diritto di asilo, ma anche alla risposta alle esigenze
particolari dei migranti in situazioni
vulnerabili a cui non viene riconosciuto lo status di rifugiato.
·
il sistema internazionale degli aiuti deve
adattarsi ulteriormente al fine di far fronte alla portata e alla natura
delle sfide attuali. La risposta deve diventare più efficiente, ottimizzando i metodi di lavoro sia
della comunità di donatori che degli
operatori umanitari. Occorre
garantire sinergie e coerenza tra gli
aiuti umanitari e la cooperazione allo sviluppo, la stabilizzazione e la
prevenzione dei conflitti prima dello scoppio di una crisi, per migliorare le capacità di anticipazione,
preparazione e risposta di fronte a crisi o catastrofi.
Un
programma durevole di cambiamento
·
l’UE
ritiene ancora insufficiente l’integrazione
tra le strategie sui cambiamenti climatici, lo sviluppo sostenibile, gli aiuti
umanitari e le questioni attinenti alla costruzione della pace;
·
i cambiamenti climatici sono una delle questioni più urgenti e complesse per
il loro impatto destabilizzante sulla migrazione, la sicurezza alimentare, l’accesso
affidabile alle risorse, all’acqua e all’energia, la diffusione delle malattie
epidemiche e l’instabilità sociale ed economica e per la loro capacita di
produrre ed amplificare situazioni di conflitto. A tal fine è importante la ratifica e l’entrata in vigore
tempestive dell’accordo di Parigi del 2015. L’UE si impegna, inoltre, ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei
finanziamenti per il clima, al fine di apportare il proprio contributo all’obiettivo
dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi
all’anno di dollari;
·
l’UE
ritiene necessaria intraprendere una riforma
globale delle Nazioni Unite con una nuova
agenda strategica per i prossimi 15 anni. Dovrebbe inoltre essere
affrontato un funzionamento più efficiente
dei comitati UNGA e degli altri organi dell’ONU.
Il Gruppo Soufan, che
prende il nome dal suo fondatore e CEO Ali Soufan, fornisce servizi strategici,
di intelligence e di sicurezza ai
governi e alle organizzazioni multinazionali. I suoi programmi di formazione,
servizi di sicurezza e analisi approfondite forniscono ai clienti del gruppo le
conoscenze e le competenze per preparare, gestire e rispondere ad esigenze di
sicurezza in continua evoluzione.
Il team
TSG si compone di un selezionato insieme di ex membri dell’intelligence e delle
forze dell’ordine, di analisti politici e professionisti della sicurezza, con
alle spalle una comprovata esperienza operativa, e fornisce ai propri clienti
servizi di consulenza, formazione e supporto gestionale
I membri del team TSG hanno condotto alcune delle più significative indagini nazionali
ed internazionali nella storia recente, sperimentando anche metodi nuovi e
innovativi per affrontare alcune delle più impegnative questioni
internazionali. il gruppo si vanta pertanto di offrire ai propri clienti una
combinazione unica di conoscenze tecniche e di esperienza sul campo, affiancate
dal rigore accademico di analisti politici, mettendoli in condizione di
rispondere con successo a una serie di sfide di sicurezza in continua
evoluzione.
TSG ha sede a New York, con uffici regionali
a Londra, Doha, e Singapore, nelle due Americhe, in Europa, Medio Oriente, Asia
e Africa.
Ali Soufan, classe 1971, è un
libanese-americano ex agente speciale dell’FBI (si è dimesso nel 2005) che si è
occupato di una serie di casi di antiterrorismo di alto profilo, sia negli
Stati Uniti che nel resto del mondo. Chief Executive Officer del Gruppo Soufan,
Mr. Soufan ha indagato e supervisionato casi di terrorismo internazionale
altamente sensibili e complessi, tra cui i bombardamenti alle Ambasciate USA in
Africa orientale nel 1998, l’attacco alla USS
Cole nel 2000, e gli attentati dell’11 Settembre 2001. Mr. Soufan è anche
membro del Consiglio consultivo per la Homeland
Security. È autore
di "The Black Banner: The Inside Story of 9/11 and the war against al
Qaeda." È considerato uno dei maggiori esperti di
sicurezza e antiterrorismo nazionale, e continua a svolgere un ruolo consultivo
significativo per questioni sensibili.
Mr. Soufan vanta una brillante carriera nell’FBI,
tra cui il servizio presso la task force congiunta antiterrorismo (Terrorist Joint Task Force), presso gli
uffici FBI di New York, dove ha coordinato le operazioni di antiterrorismo sia
nazionali che internazionali. Spesso ha operato in ambienti ostili e realizzato
missioni extra-territoriali sensibili e negoziati ad alto livello, e ha
ricevuto numerosi premi e onorificenze per il suo lavoro di lotta al
terrorismo. Secondo un articolo apparso sul New
Yorker nel 2006, Soufan è la persona che più di ogni altra è andata vicina
a prevenire gli attacchi dell’11 settembre, e ci sarebbe riuscito se la CIA
avesse condiviso con lui una parte rilevante di informazioni di intelligence.
Mr. Soufan ha testimoniato davanti al
Congresso degli Stati Uniti (dove si è espresso contro il ricorso alle
cosiddette "enhanced interrogation
techniques" adottate dalla CIA a Guantanamo, tecniche che prevedono
anche forme di tortura come il cd waterboarding),
ed ha preso parte a fora di sicurezza internazionali, sia negli Stati Uniti che
all’estero. Ha collaborato a un gran numero di programmi televisivi su BBC,
CNN, MSNBC e Fox e con importanti testate giornalistiche (fra cui The New
Yorker, Newsweek, The Washington Post, The New York Times, The Wall Street
Journal, The Straits Times, Spiegel, Asharq Alawsat). Il suo lavoro è stato
descritto in numerosi libri di saggistica, tra cui "The Looming
Tower" di Lawrence Wright.
Si è laureato magna cum laude alla Villanova University ,dove ha conseguito un
Master of Arts in Relazioni Internazionali.
Il
13 settembre 2015, dopo che il 27 agosto, ancora una volta
senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di
chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato
dell’ONU Bernardino Leon annunciava il
superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di
disaccordo. Tuttavia, nonostante
la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio
di Leon non seguiva per lungo tempo
l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello
della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale
l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti
candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una
volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie
candidature.
Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei
dintorni del Medical Center di
Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa, provocava accuse
alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli,
Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca
la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di
ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese.
Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.
La
posizione del Governo italiano di fronte alle ipotesi d’intervento internazionale
in Libia
L’Italia
non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei
confronti della situazione libica: intervenendo infatti a
New York per l’apertura della sessione
annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva
come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad
assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la
stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.
Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi,
anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del
Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni
dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase
finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a
detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore
solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il
Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al
Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon.
Per quanto poi riguarda il coinvolgimento
dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non
trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su
richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che
potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni
luoghi chiave del paese.
Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti
di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di
pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla
stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della
delegazione dei filoislamisti che dominavano Tripoli definiva l’incontro un
disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da
perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi
successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.
Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni
libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre
ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente
anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS
che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre,
oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato
anche il Segretario di Stato USA John
Kerry, il Ministro degli Esteri
italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri
dell’Unione europea -, e agli omologhi di Marocco,
Algeria, Egitto, Turchia, Qatar ed altri.
Il
19 ottobre il parlamento di Tobruk, con una decisione che in
un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato
dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava
recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci
giorni prima. Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere
la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce
del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad
alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le
Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio
Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito
Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio
nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un
atteggiamento di responsabilità nei confronti del dialogo proposto dall’ONU.
Nel prolungarsi dello stallo negoziale
libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi
(conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva
vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione
accuratamente pianificata dal Pentagono.
Il ruolo oggettivamente preminente
dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto
anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando
il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per
il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di
approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma
impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla firma diretta
dell’intesa.
Tale impostazione era il frutto anche del
nuovo approccio del mediatore delle
Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella
firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi
tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il
potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia
riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando
negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le
questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.
L’accordo
di Skhirat
La Conferenza di Roma si dimostrava un passo
decisivo, e finalmente il 17 dicembre a
Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla
di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del
Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un
governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di
presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un
Consiglio di Stato. Al Consiglio di
presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di
formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a
Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di
Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi
rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità
libiche.
Il
giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava
all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale
si invita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno
precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni
per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede
agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di
assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo
politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti
dall’ISIS o da al-Qaida.
I
tentativi per la creazione di un esecutivo di unità nazionale
In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista
del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari.
Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi,
dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione
anti-ISIS, ribadiva la disponibilità
dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia,
purché richieste in tal senso venissero dalle autorità di quel paese e purché
il processo di stabilizzazione fosse messo in atto congiuntamente dall’Italia e
dai suoi alleati.
Tuttavia
cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto
la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che
dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di
ministri. Un’altra mozione, inoltre,
votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk, bloccava anche il via libera all’accordo
politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione
dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le
nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di
fatto interamente l’influente generale Khalifa Haftar.
In tal modo la grande maggioranza dei membri
del parlamento di Tobruk sembrava ribadire la propria vicinanza alle posizioni
di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento
dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo
nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero
territorio libico.
In questo scenario indubbiamente, dilatandosi
i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, erano rilanciate le voci, già numerose
nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali
paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrava
orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato.
Irritazione negli ambienti francesi della difesa destava quanto diffuso il 24
febbraio dal quotidiano “Le Monde” sulla presenza di forze francesi in
Cirenaica, impegnate da diverse settimane a combattere in maniera clandestina
il “Califfato”.
Per ciò che concerne il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, va rilevato
anzitutto come nell’incontro a
Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio
Mattarella l’Italia avesse avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca
che gli Stati Uniti si trovavano in
consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di
carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e
all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque
nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Intanto
il 14 febbraio, ancora una volta a Skhirat in Marocco, era stata stilata la lista di una nuova
compagine di governo, assai più leggera della precedente, con 13 ministri e
cinque ministri di Stato: tra essi tre donne. Mentre nei dicasteri della difesa
e dell’interno erano confermati rispettivamente al-Burghuthi e al-Khouja, agli
esteri era nominato un ex ministro della cooperazione in carica negli ultimi
anni del regime di Gheddafi, Mohammed Sayala. In particolare, il premier
incaricato Serraj ha fatto leva sulla conferma di al-Burghuthi alla difesa
come possibile punto di mediazione, in quanto pur essendo stato questi agli
ordini di Haftar, sarebbe risultato
gradito a varie milizie filo islamiche della fazione di Tripoli, così come il
ministro dell’interno in pectore
al-Khouja, già attivo nella stessa carica proprio a Tripoli.
La
nuova lista di ministri trovava però nuovamente nel Consiglio di presidenza
l’opposizione di due esponenti favorevoli al generale Haftar, al-Qatrani
e al-Aswad, che non la sottoscrivevano. Proprio al-Qatrani lasciava intendere
la pregiudiziale opposizione di una parte significativa del parlamento di
Tobruk al ministro della difesa designato, e accusava il Consiglio di
presidenza di essere controllato dai Fratelli Musulmani.
Il
19 febbraio si era poi verificato un raid
aereo statunitense contro postazioni dell’ISIS nella cittadina di Sabrata, a una
settantina di km. da Tripoli: l’attacco aereo ha avuto come obiettivo un campo
di addestramento di appartenenti allo “Stato islamico”, e avrebbe provocato una
quarantina di vittime, senza peraltro poter escludere la morte di diversi
civili - accertata purtroppo invece la morte di due cittadini serbi, dipendenti
dell’ambasciata di Belgrado in Libia e rapiti nel novembre 2015.
Nel raid
probabilmente perdeva la vita Noureddine
Chouchane, ritenuto l’ideatore degli attacchi ai turisti in Tunisia al
Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Sabrata risultava da alcuni mesi il
bastione più occidentale del “Califfato” in Libia: i jihadisti si erano
dapprima accordati con le tribù locali per occupare parti della città, poi,
grazie anche ai traffici di migranti, sarebbero stati in grado di creare campi
di addestramento. Per tutta risposta, comunque, circa 150 miliziani dell’ISIS
occupavano nei giorni seguenti il quartier generale della sicurezza di Sabrata:
i miliziani venivano successivamente respinti, ma non prima di aver decapitato
una decina di agenti di sicurezza libici.
Intervenendo alla Camera dei deputati dei
deputati nell’ambito del question time
il 24 febbraio la Ministra della Difesa
Roberta Pinotti chiariva innanzitutto come per l’attacco americano su
Sabrata l’Italia non avesse concesso né basi né il sorvolo del territorio
nazionale. La Ministra ribadiva poi la costante linea dell’Italia di
opposizione all’ISIS, ma tramite il coinvolgimento diretto e attivo della
popolazione e dei governi locali, cui fornire il necessario supporto, che
poteva valere anche nei confronti della Libia quando questa si fosse dotata di
un governo stabile e riconosciuto. La Ministra, infine, ricordava come la base
di Sigonella, pur non interessata dall’azione di pochi giorni prima, sia stata
utilizzata previo accordo con l’Italia dagli Stati Uniti fin dagli Anni
Cinquanta: da allora l’utilizzo della base è stato oggetto caso per caso di
discussione e autorizzazione da parte italiana, in coerenza con le nostre
strategie di politica estera e di difesa elaborate dal Governo in costante
raccordo con il Parlamento.
Sul fronte del cammino politico-istituzionale
della Libia, il 24 febbraio 101
parlamentari di Tobruk firmavano una petizione a sostegno del nuovo esecutivo
proposto da Serraj, un fatto che, pur non significando ancora il via libera
di Tobruk, costituiva uno snodo potenzialmente importante nella questione.
Infatti il 1° marzo il Ministro degli esteri
italiano Paolo Gentiloni, a colloquio a New York con l’incaricato speciale
delle Nazioni Unite per la Libia Martin Kobler - che il giorno dopo avrebbe
riferito al Consiglio di sicurezza dell’ONU - avanzava la proposta italiana di far leva sul pronunciamento dei 101 parlamentari
di Tobruk per considerare espressa e formalizzata la volontà della maggioranza
di quel consesso parlamentare - ove peraltro, come emerso da una lettera del
vicepresidente Hamuhu a Martin Kobler, un libero dibattito sarebbe stato più
volte impedito anche con la violenza.
L’urgenza di sbloccare la situazione
istituzionale libica emergeva sempre più pressante anche in rapporto allo stato avanzato dei preparativi per quello
che potrebbe essere un secondo intervento internazionale nel paese
nordafricano, per il quale intanto
veniva istituito a Roma il centro di coordinamento della coalizione. Le
difficoltà della situazione libica si confermavano tuttavia il 4 marzo, quando
colpi di granate anticarro raggiungevano a Tripoli la sede del Partito della
patria, il giorno dopo che più di 50 deputati del Congresso nazionale generale
di Tripoli a quel partito riferentisi avevano dichiarato il proprio appoggio al
nascente governo unitario.
Per di più alcuni deputati di Tobruk avevano
frattanto negato di aver apposto la propria firma alla petizione del 24
febbraio, ponendo in ulteriore difficoltà i piani di Martin Kobler e anche la
proposta avanzata dal nostro Paese - diversi media libici avevano tra l’altro protestato contro l’escamotage fatto proprio da Kobler,
qualificato alla stregua di un tentativo di aggiramento della maggioranza
qualificata richiesta per l’approvazione del parlamento di Tobruk della nuova
lista dei ministri. Per uscire dall’impasse
emergeva da parte dell’inviato speciale delle Nazioni Unite la prospettazione
di una possibile ripresa del dialogo politico libico, per affidare nuovamente a
un formato extraparlamentare la riconciliazione nazionale e il via libera a un
nuovo esecutivo, superando i blocchi e i veti incrociati delle varie minoranze
del paese. Su questo obiettivo di Kobler un portavoce del Dipartimento di Stato
USA esprimeva convinto sostegno.
Le
rivelazioni del Wall Street Journal
sull’impiego della base aerea di Sigonella per operazioni di bombardamento con
droni
Una
polemica interna allo schieramento politico italiano si apriva dopo le
rivelazioni del 22 febbraio del Wall
Street Journal, secondo le quali dal mese di gennaio
sarebbero decollati dalla base NATO italiana di Sigonella droni armati
statunitensi per operazioni di bombardamento contro l’ISIS in Libia e in altre
località del Nordafrica. Il Ministero
della difesa italiano ha confermato l’accordo tra Washington e Roma per
l’utilizzo della base di Sigonella, negando tuttavia che fossero già in corso
voli finalizzati a tali missioni, e precisando che ogni singola missione
avrebbe dovuto essere sottoposta all’autorizzazione del Governo italiano.
Inoltre l’accordo non avrebbe riguardato tanto la Libia, e quindi
un’accelerazione della possibilità di intervento militare nel paese
nordafricano, quanto profili più generali di protezione e sicurezza del
personale impegnato nella lotta contro l’ISIS in tutti gli scenari in cui il
“Califfato” è presente.
Le
opposizioni parlamentari hanno lamentato di non essere state
adeguatamente informate dal Governo su tali sviluppi, a loro dire
particolarmente preoccupanti alla luce del più volte manifestato allarme degli
Stati Uniti per la crescente presenza dell’ISIS in Libia, con la richiesta di
una maggior cooperazione agli alleati europei.
Tutte
queste questioni venivano affrontate il 25 febbraio dal Consiglio supremo di
difesa presieduto dal Capo dello Stato Sergio
Mattarella, dal quale emergeva la disponibilità
italiana a intervenire, ma solo su richiesta di un’autorità libica ricostituita
unitariamente, per una missione di supporto che avrebbe visto impegnato un
numero limitato di militari, con compiti di addestramento delle forze locali e
sorveglianza di siti particolarmente sensibili, come ambasciate e palazzi
istituzionali.
Parallelamente
al crescere della pressione statunitense sulle autorità italiane - con
il Segretario alla difesa USA Ashton Carter che in una conferenza stampa del 29
febbraio al Pentagono esplicitamente
ribadiva spettare all’Italia il ruolo guida per un intervento in Libia
-; emergeva come anche l’Italia avesse
già dispiegato una quarantina di agenti operativi del servizio segreto esterno
(AISE), e si trovasse nell’imminenza di inviare una cinquantina di
appartenenti al reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin.
Questa forma di intervento è stata possibile
in ragione di un decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio, oggetto di secretazione, che
avrebbe avocato al Dipartimento per la sicurezza - cui fa capo il coordinamento
dei due servizi italiani di intelligence -
e quindi alla Presidenza del Consiglio, la responsabilità in ordine ad
operazioni per gravi crisi all’estero. In base al citato DPCM, agli agenti
dell’AISE è possibile affiancare militari di alcuni corpi speciali, in via
diretta e al di fuori della normale catena di comando - che naturalmente
farebbe invece capo al Ministero della difesa. Nell’espletare queste funzioni
gli appartenenti ai corpi speciali della difesa godrebbero dell’estensione
delle normali garanzie funzionali a favore degli agenti dell’AISE, estensione
già disposta nel decreto-legge di rinnovo della partecipazione dell’Italia alle
missioni internazionali della fine del 2015 (D.L. 174/2015, art. 7-bis, nel quale pure si riscontra la base
legislativa del DPCM del 10 febbraio).
Va comunque segnalato che lo stesso Presidente del Consiglio Renzi,
anche nel clima di costernazione destato dall’uccisione dei due tecnici
italiani (v. infra) in Libia e prima
del rientro dei due colleghi superstiti, esprimeva
forte irritazione per ogni accelerazione mediatica in ordine a un possibile
intervento del nostro Paese nello scenario libico, definita quale atto di
irresponsabilità. Matteo Renzi ribadiva che la priorità dell’Italia era
diplomatica, e mirava anzitutto alla formazione di un governo libico
unitario, ed effettivamente gran parte dell’arco politico-parlamentare sembrava
convergere sulla cautela del Presidente Renzi, sulla quale sono apparse altresì
quasi perfettamente sintoniche fonti dell’Eliseo, in vista dell’incontro dell’8
marzo tra Matteo Renzi e il Presidente francese Hollande. Lo stesso ambasciatore americano a Roma John Phillips è sembrato assai
più cauto quando è tornato sull’argomento dell’impegno italiano in Libia,
sottolineando di aver fatto riferimento, nell’intervista di tre giorni prima al
Corriere della Sera, al contingente italiano di 5.000 uomini per la Libia in
base a precedenti indicazioni della stessa Italia, e non come forma di
suggerimento da parte degli USA, consapevoli che si trattava di decisioni
ancora da adottare.
L’incontro
italo-francese di Venezia dell’8 marzo registrava la convergenza
tra i due Governi sulla priorità della formazione dell’esecutivo unitario in
Libia, pur sottolineando l’urgenza di addivenire a una soluzione dell’intricato
problema istituzionale - come sostenuto in particolare dal presidente francese
Hollande, alludendo alla presenza ormai ben radicata del terrorismo dell’ISIS
in Libia. In riferimento alle notizie riportate nella stessa giornata dal New York Times in merito a piani
statunitensi già messi a punto per un’ondata di raid aerei contro alcune decine
di obiettivi dell’ISIS in diverse zone della Libia, che avrebbe dovuto
precedere l’intervento di terra delle milizie libiche filoccidentali, il
Presidente del Consiglio Renzi evidenziava l’importanza di una visione di lungo
periodo dei problemi del paese nordafricano, disinnescando pertanto
nell’immediato le tensioni in ordine all’intervento militare a breve termine. Un’incognita fondamentale anche nei rapporti tra i paesi occidentali rimaneva però quella della tempistica
dell’intervento militare contro l’ISIS, che da parte degli Stati Uniti e,
par di comprendere, della Francia, si correlava alla necessità di impedire un
eccessivo rafforzamento delle milizie del “Califfato”, che rischiava di rendere
insufficiente l’intervento militare su scala limitata al momento nei piani
generali.
Le
posizioni dell’Italia erano ribadite in Parlamento nella giornata del 9 marzo,
anzitutto con l’intervento del Ministro
degli esteri Gentiloni alla Camera e al Senato: il Ministro richiamava la
linea di prudenza sull’intervento militare in Libia, un teatro, ricordava, nel
quale oltre ad almeno cinquemila combattenti dell’ISIS vi sarebbero circa
duecentomila uomini armati, inquadrati in varie milizie o gruppi tribali. Il
Governo italiano, proseguiva il Ministro Gentiloni, tentava di favorire la
formazione di un governo libico unitario, consentendo alla maggioranza del
parlamento di Tobruk favorevole al premier designato Fayez Serraj di esprimersi
anche al di fuori del consesso parlamentare, per superare le minacce da parte
delle frange più estremiste. Dal canto suo la Ministra della difesa Roberta
Pinotti, intervenendo nella stessa giornata in seno al Comitato parlamentare
per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) reiterava analoghe dichiarazioni,
precisando che solo su richiesta libica avrebbe potuto dispiegarsi una missione
di tipo militare, e in ogni caso dopo il via libera del Parlamento italiano –
la Ministra Pinotti precisava poi non esservi al momento forze speciali
militari italiane in Libia.
Il
10 marzo si svolgeva peraltro a Tunisi la preannunciata riunione del dialogo
politico libico - la via alternativa scelta dalle forze
interessate alla formazione di un governo unitario in Libia per aggirare il
veto rappresentato dal parlamento di Tobruk nei confronti del nuovo esecutivo
-, subito inceppata da complicate procedure di insediamento del Comitato di
dialogo. Per di più, il presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh l’8
marzo aveva dichiarato che una fiducia accordata al nuovo esecutivo al di fuori
del parlamento non avrebbe avuto alcun valore.
L’assassinio
di due ostaggi italiani e la liberazione degli altri due connazionali rapiti
Il
2 marzo purtroppo si era intanto avuta notizia dell’uccisione di Salvatore
Failla e Fausto Piano - due dei quattro ostaggi italiani, tecnici
dell’azienda Bonatti, rapiti in Libia nel luglio 2015 - che perdevano la vita
nel corso di un attacco a Sabrata delle milizie fedeli a Tripoli nei confronti
di gruppi ritenuti vicini all’ISIS. Nel caos di Sabrata è stato particolarmente
difficile nelle prime ore ricostruire gli eventi, anche per la delicatezza
della situazione, che sembrava far immaginare la volontà delle autorità
cittadine di trattenere i due ostaggi superstiti – Gino Pollicardo e Filippo Calcagno -, alla ricerca di una qualche
forma di riconoscimento politico di Tripoli, cui le autorità di Sabrata
risultavano collegate. Fortunatamente all’alba
del 6 marzo poteva atterrare all’aeroporto di Ciampino l’aereo che riportava a
casa i due tecnici superstiti, che già in tarda mattinata erano ascoltati
dai magistrati in una caserma del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri.
Nelle sei ore di colloquio sarebbe emerso
come, unitamente ai due colleghi deceduti, Pollicardo e Calcagno avessero
patito durante gli otto mesi di prigionia violenze fisiche e psicologiche da
parte della banda criminale che li aveva in ostaggio. Quanto alla loro
liberazione, sarebbe avvenuta il 4 marzo, dopo la scomparsa dei loro
carcerieri, i quali due giorni prima avevano prelevato Failla e Piano, che non
avrebbero più rivisto i propri colleghi di lavoro e di prigionia.
Sulla vicenda tra l’altro il Presidente del Consiglio Matteo Renzi
asseriva il 6 marzo la necessità di comprendere come mai i quattro tecnici
italiani fossero entrati in Libia quando già era stato posto un esplicito
divieto da parte delle autorità del nostro Paese: al Presidente del Consiglio
replicava il numero uno della società Bonatti, Paolo Ghirelli, dicendo che la
sua azienda aveva rispettato tutti gli obblighi di legge e i quattro tecnici si
trovavano in Libia per uno scopo di lavoro ben preciso.
Solo nella notte tra il 9 e il 10 marzo le
salme di Salvatore Failla e Fausto Piano potevano far rientro in Italia,
accolte all’aeroporto di Ciampino dai familiari e dal Ministro degli esteri
Gentiloni - particolarmente amareggiata la reazione della moglie di Salvatore
Failla, che ha detto di non volere funerali di Stato per il marito, per il
quale la strategia consigliata dalle autorità italiane si sarebbe rivelata fatale.
La vedova Failla ha poi rivelato la presenza tra i sequestratori di un soggetto
in grado di parlare seppur stentatamente in italiano, in occasione della
telefonata con cui i sequestratori le avevano fatto ascoltare un messaggio
registrato in cui il marito chiedeva aiuto e le diceva di rivolgersi ai mezzi
di comunicazione italiani. L’avvocato della famiglia Failla, dal canto suo, ha
stigmatizzato l’autopsia effettuata in Libia, qualificandola alla stregua di
una macelleria: in particolare, il prelievo di parte dei tessuti corporei ha
reso impossibile l’identificazione della dinamica esatta dell’uccisione dei due
tecnici italiani. Tuttavia, l’autopsia subito effettuata al Policlinico Gemelli
di Roma dopo l’arrivo delle salme in Italia evidenziava come i colpi mortali
per Failla e Piano siano stati in parti del corpo non compatibili con la
versione di una esecuzione da parte dei rapitori prima del blitz delle milizie
libiche, a differenza di quanto ancora il 10 marzo dichiarato dal sindaco di
Sabrata. Altra questione su cui si registrava dissenso tra le autorità italiane
e i libici era quella dell’appartenenza all’ISIS dei carcerieri di Failla e
Piano, data per scontata delle autorità libiche ed esclusa invece nettamente
dall’intelligence italiana.
Alla metà di agosto dichiarazioni del capo
dei servizi segreti di Tripoli al Corriere della Sera hanno riacceso le
polemiche: secondo l’alto funzionario libico, infatti, vi sarebbe stata
certezza del pagamento da parte dell’Italia di un riscatto di 13 milioni di
euro, con grave disappunto delle autorità di Tripoli, visto che quel denaro
sarebbe andato probabilmente a finanziare in parte bande criminali e in parte
esponenti dello stesso ISIS. Anche il legale della moglie di Salvatore Failla
chiedeva di fare chiarezza su tali indiscrezioni, che metterebbero il ruolo del
governo italiano nel sequestro in una luce completamente diversa e più grave.
Il
consolidamento del nuovo esecutivo
Per sbloccare il processo politico, il
documento del 23 febbraio 2016 con le 101 firme dei parlamentari di
Tobruk (su un totale di 188 membri) che esprimevano sostegno al governo di
unità nazionale di Al-Serraj, in assenza di un voto formale dello stesso
parlamento, era considerato dall'Occidente come atto di validazione della nuova
compagine governativa.
In data 10 marzo il Dialogo politico
libico, che riuniva i negoziatori dell'accordo di Skhirat, svolgendo la
funzione di assemblea di saggi, rivolgeva un'istanza al Consiglio
presidenziale libico affinché prendesse "le misure necessarie per
cominciare rapidamente il suo lavoro a Tripoli"; tale istanza
riconosceva valore al documento dei cento rappresentanti del parlamento di
Tobruk, pur chiedendo a quest'ultimo di completare le tappe richieste per
l'insediamento del governo. La formula, volutamente lasca, non precisava se il
documento sostituisse il voto parlamentare. Tuttavia tale ambiguità rischiava
di rendere fragile la base giuridica della proclamazione di legittimità del
Consiglio presidenziale.
Il 12 marzo 2016, infatti,
il Consiglio presidenziale del governo di unità nazionale, riunitosi a Tunisi,
si autoproclamava legittimo, rivolgendo
un appello a tutte le istituzioni libiche a prendere contatto con il
nuovo governo al fine di mettere in atto le modalità di passaggio del potere. Tuttavia
alcuni membri del Dialogo libico contestavano l'interpretazione data della
dichiarazione del 10 marzo da parte del Consiglio presidenziale.
Al di là di questioni di fragilità giuridica,
il nuovo governo mancava di ancoraggio territoriale, in quanto era costretto a
riunirsi tra la Tunisia ed il Marocco, mentre sul terreno la Libia restava di
fatto sotto il controllo di due governi rivali, quello di Baida-Tobruk e quello
di Tripoli. In particolare, la situazione nella capitale era estremamente ostile.
Khalifa al-Ghwell, primo ministro del governo di Tripoli - emanazione del
General National Congress (GNC) - era appoggiato da una alleanza di milizie di
Tripoli e Misurata, islamico-moderate, ma anche più radicali. Al-Ghwell
minacciava di far arrestare Fayez Al Serraj, premier dell’unico esecutivo
riconosciuto dalla Comunità internazionale, quello di unità nazionale, se fosse
arrivato nella capitale libica. Al-Ghwell affermava di non aver intenzione di
cedere i suoi poteri al governo Al-Serraj nato sotto l’egida dell’ONU, in
quanto questo non aveva l’appoggio del parlamento di Tripoli (General National
Congress - GNC), nato dalle prime elezioni libere della Libia nel 2012, ma
sconfessato a livello internazionale. Il 18 marzo Al-Serraj, parlando dall'emittente
Al-Libya, ribadiva che "l'esecutivo sarà presto a Tripoli";
ciò doveva avvenire entro fine marzo - insisteva l'Inviato delle Nazioni Unite
Martin Kobler - altrimenti la credibilità del nuovo esecutivo sarebbe svanita e
si sarebbe dovuto riconvocare il Dialogo politico libico. Frattanto a Bengasi
scendevano in piazza i simpatizzanti del generale Khalifa Haftar; a Tripoli, si
registravano i primi scontri tra il «Fronte Samud» e le milizie favorevoli al
governo Al-Serraj.
Il 13 marzo 2016, in una riunione a livello ministeriale al Quai
d'Orsay di Parigi, Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Stati Uniti e
Unione Europea nella Dichiarazione finale qualificavano
il governo di unità nazionale come il "solo governo legittimo in
Libia", ribadendo la necessità che l'insediamento a Tripoli e il
pacifico passaggio delle consegne, nonché la messa in funzione del quadro
istituzionale previsto dall'Accordo di Skhirat, fossero implementati appena
possibile. I partecipanti alla ministeriale di Parigi ricordavano inoltre la
possibilità di comminare sanzioni contro gli individui che ostacolavano il
processo politico, l'istituzione del governo di unità nazionale o l'attuazione
dell'Accordo di Skhirat.
Il 30 marzo 2016 Fayez
Serraj e altri sei membri del Consiglio presidenziale sbarcavano a Tripoli, presso la base navale di Abu-Seta, a
bordo di una motovedetta libica partita da Sfax, in Tunisia. Lo sbarco avveniva
pacificamente, sebbene in un clima di tensione nel quale il capo del governo di
Tripoli Gwell aveva inizialmente messo in guardia Serraj dall'entrare a
Tripoli, minacciando di farlo arrestare.
Quasi contemporaneamente, il 31 marzo,
l'Unione europea - attraverso una procedura scritta - adottava
sanzioni (congelamento dei beni e divieto di viaggio) contro tre esponenti
libici accusati di ostacolare il governo di unità nazionale: due del governo di
Tripoli - il premier Khalifa al-Ghwell e il presidente del Parlamento Nouri Abu
Sahmain - e uno del governo di Tobruk - il presidente del Parlamento Aguila
Saleh. Sempre il 31 marzo, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU adottava la Risoluzione
n. 2278 (2016), che
pone sotto il controllo del governo di unità nazionale il commercio del
petrolio e le armi non soggette ad embargo. Il 20 aprile anche gli Stati
Uniti imponevano sanzioni individuali contro Gwell.
Ai primi di aprile la Coalizione Alba Libica,
che aveva sostenuto il Governo di Tripoli, si era ormai dissolta; pertanto, sia
il Primo Ministro Gwell che il presidente del parlamento di Tripoli Nuri Abu Sahmain
lasciavano la capitale. Serraj sembrava
esser riuscito ad insediarsi, grazie al lavoro prima di intelligence
e poi diplomatico che aveva portato dalla parte di Serraj le milizie di
Misurata e le milizie islamiste tripoline di Abdel Hakim Belhadj. A questo
punto, l'amministrazione Gwell rimaneva priva di appoggio, considerato anche
che la stessa Fratellanza Musulmana libica era in buona parte favorevole
ad una transizione verso il nuovo Governo Serraj.
Il governo Serraj incassava anche l'endorsement
da parte di Ibrahim Jadran, potente capo delle Guardie Petrolifere - attive
in Cirenaica e protettrici anche degli insediamenti dell'ENI in Tripolitania -,
che dopo aver oscillato tra l'appoggio a Tobruk e a Misurata, prendeva le
distanze dal Generale Haftar riposizionandosi nel campo del nuovo governo di
Tripoli. Anche la Banca centrale della Libia e la Compagnia nazionale
petrolifera (Noc) riconoscevano l'autorità del Governo di unità nazionale.
Tuttavia,
erano presenti a Tripoli almeno 41 milizie, di cui solo una parte aveva
accettato il governo Serraj, mentre a Tobruk sembrava che il Generale Haftar si
imponesse sempre più come figura determinante militarmente e politicamente.
Dopo quindici giorni dall'ingresso di Serraj
a Tripoli, il Generale Serra, senior advisor del Rappresentante Speciale
dell’ONU Martin Kobler per le questioni di sicurezza relative al dialogo in
Libia, nell'audizione innanzi alle Commissioni Difesa congiunte di Camera e
Senato (13 aprile 2016), definiva la situazione in Libia "calma, instabile
e tesa".
Il processo di pacificazione ipotizzato
dall'ONU prevedeva, come tappe
successive, il voto di fiducia della Camera dei Rappresentanti di Tobruk al
nuovo governo di unità nazionale; l’accordo tra il nuovo governo e la Banca
centrale; l’unificazione delle compagnie petrolifere nazionali; la costruzione
del nuovo Stato, tenendo conto della Sharia’a.
Il 25 aprile 2016 il Consiglio
presidenziale di unità nazionale, in un "comunicato stampa", faceva appello
alle Nazioni Unite e alla Comunità internazionale perché aiutassero la Libia a
difendere le risorse petrolifere dai possibili attacchi di DAESH. In
particolare si temevano possibili attacchi terroristici contro alcuni siti
petroliferi offshore, per far fallire il progetto di riconciliazione
nazionale. Si invitavano poi i paesi africani ed europei vicini a rafforzare la
cooperazione con le autorità libiche e a intensificare i controlli alle
frontiere.
Tale comunicato del governo Serraj - che
doveva ancora riscuotere la fiducia del Parlamento di Tobruk – poteva preludere
ad una richiesta formale di intervento militare internazionale per contenere
l'espansione di DAESH, la quale era a sua volta già incalzata dall'offensiva
del Generale Haftar sferrata a fine febbraio 2016 (che gli aveva consentito
di riprendersi quasi tutta Bengasi dopo 2 anni, grazie anche al sostegno di truppe
scelte francesi che hanno aiutato ad individuare i bersagli, mettendo il
Generale nelle condizioni di controllare
una zona di diverse centinaia di chilometri tra la mezzaluna petrolifera ed il
confine egiziano). A Bengasi le forze del Generale avevano riconquistato quasi
l'intera città, espellendone gli uomini del Consiglio della Shura dei
Rivoluzionari di Bengasi – coalizione che raggruppava Ansar Al-Sharia e i
miliziani della Brigata Martiri del 17 Febbraio e del Libyan Shield che
fanno riferimento alla Fratellanza Musulmana. Numerose fonti affermavano che
l'avanzata di Haftar avesse beneficiato di nuovi rinforzi in armi ed
equipaggiamenti giunti dall'Egitto e del supporto di forze speciali francesi - che
avrebbero curato la pianificazione delle operazioni ed agito anche come
consiglieri sul terreno - nonché di forze speciali inglesi.
Con
la riconquista di Bengasi, la posizione negoziale di Haftar e del suo braccio
politico, il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, si irrigidiva: per
alcune settimane Serraj era convocato direttamente al Cairo per i negoziati in
cui si cercava di imporre una revisione totale degli equilibri in seno al
governo (di unità nazionale) a favore di Haftar. Fallito questo tentativo,
Saleh decideva di non far votare più il parlamento sulla fiducia a Serraj, e
questo spingeva gli Occidentali alla sequenza di forzature ben note. Lo
scenario di un'eventuale avanzata di Haftar sulla Mezzaluna di Sirte non poteva
che preoccupare lo stesso Serraj e ciò potrebbe averlo spinto ad annunciare la richiesta
di aiuto internazionale a difesa delle risorse petrolifere.
In effetti, la posizione del Generale Haftar si palesava sempre più forte,
incontrando crescente sostegno internazionale anche nella Francia,
che, se da un lato ufficialmente
sosteneva Serraj, dall'altro aveva da tempo dispiegato forze speciali che
operavano come pianificatori e consiglieri embedded con le forze di
Haftar, e aveva inoltre stretto un'alleanza di ferro con Al Sisi, fatta di
accordi commerciali e mega forniture militari.
Il Ministro degli Esteri Gentiloni, durante
il question time innanzi all'Assemblea del Senato del 28 aprile 2016,
rispondendo ad alcuni quesiti sulle iniziative di Egitto e Francia nella crisi
libica, affermava che Italia e Stati Uniti si sarebbero fatti promotori a breve
di un rilancio del "concerto diplomatico a sostegno del governo Serraj".
Per quanto concerne la linea dell'Italia, Gentiloni ribadiva il ruolo di leadership
diplomatica che si esprime nell’obiettivo dellaa stabilizzazione di un paese
unito, affinché esso si consolidi e possa gradualmente formulare richieste di
aiuto, dapprima umanitarie, poi economiche e - quando sarà il momento - di
sicurezza, cui l'Italia avrebbe risposto sulla base delle richieste libiche e
della validazione dell'ONU. Il Ministro Gentiloni sottolineava l'importanza
del fatto che le autorità libiche non apparissero manovrabili dall'esterno;
in particolare, riguardo alle sfide di sicurezza, affermava la necessità di
mettere le autorità libiche in condizione di sconfiggere DAESH e di non
scavalcare i libici: vi sarebbe stata in atto una competizione tra le
fazioni libiche per chi arriva prima a Sirte.
Queste affermazioni del nostro Ministro degli
Esteri erano suffragate all’inizio di maggio dalle notizie di scontri a sud di Sirte tra le milizie del
generale Haftar e combattenti della coalizione Fajr Libya, alleata con le
milizie di Misurata fedeli a Serraj: i combattimenti erano il risultato del
mancato accoglimento dell’invito dello stesso Serraj a tutte le forze contrarie
allo “Stato islamico” a fermare temporaneamente ogni azione militare in vista
della formazione del comando unificato capace di coordinare l’attacco contro il
“Califfato”. La persistente divisione nel fronte libico si accompagnava inoltre
a un perdurante stallo della questione
fondamentale del voto favorevole del parlamento di Tobruk all’esecutivo di
Serraj, precondizione assolutamente necessaria perché lo stesso Serraj
potesse chiedere il sostegno internazionale, finalizzato tra l’altro anche alla
lotta all’ISIS e al controllo dei movimenti migratori verso l’Europa.
Emergeva subito dopo come il generale
Haftarr, lungi dal voler attendere il ricongiungimento delle proprie forze con
quelle delle milizie di Misurata, che da ovest si avvicinavano anch’esse a
Sirte, avesse impartito l’ordine diretto
di un attacco alla città natale di Gheddafi per scacciarne l’ISIS. Queste
manovre, unitamente ai ripetuti dinieghi del presidente del arlamento di Tobruk
Aqila Saleh a far votare la fiducia all’esecutivo di Serraj, apparivano sempre
più condizionate dall’incertezza del futuro ruolo del generale Haftar nel
paese, la cui importanza evidentemente il generale tentava di accrescere
forzando la mano sul terreno da un lato, e congelando sine die l’importantissima fiducia all’esecutivo di Serraj
dall’altro.
In questa situazione le milizie dell’ISIS
davano segnali di vitalità contrattaccando verso ovest e impadronendosi ad Abu
Grein di un avamposto delle milizie di Misurata, a un centinaio di km. a est di
questa città. Nei giorni successivi le truppe del “Califfato” proseguivano
l’offensiva, tanto da costringere le autorità di Misurata a proclamare lo stato
di emergenza.
Frattanto gli Stati Uniti imponevano il 13
maggio nuove sanzioni al presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh, per i
ritardi che frapponeva alla possibilità di una transizione politica in Libia.
La diplomazia italiana, dal canto suo, si attivava nei confronti della Russia
per tentare di ottenere da Mosca, solido alleato dell’Egitto, una pressione sul
generale Haftar, con l’obiettivo di sgomberare finalmente il campo dal suo
ostruzionismo nei confronti di una piena legittimazione dell’esecutivo di
Serraj.
I
più recenti sviluppi: l’intervento USA contro le postazioni dell’ISIS a Sirte e
lo scontro fra Tobruk e Tripoli per il controllo dei porti petroliferi.
Il
16 maggio si svolgeva a Vienna, fortemente voluta soprattutto da Italia
e Stati Uniti, una conferenza con la partecipazione di 20 paesi, i quali firmavano
una dichiarazione di pieno
riconoscimento del governo di unità nazionale di Serrai, aprendo la strada
all’alleggerimento dell’embargo sulle armi nei confronti degli attori positivi
della ricostruzione dello Stato libico, nonché all’addestramento ed
equipaggiamento delle nuove forze armate del paese, anche nel quadro di una
strategia per il contrasto ai traffici di esseri umani - tra i firmatari vi
erano infatti paesi di transito dei migranti, quali la stessa Libia, l’Egitto,
il Ciad, il Sudan, la Tunisia, l’Algeria e il Niger. Il Ministro degli Esteri Gentiloni
sottolineava il grande valore politico della conferenza di Vienna, con il
risultato del riconoscimento da parte della Comunità internazionale del governo
presieduto da Serraj. Lo stesso Gentiloni precisava come non fosse alle viste
alcun intervento militare straniero in Libia, quanto piuttosto la
disponibilità, anzitutto italiana, ad addestrare ed equipaggiare le forze
militari libiche, inclusa la guardia costiera – nei confronti di quest’ultima
erano ormai in fase avanzata i preparativi della missione europea EUNAVFOR-MED.
Dopo l’invio all’Alto rappresentante europeo
per la politica estera e di sicurezza Federica Mogherini di una lettera del
premier libico Serraj per richiedere l’assistenza europea nell’addestramento
della marina, della guardia costiera e dei servizi di sicurezza della Libia; il
23 maggio i Ministri degli esteri europei estendevano di un anno – la formale
decisione è stata però perfezionata il 20 giugno - il mandato dell’operazione
EUNAVFOR-MED, aggiungendo all’iniziale missione di contrasto ai traffici
illegali di esseri umani l’addestramento della marina e della guardia costiera
libica, nonché un contributo alla messa in atto dell’embargo delle Nazioni
Unite sugli armamenti diretti in Libia - per quest’ultimo compito, tuttavia, Federica
Mogherini specificava la necessità di una successiva risoluzione del Consiglio
di sicurezza dell’ONU, effettivamente adottata il 15 giugno. EUNAVFOR-MED,
inoltre, pur restando operativamente al di fuori delle acque territoriali
libiche, ha potuto estendere il proprio raggio d’azione a est, fino a coprire
quasi l’intera costa della Libia. Il 23 agosto, presso il quartier generale
della forza EUNAVFOR-MED a Roma è stato firmato l’accordo tra il comandante
della forza, Ammiraglio Credendino, e il comandante della guardia costiera
libica, in applicazione delle decisioni europee del 20 giugno.
Alla fine di maggio si profilava un’altra
ipotesi di scontro tra il governo di accordo nazionale (Gna) progressivamente
emergente dal Consiglio presidenziale guidato da Serraj e le autorità di
Tobruk, stavolta in ordine alla stampa di 4 miliardi di dinari in banconote
commissionata proprio da Tobruk alla Russia: queste banconote, con la firma del
governatore insediato a Beida -e quindi nell’ambito dell’autorità di Tobruk -
potevano rappresentare una ulteriore emancipazione da Tripoli, esautorando di
fatto la Banca centrale libica, saldamente collegata al governo di accordo
nazionale di Serraj. La crisi è stata superata con l’accettazione da parte di
Tripoli delle nuove banconote, considerando probabilmente l’utilità della nuova
massiccia immissione di contante in un paese che lamenta scarsa liquidità.
Cionondimeno, è rimasto il vulnus,
seppur solo iniziale, al monopolio della moneta da parte delle autorità libiche
internazionalmente riconosciute.
Negli stessi giorni di fine maggio si
palesava un completo rovesciamento della
situazione militare: infatti, dopo che all’inizio di maggio le milizie del
“Califfato” si erano spinte in direzione di Misurata, destando grande allarme
nella città, alla fine del mese una controffensiva delle milizie alleate al
governo di unità nazionale di Serraj conduceva all’annuncio di aver
completamente capovolto la situazione, giungendo a soli 12 km. da Sirte - e ciò
mentre l’annunciato attacco finale alla roccaforte dell’ISIS da parte delle
truppe del generale Haftar sembrava invece ristagnare, addirittura trovandosi
ancora a fronteggiare alcune sacche jihadiste
nella città di Bengasi. Tuttavia, nonostante lo sfondamento del 9 giugno delle
difese dell’ISIS da parte di truppe corazzate del governo di unità nazionale -
che facevano ingresso anche a Harawa, 70 km. più a est nel territorio sotto
controllo del “Califfato” -, dopo l’accerchiamento a tenaglia di Sirte da parte
di forze terrestri coadiuvate da bombardamenti aerei e dallo spiegamento di
mezzi navali; la strenua resistenza dei miliziani dello “Stato islamico” faceva
sì che nel centro della città ancora alla fine di luglio proseguissero i
combattimenti, senza che le truppe del governo nazionale riuscissero ad aver
ragione della resistenza dei miliziani islamisti.
Sul piano diplomatico, va segnalato
l’incontro del 27 maggio tra il Ministro degli Esteri Gentiloni e il
vicepremier libico Ahmed Mitig, durante il quale il capo della Farnesina assicurava
piena collaborazione con il governo Serraj per il controllo delle frontiere.
Il 17 luglio un elicottero appartenente alle
forze aeree sotto il comando del generale Haftar era abbattuto nei pressi di
Bengasi dalle milizie islamiste locali: nei giorni successivi voci ricorrenti
si spargevano sulla presenza a bordo di due cittadini francesi, membri delle
forze speciali di Parigi: dopo una serie di dinieghi, lo stesso Presidente
francese Hollande ammetteva la morte di suoi connazionali impegnati in rischiose
missioni di intelligence nella parte
orientale della Libia. L’ammissione francese - che confermava le voci
ricorrenti da mesi sulla presenza di forze speciali dei principali paesi
occidentali già operanti in Libia - provocava vive proteste da parte di Serraj,
secondo il quale le pur giuste ragioni della lotta contro il terrorismo non
giustificano interventi di potenze straniere a insaputa delle autorità libiche.
Inoltre vi sono state manifestazioni popolari di protesta contro la presenza
francese in Libia, anche in considerazione del caos succeduto all’intervento
internazionale del 2011, in cui la Francia ebbe il ruolo di punta di lancia.
L’episodio ha fatto poi affiorare ancor più chiaramente il sostegno francese al
generale Haftar, poco coerente con le dichiarazioni ufficiali di sostegno al
governo di unità nazionale libico da parte delle autorità di Parigi.
Il ristagnare dei combattimenti per strappare
Sirte alle milizie del “Califfato” provocava infine, da parte del governo di
Serraj, la richiesta di supporto militare agli Stati Uniti, che il presidente
Obama approvava dietro raccomandazione del segretario alla difesa Ashton
Carter. In tal modo il 1° agosto si
verificavano i primi raid aerei statunitensi contro obiettivi dell’ISIS a Sirte,
che avrebbero provocato pesanti perdite. Lo stesso Serraj delimitava i confini
dell’intervento aereo statunitense, richiesto nella sola area di Sirte, a tempo
limitato e senza l’impiego di truppe sul terreno.
Dal canto suo il generale al-Ghasri,
portavoce delle milizie filogovernative, accusava gli oppositori rispetto
all’intervento americano di sostenere oggettivamente l’ISIS, le cui sofisticate
armi possono essere colpite con efficacia solo da una tecnologia militare
superiore, quale quella in possesso degli USA. Dal canto suo il portavoce del
Pentagono Peter Cook affermava che gli attacchi aerei di precisione sarebbero
andati avanti fintantoché lo avesse ritenuto opportuno il governo libico
riconosciuto, onde consentire alle truppe ad esso riferentisi una decisiva avanzata
su Sirte. Non è mancato peraltro chi ha correlato il deciso intervento
statunitense contro l’ISIS in Libia alla delicata fase per il rinnovo della
presidenza USA: in particolare, attacchi come quelli su Sirte favorirebbero la
corsa di Hillary Clinton contro Donald Trump, costituendo di fatto la smentita
delle accuse repubblicane di non interventismo all’amministrazione Obama in
carica.
I repubblicani hanno peraltro giocato
un’altra carta, quella cioè di bloccare nel Congresso la votazione per l’autorizzazione
all’uso della forza, tanto che il presupposto per l’ordine presidenziale lo si
è dovuto cercare nell’autorizzazione a suo tempo rilasciata da Capitol Hill a
George W. Bush per gli attacchi contro al-Qaida. Comunque, nonostante le
proteste russe, il portavoce del
Segretario generale dell’ONU ha comunicato che l’intervento USA in Libia appare
coerente con la risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza.
L’Italia
ha valutato positivamente l’inizio dei bombardamenti americani su Sirte,
inquadrati nelle iniziative per ridare stabilità e pace al popolo libico - come
comunicato dalla Farnesina. Peraltro il 2 agosto il Ministro degli Esteri
Gentiloni ha chiarito come il nostro Paese avrebbe valutato la possibilità di
intervenire contro l’ISIS a Sirte, ovvero di mettere a disposizione degli
alleati le basi italiane - richiesta peraltro a quel momento non pervenuta. In
un colloquio telefonico diretto con Serraj, il Ministro Gentiloni ha assicurato
la continuazione del sostegno italiano per riportare la Libia ad una situazione
di stabilità, garantendo in ogni caso il sostegno umanitario e sanitario.
Il 3 agosto, intervenendo a Montecitorio per
il question time, la Ministra della Difesa Roberta Pinotti ha
chiarito come il Governo italiano fosse pronto a considerare di concedere
l’utilizzo delle basi e degli spazi aerei nazionali a supporto dell’operazione
statunitense, qualora ciò dovesse rivelarsi utile a una più rapida
conclusione dell’azione in corso contro l’ISIS. Infatti, sempre secondo la
Ministra Pinotti, per l’Italia l’eliminazione delle centrali terroristiche
dell’ISIS in Libia è di fondamentale importanza, e va realizzata con il
coinvolgimento diretto e attivo delle popolazioni e dei governi locali,
fornendo, su loro richiesta, il necessario supporto anche militare. Il
carattere circoscritto nel tempo e nel territorio dell’azione americana,
finalizzata a sconfiggere le forze terroristiche nella zona di Sirte, e la sua
piena coerenza con la risoluzione 2259 del Consiglio di sicurezza dell’ONU,
hanno favorito la positiva valutazione dell’Italia in ordine all’operazione e
la disponibilità alla nostra partecipazione nelle forme che si riterranno più
opportune. Va ricordato che anche le milizie libiche impegnate sul terreno
nella lotta contro lo “Stato islamico” hanno chiesto all’Italia di concedere le
proprie basi per i raid americani.
Intanto si è ulteriormente complicato il
quadro politico della situazione libica, quando il 4 agosto il portavoce del generale Haftar ha definito illegittimi i
bombardamenti americani su Sirte, il cui vero scopo sarebbe da rinvenire in
questioni di prestigio per lo schieramento politico guidato da Serraj e nella
necessità dei democratici americani al potere di favorire la campagna
elettorale di Hillary Clinton. Ha rincarato la dose il presidente della
Commissione difesa della Camera dei rappresentanti di Tobruk, per il quale il
Parlamento libico si incaricherà di vegliare di fronte alle violazioni della
sovranità nazionale - compreso lo spazio aereo - senza un preventivo coordinamento
con Tobruk. Qualche giorno dopo, il 9 agosto, le autorità di Tobruk hanno
chiesto la sostituzione dell’inviato dell’ONU Martin Kobler, a loro dire poco
efficiente e non neutrale.
In questo difficile scenario, intanto, il
direttore del Dipartimento sanitario di Sirte ha lanciato l’allarme sulla
cronica carenza di medicinali, che si riscontrerebbe nella città libica ormai
da più di un anno; mentre il Consiglio dei ministri dell’Unione europea ha
esteso il 4 agosto il mandato della missione civile EUBAM in Libia fino al 21
dello stesso mese, approvando il finanziamento dei costi per il periodo
aggiuntivo.
Il 10 agosto ulteriori progressi sono stati
realizzati a Sirte, con la caduta del quartier generale dei miliziani
dell’ISIS, il Centro Ouagadougou - senza peraltro che fosse ancora possibile
cacciare le truppe del “Califfato” da altre tre aree residenziali, una delle
quali vicino al mare, possibile via di fuga per i jihadisti. Erano intanto
giunte diverse conferme, anche di fonte istituzionale, della presenza di forze
speciali americane, britanniche e anche italiane a sostegno delle milizie
libiche fedeli al governo di Serraj: per quanto concerne le forze speciali
italiane veniva precisato che queste avevano compiti non di combattimento, ma
di formazione e addestramento dei combattenti libici impegnati contro l’ISIS.
In ogni caso dal fronte delle opposizioni politiche italiane si sono levate
numerose critiche al Governo di aver nascosto al Parlamento l’invio delle
truppe speciali, avvenuto già diverse settimane prima.
Il sostegno italiano al governo di Serraj è
stato testimoniato anche dall’intensificazione dei preparativi per la
riapertura dell’Ambasciata italiana a Tripoli, e dall’avvenuta nomina del
futuro capo della sede diplomatica. Il giorno prima, il 9 agosto, il
Sottosegretario agli Esteri On. Vincenzo Amendola, in missione a Tripoli, aveva
ribadito il sostegno italiano al governo Serraj, affrontando con i propri
interlocutori libici l’importante questione dell’intensificazione
dell’assistenza umanitaria del nostro Paese, soprattutto quella da prestare
anche in territorio nazionale ai feriti nella lotta contro lo “Stato islamico”.
Una ulteriore grave difficoltà nel processo
di riunificazione politica della Libia vi è stata il 22 agosto, quando la Camera dei rappresentanti di Tobruk ha
nettamente bocciato il governo di unità nazionale di Serraj. È stato questo
un segnale in direzione della necessità di una riformulazione della compagine
governativa tale da includere più rappresentanti della Libia orientale. La
votazione ha destato peraltro le proteste del vicepresidente della Camera dei
rappresentanti, in quanto avvenuta dopo un improvviso mutamento dell’ordine del
giorno della seduta, mentre i deputati erano stati convocati per un’altra
questione, per la quale era più semplice ottenere la presenza del numero
legale. Per di più, nella stessa giornata, un’intervista del presidente egiziano al-Sisi sui principali quotidiani del paese
confermava il sostegno al Parlamento di Tobruk e al generale Haftar.
C’è poi da rilevare che, nonostante gli
attacchi aerei americani, piccoli nuclei di cecchini e combattenti dello “Stato
islamico” hanno resistito nelle loro ridotte di Sirte, che tuttora non può dirsi completamente liberata dai
miliziani dell’ISIS.
Non meno preoccupante della situazione a
Sirte, e anzi forse di più, è stato il deciso attacco delle truppe del generale Haftar, che l’11 settembre hanno
investito i principali porti petroliferi della Libia (Zueitina, Brega, Ras
Lanuf e Sidra) – la cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” -, strappandone in poche ore il controllo alle truppe di Ibrahim Jadran,
che da fine luglio aveva consentito la riapertura dei terminal dopo un accordo
con le Nazioni Unite. Le forze armate controllate da Haftar, presentatesi come
l’”esercito libico”, hanno descritto
l’azione armata come rivolta alla protezione della ricchezza nazionale
di tutti i libici contro la corruzione, annunciando di voler restituire la
gestione dei porti alla Compagnia nazionale del petrolio, mantenendo l’elemento
militare al di fuori di qualunque accordo commerciale sul petrolio, con l’unica
funzione di proteggere la sicurezza dei porti stessi.
Nel
giro di poche ore le autorità di Tripoli preannunciavano una controffensiva per la
ripresa dei porti petroliferi, per far fronte a quella che era definita una
vera e propria aggressione da parte delle truppe di Haftar.
Venuta meno in buona parte la consistenza del
“cuscinetto” rappresentato dal dominio dell’ISIS a Sirte, il rischio che si va configurando è chiaramente quello dello scontro
frontale fra Tripoli e Tobruk, con le truppe fedeli a Serraj tese a
riacquisire il controllo delle esportazioni di petrolio, mentre la componente
guidata da Haftar e riferentesi a Tobruk potrebbe ulteriormente puntare verso
ovest, proprio su Sirte – che costituirebbe un richiamo per i numerosi ex
gheddafiani delle forze armate di Tobruk e per lo stesso Haftar, membro della
seconda tribù della città natale del colonnello.
Una
decisa presa di posizione contro le iniziative del generale Haftar è venuta il
12 settembre dai governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Stati Uniti e
Regno Unito: la dichiarazione congiunta fa appello a
tutte le forze militari a ritirarsi immediatamente e senza condizioni dalla
“Mezzaluna petrolifera”, demandando la difesa del commercio del greggio libico
all’applicazione della risoluzione 2259 del Consiglio di sicurezza dell’ONU -
nella quale, si ricorda, è previsto anche di poter adottare misure contro le
esportazioni illegali di petrolio.
La dichiarazione prosegue con l’appello
immediato al cessate il fuoco rivolto a tutte le parti, alle quali si
raccomanda di evitare qualunque azione di danneggiamento delle infrastrutture
energetiche o di compromissione del flusso delle esportazioni. Le parti vengono
inoltre esortate a raggiungere un’intesa per la creazione di un’unica forza
armata professionale per la Libia, in vista di una lotta più efficace contro le
formazioni jihadiste e terroriste. La dichiarazione conclude che
l’amministratore unico delle risorse petrolifere libiche è il Consiglio
presidenziale, unitamente alle altre istituzioni dell’esecutivo di accordo
nazionale (GNA).
Il
13 settembre i Ministri degli Esteri e della Difesa, Gentiloni e Pinotti, hanno riferito alle Commissioni Esteri e
Difesa dei due rami del Parlamento, e in questa sede hanno
confermato e precisato quanto dichiarato il giorno precedente in ordine
all’invio di una missione militare/civile a Misurata per l’installazione di un
ospedale da campo atto a prestare le necessarie cure ai combattenti delle
locali milizie feriti (si tratterebbe di circa 2.000 uomini) nella lunga lotta
contro le postazioni dell’ISIS a Sirte. Questa iniziativa dell’Italia fa
seguito alla missione del Sottosegretario Amendola a Tripoli del 9 agosto e
alla lettera inviata nella stessa giornata al Presidente del Consiglio Matteo
Renzi dal primo ministro del governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU Serraj.
Peraltro i due Ministri hanno escluso il carattere di combattimento della
missione (un centinaio di paracadutisti della Folgore operanti su tre turni),
la cui funzione dovrà essere di protezione della struttura ospedaliera - che
nel giro di tre settimane dovrebbe operare a pieno regime, con una potenzialità
di ricovero di 50 posti - e del personale logistico e sanitario (65 medici ed
infermieri militari e 135 unità per la logistica).
A supporto della missione italiana vi sarà
anche un velivolo predisposto per una eventuale rapida evacuazione, e anche dal
mare una nave italiana vigilerà sulla situazione. Le dichiarazioni dei Ministri
non hanno convinto una parte delle opposizioni in Parlamento, per le quali, pur
con diverse sfumature di apprezzamento, la missione configurerebbe un vero e
proprio intervento militare italiano nel difficile scenario libico, reso ancor
più critico dei recenti attacchi delle truppe del generale Haftar contro la
“Mezzaluna petrolifera”.
Dopo
le comunicazioni dei due Ministri, in separata sede, le Commissioni riunite
Esteri e Difesa del Senato, e successivamente le loro analoghe della Camera,
hanno approvato un’identica risoluzione, nella
quale si impegna il Governo ad attuare pienamente quanto anticipato nelle
comunicazioni della mattinata, provvedendo all’allestimento delle strutture
ospedaliere militari, a guardia delle quali dovrà essere impiegato il personale
in grado di garantirne la sicurezza. Le soluzioni impegnano poi il Governo a
tenere il Parlamento costantemente informato sugli sviluppi della situazione.
I recenti sviluppi della guerra civile libica
e del conflitto siriano
di Stefania Azzolina e
Marco Di Liddo del Centro Studi Internazionali (CeSI)[71]
Libia: l’offensiva contro Daesh e i rischi di
escalation tra Tripoli e Tobruk
Intrappolata nel perdurante
conflitto tra il governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli
(propriamente detto Consiglio Presidenziale, CP[72]) e quello di Tobruk (formalmente Camera dei
Rappresentanti, CR), ad agosto, la guerra civile libica non ha conosciuto
significativi scossoni politici. La profonda reticenza alla cooperazione e al
compromesso mostrata da entrambi i contendenti, alimentata sia dalla
lottizzazione delle principali cariche istituzionali nel futuro assetto
politico nazionale sia dai conflitti tra tribù e milizie, potrebbe rendere
decisamente complicata l’entrata in vigore degli accordi di Skhirat e
prolungare i tempi del negoziato nei prossimi mesi. Dunque, la nascita dell’autentico
Governo di Unità Nazionale (GUN) è inevitabilmente legata alla fiducia di
Tobruk al progetto del leader del CP Serraj, ad oggi ben lungi dall’essere
concessa. A riprova dell’attuale inamovibilità della Camera dei Rappresentanti
può essere citata la consultazione del 23 agosto, quando la maggioranza dei
parlamentari (61 su 101 presenti) non ha accordato la fiducia alla lista dei
ministri proposta da Serraj, impedendo così la formazione del GUN. Si tratta
del secondo rifiuto che Tobruk oppone a Tripoli dopo quello dello scorso
gennaio, nonostante nei mesi intercorsi tra le due votazioni il Consiglio
Presidenziale abbia discretamente rafforzato la propria tenuta e sia riuscito
ad ottenere il sostegno delle milizie tripoline e di Misurata e ad
accreditarsi, almeno formalmente, come interlocutore legittimo agli occhi della
Comunità Internazionale. In ogni caso, occorre sottolineare come sulla volontà
espressa da Tobruk pesi la mancata partecipazione al voto di tutti i
parlamentari favorevoli al compromesso, ai quali è stato impedito di espletare
il proprio dovere istituzionale con metodi violenti o dirette minacce alla loro
incolumità. Da quanto emerso sinora, pare che a neutralizzare il fronte pro-GUN
siano state alcune milizie tribali della Cirenaica ed elementi dell’Esercito
Nazionale Libico, la formazione para-militare agli ordini del Generale Khalifa
Haftar. Infatti, quest’ultimo è il leader del movimento contrario al Governo di
Unità Nazionale, sia per ragioni di opportunità, legate al ruolo di prestigio e
potere che egli vorrebbe ricoprire nel futuro Stato Libico e che al momento non
gli viene garantito, sia per ragioni ideologiche, connesse alla profonda
avversione verso la Fratellanza Musulmana e a tutto lo spettro dell’islamismo
politico che tutt’ora, in misura differente, governano il Consiglio
Presidenziale. Appare possibile che, finché potrà usufruire dell’aperto
appoggio egiziano ed emiratino, Haftar proseguirà la propria partita politica,
sfruttando la forza militare a sua disposizione per tenere in ostaggio il
Parlamento di Tobruk, di per sé privo di risorse sufficienti per la propria
auto-difesa e sopravvivenza. Dunque, nelle prossime settimane, il CP e Serraj (o
chi eventualmente ne raccoglierà l’eredità istituzionale) potrebbero essere
chiamati ad un rimpasto di governo o all’ennesima modifica della lista dei
potenziali ministri per cercare di tenere vivo il negoziato con la
controparte.
Tuttavia, la ricerca di
complicate alchimie politiche risulta subordinata all’esito della campagna
anti-jihadista effettuata da entrambi gli schieramenti. Infatti, le forze del
Consiglio Presidenziale, capeggiate dalla potente milizia di Misurata, sono in
procinto di riconquistare totalmente Sirte e sottrarla al controllo dello Stato
Islamico (IS o Daesh), iniziato nel febbraio 2015. Nel momento in cui si
scrive, soltanto nel distretto 3 e nel distretto 1 della città portuale sono
asserragliati poco più di un centinaio di combattenti di Daesh. La presa di
Sirte rappresenterebbe il culmine dell’operazione Al-Bunyan al-Marsoos (Muro
Impenetrabile), avviata lo scorso 16 maggio per catturare quella che era
diventata la principale roccaforte di IS nel Paese. Inoltre, disperdendo il nutrito
nucleo jihadista di Sirte, il Consiglio Presidenziale infliggerebbe un colpo
significativo alla rete libica del movimento di Daesh, potrebbe aggiungere un
ulteriore tassello al mosaico di alleanze che lo sostiene e aumenterebbe la
propria legittimità internazionale attraverso i successi nella lotta al
terrorismo. In sintesi, Serraj potrebbe attribuirsi il merito di aver
contribuito a pacificare il Paese e di aver riunito sotto la propria bandiera
tre delle più importanti città della costa, quali Tripoli, Misurata e Sirte, in
quella che potrebbe essere una coabitazione conflittuale ma dall’alto valore
simbolico. Infatti, non bisogna dimenticare che, sebbene la scena politica
libica sia dominata dalla lotta allo Stato Islamico, gli attriti e le acredini interne
al Consiglio Presidenziale continuano a caratterizzare Tripoli, dove le milizie
che sostengono Serraj non cessano reciproche azioni di provocazione e saltuari
scontri a fuoco per il controllo di avamposti, check point e infrastrutture
strategiche.
Nonostante l’efficacia dell’azione
perpetrata dalle milizie fedeli al Consiglio Presidenziale, non può essere
trascurato il ruolo svolto dagli Stati Uniti. Infatti, a partire dal primo
agosto, le Forze Armate statunitensi hanno effettuato oltre 90 raid aerei su
Sirte e sui territori attigui per distruggere basi, istallazioni,
infrastrutture e mezzi dello Stato Islamico, riducendone significativamente le
capacità operative e spianando la strada all’avanzata delle milizie di
Misurata. Condotti con velivoli a pilotaggio remoto, elicotteri AH-1 Super
Cobra e cacciabombardieri AV-8B Harrier II degli U.S. Marines, i raid aerei in
questione hanno rappresentato il maggior impegno militare di Washington in
Libia dal 2011, anno dell’operazione “Odyssey Dawn” contro il regime di Muammar
Gheddafi.
Contemporaneamente all’azione
del Consiglio Presidenziale e degli Stati Uniti a Sirte, l’Esercito Nazionale
Libico ha proseguito l’offensiva anti-jihadista (operazione Dignità) a Bengasi,
Derna e nei villaggi a sud di Ajdabiya, senza tuttavia riuscire ad ottenere
significativi risultati. Infatti, seppur in difficoltà, sia le milizie
filo-qaediste di Ansar al-Sharia (Protettori della Fede, inquadrati nella
coalizione Consiglio dei Rivoluzionari di Bengasi, CRB) e del Consiglio dei
Mujaheddin di Derna sia le unità locali di IS continuano a controllare alcuni
quartieri delle suddette città.
L’eventuale vittoria delle
forze del Consiglio Presidenziale a Sirte e il rafforzamento delle posizioni
dell’Esercito Nazionale Libico a Derna e Bengasi potrebbero sensibilmente
indebolire sia la rete di Daesh sia quella di al-Qaeda nel Paese. Tuttavia, il
fronte jihadista è lungi dall’essere completamente neutralizzato. Innanzitutto,
non potendo più controllare e amministrare le città della Cirenaica, le brigate
salafite potrebbero ripiegare su una tattica basata su attacchi mordi e fuggi e
sulla conduzione di attentati allo scopo di logorare le forze di entrambi gli
schieramenti e rendere difficilmente governabile il territorio. A questo
proposito, il sanguinoso attentato dinamitardo del 2 agosto a Bengasi,
rivendicato dal CRB e costato al vita a 22 persone, costituisce un serio monito
per quelli che potrebbero essere i futuri sviluppi dell’insorgenza terroristica
in Cirenaica. In secondo luogo, non è da escludere la migrazione dei gruppi
jihadisti verso quattro possibili destinazioni: le aree occidentali al confine
con la Tunisia, come la città di Sabratha, dove già si registra una consistente
presenza di miliziani estremisti; la città di Bani Walid, roccaforte della
tribù lealista gheddafiana dei Warfalla, apertamente opposta sia al Consiglio
Presidenziale che alla Camera dei Rappresentanti; le aree desertiche del
Fezzan, dove l’assenza del controllo statale ha generato la proliferazione
incontrollata di gruppi legati ai network terroristici della regione
sahelo-sahariana (al-Qaeda nel Maghreb Islamico, al-Mourabitun); la città
orientale di Ajdabiya, divenuta negli ultimi anni uno dei centri nevralgici del
jihadismo libico. Al momento, le opzioni maggiormente percorribili sono quelle
relative alla migrazione verso il Fezzan, dove i miliziani estremisti
potrebbero riorganizzare i propri ranghi sfruttando una rete già organizzata e
funzionale e senza la pressione militare esercitata dal Consiglio Presidenziale
e dall’Esercito Nazionale Libico, e quella di Bani Walid, città dove IS
potrebbe sfruttare i buoni rapporti con le tribù locali ed usufruire dell’orografia
del terreno, che rende la città difficilmente attaccabile ed espugnabile. Al
contrario, Ajdabiya appare troppo vicina alla linea del fronte per essere
considerata un rifugio sicuro nel medio termine, mentre Sabratha e le aree
occidentali fungono più da retroterra logistico per i movimenti terroristici
tunisini che da base operativa per eventuali azioni sul territorio libico. In
ogni caso, al di là della precisa destinazione geografica, i movimenti
jihadisti libici potranno sfruttare le problematiche sociali, politiche,
militari ed economiche di un Paese in guerra civile da ormai 5 anni, privo di
un apparato statale funzionante e caratterizzato da una popolazione stremata,
in larga misura disillusa e poco rappresentata sia dal CP che dalla CR. Quanto
mostrato a Sirte, ossia la costruzione di una architettura amministrativa,
economica, politica e legale efficace ed in grado di produrre ordine e
somministrare welfare potrebbe essere replicato in altre aree del Paese grazie
all’appoggio delle tribù o degli ancora numerosi nostalgici di Gheddafi.
In ogni caso, l’allontanamento
di Daesh dalla costa rischia di porre a pericoloso contatto le milizie del
Consiglio Presidenziale e quelle di Tobruk / Haftar. In un momento in cui le
relazioni tra i due parlamenti sono abbastanza tese e il comportamento del
Generale Haftar appare imprevedibile e fortemente autoreferenziale, l’eccessiva
vicinanza dei due schieramenti militari potrebbe facilmente degenerare in uno
scontro aperto. Ad alimentare questa ipotesi sono gli ultimi sviluppi della
campagna dell’Esercito Nazionale Libico che, a partire dall’inizio del mese,
sembra aver puntato i terminali petroliferi di Ras Lanuf, Sidra e Zueitina, ad
oggi controllati dalle Guardie delle Infrastrutture Petrolifere (GIP), fedeli
al CP. Nello specifico, il 6 agosto, Haftar è penetrato in forze nella città di
Zueitina, senza tuttavia attaccare le milizie del GIP e limitandosi a
circondare il porto. Una simile azione è giunta a pochi giorni di distanza
dalla ripresa dell’export petrolifero, autorizzato dal Consiglio Presidenziale
grazie alla benedizione delle maggiori holding multinazionali operanti in loco.
La rinnovata vendita di petrolio, con il suo conseguente afflusso di capitali
in favore del CP, ha suscitato le ire della Camera dei Rappresentanti,
interessata anch’essa agli introiti dell’industria idrocarburica. Dunque,
Haftar potrebbe mirare a scalzare le milizie del GIP da alcuni degli impianti
per sostituire ad esse le proprie forze, aumentare il suo peso in sede
negoziale ed attingere ai flussi finanziari derivanti dall’export del greggio.
Appare evidente come una simile eventualità innalzerebbe l’asticella dello
scontro tra Tripoli e Tobruk e potrebbe conseguentemente condurre il Paese in
una nuova e pericolosa fase della guerra civile.
Siria: impasse politica tra la battaglia di Aleppo e l’intervento turco
A cinque anni dall’inizio
della guerra in Siria la situazione appare sempre più complessa. Il persistere
del forte coinvolgimento di molteplici attori locali, regionali e
internazionali e la continua e repentina evoluzione degli equilibri sul campo
di battaglia (dove si stenta ad individuare un chiaro vincitore) rendono sempre
più difficile sia ipotizzare una risoluzione delle controversie nel breve
termine sia escludere l’ipotesi di un’ulteriore accelerazione della crisi
stessa.
Tale criticità è emersa in
maniera evidente nel corso di tutto agosto, durante il quale si è assistito ad
una nuova e pesante escalation degli scontri tra il fronte lealista e i gruppi
ribelli. Nei primissimi giorni del mese, le forze governative hanno subito una
nuova offensiva da parte del fronte anti-Assad nelle aree di Aleppo, Deir
el-Zor, Idlib e Latakia. In particolare, il 2 agosto, Jabhat Fatah al-Sham
(nuova denominazione che Jabhat al-Nusra si è data dopo la scissione formale da
Al-Qaeda) in collaborazione con altri gruppi di opposizione riuniti nella
Northen Homs Operation Room hanno lanciato una nuova offensiva denominata “Oggi
è il tuo giorno, Aleppo” a supporto delle milizie jihadiste impegnate nelle
operazioni in corso nell’omonima città. In questo contesto i ribelli hanno
ripreso possesso di alcuni checkpoint a sud del governatorato di Hama,
favorendo così il disimpegno di parte delle forze ribelli verso il fronte
meridionale di Aleppo. Contestualmente a tale azione, infatti, Jaysh al-Fatah
ha annunciato l’inizio di una nuova operazione, denominata “Battaglia per
rompere l’Assedio di Aleppo” che ha visto i miliziani jihadisti riconquistare
alcune posizioni sotto il controllo del regime nell’area a sud-ovest della
periferia di Aleppo. In particolare nelle giornate tra il 6 ed il 10 agosto il
fronte lealista ha incontrato serie difficoltà nell’opporsi all’offensiva
ribelle, che è riuscita a rompere la manovra di accerchiamento dei governativi
lo scorso luglio e a spingersi pericolosamente all’interno del distretto
meridionale di Ramouseh, prendendo il controllo del College dell’Artiglieria,
dell’Accademia dell’Aeronautica e del
complesso abitativo popolare 1070. Sempre nelle stesse giornate l’Esercito
siriano ha dovuto far fronte anche all’intensificarsi degli scontri con le
milizie di Jaysh al-Fatah, nei pressi della cittadina di Kinsaba (situata nella
zona settentrionale della provincia di Latakia), nonché al rinnovato slancio da
parte delle Stato Islamico nella provincia di Deir el-Zor, dove si è assistito
all’arrivo di un notevole numero di combattenti di soprattutto nei pressi dei
sobborghi settentrionali dell’omonimo capoluogo e nelle periferie attorno la
vicina base militare.
La repentina moltiplicazione
delle operazioni dei ribelli ha messo notevolmente in difficoltà l’Esercito
siriano, già alle prese con una cronica mancanza di uomini e mezzi da
dispiegare sui molteplici fronti di combattimento che caratterizzano lo
scenario militare siriano. Di conseguenza, le difficoltà incontrate dal fronte
lealista hanno spinto l’Aeronautica russa ad intensificare nuovamente i raid
aerei contro le postazioni dei ribelli, permettendo all’Esercito siriano
(supportato sul campo dalle milizie di Hezbollah, dalle Guardie Rivoluzionarie
Iraniane e da numerose milizie sciite) di passare al contrattacco sui diversi
fronti citati e in modo particolare nell’area di Aleppo. Qui, infatti, i
governativi sono riusciti a riconquistare sia il complesso dell’Accademia dell’Aeronautica
sia più del 70% del complesso abitativo 1070, mentre sono ancora in corso i
combattimenti all’interno delle strutture del College dell’Artiglieria. La
ripresa del controllo dell’intera area permetterebbe di realizzare nuovamente
la manovra di accerchiamento di tutto il settore orientale di Aleppo
(controllato dalle milizie ribelli dal luglio del 2012) privando così i
combattenti jihadisti di qualsiasi linea di approvvigionamento per far defluire
uomini, mezzi e rifornimenti all’interno della città.
Al di là dei risultati sul
terreno, l’aumento dei raid russi e siriani su Aleppo ha prodotto un importante
risultato nel contrasto allo Stato Islamico. Infatti, il 30 agosto, i media di
Daesh hanno ufficializzato la morte di Abu Mohammad al-Adnani, portavoce dello
Stato Islamico e tra i principali promotori e ispiratori degli attentati fuori
dalla Siria e dall’Iraq. Per un gruppo come Daesh, nel quale la propaganda
svolge un ruolo primario, la morte di al-Adnani rappresenta un duro colpo.
Tuttavia, il luogo della sua morte, presumibilmente Aleppo, lascia irrisolti
molti interrogativi, visto che la città è da anni principalmente teatro dello
scontro tra lealisti e ribelli e non ospitava una rilevante presenza di
miliziani dello Stato Islamico.
Parallelamente alle
operazioni in corso ad Aleppo, la regione settentrionale siriana ha visto nell’ultima
decade del mese di agosto una nuova escalation degli scontri lungo il confine
siro-turco. Sebbene tali territori siano stati caratterizzati nel corso di
tutta la crisi da un elevato livello di conflittualità, l’invasione delle Forze
Armate turche in territorio siriano e l’inizio dell’ operazione “Scudo sull’Eufrate”
rappresenta di fatto un elemento di forte destabilizzazione in grado di
generare una nuova escalation delle tensioni in tutta l’area.
Le operazioni attualmente in
corso, formalmente volte a salvaguardare la sicurezza dei confini turchi
attraverso il respingimento delle milizie di al-Baghdadi nei territori siriani
prossimi al confine con la Turchia (in particolare Jarablus) di fatto si sono
concentrate anche contro le milizie curde del YPG (Yekîneyên Parastina Gel-
Unità di Protezione Popolare) costrette a ripiegare in buona parte ad Est dell’Eufrate.
Di fronte all’iniziativa turca, gli Stati Uniti, che garantiscono ampio
sostegno politico e logistico alle milizie curde, hanno adottato un
atteggiamento fortemente pragmatico, cercando di bilanciare le necessità di
entrambi gli schieramenti. Infatti, Washington da un lato ha esercitato una
forma di pressione sul YPG, chiedendo di ripiegare a est dell’Eufrate in vista
della futura offensiva finale nei confronti di Raqqa, mentre dall’altro ha
proposto una tregua alla Turchia. Tuttavia quest’ultima appare attualmente poco
incline ad accettare un compromesso sul dossier siriano, che rappresenta oramai
una delle sue maggiori priorità di politica estera. Di fatto, in questo
momento, le operazioni turche in territorio siriano appaiono perseguire il
duplice obbiettivo di evitare un congiungimento tra le due realtà territoriali
curde presenti lungo il suo confine meridionale e di avere un ruolo sempre più
influente nella definizione dei futuri equilibri siriani.
A completare il quadro e a
conferma non solo delle forti tensioni presenti lungo il confine siro-turco ma,
più in generale, della possibilità di una repentina accelerazione della crisi è
da segnalare un episodio che ha coinvolto le milizie curde e l’aviazione
siriana e statunitense nei cieli prospicienti la cittadina di Hasakah. Qui,
infatti, lo scorso 18 agosto, si sono verificati degli scontri tra i miliziani
curdi e le milizie sciite filogovernative delle Forze di Difesa Nazionale (FDN)
cui hanno fatto seguito una serie di raid aerei da parte dell’Aviazione siriana
che, tra il 18 ed 20 agosto, ha colpito diverse postazioni curde nell’area dove
contestualmente sono presenti alcuni nuclei di Forze Speciali Statunitensi a
sostegno del Ypg. Ne è conseguita la risposta da parte dell’Aeronautica
statunitense che, nei giorni seguenti, ha pattugliato la zona interessata allo
scopo di impedire qualsiasi nuova iniziativa da parte siriana.
Lo scenario fin qui
delineato mostra, come accennato in precedenza, il perdurare di una situazione
di estrema frammentarietà e fluidità del quadro militare siriano, al quale si
affianca la sostanziale difficoltà della diplomazia sia bilaterale (leggasi la
difficoltà tra USA e Russia di giungere a una qualsiasi forma di compromesso
reale) che multilaterale nel trovare una soluzione condivisa alla crisi. Di
conseguenza, appare sempre più evidente come, con molta probabilità, sarà l’esito
della battaglia in corso ad Aleppo ad incidere in maniera significativa sugli
sviluppi futuri del conflitto siriano non solo sul piano militare ma anche su
quello politico. Infatti, a prescindere dall’esito della battaglia, Aleppo per
quello che rappresenta (seconda città più importante del Paese) costituisce un
obbiettivo di primaria importanza per tutti gli attori coinvolti, sia sotto il
profilo simbolico e d’immagine che sotto quello politico e logistico-militare.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, occorre ricordare che Aleppo
rappresenta uno snodo fondamentale per le comunicazioni lungo i vettori
est-ovest del territorio siriano. Inoltre, la sua posizione nel nord del Paese,
a circa 70 km dal confine con la Turchia, attribuisce alla città un primario
valore strategico per il controllo dei distretti settentrionali, compresa quell’area
attigua al fiume Eufrate che è in procinto di trasformarsi in uno dei nuovi
fronti caldi del conflitto.
In Siria la ricerca di una soluzione politica alla crisi è perseguita attraverso i negoziati intra-siriani mediati dall’ONU e attraverso l’impegno del Gruppo di sostegno internazionale per la Siria (ISSG).
Già dalla riunione ministeriale di Vienna del Gruppo di sostegno internazionale per la
Siria del 17 maggio 2016 si era evidenziato un rilancio della collaborazione russo-americana, in vista dell’ulteriore rilancio del processo negoziale intra-siriano,
mediato dall’Inviato Speciale delle Nazioni Unite Staffan De Mistura.
La riunione aveva evidenziato una certa sintonia – anche in presenza di oggettive differenze – nell’approccio e nella gestione della crisi siriana tra il Segretario di Stato americano Kerry e il Ministro degli esteri russo Lavrov. L’ipotesi che prendeva corpo era quella di lavorare con Mosca per prevedere forme di collaborazione militare fra la Coalizione globale e la Russia nel contrasto a DAESH e al-Nusra.
Alcuni osservatori[73] hanno segnalato come, sfruttando la sintonia Kerry-Lavrov e prima che si insedi una nuova Amministrazione degli Stati Uniti, esista una finestra di opportunità in cui Russia e Stati Uniti avrebbero la chiave della soluzione, tenendo insieme due pilastri: transizione politica controllata - fino ad elezioni gestite dall’ONU[74] - e contrasto a DAESH e al-Nusra. La finestra sarebbe durata fino ad agosto-settembre, dopodiché si sarebbe entrati in una sorta di "semestre bianco" statunitense, ricco di incognite anche per la Russia. Su questa ipotesi ha lavorato convintamente per tutta l’estate l’Inviato Staffan De Mistura.
Grazie al Gruppo internazionale di sostegno alla Siria, alla fine di febbraio 2016, a Monaco, si era già riusciti a conseguire una "cessazione delle ostilità" che ha comportato per diverse settimane una notevole riduzione della violenza: tale tregua non operava nei confronti di DAESH e al-Nusra. Tuttavia, a fine aprile la situazione era tornata difficile sul terreno - anche per la tendenza del regime ad utilizzare la presenza diffusa sul territorio di al-Nusra[75] come pretesto per espansioni territoriali e violazioni della tregua[76] - e sul piano umanitario assolutamente drammatica, con una ventina di città e di aree molto popolate sotto assedio, in cui non è consentito l’accesso a convogli e corridoi umanitari.
Ad agosto la situazione si è ulteriormente modificata sul terreno sia per effetto dell’andamento della battaglia di Aleppo (in cui i jihadisti di al-Nusra -ora Fatah al Sham - si sono guadagnati grande popolarità rompendo l’assedio governativo, almeno fino all’intervento dell’aviazione siriana e russa) sia per effetto dell’intervento turco. L’ingresso delle Forze Armate turche in territorio siriano e l’inizio dell’operazione “Scudo sull’Eufrate”, formalmente volta a salvaguardare la sicurezza dei confini turchi attraverso il respingimento delle milizie di DAESH nei territori siriani prossimi al confine con la Turchia, di fatto si è rivolta anche contro le milizie curde del YPG costringendole a ripiegare in buona parte ad Est dell’Eufrate[77].
Un altro elemento di novità è rappresentato dal fatto che a fine luglio, Jabhat al-Nusra, dopo la scissione formale da Al-Qaeda, ha assunto la nuova denominazione di Jabhat Fatah al-Sham (JFS), da molti interpretato come una mossa tattica per apparire più moderato e stringere più facilmente alleanze con altri gruppi ribelli.
L’incontro tra i presidenti Obama e Putin ai margini del Vertice del G20 di Hangzhou del 4-5 settembre 2016 si è chiuso senza alcun accordo su una nuova tregua in Siria.
Tuttavia, a Ginevra il 10 settembre, al termine di una lunga maratona negoziale, Kerry e Lavrov hanno finalmente concluso un’intesa per una tregua - che non opera nei confronti di DAESH e Fatah al-Sham - a partire dal 12 settembre per 7 giorni: dalla sua tenuta dipende lo sbocco dell’intesa in una collaborazione militare inedita tra Mosca e Washington per combattere i due gruppi jihadisti di DAESH e Fatah al-Sham, che potrà avvalersi di una struttura congiunta per lo scambio di intelligence.
Tale intesa è dunque preliminare alla ripresa del dialogo politico intra-siriano, mediato dall’ONU, che è un obiettivo di più lungo periodo. In particolare, l’intesa nell’immediato prevede:
· un periodo di 7 giorni per consentire l’ingresso di aiuti umanitari e la ripresa del traffico civile ad Aleppo;
· il ritiro delle forze combattenti dalla Castello Road, principale via d’accesso ad Aleppo e la formazione di una zona smilitarizzata attorno ad essa;
· preparativi necessari all’istituzione di un Comando Congiunto (Joint Implementation Centre) che includerà lo scambio di informazioni necessarie a definire le aree controllate da JFS e dai gruppi di opposizione nelle zone delle ostilità in atto: il Comando sarà istituito entro una settimana;
· la Russia si impegna a frenare l’aviazione siriana dal bombardare le aree controllate dall’opposizione;
· gli Stati Uniti si impegnano a contribuire ad indebolire il Fronte Fatah al-Sham, inducendo i gruppi dell’opposizione a staccarsi da esso: questo appare il principale ostacolo, in quanto in molte zone di operazioni, i ribelli sono alleati di Fatah al-Sham contro il regime di Damasco.
In un comunicato del 10 settembre 2016, l’inviato De Mistura ha espresso l’auspicio che l’attuazione dell’intesa possa facilitare un rinnovato sforzo per raggiungere una composizione politica del conflitto che sia gestita e guidata dalla Siria (a Syrian-owned and Syrian-led political settlement of the conflict) come richiesto dal Comunicato di Ginevra e dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 2254 (2015). La riunione ministeriale del Consiglio di Sicurezza del 21 settembre cercherà di progredire verso questo obiettivo e di trovare una data per la ripresa dei colloqui intra-siriani.
Con un comunicato in pari data, il Ministro degli Esteri Gentiloni, affermando che l’accordo apre la porta alla speranza di una svolta nella drammatica guerra in Siria, ha confermato il sostegno italiano allo sforzo diplomatico di John Kerry e Sergey Lavrov, nonché l’appoggio italiano alle proposte negoziali che le Nazioni Unite avanzeranno nel prossimo vertice ministeriale dell’ISSG sulla Siria, co-presieduto da Kerry e Lavrov, che si riunirà a New York il 20 settembre.
Mentre il regime siriano ha annunciato il congelamento delle operazioni militari sul terreno per 7 giorni, tale accordo è stato accolto con grande scetticismo da ampie frange dell’opposizione che, indebolite sul terreno, vorrebbero garanzie dall’alleato americano.
Gran parte dell’opposizione appare restia a ritirarsi dalle linee del fronte in cui è presente anche Fatah al-Sham perché teme che la tregua fallisca. Secondo alcuni osservatori[78], molti esponenti dell’opposizione vedono quest’intesa tra Stati Uniti e Russia come una cospirazione contro la loro lunga e difficile battaglia per la rivoluzione contro Assad.
Secondo altri osservatori, l’accordo "finisce di alienare il campo sunnita, cioè i maggiori alleati tradizionali degli Usa nella regione. La concentrazione contro Jabhat Fateh al-Sham, che finora gli Usa hanno compreso nella lista dei “terroristi” ma non in quella degli obbiettivi militari, è un grave colpo per le opposizioni non jihadiste - incluse quelle più vicine agli Usa - perché la loro capacità militare a combattere Assad dipende in modo determinante proprio da Jabhat Fateh"[79].
Tra gli ostacoli alla tenuta della tregua, va menzionato il fatto che l’Iran e Hezbollah non sono stati coinvolti nell’accordo e che la Turchia non si è impegnata a cessare le operazioni contro i curdi siriani.
È stato sostenuto[80] che "questo è soprattutto l’accordo di John Kerry, l’uomo del dialogo e della diplomazia", che avrebbe convinto il Presidente Obama, superando la contrarietà del Segretario alla Difesa Carter, del Capo della CIA Clapper, del Capo di Stato Maggiore della Difesa Dunford a condividere con Mosca informazioni di intelligence.
OMISSIS
Christopher Andrew "Chris" Coons è nato il 9 settembre 1963 a
Greenwich, Connecticut. Si è laureato in
legge a Yale nel 1992.
Dopo una prima esperienza in campo
repubblicano ai tempi del college, ha intrapreso la carriera politica nelle
fila dei democratici.
Dal 2001 al 2005 ha ricoperto la carica di Presidente del Consiglio
della Contea di New Castle e successivamente quella di Presidente dell’omonima Contea (2005-2010).
Nel 2010 Coons è stato eletto al Senato per lo Stato del Delaware; è
stato rieletto nel 2015: il suo mandato scade nel gennaio 2021. È componente
delle Commissioni per gli Stanziamenti pubblici, Affari esteri, Giustizia,
Piccole e medie imprese e della Commissione speciale sull’etica.
Chris Coons è sposato e ha tre figli.
Diplomatico
di carriera tedesco, ha ricoperto molti incarichi di prestigio all’interno del
Ministero degli Affari Esteri, fra i quali quello di Direttore Generale per la
Cultura e le Comunicazioni e di Ambasciatore in Iraq ed Egitto. E’ stato inoltre
Capo di Gabinetto dell’ex Ministro degli Esteri Joschka Fischer dal 2000 al
2003, Vice Capo di Gabinetto dal 1998 al 2000, e Vice Direttore della Task
Force del Ministero per i Balcani dal 1997 al 1998. Ha inoltre avviato la
rappresentanza tedesca presso l’Autorità Nazionale Palestinese ed è stato
osservatore, per conto dell’ONU, delle elezioni ad Haiti, Nicaragua e Colombia.
Dal 2010 al
2011 è stato Vice Rappresentante Speciale (per le questioni politiche) in
Afghanistan.
Dall’ottobre
2011 al luglio 2013 è stato Rappresentante Speciale del Segretario Generale ONU
per l’Iraq ed al vertice della missione UNAMI (United Assistance Mission for
Iraq).
Nel giugno
2013 è stato nominato Rappresentante Speciale per la Repubblica del Congo e
Capo della MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the
Democratic Republic of Congo). In tale ruolo, ha diretto la forza di
peacekeeping presente nel Paese e che ammonta a 20.000 uomini.
Il 4
novembre 2015 è stato nominato Rappresentante Speciale e Capo della Missione di
Supporto in Libia.
Konstantin Kosatchev è nato il 17 settembre 1962 a Mamontovka, nella
periferia urbana di Mosca.
Nel 1984 si laurea all’Istituto statale di relazioni internazionali del
Ministero degli Affari esteri, a Mosca. Inizia quindi a lavorare come
traduttore presso il Servizio diplomatico russo, sia in patria che all’estero.
Nel 1991 segue un corso di specializzazione all’Accademia diplomatica del
Ministero degli Affari esteri. Nello stesso anno assume le funzioni di Primo
Segretario presso l’Ambasciata russa in Svezia, dove continuerà ad operare, a
partire dal 2004, come Consigliere di legazione.
Nel 1998 viene nominato Consigliere per gli affari internazionali del
Presidente del Governo russo, e successivamente Vice Capo di Gabinetto del
Primo Ministro.
Nel 1999 viene eletto deputato alla Duma di Stato della Federazione
russa, dove ricopre gli incarichi di: Vice Presidente del Comitato per gli
Affari internazionali; primo Vice Presidente del gruppo parlamentare del
partito di centro Patria-Tutta la Russia
(OVR); membro del Comitato per l’attuazione del Trattato anti missili balistici
firmato il 26 maggio 1972 tra Federazione russa e Stati Uniti d’America; membro
della Commissione per l’assistenza alla Repubblica federale di Iugoslavia dopo
l’attacco NATO.
In seguito alle elezioni legislative del 2003 e del 2007 viene rieletto
alla Duma nelle fila del partito Russia
unita; in entrambe le legislature continua ad esercitare le funzioni di
Presidente del Comitato per gli affari esteri. Riconfermato alla Duma anche alle
elezioni del 2011, è Vice Presidente della Commissione Affari esteri.
A marzo 2012 viene nominato Capo dell’Agenzia federale per la Comunità
degli Stati indipendenti (CSI), i connazionali residenti all’estero e la
collaborazione umanitaria internazionale (Rossotrudnichestvo).
Assume anche l’incarico di Rappresentante speciale del Presidente della
Federazione russa per i rapporti con i paesi membri della CSI.
A dicembre
2014 viene eletto al Consiglio della Federazione russa dove ricopre l’incarico
di Presidente del Comitato per gli Affari esteri.
Vu Quang Minh è Direttore generale presso il Ministero degli esteri del Vietnam
e Assistente del Ministro.
È nato ad Hanoi il 10 aprile 1964.
Nel 1988 ha
conseguito una laurea Scienze economiche internazionali presso l’Istituto
Statale di Relazioni Internazionali di Mosca e nel 1995 ha concluso un master
biennale di Affari Pubblici presso l’Università di Princeton. Ha inoltre
frequentato numerosi corsi intensivi ad Harvard.
Dal 1990
lavora presso il Ministero degli esteri, dove ha prestato servizio in diversi
dipartimenti: segretariato nazionale per l’UNESCO, segretariato nazionale per l’ASEAN,
dipartimento per l’Unione Sovietica, dipartimento per la cooperazione economica
multilaterale.
Dal 1997 al
2002 è stato Segretario Personale del Vice Primo Ministro con delega agli
Affari Esteri e dal 2002 al 2006 è stato Consigliere capo della sezione
economica presso l’Ambasciata del Vietnam negli USA.
Nell’aprile
2011 è stato designato Ambasciatore del Vietnam nel Regno Unito e Irlanda,
carica che ha ricoperto fino a settembre 2014.
Le sue
conoscenze professionali includono relazioni internazionali, sicurezza, contese
territoriali e questioni di confine, diplomazia economica, sviluppo economico,
globalizzazione e integrazione economica – WTO, FTA, fora di cooperazione
multilaterale come APEC, ASEAN e ASEM – attività nell’ambito del Foro Economico
mondiale, G20 e cooperazione per lo sviluppo regionale. Parla russo e inglese.
L’Amb. Peter Thomson, Rappresentante Permanente delle Isole Fiji, è
stato eletto Presidente della 71ma Sessione dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite il 13 giugno 2016. La votazione, svoltasi inusualmente a
scrutinio segreto, lo ha visto ottenere 94 voti a favore contro i 90 dell’altro
candidato, Andreas Mavroyiannis di Cipro.
Nato a Suva (Fiji) nel 1948, Thomson è sposato e ha due figli. Si è
laureato all’Università di Auckland, Nuova Zelanda, in Studi politici; ha
conseguito un Master all’Università
di Cambridge, Regno Unito.
All’inizio della sua carriera professionale, ha prestato servizio come
funzionario pubblico nel settore dello sviluppo rurale e degli affari esteri.
Nel 1978 è entrato in carriera diplomatica. Nel 1979 ha lavorato al
Segretariato del Forum delle Isole del Pacifico. Dal 1980 al 1984, ha prestato
servizio a Tokyo dove ha aperto l’Ambasciata delle Isole Fiji in Giappone. Nel
1984 è stato nominato Console generale a Sidney, Australia.
Tornato nelle Fiji nel 1986 è stato Segretario Permanente all’Informazione,
alle dipendenze del Primo Ministro. Nel 1987 è stato nominato Segretario del
Governatore generale delle Isole Fiji. Dopo il colpo di stato del settembre
1987, è stato costretto ad emigrare prima in Nuova Zelanda quindi in Australia.
Dal 1988 al 2009 ha lavorato nel settore privato come consulente di
società di investimento, agenzie governative, organizzazioni regionali ed
università.
Nel 2009 ha riavuto la cittadinanza delle Fiji che aveva perso in
seguito al colpo di stato militare. Nel 2010 ha rientrato in carriera
diplomatica ed è stato nominato Rappresentante Permanente delle isole Fiji alle
Nazioni Unite. In seno alle Nazioni Unite ha ricoperto diversi incarichi tra
cui quello di Vice Presidente dell’Assemblea generale (sessione 2011-2012) e
Presidente dell’Assemblea dell’Autorità Internazionale per i Fondali Marini
(sessione 2011-2012).
[1] Nota n. 68, pubblicata nel settembre 2016, nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale..
[2] Le
“decisioni importanti” richiedono invece una maggioranza dei due terzi dei
membri presenti e votanti. Esse comprendono: le raccomandazioni riguardo al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’elezione dei membri
non permanenti del Consiglio di Sicurezza, l’elezione dei membri del Consiglio
economico e sociale, l’elezione dei membri del Consiglio di amministrazione
fiduciaria, l’ammissione di nuovi membri delle Nazioni Unite, la sospensione
dei diritti e privilegi di membro, l’espulsione di membri, le questioni
relative al funzionamento del regime di amministrazione fiduciaria e le
questioni di bilancio. Art.
18, Statuto delle Nazioni Unite.
[3] A/RES/11/I (24 January 1946), Terms of Appointment of the Secretary
General http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/11(I)
[4] L’impasse in Consiglio era dovuta al fatto che l’Unione Sovietica rifiutava di approvare il rinnovo del mandato di Trygve Lie per via del ruolo ricoperto da quest’ultimo durante la crisi legata alla guerra di Corea, in occasione della quale egli operò al fine di rafforzare la difesa della Corea del Sud; gli Stati Uniti, d’altro lato, rifiutavano di prendere in considerazione qualsiasi candidato che non fosse Trygve Lie.
[5] The “Wisnumurti guidelines” for selecting a candidate for Secretary-general, 1996 http://www.unelections.org/?q=node/163
[6] Boutros-Ghali's Book Says Albright and Clinton Betrayed Him, The New York Times, 24 maggio 1999.
[7] A/RES/51/241 (31 July 1997), Strengthening the United Nations System,
http://www.un.org/documents/ga/res/51/a51r241.htm
[8] I gruppi regionali nei quali è suddivisa in maniera informale l’Organizzazione hanno subito evoluzioni nel tempo, in linea con le trasformazioni geopolitiche dello scenario internazionale. Al momento della fondazione essi erano: Commonwealth britannico, Europa orientale e Asia, America Latina, Medio Oriente, Europa occidentale. Nel 1966, sulla spinta della decolonizzazione, della nascita del Movimento dei non allineati e dei conseguenti riorientamenti geopolitici internazionali, essi divennero: Asia, Europa orientale (che comprende la Russia), Africa, America Latina e Caraibi, Europa occidentale e altri (quest’ultimo gruppo contiene, oltre ai paesi dell’Europa occidentale, la Turchia, l’Australia, il Canada, Israele, la Nuova Zelanda). Con la ri-denominazione del gruppo Asia in Asia-Pacifico nel 2011, al momento attuale i gruppi sono così identificati: Africa (54 paesi), Asia-Pacifico (53 paesi), Europa orientale (23 paesi), America Latina e Caraibi (Grulac, 33 paesi), Europa occidentale e altri (Weog, 28 paesi).
[9] Inoltre, regola tacita è che, onde evitare ulteriori e maggiori squilibri di potere, il Segretario Generale non può essere cittadino di uno stato che è membro permanente del Consiglio di Sicurezza.
[10] A/RES/69/321 (11 September 2015), Revitalization of the work of the General
Assembly, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/69/321
[11] Tre candidati hanno ritirato la propria candidatura a seguito dell’emergere della mancanza di consenso nei loro confronti: Igor Lukšić (Montenegro), ex Primo Ministro (2010-2012) e attuale Ministro degli Affari Esteri; Vesna Pusić (Croazia), leader del Croatian People Party, Vice-Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri e Europei fino al gennaio di quest’anno; Christiana Figueres (Costa Rica), dal 2010 Segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).
[12] L’argentina Susana Malcorra gode di una reputazione di estrema efficienza e sembra aver instaurato un ottimo rapporto lavorativo con Susan Rice, Consigliere per la sicurezza nazionale, quando quest'ultima era Rappresentante permanente Usa alle Nazioni Unite e Malcorra era Sottosegretario Onu per il field support.
[13] Proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché misure urgenti per la sicurezza, convertito, con modificazioni, dalla L. 131 del 14 luglio 2016.
[14] Si tratta di interventi di ricostruzione e sostegno in Afghanistan, Burkina Faso, Etiopia, Repubblica Centrafricana, Iraq, Libia, Mali, Niger, Myanmar, Pakistan, Palestina, Siria, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Yemen e nei Paesi limitrofi in relazione all'assistenza dei rifugiati.
[15] Estratto dal Focus flussi migratori, n. 1, gennaio-giugno 2016, pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.
[16] Governo Italiano (2016), Italian non-paper. Migration Compact.
Contribution to an EU strategy for external action on migration, Bruxelles, 15 aprile.
[17] A. Garnier (2014), “Arrested development?
UNHCR, ILO, and the refugees’ right to work”, in Refuge, Vol. 30 (2), pp. 15–25.
[18] Dichiarazione del vice
Segretario Generale delle Nazioni Unite, lo svedese Jan Eliasson, all’Assemblea
generale, il 18 aprile 2016. Si
veda: DSG/SM/958-SAG/479.
[19] A. Betts (2010), “Survival migration: A new
protection framework”, in Global
Governance, Vol. 16 (3), pp. 361–82 e A. Betts (2013), Survival migration: Failed governance and the crisis of displacement,
Cornell University Press, Ithaca.
[20] L. Brown, P. Mcgrath e B. Stokes (1976), Twenty two dimensions of the population
problem, Worldwatch Paper 5, Worldwatch Institute, Washington D.C.
[21] S. Rother (2016), “Freedom and development”, Development & Cooperation, Paper no.
4, maggio.
[22] K. Long (2013), “When refugees stopped being
migrants: movement, labour and humanitarian protection”, Journal of Migration Studies, Vol. 1, Issue 1, pp. 4-26.
[23] J. Massarenti (2016), “Con il migration compact, la Commissione UE allontana l'Europa dall'Africa”, Vita online, 23 giugno.
[24] European Commission (2016), Communication from the Commission to the European
Parliament, the European Council, the Council and the European Investment Bank
on establishing a new Partnership Framework with third countries under the
European Agenda on Migration Strasbourg, COM 2016/385 final, Bruxelles, 7
giugno.
[25] Amnesty International (2015), Just deserters. Why indefinite national
service in Eritrea has created a generation of refugees, Londra, dicembre.
[26] Il processo relativo al corridoio orientale dell’Africa, in ciò complementare al processo di Rabat e collegato anche al recente accordo dell’UE con la Turchia, è legato all’accordo siglato il 28 novembre 2015 a Roma, in occasione di una conferenza ministeriale tra i rappresentanti degli Stati membri dell’UE, dei paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia e Gibuti) e di alcuni paesi di transito (Sud Sudan, Sudan, Tunisia, Kenya ed Egitto). Nel contesto del processo di Khartoum sono state avanzate alcune proposte per un maggiore coinvolgimento della società civile, al fine di promuovere un legame virtuoso fra interventi di cooperazione allo sviluppo, gestione dei fenomeni migratori e della mobilità umana, interessi italiani nell’area e più in particolare in Etiopia. Si veda: L. Coslovi, A. Stocchiero, P. Mezzetti (2015), Quale spazio per la società civile nel Processo di Khartoum?, CeSPI policy brief, Roma, dicembre.
[27] E. Drudi (2016), “Profughi, con gli accordi Ue deportazioni in massa dal Sudan, Diritti e Frontiere, 21 maggio.
[28] Un Security Council (2016), Resolution 2284, New York, 28 aprile.
[29] Guillaume Soro che, tra l’altro, è sottoposto anche a un mandato di cattura internazionale da parte delle autorità burkinabé, per un suo coinvolgimento nel tentato colpo di stato del settembre 2015, ha negato le imputazioni.
[30] UN (2016), Final report of the Group of Experts on Côte d’Ivoire pursuant to paragraph 27 of Security Council resolution 2219 (2015). Document S/2016/254, New York, 5 aprile.
[31] Interessanti studi in proposito sono stati condotti da John Kwasi Anarfi, professore associato presso il Regional Institute for Population Studies dell’Università del Ghana, a Legon, 12 km. dal centro di Accra.
[32] S. Issa (2016), “Niger: i trafficanti di migranti sguazzano in mezzo al deserto”, Vita online, 27 aprile.
[33] Il caso più noto è sicuramente il sequestro di 276 ragazze della scuola della cittadina di Chibok, nello Stato nord-orientale di Borno, il 14 aprile 2014. Solo una sessantina sono riuscite a fuggire dal luogo di prigionia nella foresta di Sambisa. A maggio del 2016, il governo nigeriano ha diffuso la notizia del ritrovamento di due ragazze riuscite a liberarsi.
[34] M. Batten-Carew (2016), “Storm in the Sahel:
cross-border violence in West Africa”, The
Insight on Conflict newsletter, 17 maggio.
[35] Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, variabile dai 6 mesi ai 2 anni, può essere raccomandato dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale in caso di diniego dello status di protezione internazionale o di revoca o cessazione dello stesso, qualora ricorrono seri motivi di natura temporanea, in particolare di carattere umanitario in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità.
[36] La protezione sussidiaria è uno status riconosciuto dalla Commissione territoriale competente in seguito alla presentazione di domanda di protezione internazionale. Qualora il richiedente non possa dimostrare una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, che definisce chi è rifugiato, ma si ritiene che rischi di subire un danno grave (condanna a morte, tortura, minaccia alla vita in caso di guerra interna o internazionale) nel caso di rientro nel proprio paese, può ottenere la protezione sussidiaria.
[37] La conferma da parte della Corte Suprema della condanna a sei anni di carcere, con l’accusa di aver sottratto alle casse dello Stato 178 milioni di euro mentre occupava la posizione di ministro, per Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade e candidato designato del Partito democratico senegalese (Pds) per le prossime elezioni presidenziali previste nel 2019, ne è l’espressione più tangibile.
[38] A. Salam Fall (2015), Migration et désertification, dégradation des terres et sécheresse au
Sénégal, OIM-DGCS/MAECI, Dakar, aprile.
[39] v. l'ultimo rapporto annuale pubblicato nel luglio 2016, Atlante Sprar 2015, a cura di Cittalia (Anci), p. 80.
[41] Decreto Ministero dell'interno del 10 agosto 2016 Modalità di accesso da parte degli enti locali ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell'asilo per la predisposizione dei servizi di accoglienza per i richiedenti e i beneficiari di protezione internazionale e per i titolari del permesso umanitario, nonché' approvazione delle linee guida per il funzionamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). (16A06366) (GU Serie Generale n.200 del 27-8-2016).
[42] Organigramma dell'Agenzia: http://www.unhcr.org/4bffd0dc9.html
[43] Le fonti dei dati riportati sono reperibili nel sito web dell'Agenzia, sezione "Figures" (http://www.unhcr.org/pages/49c3646c14.html)
[44] Le fonti dei dati riportati sono reperibili nel sito web dell'Agenzia, sezione "Financial figures" (http://www.unhcr.org/pages/49c3646c1a.html)
[48] Informazioni tratte dal sito web www.unhcr.it
[49] Si tenga conto che nel campo dell'assistenza alle persone costrette alla fuga da guerre e persecuzioni opera, oltre allo UNHCR, anche lo UNRWA e, per le crisi umanitarie, una serie di "agenzie sorelle" riconducibili all'ONU.
[50] Per dati aggiornati in maniera dinamica, si rinvia alla apposita pagina della Agenzia (http://popstats.unhcr.org/en/overview).
[54] Nota n. 67, pubblicata nel settembre 2016, nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.
[55] “Transforming our world: the 2030 Agenda for
Sustainable Development”:
https://sustainabledevelopment.un.org/post2015/transformingourworld.
[56] Inter-Agency and Expert Group on SDG
Indicators (IAEG-SDGs) (2016), Annex IV
of the Report of the Inter-agency and Expert Group on Sustainable Development
Goal Indicators (E/CN.3/2016/2/Rev.1), New York, marzo: http://unstats.un.org/unsd/statcom/47th-session/documents/2016-2-IAEG-SDGs-Rev1-E.pdf.
[57] M. Cassidy (2014), Assessing Gaps in Indicator Availability and Coverage, SDSN Working
Paper. New York.
[58] UN (2016), The
Sustainable Development Goals Report 2016, New York, giugno.
[59] La raccolta di dati relativi agli SDG su base nazionale è disponibile presso la banca dati curata dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, consultabile su Internet: http://unstats.un.org/sdgs. I dati aggregati a livello regionale cui fa riferimento il Rapporto 2016 delle Nazioni Unite sono contenuti in un documento statistico allegato: UN-ECOSOC (2016), Statistical Annex: Global and regional data for Sustainable Development Goal indicators, E/2016/75, New York, luglio.
[60] Un recente studio propone,
seppure in forma molto provvisoria, un tentativo di comprensione delle diverse
interazioni tra i vari SDG, espresse in termini di una scala ordinale di 7
punti (da -3 se l’interazione è altamente negativa a +3 se è molto positiva):
M. Nilsson, D. Griggs, M. Visbeck, C. Ringler (2016), A draft framework for understanding SDG interactions, International
Council for Science, Parigi, giugno. Un altro tentativo si trova in: A. Coopman
et al. (2016), Seeing the whole. Implementing the SDGs in
an integrated and Coherent Way, Stakeholder Forum for a Sustainable Future.
[61] Dall’11 al 20 luglio 2016 presso la sede delle Nazioni Unite a New York, l’HLPF ha tenuto alcune sessioni di lavoro, ospitando tra l’altro l’SDG Business Forum che ha affrontato il tema degli impegni del settore privato e della loro misurazione.
[62] UN General Assembly (2016), Follow-up and review of the 2030 Agenda for
Sustainable Development at the global level, A/70/L.60, New York, 26
luglio.
[63] J. C. Enders, M. Remig (a cura di) (2015), Theories of Sustainable Development,
Routledge, Londra.
[64] Autorevole rappresentante del nucleo della macroeconomia moderna o nuovo consenso liberista (mainstream), autore di importanti saggi, a partire dai lavori congiunti di inizio anni Novanta con Stanley Fisher (a sua volta capo economista del Fondo monetario internazionale in quegli anni) fino alla nuova edizione appena uscita del suo manuale di macroeconomia: O. Blanchard (2017), Macroeconomics, 7a ed., Pearson, Boston.
[65] Nel caso dell’UE è la
sfida che interessa la nuova strategia globale di politica estera e di
sicurezza. Si veda: M. Gavas
et al. (2016), The European Union’s
Global Strategy: putting sustainable development at the heart of EU external
action, European Think Tanks Group, Bruxelles, gennaio.
[66] J. Sachs, G. Schmidt-Traub, D. Durand-Delacre
(2016), Preliminary Sustainable
Development Goal (SDG) Index and Dashboard, SDSN, New York, 15 febbraio.
[67] Parlamento Europeo (2016), Follow-up and state of play of the Agenda
2030 and Sustainable Development Goals, P8_TA-PROV(2016)0224, 12 maggio.
[68] OCSE (2016), Measuring distance to the SDGs targets. A pilot assessment of where
OECD countries stand, Parigi, luglio.
[69] Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo
e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti
nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due risoluzioni contenenti,
rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per
attuare
[70] Dal sito dell'organizzazione: http://soufangroup.com/about/ (informazioni reperite il 14 settembre 2016), e fonti di stampa
[71] Nota n. 66, pubblicata nell’agosto 2016, nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.
[72] Gli accordi di Skhirat del Dicembre 2015, che dovevano porre fine al conflitto tra il Congresso Generale Nazionale e la Camera dei Rappresentanti, sorta in seguito alle contestate elezioni del 2014 e sfociata nella nascita dei due governi rivali di Tripoli e Tobruk, prevedono la ristrutturazione dell’impianto istituzionale libico e la riconciliazione dei due opposti parlamenti. Nello specifico, il documento patrocina la formazione di una autorità di transizione, il cosiddetto Governo di Unità Nazionale (GUN), e la nascita di un Consiglio di Presidenza, responsabile del potere esecutivo e della guida del governo, di una Camera dei Rappresentanti, depositaria del potere legislativo, e un Consiglio di Stato, con poteri di controllo e consultazione. Nel dettaglio, il Parlamento di Tobruk dovrebbe confluire nella nuova Camera dei Rappresentanti, quello di Tripoli diventare il Consiglio di Stato e il Consiglio di Presidenza includere i vertici dei due contendenti. Tuttavia, dopo la ratifica degli accordi in questione, il negoziato si è arenato, annaspando tra incontri e trattative poco produttive dovute all’assertività delle parti, sempre meno inclini a reciproche concessioni. Dopo mesi di stallo, con una manovra politica unilaterale, motivata dal tentativo di accelerare la stabilizzazione del Paese, le Nazioni Unite hanno riconosciuto come internazionalmente legittimo l’esecutivo radunato attorno alla figura di Fayez Serraj, sostenuto dal Parlamento di Tripoli, anche in assenza del voto di fiducia da parte di Tobruk. Dunque, il riconoscimento internazionale ha permesso a Serraj di definire il suo esecutivo quale GUN, anche se, tecnicamente, secondo gli accordi di Skhirat dovrebbe trattarsi del Consiglio Presidenziale. Nel testo, gli autori, per ragione di opportunità, utilizzano il termine Consiglio Presidenziale quale sinonimo di governo / parlamento di Tripoli.
[73] Si veda, tra gli altri, E. Solomon, G. Dyer, US and Russian officials locked in impasse over Assad's fate, in Financial Times, 5 maggio 2016.
[74] Un nodo cruciale è quello del voto ai rifugiati siriani.
[75] Al-Nusra è nata come emanazione siriana di al-Qaeda; è autoctona, posizionata in territori nei quali la sua presenza è molto intrecciata a quella di forze dell'opposizione siriana. È qualificata come organizzazione terroristica dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Si ritiene che riceva finanziamenti da Qatar, Arabia Saudita e Turchia.
[76] Vedi anche intervento del Ministro Gentiloni al question time del 28 aprile in Assemblea del Senato.
[77] Di fronte all’iniziativa turca, gli Stati Uniti, che sostengono le milizie curde, hanno da un lato esercitato una forma di pressione sulle milizie curde dell' YPG, chiedendo di ripiegare a est dell’Eufrate in vista della futura offensiva finale nei confronti di Raqqa, mentre dall’altro hanno cercato di indurre la Turchia, alleato NATO, ad una tregua.
[78] Tra gli altri, Charles Lister, Senior analist al Middle East Institute, come riportato da numerose agenzie e da Al Jazeera News.
[79] R. Aliboni, Siria: punti chiave della fragile intesa, in Affari Internazionali on line, 12 settembre 2016.
[80] P. Valentino, Siria: i dubbi del Pentagono; la fragilità di un accordo, in Corriere della Sera, 11 settembre 2016.