Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Partecipazione alla LXXI Assemblea generale delle Nazioni Unite - (New York, 19-25 settembre 2016)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 252
Data: 16/09/2016
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari

 

           

 

 

 

 

 

 

 

I princcosti

 

XVII legislatura

 

 

 

Partecipazione alla LXXI

Assemblea generale delle Nazioni Unite

(New York, 19-25 settembre 2016)

 

                                                     

settembre 2016

 

 

Senato della Repubblica

n. 19

 

 

Camera dei deputati

n. 252

 

 

 

 

 

 

 

Servizi responsabili:

 

Camera dei deputati

Servizio Studi – Dipartimento Affari esteri

( 066760-4939 - * st_affari_esteri@camera.it

Documentazione e ricerche n. 252

 

Senato della Repubblica

Servizio Affari internazionali

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Dossier n. 19

 

Servizio Studi

Ufficio Ricerche nel settore della politica estera e della difesa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 ES0520

 

 

 

I N D I C E

 

 

FOCUS TEMATICI

L’elezione del IX Segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite di Annalisa Perteghella, Research Fellow (ISPI). 3

L’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Recenti sviluppi  (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato). 14

Il processo di attuazione della risoluzione 1325 (2000) dell’Onu su donne, pace e sicurezza (a cura del Servizio Studi della Camera). 16

Le migrazioni nella regione del migration compact (a cura del Centro Studi Politica internazionale – CESPI). 24

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar): un modello italiano di accoglienza (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato). 48

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato). 53

L’UNHCR per le donne rifugiate (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)  60

L’avvio dell’Agenda 2030 sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile di Marco Zupi del Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI). 63

L’attività del Comitato permanente sull’attuazione dell’Agenda 2030 e gli obiettivi di sviluppo sostenibile (a cura del Servizio Studi della Camera dei Deputati). 76

La creazione di una task force internazionale per la tutela del patrimonio culturale dell’umanità  (a cura del Servizio Studi della Camera). 80

La cooperazione parlamentare nell’ambito delle Nazioni Unite (a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera). 84

Priorità dell’UE nel contesto delle Nazioni Unite e della LXXI Assemblea generale delle Nazioni Unite (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera). 90

Il Soufan Group (TSG) (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato). 95

APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI

La crisi libica: cronologia degli ultimi avvenimenti (a cura del Servizio Studi della Camera)  98

I recenti sviluppi della guerra civile libica. 119

e del conflitto siriano di Stefania Azzolina e Marco Di Liddo del Centro Studi Internazionali (CeSI). 119

Siria. L’intesa Kerry-Lavrov: solo un’altra tregua o l’inizio della svolta? (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato). 126

SCHEDE PAESE

PROFILI BIOGRAFICI

CHRIS COONS Senatore dello Stato del Delaware  (a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera). 137

MARTIN KOBLER Rappresentante speciale delle nazioni unite in libia e capo della missione di supporto delle nazioni unite  (a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)  138

KONSTANTIN KOSATCHEV Presidente del Comitato per gli Affari esteri del Consiglio della Federazione russa  (a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera). 139

VU QUANG MINH Assistente del Ministro degli affari esteri del Vietnam  (a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera). 141

Amb. PETER THOMSON Presidente della LXXI Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite  (a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera). 142

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FOCUS TEMATICI

 


 

L’elezione del IX Segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite
di Annalisa Perteghella, Research Fellow (ISPI)[1]

 

Tra resistenza e riforma: il processo di selezione del Segretario Generale

La selezione del Segretario Generale è regolata dall’art. 97 dello Statuto delle Nazioni Unite, che stabilisce che “Il Segretario Generale è nominato dall’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza”. Tale atto dell’Assemblea Generale rientra tra quelle che l’art.18 dello Statuto definisce “altre decisioni”, distinte dalle “decisioni importanti”; pertanto, tale decisione richiede una maggioranza semplice dei membri presenti e votanti[2]. In sede di Consiglio di Sicurezza, invece, la decisione necessita del voto favorevole di nove membri, “nel quale siano compresi i voti dei membri permanenti” (art.27.3). Il candidato al ruolo di Segretario Generale deve pertanto riscontrare il favore dei cinque paesi che siedono in maniera permanente nel Consiglio di sicurezza e che godono di diritto di veto sulle decisioni dello stesso: Francia, Cina, Regno Unito, Russia, Stati Uniti.

Il processo di selezione del Segretario Generale è ulteriormente regolamentato dalla Risoluzione 11/I dell’Assemblea, adottata nel 1946, nella quale si riconosce di fatto la preminenza del Consiglio di sicurezza: si definisce “desiderabile” il fatto che il Consiglio fornisca all’Assemblea un solo nome, rendendo dunque il suo operato una mera ratifica, e si auspica che in sede di Assemblea si eviti di dibattere della nomina. A questo scopo, si raccomanda che tanto la discussione quanto la nomina effettiva avvengano in incontri privati e che la stessa votazione avvenga a scrutinio segreto[3].

Nella stessa risoluzione viene definita la durata del mandato del Segretario Generale, cinque anni, rinnovabile per ulteriori cinque anni, con la possibilità per Consiglio e Assemblea di decidere diversamente qualora se ne presenti l’esigenza.

La preminenza del Consiglio e la prassi da parte di quest’ultimo di fornire all’Assemblea un solo candidato per la mera ratifica non è mai stata messa in discussione tranne che in un’occasione, nel 1950. In quell’occasione, l’impossibilità di ricomporre il disaccordo tra Unione Sovietica e Stati Uniti circa il rinnovo del mandato del norvegese Trygve Lie portò il Consiglio all’impasse; l’Assemblea decise dunque in maniera autonoma di estenderne il mandato, per evitare l’interruzione dei lavori dell’intera Organizzazione delle Nazioni Unite[4].

Al di là di quel caso, l’Assemblea non ha mai dato segnali di voler rigettare un candidato proposto dal Consiglio di Sicurezza. Al contrario, la prassi che si è affermata fin dall’inizio è quella della “lotta” in Consiglio tra i paesi che ne sono membri permanenti, e che hanno spesso fatto uso del loro diritto di veto durante scrutini segreti per opporsi alla nomina di candidati non graditi. Si è dunque affermata la convinzione che l’elezione del Segretario Generale delle Nazioni Unite sia prerogativa dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Un’innovazione nel processo di nomina del Segretario Generale è intervenuta nel 1996, quando gli Stati Uniti comunicarono che avrebbero posto il veto alla rielezione di Boutros Boutros-Ghali. Per evitare di far cadere il processo in una nuova impasse, il presidente del Consiglio di Sicurezza propose l’introduzione di alcune linee guida (linee guida Wisnumurti), che vennero adottate il 12 novembre 1996[5]. Esse introdussero il principio per il quale membri permanenti e membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza avrebbero utilizzato schede di colore diverso durante gli scrutini, così come il fatto che le candidature al ruolo di Segretario Generale avrebbero dovuto essere ufficialmente presentate dagli stati di provenienza dei candidati. L’introduzione di queste linee guida permise di dirimere la controversia in Consiglio: a seguito del veto formale degli Stati Uniti, il Consiglio propose un nuovo candidato, il ghanese Kofi Annan, che venne approvato all’unanimità dall’Assemblea[6].

Il caso apertosi nel 1996 spinse però l’Assemblea a prendere coscienza delle numerose limitazioni di cui soffre il processo di elezione del Segretario Generale, e a promuovere un processo di riforma che andasse nella direzione di una maggiore trasparenza e di una ripartizione di poteri più equilibrata tra Assemblea e Consiglio. Nel 1997 l’Assemblea adottò dunque la Risoluzione 51/241, che avallava il rapporto del gruppo di lavoro sul rafforzamento del sistema Onu, e che invitava l’Assemblea a fare pieno uso del potere di nomina del Segretario Generale conferitole dallo Statuto delle Nazioni Unite[7]. La Risoluzione, inoltre, introduceva il principio della rotazione per aree geografiche e dell’equilibrio di genere[8]. I due principi, entrambi non vincolanti, hanno avuto diversa fortuna: mentre il primo è stato finora sempre rispettato, il secondo non è stato ancora accolto. Dal 1946 a oggi, a esprimere un Segretario Generale sono stati i gruppi Europa occidentale e altri (Trygve Lie, Dag Hammarskjöld), Asia-Pacifico (U Thant), ancora Europa occidentale e altri (Kurt Waldheim), America Latina e Caraibi (Javier Pérez de Cuéllar), Africa (Boutros Boutros-Ghali, Kofi Annan), ancora Asia-Pacifico (Ban Ki Moon). A non essere mai stato rappresentato è il blocco dei paesi dell’Europa orientale, così come grandi assenti finora sono state le donne[9].

Un ulteriore sforzo nella direzione di una maggiore trasparenza nel processo di selezione del Segretario Generale si è avuto a partire dal 2015, sulla spinta di alcuni paesi (Spagna, Cile, Venezuela, Regno Unito), di Ong e di associazioni della società civile (1 for 7 Billion Campaign e The Elders). Al processo sono stati aggiunti alcuni elementi di riforma, contenuti nella Risoluzione 69/321 dell’11 settembre 2015, che rendono l’elezione di quest’anno in un certo senso unica[10]. Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, i candidati al ruolo di Segretario Generale sono appoggiati e presentati in maniera ufficiale dagli stati di provenienza e sono invitati a redigere e presentare un documento (“Vision Statement”) che delinei la visione del candidato per la futura evoluzione dell’Organizzazione e a partecipare a incontri informali di dialogo con l’Assemblea Generale in modo tale da condividere la propria visione circa il futuro sviluppo delle Nazioni Unite.

Come parte di uno sforzo ulteriore di ribilanciamento dei poteri in favore dell’Assemblea, e dunque di una maggiore emancipazione dalle logiche politiche del Consiglio di Sicurezza in favore di una maggiore trasparenza del processo e professionalità della persona chiamata a ricoprire il ruolo di Segretario Generale, la Risoluzione 69/321 introduce il principio secondo il quale i candidati devono dimostrare di possedere “comprovate abilità manageriali e di leadership, ampia esperienza nel settore delle relazioni internazionali, e doti diplomatiche e comunicative”, oltre a ribadire il principio dell’equa ripartizione territoriale e della parità di genere.

 

I candidati nel 2016: quale visione per il futuro delle Nazioni Unite?

Il nuovo processo di nomina ufficiale dei candidati da parte degli stati membri dell’Organizzazione ha portato alla presentazione di dodici candidature, tra le quali si registra una preponderanza di paesi dell’Europa orientale (8 su 12) e un numero elevato di candidature femminili (6 su 12). Al 13 settembre, i candidati ancora in lizza per la posizione di Segretario Generale sono nove[11]. Di seguito verrà presentato brevemente il profilo di ciascuno, con particolare enfasi sulla visione relativa allo sviluppo futuro delle Nazioni Unite contenuta nei documenti programmatici redatti da ciascuno.

·           Irina Bokova (Bulgaria), attuale Direttrice dell’Unesco. Irina Bokova ha presentato all’Assemblea Generale un documento programmatico dal titolo “Peace, Sustainability and Dignity – the new humanism for the world today”. Come si evince dal titolo del documento, le tre parole chiave sulle quali Bokova ha tarato la propria candidatura sono “pace”, “sostenibilità” e “dignità”. Bokova individua nella questione dei rifugiati, nel persistere di fame, persecuzione e discriminazione, nella violenza estremista e nel cambiamento climatico alcune fra le principali minacce alla pace e alla sicurezza internazionali, di fronte alle quali si avverte il bisogno, secondo Bokova, di “più Nazioni Unite”, vale a dire di un’organizzazione che giochi un ruolo più forte e incisivo. Citando la propria esperienza di Direttrice generale dell’Unesco, Bokova afferma di credere nell’istruzione, nella  tutela del patrimonio artistico e culturale, nella difesa dei diritti umani e della parità di genere quali strumenti prioritari per la prevenzione dei conflitti. “Prevenzione” è un’ulteriore parola chiave: Bokova auspica infatti un rafforzamento della capacità di prevenzione dei conflitti da parte delle Nazioni Unite; ciò si traduce in un maggiore investimento nelle attività diplomatiche e in una revisione delle attività di peacekeeping. Bokova pone poi un forte accento sul tema dello sviluppo sostenibile, dichiarando che, se eletta, agirebbe allo scopo di portare il sistema Onu ad accompagnare i paesi membri verso la realizzazione degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, rivolgendo particolare attenzione alle Least Developed Countries, ai Small Island Developing States, più vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico, e alle Middle Income Countries, che necessitano di assistenza al fine di ridurre le disuguaglianze interne. Infine, per quanto riguarda lo sviluppo organizzativo del sistema Onu, Bokova afferma di appoggiare la Risoluzione 69/321 del 2015, che invoca una rivitalizzazione dell’operato dell’Assemblea Generale, e si dichiara pronta ad agire per rendere il sistema Onu più “trasparente e vicino alle persone”, obiettivo da raggiungere attraverso una “razionalizzazione delle risorse e dei processi”.

·           Helen Clark (Nuova Zelanda), ex Primo Ministro della Nuova Zelanda (1999-2008) e attuale direttrice dello UN Development Programme (Undp). Il documento presentato da Hellen Clark si intitola “A better, fairer, safer world”. Partendo dal riconoscimento del fatto che la capacità delle Nazioni Unite di rispondere in maniera adeguata alle crisi è oggi messa duramente alla prova, Clark delinea la propria visione per il futuro dell’organizzazione, un’organizzazione che sia in grado di fare fronte alle principali minacce globali odierne, quali terrorismo, guerre civili, crisi dei rifugiati, proliferazione nucleare, mancanza di opportunità economiche e conseguente difficoltà di garantire uno sviluppo sostenibile. Secondo Clark, le priorità per l’agenda delle Nazioni Unite sono: mettere fine alla povertà e raggiungere una crescita inclusiva e sostenibile; proteggere l’ambiente e aumentare la resilienza agli eventi climatici estremi; garantire la parità di genere e l’empowerment femminile; creare opportunità per i giovani; assicurare l’imparzialità e l’integrità del sistema Onu. Come dare esecuzione a queste priorità? Clark auspica un sistema Onu che si focalizzi sui risultati, anziché sui processi, che si impegni al fine di garantire reale trasparenza al proprio operato e rispetto a ciò che è in grado o non è in grado di fare, e che investa nelle persone ai fini della valorizzazione del talento e del capitale umano. Come Bokova, anche Clark pone l’accento sulla necessità per le Nazioni Unite di agire in maniera più rapida di fronte alle crisi, lavorando dunque sulle proprie capacità di crisis management al fine di proporsi come un partner affidabile per gli stati membri.

·           Natalia Gherman (Moldova), Vice-Primo Ministro e Ministro per l’Integrazione Europea della Moldova (2013-2016). Il documento programmatico redatto da Natalia Gherman pone l’accento sulla necessità per le Nazioni Unite di dare esecuzione, nel prossimo futuro, agli accordi recentemente raggiunti tra gli stati membri: l’Agenda 2030, l’Accordo di Parigi sul clima e l’Agenda di Addis Abeba per lo sviluppo. Gherman elenca poi i settori nei quali dovrebbe concentrarsi l’azione del prossimo Segretario, che sono quello tradizionali di pace e sicurezza, sviluppo sostenibile, diritti umani. Anche il documento di Gherman si distingue per una forte enfasi sulla necessità che l’Onu torni a svolgere un’azione preventiva nei confronti delle grandi crisi del nostro tempo. Infine, anche Gherman delinea un piano di gestione dell’Organizzazione secondo principi di razionalità, efficienza e equità.

·           António Guterres (Portogallo), ex Primo Ministro del Portogallo (1995-2002), ex Alto Commissario Onu per i rifugiati (2005-2015). Dal documento di António Guterres, “Challenges and Opportunities for the United Nations”, emerge la visione di un’Organizzazione che sia in grado di far fronte, con un approccio olistico, alle sfide che riguardano i tre pilastri – pace e sicurezza, sviluppo sostenibile, diritti umani. Il documento di Guterres si distingue per una forte enfasi sulla dimensione umanitaria; il passato di Guterres come Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati emerge dall’appello a far sì che le politiche di sviluppo tengano maggiormente in considerazione la grave crisi migratoria attuale. Gli attori che agiscono nei settori umanitario e dello sviluppo rivestono poi grande importanza, secondo Guterres, nelle attività di prevenzione delle crisi; infine, Guterres afferma che tra i principali destinatari del supporto Onu vi debbano essere proprio gli stati che si caratterizzano per essere i maggiori paesi di destinazione dei rifugiati, che vengono identificati come pilastri della stabilità regionale e prima linea di difesa per la sicurezza collettiva. Guterres, infine, auspica il rafforzamento della partnership tra Onu e tre gruppi di attori: in primo luogo le organizzazioni regionali, in secondo luogo le istituzioni finanziarie internazionali; infine, la società civile e il settore privato. Nella parte dedicata allo sviluppo organizzativo dell’Organizzazione, Guterres afferma di voler dare piena applicazione ai principi, finora rimasti largamente inapplicati, della ripartizione regionale e della parità di genere, affidando gli incarichi di Inviati e Rappresentanti speciali proprio secondo questi criteri.

·           Vuk Jeremić (Serbia), ex Ministro degli Affari Esteri (2007-2012), ex Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (2012-2013). Vuk Jeremić presenta un programma organizzato in cinque capitoli, che corrispondono alle priorità su cui agire per lo sviluppo futuro dell’Organizzazione: sviluppo sostenibile, cambiamento climatico, prevenzione dei conflitti e operazioni di pace, diritti umani e rivitalizzazione del sistema Onu. Nel programma compare più volte il riferimento al fatto che il Segretario Generale dovrà svolgere un’azione propulsiva per lo sviluppo delle priorità individuate, ma lo farà solo previa consultazione e approvazione del Consiglio di Sicurezza; la prassi è comune e prevista dallo Statuto Onu, però il fatto che il candidato lo espliciti chiaramente nel suo programma è indicativo della volontà di mandare un segnale conciliante agli stati membri del Consiglio. Dal punto di vista strettamente organizzativo, anche Jeremić riconosce come priorità il raggiungimento della parità di genere, e promette dunque, se eletto, di assegnare a figure femminili il 50% delle posizioni di sottosegretario.

·           Srgjan Kerim (Macedonia), economista e diplomatico, ex Ministro degli Affari Esteri (2000-2001) e Presidente della 62a sessione dell’Assemblea Generale Onu (2007-2008). “New Horizons Manifesto” è il titolo del programma presentato dal macedone Srgjan Kerim. Un programma estremamente articolato, nel quale Kerim dimostra di avere profonda conoscenza delle dinamiche in atto nell’Organizzazione. Il programma si differenzia da quelli degli altri candidati per il fatto che Kerim pone in cima all’agenda delle priorità proprio la riforma dell’intero sistema Onu, indispensabile per raggiungere obiettivi ambiziosi negli altri settori. Oltre allo sviluppo delle priorità “tradizionali” (pace e sicurezza, sviluppo sostenibile e diritti umani), Kemer indica tra i campi d’azione prioritari la crisi legata al fenomeno migratorio. Gli strumenti indicati per il raggiungimento degli obiettivi delineati sono il multilateralismo, l’instaurazione di partnership, il rafforzamento della diplomazia preventiva.

·           Miroslav Lajčák (Repubblica Slovacca), ex Alto Rappresentante per la Bosnia ed Herzegovina (2007-2009), Ministro degli Affari Esteri (2009-2010 e dal 2012 a oggi). “Responsibility, Accountability and Leadership” sono le tre parole chiave che danno il titolo al documento presentato da Miroslav Lajčák. Ribadendo la sua fiducia nell’Organizzazione delle Nazioni Unite e nell’importanza di quest’ultima nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali e nell’assicurare lo sviluppo sostenibile e il rispetto dei diritti umani, Lajčák invoca la necessità di un maggior dinamismo e una maggiore capacità di risposta alle crisi e delinea una serie di priorità che a suo parere dovrebbero orientare l’azione del Segretario Generale. Tra queste, il rafforzamento dell’azione di early warning da lui svolta. Come ricorda Lajčák, infatti, l’unico ruolo “politico” assegnato al Segretario Generale è quello di portare all’attenzione dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza le potenziali minacce alla pace e alla sicurezza internazionali. Tale meccanismo di early warning riveste un’importanza fondamentale nell’azione di prevenzione dei conflitti, sebbene nella storia non sia stato molto utilizzato. Anche Lajčák, dunque, pone forte enfasi sulla desiderabilità dell’azione e della diplomazia preventiva.

·           Susana Malcorra (Argentina), Sottosegretario dello United Nations for Field Support (2008-2012), Capo di gabinetto del Segretariato delle Nazioni Unite (2012-2015), attuale Ministro degli Affari Esteri (dal 2015). Il documento di Susana Malcorra si intitola “A United Nations centred on people, planet and prosperity; driven by issues; and focused on delivering impact”. Il titolo contiene di fatto l’intero programma: Malcorra auspica un rinnovamento dell’Organizzazione nel senso di un maggior dinamismo, indispensabile per fare fronte alle crisi attuali, che Malcorra individua nel cambiamento climatico, nella crisi dei rifugiati, nello scoppio di pandemie, nella violenza estremista e nel conflitto armato. Di fronte a tali minacce alla pace e alla sicurezza internazionali, Malcorra invoca l’elezione di un Segretario Generale dotato delle abilità diplomatiche e dell’’acume politico tali da essere in grado di agire da intermediario tra gli stati membri per la risoluzione delle crisi. Allo stesso modo, il Segretario Generale deve poter lavorare insieme agli stati membri non solo alla risoluzione ma anche e soprattutto alla prevenzione delle crisi.

·           Danilo Türk (Slovenia), ex Presidente della Slovenia (2007-2012), ex Ambasciatore alle Nazioni Unite (1992-2000). L’ex Presidente sloveno struttura la propria visione per il futuro delle Nazioni Unite attorno alla necessità per l’Organizzazione di sviluppare tre partnership indispensabili per lo sviluppo del proprio operato. In primo luogo, Türk ribadisce l’inviolabilità e la preminenza del principio di sovranità e auspica pertanto che il Segretario Generale sia pronto a lavorare insieme agli stati membri, ma anche a riconoscerne l’importanza fondamentale. In secondo luogo, Türk afferma la necessità di lavorare di concerto con le organizzazioni regionali, che sono divenute nel tempo parte integrante del sistema internazionale e un partner fondamentale per le Nazioni Unite. Infine, si delinea la necessità di interfacciarsi con membri della società civile, settore privato e accademia, nell’ottica dello sviluppo della diplomazia multilaterale.

Un processo politico: quali le sensibilità e le convergenze attuali?

Si è visto come, su dodici candidature, otto provengano da paesi appartenenti al blocco dell’Europa orientale e sei siano femminili. Si è visto anche come il processo di selezione, nonostante i diversi tentativi di riforma nel senso di una maggiore trasparenza e di un maggior trasferimento di poteri all’Assemblea Generale, rimanga un processo nei fatti essenzialmente politico e appannaggio dei paesi che siedono in maniera permanente nel Consiglio di Sicurezza. A seguito di queste considerazioni, è utile pertanto indagare quali siano gli equilibri di potere all’interno del Consiglio e in quale modo le relazioni tra gli stati potranno influire sulla scelta del prossimo Segretario Generale.

A questo scopo, un utile strumento è rappresentato dall’osservazione dei risultati degli straw polls.  Il Consiglio di Sicurezza tiene diversi round di straw polls: sono votazioni “di prova”, che avvengono a scrutinio segreto e che servono a comprendere l’orientamento degli stati membri. Ciascuno stato può esprimere un’opinione favorevole, sfavorevole o neutra nei confronti di ciascuna candidatura; i voti dei membri permanenti non sono distinti da quelli dei membri non permanenti (a meno che non si decida esplicitamente di utilizzare schede di colore diverso per membri permanenti/non permanenti) e non sono vincolanti: uno stato membro può esprimere indifferenza per un candidato ma porre poi il veto in sede di votazione vera e propria, così come può esprimere opinione sfavorevole nei confronti di un candidato allo scopo di acquisire leva politica nei confronti dei paesi sponsor di quel candidato.

Al 13 settembre, si sono tenuti quattro round di straw polls. In tutti e quattro gli scrutini, il candidato che ha ottenuto il maggior numero di opinioni favorevoli è stato António Guterres, la cui candidatura ha avuto un trend piuttosto stabile: nel primo straw poll (21 luglio), il portoghese ha raccolto 12 pareri favorevoli, 0 sfavorevoli, 3 neutrali; negli scrutini successivi sono pervenuti pareri sfavorevoli, ma il numero dei pareri favorevoli si è mantenuto elevato. Nel tempo sembra poi essere cresciuto il supporto per lo slovacco Miroslav Lajčák, mentre sembra essere destinata a sfumare l’ipotesi Irina Bokova, data inizialmente per favorita in quanto donna e proveniente da un paese dell’Europa dell’est.


I risultati dei primi quattro round di straw poll

(F=opinione favorevole; S=opinione sfavorevole; N=opinione neutra)

 

21 luglio

5 agosto

29 agosto

9 settembre

F

S

N

F

S

N

F

S

N

F

S

N

António Guterres

12

0

3

11

2

2

11

3

1

12

2

1

Miroslav Lajčák

7

3

5

2

6

7

9

5

1

10

4

1

Vuk Jeremić

9

5

1

8

4

3

7

5

3

9

4

2

Srgjan Kerim

9

5

1

6

7

2

6

7

2

8

7

0

Irina Bokova

9

4

2

7

7

1

7

5

3

7

5

3

Susana Malcorra

7

4

4

8

6

1

7

7

1

7

7

1

Danilo Türk

11

2

2

7

5

3

5

6

4

7

6

2

Helen Clark

8

5

2

6

8

1

6

8

1

6

7

2

Christiana Figueres*

5

5

5

5

8

2

2

12

1

5

10

0

Natalia Gherman

4

4

7

3

10

2

2

12

1

3

11

1

Igor Lukšić*

3

7

5

2

9

4

 

Vesna Pusić*

2

11

2

 

*Ritirati

Fonte: Organizzazione delle Nazioni Unite

Come interpretare questi risultati? Innanzitutto, nonostante sia di fatto in testa a questa speciale classifica, António Guterres non è automaticamente il vincitore. Si è detto come gli straw polls siano uno strumento sofisticato, atto a “filtrare” i candidati in modo tale che i più deboli abbandonino la competizione e al tempo stesso utile a comprendere gli orientamenti dei paesi dotati di maggiore peso politico, vale a dire i cinque membri permanenti del Consiglio. Questi orientamenti non possono esulare da regole tacite ma oramai assodate.

Considerando la natura prettamente politica della nomina, è lecito aspettarsi che gli stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza vedano con maggior favore un Segretario Generale potenzialmente allineato con i propri interessi geopolitici. Secondo questa osservazione, Russia e Cina potrebbero non essere a favore dell’elezione di António Guterres, dal momento che la provenienza di quest’ultimo da un paese appartenente al blocco europeo-occidentale e membro della Nato, nonché il suo passato nel settore umanitario, lo renderebbero un candidato non di prima scelta; tuttavia, il fatto che Guterres non abbia ricevuto voti di “scoraggiamento” nel primo round di straw polls lascia supporre che Russia e Cina siano pronte a negoziare per appoggiare la candidatura del portoghese, che ha del resto ottenuto l’appoggio ufficiale di un altro membro permanente del Consiglio, la Francia. La Russia, dal canto proprio, preferirebbe con ogni probabilità un candidato proveniente dal blocco dei paesi dell’Europa orientale, come Jeremić (Serbia) o Bokova (Bulgaria), mentre candidati provenienti da paesi che hanno contenziosi aperti con Mosca, come Gherman (Moldova) e Lukšić (Montenegro), potrebbero venire penalizzati. Con ogni probabilità, tuttavia, Jeremić è destinato a incontrare l’opposizione e dunque il veto degli Stati Uniti. Il serbo è infatti noto per la sua opposizione all’indipendenza del Kosovo ed è considerato ostile ai paesi del blocco Nato. Allo stesso modo, alcuni commentatori ipotizzano che il Regno Unito possa non gradire l’elezione eventuale di Malcorra (Argentina), per via del contenzioso aperto tra Londra e Montevideo sulle isole Falkland/Malvinas. Malcorra, tuttavia, sembra essere la candidata favorita dagli Stati Uniti[12]. L’appoggio di Washington deriva in parte dal fatto che l’amministrazione Obama preme per l’elezione di una donna in vista delle elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre, nelle quali il candidato democratico è per la prima volta una donna, Hillary Clinton.

La Cina sembra mantenere un basso profilo, sebbene alcuni addetti ai lavori riportino che potrebbe offrire il proprio appoggio in cambio dell’assegnazione a un cittadino cinese della guida delle operazioni di peacekeeping. Francia e Regno Unito non sembrano godere di peso politico e autonomia decisionale tali da poter porre il veto su un candidato su cui convergono le altre potenze, Stati Uniti, Russia e Cina. Quella di quest’anno, sotto ogni apparenza, sembra dunque essere una riedizione del confronto tra Stati Uniti e Russia, già in atto in altre sedi diplomatiche ed emblematico di un braccio di ferro in corso su più ampia scala su diversi scenari geopolitici, da quello siriano a quello ucraino. Dunque, con ogni probabilità nessuno dei due paesi acconsentirà all’elezione di un candidato portatore di una visione netta a favore delle posizioni dell’avversario.

Alla luce delle dinamiche geopolitiche sopra delineate, risulta evidente come i giochi siano quanto mai aperti per i tutti i candidati ai vertici della classifica risultante dai primi quattro round di straw polls: Jeremić dovrebbe superare il veto Usa, Malcorra dovrebbe ottenere il favore russo nonostante il fatto che si tratti della favorita del principale rivale di Mosca, Guterres dovrebbe portare Mosca a rinunciare al proprio desiderio che il prossimo Segretario Generale provenga da un paese dell’Europa dell’Est, e Washington a rinunciare al proprio desiderio che a essere eletta sia per la prima volta una donna.

 

 

Conclusione

Il processo di selezione del Segretario Generale delle Nazioni Unite ha subito diverse evoluzioni, risultato di numerosi tentativi di riforma. L’elezione di quest’anno sembra essere la più trasparente e competitiva nella storia delle Nazioni Unite. Tuttavia, i diversi tentativi di riforma non hanno intaccato la regola principale che governa l’elezione della massima carica della maggiore organizzazione internazionale: è necessario l’accordo, o il non disaccordo, dei cinque paesi che siedono in maniera permanente in Consiglio di Sicurezza. Da ciò consegue il fatto che spesso il candidato più forte – e che in conclusione viene eletto – è quello che viene percepito come la minore minaccia agli interessi dei cinque, anziché quello su cui converge il parere favorevole della maggioranza dei paesi che siedono nell’Assemblea Generale.

Del resto, tale è il principio che governa l’intero sistema delle Nazioni Unite fin dalla sua fondazione: il Segretario Generale deve essere, in ultima analisi, una persona con cui tutti i paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza possano lavorare: ciò rappresenta tanto una forza quanto una debolezza, ma sembra essere ancora oggi l’unico modo in cui le Nazioni Unite possano continuare a operare.

 

 

 

 


 

L’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Recenti sviluppi
(
a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

 

La Conferenza Cop 21 si è conclusa il 12 dicembre 2015 con l’adozione per consenso da parte dei 195 paesi presenti nell’Assemblea plenaria dell’Accordo di Parigi. L’Accordo, che è universale e legalmente vincolante, definisce un nuovo piano di azione globale per evitare al pianeta un cambiamento climatico pericoloso. I principali obiettivi dell’Accordo sono i seguenti:

a)     Realizzare interventi di mitigazione delle emissioni al fine di contenere l’aumento della temperatura "bene al di sotto" dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, intensificando gli sforzi per contenerla entro 1,5 gradi.

b)     Smettere di incrementare le emissioni di gas serra il prima possibile e raggiungere nella seconda parte del secolo il momento in cui la produzione di nuovi gas serra sarà sufficientemente bassa da essere assorbita naturalmente.

c)      Aumentare la capacità di adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico e di rafforzare la resilienza climatica e lo sviluppo di un’economia a basse emissioni senza compromettere la produzione di cibo

d)     Controllare i progressi compiuti ogni cinque anni, tramite nuove Conferenze.

e)     Garantire flussi finanziari in grado di sostenere gli interventi di mitigazione e adattamento. I paesi industrializzati si sono impegnati ad alimentare un fondo annuo da 100 miliardi di dollari (a partire dal 2011)per il trasferimento di tecnologie pulite ai paesi in via di sviluppo.

L’architettura dell’accordo si basa sui piani di azione climatici nazionali volontari (Intended Nationally Determined Contributions - INDCs) che i paesi sono chiamati a predisporre. I governi hanno concordato di verificare gli obiettivi ogni 5 anni e di definirne di più ambiziosi in coerenza con lo sviluppo scientifico. E’ previsto che i paesi comunichino pubblicamente i loro obiettivi e che vi sia un efficace sistema di trasparenza e verificabilità a lungo termine.

Sul piano dell’adattamento i governi hanno inoltre concordato di rafforzare le azioni per fronteggiare gli impatti del cambiamento climatico e di fornire un supporto internazionale per l’adattamento nei paesi in via di sviluppo.

Al fine di raggiungere l’obiettivo del contenimento della temperatura a lungo termine i paesi si impegnano a raggiungere il picco globale delle emissioni di gas a effetto serra nel più breve tempo possibile, riconoscendo un tempo maggiore per i paesi in via di sviluppo. La principale novità rispetto al Protocollo di Kyoto del 1997, che prevedeva obblighi di riduzione solo per i paesi sviluppati, riguarda il coinvolgimento di tutti paesi aderenti che sono chiamati ad assumere impegni differenziati alla luce delle diverse situazioni nazionali.

L’accordo riconosce l’importanza di prevedere e fronteggiare le perdite e i danni (loss and damage) causati dal cambiamento climatico e di sviluppare nelle varie aree sistemi di allerta, emergenza e assicurazione.

Il 22 aprile 2016, con una cerimonia di Capi di stato e di governo presso la sede delle Nazioni Unite a New York, l’Accordo di Parigi è stato posto alla firma degli Stati. Al 7 settembre 2016 sono 180 gli Stati che hanno già firmato l’accordo, mentre 27 hanno già depositato lo strumento di ratifica, corrispondenti al 39,08% delle emissioni globali. L’Accordo entrerà in vigore quando la somma delle emissioni dei paesi firmatari e ratificanti supererà il 55% del totale.

Il 3 settembre 2016, alla vigilia del Vertice G20 di Hangzhou, Usa e Cina hanno annunciato di avere aderito formalmente all’accordo sul clima siglato a Parigi. Il Presidente statunitense Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping hanno anche consegnato simbolicamente a Ban Ki-moon, il segretario generale delle Nazioni Unite, i documenti relativi alla ratifica. Le due principali economie del mondo sono responsabili, insieme, di circa 40% delle emissioni globali, ragione per cui la ratifica congiunta fa compiere un deciso passo in avanti al processo di raggiungimento della soglia del 55% che determinerà l’entrata in vigore dell’Accordo.

In una nota congiunta il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti hanno espresso soddisfazione per la convergenza sino-americana e hanno annunciato la prossima presentazione della legge italiana di ratifica dell’Accordo. “La ratifica dell’accordo raggiunto alla Cop21 di Parigi da parte di Stati Uniti e Cina - si legge nella nota - segna un passaggio storico nell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici e verso la trasformazione in senso sostenibile del modello economico globale. Nella cornice dell’ambizioso impegno europeo, l’Italia è a lavoro per definire la sua legge di ratifica, con l’obiettivo di trasmetterla entro settembre alle Camere e di poter completare l’iter parlamentare nel più breve tempo possibile

La prossima Conferenza ONU sul clima (Cop 22) si svolgerà a Marrakech(Marocco) dal 7 al 18 novembre 2016 e sarà dedicata principalmente a definire una "road map" per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi.


 

Il processo di attuazione della risoluzione 1325 (2000) dell’Onu su donne, pace e sicurezza
(a cura del Servizio Studi della Camera)

La risoluzione 1325 (2000) e il Piano d’azione nazionale italiano

Il 31 ottobre 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione 1325 su donne, pace e sicurezza, primo documento del Consiglio che menziona esplicitamente l’impatto dei conflitti armati sulle donne e sottolinea il contributo femminile per la risoluzione dei conflitti e per la costruzione di una pace durevole.

La risoluzione, considerata “madre” di risoluzioni ONU successive dal contenuto più specifico (per le quali si veda più avanti), delinea un sistema ampio di obiettivi a garanzia della prevenzione, della partecipazione e protezione delle donne nei contesti di conflitto (paradigma delle 3”P”), focalizzando tre elementi:

1.        le donne ed i fanciulli rappresentano i gruppi più colpiti dai conflitti armati;

2.        le donne svolgono un ruolo imprescindibile sia nella prevenzione e risoluzione dei  conflitti, sia nelle attività di ricostruzione della pace;

3.        gli Stati membri dell’Onu sono invitati ad assicurare una più ampia partecipazione delle donne a tutti i livelli decisionali, con particolare riferimento ai meccanismi di prevenzione, gestione e risoluzione del conflitto.

Il principio ispiratore della risoluzione - la “tolleranza zero” rispetto a tali forme di violenza che violano le norme internazionali e costituiscono comportamenti di rilievo penale - si applica ai militari, alle parti in conflitto nonché al personale militare e civile dell’Onu responsabile di abusi sessuali nelle aree di conflitto.

A fronte dell’ampiezza del mandato della risoluzione 1325 e della mancanza di indicazioni precettive in ordine all’attuazione delle sue disposizioni, e mentre si continuavano a registrare numerosi casi di violenza sessuale nelle aree di conflitto armato e post conflitto, il Consiglio di Sicurezza ha previsto, nel Presidential Statement  del 28 ottobre 2004, la possibilità che gli Stati membri proseguissero sulla strada dell’attuazione della Risoluzione 1325 anche attraverso l’adozione di “National Action Plans”.

In Italia, in particolare, dopo l’adozione nel dicembre 2010 del primo Piano di Azione Nazionale 2010-2013, nel 2014 è stato adottato il secondo Piano Nazionale  dell’Italia su “Donne Pace e Sicurezza”, relativo al periodo 2014-2016, presentato presso il Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 26 novembre 2014. Il secondo Piano d’Azione rappresenta l’esito di un processo di aggiornamento svolto dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, CIDU, attraverso la costituzione di un Gruppo di Lavoro che ha operato in stretta collaborazione con la società civile, individuando le modalità di attuazione Risoluzione 1325(2000) e delle successive Risoluzioni sul tema.

Il Piano d’Azione Nazionale persegue l’obiettivo di assicurare l’inserimento della gender perspective in tutti i settori della politica di pace ed in tutte le misure concrete di promozione e protezione della pace finalizzate al raggiungimento dei tre obiettivi principali fissati dalla Risoluzione 1325:

1.        prevenire la violenza contro le donne ed i fanciulli e proteggere i diritti umani di donne e fanciulli, durante e dopo i conflitti armati;

2.        promuovere una maggiore partecipazione delle donne nella promozione della pace;

3.        promuovere l’applicazione dell’approccio di genere nei progetti e programmi di promozione della pace.

Per il perseguimento di tali obiettivi, il secondo Piano d’Azione italiano ha individuato un panel di 7 sotto–obiettivi, che vengono presentati nel documento e rispetto a ciascuno dei quali viene riportato lo stato di attuazione e gli ulteriori impegni (commitments) che il l’Italia intende assumere, a livello sia nazionale sia internazionale. Questi i sotto-obiettivi:

1.        valorizzare la presenza delle donne nelle Forze Armate nazionali e negli organi di polizia statale, rafforzandone il ruolo negli organi decisionali delle missioni di pace;

2.        promuovere l’inclusione della prospettiva di genere nelle Peace-Support Operations;

3.        assicurare training specifico, in particolare per il personale partecipante alle missioni di pace, sui differenti aspetti della Risoluzione 1325;

4.        proteggere i diritti umani delle donne, dei fanciulli e delle fasce più deboli della popolazione, in fuga dai teatri di guerra e/o presenti nelle aree di post-conflitto;

5.        rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi decisionali;

6.        prevedere la partecipazione della società civile nell’attuazione della Risoluzione 1325;

7.        svolgere attività di monitoraggio e seguiti operativi (follow-up).

 

Come previsto dal secondo Piano d’azione nazionale, il Governo ha presentato nel marzo 2015, un Progress Report.

Quanto alle risorse finanziarie a sostegno delle attività contemplate dal Piano, si rammenta che in sede di conversione del DL 67/2016[13], di proroga della partecipazione italiana alle missioni internazionali e di interventi di cooperazione allo sviluppo per tutto l’anno 2016, un emendamento ha modificato l’originaria formulazione dell’articolo 8, comma 1; a seguito di tale modifica, nell’ambito dello stanziamento di 90 milioni previsti dalla disposizione e destinato ad una serie di iniziative di cooperazione[14] sono ricompresi anche gli interventi, previsti dal Piano d’azione nazionale "Donne, pace e sicurezza - WPS 2014-2016", con particolare riguardo a programmi aventi tra gli obiettivi la prevenzione, la protezione e il contrasto alla violenza sessuale sulle donne e le bambine, soprattutto quando usata con tattica di guerra, la tutela e il rispetto dei loro diritti umani, nonché le misure a sostegno delle iniziative di pace promosse dalle donne in attuazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 1325 del 31 ottobre 2000 e le successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla stessa materia.

Lo stato di implementazione della Risoluzione 1325 a livello internazionale è riportato in appositi rapporti del Segretario generale Onu.

L’ultimo di tali report, S/2015/716 rilasciato il 16 settembre 2015, oltre a presentare la usuale ricognizione annuale dei progressi compiuti e misurati attraverso specifici indicatori, fa riferimento anche alla risoluzione 2122 (2013) del Consiglio di Sicurezza che, al paragrafo 16, invita il Segretario Generale dell’Onu a commissionare uno studio globale sull’implementazione della 1325, evidenziando esempi di good practices, difficoltà, sfide e priorità di azione. Il Global Study ha rappresentato parte essenziale dellHigh-Level Review of Women, Peace and Security celebrata dal Consiglio di Sicurezza nell’ottobre 2015 in occasione del 15° anniversario della Risoluzione 1325.

 

Il Global Study Preventing conflict, transforming justice, securing the peace, che porta la firma dell’ex Rappresentante speciale per i bambini nei conflitti armati, Radhika Coomaraswamy affiancata da l’High-Level Advisory Group, è stato lanciato nell’ottobre 2015. Si tratta di una ricognizione sui quindici anni di implementazione della risoluzione 1325 del 2000 che ha coinvolto un ampio numero di stakeholders a livello statale e della società civile a livello mondiale.

Nello studio si prende atto  che molto è cambiato da quando il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1325: la natura del conflitto in alcune regioni è qualitativamente diversa, il contenuto stesso di ciò che intendiamo per “pace” e “sicurezza” è in continua evoluzione, ed anche ciò che intendiamo per “giustizia” si è trasformato. In tale mutato contesto vanno ora collocati i quattro pilastri della 1325 e delle successive risoluzioni: prevenzione, protezione, partecipazione, e costruzione della pace e recupero.

Tra i progressi nell’implementazione della 1325 lo studio annovera:

- l’adozione da parte della Comunità internazionale di un quadro normativo completo per quanto riguarda per la violenza sessuale nei conflitti, rammentando che lo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale, in vigore dal 2002, delinea un elenco globale dei crimini contro le donne;

- la comunità internazionale e nazionale i governi hanno cominciato a comprendere l’importanza della guarigione nazionale e e delle comunità come una parte della giustizia, con i correlati diritti di risarcimento;

-  l’adozione, da parte del Committee on the Elimination of Discrimination against Women di una raccomandazione sulle donne nelle situazioni legate a conflitti che fornisce una guida dettagliata agli Stati membri sulle questioni relative alle donne, la pace e la sicurezza ed ai criteri di responsabilità, chiarendo che l’attuazione della 1325 è responsabilità di ogni Stato membro;

-  la percentuale degli accordi di pace che fanno esplicito riferimento alle donne è passata dall’11% del decennio 1990-2000 al 27% nel quindicennio successivo all’adozione della 1325;

- si è registrato un aumento delle dirigenti donne all’interno delle Nazioni Unite;

- è stata avviata una politica di aiuti bilaterali sulla parità di genere a Stati fragili, che per quanto aurorale rappresenta una notevole novità.

Tuttavia, molti dei progressi registrati nell’implementazione della Risoluzione 1325 sono fermi allo stadio iniziale e non raggiungono pertanto il livello standard auspicabile. Ad esempio, quanto alla violenza sessuale, nonostante la completezza del quadro normativo, pochissime sono le azioni penali effettive, soprattutto a livello nazionale; nei processi di pace se si è registrato un aumento della partecipazione formale delle donne, uno studio specifico di 31 grandi processi tra il 1992 e il 2011 ha rivelato che solo il 9% dei negoziatori erano donne, una cifra ancor più trascurabile alla luce dell’entità e ampiezza delle questioni che le vedono coinvolte; la percentuale femminile del personale militare impiegato nelle missioni Onu è del 3% e con compiti prevalentemente di supporto: e sono proprio le aree cruciali del peacemaking e del paecekeeping a vedere una persistente sotto rappresentazione femminile.

Quanto ai Piani d’azione nazionali sono solo 54 i Paesi che li hanno predisposti (e tra questi, come detto, anche l’Italia); la maggior parte dei Piani sono peraltro privi sia di meccanismi di accountability sia di risorse finanziarie a sostegno di una reale implementazione della 1325. L’aumento di estremismo violento in molte parti del mondo non solo rappresenta una vera e propria minaccia per la vita delle donne, ma le espone anche ad un ciclo di militarizzazione che spesso le vede in una posizione ambivalente, tra la necessità di respingere le costrizioni dell’estremismo violento e quella di proteggere le proprie famiglie e le comunità. Si assiste, inoltre, al fenomeno delle donne che diventano combattenti unendosi a gruppi estremistici, talvolta contro la propria volontà ma in molti casi con reale convinzione. E le donne “peacebuilders” si trovano spesso ad operare con margini di manovra assai limitati, strette tra l’estremismo praticato nelle comunità di appartenenza e i vincoli posti al loro operare dalle politiche antiterrorismo che limitano l’accesso ai fondi ed alle risorse cruciali.

Sulla base dell’ampia ricognizione qui brevemente riassunta il Global Study formula raccomandazioni dettagliate per ciascuna questione, non senza aver evidenziato un set di principi generali, che sono:

  1 - riconoscere che la priorità è la prevenzione dei conflitti e non l’uso della forza;

  2 - considerare che la Risoluzione 1325 si inserisce nel contesto dei diritti umani;

  3 – riconoscere che la partecipazione delle donne è la chiave della pace sostenibile;

  4 – i responsabili devono rendere conto e la giustizia deve essere trasformativa;

  5 – approcci locali e processi inclusivi e partecipativi sono cruciali per il successo degli sforzi di pace nazionali ed internazionali;

  6 - Sostenere le donne peacebuilders di pace nel rispetto della loro autonomia è un’ importante modalità di contrasto dell’estremismo;

  7 – Stati membri, Organizzazioni regionali, media, società civile, giovani hanno un ruolo vitale da svolgere insieme per attuare l’agenda donne, pace e sicurezza;

  8 – una lente di genere deve essere introdotta in ogni aspetto del lavoro del Consiglio di sicurezza;

  9 – è necessario affrontare la persistente incapacità di finanziare in modo adeguato l’agenda donne, pace e sicurezza;

  10 – una robusta architettura di genere è essenziale per le Nazioni Unite.

Il Global Study si conclude con un invito all’azione che metta al centro il livello locale in quanto più vicino alle donne. Queste, da ogni continente, hanno chiesto al Consiglio di sicurezza – che ha un ruolo diretto di supervisione nel mantenimento della pace – di prendere l’iniziativa di fermare il processo di militarizzazione che ha avuto inizio nel 2001 in un ciclo di conflitti sempre crescente che tende a normalizzare la violenza ad ogni livello.

Nel suo rapporto 2015 il Segretario generale ha osservato che dal Global Study, come del resto anche da altre analisi indipendenti effettuate nel 2015, è emerso che la natura della guerra sta cambiando, essendo essa caratterizzata da evidenti violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale, dalla partecipazione di un numero crescente di attori armati non statali, dalla diffusione dell’estremismo violento e brutale e di un’ondata di violenza organizzata, che espongono ulteriormente le donne e le ragazze a ogni genere di sfida, spesso affrontata in solitudine.

Il rapporto, inoltre, riflette sul ruolo degli attori chiave del sistema delle Nazioni Unite per affrontare gli ostacoli alla piena attuazione della Risoluzione 1325. Per quanto riguarda il mantenimento della pace, in cui il Consiglio di sicurezza, come è noto, ha un ruolo diretto di supervisione, il report sollecita l’integrazione della prospettiva di genere nei mandati delle missioni – dal che la necessità di affrontare il tema dello sfruttamento sessuale e degli abusi - e chiede l’integrazione delle competenze di genere nelle strutture del personale di missione e il miglioramento dell’equilibrio nella rappresentanza di genere nei contingenti delle Nazioni Unite.

Le altre risoluzioni Onu su donne, pace e sicurezza

Sul tema donne, pace e sicurezza il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato, dopo la 1325 del 2000, altre sei risoluzioni.

La prima di tale serie è la risoluzione 1820 adottata all’unanimità il 19 giugno 2008 nella quale si afferma che la violenza sessuale in situazioni di conflitto armato può costituire crimine di guerra, crimine contro l’umanità e prefigurare genocidio. L’Italia, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza nel biennio 2007-2008, aveva profuso un intenso impegno in fase negoziale, con particolare riguardo al riconoscimento del nesso tra sicurezza internazionale e violenza sessuale nei casi in cui questa viene impiegata come tattica di guerra.

La risoluzione 1820 chiede a tutte le parti nei conflitti armati di cessare immediatamente e del tutto la violenza sessuale contro i civili evidenziando che, nonostante le reiterate condanne, la violenza e l’abuso sessuale di donne e bambini intrappolati in zone di guerra è praticata con un’ampiezza ed una sistematicità tali da configurare livelli di “spaventosa brutalità”. Il documento, stabilito che l’utilizzo della violenza sessuale come tattica di guerra può profondamente esacerbare i conflitti armati ed impedire il ripristino della pace e della sicurezza internazionale, afferma che lo stupro e le altre forme di violenza sessuale possono rappresentare crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed anche atti costitutivi di genocidio. Nella premessa, inoltre, il documento richiama l’inclusione di una serie di offese sessuali nello Statuto di Roma, atto fondativo della Corte penale internazionale dell’Aja. La risoluzione 1820, che prevede la possibilità di imporre sanzioni mirate contro fazioni che commettono stupri e altre forme di violenza contro donne e ragazze, chiedeva al Segretario generale Onu di dare conto del quadro della situazione e dell’attuazione della disposizioni in essa contenute entro il 30 giugno 2009, nonché di formulare proposte volte a “minimizzare la suscettibilità” delle donne e delle ragazze a tale violenza. Il Segretario era inoltre richiesto di sviluppare linee guida e strategie efficaci per migliorare le capacità delle operazioni di peacekeeping Onu nella protezione dei civili da ogni forma di violenza sessuale.

Una ulteriore risoluzione, 1960 (2010) è stata adottata all’unanimità il 16 dicembre 2010 dal Consiglio di Sicurezza, il quale ha chiesto alle parti coinvolte in conflitti armati di assumere specifici impegni ed indicare precise scadenze della lotta alla violenza sessuale, sollecitandole sul lato della prevenzione a proibire tali crimini attraverso la somministrazione di ordini precisi alle catene di comando e l’imposizione di codici di condotta e, sul versante giudiziario, ad indagare i presunti abusi affidandone tempestivamente alla giustizia i responsabili. Il Segretario generale è tenuto a monitorare il perfezionamento di tali impegni nonché, sulla base di una analisi più approfondita, a favorire una migliore cooperazione tra tutti gli attori Onu finalizzata a fornire una risposta sistemica alla questione della violenza sessuale, nel frattempo procedendo a più nomine femminili tra i protection advisers delle missioni di peacekeeping.

Con la risoluzione 1888 (2009) il Consiglio di Sicurezza, tra le misure atte a fornire protezione a donne e bambini contro la violenza sessuale in situazioni di conflitto chiede al segretario generale di nominare un rappresentante speciale sulla violenza sessuale durante i conflitti armati.

L’ufficio del Rappresentante Speciale ONU per le violenze sessuali in situazioni di conflitto è stato istituito nell’aprile 2010 e la prima Rappresentante è stata Margot Wallström; le è succeduta nella carica, dal 22 giugno 2012, Zainab Hawa Bangura, cittadina della Sierra Leone.

 I focal points del mandato della Rappresentante Speciale sono costituiti dal contrasto all’impunità dei responsabili, dall’empowerment delle donne colpite al fine di ristabilire il godimento dei loro diritti, dall’implementazione di politiche idonee a sostenere un approccio globale alla violenza sessuale, dall’armonizzazione su scala internazionale della risposta alle violenze e dal miglioramento della comprensione della violenza sessuale nella sua dimensione di tattica di guerra. La Rappresentante, inoltre, mette in risalto la necessità che sia condotta a livello nazionale titolarità, leadership e responsabilità nel contrasto della violenza sessuale.

Il Rappresentante si avvale anche di un Team of Experts on the Rule of Law/Sexual Violence in Conflict - TOE impiegato in presenza di situazioni di particolarmente gravi come strumento di assistenza per le autorità nazionali nel rafforzamento della rule of law.

Sul contrasto alla violenza sessuale si rammenta anche la International Campaign to Stop Rape & Gender Violence in Conflict (http://www.stoprapenow.org/take-action/) promossa da UN Action Against Sexual Violence, coordinamento di 13 organismi delle Nazioni Unite finalizzato a porre fine alla violenza sessuale nei conflitti attraverso in uno sforzo concertato per migliorare il coordinamento e la responsabilità, ampliare la programmazione e sostenere gli sforzi nazionali per prevenire la violenza sessuale, rispondendo in modo efficace alle esigenze dei sopravvissuti.

La successiva risoluzione 1889 (2009)  si incentra, in particolare, sul rafforzamento della partecipazione delle donne nei processi di pace, nonché sullo sviluppo di indicatori adatti a misurare i progressi nella realizzazione della risoluzione madre 1325.

La risoluzione 2106 (2013) adottata all’unanimità il 24 giugno 2013, è specificamente focalizzata sul tema della violenza sessuale in situazioni di conflitto armato. Il documento aggiunge ulteriori dettagli operativi alle precedenti risoluzioni sul tema e ribadisce la necessità di sforzi più intensi da parte di tutti gli attori, non solo il Consiglio di Sicurezza e le parti di un conflitto armato, ma tutti gli Stati membri e gli enti delle Nazioni Unite, per l’attuazione dei mandati promananti dal complesso delle risoluzioni sul tema e per la lotta all’impunità per questi crimini.

La risoluzione 2122 (2013) (alla quale si è già fatto cenno a proposito del Global Study) rafforza le misure che consentono alle donne di partecipare alle varie fasi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, nonché della ripresa del paese interessato, ponendo agli Stati membri, alle organizzazioni regionali ed alle stesse Nazioni Unite, l’obbligo di riservare seggi alle donne nei tavoli di pace; essa, inoltre, riconosce la necessità di una tempestiva informazione ed analisi dell’impatto dei conflitti armati su donne e ragazze.

La risoluzione chiede poi ai responsabili delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle violazioni dei diritti umani e degli abusi di donne nei conflitti armati e nelle situazioni di post conflitto e richiede alle missioni di peacekeeping di dare risposta alle minacce della sicurezza delle donne in situazioni di conflitto e post conflitto. Incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni ad aumentare la percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di polizia in esse impiegate. Sottolinea la necessità di continuare gli sforzi per eliminare gli ostacoli che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in situazioni di conflitto o post conflitto.

 

 

 

 

 


 

Le migrazioni nella regione del migration compact
(a cura del Centro Studi Politica internazionale – CESPI)[15]

 

La strategia del Migration Compact

Il 15 aprile il governo italiano ha presentato alle istituzioni europee un piano volto ad arginare l’emergenza della gestione dei rifugiati, il cosiddetto Migration Compact, elaborando – almeno nelle intenzioni – “un possibile percorso per migliorare l’efficacia delle politiche migratorie esterne all’Unione” descritto in un documento cosiddetto non paper, cioè non ufficiale e per avviare una discussione, di quattro pagine[16].

Un merito molto importante che va riconosciuto all’iniziativa italiana è quello di porre risolutamente al centro la necessità di superare la sterile ma tradizionale resistenza alla condivisione sovranazionale del dossier. Un’intuizione politica importante che ha orientato il disegno del documento su una strada non certo facile e che, all’indomani del referendum del Regno Unito, appare ancora più impervia. Da sempre, infatti, il tema delle politiche migratorie ha incontrato veti politici insormontabili in tutte le sedi multilaterali, a cominciare dall’Europa e passando in ambito G7/G8 e alle Nazioni Unite.

È sintomatico infatti che nel sistema delle Nazioni Unite, che distingue nettamente il tema dei rifugiati da quello delle migrazioni economiche, manchi un’organizzazione sulle migrazioni. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) fornisce protezione internazionale ed assistenza materiale ai rifugiati e, sempre più col passare del tempo, anche a rimpatriati, richiedenti asilo, apolidi e sfollati interni.

L’Organizzazione internazionale del lavoro (International Labour Organization, ILO), invece, che negli ultimi anni non è riuscita a dar seguito alle promesse di collaborazione con l’UNHCR fatte dai due enti negli anni ottanta[17], ha nel suo mandato molti temi che si intrecciano con quello delle migrazioni economiche, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (International Organization for Migration, IOM) si occupa specificamente di migrazioni internazionali e risulta di fatto in diversi ambiti rivale dell’ILO, ma non fa parte del sistema delle Nazioni Unite, anche se dal 1992 le è stato riconosciuto lo status di osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, collabora strettamente con le Agenzie specializzate dell’ONU e si prevede che, in occasione della prossima Assemblea Generale a New York il 19 settembre del 2016, sarà siglato un nuovo accordo tra Nazioni Unite e OIM in grado di concretizzare il fatto che “una relazione più stretta tra Nazioni Unite e IOM non è solo naturale e desiderabile, ma necessaria per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030[18], dal momento che i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile includono esplicitamente il tema delle migrazioni internazionali.

È fonte di confusione, si è detto, combinare indistintamente situazioni molto diverse come quelle degli sfollati interni, dei rifugiati, dei richiedenti asilo, dei profughi e quelle dei migranti internazionali per motivi di lavoro (per ricongiungimento familiare o altro); ma abbiamo anche detto che una divisione rigidamente manichea rischia di avere altrettante controindicazioni. Alexander Betts, direttore del Refugee Studies Centre all’Università di Oxford ha proposto una nuova categoria, quella dei “migranti per sopravvivere” (survival migration)[19], che si è aggiunta a quella di “rifugiati ambientali” introdotta nel 1976 da Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e dell’Earth Policy Institute, che interrogava il diritto internazionale sulla necessità di riconoscere lo status di persone bisognose di protezione internazionale ai più vulnerabili che subiscono gli effetti dei cambiamenti climatici e quelli globali dell’ambiente[20].

Occorre ribadire che confondere nella narrazione prevalente sulle minacce esterne la situazione dei migranti internazionali per motivi di lavoro con quella dei rifugiati e richiedenti asilo è fonte di distorsioni della realtà delle attitudini e delle percezioni, portando lo stesso discorso de iure e i piani d’azione politica a queste generalizzazioni improprie e contribuendo così al crescere di populismi e xenofobia.

Tuttavia, anche la radicale separazione dello status del rifugiato, nell’illusione che sia una condizione temporanea, riducendone l’identità a persona passiva e bisognosa di protezione internazionale, certamente essenziale, si è dimostrato causa di problemi gravi e ricorrenti.

Il caso dei palestinesi che vivono segregati in campi profughi nei paesi vicini e “amici” del Medio Oriente può essere preso ad esempio: più di settecentomila palestinesi furono espulsi dalla Palestina nel 1948 ed oggi si è arrivati alla terza generazione di rifugiati che vivono segregati in campi profughi nella Palestina stessa e nei paesi vicini.

La priorità esclusiva alla dimensione umanitaria ha reso molto difficile, quando non impossibile, per i rifugiati costruirsi una vita dignitosa con opportunità di lavoro regolare; e la tendenza delle politiche più recenti a promuovere una sedentarizzazione dei rifugiati nei campi, restringendone la mobilità di circolazione, aggrava le condizioni disagiate di vita che si protraggono nel tempo, soprattutto quando si limita la possibilità di insediarsi stabilmente nel paese ospitante in ragione di una presunta volontà di favorire quanto prima il ritorno in patria[21].

Quando la condizione dei rifugiati è tutto fuorché temporanea, la separazione netta tra la condizione di rifugiato e quella di migrante economico cozza con la realtà, ma si spiega perché ha precise ragioni storiche e di convenienza: secondo l’analisi proposta da Katy Long dell’Università di Edimburgo[22], la prassi di distinguere tra migranti economici e rifugiati prese piede negli anni cinquanta, proprio per assicurare ai rifugiati la protezione e il connesso diritto di attraversare le frontiere che la precedente assimilazione del rifugiato al migrante economico aveva impedito, subordinando il diritto all’asilo politico a criteri di convenienza economica.

Le critiche sovietiche all’Occidente di ricorrere ai campi profughi come mercati di schiavi per attingere a forza lavoro di riserva a basso costo avevano contribuito a spingere verso una più netta distinzione tra rifugiati e migranti economici, al punto che da allora continuano ad esserci forti resistenze a considerare i rifugiati come potenziali lavoratori.

Il Migration Compact, nella sua proposta italiana e, ancor di più, nell’interpretazione successiva europea, non dipana la materia e mantiene l’ambiguità oggi prevalente sulla distinzione tra rifugiati e migranti economici, utile per giustificare l’alto numero di decisioni di respingimento delle richieste di protezione internazionale ma superflua quando si tratta di provvedere con respingimenti generalizzati di migranti e profughi.

Il Migration compact si limitava a intravedere una possibile ripartizione per rotte geografiche, per quanto la storia insegni che esse sono molto rapidamente sostituibili: la rotta orientale interessata da una maggiore componente congiunturale di rifugiati provenienti dalla Siria e la rotta centro-occidentale del Mediterraneo composta soprattutto da migranti economici destinati ad aumentare strutturalmente nel tempo.

Quello che il Migration Compact si propone è di introdurre esplicitamente una quinta generazione di condizionalità per l’erogazione di aiuti pubblici allo sviluppo, che si aggiunge in un processo cumulativo a quelle ancora vigenti di prima generazione degli anni Ottanta, legate all’adozione di programmi di aggiustamento strutturale e piani di stabilizzazione finanziaria monitorati dalle istituzioni finanziarie internazionali, a quelle introdotte negli anni novanta dall’UE nell’Accordo di Cotonou con paesi di Africa, Caraibi e Pacifico a sostegno della democrazia e a protezione dei diritti umani, a quelle adottate alla fine degli anni Novanta dalla Comunità internazionale per ridurre il debito estero dei paesi poveri.

Tale orientamento prevedeva l’adozione di politiche pubbliche per ridurre la povertà e, infine, a quelle – di quarta generazione – imposte dagli Stati Uniti dai primi anni duemila con il Millennium Challenge Account ai paesi poveri chiamati a partecipare alla lotta al terrorismo a tutti i livelli, locali e internazionali.

Il Migration Compact condiziona più aiuti allo sviluppo, cioè obiettivi di lungo periodo della cooperazione internazionale, a un maggiore impegno dei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nel Sahel e nel Corno d’Africa, a fianco dell’UE per frenare i flussi migratori che raggiungono l’Europa.

 

Le risorse in campo

Le parole del Vice-ministro agli Esteri Mario Giro, intervistato dal quotidiano online e mensile cartaceo Vita[23] sono state nette sul rischio di impoverimento del contenuto potenzialmente innovativo della proposta italiana una volta che questa diventi politica europea in materia, frutto di negoziati difficili, come nel caso concreto è la proposta della Commissione europea. Dopo il Consiglio Affari Esteri tenuto a Bruxelles il 20 giugno che precede il Vertice dei capi di Stato e di governo del 28 e 29 giugno, c’è, cioè, il rischio molto concreto che la proposta della Commissione europea di un Nuovo quadro di partenariato (New Partnership Framework)[24], elaborata a partire dal Migration Compact italiano, sia troppo modesta e finisca con l’essere controproducente, limitata a definire una nuova condizionalità per pochi aiuti finanziari e senza le ambizioni di lungo periodo che l’iniziativa italiana voleva assumere.

Il rischio del riduzionismo del partenariato con i paesi di origine e transito dei flussi di migranti e rifugiati in chiave securitaria col ricorso alla leva delle condizionalità era, invero, almeno in parte già presente nel documento italiano, focalizzato su misure europee di aiuto finanziario e operativo rafforzato a fronte di corrispondenti impegni in termini di controllo delle frontiere, riduzione dei flussi dei migranti, cooperazione in materia di rimpatri/riammissioni, rafforzamento del contrasto al traffico di esseri umani.

Tuttavia, nelle intenzioni del governo italiano lo scambio doveva essere in nome di un grande patto di lungo periodo tra Europa e Africa, incentrato su politiche di investimenti nelle infrastrutture, nell’energia e nell’agro-industria, come era stato affermato in occasione della conferenza ministeriale Italia-Africa del 18 maggio a Roma. L’obiettivo ambizioso e forse irrealistico era quello di creare attraverso gli aiuti internazionali le condizioni di sviluppo e occupazione nei paesi di origine dei flussi migratori, in modo da ridurre la pressione ad emigrare.

Il documento italiano di aprile esprimeva l’obiettivo ambizioso di andare oltre iniziative sporadiche in nome di un approccio integrato e coerente dell’azione esterna dell’UE volto ad aggiornare l’approccio globale alle migrazioni e alla mobilità (Global Approach to Migration and Mobility, GAMM), il piano d’azione della Valletta, l’accordo tra UE e Turchia, il partenariato dell’UE coi paesi di Africa, Caraibi e Pacifico, i dialoghi regionali del Processo di Rabat e quello di Khartoum. Tuttavia, il documento non riusciva a trattare i temi strutturali delle politiche industriali, occupazionali, energetiche, ambientali e fiscali, come anche mancava di dettagli sugli aspetti del commercio e della finanza internazionale che un obiettivo tanto ambizioso come quello enunciato implicherebbe.

La necessità avvertita dal documento del governo italiano di trovare una sintesi di interessi diversi capace di generare mutui benefici per UE e paesi partner - in particolare i paesi da identificare come prioritari per l’azione esterna del’UE in funzione delle rotte di origine e transito dei flussi di migranti e profughi - si traduce nella proposta di una co-ownership tra le parti (pagina 2 del non-paper del governo italiano), alla base dei piani d’azione dell’UE specifici per ogni paese partner. Soltanto dieci anni prima, nella Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degli aiuti del 2005, la comunità internazionale aveva posto come principio cardine dell’APS un maggior peso riconosciuto ai paesi beneficiari nella definizione delle politiche di cooperazione allo sviluppo (il principio dell’ownership), principio messo da parte nel documento italiano per far prevalere la logica delle condizionalità in funzione della priorità della gestione e controllo dei flussi migratori.

Tuttavia, non c’è dubbio che il documento italiano avanzasse una serie di proposte di strumenti da mettere in campo, combinando strumenti pre-esistenti da riorientare e molti strumenti innovativi da introdurre:

(i)      progetti d’investimento ad alto impatto sociale ed infrastrutturale, come suggerito dalla task-force del G8 – cui partecipa l’Italia – sugli investimenti a impatto sociale, reindirizzando fondi già esistenti, come il Fondo europeo di sviluppo (FES), lo Strumento di cooperazione allo sviluppo (DCI) e lo Strumento europeo di vicinato (ENI);

(ii)   un nuovo fondo, l’EU Fund for Investments (EU-FI), complementare agli strumenti pre-esistenti;

(iii) un nuovo strumento finanziario specifico per l’azione esterna in tema di migrazioni (Instrument for the external action in the field of migration, IEAM) da istituire come parte del bilancio comunitario e che operi in sinergia con il Fondo Asilo, migrazione e integrazione (Asylum, Migration and Integration Fund, AMIF) e il Fondo Sicurezza interna (Internal Security Fund, ISF) operativi nel periodo di programmazione 2014-2020;

(iv) emissione di nuove obbligazioni euro-africane, per facilitare l’accesso africano ai mercati dei capitali consentendo finanziamenti a tassi che le garanzie europee manterrebbero più bassi di quelli prevalenti sul mercato;

(v)     strumenti finanziari innovativi, come la valorizzazione delle rimesse e il ricorso a meccanismi di blending (che legano componenti a dono con linee di credito o altro da parte di enti commerciali o istituzioni finanziarie pubbliche), in sinergia con la Banca europea degli investimenti (BEI) e altre istituzioni finanziarie europee;

Strumenti indirizzati anche a promuovere:

(i)      cooperazione in materia di sicurezza (sostegno con iniziative di capacity building per il controllo alle frontiere, menzionando esplicitamente la nuova guardia di frontiera europea, cooperazione giudiziaria e di polizia contro organizzazioni criminali e traffico di migranti, gestione di migranti e rifugiati – in questo caso i profili sono associati);

(ii)   incentivi e nuove opportunità di ingresso legali (sbloccando quote di ingresso per lavoratori a partire da una revisione della Blu card varata nel 2009 per attrarre talenti qualificati, offrendo in loco informazioni e formazione linguistica e professionale preparatoria insieme alle imprese che assumeranno, integrazione nei paesi di destinazione, programmi di mobilità di studenti e ricercatori, iniziative di mobilità circolare e migrazione Sud-Sud);

(iii)  schemi di reinsediamento (resettlement) di una determinata quota di rifugiati e richiedenti asilo.

I paesi partner, in cambio, sulla base delle risorse finanziarie europee mobilitate dovrebbero impegnarsi sul fronte di:

(i)      controllo delle frontiere e riduzione dei flussi migratori verso l’UE,

(ii)   cooperazione per i rimpatri e le riammissioni,

(iii) istituzione di sistemi efficienti di gestione dei migranti e dei rifugiati,

(iv) istituzione di sistemi di asilo politico e lotta al traffico di migranti in linea con gli standard internazionali.

Una menzione specifica era infine fatta alla Libia, cui si dovrebbe indirizzare un supporto particolare per migliorare le capacità della polizia e della giustizia penale, la lotta al terrorismo e la gestione dei flussi, distinguendo in questo caso i rifugiati (cui indirizzare programmi di reinsediamento) dai migranti economici (per i quali prevedere rimpatri).

La logica degli accordi con la Libia di Gheddafi prima e il recente accordo con la Turchia di Erdoğan hanno, inevitabilmente, alcune assonanze, nella ricerca di soluzioni che facciano rimanere gli africani – molti migranti economici che non rientrano nei percorsi selettivi da sviluppare, la quasi totalità di profughi e richiedenti asilo – in Africa.

Non è un caso, a dimostrazione dell’enfasi anche nel documento italiano sui temi securitari piuttosto che su quelli di sviluppo, che sia esplicitamente indicato il contributo che può venire da organizzazioni come UNCHR e IOM, con finanziamento europeo, per istituire centri per rifugiati in Africa, e non ci sia alcuna menzione di organizzazioni come l’ILO che, insieme al settore privato soprattutto di piccole imprese, mira invece a promuovere occupazione a condizioni dignitose di lavoro (pagina 3).

Il disegno italiano, del resto, si ispirava chiaramente e anche esplicitamente all’accordo UE-Turchia siglato il 7 marzo 2016 e che assicura sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro ad Ankara.

Ma è proprio sul fronte della mobilitazione delle risorse finanziarie che si può muovere una critica severa, come afferma con preoccupazione il Vice-ministro agli Esteri Mario Giro. Per la Turchia sono stati previsti 6 miliardi di euro; invece ogni paese africano da qui al 2020 dovrebbe ricevere appena 20 milioni di euro l’anno con i fondi attuali del nuovo fondo fiduciario europeo di emergenza Trust Fund for Africa, annunciato dal presidente Juncker alla Valletta nel novembre 2015, per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa e per il quale la Commissione Europea mobilita 1,8 miliardi di euro per 23 paesi africani dai fondi europei (provenienti dal bilancio dell’UE e dal Fondo europeo di sviluppo (FES), aspettando che anche gli Stati membri partecipino con risorse proprie.

Se la Commissione e gli Stati membri non sono in grado di rilanciare mobilitando molte più risorse aggiuntive c’è ben poco da fare.

Negli auspici, il bilancio dell’UE dovrebbe mettere a disposizione 4,6 miliardi di euro, utili come risorse per avviare l’iniziativa che dovrà poi mobilitare investimenti privati o pubblici pari a 62 miliardi, tramite anche la BEI, riproponendo una sorta di Piano Juncker per gli investimenti nelle infrastrutture all’esterno dell’UE.

 

 

 

 


 

Fig. 7. Le risorse previste ed auspicate per il Migration Compact (miliardi di euro)

 

Avvio con 4,6 miliardi di euro

Leva per 62 miliardi di euro a lungo termine

 

In realtà, molto manca per dare operatività concreta all’obiettivo di raccogliere 4,6 miliardi di euro prima e altri 62 miliardi dopo. Al momento, i soldi freschi previsti sono solo 500 milioni di euro provenienti dal fondo di riserva del FES, perché tutte le altre risorse sono fondi già esistenti e finora erogati solo per la quota spettante alla Commissione europea: 3,6 miliardi di euro sono quelli del Fondo fiduciario per l’Africa lanciato alla Valletta, di cui la Commissione europea ha versato 1,8 miliardi di euro di propria competenza, mentre gli Stati membri si sono finora limitati a versare solo 81 milioni di euro rispetto agli impegni di 1,8 miliardi.

Lo stesso discorso vale per il restante miliardo che, negli auspici di Bruxelles, dovrebbe essere equamente ripartito tra Commissione (500 milioni di euro di soldi freschi, per l’appunto) e Stati membri (che dovrebbero fare altrettanto).

Ancora maggiori sono le incertezze nel caso dei 62 miliardi di euro da mobilitare per la parte a lungo termine del piano, perché l’avvio è legato allo stanziamento di 3,1 miliardi di euro da parte della Commissione Europea entro il 2020, anche questi ottenuti riorientando fondi di programmi preesistenti (2 miliardi del FED, 1,6 miliardi della African Investment Facility, 0,4 miliardi  di dotazioni finanziarie aggiuntive del FED, 0,94 miliardi dello Strumento europeo di vicinato e 0,16 miliardi dello Strumento di cooperazione allo sviluppo): senza cioè mobilitare risorse realmente nuove, con l’obiettivo di attivare un sistema di garanzie, fondi pubblici e privati per 31 miliardi di euro. Anche in questo caso, il piano prevede che gli Stati membri facciano altrettanto, mettendo a disposizione altri 3,1 miliardi di euro, così da mobilitare altri 31 miliardi di euro ed arrivare infine a mobilitare complessivamente 62 miliardi di euro.

Tutta da dimostrare è la reale volontà da parte degli Stati membri di contribuire significativamente al raggiungimento degli obiettivi finanziari: lo era sin dall’inizio al momento della comunicazione di questa iniziativa, lo è a maggior ragione dopo l’esito del referendum inglese. Successivamente, tutta da dimostrare sarà la capacità di attivare un effetto leva che moltiplichi per dieci volte il volume delle risorse messe a disposizione.

I rischi paventati dallo stesso Vice-ministro agli Esteri Mario Giro d’incertezze sull’effettiva mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive e di riduzionismo del partenariato con i paesi di origine e transito dei flussi di migranti e rifugiati in chiave securitaria, attraverso condizionalità stringenti in cambio di aiuti non possono essere liquidati come infondati, alla luce delle conclusioni del Consiglio Europeo di fine giugno.

Al di là del realismo dei presupposti che reggono la proposta finanziaria della Commissione europea, critiche all’impianto di fondo del disegno si sono levate dal mondo non governativo, come nel caso di John K. Bingham, direttore delle politiche della International Catholic Migration Commission (ICMC), che ha espresso la preoccupazione che risorse come quelle del Fondo fiduciario per l’Africa, destinate a iniziative di sviluppo dei paesi poveri, siano invece dirottate a programmi di gestione dei flussi migratori. Inoltre, come dice Sara Tesorieri, responsabile in materia di politiche migratorie per l’ufficio europeo dell’ONG internazionale Oxfam, l’UE si era impegnata, nella dichiarazione e Piano d’azione finali de La Valletta, a incrementare la tutela dei diritti umani e a salvare vite umane; dopo nemmeno sei mesi la priorità è ora diventata dare finanziamenti a governi africani compresi casi noti per le sistematiche violazioni dei diritti umani con l’obiettivo di contenere gli arrivi in Europa.

 

La realtà dei paesi pilota del Corno d’Africa

La strategia operativa dell’UE dovrebbe articolarsi in una serie di partenariati, i Migration Compact, ovvero accordi su misura negoziati in modo coordinato dall’UE e dagli Stati membri. La proposta prevede 17 partner strategici in tre regioni africane:

·        Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia in Nord Africa,

·        Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan nel Corno d’Africa e Sudan,

·        Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Mali, Niger, Nigeria e Senegal nel Sahel.

Il Consiglio europeo del 28-29 giugno prevede che entro la fine del 2016 siano resi operativi i primi accordi che, al momento, è ipotizzabile interesseranno 7 paesi-pilota:

·        Quattro paesi d’origine dei flussi nel Sahel (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal),

·        un paese di transito nel Sahel (Niger)

·        un paese di transito, ma anche di origine in prossimità del Corno d’Africa (Sudan),

·        un paese di destinazione, transito e origine nel Corno d’Africa (Etiopia).

Il piano prevede investimenti europei per dieci miliardi di euro nei sette paesi africani pilota, ma anche nuovi hotspot che si aggiungono ai cinque già esistenti, da aprire in Italia anche su strutture mobili e galleggianti, come navi e piattaforme.

Scorrendo la lista dei 17 partner dell’Africa, identificati come strategici rispetto a un tema come i diritti fondamentali dei migranti e dei profughi, la dignità e il valore della persona umana, non possono che nascere dubbi, pensando a governi che non rispettano i diritti fondamentali e l’obbligo di non-respingimento, in modo simile a quanto avvenne nel caso degli accordi con la Libia di Gheddafi e con tutte le incertezze che accompagnano oggi l’accordo con Turchia di Erdoğan. Oltre alla stessa Libia, anche paesi del Corno d’Africa come Eritrea, Etiopia e Somalia e il vicino Sudan pongono questi interrogativi, rischiando di pregiudicare la credibilità di lungo periodo dello spirito dell’iniziativa.

Nel caso del Corno d’Africa, solo l’Etiopia al momento è proposto come paese pilota, cui si affianca il vicino Sudan. Anche se non inserito nella lista dei paesi pilota, vale la pena di fare alcune considerazioni sul caso dell’Eritrea per la sua rilevanza nell’area, e poi sugli altri paesi, a dimostrazione di una realtà complessa, dove la distinzione tra migrazioni economiche e profughi è molto sfumata in contesti in cui povertà, calamità naturali, crisi umanitarie, politiche e violazioni  dei diritti umani creano una miscela esplosiva, in cui convivono sfollati interni, profughi di altri paesi vicini e persone che decidono di e/o sono costrette a lasciare il proprio paese.

 

Eritrea

In Eritrea, il governo dispotico del Presidente Isaias Afwerki e del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia è accusato dalle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità ed è sottoposto a sanzioni.

Il rapporto 2015 di Freedom House colloca l’Eritrea tra i 12 peggiori paesi al mondo per quel che riguarda diritti e libertà civili e politiche; il rapporto della Banca Mondiale Doing Business lo colloca all’ultimo posto nella classifica in base alla disciplina normativa e fiscale che si applica alle imprese. La povertà aggravata dalla drammatica siccità che ha colpito la regione a cavallo tra 2015 e 2016, regole ferree che proibiscono alla popolazione assemblee pubbliche e l’obbligo di fatto del servizio militare a tempo pressoché indeterminato e in condizioni di lavoro forzato, a dispetto dei 18 mesi formali di leva e motivato dalla prolungata ostilità con l’Etiopia, rendono le condizioni di vita di gran parte della popolazione durissime, costringendo molte persone ad abbandonare la terra in cerca di protezione internazionale[25].

Tuttavia, fintantoché i principali partner commerciali e per la cooperazione allo sviluppo dell’Eritrea, cioè UE e Cina, continueranno a mantenere relazioni molto strette col governo, è difficile prevedere rapidi cambiamenti. La ricchezza minerale del paese, la rilevanza dal punto di vista geo-strategico dovuta alla vicinanza del Golfo di Aden (attraverso cui ogni anno passano decine di migliaia di somali che si imbarcano alla volta dello Yemen) e soprattutto il bisogno di alleati per arginare le pressioni migratorie e di profughi alle frontiere evidentemente prevalgono nelle considerazioni strategiche.

L’UNHCR stimava che circa 5 mila eritrei hanno abbandonato mensilmente il paese nel 2014. L’emorragia è proseguita anche nel 2015 e l’Eritrea è diventata il nono paese al mondo di origine di rifugiati, con 411.300 rifugiati alla fine del 2015 (cui si aggiungono circa 63.500 richiedenti asilo in attesa di risposta), rispetto ai 363.200 a fine 2014, e soprattutto il quarto paese di origine degli arrivi in Europa attraverso le rotte mediterranee, dietro siriani, afghani e iracheni.

Nel 2015 gli eritrei hanno rappresentato il 4% di tutti gli arrivi in Grecia, Italia e Spagna, toccando il 19% di quanti sono arrivati per mare in Italia, anche se soltanto 700 persone hanno fatto richiesta di asilo nel nostro paese. A livello europeo, invece, gli eritrei richiedenti asilo sono molti, che considerano l’Italia solo paese di transito per raggiungere Germania, Svizzera, Paesi Bassi o Svezia. Elevato è anche risultato il numero di minori non accompagnati: ben 7.300.

L’ambiguità dei governi europei nei confronti del governo eritreo ha portato alcuni paesi - come Regno Unito e Danimarca (con il Danish Immigration Service) - a considerare irricevibili le richieste di asilo, con la conseguenza che nel 2015 è stata registrata una percentuale molto alta di richieste respinte soprattutto nel Regno Unito, dove – in base ai dati Eurostat – solo il 61% di domande sono state accolte (il 34% delle domande nel secondo semestre dell’anno) rispetto all’87% di riconoscimenti in Europa, sposando evidentemente la tesi del governo eritreo secondo cui si deve parlare di migrazioni economiche.

Il rischio reale è che l’eventuale rimpatrio forzato in Eritrea di profughi e richiedenti asilo respinti porti a condanne in quel paese – dove le condizioni delle prigioni sono considerate tra le peggiori al mondo da Amnesty International, che ha documentato casi di tortura – per le accuse di espatrio clandestino e soprattutto di diserzione dal servizio di leva obbligatorio.

 

Etiopia

In Etiopia, dove si registra il perdurare di scontri al confine con l’Eritrea, la coalizione governativa del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope è responsabile – secondo l’ONG statunitense Human rights watch – dell’uccisione negli ultimi mesi di varie centinaia manifestanti antigovernativi degli Oromo, il più importante gruppo etnico del paese (circa 31 milioni di persone su un totale di quasi 97 milioni di abitanti in Etiopia), mantenendo alta la tensione nel paese, con migliaia di arresti e casi di violenze e stupri.

Il governo etiope giustifica la sua condotta e i comportamenti della polizia, giudicati brutali da osservatori indipendenti, dinanzi alla comunità internazionale parlando di lotta a reti terroristiche e sfruttando l’importanza geopolitica di un paese “stabile” in una zona strategica e instabile come il Corno d’Africa.

Sul piano diplomatico, l’UE ha assistito negli ultimi anni a un consolidamento dei legami dell’Etiopia con la Cina, principale mercato di sbocco per le esportazioni etiopi (l’11,7% del totale nel 2015) e principale paese di origine delle importazioni (il 20,4% del totale nel 2015), ma soprattutto principale fonte – seguita da Turchia e India – degli investimenti diretti esteri che sono decuplicati in pochi anni.

Ad aprile, una milizia di etnia Murle proveniente dallo stato di Boma nel Sudan meridionale ha ucciso 208 contadini etiopi e rapito un centinaio di bambini nei villaggi della regione di Gambella, una zona già instabile a causa di tensioni intra-etniche che oppongono i Nuer e gli Anyuak.

L’arrivo nei primi mesi dell’anno di 280 mila profughi Nuer dal Sudan meridionale ha fatto raddoppiare la popolazione Nuer, accrescendo le tensioni. Il governo etiope, dopo la strage della milizia di etnia Murle, ha avviato consultazioni col governo sudanese per appoggiare quest’ultimo in un’operazione militare di normalizzazione nello stato di Boma.

L’Etiopia, che si trova in una posizione geografica molto critica, in prossimità di focolai di profughi come il Sudan meridionale e la Somalia, è oggi il quinto paese al mondo per popolazione rifugiata ospitata e il primo nell’Africa sub-sahariana, dando ospitalità a oltre 736 mila rifugiati e quasi 80 mila richiedenti in attesa di risposta, secondo i dati dell’UNHCR.

In particolare, l’Etiopia dà rifugio a 281.500 profughi che hanno lasciato il Sudan meridionale, 256.700 somali e quasi 38 mila sudanesi; inoltre, il grave conflitto in Burundi, un paese estremamente povero in cui l’80% della popolazione vive al di sotto la soglia di povertà assoluta, ha provocato più di 280 mila sfollati interni e rifugiati in tutta la regione dei Grandi Laghi e quasi 75 mila profughi hanno raggiunto l’Etiopia. Considerando il basso livello di reddito dell’Etiopia, il paese balza al secondo posto al mondo, dietro la Repubblica democratica del Congo, se si considera il numero di rifugiati per ogni dollaro di reddito nazionale lordo: 453 rifugiati per ogni dollaro di reddito prodotto, rispetto per esempio ai 126 rifugiati per dollaro nel caso della Turchia.

Da questo punto di vista, l’Etiopia è indicativa della situazione di molti paesi africani poveri che ospitano numerosi rifugiati: sette dei primi dieci paesi in questa particolare classifica sono, per l’appunto, africani (il Pakistan è terzo, dietro l’Etiopia, con 317 rifugiati per dollaro prodotto, l’Afghanistan è ottavo con 137 rifugiati, chiude la top ten la Turchia con 126 rifugiati).

L’Etiopia è anche paese di origine di quasi 86 mila rifugiati e quasi 80 mila richiedenti asilo all’estero.

 

Sudan

In Sudan, sul governo del colonnello Omar Hassan al-Bashir, al potere dal 1989 a seguito di un golpe militare e sottoposto a sanzioni statunitensi, pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra dell’Aia per crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur.

Le condizioni di vita della popolazione non sono certo facili, a cominciare proprio dal Darfur dove oltre due milioni di sfollati a causa del conflitto iniziato nel 2003 vivono nei campi profughi, cui si sono aggiunti altri 130 mila fuggiti dalla zona di Jebel Marrad sotto attacco delle forze governative. Ad aprile del 2016 si è tenuto il referendum, previsto dall’accordo di pace firmato a Doha nel 2011 ma boicottato dalle opposizioni, il cui esito ha confermato la divisione in cinque parti, anziché la riunificazione in un’unica regione come prima del 1994.

Le condizioni non sono facili neanche nel vicino Sudan Meridionale, dove le forze lealiste del presidente Salva Kiir si confrontano con il suo precedente vice, Riek Machar, con frequenti violazioni del cessate il fuoco, il persistere di tensioni etniche e il conseguente aumento di sfollati interni.

Sul piano delle relazioni internazionali, al-Bashir sta cercando di rafforzare i legami con la Cina, che però risentono del ribasso del prezzo del petrolio, del conflitto nel Sudan Meridionale e del rallentamento della crescita cinese, e al contempo punta molto sul partenariato coi paesi del Golfo, in primis l’Arabia Saudita. Le difficoltà economiche sono aggravate dagli effetti delle calamità naturali causate da El Niño che – secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della salute (World Health Organisation, WHO) – espongono 4,2 milioni di persone al rischio di insicurezza alimentare.

Per queste ragioni, il governo di al-Bashir ha tutto l’interesse a rafforzare i legami con partner strategici come l’UE al fine di accreditarsi sul piano esterno come interlocutore chiave, ottenere fiducia e contributi finanziari. L’opportunità di farlo sul tema delle migrazioni e dei flussi di richiedenti asilo, in relazione alle politiche di esternalizzazione del controllo delle frontiere per il controllo dell’immigrazione portate avanti dall’UE, nello specifico attraverso il cosiddetto “Processo di Khartoum”[26] caldeggiato dall’Italia e di cui anche il Sudan è firmatario, è un’occasione ghiotta.

Il Sudan, infatti, oltre a essere paese di origine di quasi 630 mila rifugiati e richiedenti asilo all’estero (in aggiunta ai quasi 780 mila del Sudan meridionale), è un importante paese di transito per migranti e profughi che arrivano dal Medio Oriente, dal Corno d’Africa e dall’Africa sub-sahariana e attraversano il Sahara per arrivare poi in Libia o in Egitto e di lì imbarcarsi per l’Europa.

A maggio centinaia di giovani eritrei sono stati sottoposti a fermo di polizia, espulsi e consegnati alla polizia di frontiera eritrea: evento che, secondo alcuni analisti e membri della diaspora, è da ricondursi direttamente alla volontà del governo di al-Bashir di accreditarsi davanti alle capitali europee come efficace partner per la gestione “ordinata” dei movimenti di profughi e migranti, e al contempo alimenta il mercato dei trafficanti che speculano sulle vite delle persone, facendo aumentare il prezzo degli spostamenti clandestini e facilitando l’estorsione da parte di forze di sicurezza corrotte ai danni di persone sempre più vulnerabili e richiedenti asilo [27].

A conferma di tutto ciò, nell’ambito del Fondo fiduciario per l’Africa l’UE ha destinato 40 milioni di euro al progetto Better Migration Management (Horn of Africa) che mira a dotare il Ministero dell’Interno sudanese di due centri di detenzione, computer, telecamere, scanner e automobili per rafforzare la capacità della polizia di frontiera.

Si tratta di un’iniziativa che rende operativa la volontà sancita con il Processo di Khartoum di collaborare per combattere il traffico di esseri umani e garantire percorsi più strutturati per chi emigra, ed evidenzia il rischio e l’ambiguità di interventi come l’assistenza alla creazione di centri d’accoglienza e l’addestramento della polizia di frontiera per il contrasto delle migrazione quando si tratta di collaborare con regimi non credibili sul piano della tutela del diritto d’asilo e la gestione dei flussi migratori.


 

La realtà dei paesi pilota del Sahel

Costa d’Avorio

Il governo del presidente Alassane Ouattara e dei suoi alleati sta affrontando le tensioni causate dalle difficoltà economiche che non offrono prospettive occupazionali, dalla percezione di una diffusa corruzione e dal persistente aumento del costo della vita. Si registrano lenti progressi sul piano della riconciliazione e smobilitazione delle milizie, composte da 20 mila combattenti in passato ribelli, e del processo di rientro in patria di migliaia di persone fuggite all’estero, che ha interessato nel 2015 oltre 12 mila persone, mentre oltre 70 mila sono i rifugiati all’estero a fianco di quasi 15 mila richiedenti asilo che hanno lasciato il paese in parte perché schierati col presidente deposto e temono vendette.

Il rientro dei profughi all’estero ha subito peraltro un rallentamento imprevisto da parte delle autorità governative, che avevano deciso nel 2014 di chiudere le frontiere con le nazioni confinanti più colpite (Liberia e Guinea) nel tentativo di impedire la diffusione del virus Ebola. Ancora oggi, in Liberia vivono oltre 22 mila profughi ivoriani che hanno lasciato il paese all’indomani degli scontri post-elettorali nel 2010/2011. Resta aperto il contenzioso su beni e abitazioni di chi è fuggito, di cui a oggi solo il 63% sarebbero state liberate per essere restituite, secondo il ministro della solidarietà Mariatou Koné. 

Il doppio attentato di un commando terrorista a tre resort turistici nei pressi di Grand Bassam, cittadina costiera a 40 km. da Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, è stato rivendicato sia da Al Qaeda per il Maghreb che da Mokhtar Belmokhtar, leader algerino del gruppo Al-Mourabitoun. Ciò ha spinto la comunità internazionale a sostenere la normalizzazione del paese, portando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad estendere, a fine aprile 2016, il mandato dell’operazione di peace-keeping Costa d’Avorio (United Nations Operation in Côte d’Ivoire, UNOCI) fino al giugno 2017[28].

Al contempo, il 5 aprile il Gruppo di cinque esperti delle Nazioni Unite, comprendente l’italiano Roberto Sollazzo (specializzatosi in conflitti legati a risorse naturali e diamanti in Africa), ha pubblicato un voluminoso rapporto che solleva molte preoccupazioni per la presenza di un grande quantitativo di armi (circa 300 tonnellate, pari al 30% dell’arsenale in dotazione alle forze armate) non registrate e in mano a forze militari non governative, legate a traffici che coinvolgerebbero il Presidente dell’Assemblea nazionale della Costa d’Avorio, Guillaume Soro[29], in un contesto di reiterate violazioni dell’embargo ONU sulle armi[30].

 

Ghana

Il prossimo 7 novembre si terranno le elezioni legislative e presidenziali in Ghana, in un clima prevedibilmente di forti tensioni, acuite da una congiuntura economica molto critica e dai contrasti tra il partito del Presidente John Dramani Mahama, il National Democratic Congress (NDC), e il principale partito d’opposizione, il New Patriotic Party (NPP), guidato dal candidato alle presidenziali Nana Akufo Addo. Proprio in ragione delle possibili tensioni, il governo prevede il dispiegamento di 6mila soldati su tutto il territorio nazionale durante le elezioni, in modo da garantire la loro regolarità e l’ordine pubblico.

Il discredito che ha investito la magistratura per via di recenti casi di corruzione aggiunge ulteriori timori circa la capacità di assicurare una transizione pacifica all’indomani dei risultati elettorali di novembre, dal momento che le precedenti elezioni nel 2012 avevano visto vincere di stretta misura John Dramani Mahama su Nana Akufo Addo, che aveva subito rigettato i risultati come fraudolenti e organizzato manifestazioni di protesta in piazza sedate dall’intervento della polizia: in quel caso la soluzione pacifica fu garantita proprio grazie all’intervento della Commissione Elettorale che ha decretato la vittoria di John Dramani Mahama.

Nondimeno, il Ghana è a ragione ancora ritenuto uno dei paesi politicamente più stabili di tutta l’Africa, il che ridimensiona le preoccupazioni legate a possibili attacchi terroristici del fondamentalismo islamico che nel 2016 ha colpito i paesi vicini, Burkina Faso e Costa d’Avorio. Il carattere tradizionalmente poroso dei confini nella regione dell’Africa occidentale e la disponibilità di significative quantità di armi – come dimostra il caso della Costa d’Avorio – concorrono però a limitare la capacità dello Stato in materia di controllo e di garanzia della sicurezza.

Il rischio di infiltrazioni terroristiche provenienti dall’esterno ha determinato una crescente attenzione alla presenza di migranti e profughi transfrontalieri, senza però una accresciuta capacità istituzionale di monitorare nel dettaglio le dinamiche in corso.

In Ghana ci sono quasi 17.500 rifugiati e 2 mila richiedenti asilo in attesa di risposta e non si tratta di situazioni dell’ultima ora; il picco fu raggiunto piuttosto alcuni decenni fa, nel 1993, quando il paese diede riparo ad oltre 150 mila rifugiati. Il campo rifugiati Buduburam, ad Accra, fu aperto nel 1990 dalle Nazioni Unite per dare riparo ai rifugiati fuggiti dalla guerra civile in Liberia (1989-1996) e poi da quella in Sierra Leone (1991-2001), dalla seconda guerra civile in Liberia (1999-2003) e dalle due guerre civili in Costa d’Avorio (2002-2004 e 2011). Il campo ha ospitato decine di migliaia di profughi; negli ultimi anni ne è stata annunciata la chiusura a seguito del rimpatrio volontario nei rispettivi paesi di molti rifugiati.

Nel frattempo, è diventato una discarica a cielo aperto dove vengono abbandonati e spesso bruciati rifiuti indifferenziati, ma continua ad essere area di insediamento di migranti arrivati dai paesi vicini. Il Ghana, infatti, per quanto manchino statistiche ufficiali regolari e dettagliate, è storicamente paese di destinazione permanente di migranti economici, impiegati soprattutto nelle miniere, di migranti stagionali da Burkina Faso, Niger e Mali, e di mandriani di bestiame di etnia nomade Fulani (o Peul), dediti alla pastorizia e al commercio in tutta l’Africa occidentale[31].

Sono invece 23 mila i rifugiati ghanesi all’estero e 11 mila i richiedenti asilo. Rispetto ai circa 25 milioni di abitanti del Ghana, si stima che ci siano complessivamente oltre 4 milioni di persone originarie del paese che risiedono all’estero. Il Ghana è attraversato da processi migratori sia interni - che hanno origine nelle zone settentrionali per effetto tanto della mancanza di opportunità di impiego remunerato quanto del peggioramento delle condizioni climatiche con il prolungamento della stagione secca, e che sono diretti verso la capitale Accra - sia internazionali, dinanzi all’impossibilità di trovare lavoro anche nella capitale.

 

Niger

A dispetto delle critiche rivolte dalle opposizioni di ridurre gli spazi di democrazia nel paese, il governo del Parti nigérien pour la démocratie et le socialisme (PNDS) e del presidente Mahamadou Issoufou - eletto nel 2011 e nello stesso anno uscito indenne da un complotto ordito da alcuni militari per ucciderlo, e poi riconfermato il 20 marzo 2016 in seguito a un ballottaggio vinto nettamente (con il 92,5% dei voti) contro l’oppositore Hama Amadou, che aveva condotto la campagna elettorale dal carcere (con l’accusa di traffico di bambini) ed è poi riparato in Francia per ragioni di salute - è un esempio paradigmatico del sostegno dell’Occidente, in questo caso soprattutto di Francia e Stati Uniti, per i governi della regione saheliana, diventata chiave nella guerra al terrorismo e al traffico di uomini, armi e droga.

Le relazioni con gli Stati Uniti sono imperniate sul tema della sicurezza e il Niger sta diventando una base operativa molto importante per tutte le operazioni di lotta al terrorismo condotte dagli Stati Uniti nella regione. L’UE è la principale fonte di Aiuti pubblici allo sviluppo per il Niger, che ha nella Francia il primo donatore bilaterale e il principale partner commerciale.

Da questo punto di vista, il Niger è un caso esemplare non solo dell’interesse europeo verso la regione, ma anche delle caratteristiche di quella stessa regione, in quanto si tratta di un paese molto povero, con elevata disoccupazione, una popolazione molto giovane, diffusa corruzione e crescente malessere sociale. Una regione considerata strategica per il rischio di infiltrazioni della propaganda fondamentalista islamica, come dimostrano i casi di Boko Haram in Nigeria e la presenza di gruppi come al Qaida in the Islamic Maghreb (AQIM) responsabili degli attentati in Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio, che può diventare molto concreto in Niger.

La cooperazione militare a livello regionale tra Nigeria, Ciad e Niger ha contribuito a riconquistare gran parte del territorio nigeriano e a contenere l’avanzata di Boko Haram che, tuttavia, mantiene ancora la capacità di realizzare azioni terroristiche che determinano flussi di rifugiati e di sfollati interni, rischio che corre soprattutto Diffa, la regione sud-orientale del Niger vicina al Lago Ciad e una delle più povere del paese. Le scarse capacità militari e di amministrazione governativa, unite alla porosità dei confini, rendono molto vulnerabile il paese.

Nel maggio 2015, il Niger ha adottato una legge per reprimere i trafficanti di migranti che si dirigono in Libia (passando per Séguédine) e in Algeria (attraverso Arli) per poter poi raggiungere l’Europa, ma i risultati tardano a manifestarsi: nel 2014, oltre 80 mila migranti hanno attraversato il territorio nigerino per raggiungere il Maghreb e poi l’Europa, nel 2015 il flusso è aumentando interessando 120 mila migranti, nel 2016 il governo stima un’intensificazione del traffico che dovrebbe portare a 160 mila il numero di migranti che transiteranno per il Niger[32].

Le rotte delle migrazioni, ma anche della droga, che legano l’Europa con il Nord Africa (soprattutto Libia e Tunisia), il Sahel, l’Africa occidentale e il Golfo di Guinea si intrecciano con gli interessi occidentali nell’area e il Niger può risultare uno snodo molto importante.

Secondo l’ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite (UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, OCHA), a partire dal febbraio 2015 si sono registrati oltre 115 incidenti che hanno inciso sulla sicurezza, con l’effetto di uno sfollamento di oltre 241 mila persone nella regione di Diffa. Agli attacchi di Boko Haram sono avvenuti a cominciare da aprile 2016 e, tra maggio e giugno, per sei volte è stata colpita la città di Bosso, sempre nella regione di Diffa, mentre due assalti a bordo di moto e a cavallo hanno colpito il villaggio di Yebi, nei pressi di Bosso, dove vivono sfollati interni e oltre 14 mila rifugiati in fuga dalle violenze di Boko Haram in Nigeria. A seguito di questi fatti, secondo UNHCR, oltre 50 mila persone hanno abbandonato le loro abitazioni nel sud-est del Niger.

Oltre a 140 mila sfollati interni e altre 70 mila persone in condizioni di bisogno di una qualche protezione internazionale, il Niger ospita 125 mila rifugiati. Trattandosi di un paese molto povero, il numero di rifugiati che esso ospita “pesano” molto: si tratta di 130 rifugiati per ogni dollaro di reddito nazionale prodotto.

 

Nigeria

Negli ultimi mesi in Nigeria si sono intensificati gli attacchi nella regione petrolifera del Delta del Niger, determinando la riduzione di un terzo dell’estrazione del petrolio che continua ad essere l’asse portante dell’economia, ma anche fonte di corruzione e violenza diffusa nel paese. Ai primi di giugno un gruppo di militanti locali, i “Vendicatori del delta del Niger (Niger Delta Avengers), ha scritto su Twitter di aver attaccato in meno di una settimana due delle infrastrutture gestite dall’ENI, la pipeline Ogboinbiri-Tebidaba e quella Clough Creek-Tebidaba nello stato di Bayelsa, uno dei 36 stati della Nigeria, situato nel cuore della regione del Delta del Niger, dopo aver colpito in maggio impianti gestiti dalla Chevron e dalla Royal Dutch Shell, ritenuti causa del degrado ambientale e della corruzione endemica nella regione, a prevalenza cristiana. L’ENI ha confermato il fatto.

Il presidente della Nigeria in carica da un anno, Muhammadu Buhari, si propone insieme al suo partito All Progressives Congress (APC) l’obiettivo di normalizzare il paese, focalizzandosi però più che su altre cause di tensione, sul rischio di crescenti violenze riconducibili a movimenti fondamentalisti islamici, etno-nazionalismi e tensioni inter-religiose.

Tuttavia, la mancanza di concrete opportunità di impiego nel settore formale dell’economia continua ad alimentare la rabbia e il malessere sociale tra i giovani, mentre il consolidamento della dipendenza dell’economia del paese dalla rendita petrolifera contribuisce a mantenere bloccato il sistema, impedendo proprio l’emergere di nuove opportunità di lavoro necessarie per togliere terreno alla propaganda del fondamentalismo, ma anche per liberare il paese da nepotismo, corruzione, disoccupazione di massa ed elevata disuguaglianza: fenomeni che penalizzano soprattutto le zone povere del Nord, da sempre roccaforte musulmana, dove ha attecchito Boko Haram e dove si stima che la crisi economica e l’insicurezza abbiano indotto negli ultimi anni più di un milione di persone ad abbandonare le proprie case per sfuggire ai raid e ai massacri di Boko Haram, riparando in diversi campi profughi, mentre oltre 30 mila sarebbero le vittime del terrorismo negli ultimi sei anni.

Solo nel 2015, il numero di sfollati interni è aumentato da 1,2 milioni di persone alla fine del 2014 a circa 2,2 milioni alla fine del 2015, con un aumento di 964 mila persone (l’81%) concentrate nelle zone nord-orientali del paese, e circa 70 mila persone sono state costrette alla fuga dalla Nigeria.

L’organizzazione jihadista sunnita, diffusa nel nord della Nigeria, di Boko Haram (che significa “l’educazione occidentale è sacrilega” e si autodefinisce “Gente dedita agli insegnamenti del Profeta per la propaganda e il jihad”) è peraltro sempre più un fenomeno che mira a regionalizzarsi. Fondata nel 2002 nella città di Maiduguri capitale del Borno, stato nel nord-est della Nigeria, da Ustaz Mohammed Yusuf con l’idea di instaurare la shari’a in quello stato rifiutando qualsiasi forma di governo al di fuori dalla legge islamica, ha spostato poi la propria sede nel villaggio di Kanamma, vicino al confine col Niger, concentrandosi inizialmente sulle predicazioni trasmesse nella regione e considerate pericolose solo dal Consiglio dei dotti in scienze religiose, gli Ulema, finché la polizia ha avviato indagini nel 2009 che hanno portato alle prime azioni violente di Boko Haram.

Assassinati senza processo molti militanti, arrestato e ucciso in carcere il fondatore, il suo posto al vertice dell’organizzazione è passato al suo collaboratore Abubakar Shekau, su cui pendono taglie del governo nigeriano e di quello statunitense, che ha sviluppato la strategia militare e stragista dell’organizzazione.

Gli attacchi e la violenza sono andati da allora crescendo: nel 2013 la Nigeria ha dichiarato lo stato di emergenza e l’apice della violenza è stato raggiunto nel 2015. In quell’anno, gli attacchi dinamitardi di Boko Haram non si sono più limitati alla Nigeria, al cui interno un’area più grande era finita sotto il controllo dell’organizzazione, ma si sono estesi all’intero bacino del lago Ciad.

Il Camerun è stato il primo paese investito da aggressioni su vasta scala già nel 2014, nella città di Kolofata nel Nord, e le forze militari del paese si sono dovute impegnare nello smantellamento di campi di addestramento di Boko Haram nel dipartimento di Logone e Chari, nella regione dell’Estremo Nord del Camerun. Anche Niger e Ciad hanno subito attacchi a civili e militari, con attentati, uccisioni, rapimenti di massa[33], tratta di schiave e prostituzione e villaggi dati alle fiamme. In particolare, il Niger è diventato oggetto di attacchi da quando, dal 2013, ha iniziato a ricevere nell’area di Diffa, un numero elevato di profughi in fuga dalla Nigeria.

L’incapacità dei paesi del Sahel di controllare le frontiere ha agevolato la nuova strategia di internazionalizzazione a carattere transfrontaliero di Boko Haram, spingendo il governo nigeriano a richiedere l’intervento di Camerun, Ciad e Niger al proprio fianco nel Nord-Est contro Boko Haram. Sono stati così messi in campo 8.500 soldati dei paesi vicini e le truppe del Camerun e della Nigeria stanno preparando una vasta offensiva militare contro la principale base logistica di Boko Haram, nella foresta di Sambisa nel Nordest della Nigeria: si tratta di un precedente da segnalare, rispetto alla tradizionale rivendicazione nigeriana di piena sovranità nazionale sul proprio territorio e di leadership regionale. Nel 2014 il leader di Boko Haram ha espresso la propria vicinanza al capo dei talebani, il mullah Omar, e a quello di al Qaeda, Al-Zawahiri e nel 2015 ha affermato il proprio supporto all’Isis e al Califfo al Baghdadi.

Il caso di Boko Haram presenta diverse assonanze con quanto succede in Mali, a seguito della rivolta dei Tuareg nel nord che ha portato alla dichiarazione d’indipendenza della regione dell’Azawad (durata un anno) e del colpo di Stato militare che ha deposto il presidente democraticamente eletto Amadou Toumani Touré nel 2012.

Nell’assenza di una presenza governativa nel Nord del paese, i gruppi estremisti avevano avuto facile gioco nel mettere radici tra la popolazione, con gruppi come al-Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM), il gruppo Ansar Dine (Ausiliari della religione), il Movement for Unity and Jihad in West Africa (MUJAO) e la brigata degli “inturbantati” di Mokhtar Belmokhtar, poi fusasi con il MUJAO per costituire il battaglione al-Mourabitoun (Sentinelle della religione), allineato con AQIM.

Peraltro, circolavano anche voci sulla presenza di alcune centinaia di combattenti di nazionalità nigeriana appartenenti a Boko Haram nella città di Gao, nella regione dell’Azaward. Anche in questo caso, l’intervento militare con l’assistenza straniera (in questo caso l’azione militare francese con l’operazione Barkhane) si è rivelato decisivo, come pure importanti sono stati i successi della coalizione promossa dalla Nigeria contro Boko Haram; ma non è stata azzerata la capacità dei gruppi terroristici di realizzare attentati, come dimostrano gli attacchi a luoghi frequentati da turisti in Mali, ma anche in Burkina Faso e Costa d’Avorio[34].

Non solo le milizie islamiche, ma sempre più anche i pirati del Golfo di Guinea operano nella regione a livello transfrontaliero: dunque, la scarsa capacità (malgrado le pretese dei governi dell’area) di controllare il territorio e le frontiere, in realtà molto porose, e la debolezza in materia di intelligence e monitoraggio rendono fondamentali processi di collaborazione e cooperazione regionale (ivi compresa la promozione e valorizzazione di una mobilità umana a livello regionale utile per lo sviluppo), più ancora che di accordi bilaterali di cooperazione dell’UE con singoli paesi.

In questo contesto, L’Italia è il paese d’elezione per i profughi nigeriani diretti verso l’Europa. Nel 2015, i nigeriani hanno rappresentato il 2% degli arrivi in Europa via Mediterraneo; 31.460 nigeriani hanno fatto richiesta d’asilo in Europa, di cui più della metà (17.895 pari al 57%, rispetto a 9.700 nel 2014) in Italia, a fronte di arrivi nel nostro paese di oltre 22 mila nigeriani, secondo fonti sia UNHCR che Eurostat, il che fa dei nigeriani la prima nazionalità per numero di richiedenti asilo in Italia.

Non si tratta però di una presenza complessivamente numerosa in Italia: pur essendo il paese africano più popoloso, in Italia risiedono poco più di 70 mila nigeriani. A dispetto delle gravi condizioni di vita in Nigeria, meno del 5% dei migranti ottiene lo status di rifugiato in Europa e nel complesso circa il 25% ottiene protezione nelle varie forme previste dagli ordinamenti nazionali: 2.955 decisioni positive (di cui 1.725 per motivi umanitari[35], 720 per protezione sussidiaria[36] e 510 con lo status di rifugiato) su 11.340 casi nel primi tre trimestri del 2015.

Complessivamente, l’UNHCR stima che i rifugiati nigeriani all’estero siano oltre 152 mila, cui si aggiungono quasi 16 mila richiedenti asilo in attesa di risposta. Un dato importante è che oltre un quinto delle richieste d’asilo presentate in Italia è rappresentato da donne, per la maggior parte adolescenti o da poco maggiorenni (in generale ragazze tra i 15 e i 24 anni) provenienti dal sud del paese, il che, secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, è indice di un alto rischio di finire nella tratta destinata allo sfruttamento sessuale.

 

Senegal

Il Senegal è un paese che si caratterizza per la relativa stabilità politica nella regione, ma certamente gli attacchi terroristici nei paesi del Sahel hanno implicazioni anche per il paese dove ci sono comunque tensioni per i progressi molto lenti sul piano delle riforme, per la corruzione diffusa[37] e dove le spinte separatiste nella regione della Casamance, dopo trenta anni di tensioni e violenza, sembrano oggi trovare una disponibilità al negoziato da parte del governo e del Mouvement des forces démocratiques de Casamance (MFDC).

Proprio i recenti attacchi dell’organizzazione fondamentalista AQIM in Burkina Faso e Costa d’Avorio, che mostrano l’intenzione e la capacità del gruppo di agire al di fuori della base tradizionale nel nord del Mali, rappresentano una minaccia per tutti i governi della regione che appoggiano le operazioni francesi di lotta al terrorismo, Senegal compreso. Questo paese ospita una delle due principali basi militari francesi in Africa e, dopo gli attentati di marzo rivendicati da AQIM, ha preso la decisione di condividere con Burkina Faso, Mali e Costa d’Avorio azioni di intelligence per la lotta al terrorismo. Il Senegal ha anche preso parte alla forza militare di peace-keeping in Mali.

L’effetto collaterale e indesiderato di un’azione più incisiva di contrasto del terrorismo all’interno del Senegal, in termini di restringimento delle libertà individuali, politiche e di movimento delle persone, potrebbe essere quello di far crescere rabbia e tensioni sociali, mettendo a repentaglio dinamiche tradizionali di spostamento transfrontaliero di persone.

Un fattore chiave che determina l’emigrazione in Senegal è il degrado ambientale e la mancanza di opportunità di lavoro. In effetti, le migrazioni interne al paese sono molto maggiori rispetto a quelle internazionali: in base a i dati del censimento del 2013, i migranti interni che si sono sposati dalle zone rurali a quelle urbane (in particolare, i grandi centri: Dakar su tutti, ma anche altre città che gravitano attorno a Dakar, come Thiès, Diourbel e Kaolack) sono quasi 1,9 milioni di persone, mentre i senegalesi emigrati all’estero negli ultimi cinque anni sono poco più di 156 mila individui, cioè rispettivamente il 14,6% e l’1,2% della popolazione residente in Senegal[38].

Si è così attivato un circolo vizioso di crisi ambientale che determina spostamenti permanenti di masse all’interno del paese, al di là di migrazioni stagionali tradizionalmente presenti durante la stagione delle piogge, il che a sua volta è un fenomeno che determina una pressione antropica eccessiva su risorse naturali fragili, spezzando l’equilibrio storico tra insediamenti umani ed ecosistemi locali e accentuando fenomeni di desertificazione ed erosione dei suoli.

All’interno del Senegal, la capitale è di gran lunga la prima meta, con un saldo migratorio netto positivo pari a 574 mila immigrati. Per quanto riguarda le migrazioni internazionali, invece, le zone costiere registrano molti pescatori che si dirigono verso gli Stati africani frontalieri. Ma il fenomeno delle migrazioni internazionali non stagionali è soprattutto rivolto verso l’Europa, dove si concentrano i due terzi dei senegalesi residenti all’estero, con un numero elevato di famiglie nelle regioni di Dakar, Diourbel, Thiès, Louga e Kaolack che hanno familiari emigrati all’estero.

I dati relativi alle migrazioni internazionali variano molto a seconda delle fonti e ciò è sicuramente dovuto alla difficoltà di stimare un fenomeno che si caratterizza soprattutto per le vie informali, tenuto conto della porosità dei confini, di pratiche tradizionalmente transfrontaliere e del principio di libera circolazione delle persone all’interno della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Communauté Économique Des États de l’Afrique de l’Ouest, CEDEAO).

In ogni caso, le stime indicano che l’Italia è il paese che accoglie il numero più alto di senegalesi (il 26,2%), seguita da Spagna (20,9%) e Francia (11,7%). In Africa, invece, il principale paese di destinazione dei senegalesi che emigrano all’estero è il Gambia (10,2%).

L’Italia ha raggiunto nel 2015 il picco di richiedenti asilo (83.200 domande), e dopo Nigeria, Pakistan e Gambia, il Senegal è risultato il quarto paese per numero di richiedenti (6.400 domande).

Molti di quanti partono dal Senegal per l’Italia sono ragazzi che partono da aree rurali e sobborghi urbani in cui le prospettive di lavoro e reddito non sono elevate, che hanno un livello di istruzione formale piuttosto basso e che si immaginano di intraprendere un cammino coronato da successo in Europa, nel senso di trovare facilmente un lavoro per sostenere la famiglia rimasta in patria. A fianco di chi coltiva dunque il miraggio di un eden a portata di mano attraversato il Mediterraneo, poco consapevole del rischio di perdere la vita in viaggio ma anche di quello che la vita in clandestinità comporterà in Europa, c’è un numero invece molto limitato di giovani migranti con livelli elevati di istruzione che configurano per il Senegal un fenomeno di fuga di cervelli.

In tutti questi casi, la strategia più opportuna di cooperazione internazionale sembra essere quella di puntare sulla creazione in Senegal di reali opportunità di impiego a condizioni dignitose e sostenibili nel tempo per i giovani, una sfida centrale che la cooperazione allo sviluppo ha sempre evitato di porre come prioritaria, piuttosto che favorire con incentivi finanziari il rientro in patria di chi è già emigrato, che pone sempre problemi di reputazione e vergogna dinanzi alle aspettative di familiari e conoscenti.

Si tratta di considerazioni generali, che interessano qui il Senegal, ma che riguardano il fenomeno degli arrivi di migranti e richiedenti asilo che attraversano il confine tra Grecia e Turchia, perché le statistiche dicono che uno su tre è un minorenne e nel 2015 si stima che 300 mila minori abbiano attraversato il Mar Mediterraneo in cerca di rifugio. Evitare la detenzione amministrativa anche quando per periodi brevissimi (che non è purtroppo la norma), come in generale operazioni di respingimento in alto mare e la riconsegna a paesi come la Libia dei migranti clandestini sarebbe ovviamente auspicabile in questi casi. In relazione a questo, il compito della cooperazione internazionale allo sviluppo dovrebbe essere creare le condizioni favorevoli per far scegliere di restare chi si trova nel proprio paese, più che convincere a ritornare chi lo ha lasciato.

Proprio per questo l’idea di creare opportunità di impiego che rafforzino nei giovani la voglia di restare in Senegal per costruirsi un progetto di vita, guardando semmai con interesse a prospettive di mobilità umana a carattere regionale e transfrontaliero come pure ai cosiddetti ambito del co-sviluppo, è un asse dell’impostazione della nuova politica italiana di cooperazione allo sviluppo in Senegal da seguire con particolare interesse per la valenza di indirizzo più generale che può interessare molti paesi.


 

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar): un modello italiano di accoglienza
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

 

L’Italia ha registrato negli ultimi anni, nonostante il flusso migratorio costantemente in crescita, evidenti passi avanti nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Anche grazie al recepimento della normativa europea in materia di asilo e accoglienza, si è proceduto a creare un vero e proprio sistema, strutturato e capillare, in grado di offrire risposte a un fenomeno inarrestabile dai numeri in continuo aumento. La sfida attuale è il superamento dell’approccio emergenziale che ha caratterizzato i decenni scorsi. Nel 2015 sono stati 153.842 i profughi sbarcati sulle nostre coste e 69.500 sono stati gli arrivi registrati dal 1 gennaio al 1 luglio 2016, in linea con lo stesso periodo del 2015. Sono però in costante aumento le richieste d’asilo: secondo i dati del Ministero dell’interno, l’Italia nel 2015 ha ricevuto 83.970 richieste d’asilo, con un aumento del 32% rispetto alle 63.456 del 2014.

Al 1 giugno 2016, secondo i dati del Ministero dell’interno, l’Italia accoglieva 119.294 richiedenti asilo su tutto il territorio nazionale, circa 16.000 in più rispetto al 2015. Al 31 luglio 2016 le presenze sono risultate 139.724.

La primissima fase, successiva allo sbarco, consiste nel soccorso e nella prima assistenza dei migranti. Tali funzioni continuano ad essere svolte nei centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa). Segue l’accoglienza vera e propria, articolata in tre tipologie di strutture distribuite su tutto il territorio nazionale: i centri governativi (Cara, Cda); i centri di accoglienza straordinaria (Cas); le strutture del circuito Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

Sempre secondo i dati del Ministero dell’interno al 1 giugno 2016, nel sistema Sprar vi sono circa 19.700 persone, nell’ambito di oltre 430 progetti, mentre circa 86.000 persone vengono ospitate negli oltre 3.000 CAS e circa 13.472 nei 16 centri governativi e nei 4 hotspot.

I centri sono gestiti dal Ministero dell’interno attraverso le prefetture, che appaltano i servizi dei centri a enti gestori privati attraverso bandi di gara. Devono essere garantiti l’alloggio, i pasti, l’assistenza legale e sanitaria, la mediazione linguistica, i servizi psico-sociali e l’insegnamento di base della lingua italiana.

Quanto al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, spetta ai Comuni la gestione dell’accoglienza con fondi del Ministero dell’interno attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. I singoli comuni interessati, insieme a organizzazioni del terzo settore selezionate a livello locale, presentano il proprio progetto che viene successivamente valutato e approvato dallo stesso Ministero.

A differenza del panorama europeo, si tratta di progetti di accoglienza di piccole dimensioni finalizzati a offrire al richiedente asilo percorsi di inserimento socio-economico e di inclusione sociale nel territorio. È stato, infatti, dimostrato dalla pratica dello Sprar che i progetti e le attività programmate a livello nazionale rimangono esperienze non sostenibili, nel momento in cui manchi una loro declinazione locale, in grado di adattare misure, strategie e pratiche di intervento alle peculiarità del contesto dei singoli territori. La spinta ‘locale’ dell’inclusione sociale è ulteriormente rafforzata dalle competenze e dalle responsabilità che sono riconosciute in capo ai comuni nelle politiche e nei servizi di welfare e alle regioni in termini di programmazione"[39]. I servizi che ciascun progetto deve offrire sono definiti nel Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza integrata  in favore di richiedenti e titolari di  protezione internazionale e umanitaria[40].

Dalla fine del 2012 il Ministero dell’interno ha predisposto diversi allargamenti straordinari della rete Sprar. Dal punto di vista dei beneficiari accolti, si è passati dalle 2.013 persone del 2003, alle 8.412 del 2008; nel 2012 gli accolti sono saliti a 7.823, nel 2013 a 12.631 e nel 2014 a 22.961. Nel 2015 si è potuto dare accoglienza a 29.698 persone, ossia il 29,3% in più rispetto all’anno precedente. Sono circa 1.500 i Comuni coinvolti, su un totale di 8.000.

È stato approvato il 10 agosto 2016 un decreto ministeriale[41] che semplifica il percorso di adesione all’accoglienza dei migranti attraverso i progetti Sprar e introduce un sistema di accreditamento permanente a cui i Comuni potranno aderire in ogni momento, senza la pubblicazione di bandi. Saranno esaminati i singoli progetti di accoglienza, e se valutati positivamente, l’accreditamento sarà permanente, assicurando allo stesso tempo un monitoraggio attento e continuo dei progetti. Si sta inoltre mettendo a punto un sistema di incentivi economici per spingere i Comuni a partecipare a questo tipo di accoglienza.

La realizzazione di progetti Sprar di dimensioni medio-piccole - ideati e attuati a livello locale, con la diretta partecipazione degli attori presenti sul territorio - dovrebbe contribuire a costruire e a rafforzare una cultura dell’accoglienza presso le comunità cittadine e favorire la continuità dei percorsi di inserimento socio-economico dei beneficiari nel territorio. Sono numerosi i progetti su tutto il territorio nazionale che hanno saputo cogliere quest’idea di accoglienza, riuscendo a raggiungere risultati tangibili in termini di inclusione e sviluppo economico e sociale.

 

Donne richiedenti asilo e rifugiate

 

Nel periodo compreso tra il dicembre 2014 e il novembre 2015, l’Eurostat certifica che i richiedenti asilo in Europa sono stati 1.242.155 e tra essi ci sono 339.955 donne, ovvero una percentuale pari al 27% dell’intera popolazione dei rifugiati arrivati. Molto più bassa la percentuale in Italia: al 30 giugno 2016, secondo i dati OIM, la percentuale è del 14%.

Fonte: OIM

 

 

Per quanto riguarda l’accoglienza delle donne richiedenti asilo e rifugiate, all’interno dei progetti SPRAR il 26% dei beneficiari sono donne, le quali salgono al 46% nelle categorie vulnerabili. I percorsi di accoglienza e di integrazione delle donne sono caratterizzati da una maggiore complessità e difficoltà.

All’interno dei singoli progetti Sprar, sono previste azioni di sostegno a vari livelli. Per le donne più vulnerabili, spesso vittime di violenza nel paese di origine o durante la fuga, vengono proposti specifici percorsi di sostegno per facilitare il loro inserimento socio-culturale. Si tratta di sensibilizzare e informare gli operatori socio-sanitari dei territori coinvolti riguardo alle necessità specifiche delle richiedenti asilo e rifugiate, sulla loro situazione, sui traumi di vario genere e grado a cui possono essere state soggette. Allo stesso tempo si punta a favorire l’emancipazione e la presa di coscienza delle donne richiedenti asilo e rifugiate riguardo alle loro capacità e potenzialità. Si va dall’attivazione di servizi di consulenza etnopsichiatrici e/o transculturali specifici alla realizzazione di corsi di italiano e alla creazione di gruppi di auto-aiuto rivolti a donne finalizzati alla (ri)costruzione/ rafforzamento dell’autostima e all’empowerment. Per facilitare la frequenza delle donne beneficiarie del progetto e la loro partecipazione alle attività educative e formative sono previste alcune misure specifiche (ad es. servizi di babysitting).

Molta attenzione viene dedicata alle donne vittime di tratta a cui sono rivolti programmi specifici previsti dall’art. 18 della legge n. 228 del 2003, i quali consentono di regolarizzare la posizione giuridica delle vittime in Italia e garantiscono assistenza offrendo adeguate condizioni di alloggio, di vitto, di assistenza sanitaria e legale e la possibilità di accedere ad una serie di servizi ed attività, in base al piano di assistenza individualizzato elaborato in base ai loro bisogni specifici: accoglienza residenziale, counselling psicologico, assistenza legale, mediazione linguistico-culturale, accompagnamento ai servizi socio-sanitari, formazione professionale, tirocini aziendali, supporto nella ricerca del lavoro, inserimento lavorativo.

Dal 2012 è attivo presso il Dipartimento per le pari opportunità il progetto NO TRATTAOsservatorio Nazionale sulla tratta tra rifugiati e richiedenti asilo, co-finanziato dal Programma “Prevenzione e lotta contro il crimine” della Commissione Europea, il quale analizza le correlazioni tra tratta degli esseri umani e protezione internazionale con l’obiettivo di aumentare la capacità di identificare e di fornire assistenza alle vittime di tratta all’interno del sistema di asilo. Questa linea di azione prevede iniziative di sensibilizzazione per la costruzione di modelli virtuosi di intervento, diffondendo le buone prassi sulla presa in carico delle vittime di tratta richiedenti/titolari la protezione internazionale all’interno del Sistema Sprar. Il progetto consiste nei seguenti filoni di attività: ricerca qualitativa e monitoraggio sul tema della relazione tratta e protezione internazionale in diverse regioni italiane ed europee; capacity building e azioni di rete per gli operatori attraverso una cospicua attività di formazione a quegli operatori che, a vario titolo, si occupano di richiedenti/titolari di protezione internazionale e di vittime di tratta; benchmarking e modellizzazione degli interventi (manuale operativo, raccolta di buone prassi); campagna di informazione rivolta sia ai beneficiari finali del progetto che agli operatori.

 

 

 


 

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR)
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

 

L’United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, è l’Agenzia delle Nazioni Unite preposta alla protezione ed all’assistenza dei rifugiati nel mondo ai sensi di quanto stabilito dalla normativa internazionale in materia (a partire dalla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal relativo Protocollo addizionale del 1967). Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 14 dicembre 1950 con la Risoluzione 428 (V), ha il compito primario di fornire e coordinare la protezione internazionale e l’assistenza materiale ai rifugiati ed alle altre categorie di persone incluse nella sua area di competenza (rimpatriati, richiedenti asilo, sfollati interni ed apolidi).

Nell’esercizio del suo mandato e nel quadro delle attività di protezione internazionale e di assistenza, l’Agenzia assicura i seguenti compiti: la registrazione dei rifugiati; la consulenza per la documentazione; la raccolta dei dati anagrafici e biografici dei richiedenti asilo; la localizzazione sul territorio per fornire protezione e altre soluzioni durevoli alle esigenze derivanti dalla loro condizione, ovvero strumenti di assistenza ai rifugiati in fuga nel corso di crisi umanitarie; la promozione di programmi di istruzione, sanità ed alloggio ed operazioni di rimpatrio volontario, qualora possibili, nonché forme di sostegno per favorire l’autosufficienza dei rifugiati nei Paesi di asilo o per garantire loro condizioni per il reinsediamento in Paesi terzi, laddove essi non possano essere rimpatriati e non godano di sufficienti garanzie nel primo Paese di accoglienza.

A norma dell’articolo 35 della Convenzione di Ginevra del 1951, agli Stati parte del Trattato è chiesto esplicitamente di cooperare all’esercizio delle funzioni svolte dall’Agenzia al fine di agevolarne il compito di sorveglianza sull’applicazione delle disposizioni della Convenzione stessa, fornendo in particolare  informazioni ed indicazioni statistiche sullo statuto dei rifugiati, sui meccanismi applicativi della normativa internazionale e sulla legislazione domestica in itinere in materia.

L’Agenzia, strutturata nei suoi uffici di Ginevra e di New York, è direttamente al servizio dell’Assemblea generale e del Consiglio Economico e sociale delle Nazioni Unite, cui è chiamata a riferire sugli aspetti di coordinamento delle sue attività in forma verbale attraverso i contatti diretti fra l’Alto Commissario ed il Consiglio e, in forma scritta, con una relazione annuale presentata all’Assemblea di riepilogo complessivo.

A livello organizzativo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha nella figura dell’Alto Commissario il suo responsabile di vertice e di controllo (attualmente la carica è ricoperta da Filippo Grandi, primo italiano a ricoprire tale ruolo). Ad un Comitato Esecutivo composto da 78 membri (tra i quali l’Italia), spetta il compito di approvare i programmi biennali dell’Agenzia e le relative previsioni di spesa, nonché di autorizzare l’Alto Commissario a fare richiesta per fondi aggiuntivi. Di norma tiene una sessione annuale dei suoi lavori, a Ginevra nel corso del mese di ottobre.

Fra gli uffici che rientrano nella gestione diretta dell’Alto Commissario si annoverano, l’Ufficio esecutivo, l’Inspector General’s Office (IGO), l’Ethics Office, il The Policy Development and Evaluation Service (PDES) e l’Ufficio di New York dell’Agenzia[42].

Da ultimo, l’ufficio dell’UNHCR di New York assicura che i temi di interesse dell’Agenzia vengano debitamente presi in considerazione nei vari consessi decisionali presso la sede principale delle Nazioni Unite, a partire dalla discussione in seno al Consiglio di Sicurezza, delle questioni relative ai Paesi in cui siano presenti iniziative di peacekeeping o peacebuilding sotto l’egida dell’ONU.

Il budget complessivo dell’Agenzia per il 2015 è stato di 7 miliardi di dollari[43]. Dato il crescente numero delle situazioni in cui è richiesto l’intervento dell’UNHCR, il bilancio dell’Agenzia, che era complessivamente di circa un miliardo di dollari all’inizio degli anni ‘90 era già salito a volumi che superavano, a giugno 2013, i 5 miliardi di dollari[44].

L’UNHCR è finanziato quasi interamente mediante contributi volontari provenienti principalmente dai governi, ma anche da organizzazioni intergovernative, da aziende e da singoli individui. Riceve una sovvenzione limitata dal bilancio ordinario delle Nazioni Unite per coprire i costi amministrativi ed accetta contributi “in natura”, compresi elementi necessari nelle crisi umanitarie quali tende, medicine, autocarri e trasporti aerei.

Per quanto riguarda la composizione del finanziamento, oltre l’80% del finanziamento complessivo proviene dai contributi volontari dei Governi e dell’Unione europea ed in misura residuale da contributi di altre organizzazioni o da enti privati, fondazioni, aziende e raccolte di fondi tra il pubblico.

I primi contributori nel 2015 sono stati gli Stati Uniti, Regno Unito Unione Europea, Giappone e Germania. L’Italia figura nel 2015 come 22° contributore[45].

Gli uffici dell’UNHCR attualmente sono presenti in 123 Paesi, per un totale di oltre 9.300 operatori tra personale internazionale e personale locale[46]. Nel corso dei cinque decenni di attività, l’Agenzia ha offerto un sostegno a milioni di persone. Attualmente le persone assistite delle diverse categorie che rientrano nella competenza dell’UNHCR (rifugiati, richiedenti asilo, rifugiati rimpatriati, sfollati, apolidi) sono circa 55.000.000, la maggior parte dei quali presenti in Asia ed Africa[47].

 

In Italia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) è presente fin dal 1953[48].

L’ufficio di Roma dell’UNHCR, partecipa alla procedura di determinazione dello status di rifugiato in Italia e svolge attività relative alla protezione internazionale, alla formazione ed al training, alla diffusione delle informazioni sui rifugiati e richiedenti asilo in Italia e nelle varie aree di crisi in tutto il mondo, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica ed alla raccolta fondi presso governi, aziende e privati cittadini.

Dal 2006, l’ufficio italiano dell’UNHCR ha ampliato le proprie competenze diventando Rappresentanza Regionale responsabile, oltre che per l’Italia, anche per Cipro, Grecia, Malta, Portogallo, San Marino e Santa Sede, con il ruolo di coordinare le attività regionali in favore di richiedenti asilo e rifugiati presenti in questi paesi. Dal 2009 la Rappresentanza Regionale è responsabile anche per l’Albania.

Lo Statuto dell’UNHCR assegna all’Alto Commissario la responsabilità di assicurare protezione internazionale e di cercare soluzioni permanenti per le persone di sua competenza.

Lo Statuto elenca, o implica, una serie di attività e misure di cui l’Alto Commissario può servirsi per ottemperare a queste sue funzioni. Queste consistono essenzialmente di:

-     Promozione della ratifica e supervisione dell’applicazione di convenzioni internazionali e altre misure per la protezione dei rifugiati (quali, ad esempio, la Convenzione di Ginevra, il cui articolo 35 impone agli stati l’obbligo di collaborare con l’Alto Commissario); questo include il monitoraggio e, in alcuni paesi, la partecipazione diretta, alle procedure per la determinazione dello status di rifugiato, nonché la promozione di legislazione nazionale in linea con gli standard internazionali in materia;

-     Promozione dell’ammissione dei rifugiati nel territorio di Paesi d’asilo - inclusi quelli non firmatari della Convenzione di Ginevra. Il monitoraggio e l’intervento avvengono secondo le modalità ritenute più opportune in difesa dei diritti fondamentali dei rifugiati quali, in primo luogo, il diritto a non essere respinto alla frontiera se proveniente dal paese di persecuzione, o ad esservi comunque rinviato. A questo fondamentale diritto, chiamato generalmente con termine francese non-refoulement, si aggiungono naturalmente i diritti previsti dalla convenzione di Ginevra e dalle varie Convenzioni sui diritti umani in generale;

-     In alcuni paesi, ove il godimento di certi diritti è soggetto al possesso di certificazioni che il paese d’asilo non rilascia, l’UNHCR, in accordo con il paese in questione, svolge una funzione quasi-consolare a favore dei rifugiati. In Italia, per esempio, l’UNHCR rilascia il nulla osta ai rifugiati che intendono sposarsi;

-     Il processo di determinazione dello status di rifugiato: benché in linea di principio i rifugiati siano tali non appena ne abbiano i requisiti e indipendentemente dal riconoscimento, di fatto il pieno godimento dei diritti loro assegnati dipende dal riconoscimento formale della loro condizione. Nei Paesi che non hanno ratificato la Convenzione di Ginevra, o che non hanno ancora messo in atto una procedura per la determinazione dello status di rifugiato, i funzionari UNHCR determinano lo status ai sensi del mandato. È importante notare che, benché la definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione e nello statuto sia pressoché la stessa, essere riconosciuto solo dall’UNHCR spesso significa non avere altri diritti oltre quello al non-refoulement. L’UNHCR non può infatti imporre agli Stati di consentire ad un rifugiato di risiedere in maniera duratura sul loro territorio, o di permettere l’accesso al mercato del lavoro;

-     Assistenza a governi e organizzazioni per favorire il rimpatrio volontario o l’assimilazione all’interno di nuove comunità nazionali. Il rimpatrio volontario è normalmente considerato la soluzione migliore, quando possibile. Quando questo non appaia invece fattibile in un ragionevole lasso di tempo, o in certe condizioni, l’UNHCR cerca di negoziare la possibilità dell’integrazione locale nel paese d’asilo - integrazione che di fatto è facilitata nei paesi parte della Convenzione di Ginevra. Il reinsediamento in un paese terzo può essere estremamente utile per favorire il ricongiungimento familiare o nel caso in cui il paese d’asilo non offra sufficienti garanzie di sicurezza (o, come nel caso del programma di reinsediamento dall’Indocina negli anni ‘80, per facilitare la gestione del problema nei paesi di prima linea). È però un’opzione estremamente costosa, offerta solo da pochi Paesi, che hanno la possibilità di selezionare i rifugiati che desiderano ospitare secondo i loro interessi. Benché l’Alto Commissariato abbia facilitato, nei suoi cinquant’anni di attività, il rimpatrio di diversi milioni di persone, e abbia negoziato il reinsediamento di alcuni milioni d’altri, di fatto per la maggior parte dei rifugiati oggigiorno le soluzioni vere sono elusive, e non mancano drammatici esempi di rifugiati che hanno trascorso anni in campi profughi - talvolta in condizioni miserabili..

-     Raccolta d’informazioni rispetto al numero, alle condizioni dei rifugiati, e alla legislazione che li concerne nei vari paesi d’asilo. L’UNHCR ha anche una funzione di raccordo e di stimolo per la ricerca e lo studio dei problemi che riguardano i rifugiati, che utilizza nella sua funzione consultiva presso i governi e le organizzazioni interessate;

-     Facilitazione del coordinamento degli sforzi delle organizzazioni private che si occupano del benessere dei rifugiati.

 

Categorie di persone rientranti nel mandato dell’UNHCR

Sono circa 55 milioni le persone di cui, al momento, si occupa l’UNHCR[49]. Si tratta in primo luogo di rifugiati (oltre 13 milioni) in paesi stranieri e di persone che rientrano nella propria terra dopo un soggiorno forzato all’estero. A questi si aggiungono gli sfollati interni (oltre 32 milioni) nel proprio stesso paese[50].

-    Rifugiati

Il diritto internazionale definisce rifugiato chiunque si trovi al di fuori del proprio paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni. I rifugiati sono riconosciuti tali dai governi che hanno firmato accordi sul loro status giuridico con le Nazioni Unite, o dall’UNHCR stesso secondo la definizione contenuta nello statuto dell’Alto Commissariato.

La protezione internazionale dei rifugiati costituisce il nucleo principale del mandato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Tale mandato, come espresso negli statuti e nella Convenzione del 1951 sullo Status dei Rifugiati, si è costantemente evoluto nel corso degli ultimi cinquanta anni.

Inizialmente, la protezione internazionale consisteva in una sorta di surrogato della protezione consolare e diplomatica, mentre oggi si è estesa notevolmente fino ad assicurare ai rifugiati il godimento dei loro diritti umani fondamentali e la sicurezza. Oltre alla Convenzione del 1951, la Comunità internazionale si è dotata di altri strumenti, sia a carattere universale che regionale, volti a proteggere i rifugiati.

L’Agenzia collabora con i governi ospitanti per tutelare i diritti umani fondamentali dei rifugiati ed adotta tutte le misure necessarie al fine di fornire assistenza durante l’intero processo della protezione internazionale: dall’impedire che le persone siano rimpatriate in un paese dove abbiano motivo di temere persecuzioni (refoulement), alla richiesta d’asilo, dall’ottenimento dello status di rifugiato fino al raggiungimento di soluzioni durevoli (rimpatrio volontario, integrazione all’interno dei paesi ospitanti o reinsediamento in un paese terzo).

L’UNHCR è impegnato in molteplici attività, sia sul campo che in sede centrale, nel tentativo di:

-    assicurare l’ottenimento dell’asilo e l’ammissione ai Paesi d’asilo, intervenire, se necessario, per evitare il refoulement ed agevolare le procedure per determinare lo status di rifugiato;

-    verificare le necessità e monitorare il trattamento dei rifugiati e dei richiedenti asilo;

-    garantire, in collaborazione con i governi, l’incolumità fisica dei rifugiati e delle altre persone di sua competenze;

-    individuare i gruppi vulnerabili assicurandone e privilegiandone l’assistenza;

-    collaborare con alcuni governi per definire la registrazione e la documentazione, partecipando alle procedure nazionali per la determinazione dello status di rifugiato;

-    favorire la diminuzione degli apolidi;

-    perseguire attivamente la rivitalizzazione dei regimi di protezione e collaborare con le organizzazioni non governative (ONG) e con altre organizzazioni internazionali a tale scopo;

-    promuovere la legislazione in favore dei rifugiati, incoraggiare l’accesso alla Convenzione e ai Protocolli, e favorire lo sviluppo delle istituzioni e della legislazione nazionale in materia;

-    proteggere gli sfollati ogniqualvolta siano soddisfatte le condizioni richieste dalle linee guida dell’organizzazione;

-    sviluppare costantemente la propria capacità di fornire protezione ai rifugiati;

-    promuovere e realizzare soluzioni durevoli agevolando il rimpatrio volontario, l’integrazione nel Paese ospitante o il reinsediamento in un Paese terzo;

-    occuparsi personalmente delle procedure relative al reinsediamento nei Paesi terzi.

-    Rimpatriati

I rifugiati sono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni sotto una minaccia estrema e, quasi sempre, il desiderio è quello di rientrare al più presto, appena le circostanze lo permettono. L’UNHCR assiste i rifugiati nella fase di ritorno volontario a casa. Una volta che questo avviene, l’organizzazione li aiuta a reintegrarsi nei paesi di origine e vigila sulla loro sicurezza. La durata di questa attività varia da caso a caso, ma raramente supera i due anni.

Nel 2015 il numero dei rimpatri volontari è sceso rispetto ai valori annui registrati nella decade precedente, passando da circa un milione a 126.000 unità.

-    Richiedenti asilo

Di questa categoria fanno parte coloro che, lasciato il proprio paese d’origine e avendo inoltrato una richiesta di asilo, sono ancora in attesa di una decisione da parte delle autorità del paese ospitante riguardo al riconoscimento dello status di rifugiato. Si tratta di circa 1 miolione di persone ogni anno, in larga parte residenti nei paesi di Nordamerica ed Europa. L’UNHCR li assiste nelle pratiche necessarie per ottenere lo status richiesto. Nel 2014 le nuove domande di asilo sono state 1,2 milioni[51].

 Apolidi

L’apolide è una persona che nessuno Stato riconosce come proprio cittadino. La prevenzione di nuovi casi di apolidia e la soluzione degli attuali sono attività che fanno parte integrante del mandato dell’UNHCR. A tale proposito l’Alto Commissariato promuove l’adesione degli Stati alla Convenzione del 1954 relativa allo status degli apolidi e alla Convenzione del 1961 sulla riduzione dell’apolidia. L’UNHCR fornisce inoltre agli Stati sostegno tecnico e consulenza su questioni relative all’apolidia. Si stima che attualmente nel mondo gli apolidi siano circa 9 milioni.

Se è vero che alcuni rifugiati possono essere anche apolidi, non necessariamente tutti gli apolidi sono anche dei rifugiati. Quella dell’apolidìa è comunque una questione che rientra nella competenza dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Nel 1974 infatti l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha richiesto all’UNHCR di fornire assistenza legale a questa categoria di persone e nel 1996 ha incaricato l’Agenzia di ampliare il suo ruolo anche alla prevenzione e alla riduzione del fenomeno dell’apolidia. Alla fine del 2015 risultano apolidi circa 3,5 milioni di persone, ma in realtà il loro numero potrebbe essere sensibilmente più alto[52]. 

-    Sfollati

A seguito di una richiesta del Segretario generale delle Nazioni Unite, da qualche anno l’Alto Commissariato ha progressivamente esteso protezione e assistenza anche ad alcune categorie di persone che non sono incluse nel mandato originario dell’organismo, contemplato nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nel Protocollo del 1967 sul diritto dei rifugiati. Tra questi, il gruppo principale è costituito dagli sfollati.

Come i rifugiati, gli sfollati (in inglese, Internally Displaced Persons, o IDPs) sono civili costretti a fuggire da guerre o persecuzioni, ma, a differenza dei rifugiati, essi non hanno attraversato un confine internazionale.

Non esistono statistiche certe sul numero di sfollati nel mondo. Si calcola però che a fine 2015 il numero degli sfollati fuggiti a causa di conflitti o persecuzioni e rimasti nel proprio Paese oscillasse intorno ai 32 milioni di persone[53].

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L’UNHCR per le donne rifugiate
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

 

Rispetto alla definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione del 1951, una nozione più estesa adottata dall’UNHCR ricomprende le persone che abbandonano il loro Paese poiché la loro vita, la loro sicurezza o libertà è minacciata da conflitti, violenze generalizzate o eventi che hanno seriamente compromesso l’ordine pubblico. In tale contesto, il genere può influenzare o orientare il tipo di male inflitto. Donne e ragazze sono spesso i principali obiettivi di violenze e abusi a causa del loro genere femminile. Per esempio, donne e ragazze sono più esposte agli stupri e ad altre forme di violenza legate al sesso, come violenze legate alla dote, matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili: tali atti possono spingere a richiedere lo status di rifugiate.

Le donne in molte società sono già esposte a specifici rischi e hanno meno probabilità di accedere ai propri diritti degli uomini; in situazioni di sfollamento questi rischi, in particolare di discriminazione e di violenza basata sul sesso, possono essere esacerbati, perché le strutture di sostegno delle loro comunità si sfaldano e la giustizia non è in grado di assicurare i diritti delle donne. Donne e ragazze non accompagnate, donne capofamiglia o incinte, disabili o anziane possono correre particolari rischi.

Le donne e le ragazze comprendono circa il 50% di ogni popolazione rifugiata, dispersa o apolide. UNHCR lavora per promuovere l’uguaglianza di genere e assicurare pari accesso alla protezione e all’assistenza. L’integrazione della prospettiva di genere è trasversale ad ogni settore e tra gli altri: UNHCR offre assistenza nella costruzione e nel mantenimento delle strutture di accoglienza in modo che siano sicure ed in grado di garantire la privacy per le donne; fa sì che i sistemi di distribuzione del cibo considerino i ruoli familiari e raggiungano tutti; che le strutture sanitarie siano accessibili e separate per uomini e donne; che le donne siano in grado di rifornirsi di acqua e di carburante senza correre il rischio di stupri e altri abusi.

La politica dell’UNHCR per le donne rifugiate, elaborata nel 1990 a seguito di numerose conclusioni generali del Comitato Esecutivo, si pone 3 macro-obiettivi:

·          la protezione che deve essere appropriata agli specifici bisogni;

·          le soluzioni durature

·          l’assistenza anche al fine della loro partecipazione all’individuazione di soluzioni durature.

Successivamente nel 1991 l’UNHCR ha pubblicato le prime Linee guida per la protezione delle donne rifugiate, sostituite nel 2008 dal Manuale per la protezione di donne e ragazze, nonché più recentemente le Raccomandazioni sull’armonizzazione degli standard di accoglienza per i richiedenti asilo nell’UE e la Nota sulle denunce di rifugiate connesse alle mutilazioni genitali femminili.

Le conclusioni adottate dal Comitato Esecutivo, sebbene non vincolanti, indicano ulteriori principi e misure per aumentare la protezione delle donne rifugiate, sfollate o che vogliono rientrare; tali misure possono includere procedure di asilo gender-sensitive (ad esempio, l’impiego di skilled female interviewers); tutela di coloro che subiscono violazioni ed accesso alle autorità preposte; assistenza psicologica e medica; riservatezza delle informazioni; assistenza  per riallocazione entro il paese o ristabilimento in un paese terzo.

I programmi di assistenza per le donne rifugiate agiscono sul piano dell’istruzione, della sanità ma anche dell’aiuto al sostentamento per evitare che le donne siano costrette a prostituirsi per sopravvivenza loro e delle loro famiglie.

La policy dell’UNHCR  mira ad accrescere la resilienza delle donne e a sostenere l’empowerment femminile nella convinzione che dalla condizione di sfollate le donne possano essere messe in condizione di assumere nuovi ruoli e di innescare cambiamenti positivi.

UNHCR, insieme al Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione  (UNFPA) e  alla Commissione  per le donne rifugiate (WRC) ha condotto nel novembre 2015 una missione informativa in Grecia e Fyrom i cui esiti sono contenuti in un Rapporto sui rischi connessi alla protezione di donne e ragazze nella crisi dei migranti e rifugiati nel Mediterraneo, pubblicato a febbraio 2016.

Partendo dalla constatazione che il viaggio dei migranti verso il Mediterraneo (quasi 1 milione, da gennaio a novembre 2015, di cui il 17% donne) espone i migranti stessi ad elevati livelli di violenza, incluse violenze legate al sesso e al genere (sexual and gender-based violence, SGBV) e sfruttamento lungo il tragitto, denuncia l’esposizione di categorie particolarmente vulnerabili - donne non accompagnate, in stato di gravidanza o di allattamento, ragazze adolescenti, bambini non accompagnati, bambine sposate precocemente e spesso a loro volta mamme di neonati, disabili, anziani - a particolari rischi e l’urgenza di una risposta effettiva in termini di protezione. La situazione attuale (initial assessment) è tale per cui donne e ragazze rifugiate e migranti incontrano gravi problemi di protezione e le risposte di governi, attori umanitari, Istituzioni dell’UE, agenzie e organizzazioni della società civile sono inadeguate e devono essere urgentemente migliorate.

Tra le raccomandazioni rivolte ai governi e alle Istituzioni dell’UE figurano: quella di elaborare dei criteri di vulnerabilità che orientino le priorità della risposta alle persone in cerca di protezione; di dedicare importanti risorse governative di staff con esperienza e capacità in materia SGBV e di coinvolgere attori locali della società civile con altrettanta expertise; a livello di servizi, di prevedere spazi adeguati per colloqui riservati per donne e bambini, centri di accoglienza sicuri, accessibili e rispondenti ai bisogni delle donne, di prevedere, in tutti i punti di ingresso, transito ed uscita, servizi di pronto soccorso psico-sociale, clinical-management dello stupro (CMR) tutela della salute riproduttiva.

 


 

L’avvio dell’Agenda 2030 sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
di Marco Zupi del Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI)[54]

 

L’importanza di rafforzare la capacità dei sistemi nazionali di statistica

Il 25 settembre del 2015, a New York, con la Risoluzione 70/1 è stato sottoscritto in ambito Nazioni Unite il piano di impegni politici per lo sviluppo sostenibile, la cosiddetta Agenda 2030, fondata su 17 obiettivi (SDG, Sustainable development goals)[55]. A gennaio del 2016 ha formalmente preso avvio la realizzazione del piano d’azione di lungo periodo (quindici anni) per fronteggiare le principali priorità che definiscono quell’Agenda.

A distanza di dodici mesi dalla sottoscrizione degli SDG, si tratta ora di fare il punto sulla situazione mondiale rispetto a quegli stessi obiettivi, così da definire una prima linea base di raffronto per misurare i progressi che dovrebbero registrarsi nei prossimi anni e che dovranno essere adeguatamente e regolarmente monitorati. L’appuntamento del settembre 2016 a New York, presso le Nazioni Unite, sarà l’occasione per tracciare un primo quadro della situazione ai blocchi di partenza. A tale scopo, due passaggi importanti meritano di essere segnalati.

Nel marzo del 2016, in occasione della sua 47° sessione, la Commissione Statistica delle Nazioni Unite ha definito una lista di 230 indicatori per misurare il grado di raggiungimento dei 17 SDG e dei relativi 169 target[56]. Si tratta di una lista da intendere come provvisoria, soggetta cioè a revisioni e miglioramenti nel corso del tempo, in funzione dei progressi che si riuscirà a realizzare per quanto riguarda la definizione e la disponibilità di dati, tenuto conto che il 40% degli indicatori contenuti nella lista non esistono ancora o richiedono la definizione di variabili corrispondenti (come nel caso di quelli relativi ai vari target correlati all’uguaglianza di genere), mentre per il restante 60% di indicatori, per i quali una metodologia è stata già sviluppata, non sempre i dati sono disponibili ovunque.

Il tema di una maggiore quantità e migliore qualità dei dati statistici definisce, di per sé, un primo preciso ambito prioritario di intervento della cooperazione internazionale per i prossimi anni, a livello sia bilaterale che multilaterale (tramite il sistema delle Nazioni Unite in primis, ma anche – nel caso dell’Italia – mediante la cooperazione congiunta a livello di UE): si tratta del cosiddetto rafforzamento della capacità dei sistemi nazionali di statistica.

La necessità di tale miglioramento si lega ad una caratteristica qualificante che distingue gli SDG dagli Obiettivi di sviluppo del millennio (gli MDG, Millennium Development Goals), relativi al quindicennio 2001-2015 e di cui gli SDG hanno rilevato il testimone. Rispetto agli MDG, focalizzati unicamente sulla dimensione sociale dello sviluppo dei paesi poveri, gli SDG hanno infatti l’ambizione di caratterizzarsi come:

·          tridimensionali, ovvero riconducibili a tre macro-dimensioni dello sviluppo (economico, sociale e ambientale), in una prospettiva cioè multidimensionale che tuttavia non arriva a includere esplicitamente due dimensioni chiave (la dimensione politica e quella culturale) in ragione del prevalere di cautele dettate dalla volontà di evitare possibili contrapposizioni tra le parti;

·          tendenzialmente integrati, cioè espressione di un approccio teorico che dovrebbe superare la compartimentazione settoriale e di dimensioni distinte – ambito sociale, economico o ambientale – in nome del riconoscimento dell’importanza delle interconnessioni tematiche: un esempio classico è che attraverso il miglioramento dell’accesso all’acqua potabile (Obiettivo 6) si contribuisce a migliorare sia il quadro sanitario della popolazione (Obiettivo 3) che la sicurezza alimentare (Obiettivo 2). Allo stesso modo la destinazione di più terre all’agricoltura di piccola scala può contribuire sia ad aumentare la sicurezza alimentare che a ridurre la perdita di biodiversità (Obiettivo 15), mentre la sicurezza alimentare attiene essa stessa contemporaneamente alla dimensione economica (la produttività agricola), sociale (la malnutrizione) ed ambientale (la resilienza e la diversità genetica);

·          sinergici a livello di perimetro di intervento di policy, perché la natura delle tre dimensioni considerate obbliga a ricercare sistematicamente la coerenza tra gli interventi a livello locale, nazionale, regionale e globale: il caso più emblematico è quello della dimensione ambientale, che si qualifica come un bene pubblico globale che richiede il superamento di gap giurisdizionali tra il perimetro nazionale prevalente per la legislazione, il coordinamento internazionale richiesto per dare efficacia agli interventi e la sfera locale dei territori in cui ricade l’impatto diretto delle trasformazioni in corso.

Le capacità statistiche devono di conseguenza migliorare ovunque: principalmente nei paesi più poveri, dove tradizionalmente le informazioni sono meno accurate, regolari, tempestive e affidabili, ma anche nelle economie ad alto reddito, come i paesi membri dell’Unione Europea, perché gli SDG mirano a definire un’agenda universalistica, non più focalizzata solo sui paesi più poveri, e perché inducono a guardare la realtà nella sua complessità di realtà multidimensionale, integrata e sinergica, il che impone l’adeguamento del corredo statistico utilizzato sin qui per aiutare a orientare le scelte di policy.

L’ambizione di gettare lo sguardo sulla complessità della realtà, propria dell’agenda degli SDG, ha due implicazioni dirette:

(i)      sollecita un maggiore impegno di tutti sul fronte delle informazioni e dei dati statistici disaggregati con cui monitorare lo stato del mondo;

(ii)   sottolinea l’importanza di un maggiore approfondimento delle relazioni tra le diverse dimensioni dello sviluppo.

Un maggiore impegno di tutti vuol dire promuovere in senso pieno un sistema nazionale di dati statistici (whole-of-country approach) che non deleghi solo all’istituto nazionale di statistica il compito di raccogliere i dati, ma ne faccia il perno promuovendo il concorso di tutti – settore pubblico, privato profit e non profit – a tutti i livelli, attingendo a fonti amministrative, censuarie e di indagini campionarie (ivi comprese le rilevazioni di attitudini e percezioni), con l’auspicio che sia garantito libero accesso alle informazioni disponibili.

Un maggiore approfondimento delle relazioni è la conseguenza della numerosità e integrazione degli SDG, che implica l’esistenza di molteplici relazioni causali tra gli stessi obiettivi che devono essere ancora debitamente comprese: un esempio classico della letteratura è il fatto che l’esistenza di istituzioni trasparenti, responsabili ed efficaci per gestire le risorse idriche è un obiettivo in sé, ma concorre anche a raggiungere l’obiettivo di migliorare l’accesso all’acqua potabile. Tali relazioni devono essere analizzate e comprese nei diversi contesti, perché la verifica o meno di certe ipotesi teoriche sui legami causali (cioè su quale variabile obiettivo contribuisca, col suo cambiamento, a determinare a cascata trasformazioni in altre variabili obiettivo) è fondamentale per orientare meglio le scelte e le priorità d’azione dei decisori politici. In altri termini, se gli obiettivi sono numerosi e disparati, in assenza di un quadro teorico-concettuale che metta ordine e chiarisca le interrelazioni e le sequenze, le sinergie e i trade-off tra obiettivi e target, si rischia di sprecare risorse preziose investendo in modo disarticolato, non cogliendo l’opportunità di avviare processi virtuosi di trasformazione a catena, che sarebbe invece possibile facendo leva su variabili che determinano cambiamenti anche di altre.

Una volta che sono stati identificati gli obiettivi (settembre 2015), la costruzione di indicatori correlati, sulla base di una teorizzazione chiara (un primo step a marzo 2016), precede la raccolta di dati e la successiva analisi a fini sia di monitoraggio dei progressi attesi a seguito degli impegni politici assunti, sia di valutazione della pertinenza e delle relazioni causali tra gli SDG.

Da tutto ciò deriva che la raccolta e l’analisi dei dati diventano passaggi fondamentali dell’agenda internazionale. Al di là del rilievo strumentale per misurare il raggiungimento degli obiettivi, questo processo diventa in se stesso un obiettivo chiave al servizio della democratizzazione dell’agenda di sviluppo, come del resto lasciava intendere già il lascito degli MDG, che ha evidenziato proprio le carenze nei paesi poveri e la necessità di maggiori investimenti della cooperazione internazionale su questo fronte, tenendo conto che in quel caso gli indicatori erano solo 60[57].

 

La situazione nel 2016 relativamente agli indicatori degli SDG

A giugno del 2016, come base informativa per la discussione di settembre, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha presentato il primo rapporto che analizza alcuni indicatori tra quelli che rientrano nel novero degli SDG a livello globale, in particolare quelli per i quali sono disponibili i dati e che consentono di evidenziare sfide chiave e carenze rilevanti[58].

Si tratta di un rapporto scarno che si limita a indicare, a livello molto aggregato (a livello regionale e non per singoli paesi[59]), pochi dati, non sempre allineati temporalmente sullo stesso anno perché in diversi casi mancano dati aggiornati al 2015. Questi limiti sono rinvenibili con riferimento a tutti e 17 gli SDG e il rapporto non si avventura, sulla base di una base dati tanto ridotta, ad esplorare empiricamente alcuna possibile relazione tra i diversi SDG[60].

Nel limitato spazio a disposizione, piuttosto che presentare il quadro informativo oggi disponibile relativo a tutti i 17 SDG, si circoscriverà la presentazione ad alcuni di essi, che figurano tra quelli prioritari per la politica italiana di cooperazione allo sviluppo e tenendo conto della decisione contenuta nella recente bozza di risoluzione preparata dal Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che prevede di concentrare la revisione nel 2017 da parte del Forum politico di alto livello sullo sviluppo sostenibile (High-Level Political Forum on Sustainable Development, HLPF)[61] e dell’Economic and Social Council (ECOSOC) sugli SDG 1, 2, 3, 5, 9 e 14[62]. Al contempo si evidenzierà il fatto che temi trasversali come la questione di genere e l’empowerment femminile, al di là del riconoscimento sancito dall’attribuzione di uno specifico SDG (il numero 5), hanno una valenza strategica particolare perché contaminano direttamente anche gli altri SDG, corrispondendo a una chiave di lettura del tema trasversale delle disuguaglianze che è sottolineata dallo slogan degli SDG – “leaving no one behind”, molto più di quanto però sinora traspare dalla lista di indicatori presentati nel rapporto di giugno delle Nazioni Unite, che mancano di disaggregazione per sesso (indicatori cosiddetti gender-blind). Un’implicazione che se ne può ricavare, perciò, è che nell’ambito degli SDG e dei relativi target sarà utile operare una focalizzare degli investimenti in funzione delle specificità dei contesti territoriali, delle specializzazioni degli attori, ma anche a favore di temi chiave in sé e – come nel caso dei target dell’SDG-5 – i cui miglioramenti si ipotizza generino una propagazione di effetti positivi anche su altri SDG.

 

·          SDG 1: Povertà estrema

La povertà economica estrema era al centro degli MDG e rimane come obiettivo chiave degli SDG, in termini di eliminazione della povertà entro il 2030, rispetto all’obiettivo meno ambizioso degli MDG di dimezzare la proporzione di poveri tra il 1990 e il 2015.

A livello mondiale, i dati indicano che la povertà estrema si era già dimezzata tra il 2002 e il 2012 (dal 26% al 13% della popolazione), il che significa comunque che ancora una persona su otto al mondo vive in povertà estrema; il problema è grave soprattutto per l’Africa sub-sahariana, dove il 40% della popolazione viveva nel 2012 con meno di 1,9 dollari statunitensi al giorno.

Nel corso della revisione di metà percorso degli MDG si era evidenziata la necessità di dare maggior peso al tema del lavoro, associandolo agli indicatori sulla povertà estrema. Si tratta di un’area che richiede particolare impegno: nel 2015 circa il 10% di tutti i lavoratori a livello mondiale e delle loro famiglie vivevano con meno di 1,9 dollari al giorno a persona (era il 28% nel 2000), percentuale che toccava il 33% nel caso dell’Africa sub-sahariana. In particolare, i giovani sono la fascia di popolazione che desta maggiori preoccupazioni, dal momento che proprio chi ha un’età compresa tra i 15 e i 24 anni d’età ha la probabilità maggiore di rientrare nella categoria dei lavoratori che vivono in povertà (il 16% di tutti i lavoratori giovani nel 2015). Al netto della sfida dell’elevata crescita demografica in Africa sub-sahariana, occorre trasformare in grande potenzialità positiva l’enorme massa di giovani che caratterizzerà questa zona del mondo e ciò sarà possibile solo attraverso delle politiche economiche e sociali adeguate e urgenti per evitare il prevedibile risultato in termini di esclusione e di flussi migratori difficilmente gestibili. 

Un’altra componente chiave da associare a povertà estrema e lavoro è quella dei sistemi di protezione o ammortizzatori sociali: una misura della vulnerabilità nei paesi più poveri è il fatto che solo una persona su cinque ha ricevuto benefici in termini assistenziali dallo Stato nei paesi a basso reddito, a fronte di una proporzione di due su tre persone nei paesi a reddito medio-alto.

Creare occasioni di impiego a condizioni dignitose e assicurare servizi pubblici essenziali di protezione sociale restano due fattori chiave per vincere la guerra contro la povertà nel mondo.

Se a queste informazioni contenute nel rapporto delle Nazioni Unite si aggiunge una prospettiva di genere, il fenomeno della femminilizzazione della povertà, la discriminazione patita dalle donne sul mercato del lavoro (la disoccupazione femminile è il doppio di quella maschile nel Nord Africa) e il ruolo sempre più importante di ammortizzatore sociale delle donne (cui è delegata la responsabilità finale della qualità della vita di uomini e donne vulnerabili) e il contributo centrale del lavoro non retribuito alla crescita economica, la loro subalternità in relazione all’accesso ai servizi pubblici di protezione sociale concorrono a giustificare l’ipotesi – da sottoporre a verifica empirica con l’analisi periodica dei dati statistici – che una focalizzazione sulle donne degli interventi di contrasto della povertà estrema risulterebbe più efficace e sostenibile, tenendo conto altresì del particolare ruolo da esse svolto a favore della fascia vulnerabile dei minori.

 

·          SDG 2: Fame, sicurezza alimentare, nutrizione e agricoltura sostenibile

La proporzione di persone che soffrono la fame è diminuita tra il 2000 e il 2015, ma solo in minima misura (dal 15% all’11% del totale della popolazione) e circa 800 milioni di persone continuano a non accedere a quantità e qualità adeguate di cibo. Nel 2015, oltre la metà degli adulti in Africa sub-sahariana soffriva di insicurezza alimentare – in forma moderata o grave (grave nel caso del 25% della popolazione) - e il 25% dei minori di 5 anni aveva problemi di crescita insufficiente (quasi 160 milioni di bambini); mentre la percentuale di bambini della stessa età sovrappeso è aumentata del 20% tra il 2000 e il 2014, anno in cui 41 milioni di bambini – per la metà asiatici – erano sovrappeso. Il Nord Africa è la regione con la percentuale più alta di bambini sovrappeso (16% dei minori di 5 anni).

Maggiori investimenti a favore dell’agricoltura sostenibile (di piccola scala in particolare) – già area prioritaria di intervento della politica bilaterale italiana di cooperazione allo sviluppo oltre che delle agenzie del Polo Romano delle Nazioni Unite, ma che registra da trenta anni un trend decrescente a livello di impegni finanziari relativi della comunità globale dei donatori - cercando di promuovere una maggiore produttività senza penalizzare lo sviluppo sociale ed ambientale e migliorando il funzionamento dei mercati alimentari, sono evidentemente da considerarsi cruciali. Peraltro, l’agricoltura è, insieme a salute (SDG 3) e acqua (SDG-6), l’area prioritaria delle politiche di adattamento definite, incluse e comunicate da 137 parti ad aprile 2016 alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici – United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC – come componenti dei piani d’azione sul clima, le “Intended nationally determined contributions” (INDC), in conformità con gli impegni assunti con l’accordo di Parigi a fine 2015.

Anche nel caso di fame, sicurezza alimentare, nutrizione e agricoltura sostenibile, il ruolo delle donne in quanto produttrici e riproduttrici è di gran lunga prioritario, in particolare guardando alla realtà dell’Africa sub-sahariana, dove è delegato alle donne il ruolo di alimentare e nutrire i bambini e la famiglia in generale e dove persiste una forte discriminazione nei confronti delle bambine, che sono nutrite meno e peggio. È evidente come trasformazioni strutturali richiedano oltre che un impegno significativo delle amministrazioni pubbliche – nazionali e internazionali – e del settore privato produttivo, un cambiamento di mentalità e delle norme sociali per contrastare efficacemente le molteplici forme di discriminazione esistenti.

 

·          SDG 3: Salute e benessere per tutti e per tutte le età

Tra il 1990 e il 2015, il tasso di mortalità materna è diminuito del 44% e la mortalità infantile si è più che dimezzata: ma 5,9 milioni di bambini sono morti nel 2015 prima di compiere 5 anni, in gran parte per cause che si potrebbero prevenire.

L’incidenza di AIDS, malaria e tubercolosi è in calo; tuttavia, sempre nel 2015, si sono registrati 2,1 milioni di nuovi infetti di AIDS e 214 milioni di persone hanno contratto la malaria (l’89% dei casi in Africa sub-sahariana).

Nel 2015, tre donne su quattro in età fertile – tra 15 e 49 anni d’età – coniugate o con una relazione affettiva stabile hanno utilizzato metodi contraccettivi moderni per la pianificazione familiare.

Nel 2012, quasi due terzi delle morti per malattie non trasmissibili di persone con meno di 70 anni sono state causate da malattie cardiovascolari e respiratorie croniche, tumori e diabete.

Le priorità previste sono quelle di continuare a dare centralità alla salute materno-infantile, con un focus perciò sulle donne, alla lotta alle epidemie ma anche al diffondersi di malattie croniche e legate all’insalubrità ambientale, ponendo come obiettivo di politiche pubbliche la copertura universalistica dei servizi sanitari di base e l’accesso per tutti a medicine e vaccini sicuri ed efficaci, obiettivo che va riaffermato anche in Europa. A queste priorità si deve poi aggiungere l’importanza di investire sulla promozione dei diritti riproduttivi e sessuali, tenendo peraltro conto del fatto che nei paesi dove le donne sono più libere di scelta sui loro corpi e sulla loro sessualità, le scelte sulla maternità sono inevitabilmente più consapevoli.


SDG 4: Istruzione di qualità inclusiva ed equa ed opportunità di formazione continua per tutti

Nel 2013, quasi 60 milioni di bambini in età scolare non frequentavano le primarie; soprattutto, indagini recenti hanno confermato che i bambini delle famiglie più povere (in particolare le bambine) hanno quattro volte più probabilità di trovarsi nel gruppo di chi non frequenta la scuola rispetto ai figli di famiglie ricche. L’alfabetizzazione è uno degli indicatori della forte disuguaglianza tra economie ad alto reddito e paesi poveri: la grande maggioranza dei ragazzi nei paesi ricchi sa leggere, scrivere e far di conto, mentre la percentuale precipita al 5% tra i paesi più poveri. Nel mondo circa 757 milioni di adulti sono analfabeti e i due terzi sono donne.

L’istruzione di base - ma anche quella tecnica e quella necessaria per colmare il digital divide - resta oggi un terreno prioritario di intervento, anche in questo caso con una doverosa attenzione alla questione di genere, perché la conoscenza (indipendentemente dalla forma istituzionale di trasmissione e ancor di più se nutre di senso critico le coscienze dei cittadini, un aspetto tutt’altro che garantito nel sistema di istruzione e università dei paesi OCSE) è valore in sé, dà consapevolezza e dignità, contribuisce allo sviluppo mentale, emotivo, fisico e sociale ed è fonte di reale empowerment e protagonismo decisionale delle persone. Guardando alla complessità della vita secondo un approccio dimensionale e non settoriale, l’istruzione delle donne e delle bambine può essere garantita solo se si considera come centrale anche la lotta alla violenza (pensando al nesso con problemi come i matrimoni precoci, il lavoro domestico delle bambine e lo sfruttamento).

 

·          SDG 5: Uguaglianza di genere ed empowerment delle donne

Tra il 1990 e il 2015, la proporzione di donne che ha dichiarato di essersi sposata prima del compimento dei 18 anni d’età è calata dal 32% al 26%. Il trend è positivo ma lento, associato a cambiamenti di mentalità e costumi che sono possibili, in particolare in presenza di un maggiore accesso femminile all’istruzione, come nel caso del Nord Africa in cui il tasso di matrimoni precoci di bambine si è più che dimezzato nel corso degli ultimi venticinque anni. La pratica delle mutilazioni genitali femminili continua a essere molto diffusa in una trentina di paesi, e le donne dedicano mediamente più del doppio del tempo dedicato dagli uomini a occupazioni non retribuite (il 19% rispetto all’8%) in ragione della discriminazione di carico di lavoro domestico e di cura, il che sottrae tempo alle donne per la cura di sé, per relazioni sociali e per l’istruzione. Milioni di donne subiscono ancora oggi forme di volenza fisica, sessuale, psicologica ed economica, cioè gravi violazioni dei diritti umani che compromettono il processo di sviluppo.

È incoraggiante che il numero di parlamentari donne sia mediamente aumentato nei diversi paesi negli ultimi quindici anni, ma ciò non è sufficiente ad assicurare un più ampio processo di reale empowerment e protagonismo consapevole (agency) di tutte le ragazze e le donne nelle scelte relative al proprio corpo, alla propria vita e alla collettività. Occorre investire perché cambino le attitudini e le norme sociali, a fianco di una revisione del corpo legislativo che, in molti paesi, è discriminatorio nei confronti delle donne, perché l’uguaglianza di genere è obiettivo in sé ed è funzionale al raggiungimento durevole e pieno degli altri obiettivi come quelli sin qui menzionati e dei restanti, compresi l’SDG 9 (Infrastrutture resilienti, industrializzazione inclusiva e sostenibile, innovazioni) e l’SDG 14 (Conservazione e uso sostenibile degli oceani e delle acque marine), che rientrano tra quelli che saranno oggetto di più attenta analisi da parte dell’HLPF e dell’ECOSOC nel 2017.

 

Alcune indicazioni per un possibile impegno specifico dell’Italia

Nel mese di settembre ricorre anche un anniversario famigerato, relativo ad un fatto apparentemente lontano dall’agenda degli SDG: la bancarotta della banca d’affari Lehman Brothers, avvenuta il 15 settembre 2008. Per convenzione si è soliti far risalire a quella data il precipitare della grave crisi economica statunitense, poi trasformatasi in crisi finanziaria, economica e sociale mondiale, che ancora oggi attanaglia i paesi della zona dell’Euro.

Finora, a dispetto della retorica sulla priorità dello sviluppo sostenibile e sull’importanza dell’economia verde, e sebbene la crisi avrebbe dovuto far vacillare le certezze passate, l’agenda dell’equilibrio macroeconomico e finanziario e quella dello sviluppo sostenibile restano ben distinte, quando non contrapposte.

Si tratta di due agende che coesistono e si impongono contemporaneamente a tutti i paesi, toccando indistintamente la vita delle persone e richiedendo ai paesi di dotarsi di un sistema di indicatori adeguati per monitorare e valutare i progressi fatti. Schematizzando molto ed utilizzando un’espressione anglosassone, da una parte c’è la comunità dei «musi duri» (hard-nosed) – anzitutto Banche Centrali, Istituzioni finanziarie internazionali (IFI) e Ministeri dell’Economia e delle Finanze (MEF) – che hanno come priorità la stabilizzazione finanziaria e l’aggiustamento strutturale, attraverso politiche di liberalizzazione finanziaria, privatizzazione e deregolamentazione; dall’altra parte c’è la comunità dei «cuori teneri» (bleeding hearts) che perseguono obiettivi sociali (gli MDG) e più in generale di sviluppo sostenibile (gli SDG).

L’insostenibilità dei cambiamenti globali, a cominciare da quelli climatici, e delle crescenti disuguaglianze economiche all’interno dei paesi è percepita come una spinta risolutiva a dare più peso agli SDG[63]. A seguito della crisi mondiale si sono effettivamente aperti spiragli per rimettere in discussione l’ideologia della teoria e politica macroeconomica convenzionale (mainstream), secondo cui politiche di austerità (contenimento della spesa pubblica e quindi del welfare state, pareggio di bilancio e controllo dell’inflazione) e di aggiustamento strutturale, con una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e minore protezione dell’impiego, avrebbero effetti espansivi sull’andamento dell’occupazione e del reddito. Lo stesso Olivier Blanchard[64], fino a ottobre 2015 capo economista del Fondo monetario internazionale, docente al Massachusetts Institute of Technology (MIT) ed esponente di punta del mainstream, ha dovuto ammettere che alcuni dogmi e presupposti teorici si sono rivelati sbagliati. La teoria eterodossa e critica che sottolinea le relazioni tra maggiore disuguaglianza distributiva dei redditi, caduta della domanda effettiva e riduzione della crescita economica di lungo periodo, oggi non è più liquidabile come irrilevante, perché ci sono sempre più numerose evidenze empiriche a suo sostegno. Ciò può aprire prospettive inedite e interessanti per l’agenda politica dello sviluppo e degli SDG, perché si impongano come agenda di crescita economica verde e inclusiva. Ci sono, cioè, margini di contrattazione politica per “allentare” la rigidità dogmatica del mainstream, e questo è un terreno di impegno specifico per il governo italiano nei negoziati con Bruxelles e Francoforte, ma è un terreno che si può allargare al campo degli accordi di tutti i paesi con le IFI.

Lo sviluppo di una nazione non è riducibile alla ricchezza determinata dalle risorse produttive di cui dispone (lavoro, capitale e conoscenze tecniche accumulate), come suggerisce la teoria economica mainstream, che le definisce grandezze fondamentali che determinano i livelli di produzione e occupazione «di equilibrio naturale». Bisogna collegare gli ambiti sin qui distinti della macroeconomia (e finanza) dei «musi duri» e lo sviluppo sostenibile dei «cuori teneri». Non si tratta solo e tanto di correggere i modelli di stima delle relazioni reciproche, stimando meglio il valore dei cosiddetti «moltiplicatore» e «acceleratore» utilizzati per valutare gli effetti delle diverse politiche sul reddito e l’occupazione, aggiungendo la povertà e la disuguaglianza, ma occorre imporre la volontà politica di dare reale priorità ai principi dello sviluppo sostenibile, considerandoli un presupposto irrinunciabile delle politiche macroeconomiche.

Occorre, perciò, creare un terreno di contaminazione e una base per un linguaggio comune, di confronto aperto tra le due agende, al di là di auspici meno ambiziosi ma comunque importanti perché l’agenda degli SDG e quella della politica estera e di sicurezza dei vari Stati siano tra loro coerenti[65]. Un presupposto strategico a tal fine è rappresentato dalla creazione di un sistema di raccolta di dati affidabili sugli SDG, sulla cui base creare un tavolo inter-istituzionale che garantisca un’ampia partecipazione (in rappresentanza dei diversi interessi e gruppi sociali in campo) per la discussione e l’indirizzo politico, a fianco dei tavoli tecnici già consolidati e promossi dalle IFI – con le Banche Centrali e il MEF – per monitorare lo stato di realizzazione dei programmi di aggiustamento strutturale e stabilizzazione finanziaria.

Al di là della sua retorica, il liberismo si fonda paradossalmente su un’applicazione del concetto di pianificazione pubblica, che ha la particolarità di affidarsi alla presunta efficienza della libera concorrenza sui mercati per la mobilitazione delle risorse produttive, basandosi su un sistema di coordinamento delle relazioni economiche internazionali di tipo tecnocratico e finanziario (le IFI, il G20, il dialogo tra Banche centrali e MEF). L’agenda degli SDG mira a replicare lo stesso concetto di pianificazione e proporre un sistema di coordinamento, in nome però di un modello di sviluppo alternativo (di «trasformazione», come recita l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite) e di un processo di maggiore democratizzazione delle scelte politiche.

In un paese di prima priorità per la politica italiana di cooperazione allo sviluppo come il Senegal, per esempio, che riflette bene l’orientamento africanista impresso dal Vice Ministro Giro, il tavolo di coordinamento e il sistema di raccolta dati sulle variabili macroeconomiche e finanziarie sono giudicati positivi e promettenti dal Fondo monetario internazionale, rispetto agli standard dell’Africa sub-sahariana e dell’Africa occidentale in particolare (in cui il Fondo ho promosso tale esercizio), per il monitoraggio delle politiche e la valutazione degli effetti. A quel tavolo, che gode di un’investitura politica di primo rango riconosciuta dalla Presidenza della Repubblica, ha senso che se ne aggiunga uno di pari livello sugli SDG, in una logica non concorrenziale ma nemmeno di totale indifferenza, con uno spirito collaborativo, di reciproca attenzione e riconoscimento: e ciò di per sé costituirebbe un primo grande risultato.

Obiettivi, target e indicatori sono tutt’altro che standardizzati e disponibili nei paesi poveri e richiedono, comunque, un lavoro aggiuntivo di sintesi per tradurre centinaia di indicatori in strumenti facilmente interpretabili e utilizzabili al servizio dei cittadini e del processo decisionale, come dimostra l’intenzione dell’esercizio, svolto in forma molto provvisoria all’interno del Sustainable Development Solution Network (SDSN), di costruzione di un indice sintetico e un pannello di controllo a colori (Dashboard) degli SDG[66].

Nel 2013, l’Aiuto pubblico allo sviluppo (APS) ha destinato a livello mondiale solo 325 milioni di dollari al rafforzamento delle capacità nazionali in campo statistico, il che rappresenta una quota dello 0,3% dell’APS mondiale, come negli anni passati, nonostante i frequenti richiami all’importanza dei dati per monitorare e valutare l’andamento degli SDG e l’effetto delle politiche (cui è dedicato il par. 57 della Risoluzione 70/1 delle Nazioni Unite). Poco più di un terzo dei 325 milioni sono andati a favore di paesi dell’Africa sub-sahariana, un sub-continente che continua ad avere il più basso tasso di registrazione e di certificati di morte al mondo (il che, per esempio, impedisce di monitorare con precisione i dati sanitari), ma in cui più in generale i dati amministrativi – dei diversi uffici pubblici, al di là perciò delle competenze dirette degli istituti nazionali di statistica – sono una fonte informativa ampiamente sottoutilizzata e che potrebbe invece produrre dati regolari, disaggregati e a cadenza giornaliera su numerosi ambiti degli SDG.

In un paese come il Senegal, per restare all’esempio citato, ci sono molti margini di miglioramento del sistema e c’è un contesto favorevole, con l’interesse esplicito dell’Agenzia senegalese di statistica, di numerosi uffici pubblici a livello locale e di ministeri che concorrono a definire il sistema statistico nazionale, con cui la cooperazione italiana (l’ufficio di Dakar dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, AICS) e il sistema delle Nazioni Unite (UN-Women) hanno peraltro già avviato una prima proficua collaborazione e si ripromettono ora di sostenere il sistema di elaborazione e valutazione delle politiche pubbliche attraverso un partenariato specifico. Il Senegal è un paese, inoltre, in cui si sperimenterà nel prossimo futuro la pratica della cooperazione europea congiunta (joint programming), con un raccordo stretto tra le iniziative di tutti i paesi membri.

In questa prospettiva, l’Italia potrebbe esercitare un ruolo di traino e apripista avviando un programma innovativo sul fronte del sostegno al rafforzamento della capacità di raccolta e analisi dati del sistema nazionale con riferimento agli SDG, non focalizzato sulla pratica prevalente nel mondo della cooperazione allo sviluppo di realizzare indagini campionarie ad hoc, ma sul rafforzamento del sistema nazionale in senso ampio, dando concretezza alla generica raccomandazione contenuta nell’Agenda 2030 di «condurre processi regolari e inclusivi di rassegna a livello nazionale e subnazionale dei progressi conseguiti».

In un contesto di poche risorse dell’APS mondiale destinate alle statistiche, il valore aggiunto e la visibilità di un impegno specifico italiano – per esempio focalizzato sull’SDG 5, sulla base degli indicatori multidimensionali sviluppati sin qui con il partenariato italiano e di UN-Women e un supporto al sistema amministrativo di raccolta dati – risulterebbero ingigantiti; inoltre, questo costituirebbe un utile precedente da spendere nella concertazione intra-europea, laddove si potrebbero successivamente moltiplicare gli impegni sul fronte di più SDG con il concorso finanziario contemporaneo e parallelo di altri paesi membri, concretizzando l’auspicio della Risoluzione del Parlamento Europeo a sviluppare posizioni comuni[67]. Un sistema standardizzato e comparabile di raccolta e analisi dati a regime sui diversi SDG avrebbe anche una validità esterna, rappresentando un modello per esperienze replicabili in altri paesi di prima priorità per l’Italia, essendo tuttavia chiaro che occorrerà che i paesi definiscano nello specifico la propria agenda nazionale che, in funzione dei contesti, identifichi gli indicatori pertinenti e realmente misurabili.

Dal momento poi che l’Africa saheliana è un’area molto vulnerabile ambientalmente e al contempo fonte di flussi migratori verso l’Europa (il Senegal è la prima comunità dell’Africa sub-sahariana presente in Italia), un’esperienza simile potrebbe favorire una maggiore coerenza e coordinamento di vari rivoli di cooperazione allo sviluppo, a cominciare da un maggiore raccordo con le attività promosse dal Ministero dell’Ambiente che ha a disposizione un volume di risorse finanziarie significative, quasi comparabili a quelle dell’AICS, e con le risorse che ora anche il Ministero dell’Interno comincia a destinare a progetti nei paesi di origine dei flussi migratori, Senegal in primis. Non c’è dubbio, infatti, che la raccolta di dati affidabili sia un obiettivo in sé prioritario per chi si prefigge la tutela dell’ambiente e per chi mira a una più efficace gestione dei flussi migratori. Più in generale, infine, è palese che dati regolari e affidabili per il monitoraggio e la valutazione delle politiche, e quindi per una successiva programmazione di interventi, siano essenziali per tutti gli attori coinvolti nella cooperazione allo sviluppo: le ONG e le associazioni, i Comuni e le Regioni, l’AICS, il MAECI e il Parlamento chiamati, in ordine inverso, a legiferare, decidere e realizzare sulla base di un’adeguata conoscenza della realtà e degli effetti prodotti dalle politiche attuate.

Nuove fonti di dati e tecnologie per la loro raccolta e l’integrazione di diverse fonti di dati sono un terreno promettente da esplorare, coinvolgendo forme di partenariato allargate nei diversi sistemi nazionali. Del resto, nello spirito di un’agenda universalistica, questa sfida interessa gli stessi paesi OCSE come l’Italia (certamente avanti rispetto ad altri paesi), che hanno anch’essi un pezzo di strada da percorrere, non disponendo di dati misurati adeguatamente per le centinaia di indicatori riconducibili agli SDG, come si evince da un recente studio che identifica in via preliminare (e non come esercizio di valutazione finale) 86 indicatori relativi a 73 target riferiti a tutti i 17 SDG e per i quali fissa dei risultati da raggiungere entro il 2030, concretizzando uno degli impegni assunti nel Piano d’azione 2016 dell’OCSE sugli SDG. Per inciso, dallo studio si evince che l’ambito dell’SDG 5 è quello in cui i paesi OCSE devono migliorare di più, essendo mediamente oggi solo a un terzo del progresso necessario per conseguire i risultati attesi dell’uguaglianza di genere[68].


 

L’attività del Comitato permanente sull’attuazione dell’Agenda 2030 e gli obiettivi di sviluppo sostenibile
(a cura del Servizio Studi della Camera dei Deputati)

 

In seno alla Commissione Affari esteri della Camera dei deputati, il 4 novembre 2015 è stato istituito il Comitato permanente sull’attuazione dell’Agenda 2030 e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ai sensi dell’articolo 22, comma 4, del regolamento. Il Comitato è stato istituito in continuità con il Comitato Agenda post-2015, cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato che la Commissione aveva creato all’inizio della XVII Legislatura.

Il Comitato, presieduto dall’on. Maria Edera Spadoni, ha avviato la propria attività il 16 dicembre 2015 con una seduta dedicata ad una riflessione preliminare sui propri lavori. In riferimento all’ambito di competenza del Comitato e in particolare riguardo all’attività conoscitiva, la presidente ha sottolineato l’opportunità di indirizzarla anzitutto a far chiarezza in ordine ad una maggiore trasparenza sulla destinazione e l’effettivo utilizzo dei fondi previsti per il raggiungimento degli SDGs (Sustainable Development Goals), a livello sia internazionale sia nazionale, osservando, inoltre, la necessità di venga aggiornata ed implementata la strumentazione informatica predisposta dal Governo per accrescere il grado di trasparenza sui progetti di cooperazione. In linea con quanto già fatto dal precedente Comitato permanente sull’Agenda globale post-2015, cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico e privato, la presidente ha proposto di procedere ad audizioni, a cominciare da rappresentanti di organizzazioni non governative, anche al fine di valutare una proposta di indagine conoscitiva da sottoporre all’Ufficio di presidenza della Commissione.

Nel corso della medesima seduta del 16 dicembre 2015 l’on Spadoni ha reso comunicazioni sulla missione svolta a Bruxelles in occasione della Riunione interparlamentare presso il Parlamento europeo sul tema "Unfulfilled Millennium Development Goals and the implementation of the newly-agreed Sustainable Development Goals" (13 ottobre 2015) nonché comunicazioni sulla missione svolta a Lussemburgo in occasione della Riunione dei presidenti delle Commissioni competenti in materia di cooperazione allo sviluppo (11 dicembre 2015).

Nella seduta del 14 giugno 2016 la Commissione Affari esteri ha deliberato all’unanimità lo svolgimento di un’indagine conoscitiva sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile ai sensi dell’articolo 144, comma 1 del regolamento, delegandone lo svolgimento al Comitato permanente sull’attuazione dell’Agenda 2030 e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. L’indagine dovrà concludersi il 31 dicembre 2016. Nel programma dell’indagine conoscitiva si sottolinea che l’obiettivo è l’approfondimento dell’attività posta in essere dalla Comunità internazionale e dal Governo italiano per il raggiungimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, anche in quanto orizzonte di riferimento per il settore della cooperazione italiana allo sviluppo.

Nel quadro dei diversi soggetti che operano nella Comunità internazionale, l’indagine conoscitiva svolgerà in particolare un’azione di monitoraggio sulle iniziative assunte dai Paesi del G7, di cui l’Italia nel corso del 2017 assumerà la presidenza. L’indagine valuterà iniziative, aspetti finanziari ed eventuali rapporti con istituzioni internazionali utili a qualificare la posizione dell’Italia sulle diverse questioni e ad individuare le modalità più opportune per dare maggiore visibilità, soprattutto nelle sedi europee, all’impegno italiano per la realizzazione dell’Agenda 2030. L’attività di indagine si articolerà principalmente in audizioni di soggetti rilevanti ai fini dei temi trattati e, ove necessario, in sopralluoghi al di fuori della sede parlamentare, di cui sarà di volta in volta richiesta l’autorizzazione alla Presidenza della Camera. Tra i soggetti da audire il programma indica rappresentanti dei Dicasteri competenti; rappresentanti di Organizzazioni internazionali e regionali; rappresentanti delle Istituzioni Finanziarie Internazionali; rappresentanti della società civile; rappresentanti del settore privato; rappresentanti organi di informazione; accademici ed esperti.

L’indagine conoscitiva è stata avviata il 5 luglio 2016 con l’audizione del Direttore per le relazioni esterne del Fondo globale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria, Christoph Benn. Nel corso della seduta è stata presentata un’ampia ricognizione della struttura organizzativa e delle attività del Fondo, che è al tempo stesso un’ istituzione finanziaria progettata per combattere AIDS, tubercolosi e malaria nella loro forma epidemica ed un partenariato tra governi, società civile, il settore privato e le persone affette dalle malattie. Il Fondo, istituito nel 2001, raccoglie ed investe circa 4 miliardi di dollari l’anno per sostenere programmi gestiti da esperti locali - e non direttamente dal Fondo - nei paesi e nelle comunità colpite dalle epidemia. Il Fondo ha base a Ginevra ed è composto da personale dalla più varia esperienza professionale proveniente da oltre 100 differenti paesi.

Gli investimenti effettuati nelle aree colpite dalle epidemie sono modellati sulle esigenze specifiche e sulle caratteristiche di ciascun paese, nonché su quelle delle comunità più colpite dalle tre malattie, in ossequio al principio della Country Ownership e dei complementari principi del finanziamento Performance-based, che correla il finanziamento a risultati comprovati, monitorati e verificati dagli agenti locali, ed al principio di trasparenza.

Replicando ad uno specifico quesito posto dalla Presidente Spadoni, il direttore del Fondo ha precisato che l’incidenza dei costi operativi è pari al 3% dei 4 mld di dollari annualmente spesi per i programmi.

Con riferimento al contributo italiano al Fondo, si rammenta che dal 2001, l’Italia ha erogato complessivamente 890 milioni di euro. Si segnala che, sul piano finanziario, si era registrata una battuta d’arresto poiché, malgrado impegni formalmente assunti, l’Italia non aveva onorato gli ultimi pledges per gli anni 2009 e 2010.

Nel dicembre 2013, durante la Conferenza di Replenishment di Washington il nostro Paese è rientrato a pieno titolo tra i finanziatori del Fondo con un  pledge per il triennio 2014-2016 pari ad un totale di 100 milioni di euro. Si rammenta che sul finanziamento al Fondo la Commissione esteri aveva approvato, il 14 giugno 2016, la risoluzione conclusiva 8/00186 d’iniziativa dell’onorevole Quartapelle che impegna il Governo a formalizzare in occasione della sessione finale della quinta Conferenza di rifinanziamento del Fondo globale un significativo rafforzamento dell’impegno dell’Italia per il triennio 2017-2019, a conferma del rinnovato impegno italiano nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo ed a promuovere, accanto al rafforzato impegno finanziario, un ruolo politico più attivo dell’Italia in seno alla struttura di governo del Fondo Globale in sinergia con le priorità nazionali di politica estera e di cooperazione internazionale, assicurando di monitorare e incidere sulle decisioni che riguardano la trasparenza e la rendicontazione nella gestione dei programmi di finanziamento, il sostegno ai sistemi sanitari nazionali dei Paesi beneficiari, nonché il pieno coinvolgimento dei Paesi fruitori e della società civile nelle fasi decisionali.

   Nella seduta del 13 luglio 2016 l’indagine è proseguita con l’audizione del portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), Enrico Giovannini. Nel corso dell’audizione sono stati estesamente trattati i profili relativi al raggiungimento degli SDGs, processo nel quale si inquadra l’ASviS, sorta con l’obiettivo di mobilitare la società italiana, i soggetti economici e le istituzioni. La missione dell’Alleanza è, come accennato, proprio quella di far crescere nella società italiana, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile, mettendo in rete coloro che si occupano già di aspetti specifici ricompresi nei Sustainable Development Goals allo scopo di:

·          favorire lo sviluppo di una cultura della sostenibilità a tutti i livelli, orientando a tale scopo i modelli di produzione e di consumo;

·          analizzare le implicazioni e le opportunità per l’Italia legate all’Agenda per lo sviluppo sostenibile;

·          contribuire alla definizione di una strategia italiana per il conseguimento degli SDGs, anche utilizzando strumenti analitici e di previsione che aiutino la definizione di politiche per lo sviluppo sostenibile, nonché alla realizzazione di un sistema di monitoraggio dei progressi dell’Italia verso gli SDGs.

Attualmente l’ASviS riunisce oltre 100 tra le più importanti istituzioni e reti della società civile. Si tratta di associazioni rappresentative delle parti sociali (associazioni imprenditoriali, sindacali e del Terzo Settore); reti di associazioni della società civile che riguardano specifici Obiettivi (quali, ad esempio, salute, benessere economico, educazione, lavoro, qualità dell’ambiente, uguaglianza di genere); associazioni di enti territoriali; università e centri di ricerca pubblici e privati, e le relative reti; associazioni di soggetti attivi nei mondi della cultura e dell’informazione; fondazioni e reti di fondazioni; soggetti italiani appartenenti ad associazioni e reti internazionali attive sui temi dello sviluppo sostenibile.

Nella seduta del  14 luglio 2016 si è svolta l’Audizione della Vice Direttrice Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la Salute della Famiglia, delle Donne e dei Bambini, Flavia Bustreo. La Vice Direttrice ha portato a conoscenza del Comitato la strategia globale, cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dato impulso, per la salute delle donne, dei bambini e degli adolescenti nel mondo, che risulta strutturalmente legata agli Obiettivi di sviluppo 2030.

Si tratta di una strategia dal 2016 al 2030, che ha tre obiettivi principali: assicurare la sopravvivenza di donne, bambini e adolescenti, in presenza di dati di salute pubblica internazionale che, a livello globale, sono ancora estremamente preoccupanti; il secondo obiettivo principale è la salute piena, cioè la possibilità di avere sia donne sia bambini in grado di essere liberi dalla violenza e di avere accesso a servizi sanitari qualificati; il terzo obiettivo è quello di permettere la partecipazione attiva alle donne, soprattutto alle giovani, per dar loro modo di contribuire allo sviluppo ed alla crescita economica dei propri Paesi.


 

La creazione di una task force internazionale per la tutela del patrimonio culturale dell’umanità
(a cura del Servizio Studi della Camera)

 

La questione dei cosiddetti “caschi blu della cultura” trae origine da esigenze ormai più che decennali: infatti il 26 ottobre 2004 l’allora Ministro per i beni e attività culturali Giuliano Urbani firmava a Parigi una dichiarazione congiunta con il direttore generale dell’UNESCO, Koichiro Matsuura, dedicata alla mutua cooperazione per una risposta di emergenza volta alla messa in atto, in scacchieri internazionali di crisi, di interventi di salvaguardia e recupero dei beni culturali e naturali a rischio di conflitti o di calamità naturali.

La dichiarazione congiunta traeva origine dalla vasta esperienza che l’Italia aveva sviluppato nelle tecniche per il recupero del patrimonio culturale e storico danneggiato in seguito a conflitti o calamità naturali quali i terremoti, purtroppo frequenti nel nostro Paese.

Tra le più significative esperienze internazionali dell’Italia nella materia già allora si annoveravano gli interventi di archeologi ed i carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale per la ricostruzione del patrimonio culturale iracheno sottoposto a distruzioni e saccheggi dopo la caduta di Saddam Hussein; come anche i restauri operati nella città iraniana di Bam devastata da un terremoto.

L’Italia era pertanto incaricata di dar vita all’asse portante di una forza di intervento capace di operare rapidamente in tutto il mondo. Per quanto concerne il nostro Paese, l’ossatura della task force era prevista con personale proveniente dal Ministero degli esteri, da quello dei beni e attività culturali, dalla Protezione civile e dai Carabinieri. Il gruppo d’azione di emergenza capitanato dall’Italia, si prevedeva, avrebbe avuto un assetto variabile in rapporto alle specifiche esigenze di volta in volta manifestate, e avrebbe agito su richiesta dei paesi bisognosi di intervento.

La questione è stata rilanciata in tempi più recenti e a un più alto livello dal Ministro dei beni culturali e delle attività culturale e del turismo Dario Franceschini nel marzo 2015, dopo la constatazione degli attacchi intenzionali di miliziani dell’ISIS contro elementi di inestimabile valore del patrimonio culturale mondiale nel Medio Oriente.

Secondo il Ministro, infatti, era tempo di dar vita a una forza delle Nazioni Unite che, in parallelo ai caschi blu impegnati nelle operazioni di peacekeeping, potesse attendere alla tutela dei siti del patrimonio culturale dell’umanità per difenderli dai gravi attacchi intenzionali del terrorismo, di fronte ai quali i tradizionali strumenti per la tutela del patrimonio culturale durante i conflitti armati appaiono in parte superati.

Su queste proposte il Ministro Franceschini riceveva immediato sostegno da parte della direttrice generale dell’UNESCO Irina Bokova, che concordava sulla necessità di dar vita con immediatezza ad ulteriori passi per la realizzazione del progetto - proprio in sede UNESCO, ricordava del resto l’on. Franceschini, l’Italia aveva già presentato una risoluzione per la salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree di conflitto. Pochi giorni dopo, il 23 marzo, la ministra tedesca della cultura Monika Gruetters appoggiava con convinzione la proposta italiana, nel corso di un incontro con lo stesso ministro Franceschini a Berlino.

Va segnalata il 31 marzo 2015 l’approvazione da parte dell’Assemblea della Camera di un ordine del giorno - in un testo riformulato nel corso della seduta - d’iniziativa dell’on. Roberto Rampi, con il quale si impegna il Governo a promuovere la costituzione e l’impiego di appositi contingenti multinazionali di personale, da impiegare dopo la stabilizzazione del paese interessato e su richiesta esplicita di quest’ultimo, in attività di tutela del patrimonio artistico e culturale e nel contrasto del traffico di opere d’arte finalizzato al finanziamento del terrorismo internazionale, affidando, per quanto riguarda le forze italiane, all’Arma dei Carabinieri la responsabilità dei nuclei operativi, composti anche da appositi reparti dell’Esercito operanti nelle missioni internazionali di pace e di stabilizzazione.

Successivamente, il 19 maggio 2015, la Commissione Cultura del Senato ha a sua volta approvato una risoluzione nella quale, oltre ad unirsi nell’impegnare il Governo a proseguire nell’iniziativa di costituzione dei caschi blu della cultura, inserisce lo specifico profilo della necessità di una elevata qualificazione di questi operatori, tra i quali dovrebbe essere inserito personale dei dipartimenti universitari per la conservazione e il restauro dei beni culturali, nonché di istituti di eccellenza nel settore.

La risoluzione, inoltre, ha auspicato le opportune iniziative da parte delle Nazioni Unite per il blocco della vendita di reperti archeologici trafugati dai paesi in guerra, anche allo scopo di prevenire il finanziamento del terrorismo; e, sul versante nazionale, mira a valorizzare il Comando carabinieri per la tutela del patrimonio culturale.

La grave questione della minaccia dell’ISIS per l’inestimabile patrimonio culturale delle regioni siriane e irachene cadute nelle mani del "Califfato" ha costituito l’oggetto della risoluzione 7-00694 dell’on. Amendola, discussa nelle sedute del 16 luglio e del 5 agosto 2015 delle Commissioni riunite Affari esteri e Cultura della Camera.

La discussione si è conclusa con l’approvazione della risoluzione conclusiva 8-00130, nella quale si impegna il Governo, tra l’altro, “a promuovere un’efficace attuazione della convenzione dell’AJA sulla tutela dei beni culturali in caso di conflitto armato anche non internazionale con la possibile istituzione di ‘zone culturali protette’ e di una task force specializzata che ne possa assicurare l’effettiva protezione, sul modello dei ‘caschi blu per la cultura’ attualmente in discussione all’UNESCO” ed “a verificare con rigore l’attuazione dei protocolli internazionali e della normativa vigente in materia di traffico illecito transnazionale di beni culturali”, nonché a promuovere “ogni sforzo teso a preservare dalle operazioni militari i siti di particolare interesse archeologico e artistico”.

Sul tema in esame è tornato alla fine di settembre 2015 anche il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, durante una delle tante iniziative a margine dell’inaugurazione della Sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: in particolare, Matteo Renzi ha inquadrato la costituzione dei caschi blu della cultura all’interno degli sforzi con cui l’Italia vuole contribuire a una più efficace azione del peacekeeping dell’ONU.

Sull’onda dell’ennesimo intollerabile attentato al patrimonio culturale dell’umanità perpetrato dall’ISIS nella città siriana di Palmira all’inizio di ottobre del 2015, il 17 dello stesso mese il Consiglio esecutivo dell’UNESCO approvava la risoluzione italiana appoggiata da altri 53 paesi e dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU.

 Il Ministro Franceschini, che aveva esortato ad accelerare i tempi in questa direzione dopo l’attacco ai monumenti di Palmira, esprimeva soddisfazione e richiamava anche l’approvazione in margine all’Expo di Milano della Dichiarazione sulla protezione del patrimonio culturale da parte di 83 paesi. La risoluzione approvata dall’UNESCO, in particolare, dava impulso al lavoro diplomatico in sede ONU per includere la componente culturale nelle missioni di pace.

Un altro passaggio essenziale nella creazione di una forza multilaterale per la tutela del patrimonio culturale mondiale si è avuto a Roma il 16 febbraio scorso con la firma di un Memorandum d’intesa tra il Governo italiano e l’UNESCO relativo alla task force nazionale italiana nel contesto della coalizione globale dell’UNESCO denominata “United for Heritage”.

La task force italiana, composta da personale specializzato civile e carabinieri operanti nella tutela del patrimonio culturale, dovrà essere in grado di valutare i rischi e quantificare i danni al patrimonio culturale, ideare piani di azione, formare personale nazionale e locale, rafforzare la lotta contro il danneggiamento, il saccheggio e il traffico illecito di reperti. Nella cerimonia istitutiva della task force italiana svoltasi a Roma il Ministro degli esteri Gentiloni ha evidenziato lo specifico contributo italiano nella lotta al terrorismo che la costituzione della task force rappresenta, in considerazione del fatto che obiettivo degli attacchi terroristici negli ultimi anni sono stati in modo deliberato elementi fondamentali del patrimonio culturale mondiale. Nel corso della cerimonia svoltasi alle terme di Diocleziano la direttrice generale dell’UNESCO Irina Bokova ha salutato con entusiasmo e gratitudine l’istituzione della task force italiana, ed è stato altresì sottoscritto un protocollo d’intesa con il Comune di Torino per l’istituzione nel capoluogo piemontese di un centro di formazione relativo al personale della task force.

La prima occasione di intervento della task force non è stata però all’estero, ma in seguito al devastante terremoto del 24 agosto 2016, nelle zone colpite del Lazio, dell’Umbria e delle Marche, e soprattutto ad Amatrice, dove appare necessario un intervento sulla chiesa trecentesca di S. Francesco e su quella di S. Agostino.

 

 


La cooperazione parlamentare nell’ambito delle Nazioni Unite
(a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)

 

 

 

A fine giugno 2016, l’Italia è stata eletta membro non permanente del Consiglio di Sicurezza per il biennio 2017-18 e, nell’ambito di un accordo con i Paesi bassi, occuperà il seggio nel 2017, per poi ritirarsi e la sciare il posto all’Aja (che dovrà a sua volta essere eletta dall’Assemblea generale)

 

 

INCONTRI

Il 15 ottobre 2015, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban-Ki-Moon, ha tenuto un discorso nell’Aula di Montecitorio, alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella, dei Presidenti Boldrini e Grasso, in occasione della cerimonia per la celebrazione del 60mo anniversario dell’adesione dell’Italia alle Nazioni Unite.

Il 1° settembre 2015, in occasione della quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell’Unione interparlamentare, svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2 settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario generale delle Nazioni Unite Jan Kenneth Eliasson.

Il 20 novembre 2014, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.

Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a New York (a latere della   seconda riunione del Comitato preparatorio della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace, Hervé Ladsous, e il 18 novembre il Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.

L’11 novembre 2014, la Presidente Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma Alimentare Mondiale.

Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini è intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l’impatto umano. La prospettiva dell’UNRWA (Agenzia dell’ONU per l’assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli operatori dell’informazione".

Il 29 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.

Il 22 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila B. Keetharuth.

La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti d’America dal 20 al 23 maggio 2014, si è recata in visita, il 22 maggio, presso le Nazioni Unite, dove ha incontrato funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.

Il 14 novembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell’ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab Hawa Bangura.

Il 24 ottobre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore per la stabilità della regione", con il Commissario generale dell’Agenzia ONU per l’assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), Filippo Grandi.

Il 18 settembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.

La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha ricevuto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il 9 aprile 2013.

Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della volontà popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.

 

LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)

 

La delegazione parlamentare italiana alle sessioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite è la principale sede di decisione e l’organo più rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale ordinaria dell’Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in qualità di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.

Nelle precedenti legislature, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si è recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale

Nella XVII legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni:

·        70ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015): la delegazione era composta dagli onorevoli Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC), Presidente della Commissione Affari esteri, Andrea Manciulli (PD), Vice Presidente della Commissione Affari esteri nonché Presidente della delegazione parlamentare presso l’Assemblea parlamentare della NATO e Manlio Di Stefano (M5S).

·        69ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione era composta dai deputati Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice Presidente della Commissione Esteri e Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della NATO.

·        68ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione era composta dai deputati Deborah Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed i rapporti con l’Unione europea, Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del Comitato permanente per i diritti umani.

***

LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE CONFERENZE IN AMBITO ONU

 

La partecipazione parlamentare alle principali Conferenze ONU

Sotto l’egida dell’ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l’adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni più delicate che l’ONU ha in agenda. La frequenza e l’importanza di tali appuntamenti sono tali da coinvolgere l’attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo, ma anche dei Parlamenti e della società civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell’Unione Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine delle Conferenze.  La Camera partecipa regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Società dell’informazione.

 

La Commissione sullo status delle donne (CSW)

La Commissione sullo status delle donne (CSW) è stata istituita dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946, come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito principale della Commissione, il cui mandato è stato esteso nel 1987 (risoluzione ECOSOC 1987/22), è quello di elaborare rapporti e fornire raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta, inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.

La Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne. A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le raccomandazioni necessarie per accelerarne l’attuazione[69].

Ogni anno, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare il punto sui progressi riguardanti la parità di genere, per individuare le sfide future, per stabilire gli standard globali e per formulare politiche concrete di promozione della parità di genere e dell’avanzamento delle donne in generale.

La Commissione si riunisce annualmente per un periodo di dieci giorni di lavoro, alla fine di febbraio – inizio marzo.

Nella XVII legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alla 58ma Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era composta dai deputati Valeria Valente (PD), Presidente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all’Unione interparlamentare. Alla 59ma Sessione svoltasi dal 9 al 20 marzo 2015 hanno partecipato le deputate. Lorena Milanato (FI-PdL), componente del Comitato per le pari opportunità e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all’Unione interparlamentare. L’ultima sessione, la 60ma, si è svolta dal 14 al 24 marzo 2016; la giornata parlamentare UIP si è tenuta il 15 marzo ed è stata dedicata al tema: ”The power of legislation for women’s empowerment and sustainable development”. Ai lavori hanno partecipato Tiziana Ciprini (M5S), componente del Comitato per le pari opportunità e Pia Elda Locatelli (Misto-PSI,PLI), Presidente del Comitato diritti umani della Commissione affari esteri.

La prossima sessione è in programma sempre a New York dal 13 al 24 marzo 2017.

 

La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della concentrazione in atmosfera dell’anidride carbonica. Più recentemente, nel 1997, è stato approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto. Esso è significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).

Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare i progressi e valutare il percorso da seguire per l’attuazione della Convenzione. Il Segretariato dell’UNFCCC supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L’Italia ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

Nella XVII legislatura si è tenuta a Varsavia dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualità di osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione Ambiente.

La XX Sessione della Conferenza delle Parti (COP20) si è tenuta a Lima, dal 6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente.

Una delegazione parlamentare italiana ha preso parte, su invito del Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, al Segmento ad Alto Livello della XXI Sessione della Conferenza delle Parti (COP21), che ha avuto luogo a Parigi dal 7 al 12 dicembre 2015. La delegazione della Camera era composta dal Presidente della Commissione Ambiente, Territorio Ermete Realacci (PD), dal Presidente della Commissione Attività produttive, Guglielmo Epifani (PD), dalla Vice Presidente della Ambiente, Serena Pellegrino (SI-SEL), nonché da Stella Bianchi (PD), Chiara Braga (PD) e Mirko Busto (M5S), sempre della Commissione Ambiente.

La prossima riunione, la XXII Sessione, della Conferenza delle Parti (COP22), si terrà a Marrakech dal 7 al 18 novembre 2016.


 

Priorità dell’UE nel contesto delle Nazioni Unite e della LXXI Assemblea generale delle Nazioni Unite
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera)

 

Il Consiglio Affari esteri dell’Unione europea ha adottato, il 18 luglio 2016, le priorità dell’UE nel contesto delle Nazioni Unite e per la 71ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Il Consiglio dell’UE evidenzia in via generale che:

·        persistono importanti sfide a livello mondiale che necessitano di una risposta globale e di un’Organizzazione delle Nazioni Unite forte ed efficace;

·        occorre riformare e rinvigorire i sistemi di governance globale, con particolare riferimento a settori in cui non esistono ancora istituzioni mondiali forti, quali l’informatica, l’energia o lo spazio;

·        la crisi migratoria e dei rifugiati, di livello mondiale, renderà necessaria una condivisione della responsabilità realmente globale;

·        per sostenere la pace servirà un approccio coerente e integrato tra i pilastri, con un ruolo sempre più centrale della prevenzione e, al proposito, si richiama il contributo dell’UE nel contesto della nuova strategia globale dell’UE.

L’Alta Rappresentante, Federica Mogherini, ha presentato al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2016 la nuova strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell’UE, che aggiorna e sostituisce, alla luce del mutato contesto globale, la strategia europea in materia di sicurezza approvata dal Consiglio europeo nel dicembre 2003.

La nuova Strategia globale dell’UE si concentra in particolare su:

l’interconnessione tra sicurezza interna ed esterna dell’UE e il rafforzamento della coerenza tra la dimensione esterna e quella interna delle politiche dell’UE, con particolare riferimento agli ambiti dello sviluppo sostenibile, della migrazione, della lotta al terrorismo, della cibersicurezza e della sicurezza energetica;

il rafforzamento della resilienza delle democrazie, degli Stati e delle società, ossia della loro capacità di resistenza e riforma in relazione a crisi interne ed esterne, con particolare riferimento agli Stati posti in prossimità dei confini orientali e meridionali dell’UE;

un approccio integrato alle situazioni di conflitto, sviluppando la capacità dell’UE di intervenire tempestivamente in tutte le fasi del ciclo di un conflitto ed ai diversi livelli di governance locale, nazionale, regionale e globale e di promuovere una pace sostenibile mediante accordi globali sulla base di partenariati regionali e internazionali;

il rilancio della politica estera e di sicurezza dell’UE che, pur riconoscendo il ruolo della NATO per la difesa collettiva, deve dotarsi di capacità sia per contribuire all’Alleanza atlantica sia per agire autonomamente se e quando necessario in particolare attraverso: una maggiore cooperazione e pianificazione tra gli Stati membri nel settore della difesa, anche facendo ricorso alla cooperazione rafforzata tra gruppi di Stati membri; lo sviluppo di maggiori capacità di risposta rapida alle situazioni di crisi; maggiori investimenti nella sicurezza e difesa, anche nel settore della ricerca; la creazione di una forte industria europea della difesa;

la promozione di ordini regionali cooperativi, attraverso partenariati regionali ed internazionali e lo sviluppo di una governance globale basata sul diritto internazionale, la tutela e promozione dei diritti umani ed uno sviluppo sostenibile.

 

Le priorità dell’UE per la 71ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si focalizzeranno nei tre ambiti principali:

·           Sostenere la pace

·        occorre un’agenda comune e una risposta integrata dell’ONU che ponga l’accento su diplomazia preventiva, mediazione, costruzione della pace, resilienza, operazioni di mantenimento della pace. A tal fine, è fondamentale sviluppare un approccio globale che preveda una integrazione delle azioni nei vari settori quali: prevenzione delle crisi, aiuto umanitario, stabilizzazione e costruzione della pace, sviluppo sostenibile, mitigazione dei cambiamenti climatici tutela dei diritti umani;

·        l’UE si impegna a potenziare la partecipazione degli Stati membri dell’UE alle operazioni di mantenimento della pace e alle missioni politiche speciali dell’ONU ed a intensificare gli sforzi di mediazione e diplomazia preventiva;

·        l’UE si adopererà insieme ai partner per eliminare tutte le forme di violenza contro donne e ragazze, compresa la violenza sessuale nei conflitti;

·        occorre attuare integralmente le misure prevista dalla strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo. La lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate volte ad affrontare le cause profonde del terrorismo;

·        in relazioni alle diverse sfide regionali: per quanto riguarda la Siria, l’UE ribadisce il suo pieno sostegno agli sforzi a guida ONU per agevolare una transizione politica. Solo un processo politico a guida siriana che conduca a una transizione pacifica e inclusiva, sulla base dei principi del comunicato di Ginevra del 30 giugno 2012 e delle pertinenti UNSCR, riporterà stabilità, renderà possibili la pace e la riconciliazione e una lotta efficace contro il terrorismo, preservando nel contempo la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale dello Stato siriano; in Medio Oriente l’UE si adopererà per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente e ribadisce l’impegno a raggiungere la soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati; in Libia, l’UE continuerà a fornire un sostegno significativo al Governo di intesa nazionale e alla popolazione libica nei settori chiave (tra cui lo stato di diritto, la cooperazione economica e la riforma del settore della sicurezza), su richiesta delle autorità del paese e a sostegno dell’UNSMIL. Il Consiglio di sicurezza rivestirà un ruolo importante in Libia per quanto concerne le sanzioni dell’ONU e l’eventuale autorizzazione di specifiche iniziative PSDC dell’UE. In relazione alla crisi in Ucraina, l’UE continuerà a sostenere gli sforzi internazionali, in particolare il processo di Minsk, al fine di trovare una soluzione politica e pacifica duratura alla crisi, sulla base del rispetto dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’indipendenza del paese e osservando rigorosamente le norme internazionali; per quanto riguarda l’Afghanistan si indica l’impegno dell’UE per la stabilità e le riforme a lungo termine e si ribadisce il pieno sostegno alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA). Per quanto riguarda le nazioni africane, l’UE intende mettere a punto un quadro strutturato per rafforzare la cooperazione trilaterale in Africa, sulla base dello scambio di esperienze sul terreno e dei contatti frequenti a livello politico e tecnico che già esistono tra l’ONU, l’Unione africana e l’UE;

·        in materia di disarmo e non proliferazione delle armi, l’UE ritiene essenziale sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti ad impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere e trasportare armi di distruzione di massa. L’UE promuoverà, inoltre, la piena attuazione e universalizzazione della Convenzione sulle armi chimiche; del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari e del Trattato sul commercio delle armi. Prioritario è anche l’avvio immediato e la rapida conclusione dei negoziati, nell’ambito della Conferenza del disarmo, di un trattato sul bando della produzione di materiale fissile per armi nucleari o altri ordigni esplosivi nucleari

 

·           Un mondo più giusto e umano    

·        l’UE ritiene necessari sforzi coerenti e coordinati da parte dell’intera comunità internazionale per affrontare la crisi globale legata al movimento di sfollati e l’aumento dei flussi migratori e di rifugiati e che dovrebbero condurre all’istituzione di un quadro di cooperazione globale ed efficiente fondato su responsabilità condivise. La comunità internazionale dovrebbe considerare della massima priorità proteggere le vittime e salvare vite umane. Occorre affrontare le cause pluridimensionali all’origine dell’attuale crisi dei rifugiati e della migrazione irregolare. È, inoltre, necessario compiere maggiori sforzi per potenziare i canali di migrazione legale e garantire la riammissione delle persone che non possono beneficiare dell’asilo in conformità del diritto internazionale. Infine, va rafforzato il nesso tra assistenza umanitaria e allo sviluppo ed ampliata la base dei donatori, mobilitando i contributi provenienti dal settore privato e impegnandosi a utilizzare le risorse disponibili in modo più efficiente;

·        l’UE si impegna a favorire la promozione e la protezione dei diritti umani in tutto il mondo sulla base dello stretto partenariato con l’ONU. In tale ambito, è prioritario attribuire un ruolo importante alle organizzazioni della società civile e dei difensori dei diritti umani e alla discussione sulle misure per consentire la partecipazione delle istituzioni e dei rappresentanti dei popoli indigeni alle riunioni dei pertinenti organi delle Nazioni Unite concernenti questioni che li riguardano. L’UE continuerà altresì a prestare particolare attenzione a tutte le questioni di genere, tra cui il progresso dei diritti delle donne, l’emancipazione femminile e la parità di genere; alla protezione dei diritti dei minori in tutto il mondo ed al rispetto di principi di uguaglianza e non discriminazione, compresa la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Occorre, inoltre prestare maggiore attenzione alla protezione internazionale dei rifugiati, al principio di non respingimento e al diritto di asilo, ma anche alla risposta alle esigenze particolari dei migranti in situazioni vulnerabili a cui non viene riconosciuto lo status di rifugiato.

·        il sistema internazionale degli aiuti deve adattarsi ulteriormente al fine di far fronte alla portata e alla natura delle sfide attuali. La risposta deve diventare più efficiente, ottimizzando i metodi di lavoro sia della comunità di donatori che degli operatori umanitari. Occorre garantire sinergie e coerenza tra gli aiuti umanitari e la cooperazione allo sviluppo, la stabilizzazione e la prevenzione dei conflitti prima dello scoppio di una crisi, per migliorare le capacità di anticipazione, preparazione e risposta di fronte a crisi o catastrofi.

 

 

 

 

Un programma durevole di cambiamento

·        l’UE ritiene ancora insufficiente l’integrazione tra le strategie sui cambiamenti climatici, lo sviluppo sostenibile, gli aiuti umanitari e le questioni attinenti alla costruzione della pace;

·        i cambiamenti climatici sono una delle questioni più urgenti e complesse per il loro impatto destabilizzante sulla migrazione, la sicurezza alimentare, l’accesso affidabile alle risorse, all’acqua e all’energia, la diffusione delle malattie epidemiche e l’instabilità sociale ed economica e per la loro capacita di produrre ed amplificare situazioni di conflitto. A tal fine è importante la ratifica e l’entrata in vigore tempestive dell’accordo di Parigi del 2015. L’UE si impegna, inoltre, ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima, al fine di apportare il proprio contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari;

·        l’UE ritiene necessaria intraprendere una riforma globale delle Nazioni Unite con una nuova agenda strategica per i prossimi 15 anni. Dovrebbe inoltre essere affrontato un funzionamento più efficiente dei comitati UNGA e degli altri organi dell’ONU.


 

Il Soufan Group (TSG)[70]
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

 

Il Gruppo Soufan, che prende il nome dal suo fondatore e CEO Ali Soufan, fornisce servizi strategici, di intelligence e di sicurezza ai governi e alle organizzazioni multinazionali. I suoi programmi di formazione, servizi di sicurezza e analisi approfondite forniscono ai clienti del gruppo le conoscenze e le competenze per preparare, gestire e rispondere ad esigenze di sicurezza in continua evoluzione.

Il team TSG si compone di un selezionato insieme di ex membri dell’intelligence e delle forze dell’ordine, di analisti politici e professionisti della sicurezza, con alle spalle una comprovata esperienza operativa, e fornisce ai propri clienti servizi di consulenza, formazione e supporto gestionale

I membri del team TSG hanno condotto alcune delle più significative indagini nazionali ed internazionali nella storia recente, sperimentando anche metodi nuovi e innovativi per affrontare alcune delle più impegnative questioni internazionali. il gruppo si vanta pertanto di offrire ai propri clienti una combinazione unica di conoscenze tecniche e di esperienza sul campo, affiancate dal rigore accademico di analisti politici, mettendoli in condizione di rispondere con successo a una serie di sfide di sicurezza in continua evoluzione.

TSG ha sede a New York, con uffici regionali a Londra, Doha, e Singapore, nelle due Americhe, in Europa, Medio Oriente, Asia e Africa.

Ali Soufan, classe 1971, è un libanese-americano ex agente speciale dell’FBI (si è dimesso nel 2005) che si è occupato di una serie di casi di antiterrorismo di alto profilo, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Chief Executive Officer del Gruppo Soufan, Mr. Soufan ha indagato e supervisionato casi di terrorismo internazionale altamente sensibili e complessi, tra cui i bombardamenti alle Ambasciate USA in Africa orientale nel 1998, l’attacco alla USS Cole nel 2000, e gli attentati dell’11 Settembre 2001. Mr. Soufan è anche membro del Consiglio consultivo per la Homeland Security. È autore di "The Black Banner: The Inside Story of 9/11 and the war against al Qaeda." È considerato uno dei maggiori esperti di sicurezza e antiterrorismo nazionale, e continua a svolgere un ruolo consultivo significativo per questioni sensibili.

Mr. Soufan vanta una brillante carriera nell’FBI, tra cui il servizio presso la task force congiunta antiterrorismo (Terrorist Joint Task Force), presso gli uffici FBI di New York, dove ha coordinato le operazioni di antiterrorismo sia nazionali che internazionali. Spesso ha operato in ambienti ostili e realizzato missioni extra-territoriali sensibili e negoziati ad alto livello, e ha ricevuto numerosi premi e onorificenze per il suo lavoro di lotta al terrorismo. Secondo un articolo apparso sul New Yorker nel 2006, Soufan è la persona che più di ogni altra è andata vicina a prevenire gli attacchi dell’11 settembre, e ci sarebbe riuscito se la CIA avesse condiviso con lui una parte rilevante di informazioni di intelligence.

Mr. Soufan ha testimoniato davanti al Congresso degli Stati Uniti (dove si è espresso contro il ricorso alle cosiddette "enhanced interrogation techniques" adottate dalla CIA a Guantanamo, tecniche che prevedono anche forme di tortura come il cd waterboarding), ed ha preso parte a fora di sicurezza internazionali, sia negli Stati Uniti che all’estero. Ha collaborato a un gran numero di programmi televisivi su BBC, CNN, MSNBC e Fox e con importanti testate giornalistiche (fra cui The New Yorker, Newsweek, The Washington Post, The New York Times, The Wall Street Journal, The Straits Times, Spiegel, Asharq Alawsat). Il suo lavoro è stato descritto in numerosi libri di saggistica, tra cui "The Looming Tower" di Lawrence Wright.

Si è laureato magna cum laude alla Villanova University ,dove ha conseguito un Master of Arts in Relazioni Internazionali.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPROFONDIMENTI GEOPOLITICI

 


La crisi libica: cronologia degli ultimi avvenimenti
(a cura del Servizio Studi della Camera)

 

Il 13 settembre 2015, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non seguiva per lungo tempo l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo particolarmente “caldo” era quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU si era posto l’obiettivo di ottenere da entrambe le parti candidature per le cariche di primo ministro e dei due vicepremier - ancora una volta era la delegazione di Tripoli a differire la presentazione delle proprie candidature.

Il 25 settembre l’uccisione all’alba, nei dintorni del Medical Center di Tripoli, di un boss del traffico di migranti verso l’Europa, provocava accuse alle forze speciali italiane da parte del presidente del congresso di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, cui il trafficante ucciso sarebbe stato molto vicino. Secca la smentita da parte italiana, e ciò tanto da parte della Farnesina quanto di ambienti della difesa, come anche da parte di esponenti dell’intelligence del nostro Paese. Controversa è rimasta peraltro l’identità del trafficante ucciso.

 

La posizione del Governo italiano di fronte alle ipotesi d’intervento internazionale in Libia

L’Italia non mancava tuttavia di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, chiariva come l’Italia fosse pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale.

Tutto ciò, proseguiva il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa. Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ribadiva il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon, che a detta di Gentiloni non doveva essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni richiedevano espressamente al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon.

Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni chiariva non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potevano andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.

Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non dava i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominavano Tripoli definiva l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco.

Allo stesso tempo l’incontro del 2 ottobre rappresentava plasticamente alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non fosse possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, avevano partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di Stati membri dell’Unione europea -, e agli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar ed altri.

Il 19 ottobre il parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo era apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, rigettava  recisamente la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima. Nel contempo il parlamento di Tobruk decideva di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco. Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti del dialogo proposto dall’ONU.

Nel prolungarsi dello stallo negoziale libico, nella notte fra il 13 e il 14 novembre il leader dell’ISIS nel paese nordafricano Wissam al-Zubaydi (conosciuto anche come Abu Nabil) cadeva vittima dell’attacco di un caccia F-15 statunitense in un’operazione accuratamente pianificata dal Pentagono.

Il ruolo oggettivamente preminente dell’Italia rispetto allo scenario libico, peraltro ampiamente riconosciuto anche da diversi settori importanti della Comunità internazionale – in primis dagli Stati Uniti -, prendeva ulteriormente quota quando il Governo italiano riusciva a convocare per il 13 dicembre a Roma una Conferenza per stabilire le linee-guida per il raggiungimento dell’accordo politico libico, evitando un voto diretto di approvazione da parte dei due parlamenti rivali di Tripoli di Tobruk, ma impegnando la maggioranza dei membri dei due consessi alla firma diretta dell’intesa.

Tale impostazione era il frutto anche del nuovo approccio del mediatore delle Nazioni Unite succeduto a Bernardino Leon, il diplomatico tedesco Martin Kobler, intento a coinvolgere nella firma dell’accordo anche rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile. Si trattava tra l’altro di un escamotage volto a interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Oltre alla Conferenza di Roma, l’Italia riscontrava un cenno della propria credibilità nella questione libica quando negli stessi giorni il generale di corpo d’armata Paolo Serra era nominato senior advisor di Martin Kobler per le questioni di sicurezza correlate al dialogo politico in Libia.

 

L’accordo di Skhirat

La Conferenza di Roma si dimostrava un passo decisivo, e finalmente il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, veniva firmato l’Accordo politico libico, con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa ha previsto la formazione di un governo di unità nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. Al Consiglio di presidenza, guidato da Fayez Serraj, è stato attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro un mese giorni. In ossequio all’impostazione della Conferenza di Roma, hanno apposto la propria firma all’accordo politico numerosi rappresentanti della società civile, dei partiti politici e delle municipalità libiche.

Il giorno successivo, 18 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottava all’unanimità la risoluzione 2254 sulla Libia, nella quale si invita il Consiglio di presidenza formato in base all’accordo del giorno precedente a lavorare con sollecitudine per rispettare il termine dei 30 giorni per la formazione del governo di unità nazionale, e nel contempo si richiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo di unità nazionale per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dall’ISIS o da al-Qaida.

 

I tentativi per la creazione di un esecutivo di unità nazionale

In effetti il Consiglio di presidenza libico si metteva al lavoro e il 20 gennaio 2016 consegnava la lista del governo di unità nazionale, forte di 32 ministri e 64 sottosegretari. Nelle stesse ore il Ministro della difesa italiano Roberta Pinotti, da Parigi, dove partecipava a una riunione del gruppo ristretto della coalizione anti-ISIS, ribadiva la disponibilità dell’Italia ad assumere un ruolo guida nella stabilizzazione della Libia, purché richieste in tal senso venissero dalle autorità di quel paese e purché il processo di stabilizzazione fosse messo in atto congiuntamente dall’Italia e dai suoi alleati.

Tuttavia cinque giorni dopo, il 25 gennaio, il parlamento di Tobruk rigettava di fatto la compagine, votando a larga maggioranza una mozione che dava ulteriori dieci giorni a Fayez Serraj per presentare una nuova lista di ministri. Un’altra mozione, inoltre, votata quasi all’unanimità dal parlamento di Tobruk,  bloccava anche il via libera all’accordo politico di Skhirat, ponendo come condizione assoluta l’eliminazione dell’articolo 8 delle disposizioni finali dell’accordo, articolo che delega le nomine e le decisioni militari al Consiglio di presidenza, espropriandone di fatto interamente l’influente generale Khalifa Haftar.

In tal modo la grande maggioranza dei membri del parlamento di Tobruk sembrava ribadire la propria vicinanza alle posizioni di Haftar, che lungamente avevano costituito un ostacolo al raggiungimento dell’accordo tra le diverse fazioni del paese, proprio per i non troppo nascosti propositi del generale di procedere manu militari alla riconquista della capitale e dell’intero territorio libico.

In questo scenario indubbiamente, dilatandosi i tempi per una soluzione “istituzionale” della situazione libica, erano rilanciate le voci, già numerose nella seconda metà di dicembre, di vari preparativi a carattere militare o di intelligence da parte dei principali paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti – ove il Pentagono sembrava orientato in tal senso assai più della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Irritazione negli ambienti francesi della difesa destava quanto diffuso il 24 febbraio dal quotidiano “Le Monde” sulla presenza di forze francesi in Cirenaica, impegnate da diverse settimane a combattere in maniera clandestina il “Califfato”.

Per ciò che concerne il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, va rilevato anzitutto come nell’incontro a Washington dell’8 febbraio tra il Presidente Obama e il Capo dello Stato Sergio Mattarella l’Italia avesse avuto assicurazione dal capo della Casa Bianca che gli Stati Uniti si trovavano in consonanza con il nostro Paese nel subordinare qualsiasi intervento di carattere militare in Libia alla formazione di un governo nazionale unitario e all’eventuale richiesta da parte di quest’ultimo, rimanendo comunque nell’ambito della legalità internazionale rappresentata dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Intanto il 14 febbraio, ancora una volta a Skhirat in Marocco, era stata stilata la lista di una nuova compagine di governo, assai più leggera della precedente, con 13 ministri e cinque ministri di Stato: tra essi tre donne. Mentre nei dicasteri della difesa e dell’interno erano confermati rispettivamente al-Burghuthi e al-Khouja, agli esteri era nominato un ex ministro della cooperazione in carica negli ultimi anni del regime di Gheddafi, Mohammed Sayala. In particolare, il premier incaricato Serraj ha fatto leva sulla conferma di al-Burghuthi alla difesa come possibile punto di mediazione, in quanto pur essendo stato questi agli ordini di Haftar,  sarebbe risultato gradito a varie milizie filo islamiche della fazione di Tripoli, così come il ministro dell’interno in pectore al-Khouja, già attivo nella stessa carica proprio a Tripoli.

La nuova lista di ministri trovava però nuovamente nel Consiglio di presidenza l’opposizione di due esponenti favorevoli al generale Haftar, al-Qatrani e al-Aswad, che non la sottoscrivevano. Proprio al-Qatrani lasciava intendere la pregiudiziale opposizione di una parte significativa del parlamento di Tobruk al ministro della difesa designato, e accusava il Consiglio di presidenza di essere controllato dai Fratelli Musulmani.

Il 19 febbraio si era poi verificato un raid aereo statunitense contro postazioni dell’ISIS nella cittadina di Sabrata, a una settantina di km. da Tripoli: l’attacco aereo ha avuto come obiettivo un campo di addestramento di appartenenti allo “Stato islamico”, e avrebbe provocato una quarantina di vittime, senza peraltro poter escludere la morte di diversi civili - accertata purtroppo invece la morte di due cittadini serbi, dipendenti dell’ambasciata di Belgrado in Libia e rapiti nel novembre 2015.

Nel raid probabilmente perdeva la vita Noureddine Chouchane, ritenuto l’ideatore degli attacchi ai turisti in Tunisia al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Sabrata risultava da alcuni mesi il bastione più occidentale del “Califfato” in Libia: i jihadisti si erano dapprima accordati con le tribù locali per occupare parti della città, poi, grazie anche ai traffici di migranti, sarebbero stati in grado di creare campi di addestramento. Per tutta risposta, comunque, circa 150 miliziani dell’ISIS occupavano nei giorni seguenti il quartier generale della sicurezza di Sabrata: i miliziani venivano successivamente respinti, ma non prima di aver decapitato una decina di agenti di sicurezza libici.

Intervenendo alla Camera dei deputati dei deputati nell’ambito del question time il 24 febbraio la Ministra della Difesa Roberta Pinotti chiariva innanzitutto come per l’attacco americano su Sabrata l’Italia non avesse concesso né basi né il sorvolo del territorio nazionale. La Ministra ribadiva poi la costante linea dell’Italia di opposizione all’ISIS, ma tramite il coinvolgimento diretto e attivo della popolazione e dei governi locali, cui fornire il necessario supporto, che poteva valere anche nei confronti della Libia quando questa si fosse dotata di un governo stabile e riconosciuto. La Ministra, infine, ricordava come la base di Sigonella, pur non interessata dall’azione di pochi giorni prima, sia stata utilizzata previo accordo con l’Italia dagli Stati Uniti fin dagli Anni Cinquanta: da allora l’utilizzo della base è stato oggetto caso per caso di discussione e autorizzazione da parte italiana, in coerenza con le nostre strategie di politica estera e di difesa elaborate dal Governo in costante raccordo con il Parlamento.

Sul fronte del cammino politico-istituzionale della Libia, il 24 febbraio 101 parlamentari di Tobruk firmavano una petizione a sostegno del nuovo esecutivo proposto da Serraj, un fatto che, pur non significando ancora il via libera di Tobruk, costituiva uno snodo potenzialmente importante nella questione.

Infatti il 1° marzo il Ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, a colloquio a New York con l’incaricato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Martin Kobler - che il giorno dopo avrebbe riferito al Consiglio di sicurezza dell’ONU - avanzava la proposta italiana di far leva sul pronunciamento dei 101 parlamentari di Tobruk per considerare espressa e formalizzata la volontà della maggioranza di quel consesso parlamentare - ove peraltro, come emerso da una lettera del vicepresidente Hamuhu a Martin Kobler, un libero dibattito sarebbe stato più volte impedito anche con la violenza.

L’urgenza di sbloccare la situazione istituzionale libica emergeva sempre più pressante anche in rapporto allo stato avanzato dei preparativi per quello che potrebbe essere un secondo intervento internazionale nel paese nordafricano, per il quale intanto veniva istituito a Roma il centro di coordinamento della coalizione. Le difficoltà della situazione libica si confermavano tuttavia il 4 marzo, quando colpi di granate anticarro raggiungevano a Tripoli la sede del Partito della patria, il giorno dopo che più di 50 deputati del Congresso nazionale generale di Tripoli a quel partito riferentisi avevano dichiarato il proprio appoggio al nascente governo unitario.

Per di più alcuni deputati di Tobruk avevano frattanto negato di aver apposto la propria firma alla petizione del 24 febbraio, ponendo in ulteriore difficoltà i piani di Martin Kobler e anche la proposta avanzata dal nostro Paese - diversi media libici avevano tra l’altro protestato contro l’escamotage fatto proprio da Kobler, qualificato alla stregua di un tentativo di aggiramento della maggioranza qualificata richiesta per l’approvazione del parlamento di Tobruk della nuova lista dei ministri. Per uscire dall’impasse emergeva da parte dell’inviato speciale delle Nazioni Unite la prospettazione di una possibile ripresa del dialogo politico libico, per affidare nuovamente a un formato extraparlamentare la riconciliazione nazionale e il via libera a un nuovo esecutivo, superando i blocchi e i veti incrociati delle varie minoranze del paese. Su questo obiettivo di Kobler un portavoce del Dipartimento di Stato USA esprimeva convinto sostegno.

 

Le rivelazioni del Wall Street Journal sull’impiego della base aerea di Sigonella per operazioni di bombardamento con droni

Una polemica interna allo schieramento politico italiano si apriva dopo le rivelazioni del 22 febbraio del Wall Street Journal, secondo le quali dal mese di gennaio sarebbero decollati dalla base NATO italiana di Sigonella droni armati statunitensi per operazioni di bombardamento contro l’ISIS in Libia e in altre località del Nordafrica. Il Ministero della difesa italiano ha confermato l’accordo tra Washington e Roma per l’utilizzo della base di Sigonella, negando tuttavia che fossero già in corso voli finalizzati a tali missioni, e precisando che ogni singola missione avrebbe dovuto essere sottoposta all’autorizzazione del Governo italiano. Inoltre l’accordo non avrebbe riguardato tanto la Libia, e quindi un’accelerazione della possibilità di intervento militare nel paese nordafricano, quanto profili più generali di protezione e sicurezza del personale impegnato nella lotta contro l’ISIS in tutti gli scenari in cui il “Califfato” è presente.

Le opposizioni parlamentari hanno lamentato di non essere state adeguatamente informate dal Governo su tali sviluppi, a loro dire particolarmente preoccupanti alla luce del più volte manifestato allarme degli Stati Uniti per la crescente presenza dell’ISIS in Libia, con la richiesta di una maggior cooperazione agli alleati europei.

Tutte queste questioni venivano affrontate il 25 febbraio dal Consiglio supremo di difesa presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, dal quale  emergeva la disponibilità italiana a intervenire, ma solo su richiesta di un’autorità libica ricostituita unitariamente, per una missione di supporto che avrebbe visto impegnato un numero limitato di militari, con compiti di addestramento delle forze locali e sorveglianza di siti particolarmente sensibili, come ambasciate e palazzi istituzionali.

Parallelamente al crescere della pressione statunitense sulle autorità italiane - con il Segretario alla difesa USA Ashton Carter che in una conferenza stampa del 29 febbraio al Pentagono esplicitamente  ribadiva spettare all’Italia il ruolo guida per un intervento in Libia -; emergeva come anche l’Italia avesse già dispiegato una quarantina di agenti operativi del servizio segreto esterno (AISE), e si trovasse nell’imminenza di inviare una cinquantina di appartenenti al reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin.

Questa forma di intervento è stata possibile in ragione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio, oggetto di secretazione, che avrebbe avocato al Dipartimento per la sicurezza - cui fa capo il coordinamento dei due servizi italiani di intelligence - e quindi alla Presidenza del Consiglio, la responsabilità in ordine ad operazioni per gravi crisi all’estero. In base al citato DPCM, agli agenti dell’AISE è possibile affiancare militari di alcuni corpi speciali, in via diretta e al di fuori della normale catena di comando - che naturalmente farebbe invece capo al Ministero della difesa. Nell’espletare queste funzioni gli appartenenti ai corpi speciali della difesa godrebbero dell’estensione delle normali garanzie funzionali a favore degli agenti dell’AISE, estensione già disposta nel decreto-legge di rinnovo della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali della fine del 2015 (D.L. 174/2015, art. 7-bis, nel quale pure si riscontra la base legislativa del DPCM del 10 febbraio).

Va comunque segnalato che lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, anche nel clima di costernazione destato dall’uccisione dei due tecnici italiani (v. infra) in Libia e prima del rientro dei due colleghi superstiti, esprimeva forte irritazione per ogni accelerazione mediatica in ordine a un possibile intervento del nostro Paese nello scenario libico, definita quale atto di irresponsabilità. Matteo Renzi ribadiva che la priorità dell’Italia era diplomatica, e mirava anzitutto alla formazione di un governo libico unitario, ed effettivamente gran parte dell’arco politico-parlamentare sembrava convergere sulla cautela del Presidente Renzi, sulla quale sono apparse altresì quasi perfettamente sintoniche fonti dell’Eliseo, in vista dell’incontro dell’8 marzo tra Matteo Renzi e il Presidente francese Hollande. Lo stesso ambasciatore americano a Roma John Phillips è sembrato assai più cauto quando è tornato sull’argomento dell’impegno italiano in Libia, sottolineando di aver fatto riferimento, nell’intervista di tre giorni prima al Corriere della Sera, al contingente italiano di 5.000 uomini per la Libia in base a precedenti indicazioni della stessa Italia, e non come forma di suggerimento da parte degli USA, consapevoli che si trattava di decisioni ancora da adottare.

L’incontro italo-francese di Venezia dell’8 marzo registrava la convergenza tra i due Governi sulla priorità della formazione dell’esecutivo unitario in Libia, pur sottolineando l’urgenza di addivenire a una soluzione dell’intricato problema istituzionale - come sostenuto in particolare dal presidente francese Hollande, alludendo alla presenza ormai ben radicata del terrorismo dell’ISIS in Libia. In riferimento alle notizie riportate nella stessa giornata dal New York Times in merito a piani statunitensi già messi a punto per un’ondata di raid aerei contro alcune decine di obiettivi dell’ISIS in diverse zone della Libia, che avrebbe dovuto precedere l’intervento di terra delle milizie libiche filoccidentali, il Presidente del Consiglio Renzi evidenziava l’importanza di una visione di lungo periodo dei problemi del paese nordafricano, disinnescando pertanto nell’immediato le tensioni in ordine all’intervento militare a breve termine. Un’incognita fondamentale anche nei rapporti tra i paesi occidentali rimaneva però quella della tempistica dell’intervento militare contro l’ISIS, che da parte degli Stati Uniti e, par di comprendere, della Francia, si correlava alla necessità di impedire un eccessivo rafforzamento delle milizie del “Califfato”, che rischiava di rendere insufficiente l’intervento militare su scala limitata al momento nei piani generali.

Le posizioni dell’Italia erano ribadite in Parlamento nella giornata del 9 marzo, anzitutto con l’intervento del Ministro degli esteri Gentiloni alla Camera e al Senato: il Ministro richiamava la linea di prudenza sull’intervento militare in Libia, un teatro, ricordava, nel quale oltre ad almeno cinquemila combattenti dell’ISIS vi sarebbero circa duecentomila uomini armati, inquadrati in varie milizie o gruppi tribali. Il Governo italiano, proseguiva il Ministro Gentiloni, tentava di favorire la formazione di un governo libico unitario, consentendo alla maggioranza del parlamento di Tobruk favorevole al premier designato Fayez Serraj di esprimersi anche al di fuori del consesso parlamentare, per superare le minacce da parte delle frange più estremiste. Dal canto suo la Ministra della difesa Roberta Pinotti, intervenendo nella stessa giornata in seno al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) reiterava analoghe dichiarazioni, precisando che solo su richiesta libica avrebbe potuto dispiegarsi una missione di tipo militare, e in ogni caso dopo il via libera del Parlamento italiano – la Ministra Pinotti precisava poi  non esservi al momento forze speciali militari italiane in Libia.

Il 10 marzo si svolgeva peraltro a Tunisi la preannunciata riunione del dialogo politico libico - la via alternativa scelta dalle forze interessate alla formazione di un governo unitario in Libia per aggirare il veto rappresentato dal parlamento di Tobruk nei confronti del nuovo esecutivo -, subito inceppata da complicate procedure di insediamento del Comitato di dialogo. Per di più, il presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh l’8 marzo aveva dichiarato che una fiducia accordata al nuovo esecutivo al di fuori del parlamento non avrebbe avuto alcun valore.

 

L’assassinio di due ostaggi italiani e la liberazione degli altri due connazionali rapiti

Il 2 marzo purtroppo si era intanto avuta notizia dell’uccisione di Salvatore Failla e Fausto Piano - due dei quattro ostaggi italiani, tecnici dell’azienda Bonatti, rapiti in Libia nel luglio 2015 - che perdevano la vita nel corso di un attacco a Sabrata delle milizie fedeli a Tripoli nei confronti di gruppi ritenuti vicini all’ISIS. Nel caos di Sabrata è stato particolarmente difficile nelle prime ore ricostruire gli eventi, anche per la delicatezza della situazione, che sembrava far immaginare la volontà delle autorità cittadine di trattenere i due ostaggi superstiti – Gino Pollicardo e Filippo Calcagno -, alla ricerca di una qualche forma di riconoscimento politico di Tripoli, cui le autorità di Sabrata risultavano collegate. Fortunatamente all’alba del 6 marzo poteva atterrare all’aeroporto di Ciampino l’aereo che riportava a casa i due tecnici superstiti, che già in tarda mattinata erano ascoltati dai magistrati in una caserma del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri.

Nelle sei ore di colloquio sarebbe emerso come, unitamente ai due colleghi deceduti, Pollicardo e Calcagno avessero patito durante gli otto mesi di prigionia violenze fisiche e psicologiche da parte della banda criminale che li aveva in ostaggio. Quanto alla loro liberazione, sarebbe avvenuta il 4 marzo, dopo la scomparsa dei loro carcerieri, i quali due giorni prima avevano prelevato Failla e Piano, che non avrebbero più rivisto i propri colleghi di lavoro e di prigionia.

Sulla vicenda tra l’altro il Presidente del Consiglio Matteo Renzi asseriva il 6 marzo la necessità di comprendere come mai i quattro tecnici italiani fossero entrati in Libia quando già era stato posto un esplicito divieto da parte delle autorità del nostro Paese: al Presidente del Consiglio replicava il numero uno della società Bonatti, Paolo Ghirelli, dicendo che la sua azienda aveva rispettato tutti gli obblighi di legge e i quattro tecnici si trovavano in Libia per uno scopo di lavoro ben preciso.

Solo nella notte tra il 9 e il 10 marzo le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano potevano far rientro in Italia, accolte all’aeroporto di Ciampino dai familiari e dal Ministro degli esteri Gentiloni - particolarmente amareggiata la reazione della moglie di Salvatore Failla, che ha detto di non volere funerali di Stato per il marito, per il quale la strategia consigliata dalle autorità italiane si sarebbe rivelata fatale. La vedova Failla ha poi rivelato la presenza tra i sequestratori di un soggetto in grado di parlare seppur stentatamente in italiano, in occasione della telefonata con cui i sequestratori le avevano fatto ascoltare un messaggio registrato in cui il marito chiedeva aiuto e le diceva di rivolgersi ai mezzi di comunicazione italiani. L’avvocato della famiglia Failla, dal canto suo, ha stigmatizzato l’autopsia effettuata in Libia, qualificandola alla stregua di una macelleria: in particolare, il prelievo di parte dei tessuti corporei ha reso impossibile l’identificazione della dinamica esatta dell’uccisione dei due tecnici italiani. Tuttavia, l’autopsia subito effettuata al Policlinico Gemelli di Roma dopo l’arrivo delle salme in Italia evidenziava come i colpi mortali per Failla e Piano siano stati in parti del corpo non compatibili con la versione di una esecuzione da parte dei rapitori prima del blitz delle milizie libiche, a differenza di quanto ancora il 10 marzo dichiarato dal sindaco di Sabrata. Altra questione su cui si registrava dissenso tra le autorità italiane e i libici era quella dell’appartenenza all’ISIS dei carcerieri di Failla e Piano, data per scontata delle autorità libiche ed esclusa invece nettamente dall’intelligence italiana.

Alla metà di agosto dichiarazioni del capo dei servizi segreti di Tripoli al Corriere della Sera hanno riacceso le polemiche: secondo l’alto funzionario libico, infatti, vi sarebbe stata certezza del pagamento da parte dell’Italia di un riscatto di 13 milioni di euro, con grave disappunto delle autorità di Tripoli, visto che quel denaro sarebbe andato probabilmente a finanziare in parte bande criminali e in parte esponenti dello stesso ISIS. Anche il legale della moglie di Salvatore Failla chiedeva di fare chiarezza su tali indiscrezioni, che metterebbero il ruolo del governo italiano nel sequestro in una luce completamente diversa e più grave.

 

Il consolidamento del nuovo esecutivo

Per sbloccare il processo politico, il documento del 23 febbraio 2016 con le 101 firme dei parlamentari di Tobruk (su un totale di 188 membri) che esprimevano sostegno al governo di unità nazionale di Al-Serraj, in assenza di un voto formale dello stesso parlamento, era considerato dall'Occidente come atto di validazione della nuova compagine governativa.

In data 10 marzo il Dialogo politico libico, che riuniva i negoziatori dell'accordo di Skhirat, svolgendo la funzione di assemblea di saggi, rivolgeva un'istanza al Consiglio presidenziale libico affinché prendesse "le misure necessarie per cominciare rapidamente il suo lavoro a Tripoli"; tale istanza riconosceva valore al documento dei cento rappresentanti del parlamento di Tobruk, pur chiedendo a quest'ultimo di completare le tappe richieste per l'insediamento del governo. La formula, volutamente lasca, non precisava se il documento sostituisse il voto parlamentare. Tuttavia tale ambiguità rischiava di rendere fragile la base giuridica della proclamazione di legittimità del Consiglio presidenziale.

Il 12 marzo 2016, infatti, il Consiglio presidenziale del governo di unità nazionale, riunitosi a Tunisi, si autoproclamava legittimo, rivolgendo un appello a tutte le istituzioni libiche a prendere contatto con il nuovo governo al fine di mettere in atto le modalità di passaggio del potere. Tuttavia alcuni membri del Dialogo libico contestavano l'interpretazione data della dichiarazione del 10 marzo da parte del Consiglio presidenziale. 

Al di là di questioni di fragilità giuridica, il nuovo governo mancava di ancoraggio territoriale, in quanto era costretto a riunirsi tra la Tunisia ed il Marocco, mentre sul terreno la Libia restava di fatto sotto il controllo di due governi rivali, quello di Baida-Tobruk e quello di Tripoli. In particolare, la situazione nella capitale era estremamente ostile. Khalifa al-Ghwell, primo ministro del governo di Tripoli - emanazione del General National Congress (GNC) - era appoggiato da una alleanza di milizie di Tripoli e Misurata, islamico-moderate, ma anche più radicali. Al-Ghwell minacciava di far arrestare Fayez Al Serraj, premier dell’unico esecutivo riconosciuto dalla Comunità internazionale, quello di unità nazionale, se fosse arrivato nella capitale libica. Al-Ghwell affermava di non aver intenzione di cedere i suoi poteri al governo Al-Serraj nato sotto l’egida dell’ONU, in quanto questo non aveva l’appoggio del parlamento di Tripoli (General National Congress - GNC), nato dalle prime elezioni libere della Libia nel 2012, ma sconfessato a livello internazionale. Il 18 marzo Al-Serraj, parlando dall'emittente Al-Libya, ribadiva che "l'esecutivo sarà presto a Tripoli"; ciò doveva avvenire entro fine marzo - insisteva l'Inviato delle Nazioni Unite Martin Kobler - altrimenti la credibilità del nuovo esecutivo sarebbe svanita e si sarebbe dovuto riconvocare il Dialogo politico libico. Frattanto a Bengasi scendevano in piazza i simpatizzanti del generale Khalifa Haftar; a Tripoli, si registravano i primi scontri tra il «Fronte Samud» e le milizie favorevoli al governo Al-Serraj.

Il 13 marzo 2016, in una riunione a livello ministeriale al Quai d'Orsay di Parigi, Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Stati Uniti e Unione Europea nella Dichiarazione finale qualificavano il governo di unità nazionale come il "solo governo legittimo in Libia", ribadendo la necessità che l'insediamento a Tripoli e il pacifico passaggio delle consegne, nonché la messa in funzione del quadro istituzionale previsto dall'Accordo di Skhirat, fossero implementati appena possibile. I partecipanti alla ministeriale di Parigi ricordavano inoltre la possibilità di comminare sanzioni contro gli individui che ostacolavano il processo politico, l'istituzione del governo di unità nazionale o l'attuazione dell'Accordo di Skhirat.

Il 30 marzo 2016 Fayez Serraj e altri sei membri del Consiglio presidenziale sbarcavano a Tripoli, presso la base navale di Abu-Seta, a bordo di una motovedetta libica partita da Sfax, in Tunisia. Lo sbarco avveniva pacificamente, sebbene in un clima di tensione nel quale il capo del governo di Tripoli Gwell aveva inizialmente messo in guardia Serraj dall'entrare a Tripoli, minacciando di farlo arrestare.

Quasi contemporaneamente, il 31 marzo, l'Unione europea - attraverso una procedura scritta - adottava sanzioni (congelamento dei beni e divieto di viaggio) contro tre esponenti libici accusati di ostacolare il governo di unità nazionale: due del governo di Tripoli - il premier Khalifa al-Ghwell e il presidente del Parlamento Nouri Abu Sahmain - e uno del governo di Tobruk - il presidente del Parlamento Aguila Saleh. Sempre il 31 marzo, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU adottava la Risoluzione n. 2278 (2016), che pone sotto il controllo del governo di unità nazionale il commercio del petrolio e le armi non soggette ad embargo. Il 20 aprile anche gli Stati Uniti imponevano sanzioni individuali contro Gwell.

Ai primi di aprile la Coalizione Alba Libica, che aveva sostenuto il Governo di Tripoli, si era ormai dissolta; pertanto, sia il Primo Ministro Gwell che il presidente del parlamento di Tripoli Nuri Abu Sahmain lasciavano la capitale. Serraj sembrava esser riuscito ad insediarsi, grazie al lavoro prima di intelligence e poi diplomatico che aveva portato dalla parte di Serraj le milizie di Misurata e le milizie islamiste tripoline di Abdel Hakim Belhadj. A questo punto, l'amministrazione Gwell rimaneva priva di appoggio, considerato anche che la stessa Fratellanza Musulmana libica era in buona parte favorevole ad una transizione verso il nuovo Governo Serraj.

Il governo Serraj incassava anche l'endorsement da parte di Ibrahim Jadran, potente capo delle Guardie Petrolifere - attive in Cirenaica e protettrici anche degli insediamenti dell'ENI in Tripolitania -, che dopo aver oscillato tra l'appoggio a Tobruk e a Misurata, prendeva le distanze dal Generale Haftar riposizionandosi nel campo del nuovo governo di Tripoli. Anche la Banca centrale della Libia e la Compagnia nazionale petrolifera (Noc) riconoscevano l'autorità del Governo di unità nazionale.

Tuttavia, erano presenti a Tripoli almeno 41 milizie, di cui solo una parte aveva accettato il governo Serraj, mentre a Tobruk sembrava che il Generale Haftar si imponesse sempre più come figura determinante militarmente e politicamente.

Dopo quindici giorni dall'ingresso di Serraj a Tripoli, il Generale Serra, senior advisor del Rappresentante Speciale dell’ONU Martin Kobler per le questioni di sicurezza relative al dialogo in Libia, nell'audizione innanzi alle Commissioni Difesa congiunte di Camera e Senato (13 aprile 2016), definiva la situazione in Libia "calma, instabile e tesa".

Il processo di pacificazione ipotizzato dall'ONU prevedeva, come tappe successive, il voto di fiducia della Camera dei Rappresentanti di Tobruk al nuovo governo di unità nazionale; l’accordo tra il nuovo governo e la Banca centrale; l’unificazione delle compagnie petrolifere nazionali; la costruzione del nuovo Stato, tenendo conto della Sharia’a.

Il 25 aprile 2016 il Consiglio presidenziale di unità nazionale, in un "comunicato stampa", faceva appello alle Nazioni Unite e alla Comunità internazionale perché aiutassero la Libia a difendere le risorse petrolifere dai possibili attacchi di DAESH. In particolare si temevano possibili attacchi terroristici contro alcuni siti petroliferi offshore, per far fallire il progetto di riconciliazione nazionale. Si invitavano poi i paesi africani ed europei vicini a rafforzare la cooperazione con le autorità libiche e a intensificare i controlli alle frontiere.

Tale comunicato del governo Serraj - che doveva ancora riscuotere la fiducia del Parlamento di Tobruk – poteva preludere ad una richiesta formale di intervento militare internazionale per contenere l'espansione di DAESH, la quale era a sua volta già incalzata dall'offensiva del Generale Haftar sferrata a fine febbraio 2016 (che gli aveva consentito di riprendersi quasi tutta Bengasi dopo 2 anni, grazie anche al sostegno di truppe scelte francesi che hanno aiutato ad individuare i bersagli, mettendo il Generale nelle  condizioni di controllare una zona di diverse centinaia di chilometri tra la mezzaluna petrolifera ed il confine egiziano). A Bengasi le forze del Generale avevano riconquistato quasi l'intera città, espellendone gli uomini del Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi – coalizione che raggruppava Ansar Al-Sharia e i miliziani della Brigata Martiri del 17 Febbraio e del Libyan Shield che fanno riferimento alla Fratellanza Musulmana. Numerose fonti affermavano che l'avanzata di Haftar avesse beneficiato di nuovi rinforzi in armi ed equipaggiamenti giunti dall'Egitto e del supporto di forze speciali francesi - che avrebbero curato la pianificazione delle operazioni ed agito anche come consiglieri sul terreno - nonché di forze speciali inglesi.

Con la riconquista di Bengasi, la posizione negoziale di Haftar e del suo braccio politico, il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, si irrigidiva: per alcune settimane Serraj era convocato direttamente al Cairo per i negoziati in cui si cercava di imporre una revisione totale degli equilibri in seno al governo (di unità nazionale) a favore di Haftar. Fallito questo tentativo, Saleh decideva di non far votare più il parlamento sulla fiducia a Serraj, e questo spingeva gli Occidentali alla sequenza di forzature ben note. Lo scenario di un'eventuale avanzata di Haftar sulla Mezzaluna di Sirte non poteva che preoccupare lo stesso Serraj e ciò potrebbe averlo spinto ad annunciare la richiesta di aiuto internazionale a difesa delle risorse petrolifere.

In effetti, la posizione del Generale Haftar si palesava sempre più forte, incontrando crescente sostegno internazionale anche nella Francia, che,  se da un lato ufficialmente sosteneva Serraj, dall'altro aveva da tempo dispiegato forze speciali che operavano come pianificatori e consiglieri embedded con le forze di Haftar, e aveva inoltre stretto un'alleanza di ferro con Al Sisi, fatta di accordi commerciali e mega forniture militari.

Il Ministro degli Esteri Gentiloni, durante il question time innanzi all'Assemblea del Senato del 28 aprile 2016, rispondendo ad alcuni quesiti sulle iniziative di Egitto e Francia nella crisi libica, affermava che Italia e Stati Uniti si sarebbero fatti promotori a breve di un rilancio del "concerto diplomatico a sostegno del governo Serraj". Per quanto concerne la linea dell'Italia, Gentiloni ribadiva il ruolo di leadership diplomatica che si esprime nell’obiettivo dellaa stabilizzazione di un paese unito, affinché esso si consolidi e possa gradualmente formulare richieste di aiuto, dapprima umanitarie, poi economiche e - quando sarà il momento - di sicurezza, cui l'Italia avrebbe risposto sulla base delle richieste libiche e della validazione dell'ONU. Il Ministro Gentiloni sottolineava l'importanza del fatto che le autorità libiche non apparissero manovrabili dall'esterno; in particolare, riguardo alle sfide di sicurezza, affermava la necessità di mettere le autorità libiche in condizione di sconfiggere DAESH e di non scavalcare i libici: vi sarebbe stata in atto una competizione tra le fazioni libiche per chi arriva prima a Sirte.

Queste affermazioni del nostro Ministro degli Esteri erano suffragate all’inizio di maggio dalle notizie di scontri a sud di Sirte tra le milizie del generale Haftar e combattenti della coalizione Fajr Libya, alleata con le milizie di Misurata fedeli a Serraj: i combattimenti erano il risultato del mancato accoglimento dell’invito dello stesso Serraj a tutte le forze contrarie allo “Stato islamico” a fermare temporaneamente ogni azione militare in vista della formazione del comando unificato capace di coordinare l’attacco contro il “Califfato”. La persistente divisione nel fronte libico si accompagnava inoltre a un perdurante stallo della questione fondamentale del voto favorevole del parlamento di Tobruk all’esecutivo di Serraj, precondizione assolutamente necessaria perché lo stesso Serraj potesse chiedere il sostegno internazionale, finalizzato tra l’altro anche alla lotta all’ISIS e al controllo dei movimenti migratori verso l’Europa.

Emergeva subito dopo come il generale Haftarr, lungi dal voler attendere il ricongiungimento delle proprie forze con quelle delle milizie di Misurata, che da ovest si avvicinavano anch’esse a Sirte,  avesse impartito l’ordine diretto di un attacco alla città natale di Gheddafi per scacciarne l’ISIS. Queste manovre, unitamente ai ripetuti dinieghi del presidente del arlamento di Tobruk Aqila Saleh a far votare la fiducia all’esecutivo di Serraj, apparivano sempre più condizionate dall’incertezza del futuro ruolo del generale Haftar nel paese, la cui importanza evidentemente il generale tentava di accrescere forzando la mano sul terreno da un lato, e congelando sine die l’importantissima fiducia all’esecutivo di Serraj dall’altro.

In questa situazione le milizie dell’ISIS davano segnali di vitalità contrattaccando verso ovest e impadronendosi ad Abu Grein di un avamposto delle milizie di Misurata, a un centinaio di km. a est di questa città. Nei giorni successivi le truppe del “Califfato” proseguivano l’offensiva, tanto da costringere le autorità di Misurata a proclamare lo stato di emergenza.

Frattanto gli Stati Uniti imponevano il 13 maggio nuove sanzioni al presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh, per i ritardi che frapponeva alla possibilità di una transizione politica in Libia. La diplomazia italiana, dal canto suo, si attivava nei confronti della Russia per tentare di ottenere da Mosca, solido alleato dell’Egitto, una pressione sul generale Haftar, con l’obiettivo di sgomberare finalmente il campo dal suo ostruzionismo nei confronti di una piena legittimazione dell’esecutivo di Serraj.

 

I più recenti sviluppi: l’intervento USA contro le postazioni dell’ISIS a Sirte e lo scontro fra Tobruk e Tripoli per il controllo dei porti petroliferi.

Il 16 maggio si svolgeva a Vienna, fortemente voluta soprattutto da Italia e  Stati Uniti, una conferenza con la partecipazione di 20 paesi, i quali firmavano una dichiarazione di pieno riconoscimento del governo di unità nazionale di Serrai, aprendo la strada all’alleggerimento dell’embargo sulle armi nei confronti degli attori positivi della ricostruzione dello Stato libico, nonché all’addestramento ed equipaggiamento delle nuove forze armate del paese, anche nel quadro di una strategia per il contrasto ai traffici di esseri umani - tra i firmatari vi erano infatti paesi di transito dei migranti, quali la stessa Libia, l’Egitto, il Ciad, il Sudan, la Tunisia, l’Algeria e il Niger. Il Ministro degli Esteri Gentiloni sottolineava il grande valore politico della conferenza di Vienna, con il risultato del riconoscimento da parte della Comunità internazionale del governo presieduto da Serraj. Lo stesso Gentiloni precisava come non fosse alle viste alcun intervento militare straniero in Libia, quanto piuttosto la disponibilità, anzitutto italiana, ad addestrare ed equipaggiare le forze militari libiche, inclusa la guardia costiera – nei confronti di quest’ultima erano ormai in fase avanzata i preparativi della missione europea EUNAVFOR-MED.

Dopo l’invio all’Alto rappresentante europeo per la politica estera e di sicurezza Federica Mogherini di una lettera del premier libico Serraj per richiedere l’assistenza europea nell’addestramento della marina, della guardia costiera e dei servizi di sicurezza della Libia; il 23 maggio i Ministri degli esteri europei estendevano di un anno – la formale decisione è stata però perfezionata il 20 giugno - il mandato dell’operazione EUNAVFOR-MED, aggiungendo all’iniziale missione di contrasto ai traffici illegali di esseri umani l’addestramento della marina e della guardia costiera libica, nonché un contributo alla messa in atto dell’embargo delle Nazioni Unite sugli armamenti diretti in Libia - per quest’ultimo compito, tuttavia, Federica Mogherini specificava la necessità di una successiva risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, effettivamente adottata il 15 giugno. EUNAVFOR-MED, inoltre, pur restando operativamente al di fuori delle acque territoriali libiche, ha potuto estendere il proprio raggio d’azione a est, fino a coprire quasi l’intera costa della Libia. Il 23 agosto, presso il quartier generale della forza EUNAVFOR-MED a Roma è stato firmato l’accordo tra il comandante della forza, Ammiraglio Credendino, e il comandante della guardia costiera libica, in applicazione delle decisioni europee del 20 giugno.

Alla fine di maggio si profilava un’altra ipotesi di scontro tra il governo di accordo nazionale (Gna) progressivamente emergente dal Consiglio presidenziale guidato da Serraj e le autorità di Tobruk, stavolta in ordine alla stampa di 4 miliardi di dinari in banconote commissionata proprio da Tobruk alla Russia: queste banconote, con la firma del governatore insediato a Beida -e quindi nell’ambito dell’autorità di Tobruk - potevano rappresentare una ulteriore emancipazione da Tripoli, esautorando di fatto la Banca centrale libica, saldamente collegata al governo di accordo nazionale di Serraj. La crisi è stata superata con l’accettazione da parte di Tripoli delle nuove banconote, considerando probabilmente l’utilità della nuova massiccia immissione di contante in un paese che lamenta scarsa liquidità. Cionondimeno, è rimasto il vulnus, seppur solo iniziale, al monopolio della moneta da parte delle autorità libiche internazionalmente riconosciute.

Negli stessi giorni di fine maggio si palesava un completo rovesciamento della situazione militare: infatti, dopo che all’inizio di maggio le milizie del “Califfato” si erano spinte in direzione di Misurata, destando grande allarme nella città, alla fine del mese una controffensiva delle milizie alleate al governo di unità nazionale di Serraj conduceva all’annuncio di aver completamente capovolto la situazione, giungendo a soli 12 km. da Sirte - e ciò mentre l’annunciato attacco finale alla roccaforte dell’ISIS da parte delle truppe del generale Haftar sembrava invece ristagnare, addirittura trovandosi ancora a fronteggiare alcune sacche jihadiste nella città di Bengasi. Tuttavia, nonostante lo sfondamento del 9 giugno delle difese dell’ISIS da parte di truppe corazzate del governo di unità nazionale - che facevano ingresso anche a Harawa, 70 km. più a est nel territorio sotto controllo del “Califfato” -, dopo l’accerchiamento a tenaglia di Sirte da parte di forze terrestri coadiuvate da bombardamenti aerei e dallo spiegamento di mezzi navali; la strenua resistenza dei miliziani dello “Stato islamico” faceva sì che nel centro della città ancora alla fine di luglio proseguissero i combattimenti, senza che le truppe del governo nazionale riuscissero ad aver ragione della resistenza dei miliziani islamisti.

Sul piano diplomatico, va segnalato l’incontro del 27 maggio tra il Ministro degli Esteri Gentiloni e il vicepremier libico Ahmed Mitig, durante il quale il capo della Farnesina assicurava piena collaborazione con il governo Serraj per il controllo delle frontiere.

Il 17 luglio un elicottero appartenente alle forze aeree sotto il comando del generale Haftar era abbattuto nei pressi di Bengasi dalle milizie islamiste locali: nei giorni successivi voci ricorrenti si spargevano sulla presenza a bordo di due cittadini francesi, membri delle forze speciali di Parigi: dopo una serie di dinieghi, lo stesso Presidente francese Hollande ammetteva la morte di suoi connazionali impegnati in rischiose missioni di intelligence nella parte orientale della Libia. L’ammissione francese - che confermava le voci ricorrenti da mesi sulla presenza di forze speciali dei principali paesi occidentali già operanti in Libia - provocava vive proteste da parte di Serraj, secondo il quale le pur giuste ragioni della lotta contro il terrorismo non giustificano interventi di potenze straniere a insaputa delle autorità libiche. Inoltre vi sono state manifestazioni popolari di protesta contro la presenza francese in Libia, anche in considerazione del caos succeduto all’intervento internazionale del 2011, in cui la Francia ebbe il ruolo di punta di lancia. L’episodio ha fatto poi affiorare ancor più chiaramente il sostegno francese al generale Haftar, poco coerente con le dichiarazioni ufficiali di sostegno al governo di unità nazionale libico da parte delle autorità di Parigi.

Il ristagnare dei combattimenti per strappare Sirte alle milizie del “Califfato” provocava infine, da parte del governo di Serraj, la richiesta di supporto militare agli Stati Uniti, che il presidente Obama approvava dietro raccomandazione del segretario alla difesa Ashton Carter. In tal modo il 1° agosto si verificavano i primi raid aerei statunitensi contro obiettivi dell’ISIS a Sirte, che avrebbero provocato pesanti perdite. Lo stesso Serraj delimitava i confini dell’intervento aereo statunitense, richiesto nella sola area di Sirte, a tempo limitato e senza l’impiego di truppe sul terreno.

Dal canto suo il generale al-Ghasri, portavoce delle milizie filogovernative, accusava gli oppositori rispetto all’intervento americano di sostenere oggettivamente l’ISIS, le cui sofisticate armi possono essere colpite con efficacia solo da una tecnologia militare superiore, quale quella in possesso degli USA. Dal canto suo il portavoce del Pentagono Peter Cook affermava che gli attacchi aerei di precisione sarebbero andati avanti fintantoché lo avesse ritenuto opportuno il governo libico riconosciuto, onde consentire alle truppe ad esso riferentisi una decisiva avanzata su Sirte. Non è mancato peraltro chi ha correlato il deciso intervento statunitense contro l’ISIS in Libia alla delicata fase per il rinnovo della presidenza USA: in particolare, attacchi come quelli su Sirte favorirebbero la corsa di Hillary Clinton contro Donald Trump, costituendo di fatto la smentita delle accuse repubblicane di non interventismo all’amministrazione Obama in carica.

I repubblicani hanno peraltro giocato un’altra carta, quella cioè di bloccare nel Congresso la votazione per l’autorizzazione all’uso della forza, tanto che il presupposto per l’ordine presidenziale lo si è dovuto cercare nell’autorizzazione a suo tempo rilasciata da Capitol Hill a George W. Bush per gli attacchi contro al-Qaida. Comunque, nonostante le proteste russe, il portavoce del Segretario generale dell’ONU ha comunicato che l’intervento USA in Libia appare coerente con la risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza.

L’Italia ha valutato positivamente l’inizio dei bombardamenti americani su Sirte, inquadrati nelle iniziative per ridare stabilità e pace al popolo libico - come comunicato dalla Farnesina. Peraltro il 2 agosto il Ministro degli Esteri Gentiloni ha chiarito come il nostro Paese avrebbe valutato la possibilità di intervenire contro l’ISIS a Sirte, ovvero di mettere a disposizione degli alleati le basi italiane - richiesta peraltro a quel momento non pervenuta. In un colloquio telefonico diretto con Serraj, il Ministro Gentiloni ha assicurato la continuazione del sostegno italiano per riportare la Libia ad una situazione di stabilità, garantendo in ogni caso il sostegno umanitario e sanitario.

Il 3 agosto, intervenendo a Montecitorio per il question time, la Ministra della Difesa Roberta Pinotti ha chiarito come il Governo italiano fosse pronto a considerare di concedere l’utilizzo delle basi e degli spazi aerei nazionali a supporto dell’operazione statunitense, qualora ciò dovesse rivelarsi utile a una più rapida conclusione dell’azione in corso contro l’ISIS. Infatti, sempre secondo la Ministra Pinotti, per l’Italia l’eliminazione delle centrali terroristiche dell’ISIS in Libia è di fondamentale importanza, e va realizzata con il coinvolgimento diretto e attivo delle popolazioni e dei governi locali, fornendo, su loro richiesta, il necessario supporto anche militare. Il carattere circoscritto nel tempo e nel territorio dell’azione americana, finalizzata a sconfiggere le forze terroristiche nella zona di Sirte, e la sua piena coerenza con la risoluzione 2259 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, hanno favorito la positiva valutazione dell’Italia in ordine all’operazione e la disponibilità alla nostra partecipazione nelle forme che si riterranno più opportune. Va ricordato che anche le milizie libiche impegnate sul terreno nella lotta contro lo “Stato islamico” hanno chiesto all’Italia di concedere le proprie basi per i raid americani.

Intanto si è ulteriormente complicato il quadro politico della situazione libica, quando il 4 agosto il portavoce del generale Haftar ha definito illegittimi i bombardamenti americani su Sirte, il cui vero scopo sarebbe da rinvenire in questioni di prestigio per lo schieramento politico guidato da Serraj e nella necessità dei democratici americani al potere di favorire la campagna elettorale di Hillary Clinton. Ha rincarato la dose il presidente della Commissione difesa della Camera dei rappresentanti di Tobruk, per il quale il Parlamento libico si incaricherà di vegliare di fronte alle violazioni della sovranità nazionale - compreso lo spazio aereo - senza un preventivo coordinamento con Tobruk. Qualche giorno dopo, il 9 agosto, le autorità di Tobruk hanno chiesto la sostituzione dell’inviato dell’ONU Martin Kobler, a loro dire poco efficiente e non neutrale.

In questo difficile scenario, intanto, il direttore del Dipartimento sanitario di Sirte ha lanciato l’allarme sulla cronica carenza di medicinali, che si riscontrerebbe nella città libica ormai da più di un anno; mentre il Consiglio dei ministri dell’Unione europea ha esteso il 4 agosto il mandato della missione civile EUBAM in Libia fino al 21 dello stesso mese, approvando il finanziamento dei costi per il periodo aggiuntivo.

Il 10 agosto ulteriori progressi sono stati realizzati a Sirte, con la caduta del quartier generale dei miliziani dell’ISIS, il Centro Ouagadougou - senza peraltro che fosse ancora possibile cacciare le truppe del “Califfato” da altre tre aree residenziali, una delle quali vicino al mare, possibile via di fuga per i jihadisti. Erano intanto giunte diverse conferme, anche di fonte istituzionale, della presenza di forze speciali americane, britanniche e anche italiane a sostegno delle milizie libiche fedeli al governo di Serraj: per quanto concerne le forze speciali italiane veniva precisato che queste avevano compiti non di combattimento, ma di formazione e addestramento dei combattenti libici impegnati contro l’ISIS. In ogni caso dal fronte delle opposizioni politiche italiane si sono levate numerose critiche al Governo di aver nascosto al Parlamento l’invio delle truppe speciali, avvenuto già diverse settimane prima.

Il sostegno italiano al governo di Serraj è stato testimoniato anche dall’intensificazione dei preparativi per la riapertura dell’Ambasciata italiana a Tripoli, e dall’avvenuta nomina del futuro capo della sede diplomatica. Il giorno prima, il 9 agosto, il Sottosegretario agli Esteri On. Vincenzo Amendola, in missione a Tripoli, aveva ribadito il sostegno italiano al governo Serraj, affrontando con i propri interlocutori libici l’importante questione dell’intensificazione dell’assistenza umanitaria del nostro Paese, soprattutto quella da prestare anche in territorio nazionale ai feriti nella lotta contro lo “Stato islamico”.

Una ulteriore grave difficoltà nel processo di riunificazione politica della Libia vi è stata il 22 agosto, quando la Camera dei rappresentanti di Tobruk ha nettamente bocciato il governo di unità nazionale di Serraj. È stato questo un segnale in direzione della necessità di una riformulazione della compagine governativa tale da includere più rappresentanti della Libia orientale. La votazione ha destato peraltro le proteste del vicepresidente della Camera dei rappresentanti, in quanto avvenuta dopo un improvviso mutamento dell’ordine del giorno della seduta, mentre i deputati erano stati convocati per un’altra questione, per la quale era più semplice ottenere la presenza del numero legale. Per di più, nella stessa giornata, un’intervista del presidente egiziano al-Sisi sui principali quotidiani del paese confermava il sostegno al Parlamento di Tobruk e al generale Haftar.

C’è poi da rilevare che, nonostante gli attacchi aerei americani, piccoli nuclei di cecchini e combattenti dello “Stato islamico” hanno resistito nelle loro ridotte di Sirte, che tuttora non può dirsi completamente liberata dai miliziani dell’ISIS.

Non meno preoccupante della situazione a Sirte, e anzi forse di più, è stato il deciso attacco delle truppe del generale Haftar, che l’11 settembre hanno investito i principali porti petroliferi della Libia (Zueitina, Brega, Ras Lanuf e Sidra) – la cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” -, strappandone in poche ore il controllo alle truppe di Ibrahim Jadran, che da fine luglio aveva consentito la riapertura dei terminal dopo un accordo con le Nazioni Unite. Le forze armate controllate da Haftar, presentatesi come l’”esercito libico”, hanno descritto  l’azione armata come rivolta alla protezione della ricchezza nazionale di tutti i libici contro la corruzione, annunciando di voler restituire la gestione dei porti alla Compagnia nazionale del petrolio, mantenendo l’elemento militare al di fuori di qualunque accordo commerciale sul petrolio, con l’unica funzione di proteggere la sicurezza dei porti stessi.

Nel giro di poche ore le autorità di Tripoli preannunciavano una controffensiva per la ripresa dei porti petroliferi, per far fronte a quella che era definita una vera e propria aggressione da parte delle truppe di Haftar.

Venuta meno in buona parte la consistenza del “cuscinetto” rappresentato dal dominio dell’ISIS a Sirte, il rischio che si va configurando è chiaramente quello dello scontro frontale fra Tripoli e Tobruk, con le truppe fedeli a Serraj tese a riacquisire il controllo delle esportazioni di petrolio, mentre la componente guidata da Haftar e riferentesi a Tobruk potrebbe ulteriormente puntare verso ovest, proprio su Sirte – che costituirebbe un richiamo per i numerosi ex gheddafiani delle forze armate di Tobruk e per lo stesso Haftar, membro della seconda tribù della città natale del colonnello.

Una decisa presa di posizione contro le iniziative del generale Haftar è venuta il 12 settembre dai governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito: la dichiarazione congiunta fa appello a tutte le forze militari a ritirarsi immediatamente e senza condizioni dalla “Mezzaluna petrolifera”, demandando la difesa del commercio del greggio libico all’applicazione della risoluzione 2259 del Consiglio di sicurezza dell’ONU - nella quale, si ricorda, è previsto anche di poter adottare misure contro le esportazioni illegali di petrolio.

La dichiarazione prosegue con l’appello immediato al cessate il fuoco rivolto a tutte le parti, alle quali si raccomanda di evitare qualunque azione di danneggiamento delle infrastrutture energetiche o di compromissione del flusso delle esportazioni. Le parti vengono inoltre esortate a raggiungere un’intesa per la creazione di un’unica forza armata professionale per la Libia, in vista di una lotta più efficace contro le formazioni jihadiste e terroriste. La dichiarazione conclude che l’amministratore unico delle risorse petrolifere libiche è il Consiglio presidenziale, unitamente alle altre istituzioni dell’esecutivo di accordo nazionale (GNA).

Il 13 settembre i Ministri degli Esteri e della Difesa, Gentiloni e Pinotti,  hanno riferito alle Commissioni Esteri e Difesa dei due rami del Parlamento, e in questa sede hanno confermato e precisato quanto dichiarato il giorno precedente in ordine all’invio di una missione militare/civile a Misurata per l’installazione di un ospedale da campo atto a prestare le necessarie cure ai combattenti delle locali milizie feriti (si tratterebbe di circa 2.000 uomini) nella lunga lotta contro le postazioni dell’ISIS a Sirte. Questa iniziativa dell’Italia fa seguito alla missione del Sottosegretario Amendola a Tripoli del 9 agosto e alla lettera inviata nella stessa giornata al Presidente del Consiglio Matteo Renzi dal primo ministro del governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU Serraj. Peraltro i due Ministri hanno escluso il carattere di combattimento della missione (un centinaio di paracadutisti della Folgore operanti su tre turni), la cui funzione dovrà essere di protezione della struttura ospedaliera - che nel giro di tre settimane dovrebbe operare a pieno regime, con una potenzialità di ricovero di 50 posti - e del personale logistico e sanitario (65 medici ed infermieri militari e 135 unità per la logistica).

A supporto della missione italiana vi sarà anche un velivolo predisposto per una eventuale rapida evacuazione, e anche dal mare una nave italiana vigilerà sulla situazione. Le dichiarazioni dei Ministri non hanno convinto una parte delle opposizioni in Parlamento, per le quali, pur con diverse sfumature di apprezzamento, la missione configurerebbe un vero e proprio intervento militare italiano nel difficile scenario libico, reso ancor più critico dei recenti attacchi delle truppe del generale Haftar contro la “Mezzaluna petrolifera”.

Dopo le comunicazioni dei due Ministri, in separata sede, le Commissioni riunite Esteri e Difesa del Senato, e successivamente le loro analoghe della Camera, hanno approvato un’identica risoluzione, nella quale si impegna il Governo ad attuare pienamente quanto anticipato nelle comunicazioni della mattinata, provvedendo all’allestimento delle strutture ospedaliere militari, a guardia delle quali dovrà essere impiegato il personale in grado di garantirne la sicurezza. Le soluzioni impegnano poi il Governo a tenere il Parlamento costantemente informato sugli sviluppi della situazione.


 

I recenti sviluppi della guerra civile libica

e del conflitto siriano
di Stefania Azzolina e Marco Di Liddo del Centro Studi Internazionali (CeSI)[71]

 

Libia: l’offensiva contro Daesh e i rischi di escalation tra Tripoli e Tobruk

Intrappolata nel perdurante conflitto tra il governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli (propriamente detto Consiglio Presidenziale, CP[72]) e quello di Tobruk (formalmente Camera dei Rappresentanti, CR), ad agosto, la guerra civile libica non ha conosciuto significativi scossoni politici. La profonda reticenza alla cooperazione e al compromesso mostrata da entrambi i contendenti, alimentata sia dalla lottizzazione delle principali cariche istituzionali nel futuro assetto politico nazionale sia dai conflitti tra tribù e milizie, potrebbe rendere decisamente complicata l’entrata in vigore degli accordi di Skhirat e prolungare i tempi del negoziato nei prossimi mesi. Dunque, la nascita dell’autentico Governo di Unità Nazionale (GUN) è inevitabilmente legata alla fiducia di Tobruk al progetto del leader del CP Serraj, ad oggi ben lungi dall’essere concessa. A riprova dell’attuale inamovibilità della Camera dei Rappresentanti può essere citata la consultazione del 23 agosto, quando la maggioranza dei parlamentari (61 su 101 presenti) non ha accordato la fiducia alla lista dei ministri proposta da Serraj, impedendo così la formazione del GUN. Si tratta del secondo rifiuto che Tobruk oppone a Tripoli dopo quello dello scorso gennaio, nonostante nei mesi intercorsi tra le due votazioni il Consiglio Presidenziale abbia discretamente rafforzato la propria tenuta e sia riuscito ad ottenere il sostegno delle milizie tripoline e di Misurata e ad accreditarsi, almeno formalmente, come interlocutore legittimo agli occhi della Comunità Internazionale. In ogni caso, occorre sottolineare come sulla volontà espressa da Tobruk pesi la mancata partecipazione al voto di tutti i parlamentari favorevoli al compromesso, ai quali è stato impedito di espletare il proprio dovere istituzionale con metodi violenti o dirette minacce alla loro incolumità. Da quanto emerso sinora, pare che a neutralizzare il fronte pro-GUN siano state alcune milizie tribali della Cirenaica ed elementi dell’Esercito Nazionale Libico, la formazione para-militare agli ordini del Generale Khalifa Haftar. Infatti, quest’ultimo è il leader del movimento contrario al Governo di Unità Nazionale, sia per ragioni di opportunità, legate al ruolo di prestigio e potere che egli vorrebbe ricoprire nel futuro Stato Libico e che al momento non gli viene garantito, sia per ragioni ideologiche, connesse alla profonda avversione verso la Fratellanza Musulmana e a tutto lo spettro dell’islamismo politico che tutt’ora, in misura differente, governano il Consiglio Presidenziale. Appare possibile che, finché potrà usufruire dell’aperto appoggio egiziano ed emiratino, Haftar proseguirà la propria partita politica, sfruttando la forza militare a sua disposizione per tenere in ostaggio il Parlamento di Tobruk, di per sé privo di risorse sufficienti per la propria auto-difesa e sopravvivenza. Dunque, nelle prossime settimane, il CP e Serraj (o chi eventualmente ne raccoglierà l’eredità istituzionale) potrebbero essere chiamati ad un rimpasto di governo o all’ennesima modifica della lista dei potenziali ministri per cercare di tenere vivo il negoziato con la controparte. 

Tuttavia, la ricerca di complicate alchimie politiche risulta subordinata all’esito della campagna anti-jihadista effettuata da entrambi gli schieramenti. Infatti, le forze del Consiglio Presidenziale, capeggiate dalla potente milizia di Misurata, sono in procinto di riconquistare totalmente Sirte e sottrarla al controllo dello Stato Islamico (IS o Daesh), iniziato nel febbraio 2015. Nel momento in cui si scrive, soltanto nel distretto 3 e nel distretto 1 della città portuale sono asserragliati poco più di un centinaio di combattenti di Daesh. La presa di Sirte rappresenterebbe il culmine dell’operazione Al-Bunyan al-Marsoos (Muro Impenetrabile), avviata lo scorso 16 maggio per catturare quella che era diventata la principale roccaforte di IS nel Paese. Inoltre, disperdendo il nutrito nucleo jihadista di Sirte, il Consiglio Presidenziale infliggerebbe un colpo significativo alla rete libica del movimento di Daesh, potrebbe aggiungere un ulteriore tassello al mosaico di alleanze che lo sostiene e aumenterebbe la propria legittimità internazionale attraverso i successi nella lotta al terrorismo. In sintesi, Serraj potrebbe attribuirsi il merito di aver contribuito a pacificare il Paese e di aver riunito sotto la propria bandiera tre delle più importanti città della costa, quali Tripoli, Misurata e Sirte, in quella che potrebbe essere una coabitazione conflittuale ma dall’alto valore simbolico. Infatti, non bisogna dimenticare che, sebbene la scena politica libica sia dominata dalla lotta allo Stato Islamico, gli attriti e le acredini interne al Consiglio Presidenziale continuano a caratterizzare Tripoli, dove le milizie che sostengono Serraj non cessano reciproche azioni di provocazione e saltuari scontri a fuoco per il controllo di avamposti, check point e infrastrutture strategiche.

Nonostante l’efficacia dell’azione perpetrata dalle milizie fedeli al Consiglio Presidenziale, non può essere trascurato il ruolo svolto dagli Stati Uniti. Infatti, a partire dal primo agosto, le Forze Armate statunitensi hanno effettuato oltre 90 raid aerei su Sirte e sui territori attigui per distruggere basi, istallazioni, infrastrutture e mezzi dello Stato Islamico, riducendone significativamente le capacità operative e spianando la strada all’avanzata delle milizie di Misurata. Condotti con velivoli a pilotaggio remoto, elicotteri AH-1 Super Cobra e cacciabombardieri AV-8B Harrier II degli U.S. Marines, i raid aerei in questione hanno rappresentato il maggior impegno militare di Washington in Libia dal 2011, anno dell’operazione “Odyssey Dawn” contro il regime di Muammar Gheddafi.

Contemporaneamente all’azione del Consiglio Presidenziale e degli Stati Uniti a Sirte, l’Esercito Nazionale Libico ha proseguito l’offensiva anti-jihadista (operazione Dignità) a Bengasi, Derna e nei villaggi a sud di Ajdabiya, senza tuttavia riuscire ad ottenere significativi risultati. Infatti, seppur in difficoltà, sia le milizie filo-qaediste di Ansar al-Sharia (Protettori della Fede, inquadrati nella coalizione Consiglio dei Rivoluzionari di Bengasi, CRB) e del Consiglio dei Mujaheddin di Derna sia le unità locali di IS continuano a controllare alcuni quartieri delle suddette città.

L’eventuale vittoria delle forze del Consiglio Presidenziale a Sirte e il rafforzamento delle posizioni dell’Esercito Nazionale Libico a Derna e Bengasi potrebbero sensibilmente indebolire sia la rete di Daesh sia quella di al-Qaeda nel Paese. Tuttavia, il fronte jihadista è lungi dall’essere completamente neutralizzato. Innanzitutto, non potendo più controllare e amministrare le città della Cirenaica, le brigate salafite potrebbero ripiegare su una tattica basata su attacchi mordi e fuggi e sulla conduzione di attentati allo scopo di logorare le forze di entrambi gli schieramenti e rendere difficilmente governabile il territorio. A questo proposito, il sanguinoso attentato dinamitardo del 2 agosto a Bengasi, rivendicato dal CRB e costato al vita a 22 persone, costituisce un serio monito per quelli che potrebbero essere i futuri sviluppi dell’insorgenza terroristica in Cirenaica. In secondo luogo, non è da escludere la migrazione dei gruppi jihadisti verso quattro possibili destinazioni: le aree occidentali al confine con la Tunisia, come la città di Sabratha, dove già si registra una consistente presenza di miliziani estremisti; la città di Bani Walid, roccaforte della tribù lealista gheddafiana dei Warfalla, apertamente opposta sia al Consiglio Presidenziale che alla Camera dei Rappresentanti; le aree desertiche del Fezzan, dove l’assenza del controllo statale ha generato la proliferazione incontrollata di gruppi legati ai network terroristici della regione sahelo-sahariana (al-Qaeda nel Maghreb Islamico, al-Mourabitun); la città orientale di Ajdabiya, divenuta negli ultimi anni uno dei centri nevralgici del jihadismo libico. Al momento, le opzioni maggiormente percorribili sono quelle relative alla migrazione verso il Fezzan, dove i miliziani estremisti potrebbero riorganizzare i propri ranghi sfruttando una rete già organizzata e funzionale e senza la pressione militare esercitata dal Consiglio Presidenziale e dall’Esercito Nazionale Libico, e quella di Bani Walid, città dove IS potrebbe sfruttare i buoni rapporti con le tribù locali ed usufruire dell’orografia del terreno, che rende la città difficilmente attaccabile ed espugnabile. Al contrario, Ajdabiya appare troppo vicina alla linea del fronte per essere considerata un rifugio sicuro nel medio termine, mentre Sabratha e le aree occidentali fungono più da retroterra logistico per i movimenti terroristici tunisini che da base operativa per eventuali azioni sul territorio libico. In ogni caso, al di là della precisa destinazione geografica, i movimenti jihadisti libici potranno sfruttare le problematiche sociali, politiche, militari ed economiche di un Paese in guerra civile da ormai 5 anni, privo di un apparato statale funzionante e caratterizzato da una popolazione stremata, in larga misura disillusa e poco rappresentata sia dal CP che dalla CR. Quanto mostrato a Sirte, ossia la costruzione di una architettura amministrativa, economica, politica e legale efficace ed in grado di produrre ordine e somministrare welfare potrebbe essere replicato in altre aree del Paese grazie all’appoggio delle tribù o degli ancora numerosi nostalgici di Gheddafi.  

In ogni caso, l’allontanamento di Daesh dalla costa rischia di porre a pericoloso contatto le milizie del Consiglio Presidenziale e quelle di Tobruk / Haftar. In un momento in cui le relazioni tra i due parlamenti sono abbastanza tese e il comportamento del Generale Haftar appare imprevedibile e fortemente autoreferenziale, l’eccessiva vicinanza dei due schieramenti militari potrebbe facilmente degenerare in uno scontro aperto. Ad alimentare questa ipotesi sono gli ultimi sviluppi della campagna dell’Esercito Nazionale Libico che, a partire dall’inizio del mese, sembra aver puntato i terminali petroliferi di Ras Lanuf, Sidra e Zueitina, ad oggi controllati dalle Guardie delle Infrastrutture Petrolifere (GIP), fedeli al CP. Nello specifico, il 6 agosto, Haftar è penetrato in forze nella città di Zueitina, senza tuttavia attaccare le milizie del GIP e limitandosi a circondare il porto. Una simile azione è giunta a pochi giorni di distanza dalla ripresa dell’export petrolifero, autorizzato dal Consiglio Presidenziale grazie alla benedizione delle maggiori holding multinazionali operanti in loco. La rinnovata vendita di petrolio, con il suo conseguente afflusso di capitali in favore del CP, ha suscitato le ire della Camera dei Rappresentanti, interessata anch’essa agli introiti dell’industria idrocarburica. Dunque, Haftar potrebbe mirare a scalzare le milizie del GIP da alcuni degli impianti per sostituire ad esse le proprie forze, aumentare il suo peso in sede negoziale ed attingere ai flussi finanziari derivanti dall’export del greggio. Appare evidente come una simile eventualità innalzerebbe l’asticella dello scontro tra Tripoli e Tobruk e potrebbe conseguentemente condurre il Paese in una nuova e pericolosa fase della guerra civile.   

 

Siria: impasse politica tra la battaglia di Aleppo e l’intervento turco     

A cinque anni dall’inizio della guerra in Siria la situazione appare sempre più complessa. Il persistere del forte coinvolgimento di molteplici attori locali, regionali e internazionali e la continua e repentina evoluzione degli equilibri sul campo di battaglia (dove si stenta ad individuare un chiaro vincitore) rendono sempre più difficile sia ipotizzare una risoluzione delle controversie nel breve termine sia escludere l’ipotesi di un’ulteriore accelerazione della crisi stessa.

Tale criticità è emersa in maniera evidente nel corso di tutto agosto, durante il quale si è assistito ad una nuova e pesante escalation degli scontri tra il fronte lealista e i gruppi ribelli. Nei primissimi giorni del mese, le forze governative hanno subito una nuova offensiva da parte del fronte anti-Assad nelle aree di Aleppo, Deir el-Zor, Idlib e Latakia. In particolare, il 2 agosto, Jabhat Fatah al-Sham (nuova denominazione che Jabhat al-Nusra si è data dopo la scissione formale da Al-Qaeda) in collaborazione con altri gruppi di opposizione riuniti nella Northen Homs Operation Room hanno lanciato una nuova offensiva denominata “Oggi è il tuo giorno, Aleppo” a supporto delle milizie jihadiste impegnate nelle operazioni in corso nell’omonima città. In questo contesto i ribelli hanno ripreso possesso di alcuni checkpoint a sud del governatorato di Hama, favorendo così il disimpegno di parte delle forze ribelli verso il fronte meridionale di Aleppo. Contestualmente a tale azione, infatti, Jaysh al-Fatah ha annunciato l’inizio di una nuova operazione, denominata “Battaglia per rompere l’Assedio di Aleppo” che ha visto i miliziani jihadisti riconquistare alcune posizioni sotto il controllo del regime nell’area a sud-ovest della periferia di Aleppo. In particolare nelle giornate tra il 6 ed il 10 agosto il fronte lealista ha incontrato serie difficoltà nell’opporsi all’offensiva ribelle, che è riuscita a rompere la manovra di accerchiamento dei governativi lo scorso luglio e a spingersi pericolosamente all’interno del distretto meridionale di Ramouseh, prendendo il controllo del College dell’Artiglieria, dell’Accademia dell’Aeronautica  e del complesso abitativo popolare 1070. Sempre nelle stesse giornate l’Esercito siriano ha dovuto far fronte anche all’intensificarsi degli scontri con le milizie di Jaysh al-Fatah, nei pressi della cittadina di Kinsaba (situata nella zona settentrionale della provincia di Latakia), nonché al rinnovato slancio da parte delle Stato Islamico nella provincia di Deir el-Zor, dove si è assistito all’arrivo di un notevole numero di combattenti di soprattutto nei pressi dei sobborghi settentrionali dell’omonimo capoluogo e nelle periferie attorno la vicina base militare.

La repentina moltiplicazione delle operazioni dei ribelli ha messo notevolmente in difficoltà l’Esercito siriano, già alle prese con una cronica mancanza di uomini e mezzi da dispiegare sui molteplici fronti di combattimento che caratterizzano lo scenario militare siriano. Di conseguenza, le difficoltà incontrate dal fronte lealista hanno spinto l’Aeronautica russa ad intensificare nuovamente i raid aerei contro le postazioni dei ribelli, permettendo all’Esercito siriano (supportato sul campo dalle milizie di Hezbollah, dalle Guardie Rivoluzionarie Iraniane e da numerose milizie sciite) di passare al contrattacco sui diversi fronti citati e in modo particolare nell’area di Aleppo. Qui, infatti, i governativi sono riusciti a riconquistare sia il complesso dell’Accademia dell’Aeronautica sia più del 70% del complesso abitativo 1070, mentre sono ancora in corso i combattimenti all’interno delle strutture del College dell’Artiglieria. La ripresa del controllo dell’intera area permetterebbe di realizzare nuovamente la manovra di accerchiamento di tutto il settore orientale di Aleppo (controllato dalle milizie ribelli dal luglio del 2012) privando così i combattenti jihadisti di qualsiasi linea di approvvigionamento per far defluire uomini, mezzi e rifornimenti all’interno della città.

Al di là dei risultati sul terreno, l’aumento dei raid russi e siriani su Aleppo ha prodotto un importante risultato nel contrasto allo Stato Islamico. Infatti, il 30 agosto, i media di Daesh hanno ufficializzato la morte di Abu Mohammad al-Adnani, portavoce dello Stato Islamico e tra i principali promotori e ispiratori degli attentati fuori dalla Siria e dall’Iraq. Per un gruppo come Daesh, nel quale la propaganda svolge un ruolo primario, la morte di al-Adnani rappresenta un duro colpo. Tuttavia, il luogo della sua morte, presumibilmente Aleppo, lascia irrisolti molti interrogativi, visto che la città è da anni principalmente teatro dello scontro tra lealisti e ribelli e non ospitava una rilevante presenza di miliziani dello Stato Islamico.

Parallelamente alle operazioni in corso ad Aleppo, la regione settentrionale siriana ha visto nell’ultima decade del mese di agosto una nuova escalation degli scontri lungo il confine siro-turco. Sebbene tali territori siano stati caratterizzati nel corso di tutta la crisi da un elevato livello di conflittualità, l’invasione delle Forze Armate turche in territorio siriano e l’inizio dell’ operazione “Scudo sull’Eufrate” rappresenta di fatto un elemento di forte destabilizzazione in grado di generare una nuova escalation delle tensioni in tutta l’area.

Le operazioni attualmente in corso, formalmente volte a salvaguardare la sicurezza dei confini turchi attraverso il respingimento delle milizie di al-Baghdadi nei territori siriani prossimi al confine con la Turchia (in particolare Jarablus) di fatto si sono concentrate anche contro le milizie curde del YPG (Yekîneyên Parastina Gel- Unità di Protezione Popolare) costrette a ripiegare in buona parte ad Est dell’Eufrate. Di fronte all’iniziativa turca, gli Stati Uniti, che garantiscono ampio sostegno politico e logistico alle milizie curde, hanno adottato un atteggiamento fortemente pragmatico, cercando di bilanciare le necessità di entrambi gli schieramenti. Infatti, Washington da un lato ha esercitato una forma di pressione sul YPG, chiedendo di ripiegare a est dell’Eufrate in vista della futura offensiva finale nei confronti di Raqqa, mentre dall’altro ha proposto una tregua alla Turchia. Tuttavia quest’ultima appare attualmente poco incline ad accettare un compromesso sul dossier siriano, che rappresenta oramai una delle sue maggiori priorità di politica estera. Di fatto, in questo momento, le operazioni turche in territorio siriano appaiono perseguire il duplice obbiettivo di evitare un congiungimento tra le due realtà territoriali curde presenti lungo il suo confine meridionale e di avere un ruolo sempre più influente nella definizione dei futuri equilibri siriani.

A completare il quadro e a conferma non solo delle forti tensioni presenti lungo il confine siro-turco ma, più in generale, della possibilità di una repentina accelerazione della crisi è da segnalare un episodio che ha coinvolto le milizie curde e l’aviazione siriana e statunitense nei cieli prospicienti la cittadina di Hasakah. Qui, infatti, lo scorso 18 agosto, si sono verificati degli scontri tra i miliziani curdi e le milizie sciite filogovernative delle Forze di Difesa Nazionale (FDN) cui hanno fatto seguito una serie di raid aerei da parte dell’Aviazione siriana che, tra il 18 ed 20 agosto, ha colpito diverse postazioni curde nell’area dove contestualmente sono presenti alcuni nuclei di Forze Speciali Statunitensi a sostegno del Ypg. Ne è conseguita la risposta da parte dell’Aeronautica statunitense che, nei giorni seguenti, ha pattugliato la zona interessata allo scopo di impedire qualsiasi nuova iniziativa da parte siriana.

Lo scenario fin qui delineato mostra, come accennato in precedenza, il perdurare di una situazione di estrema frammentarietà e fluidità del quadro militare siriano, al quale si affianca la sostanziale difficoltà della diplomazia sia bilaterale (leggasi la difficoltà tra USA e Russia di giungere a una qualsiasi forma di compromesso reale) che multilaterale nel trovare una soluzione condivisa alla crisi. Di conseguenza, appare sempre più evidente come, con molta probabilità, sarà l’esito della battaglia in corso ad Aleppo ad incidere in maniera significativa sugli sviluppi futuri del conflitto siriano non solo sul piano militare ma anche su quello politico. Infatti, a prescindere dall’esito della battaglia, Aleppo per quello che rappresenta (seconda città più importante del Paese) costituisce un obbiettivo di primaria importanza per tutti gli attori coinvolti, sia sotto il profilo simbolico e d’immagine che sotto quello politico e logistico-militare. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, occorre ricordare che Aleppo rappresenta uno snodo fondamentale per le comunicazioni lungo i vettori est-ovest del territorio siriano. Inoltre, la sua posizione nel nord del Paese, a circa 70 km dal confine con la Turchia, attribuisce alla città un primario valore strategico per il controllo dei distretti settentrionali, compresa quell’area attigua al fiume Eufrate che è in procinto di trasformarsi in uno dei nuovi fronti caldi del conflitto.


 

Siria. L’intesa Kerry-Lavrov: solo un’altra tregua o l’inizio della svolta?
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

 

In Siria la ricerca di una soluzione politica alla crisi è perseguita attraverso i negoziati intra-siriani mediati dall’ONU e attraverso l’impegno del Gruppo di sostegno internazionale per la Siria (ISSG).

 Già dalla riunione ministeriale di Vienna del Gruppo di sostegno internazionale per la Siria del 17 maggio 2016  si era evidenziato un rilancio della collaborazione russo-americana, in vista dell’ulteriore rilancio del processo negoziale intra-siriano, mediato dall’Inviato Speciale delle Nazioni Unite Staffan De Mistura.

La riunione aveva evidenziato una certa sintonia – anche in presenza di oggettive differenze – nell’approccio e nella gestione della crisi siriana tra il Segretario di Stato americano Kerry e il Ministro degli esteri russo Lavrov. L’ipotesi che prendeva corpo era quella di lavorare con Mosca per prevedere forme di collaborazione militare fra la Coalizione globale e la Russia nel contrasto a DAESH e al-Nusra.

Alcuni osservatori[73] hanno segnalato come, sfruttando la sintonia Kerry-Lavrov e prima che si insedi una nuova Amministrazione degli Stati Uniti, esista una finestra di opportunità in cui Russia e Stati Uniti avrebbero la chiave della soluzione, tenendo insieme due pilastri: transizione politica controllata - fino ad elezioni gestite dall’ONU[74] - e contrasto a DAESH e al-Nusra. La finestra sarebbe durata fino ad agosto-settembre, dopodiché si sarebbe entrati in una sorta di "semestre bianco" statunitense, ricco di incognite anche per la Russia. Su questa ipotesi ha lavorato convintamente per tutta l’estate l’Inviato Staffan De Mistura.

Grazie al Gruppo internazionale di sostegno alla Siria, alla fine di febbraio 2016, a Monaco, si era  già riusciti a conseguire una "cessazione delle ostilità" che ha comportato per diverse settimane una notevole riduzione della violenza: tale tregua non operava nei confronti di DAESH e al-Nusra. Tuttavia, a fine aprile la situazione era tornata difficile sul terreno - anche per la tendenza del regime ad utilizzare la presenza diffusa sul territorio di al-Nusra[75] come pretesto per espansioni territoriali e violazioni della tregua[76] -  e sul piano umanitario assolutamente drammatica, con una ventina di città e di aree molto popolate sotto assedio, in cui non è consentito l’accesso a convogli e corridoi umanitari.

Ad agosto la situazione si è ulteriormente modificata sul terreno sia per effetto dell’andamento della battaglia di Aleppo (in cui i jihadisti di al-Nusra  -ora Fatah al Sham - si sono guadagnati grande popolarità rompendo l’assedio governativo, almeno fino all’intervento dell’aviazione siriana e russa) sia per effetto dell’intervento turco. L’ingresso delle Forze Armate turche in territorio siriano e l’inizio dell’operazione “Scudo sull’Eufrate”, formalmente volta a salvaguardare la sicurezza dei confini turchi attraverso il respingimento delle milizie di DAESH nei territori siriani prossimi al confine con la Turchia, di fatto si è rivolta anche contro le milizie curde del YPG costringendole a ripiegare in buona parte ad Est dell’Eufrate[77].

Un altro elemento di novità è rappresentato dal fatto che a fine luglio, Jabhat al-Nusra, dopo la scissione formale da Al-Qaeda, ha assunto la nuova denominazione di Jabhat Fatah al-Sham (JFS), da molti interpretato come una mossa tattica per apparire più moderato e stringere più facilmente alleanze con altri gruppi ribelli.

L’incontro tra i presidenti Obama e Putin ai margini del Vertice del G20 di Hangzhou del 4-5 settembre 2016 si è chiuso senza alcun accordo su una nuova tregua in Siria.

Tuttavia, a Ginevra il 10 settembre, al termine di una lunga maratona negoziale, Kerry e Lavrov hanno finalmente concluso un’intesa per una tregua  - che non opera nei confronti di DAESH e Fatah al-Sham - a partire dal 12 settembre per 7 giorni: dalla sua tenuta dipende lo sbocco dell’intesa in una collaborazione militare inedita tra Mosca e Washington per combattere i due gruppi jihadisti di DAESH e Fatah al-Sham, che potrà avvalersi di una struttura congiunta per lo scambio di intelligence.

Tale intesa è dunque preliminare alla ripresa del dialogo politico intra-siriano, mediato dall’ONU, che è un obiettivo di più lungo periodo.  In particolare, l’intesa nell’immediato prevede:

·          un periodo di 7 giorni per consentire l’ingresso di aiuti umanitari e la ripresa del traffico civile ad Aleppo;

·          il ritiro delle forze combattenti dalla Castello Road, principale via d’accesso ad Aleppo e la formazione di una zona smilitarizzata attorno ad essa;

·          preparativi necessari all’istituzione di un Comando Congiunto (Joint Implementation Centre) che includerà lo scambio di informazioni necessarie a definire le aree controllate da JFS e dai gruppi di opposizione nelle zone delle ostilità in atto: il Comando sarà istituito entro una settimana;

·          la Russia si impegna a frenare l’aviazione siriana dal bombardare le aree controllate dall’opposizione;

·           gli Stati Uniti si impegnano a contribuire ad indebolire il Fronte Fatah al-Sham, inducendo i gruppi dell’opposizione a staccarsi da esso: questo appare il principale ostacolo, in quanto in molte zone di operazioni, i ribelli sono alleati di Fatah al-Sham contro il regime di Damasco.

In un comunicato del 10 settembre 2016, l’inviato De Mistura ha espresso l’auspicio che l’attuazione dell’intesa possa facilitare un rinnovato sforzo per raggiungere una composizione politica del conflitto che sia gestita e guidata dalla Siria (a Syrian-owned and Syrian-led political settlement of the conflict) come richiesto dal Comunicato di Ginevra e dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 2254 (2015). La riunione ministeriale del Consiglio di Sicurezza del 21 settembre cercherà di progredire verso questo obiettivo e di trovare una data per la ripresa dei colloqui intra-siriani.

Con un comunicato in pari data, il Ministro degli Esteri Gentiloni, affermando che l’accordo apre la porta alla speranza di una svolta nella drammatica guerra in Siria, ha confermato il sostegno italiano allo sforzo diplomatico di John Kerry e Sergey Lavrov, nonché l’appoggio italiano alle proposte negoziali che le Nazioni Unite avanzeranno nel prossimo vertice ministeriale dell’ISSG sulla Siria, co-presieduto da Kerry e Lavrov, che si riunirà a New York il 20 settembre.

Mentre il regime siriano ha annunciato il congelamento delle operazioni militari sul terreno per 7 giorni, tale accordo è stato accolto con grande scetticismo da ampie frange dell’opposizione che, indebolite sul terreno, vorrebbero garanzie dall’alleato americano.

Gran parte dell’opposizione appare restia a ritirarsi dalle linee del fronte in cui è presente anche Fatah al-Sham perché teme che la tregua fallisca. Secondo alcuni osservatori[78], molti esponenti dell’opposizione vedono quest’intesa tra Stati Uniti e Russia come una cospirazione contro la loro lunga e difficile battaglia per la rivoluzione contro Assad.

Secondo altri osservatori, l’accordo "finisce di alienare il campo sunnita, cioè i maggiori alleati tradizionali degli Usa nella regione. La concentrazione contro Jabhat Fateh al-Sham, che finora gli Usa hanno compreso nella lista dei “terroristi” ma non in quella degli obbiettivi militari, è un grave colpo per le opposizioni non jihadiste - incluse quelle più vicine agli Usa - perché la loro capacità militare a combattere Assad dipende in modo determinante proprio da Jabhat Fateh"[79].

Tra gli ostacoli alla tenuta della tregua, va menzionato il fatto che l’Iran e Hezbollah non sono stati coinvolti nell’accordo e che la Turchia non si è impegnata a cessare le operazioni contro i curdi siriani.

È stato sostenuto[80] che "questo è soprattutto l’accordo di John Kerry, l’uomo del dialogo e della diplomazia", che avrebbe convinto il Presidente Obama, superando la contrarietà del Segretario alla Difesa Carter, del Capo della CIA Clapper, del Capo di Stato Maggiore della Difesa Dunford a condividere con Mosca informazioni di intelligence.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCHEDE PAESE

 


OMISSIS


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PROFILI BIOGRAFICI

 


 

CHRIS COONS
Senatore dello Stato del Delaware
(a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)

 

 

Christopher Andrew "Chris" Coons è nato il 9 settembre 1963 a Greenwich, Connecticut. Si è laureato in legge a Yale nel 1992.

Dopo una prima esperienza in campo repubblicano ai tempi del college, ha intrapreso la carriera politica nelle fila dei democratici.

Dal 2001 al 2005 ha ricoperto la carica di Presidente del Consiglio della Contea di New Castle e successivamente quella di Presidente dell’omonima Contea (2005-2010).

Nel 2010 Coons è stato eletto al Senato per lo Stato del Delaware; è stato rieletto nel 2015: il suo mandato scade nel gennaio 2021. È componente delle Commissioni per gli Stanziamenti pubblici, Affari esteri, Giustizia, Piccole e medie imprese e della Commissione speciale sull’etica.

Chris Coons è sposato e ha tre figli.


 

MARTIN KOBLER
Rappresentante speciale delle nazioni unite in libia e capo della missione di supporto delle nazioni unite

(a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)

 

Diplomatico di carriera tedesco, ha ricoperto molti incarichi di prestigio all’interno del Ministero degli Affari Esteri, fra i quali quello di Direttore Generale per la Cultura e le Comunicazioni e di Ambasciatore in Iraq ed Egitto. E’ stato inoltre Capo di Gabinetto dell’ex Ministro degli Esteri Joschka Fischer dal 2000 al 2003, Vice Capo di Gabinetto dal 1998 al 2000, e Vice Direttore della Task Force del Ministero per i Balcani dal 1997 al 1998. Ha inoltre avviato la rappresentanza tedesca presso l’Autorità Nazionale Palestinese ed è stato osservatore, per conto dell’ONU, delle elezioni ad Haiti, Nicaragua e Colombia.

Dal 2010 al 2011 è stato Vice Rappresentante Speciale (per le questioni politiche) in Afghanistan.

Dall’ottobre 2011 al luglio 2013 è stato Rappresentante Speciale del Segretario Generale ONU per l’Iraq ed al vertice della missione UNAMI (United Assistance Mission for Iraq).

Nel giugno 2013 è stato nominato Rappresentante Speciale per la Repubblica del Congo e Capo della MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of Congo). In tale ruolo, ha diretto la forza di peacekeeping presente nel Paese e che ammonta a 20.000 uomini.

Il 4 novembre 2015 è stato nominato Rappresentante Speciale e Capo della Missione di Supporto in Libia.


 

KONSTANTIN KOSATCHEV
Presidente del Comitato per gli Affari esteri del Consiglio della Federazione russa
(a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)

 

Konstantin Kosatchev è nato il 17 settembre 1962 a Mamontovka, nella periferia urbana di Mosca.

Nel 1984 si laurea all’Istituto statale di relazioni internazionali del Ministero degli Affari esteri, a Mosca. Inizia quindi a lavorare come traduttore presso il Servizio diplomatico russo, sia in patria che all’estero.

Nel 1991 segue un corso di specializzazione all’Accademia diplomatica del Ministero degli Affari esteri. Nello stesso anno assume le funzioni di Primo Segretario presso l’Ambasciata russa in Svezia, dove continuerà ad operare, a partire dal 2004, come Consigliere di legazione.

Nel 1998 viene nominato Consigliere per gli affari internazionali del Presidente del Governo russo, e successivamente Vice Capo di Gabinetto del Primo Ministro.

Nel 1999 viene eletto deputato alla Duma di Stato della Federazione russa, dove ricopre gli incarichi di: Vice Presidente del Comitato per gli Affari internazionali; primo Vice Presidente del gruppo parlamentare del partito di centro Patria-Tutta la Russia (OVR); membro del Comitato per l’attuazione del Trattato anti missili balistici firmato il 26 maggio 1972 tra Federazione russa e Stati Uniti d’America; membro della Commissione per l’assistenza alla Repubblica federale di Iugoslavia dopo l’attacco NATO.

In seguito alle elezioni legislative del 2003 e del 2007 viene rieletto alla Duma nelle fila del partito Russia unita; in entrambe le legislature continua ad esercitare le funzioni di Presidente del Comitato per gli affari esteri. Riconfermato alla Duma anche alle elezioni del 2011, è Vice Presidente della Commissione Affari esteri.

A marzo 2012 viene nominato Capo dell’Agenzia federale per la Comunità degli Stati indipendenti (CSI), i connazionali residenti all’estero e la collaborazione umanitaria internazionale (Rossotrudnichestvo). Assume anche l’incarico di Rappresentante speciale del Presidente della Federazione russa per i rapporti con i paesi membri della CSI.

A dicembre 2014 viene eletto al Consiglio della Federazione russa dove ricopre l’incarico di Presidente del Comitato per gli Affari esteri.


 

VU QUANG MINH
Assistente del Ministro degli affari esteri del Vietnam
(a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)

 

 

Vu Quang Minh è Direttore generale presso il Ministero degli esteri del Vietnam e Assistente del Ministro.

È nato ad Hanoi il 10 aprile 1964.

Nel 1988 ha conseguito una laurea Scienze economiche internazionali presso l’Istituto Statale di Relazioni Internazionali di Mosca e nel 1995 ha concluso un master biennale di Affari Pubblici presso l’Università di Princeton. Ha inoltre frequentato numerosi corsi intensivi ad Harvard.

Dal 1990 lavora presso il Ministero degli esteri, dove ha prestato servizio in diversi dipartimenti: segretariato nazionale per l’UNESCO, segretariato nazionale per l’ASEAN, dipartimento per l’Unione Sovietica, dipartimento per la cooperazione economica multilaterale.

Dal 1997 al 2002 è stato Segretario Personale del Vice Primo Ministro con delega agli Affari Esteri e dal 2002 al 2006 è stato Consigliere capo della sezione economica presso l’Ambasciata del Vietnam negli USA.

Nell’aprile 2011 è stato designato Ambasciatore del Vietnam nel Regno Unito e Irlanda, carica che ha ricoperto fino a settembre 2014.

Le sue conoscenze professionali includono relazioni internazionali, sicurezza, contese territoriali e questioni di confine, diplomazia economica, sviluppo economico, globalizzazione e integrazione economica – WTO, FTA, fora di cooperazione multilaterale come APEC, ASEAN e ASEM – attività nell’ambito del Foro Economico mondiale, G20 e cooperazione per lo sviluppo regionale.  Parla russo e inglese.

 


 

Amb. PETER THOMSON
Presidente della LXXI Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(a cura del Servizio Rapporti internazionali della Camera)

 

L’Amb. Peter Thomson, Rappresentante Permanente delle Isole Fiji, è stato eletto Presidente della 71ma Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 giugno 2016. La votazione, svoltasi inusualmente a scrutinio segreto, lo ha visto ottenere 94 voti a favore contro i 90 dell’altro candidato, Andreas Mavroyiannis di Cipro.

Nato a Suva (Fiji) nel 1948, Thomson è sposato e ha due figli. Si è laureato all’Università di Auckland, Nuova Zelanda, in Studi politici; ha conseguito un Master all’Università di Cambridge, Regno Unito.

All’inizio della sua carriera professionale, ha prestato servizio come funzionario pubblico nel settore dello sviluppo rurale e degli affari esteri.

Nel 1978 è entrato in carriera diplomatica. Nel 1979 ha lavorato al Segretariato del Forum delle Isole del Pacifico. Dal 1980 al 1984, ha prestato servizio a Tokyo dove ha aperto l’Ambasciata delle Isole Fiji in Giappone. Nel 1984 è stato nominato Console generale a Sidney, Australia.

Tornato nelle Fiji nel 1986 è stato Segretario Permanente all’Informazione, alle dipendenze del Primo Ministro. Nel 1987 è stato nominato Segretario del Governatore generale delle Isole Fiji. Dopo il colpo di stato del settembre 1987, è stato costretto ad emigrare prima in Nuova Zelanda quindi in Australia.

Dal 1988 al 2009 ha lavorato nel settore privato come consulente di società di investimento, agenzie governative, organizzazioni regionali ed università.

Nel 2009 ha riavuto la cittadinanza delle Fiji che aveva perso in seguito al colpo di stato militare. Nel 2010 ha rientrato in carriera diplomatica ed è stato nominato Rappresentante Permanente delle isole Fiji alle Nazioni Unite. In seno alle Nazioni Unite ha ricoperto diversi incarichi tra cui quello di Vice Presidente dell’Assemblea generale (sessione 2011-2012) e Presidente dell’Assemblea dell’Autorità Internazionale per i Fondali Marini (sessione 2011-2012).

 



[1] Nota n. 68, pubblicata nel settembre 2016, nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale..

[2] Le “decisioni importanti” richiedono invece una maggioranza dei due terzi dei membri presenti e votanti. Esse comprendono: le raccomandazioni riguardo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’elezione dei membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, l’elezione dei membri del Consiglio economico e sociale, l’elezione dei membri del Consiglio di amministrazione fiduciaria, l’ammissione di nuovi membri delle Nazioni Unite, la sospensione dei diritti e privilegi di membro, l’espulsione di membri, le questioni relative al funzionamento del regime di amministrazione fiduciaria e le questioni di bilancio. Art. 18, Statuto delle Nazioni Unite.

[3] A/RES/11/I (24 January 1946), Terms of Appointment of the Secretary General http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/11(I)

[4] L’impasse in Consiglio era dovuta al fatto che l’Unione Sovietica rifiutava di approvare il rinnovo del mandato di Trygve Lie per via del ruolo ricoperto da quest’ultimo durante la crisi legata alla guerra di Corea, in occasione della quale egli operò al fine di rafforzare la difesa della Corea del Sud; gli Stati Uniti, d’altro lato, rifiutavano di prendere in considerazione qualsiasi candidato che non fosse Trygve Lie.

[5] The “Wisnumurti guidelines” for selecting a candidate for Secretary-general, 1996 http://www.unelections.org/?q=node/163

[6] Boutros-Ghali's Book Says Albright and Clinton Betrayed Him, The New York Times, 24 maggio 1999.

[7] A/RES/51/241 (31 July 1997), Strengthening the United Nations System, http://www.un.org/documents/ga/res/51/a51r241.htm

[8] I gruppi regionali nei quali è suddivisa in maniera informale l’Organizzazione hanno subito evoluzioni nel tempo, in linea con le trasformazioni geopolitiche dello scenario internazionale. Al momento della fondazione essi erano: Commonwealth britannico, Europa orientale e Asia, America Latina, Medio Oriente, Europa occidentale. Nel 1966, sulla spinta della decolonizzazione, della nascita del Movimento dei non allineati e dei conseguenti riorientamenti geopolitici internazionali, essi divennero: Asia, Europa orientale (che comprende la Russia), Africa, America Latina e Caraibi, Europa occidentale e altri (quest’ultimo gruppo contiene, oltre ai paesi dell’Europa occidentale, la Turchia, l’Australia, il Canada, Israele, la Nuova Zelanda). Con la ri-denominazione del gruppo Asia in Asia-Pacifico nel 2011, al momento attuale i gruppi sono così identificati: Africa (54 paesi), Asia-Pacifico (53 paesi), Europa orientale (23 paesi), America Latina e Caraibi (Grulac, 33 paesi), Europa occidentale e altri (Weog, 28 paesi).

[9] Inoltre, regola tacita è che, onde evitare ulteriori e maggiori squilibri di potere, il Segretario Generale non può essere cittadino di uno stato che è membro permanente del Consiglio di Sicurezza.

[10] A/RES/69/321 (11 September 2015), Revitalization of the work of the General Assembly, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/69/321

[11] Tre candidati hanno ritirato la propria candidatura a seguito dell’emergere della mancanza di consenso nei loro confronti: Igor Lukšić (Montenegro), ex Primo Ministro (2010-2012) e attuale Ministro degli Affari Esteri; Vesna Pusić (Croazia), leader del Croatian People Party, Vice-Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri e Europei fino al gennaio di quest’anno; Christiana Figueres (Costa Rica), dal 2010 Segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).

[12] L’argentina Susana Malcorra gode di una reputazione di estrema efficienza e sembra aver instaurato un ottimo rapporto lavorativo con Susan Rice, Consigliere per la sicurezza nazionale, quando quest'ultima era Rappresentante permanente Usa alle Nazioni Unite e Malcorra era Sottosegretario Onu per il field support.

[13] Proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché misure urgenti per la sicurezza, convertito, con modificazioni, dalla L. 131 del 14 luglio 2016.

[14] Si tratta di interventi di ricostruzione e sostegno in Afghanistan, Burkina Faso, Etiopia, Repubblica Centrafricana, Iraq, Libia, Mali, Niger, Myanmar, Pakistan, Palestina, Siria, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Yemen e nei Paesi limitrofi in relazione all'assistenza dei rifugiati.

[15] Estratto dal Focus flussi migratori, n. 1, gennaio-giugno 2016, pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.

[16] Governo Italiano (2016), Italian non-paper. Migration Compact. Contribution to an EU strategy for external action on migration, Bruxelles, 15 aprile.

[17] A. Garnier (2014), “Arrested development? UNHCR, ILO, and the refugees’ right to work”, in Refuge, Vol. 30 (2), pp. 15–25.

[18] Dichiarazione del vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, lo svedese Jan Eliasson, all’Assemblea generale, il 18 aprile 2016. Si veda: DSG/SM/958-SAG/479.

[19] A. Betts (2010), “Survival migration: A new protection framework”, in Global Governance, Vol. 16 (3), pp. 361–82 e A. Betts (2013), Survival migration: Failed governance and the crisis of displacement, Cornell University Press, Ithaca.

[20] L. Brown, P. Mcgrath e B. Stokes (1976), Twenty two dimensions of the population problem, Worldwatch Paper 5, Worldwatch Institute, Washington D.C.

[21] S. Rother (2016), “Freedom and development”, Development & Cooperation, Paper no. 4, maggio.

[22] K. Long (2013), “When refugees stopped being migrants: movement, labour and humanitarian protection”, Journal of Migration Studies, Vol. 1, Issue 1, pp. 4-26.

[23] J. Massarenti (2016), “Con il migration compact, la Commissione UE allontana l'Europa dall'Africa”, Vita online, 23 giugno.

[24] European Commission (2016), Communication from the Commission to the European Parliament, the European Council, the Council and the European Investment Bank on establishing a new Partnership Framework with third countries under the European Agenda on Migration Strasbourg, COM 2016/385 final, Bruxelles, 7 giugno.

[25] Amnesty International (2015), Just deserters. Why indefinite national service in Eritrea has created a generation of refugees, Londra, dicembre.

[26] Il processo relativo al corridoio orientale dell’Africa, in ciò complementare al processo di Rabat e collegato anche al recente accordo dell’UE con la Turchia, è legato all’accordo siglato il 28 novembre 2015 a Roma, in occasione di una conferenza ministeriale tra i rappresentanti degli Stati membri dell’UE, dei paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia e Gibuti) e di alcuni paesi di transito (Sud Sudan, Sudan, Tunisia, Kenya ed Egitto). Nel contesto del processo di Khartoum sono state avanzate alcune proposte per un maggiore coinvolgimento della società civile, al fine di promuovere un legame virtuoso fra interventi di cooperazione allo sviluppo, gestione dei fenomeni migratori e della mobilità umana, interessi italiani nell’area e più in particolare in Etiopia. Si veda: L. Coslovi, A. Stocchiero, P. Mezzetti (2015), Quale spazio per la società civile nel Processo di Khartoum?, CeSPI policy brief, Roma, dicembre.

[27] E. Drudi (2016), “Profughi, con gli accordi Ue deportazioni in massa dal Sudan, Diritti e Frontiere, 21 maggio.

[28] Un Security Council (2016), Resolution 2284, New York, 28 aprile.

[29] Guillaume Soro che, tra l’altro, è sottoposto anche a un mandato di cattura internazionale da parte delle autorità burkinabé, per un suo coinvolgimento nel tentato colpo di stato del settembre 2015, ha negato le imputazioni.

[30] UN (2016), Final report of the Group of Experts on Côte d’Ivoire pursuant to paragraph 27 of Security Council resolution 2219 (2015). Document S/2016/254, New York, 5 aprile.

[31] Interessanti studi in proposito sono stati condotti da John Kwasi Anarfi, professore associato presso il Regional Institute for Population Studies dell’Università del Ghana, a Legon, 12 km. dal centro di Accra.

[32] S. Issa (2016), “Niger: i trafficanti di migranti sguazzano in mezzo al deserto”, Vita online, 27 aprile.

[33] Il caso più noto è sicuramente il sequestro di 276 ragazze della scuola della cittadina di Chibok, nello Stato nord-orientale di Borno, il 14 aprile 2014. Solo una sessantina sono riuscite a fuggire dal luogo di prigionia nella foresta di Sambisa. A maggio del 2016, il governo nigeriano ha diffuso la notizia del ritrovamento di due ragazze riuscite a liberarsi.

[34] M. Batten-Carew (2016), “Storm in the Sahel: cross-border violence in West Africa”, The Insight on Conflict newsletter, 17 maggio.

[35] Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, variabile dai 6 mesi ai 2 anni, può essere raccomandato dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale in caso di diniego dello status di protezione internazionale o di revoca o cessazione dello stesso, qualora ricorrono seri motivi di natura temporanea, in particolare di carattere umanitario in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità.

[36] La protezione sussidiaria è uno status riconosciuto dalla Commissione territoriale competente in seguito alla presentazione di domanda di protezione internazionale. Qualora il richiedente non possa dimostrare una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, che definisce chi è rifugiato, ma si ritiene che rischi di subire un danno grave (condanna a morte, tortura, minaccia alla vita in caso di guerra interna o internazionale) nel caso di rientro nel proprio paese, può ottenere la protezione sussidiaria.

[37] La conferma da parte della Corte Suprema della condanna a sei anni di carcere, con l’accusa di aver sottratto alle casse dello Stato 178 milioni di euro mentre occupava la posizione di ministro, per Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade e candidato designato del Partito democratico senegalese (Pds) per le prossime elezioni presidenziali previste nel 2019, ne è l’espressione più tangibile.

[38] A. Salam Fall (2015), Migration et désertification, dégradation des terres et sécheresse au Sénégal, OIM-DGCS/MAECI, Dakar, aprile.

[39] v. l'ultimo rapporto annuale pubblicato nel luglio 2016, Atlante Sprar 2015, a cura di Cittalia (Anci), p. 80.

[41] Decreto Ministero dell'interno del 10 agosto 2016 Modalità di accesso da parte degli enti locali ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell'asilo per la predisposizione dei servizi di accoglienza per i richiedenti e i beneficiari di protezione internazionale e per i titolari del permesso umanitario, nonché' approvazione delle linee guida per il funzionamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). (16A06366) (GU Serie Generale n.200 del 27-8-2016).

[42]   Organigramma dell'Agenzia: http://www.unhcr.org/4bffd0dc9.html

[43] Le fonti dei dati riportati sono reperibili nel sito web dell'Agenzia, sezione "Figures" (http://www.unhcr.org/pages/49c3646c14.html)

[44] Le fonti dei dati riportati sono reperibili nel sito web dell'Agenzia, sezione "Financial figures" (http://www.unhcr.org/pages/49c3646c1a.html)

[48] Informazioni tratte dal sito web www.unhcr.it

[49]             Si tenga conto che nel campo dell'assistenza alle persone costrette alla fuga da guerre e persecuzioni opera, oltre allo UNHCR, anche lo UNRWA e, per le crisi umanitarie, una serie di "agenzie sorelle" riconducibili all'ONU. 

[50] Per dati aggiornati in maniera dinamica, si rinvia alla apposita pagina della Agenzia (http://popstats.unhcr.org/en/overview).

[54] Nota n. 67, pubblicata nel settembre 2016, nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.

[55] “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development”:

https://sustainabledevelopment.un.org/post2015/transformingourworld.

[56] Inter-Agency and Expert Group on SDG Indicators (IAEG-SDGs) (2016), Annex IV of the Report of the Inter-agency and Expert Group on Sustainable Development Goal Indicators (E/CN.3/2016/2/Rev.1), New York, marzo: http://unstats.un.org/unsd/statcom/47th-session/documents/2016-2-IAEG-SDGs-Rev1-E.pdf.

[57] M. Cassidy (2014), Assessing Gaps in Indicator Availability and Coverage, SDSN Working Paper. New York.

[58] UN (2016), The Sustainable Development Goals Report 2016, New York, giugno.

[59] La raccolta di dati relativi agli SDG su base nazionale è disponibile presso la banca dati curata dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, consultabile su Internet: http://unstats.un.org/sdgs. I dati aggregati a livello regionale cui fa riferimento il Rapporto 2016 delle Nazioni Unite sono contenuti in un documento statistico allegato: UN-ECOSOC (2016), Statistical Annex: Global and regional data for Sustainable Development Goal indicators, E/2016/75, New York, luglio.

[60] Un recente studio propone, seppure in forma molto provvisoria, un tentativo di comprensione delle diverse interazioni tra i vari SDG, espresse in termini di una scala ordinale di 7 punti (da -3 se l’interazione è altamente negativa a +3 se è molto positiva): M. Nilsson, D. Griggs, M. Visbeck, C. Ringler (2016), A draft framework for understanding SDG interactions, International Council for Science, Parigi, giugno. Un altro tentativo si trova in: A. Coopman et al. (2016), Seeing the whole. Implementing the SDGs in an integrated and Coherent Way, Stakeholder Forum for a Sustainable Future.

[61] Dall’11 al 20 luglio 2016 presso la sede delle Nazioni Unite a New York, l’HLPF ha tenuto alcune sessioni di lavoro, ospitando tra l’altro l’SDG Business Forum che ha affrontato il tema degli impegni del settore privato e della loro misurazione.

[62] UN General Assembly (2016), Follow-up and review of the 2030 Agenda for Sustainable Development at the global level, A/70/L.60, New York, 26 luglio.

[63] J. C. Enders, M. Remig (a cura di) (2015), Theories of Sustainable Development, Routledge, Londra.

[64] Autorevole rappresentante del nucleo della macroeconomia moderna o nuovo consenso liberista (mainstream), autore di importanti saggi, a partire dai lavori congiunti di inizio anni Novanta con Stanley Fisher (a sua volta capo economista del Fondo monetario internazionale in quegli anni) fino alla nuova edizione appena uscita del suo manuale di macroeconomia: O. Blanchard (2017), Macroeconomics, 7a ed., Pearson, Boston.

[65] Nel caso dell’UE è la sfida che interessa la nuova strategia globale di politica estera e di sicurezza. Si veda: M. Gavas et al. (2016), The European Union’s Global Strategy: putting sustainable development at the heart of EU external action, European Think Tanks Group, Bruxelles, gennaio.

[66] J. Sachs, G. Schmidt-Traub, D. Durand-Delacre (2016), Preliminary Sustainable Development Goal (SDG) Index and Dashboard, SDSN, New York, 15 febbraio.

[67] Parlamento Europeo (2016), Follow-up and state of play of the Agenda 2030 and Sustainable Development Goals, P8_TA-PROV(2016)0224, 12 maggio.

[68] OCSE (2016), Measuring distance to the SDGs targets. A pilot assessment of where OECD countries stand, Parigi, luglio.

[69] Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due risoluzioni contenenti, rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per attuare la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di Azione.

 

[70] Dal sito dell'organizzazione: http://soufangroup.com/about/ (informazioni reperite il 14 settembre 2016), e fonti di stampa

[71] Nota n. 66, pubblicata nell’agosto 2016, nell’ambito dell’Osservatorio di politica internazionale, promosso dalla Camera dei deputati, dal Senato della Repubblica e dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale.

[72] Gli accordi di Skhirat del Dicembre 2015, che dovevano porre fine al conflitto tra il Congresso Generale Nazionale e la Camera dei Rappresentanti, sorta in seguito alle contestate elezioni del 2014 e sfociata nella nascita dei due governi rivali di Tripoli e Tobruk, prevedono la ristrutturazione dell’impianto istituzionale libico e la riconciliazione dei due opposti parlamenti. Nello specifico, il documento patrocina la formazione di una autorità di transizione, il cosiddetto Governo di Unità Nazionale (GUN), e la nascita di un Consiglio di Presidenza, responsabile del potere esecutivo e della guida del governo, di una Camera dei Rappresentanti, depositaria del potere legislativo, e un Consiglio di Stato, con poteri di controllo e consultazione. Nel dettaglio, il Parlamento di Tobruk dovrebbe confluire  nella nuova Camera dei Rappresentanti, quello di Tripoli diventare il Consiglio di Stato e il Consiglio di Presidenza includere i vertici dei due contendenti. Tuttavia, dopo la ratifica degli accordi in questione, il negoziato si è arenato, annaspando tra incontri e trattative poco produttive dovute all’assertività delle parti, sempre meno inclini a reciproche concessioni. Dopo mesi di stallo, con una manovra politica unilaterale, motivata dal tentativo di accelerare la stabilizzazione del Paese, le Nazioni Unite hanno riconosciuto come internazionalmente legittimo l’esecutivo radunato attorno alla figura di Fayez Serraj, sostenuto dal Parlamento di Tripoli, anche in assenza del voto di fiducia da parte di Tobruk. Dunque, il riconoscimento internazionale ha permesso a Serraj di definire il suo esecutivo quale GUN, anche se, tecnicamente, secondo gli accordi di Skhirat dovrebbe trattarsi del Consiglio Presidenziale. Nel testo, gli autori, per ragione di opportunità, utilizzano il termine Consiglio Presidenziale quale sinonimo di governo / parlamento di Tripoli. 

[73] Si veda, tra gli altri, E. Solomon, G. Dyer, US and Russian officials locked in impasse over Assad's fate, in Financial Times, 5 maggio 2016.

[74] Un nodo cruciale è quello del voto ai rifugiati siriani.

[75] Al-Nusra è nata come emanazione siriana di al-Qaeda; è autoctona, posizionata in territori nei quali la sua presenza è molto intrecciata a quella di forze dell'opposizione siriana. È qualificata come organizzazione terroristica dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Si ritiene che riceva finanziamenti da Qatar, Arabia Saudita e Turchia.

[76] Vedi anche intervento del Ministro Gentiloni al question time del 28 aprile in Assemblea del Senato.

[77] Di  fronte all’iniziativa turca, gli Stati Uniti, che sostengono le milizie curde, hanno da un lato esercitato una forma di pressione sulle milizie curde dell' YPG, chiedendo di ripiegare a est dell’Eufrate in vista della futura offensiva finale nei confronti di Raqqa, mentre dall’altro hanno cercato di indurre la Turchia, alleato NATO, ad una tregua.

[78] Tra gli altri, Charles Lister, Senior analist al Middle East Institute, come riportato da numerose agenzie e da Al Jazeera News.

[79] R. Aliboni, Siria: punti chiave della fragile intesa, in Affari Internazionali on line, 12 settembre 2016.

[80] P. Valentino, Siria: i dubbi del Pentagono; la fragilità di un accordo, in Corriere della Sera, 11 settembre 2016.