Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Partecipazione alla LXX Sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (New York, 28 settembre ' 2 ottobre 2015)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 190
Data: 25/09/2015
Descrittori:
ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE ( ONU )     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari
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Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Partecipazione alla LXX Sessione dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite

(New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

n. 190

 

 

 

25 settembre 2015


SENATO DELLA REPUBBLICA:

 

Servizio Affari Internazionali

Tel. 06 6706-2180 – segreteriaAAII@senato.it  @SR_Affariinternazionali

Elementi di documentazione n. 4

 

 

 

 

CAMERA DEI DEPUTATI:

 

Servizio Studi – Dipartimento Affari esteri

Tel. 06 6760-4172 - st_affari_esteri@camera.it - Twitter_logo_blue.png CD_affari_esteri

Documentazione e ricerche n. 190

 

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti uffici:

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

Servizio Rapporti Internazionali

( 066760-3948– / 066760-9515 – * cdrin1@camera.it

 

 

La documentazione dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati č destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attivitŕ degli organi parlamentari e dei parlamentari. Si declina ogni responsabilitŕ per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

 

 

 

In copertina: Piazza San Macuto in una stampa d’epoca

 

 

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INDICE

Focus tematici

L’agenda di sviluppo per il post-2015 (a cura del Centro Studi Politica internazionale - CeSPI) 5

L’attivitŕ del Comitato permanente sull’agenda post 2015. Cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato  (a cura del Servizio Studi della Camera) 31

La cooperazione parlamentare in ambito ONU (a cura del Servizio Rapporti Internazionali della Camera) 33

Il Department of Peace-Keeping Operations (DPKO)  (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 45

La proposta di autolimitazione del potere di veto in Consiglio di sicurezza di fronte alla denuncia di atrocitŕ di massa  (a cura del Servizio Studi della Camera) 53

L’attuazione in Italia della Risoluzione 1325 (2000) dell’ONU su donne, pace e sicurezza  (a cura del Servizio Studi della Camera) 55

Prioritŕ dell’UE in vista della LXX Assemblea generale delle Nazioni Unite  (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera) 61

La Missione EUNAVFOR Med  (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 67

La Missione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL) (a cura del Servizio Studi della Camera) 73

Approfondimenti geopolitici

Il dialogo politico in Libia. Un aggiornamento (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 77

La Libia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali - CeSI) 83

Siria: i piů recenti sviluppi (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 89

Somalia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali - CESI) 95

Schede Paese

Algeria (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 103

Marocco (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 111

Tunisia (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 123

Profili biografici

Amm. Enrico Credendino - Comandante della missione EU NAVFOR MED.. 139

Hanna Hopko Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino. 141

Gen. Luciano Portolano Comandante della missione UNIFIL in Libano. I

 

 

 

 


Focus tematici

 


(…)

 

 


L’agenda di sviluppo per il post-2015
(a cura del Centro Studi Politica internazionale - CeSPI)

 

1. I nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2015-2030: storia di un processo lungo e tortuoso

Il processo con cui i paesi membri delle Nazioni Unite definiscono i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile - che rinnovano ed espandono l’agenda fissata nel 2000 con gli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals, MDG) si avvicina alla sua conclusione.

A fine settembre 2015, in occasione dello specifico summit (25-27 settembre) che riunirŕ i Capi di Stato e di Governo nell’ambito dell’apertura della 70a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sarŕ formalmente approvata la nuova agenda che la comunitŕ degli Stati membri dovrŕ far propria per impostare il lavoro successivo (28 settembre-6 ottobre), perché poi possa entrare in vigore a partire dal primo gennaio 2016. In preparazione di tale evento, l’attuale Presidente della 69a sessione dell’Assemblea Generale, l’ugandese Sam Kutesa, ha incaricato Macharia Kamau (ambasciatore del Kenya) e David Donoghue (ambasciatore dell’Irlanda) di svolgere il ruolo di co-facilitatori delle consultazioni informali preparatorie. L’11 agosto 2015 i due co-facilitatori hanno trasmesso al Presidente dell’Assemblea Generale la bozza del testo finale approvato per consenso dagli Stati membri il 2 agosto.

La bozza del testo da approvare, intitolato Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development[1], presenta la nuova agenda per il quindicennio 2015-2030 e riassume in 29 pagine i risultati di oltre due anni di dibattito. Nelle parole del Segretario Generale Ban Ki-moon, si tratta di “un’agenda universale, trasformativa e integrata che preannunzia una svolta epocale per il nostro mondo: č l’agenda delle persone, un piano d’azione per eliminare la povertŕ in tutte le sue dimensioni, in modo irreversibile, dovunque, non lasciando indietro nessuno[2].

Sempre secondo il Segretario Generale, l’agenda “traccerŕ la rotta di una nuova era di sviluppo sostenibile in cui la povertŕ sarŕ sradicata, la prosperitŕ sarŕ condivisa e i fattori chiave che determinano i cambiamenti climatici saranno opportunamente affrontati.”

Un’agenda, quindi, molto (forse troppo) ambiziosa, che conclude un iter negoziale estremamente complesso, che ha sperimentato un elevato livello di partecipazione da parte della societŕ civile internazionale, dei diversi governi e del sistema ONU. Oltre due anni di negoziati intensi, alla ricerca di una formula inedita in grado di assicurare una vasta partecipazione, cioč cercando di assegnare un ruolo maggiore alla base della gerarchia organizzativa nel prendere decisioni e determinare le responsabilitŕ, in nome di un approccio bottom-up che era mancato in occasione degli MDG. Un iter complesso e non lineare, in cui si č assistito ad una proliferazione di proposte e documenti paralleli, non sempre allineati, piů che a un ordinata sequenza di testi di progressivo avvicinamento al documento finale.

Si č trattato di un iter scomponibile in quattro fasi: (1) l’impostazione del processo, (2) la definizione dei contenuti, (3) negoziati e dibattito, (4) l’accordo.

Per quanto detto, tuttavia, le quattro fasi non sono state rigidamente sequenziali e, in particolare, la definizione dei contenuti ha accompagnato negoziati e dibattito piů che precederli.

Gli input sono venuti da fonti intergovernative e non solo.

 

Fig. 1. Il percorso del processo preparatorio e dei negoziati ufficiali relativi all’agenda post-2015

Fonte: aggiornamento della figura in M. Zupi (2013)

 

Anzitutto, nel 2012 č stato concretamente avviato il processo per la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) emersi dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20) del giugno dello stesso anno, processo parallelo e complementare all'agenda post-MDG e che fa riferimento alle tre dimensioni (economica, sociale e ambientale) dello sviluppo sostenibile. Il documento conclusivo di Rio+20, The Future We Want, adottato con la risoluzione dell’Assemblea generale n. 66/288 e ratificato nel settembre 2012, riconosce come sfida centrale l'eliminazione della povertŕ, identifica la Green economy come un importante strumento per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile e indica alcune caratteristiche di base degli SDG: orientati all'azione, concisi, facilmente comunicabili, di numero limitato, di natura globale e universalmente applicabili a tutti i paesi, pur tenendo conto delle differenti realtŕ nazionali. Il documento indica inoltre che gli SDG dovranno essere valutati alla luce di specifici indicatori e traguardi[3].

L’High-level Political Forum (HLPF) on sustainable development, istituito dalla conferenza Rio+20 in sostituzione della UN Commission on Sustainable Development (CSD, a sua volta insediata a seguito della Conferenza di Rio nel 1992), č stato il principale organismo creato dalle Nazioni Unite sul tema. L’HLPF č stato, infatti, incaricato di guidare i lavori per lo sviluppo del processo affrontando le sfide emergenti, promuovendo il dialogo fra politica e scienza e rafforzando l’integrazione fra dimensioni economica e sociale dello sviluppo.

L’Open Working Group (OWG) sugli SDG, istituito dall’Assemblea Generale il 22 gennaio 2013 con la partecipazione di 70 paesi, raggruppati nelle cosiddette 30 constituency, ha sviluppato nel corso di 13 incontri un rapporto che l’Assemblea Generale, con la risoluzione del 10 settembre 2014, ha elevato a base principale della nuova impostazione[4]. Al lavoro dell’OWG č stato affiancato il 21 giugno 2013 quello dell’Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable Development Financing (ICESDF), formato da 30 membri, secondo quanto stabilito durante la conferenza di Rio+20, e supportato dal Working Group on Financing for Sustainable Development, integrato nell’UN System Task Team on the Post-2015 Development Agenda (istituito nel 2012 e composto da rappresentanti di oltre 60 organizzazioni internazionali ed enti delle Nazioni Unite). La discussione interna all’OWG č stata alimentata anche dai risultati di una serie di global consultation che hanno incluso 83 consultazioni nazionali e 11 consultazioni tematiche. Sono stati organizzati sondaggi diretti dell’opinione pubblica e una consultazione online denominata My world che ha raggiunto oltre 7 milioni di risposte. Gli esperti, nominati su base regionale paritaria, hanno prodotto un rapporto finale adottato nell’agosto 2014 e contenente indicazioni per la mobilitazione di risorse per lo sviluppo sostenibile[5].

In tema di trasferimento tecnologico, la specifica sessione dedicata durante Rio+20 ha prodotto una richiesta alle agenzie delle Nazioni Unite di identificare meccanismi di facilitazione per lo sviluppo, trasferimento e disseminazione di efficienti tecnologie pulite. A questo scopo il Presidente dell’Assemblea Generale, sulla base della Risoluzione 67/203 del 21 dicembre 2012, ha convocato quattro workshop sul tema sfociati in quattro giorni di dialogo strutturato presso la stessa Assemblea che hanno prodotto una serie di raccomandazioni[6].

Il Presidente dell’Assemblea Generale ha inoltre convocato nel primo semestre 2014 sei High-level events and thematic dialogues, focalizzati su trattamento delle acque ed energia sostenibile; contributo delle donne, dei giovani e della societŕ civile; ruolo del partenariato; garanzia di societŕ stabili e pacifiche; cooperazione triangolare Nord Sud e Sud Sud e ICT per lo sviluppo; diritti umani e stato di diritto. Nel settembre 2013, un High-level stocktaking event ha portato a sintesi il lavoro sviluppato durante i sei eventi[7].

Un sostanziale apporto č stato, indubbiamente, fornito dai due principali organismi non intergovernativi coinvolti. L’High-Level Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda (HLP), istituito dal Segretario Generale nel luglio 2012, č stato co-presieduto dai Presidenti di Indonesia (Susilo Bambang Yudhoyono) e Liberia (Ellen Johnson Sirleaf) e dal Primo Ministro del Regno Unito (David Cameron), e ha riunito rappresentanti della societŕ civile, del mondo della ricerca, del settore privato, di amministrazioni locali e nazionali. Il Panel ha pubblicato nel maggio 2013 il rapporto A New Global Partnership[8] centrato su cinque indicazioni principali che includono la lotta alla povertŕ estrema e alle disuguaglianze, l’inserimento dello sviluppo sostenibile al centro dell’agenda post 2015, la trasformazione dell’economia facendo leva sull’importanza dell’occupazione piena e a condizioni dignitose e sull’inclusione, la promozione della pace e di istituzioni aperte e accountable per tutta la popolazione, la creazione di un nuovo partenariato globale.

Il secondo organismo non governativo č il Sustainable Development Solutions Network (SDSN), una rete globale indipendente di centri di ricerca, universitŕ e istituzioni tecniche che lavorano con diversi stakeholder, fra cui il settore privato, la societŕ civile, agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. Nel 2013, l’SDSN ha trasmesso al Segretario Generale il rapporto An Action Agenda for Sustainable Development[9] in cui propone dieci obiettivi per la promozione dello sviluppo sostenibile e una bozza di rapporto sulla questione della predisposizione di indicatori e di un sistema di monitoraggio per la valutazione dell’attuazione dell’Agenda.

Il 4 dicembre 2014, il Segretario Generale ha presentato all’Assemblea Generale il suo rapporto di sintesi per orientare i negoziati nel 2015, intitolato The Road to Dignity by 2030: Ending Poverty, Transforming All Lives and Protecting the Planet[10]. Il documento di sintesi evidenzia la continuitŕ diretta tra MDG e SDG, parlando esplicitamente della necessitŕ di “completare il lavoro” avviato con gli MDG ma anche dell’opportunitŕ di andare oltre, dinanzi all’opportunitŕ che il 2015 diventi l’anno piů importante in materia di sviluppo dal momento dell’istituzione delle Nazioni Unite. Il rapporto di sintesi riafferma la necessitŕ di un’agenda universale e di trasformazione, che metta al centro le persone e il pianeta, fondata sui diritti umani e sostenuta da un partenariato globale. Inoltre, il Segretario Generale riconosce nei 17 Obiettivi e nei 169 target di sviluppo sostenibile proposti dall’OWG la base di partenza per il negoziato tra le parti, le cui discussioni dovranno necessariamente affrontare il correlato tema dei mezzi di realizzazione, cioč della finanza per lo sviluppo, oggetto dell’apposita conferenza di luglio 2015 ad Addis Abeba. Un’agenda fondata sull’interazione tra le tre dimensioni centrali dello sviluppo (economica, sociale e ambientale), il che implica una rivisitazione anche del modo di pensare e agire del sistema delle Nazioni Unite, come lo stesso Segretario Generale torna a sottolineare in un suo rapporto di fine marzo 2015 per il Consiglio Economico e Sociale intitolato Mainstreaming of the three dimensions of sustainable development throughout the United Nations system[11].

La partecipazione della societŕ civile č stata uno dei pilastri dell’elaborazione dell’Agenda. Ne sono prova tangibile il lavoro della Campagna Beyond 2015, che riunisce oltre 1.300 organizzazioni di tutto il mondo, oppure - per quanto riguarda il mondo della ricerca, dei think-tank e delle universitŕ - quello della rete leader in Europa EADI che riunisce oltre 150 istituzioni universitarie e think tank di 28 paesi europei. Questo processo lungo, elaborato e reso molto complesso dalla scelta di fondarlo su un’ampia partecipazione e sulla volontŕ di allargare i temi sul tappeto, č considerato dalla societŕ civile coinvolta un elemento di grande forza per il rilancio dell’azione internazionale[12]. Come stabilito nella A/69/L.46 – Draft decision - modalities for the process of intergovernmental negotiations on the post-2015 development agenda, i co-facilitatori hanno assicurato il coinvolgimento degli stakeholder, che includono i Major Groups che dal primo Earth Summit del 1992 partecipano alle attivitŕ delle Nazioni Unite in tema di sviluppo sostenibile, la societŕ civile[13], i parlamenti, le autoritŕ locali e il settore privato, sulla base della pratica dell’OWG e della Risoluzione 69/244.

 

2. La bozza del testo finale della nuova Agenda

La versione finale della bozza di agenda di sviluppo per il post-2015 č stata approvata a conclusione di un incontro plenario informale dopo due settimane di negoziati intergovernativi. La sessione finale, particolarmente laboriosa, ha visto le ultime modifiche che hanno interessato dettagli di questioni relative ai paragrafi sul clima, diritti dei migranti, popolazioni di territori sotto occupazione coloniale e straniera, condivisione dei benefici delle risorse genetiche, sostenibilitŕ del debito, risorse per le diverse categorie di paesi maggiormente svantaggiati.

Come ha riportato l’Ambasciatore Donoghue con soddisfazione, un accordo č stato trovato anche sulle questioni piů spinose, fra cui la modalitŕ con cui presentare la relazione fra l’Agenda post-2015 e l’Addis Ababa Action Agenda, le Responsabilitŕ Comuni ma Differenziate (Common But Differentiated Responsibilities, CBDR) e la forma di Preambolo e Dichiarazione nella loro funzione di sintesi.

Fig. 2. La struttura della bozza del testo finale e la nuvola delle parole contenute

·  Preamble – pp. 2

·  DECLARATION - pp. 3-10

Introduction (parr. 1-6)

Our vision (parr. 7-9)

Our shared principles and commitments (parr. 10-13)

Our world today (parr. 14-17)

The new Agenda (parr. 18-38)

Means of Implementation (parr. 39-46)

Follow-up and review (parr. 47-48)

A call for action to change our world (parr. 49-53)

·  Sustainable Development Goals and targets - pp. 11-23 (parr. 54-59)

·  Means of implementation and the Global Partnership- pp. 24-26 (parr. 60-71)

·  Follow-up and review- pp. 27-29 (parr. 72-91)

 

Il testo finale contiene cinque parti che includono i 17 Sustainable Development Goals e i 169 target proposti dall’OWG nel 2014, solo parzialmente modificati.

La descrizione di Obiettivi e target č preceduta da un Preambolo, centrato su cinque parole chiave (le cinque P), che introduce un piano di azione per le persone, il pianeta e la prosperitŕ (“for People, Planet and Prosperity”) e sottolinea il rafforzamento della pace universale (Peace) in “larger freedom” e riconosce lo sradicamento della povertŕ in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertŕ estrema, quale la piů grande sfida globale e la premessa fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Il Preambolo indica la natura universale e cooperativa dell’Agenda (Partnership) e l’impegno perché nessuno sia lasciato indietro.

Il Preambolo č seguito da una Dichiarazione in 53 paragrafi divisi in 8 sezioni: anzitutto un’introduzione generale e la vision alla base dell’Agenda, riassunta in tre paragrafi che riaffermano la volontŕ di costruire un mondo inclusivo, equo, liberato dalla povertŕ e che dia benessere e opportunitŕ di sviluppo a tutti gli esseri umani nel rispetto dell’ambiente e in armonia con la natura. La Dichiarazione riafferma poi, nella sezione successiva, una serie di principi condivisi dai paesi membri come base del rinnovato impegno, fra cui la Dichiarazione di Rio+20 e il principio delle responsabilitŕ comuni ma differenziate. Un richiamo agli MDG, alle sfide ancora aperte e alla necessitŕ di operare per completare il lavoro fin qui realizzato precede il corpo della Dichiarazione, rappresentato dall’Agenda che costituisce la sezione con piů paragrafi (21 paragrafi: dal 18 al 38) e declina gli impegni sanciti dagli Obiettivi e target, richiamando alcuni elementi chiave dell’impostazione, fra cui il riconoscimento dell’importanza dell’attenzione alla sostenibilitŕ e del ruolo di alcuni attori come le donne e i migranti. La sezione seguente della Dichiarazione sottolinea la necessitŕ di costruire un nuovo partenariato e di rivitalizzare i Means of Implementation (MoI), di cui viene esplicitamente ricordata l’importanza e che vengono richiamati sia nel 17° Goal, dedicato all’argomento, che in diversi target riferiti ai vari Goal tematici.

Il testo fa riferimento ai risultati della Terza Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo conclusasi ad Addis Abeba il 16 luglio 2015, ribadendo il ruolo dell’aiuto pubblico allo sviluppo quale catalizzatore per la mobilitazione di risorse, non solo finanziarie, da altre fonti fra cui il settore privato (dalle piccole imprese alle multinazionali), la societŕ civile e le organizzazioni filantropiche. Nella penultima sezione si assegna all’High-level Political Forum on Sustainable Development il ruolo centrale a livello globale per la gestione del follow-up dell’adozione dell’Agenda, con i Governi come primi responsabili. A questo scopo, devono essere rafforzate le capacitŕ delle istituzioni statistiche, soprattutto nei paesi africani, per poter garantire un adeguato e affidabile flusso di dati relativi agli indicatori. Si fa anche un esplicito riferimento all’impegno comune per sviluppare indicatori complementari al PIL per la misura del progresso. L’ultima sezione chiama all’azione i diversi attori comprendendo nell’appello - oltre ai governi e alle istituzioni internazionali - anche i parlamenti, le autoritŕ locali, le popolazioni indigene, la societŕ civile, le imprese e il settore privato in generale, la comunitŕ scientifica e l’intera popolazione.

Alla Dichiarazione segue la parte centrale del documento, intitolata Sustainable Development Goals and targets, con la lista degli 17 Obiettivi e 169 target che ricalca con alcune modifiche la proposta presentata dall’OWG nel luglio 2014. Si tratta principalmente di revisioni tecniche individuabili negli Obiettivi 2 (nutrizione), 3 (sanitŕ), 4 (istruzione), 6 (risorse idriche), 7 (energia), 8 (crescita economica ed occupazione), 9 (infrastrutture), 11 (urbanizzazione), 14 (oceani e mari), 15 (ecosistemi territoriali) e 17 (MoI).

Il documento riserva una parte specifica a quest’ultimo tema, precisando la relazione fra la Addis Ababa Action Agenda (AAAA: si veda capitolo piů avanti) e l’Agenda di sviluppo post-2015. Come giŕ in parte indicato nella Dichiarazione, il documento ribadisce che l’Agenda post 2015 e gli SDG possono essere realizzati solo nel contesto di un partenariato globale rivitalizzato, sostenuto dalle politiche e dalle azioni concrete delineate nella AAAA.

Inoltre, si stabilisce che la AAAA "č a sostegno, complemento e contribuisce a contestualizzare i MoI e i target dell’Agenda 2030” (par. 62), mentre viene riprodotto il paragrafo 123 della stessa AAAA che istituisce il Technology Facilitation Mechanism (TFM) a sostegno del raggiungimento degli obiettivi sulla base della cooperazione multistakeholder fra stati membri, comunitŕ scientifica, settore privato e societŕ civile, che si concretizzerŕ in un team di lavoro interagenzie, in un forum su tecnologia e innovazione e in una piattaforma di collaborazione fra i diversi attori.

Il TFM rappresenta un tema spinoso la cui istituzione era giŕ prevista nel documento finale di Rio+20 e che ha a lungo contrapposto Nord e Sud del Mondo. Come č emerso nel seminario di New York dell’aprile 2015, nell’ambito della sessione di lavoro congiunta tra processo post-2015 e processo sulla finanza per lo sviluppo, per molti paesi del Sud del mondo l’accesso alla tecnologia piů avanzata, attraverso meccanismi di trasferimento, č la via principale allo sviluppo; mentre paesi del Nord come gli Stati Uniti e le imprese multinazionali temono che tramite questi meccanismi si riduca di fatto la tutela dei diritti di proprietŕ intellettuale (Intellectual property rights, IPR), ed č proprio questa la ragione per cui i paesi del Nord hanno opposto resistenza durante l’intero negoziato per l’agenda di sviluppo post-2015 ad una menzione esplicita del tema degli IPR. L’ultima parte del documento, infine, definisce il quadro per il “follow-up and review” ai livelli nazionale, regionale e globale. Gli indicatori per gli SDG saranno sviluppati entro marzo 2016 dall’Inter-agency and Expert Group on SDG Indicators (IAEG-SDGs) in accordo con la UN Statistical Commission. Successivamente, verranno adottati dall’ECOSOC e dall’Assemblea Generale e saranno completati dagli indicatori per i livelli nazionali e regionali che saranno sviluppati, invece, dagli stati membri.

Un impegno specifico viene stabilito per il sostegno ai PVS e in particolare ai paesi africani, a quelli a basso reddito, a quelli insulari e senza sbocco al mare, per rafforzare le capacitŕ degli uffici statistici nazionali e dei sistemi di raccolta e analisi dati. A livello globale, l’HLPF riceverŕ dal Segretario Generale l’annuale SDG Progress Report basato sulle statistiche nazionali e regionali, nonché il Global Sustainable Development Report, che avrŕ fra l’altro la funzione di rafforzare il dialogo fra scienza e politica.

 

3. Gli Obiettivi e i target di sviluppo sostenibile (SDG)

I 17 SDG proposti, riprendendo il lavoro dell’OWG, definiscono l’orizzonte di intervento per le politiche di sviluppo nei diversi paesi e a livello mondiale. Essi sono:

1.       Eliminare la povertŕ in tutte le sue forme e dovunque;

2.       Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile;

3.       Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi etŕ;

4.       Garantire un’istruzione di qualitŕ inclusiva ed equa e promuovere opportunitŕ di apprendimento permanente per tutti;

5.       Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e ragazze;

6.       Assicurare a tutti disponibilitŕ e gestione sostenibile dell’acqua, condizioni d’igiene e smaltimento dei rifiuti;

7.       Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi;

8.       Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro a condizioni dignitose per tutti;

9.       Costruire infrastrutture resilienti, promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire l’innovazione;

10.    Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi;

11.    Rendere le cittŕ e tutti gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili;

12.    Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili;

13.    Adottare misure urgenti per contrastare i cambiamenti climatici e gli impatti che ne derivano;

14.    Conservare e usare in modo sostenibile oceani, mari e risorse marine per lo sviluppo sostenibile;

15.    Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare e invertire il processo di degrado della terra e la perdita di biodiversitŕ;

16.    Promuovere societŕ pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, trasparenti e inclusive a tutti i livelli;

17.    Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile (MoI) e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.

Scorrendo la lista e confrontandola con quella degli MDG, č evidente lo sforzo di promuovere un impegno in piena continuitŕ con gli Obiettivi del 2000, ripresi e rafforzati (uno su tutti: si passa dal dimezzare la povertŕ assoluta - MDG1 – alla sua eliminazione totale – SDG1). Si tratta perň anche di un allargamento dell’agenda, fondata sui tre pilastri (sociale, economico e ambientale), e non piů solo su quello sociale come nel caso degli MDG, il che spiega il numero piů che raddoppiato degli obiettivi.

Quello che č meno evidente č il tentativo, solo molto parzialmente riuscito, di evitare una logica settoriale (il cosiddetto silo approach) che si limiti ad affiancare, sommandoli uno all’altro, una lista di obiettivi distinti e numerosi, collegati alcuni alla dimensione sociale dello sviluppo, altri a quella economica e altri ancora a quella ambientale. Nelle intenzioni, la logica da adottare dovrebbe essere quella dell’approccio integrato delle tre dimensioni (o nested approach), che coglie la complessitŕ del reale in cui esse convivono. Il riscontro di questo tentativo lo si dovrebbe trovare scorrendo la lista dei target: nel caso degli MDG erano inizialmente 18 e divennero poi 21 nel 2006, nel caso degli SDG sono addirittura 169, cioč oltre otto volte piů numerosi.

Tra i numerosi target che definiscono l’agenda SDG esistono legami stretti riconducibili al tema di riferimento, pur essendo associati a goal diversi: per esempio, il tema della salute č esplicitamente indicato nel goal 3 (Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi etŕ) che, a sua volta, ricomprende 13 target; tuttavia, ci sono altri 8 target – associati ai goal 2, 6, 11 e 12 – che si riferiscono esplicitamente alla salute. In questo senso, si puň parlare - come fa il Segretario generale delle Nazioni Unite - di un raggruppamento allargato di target tematici, che vanno al di lŕ di quelli associati in senso stretto ad un goal specifico. Anche nel caso del goal 2 (Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile) – che č una delle aree prioritarie della politica italiana di cooperazione allo sviluppo - la correlazione tra ambiti distinti come la gestione del territorio, i metodi di produzione agricola, gli ecosistemi, la nutrizione e la sicurezza alimentare č esplicitata, diversamente dal passato. Piů in generale, molti target sono di fatto correlati a due o tre obiettivi di sviluppo. Ciň rende piů complesso il lavoro di analisi, ma anche quello operativo delle organizzazioni che si occupano di politiche di sviluppo e di cooperazione internazionale allo sviluppo, chiamate a superare l’approccio settoriale che caratterizza tradizionalmente il loro operato, alla ricerca di maggiore coordinamento e coerenza tra le parti.

Una particolaritŕ che, invece, caratterizza i target dell’agenda post-2015 relativa agli SDG, distinguendoli da quelli degli MDG, č la connessione diretta col tema dei MoI (Means of Implementation). Nel quadro degli MDG, infatti, l’Obiettivo 8 (Sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo), si articolava in 6 target (e 16 indicatori) relativi al tema dei MoI, esaurendoli. Nel caso degli SDG, l’ultimo Obiettivo, il 17, č relativo ai MoI (Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile) e prevede ben 19 target relativi a finanza, tecnologia, Capacity-building, commercio e temi sistemici come coerenza delle politiche, partenariato multi-stakeholder e monitoraggio; tuttavia, scorrendo gli altri 16 SDG si scopre che i target correlati sono distinti in due categorie: da una parte, indicati coi numeri in ordine crescente, si tratta di target specifici; da un’altra parte, classificati con lettere in ordine crescente, ci sono target in termini di MoI. Complessivamente, ci sono 107 target di tipo tradizionale e 62 target afferenti al campo dei MoI, non riconducibili unicamente all’ultimo Obiettivo, ma esplicitamente ancorati ai diversi Obiettivi.

Provando a schematizzare le differenze in termini di numeri tra target dell’agenda MDG e quella SDG, si ottiene una tabella che restituisce immediatamente la sistematicitŕ del maggiore numero di informazioni esibite nel caso degli SDG e, di converso, la tendenza alla sintesi comunicativa degli MDG che offrivano un livello di dettaglio relativamente maggiore solo in materia di salute (il focus degli MDG) e di sostenibilitŕ ambientale (un’area su cui – si diceva giŕ negli anni Novanta -occorreva investire maggiormente).

Tab. 1. Confronto tra MDG* e SDG in termini di target

 

SDG

MDG

goal

N. target

N. target relativi a MoI

N. target

N. indicatori

1

5

2

1

3

2

5

3

1

2

3

9

4

6

19

4

7

3

1

3

5

6

3

1

3

6

6

2

 

 

7

3

2

 

 

8

10

2

1

4

9

5

3

 

 

10

7

3

 

 

11

7

3

 

 

12

8

3

 

 

13

3

2

 

 

14

7

3

4

10

15

9

3

 

 

16

10

2

 

 

17

 

19

6

16

Tot.

107

62

21

60

 

169

 

 

* - Nel caso degli MDG, gli Obiettivi 1, 2 e 8 sono in realtŕ tutti accorpati nell’Obiettivo 1, mentre i target associati all’Obiettivo 3 sono suddivisi in tre Obiettivi separati (ob. 4 sulla mortalitŕ infantile, ob. 5 sulla salute materna e ob. 6 su AIDS; malaria ed altre malattie).

 

Rispetto al quadro degli MDG, negli SDG i target sono molto piů numerosi e si tratta di un numero molto alto anche in termini assoluti, il che renderŕ inevitabilmente piů complicato il monitoraggio futuro e meno immediata e comunicabile al pubblico la restituzione dei risultati; ma soprattutto si dovrŕ fare i conti con la difficoltŕ di rilevazione e affidabilitŕ delle informazioni disponibili in molti paesi.

In concreto, ciň porrŕ dei problemi nel corso del 2016, quando si tratterŕ di mettere a punto e verificare il lavoro operativo sul fronte degli indicatori da monitorare: nel caso degli MDG, gli indicatori utilizzati sono passati da 48 (nel 2000) a 60 (nel 2006), cioč oltre tre volte il numero dei target, il cui stato di avanzamento si misura proprio attraverso uno o piů indicatori. I 60 indicatori relativi agli MDG hanno evidenziato negli anni gravi problemi di disponibilitŕ e affidabilitŕ dei dati in molti PVS; ed č lecito a maggior ragione attendersi simili difficoltŕ nel caso dei piů numerosi e dettagliati indicatori relativi ai 169 target degli SDG, a meno di un investimento massiccio proprio sul fronte della cosiddetta “rivoluzione dei dati”, che deve significare anche e soprattutto il rafforzamento delle capacitŕ nazionali di raccogliere sistematicamente informazioni statistiche. Se si dovesse mantenere la stressa proporzione tra target e indicatori registrata negli MDG (1:3), per l’agenda degli SDG ciň vorrebbe dire monitorare lo stato di avanzamento di oltre 500 indicatori, un numero davvero elevato e poco gestibile. Soprattutto, č difficile immaginare che si possa disporre di una batteria di indicatori cosě numerosa e identica in tutti i paesi: l’idea di fondo che l’agenda degli SDG sia universale - cioč interessi indistintamente tutti i paesi del mondo, al Sud come al Nord - ma al contempo debba essere adattata alle specificitŕ del contesto nazionale, non puň prescindere dall’adozione di indicatori standardizzati. Per questa ragione, la definizione del minimo comune denominatore rappresentato da un numero limitato di indicatori comuni a tutti i paesi sarŕ la principale sfida per la messa in opera dell’agenda post-2015.

Infine, sempre confrontando l’agenda MDG e quella SDG, č evidente come - oltre al passaggio da una visione unidimensionale (sviluppo sociale) a una tridimensionale (sviluppo sociale, economico e ambientale) e ad un raccordo tra tre ambiti solitamente distinti come ambito di lavoro (i contenuti dello sviluppo, i MoI e l’agenda ambientale e dei cambiamenti climatici: tre ambiti istituzionali chiamati a raccordarsi nel 2015 con gli eventi rispettivamente di Addis Abeba, New York e Parigi) - ci sia l’emergere oggettivo di temi nuovi nell’agenda. A livello di Obiettivi, ci sono due Obiettivi indipendenti e che qualificano trasversalmente il modello di sviluppo: si tratta della disuguaglianza (ob. 10: Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi) e il modello di produzione e consumo (ob. 12: Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili), legato anche al sistema energetico da promuovere, basato sulle fonti rinnovabili (ob. 7: Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi). Obiettivi indipendenti e trasversali in grado di imprimere, se fossero presi alla lettera, una svolta profonda al paradigma del modello di sviluppo, in termini di una reale trasformazione di sistema. A livello di target, invece, si affermano molti temi, tra cui vale la pena di menzionare quello delle migrazioni, altro nodo di particolare interesse per l’Italia: si tratta di un termine che appare ben 15 volte nel testo, con riferimento alle fasce vulnerabili delle persone che devono essere empowered, ma anche in relazione al ruolo di protagonisti dello sviluppo che i migranti svolgono e possono svolgere in futuro (in particolare il paragrafo 29 del testo č molto netto in proposito). In termini di target, sono menzionati con riferimento all’Obiettivo 8 relativo all’occupazione (target 8.8), all’Obiettivo 10 relativo alle disuguaglianze (target 10.7 e 10.c) e all’Obiettivo 17 relativo ai MoI (target 17.18).

 

4. La discussione sulla nuova Agenda

Il testo approvato il 2 agosto č stato reso pubblico il 12 agosto. Nelle settimane successive sono arrivati i primi commenti. I principali mezzi di informazione, in realtŕ, non hanno dato risalto immediato al documento, probabilmente per il concorso di ferragosto e di un contenuto che in sostanza riprende pedissequamente la lista degli SDG proposti dal documento dell’OWG.

L’impianto degli SDG era stato in precedenza ampiamente criticato, anche in modo radicale: ad esempio il settimanale The Economist a fine marzo, palesemente ancorato ad una visione degli SDG come obiettivi per aiutare i paesi piů poveri, li aveva definiti un esercizio visionario e destinato a fallire, prolisso e disordinato; non solo un’opportunitŕ sprecata, ma un vero e proprio tradimento perpetrato ai danni dei piů poveri, un pasticcio per il numero troppo elevato di obiettivi e target che finiscono con l’imporre nessuna prioritŕ e che sono irrealistici per il semplice fatto che richiederebbero finanziamenti dell’ordine di 2-3 mila miliardi di dollari l’anno (qualcosa come il 15% dei risparmi mondiali o il 4% del PIL mondiale), cioč un ordine di grandezza decine di volte superiore a quanto č lecito attendersi. Gli MDG non erano solo pochi e semplici, ma anche abbastanza vaghi da permettere una declinazione in chiave nazionale, mentre 169 target sono troppi, confusi e cosě vincolanti da non adattarsi alle specificitŕ dei diversi contesti; insomma, si tratta di obiettivi “stupidi”, perché non si focalizzano solo sul goal 1 (che richiederebbe 65 miliardi di dollari l’anno per essere raggiunto), magari aggiungendo quelli relativi all’istruzione delle bambine o della salute materna e infantile (un MDG che non č stato raggiunto affatto), finendo con incorporare tutto ciň che chiedevano le numerose e disparate lobby presenti a New York[14]. Una critica che, in modo piů diplomatico, non era stata risparmiata neanche da un articolo dell’economista Marc F. Bellemare su Foreign Affairs, quando citando il noto saggio di Gilbert Rist, History of Development, ricordava che lo sviluppo, un tempo considerato un fenomeno complesso ma relativamente coerente, si stava polverizzando in un pulviscolo di obiettivi i cui collegamenti reciproci non era piů dato conoscere[15].

In relazione, invece, al documento pubblicato ad agosto, i commenti sono stati anzitutto quelli ufficiali. Ban Ki-moon lo ha salutato definendolo “l’Agenda di tutti, un piano d’azione per eliminare la povertŕ in tutte le sue dimensioni, irreversibilmente, dovunque, senza lasciare nessuno indietro. Un’agenda che si propone di assicurare la pace e la prosperitŕ, di consolidare un partenariato che metta le persone e il pianeta al centro. I 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile sono integrati, interconnessi e indivisibili, sono gli obiettivi di tutti e dimostrano la grandezza, l’universalitŕ e l’ambizione di questa nuova Agenda.”

Non sono mancate altre letture positive seguite all’accordo. In particolare, vengono evidenziati alcuni punti di forza fra cui, in primo luogo, oltre all’ampiezza del meccanismo di consultazione adottato, il rapporto con l’esperienza degli MDG e il carattere universalistico dell’impegno cui la comunitŕ internazionale č chiamata a partecipare.

La generale valutazione positiva dello strumento degli MDG mette in risalto la loro funzione di punto di riferimento per le politiche e i programmi di lotta alla povertŕ di governi e istituzioni internazionali, nonché per il loro monitoraggio da parte della societŕ civile. La scadenza quindicennale ha rappresentato un’occasione per fondare una nuova fase di impegno su alcuni degli elementi positivi dell’esperienza partita nel 2000, e fra tutti la strutturazione in obiettivi precisi e definiti, che dovranno essere dotati di indicatori per la misurazione degli impegni, dei progressi e dei risultati. Allo stesso tempo, si č detto e scritto, il rinnovo dell’iniziativa da parte della comunitŕ internazionale puň permettere di affrontare oggi alcune delle debolezze affiorate nel corso degli ultimi anni.

In primo luogo, il dibattito preparatorio ha evidenziato una generale volontŕ di espandere il profilo dell’agenda, superando la piů volte richiamata eccessiva ristrettezza tematica degli MDG che mancavano di un chiaro riferimento alle cause della povertŕ e alla natura multidimensionale dello sviluppo. Ulteriori lacune, strettamente legate alle criticitŕ appena citate, sono la marginalitŕ riservata alla questione della disuguaglianza di genere, l’assenza di obiettivi riguardanti i diritti umani e la poca chiarezza in materia di sviluppo economico, punti che insieme a molti altri hanno trovato spazio nella molto piů ampia articolazione raggiunta con l’Agenda post-2015.

Altro tema di discussione č il tipo di coinvolgimento da parte dei paesi membri. Sebbene gli MDG fossero validi in linea di principio per tutti i paesi firmatari, erano normalmente trattati quali obiettivi da raggiungere da parte dei PVS attraverso il finanziamento dei donatori. Gli SDG, al contrario, grazie soprattutto alla forte espansione tematica e alla centralitŕ della questione della sostenibilitŕ globale dello sviluppo, coinvolgono in maniera paritaria e interdipendente l’intera comunitŕ internazionale, mutando, almeno nelle intenzioni, il profilo dell’azione internazionale per lo sviluppo che per oltre mezzo secolo ha seguito la logica donatore-beneficiario, in modo da riflettere i nuovi equilibri mondiali.

Sempre in questa prospettiva, il partenariato globale rilanciato dal processo post-2015 pone le basi per una integrazione effettiva del concetto di interdipendenza nelle pratiche di cooperazione internazionale. Allo stesso modo, il profilo multi-stakeholder che ha improntato la fase preparatoria richiama la volontŕ di individuare modalitŕ efficaci di mobilitare i diversi segmenti della societŕ internazionale sugli obiettivi comuni, a cominciare dalla necessitŕ di un coinvolgimento maggiore e diretto del settore privato nelle sfide dello sviluppo.

Un ulteriore elemento di forza degli SDG che viene approfondito riguarda il monitoraggio del processo di realizzazione dell’Agenda. Il riconoscimento della necessitŕ di elevare la qualitŕ del reporting č testimoniato dalla presenza di una parte consistente del testo di accordo che tratta precisamente dell’architettura della funzione di follow-up and review.

Per quanto riguarda la struttura degli Obiettivi, l’allargamento dell’orizzonte tematico soddisfa – secondo le dichiarazioni ufficiali di governi e organizzazioni delle Nazioni Unite - molte delle specifiche esigenze emerse durante la fase preparatoria, avendo fra i risultati anche l’inclusione di molti elementi della riflessione sugli ostacoli allo sviluppo, fra cui la disuguaglianza, i modelli insostenibili di produzione e consumo, l’inadeguatezza delle infrastrutture e della circolazione dell’innovazione tecnologica e la carenza di opportunitŕ di impiego pieno a condizioni dignitose. La dimensione ambientale assume un ruolo decisivo grazie alla presenza, tra l’altro, di specifici Obiettivi su cambiamento climatico, risorse oceaniche e marine, ecosistemi e biodiversitŕ.

L’accoglienza al testo da parte degli stati membri riflette le posizioni che sono andate via via delineandosi nel corso del negoziato (vedi tabella in Appendice). Molte delle dichiarazioni (fra cui, nello specifico, quelle di Stati Uniti, India e Svizzera) hanno sottolineato la grande rilevanza del processo e dell’accordo raggiunto che rilancia l’azione multilaterale.

Uno dei gruppi piů importanti al tavolo č stato quello dei cosiddetti G77[16] + Cina, che č stato rappresentato nell’incontro finale dal Sudafrica. Nella dichiarazione a commento del testo approvato, il delegato sudafricano ha sottolineato l’importanza del riconoscimento dello sradicamento della povertŕ in tutte le sue forme quale maggiore sfida e principale presupposto per lo sviluppo sostenibile, concetto che č stato successivamente ribadito anche dal rappresentante indiano.

A nome dei 48 paesi meno avanzati (the Least developed countries, LDC), il Benin ha espresso grande soddisfazione per l’esito del negoziato auspicando il mantenimento della forma definitiva del documento, mentre le Maldive, in rappresentanza di 39 paesi insulari (Alliance of Small Island States, AOSIS), ha subordinato l’approvazione ad un accordo su alcune modifiche al testo relativo all’Obiettivo 13 sui cambiamenti climatici.

Dai paesi africani - sia come gruppo regionale sia a livello di alcuni stati, come nel caso della Nigeria - sono venuti apprezzamenti per il valore conferito all’ownership, alle prioritŕ, alla legislazione e al contesto culturale nazionali. Dalla Nigeria, affiancata dall’Iran, sono venute tuttavia anche puntualizzazioni sull’importanza dell’attenzione ai valori religiosi nazionali e sui limiti del mandato nell’Agenda relativo a orientamento sessuale, identitŕ di genere e diritto all’aborto (l’ambito dei diritti umani, quello dei Sexual and reproductive health and rights o SRHR, su cui si sono registrate maggiori contrapposizioni e resistenze in seno ai processi negoziali).

Anche dall’America latina sono giunte note di apprezzamento, in particolare da Messico e Colombia, che apprezzano il cambiamento di paradigma dello sviluppo che si sposta dalla crescita delle imprese al benessere sostenibile di tutti gli individui. Considerazioni puntuali sull’impegno a fornire le risorse finanziarie necessarie all’azione sono state proposte dall’UE, che ha raccolto numerose manifestazioni di consenso dalla platea in diversi passaggi, fra cui la riaffermazione della volontŕ di fornire un contributo rilevante. Il rappresentante indiano ha sottolineato la soddisfazione per la riaffermazione delle Responsabilitŕ Comuni ma Differenziate e il mantenimento dell’intero impianto di SDG sviluppato dall’OWG nel 2014.

Nelle dichiarazioni sembra essere, quindi, superata la posizione espressa soprattutto dal Regno Unito negli interventi del primo ministro Cameron[17], circa l’opportunitŕ di snellire il numero di Obiettivi per rendere l’intero impianto piů incisivo dal punto di vista comunicativo.

Anche la societŕ civile internazionale sembra aver accolto positivamente l’accordo. Nelle parole di Leo Williams, coordinatore della Campagna Beyond 2015, l’investimento notevole di risorse da parte della comunitŕ internazionale guidata dalle strutture messe in campo dalle Nazioni Unite ha dato frutti importanti[18]. Viene in questo caso salutato con favore l’elevato livello di ambizione e il chiaro impegno verso l’approccio universalistico e integrato, i passi avanti per realizzare inclusione e partecipazione senza esclusione alcuna anche nelle fasi di realizzazione e follow-up, e il deciso focus sul tema dell’uguaglianza di genere.

Anche l’accento sui temi ambientali presente nella Dichiarazione č considerato un elemento positivo e viene accolto favorevolmente il riferimento all’aumento della temperatura media globale di 2/1,5 °C quale ostacolo allo sviluppo sostenibile nel paragrafo 31. La Campagna Beyond 2015 auspica, perň, l’inserimento anche i riferimenti alla non discriminazione e alla necessitŕ di promuovere politiche indirizzate alla redistribuzione. Si pone, inoltre, la scottante questione della concretizzazione degli impegni, iniziando dalla richiesta rivolta ai governi di fornire risposte a livello nazionale non oltre il 2018, fissando baseline e benchmark per ognuno dei target. Gli stessi governi sono incoraggiati a programmare valutazioni regolari dei progressi con cadenza almeno quadriennale, includendo l’importante livello subnazionale nella rilevazione e analisi dei dati.

Le dichiarazioni a caldo da parte di altri esponenti delle maggiori organizzazioni della societŕ civile sono notevolmente allineate sui principali punti menzionati[19]. Jens Martens, direttore del Global Policy Forum di Bonn, esprime soddisfazione con toni simili a quelli usati da Beyond 2015 per un’agenda ambiziosa, che affronta le crescenti disuguaglianze fra paesi e comunitŕ e si propone di eliminare la povertŕ in tutte le sue forme. Meno entusiasmo viene riservato alla parte del testo finale che tratta dei MoI. Secondo la sua lettura, che trova riscontro in altre dichiarazioni di esponenti della societŕ civile internazionale, la realizzazione degli SDG avrŕ bisogno di cambiamenti sostanziali che interessino le politiche fiscali e la governance finanziaria globale.

Parole simili sono contenute nel corposo European Development Report pubblicato a maggio da alcuni think tank europei – l’inglese ODI (Overseas Development Institute), l’olandese ECDPM (European Centre for Development Policy Management), il tedesco GDI (German Development Institute), l’Universitŕ di Atene e il Southern Voice Network. Il rapporto dichiarava esplicitamente che gli SDG richiederanno un incremento significativo di risorse finanziarie, ben al di lŕ dell’Aiuto pubblico allo sviluppo, e tali risorse aggiuntive a loro volta richiederanno quadri istituzionali e di politiche ben diversi dal passato a livello locale, nazionale e globale. Si sottolinea, perciň, il nesso che associa gli SDG ad una diversa finanza e questa a nuove ed efficaci politiche, tre componenti che insieme possono concorrere a realizzare un’agenda realmente universale e di trasformazione profonda[20].

Bhumika Muchhala, del Third World Network, definisce il testo, invece, vago e nota come non siano presenti accenni a impegni precisi in termini di risorse aggiuntive internazionali, mentre sembra si faccia molto affidamento sull’apporto del settore privato e sulla mobilitazione delle risorse interne ai PVS. Anche rispetto al preconizzato partenariato multi-stakeholder, Muchhala sottolinea l’assenza di questioni quali quelle della trasparenza e dell’accountability o delle valutazioni e monitoraggi da parte di terze parti indipendenti.

Anche i numerosi passi avanti sui temi della disparitŕ di genere hanno riscosso consensi da parte della societŕ civile. La International Women’s Health Coalition considera la bozza un rilevante segnale dell’intenzione di operare un significativo cambiamento e riafferma la necessitŕ di mantenere alta l’attenzione perché i governi nazionali lavorino per mantenere gli impegni. Deon Nel, direttore esecutivo per la Conservation del WWF, ha usato parole del genere, esprimendo soddisfazione per la svolta ambientalista che stabilisce un percorso comune per persone, pianeta e prosperitŕ e sposta l’attenzione sul piano nazionale per il raggiungimento di risultati concreti.

5. Il finanziamento dello sviluppo sostenibile: i nodi irrisolti della Conferenza di Addis Abeba

La concretizzazione degli impegni indicati dagli SDG poggia, in primo luogo, sulla capacitŕ dei paesi e della comunitŕ internazionale di attuare quella che viene giudicata la piů grande mobilitazione di risorse per lo sviluppo. Due mesi prima del summit di New York, e in relazione diretta con l’agenda degli SDG, si č tenuta ad Addis Abeba dal 13 al 16 luglio 2015 la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sulla Finanza per lo Sviluppo, che ha affrontato il tema specifico e approvato la Addis Ababa Action Agenda (AAAA), con risultati giudicati perň insufficienti da molti stakeholder.

Il Segretario Generale Ban Ki-moon ha detto di considerare l’Agenda di Addis Abeba un importante “passo avanti” per costruire un mondo di prosperitŕ e dignitŕ per tutti: parole che sono state da molti interpretate come il riconoscimento della necessitŕ di fare ulteriori progressi sulle questioni rimaste irrisolte.Allo stesso modo, la sua Consulente Speciale per il processo post 2015, Amina J. Mohammed, riconoscendo la delusione suscitata dal documento finale, ha chiesto alla societŕ civile di mantenere la speranza perché convinta che le strade su tutti i temi di interesse siano comunque state aperte[21].

L’Action Agenda č un documento di 31 pagine articolato in 134 punti suddivisi in due parti principali. La prima parte stabilisce il quadro globale per il finanziamento dello sviluppo post-2015, mentre la seconda parte č dedicata alle Aree di Azione che comprendono le risorse pubbliche nazionali, le imprese e il settore privato finanziario nazionale e internazionale, la cooperazione internazionale allo sviluppo, il commercio internazionale come motore dello sviluppo, la sostenibilitŕ del debito, le questioni sistemiche, l’innovazione scientifica e tecnologica e del capacity building, la raccolta e il monitoraggio dei dati e il follow-up.

L’accordo definisce il fabbisogno finanziario per raggiungere gli Obiettivi della nuova agenda quantificandolo nell’ordine di alcune migliaia di miliardi di dollari l’anno e indica la possibilitŕ concreta di raggiungere tale somma in ragione del risparmio pubblico e privato, a condizione che “le risorse finanziarie siano investite e allineate conformemente alle aree prioritarie definite dall’Agenda di sviluppo”. A questo scopo, l’Action Agenda predispone:

1.   una cornice globale per il finanziamento dello sviluppo sostenibile, che allinea tutti i flussi di risorse e le politiche, pubbliche e private, nazionali e internazionali, con le prioritŕ economiche, sociali e ambientali;

2.   un set di politiche per gli stati membri, con un pacchetto di oltre cento misure concrete per attingere alle possibili fonti di risorse finanziarie, tecnologiche, per l’innovazione, il commercio e la rilevazione di dati per sostenere la mobilitazione dei mezzi per una trasformazione globale verso lo sviluppo sostenibile[22].

L’accordo indica gli impegni, gli strumenti e gli obiettivi che incoraggiano i paesi a definire i propri target e le scadenze nazionali per accrescere le entrate, utilizzare il sostegno internazionale, rafforzare la cooperazione fiscale internazionale e la lotta ai flussi illeciti e velocizzare il rientro dei capitali.

Inoltre, il testo impegna alla trasparenza e all’attenzione alle questioni di genere nei bilanci e negli acquisti della Pubblica Amministrazione (il cosiddetto public procurement), all’uso razionale dei sussidi per i combustibili fossili e invita le banche nazionali di sviluppo a intraprendere gli investimenti necessari per lo sviluppo sostenibile.

Relativamente al settore privato, l’AAAA incoraggia un modello di business che tenga conto degli impatti sociali, ambientali e sulla governance, che integri funzioni di reporting e favorisca l’impact investing[23]. I partecipanti sono impegnati a sostenere lo sviluppo dei mercati locali di capitali, a ridurre i costi dei trasferimenti di rimesse sotto il 3% e ad assicurare che entro il 2030 non esistano corridoi di trasferimento con costi superiori al 5%. Si sono inoltre impegnati a favorire l’inclusione finanziaria come obiettivo di policy nella legislazione, a sviluppare i quadri regolamentari per allineare gli incentivi al settore privato con gli obiettivi pubblici. Le fondazioni private sono incoraggiate a utilizzare attivamente i propri fondi per investimenti nello sviluppo sostenibile.

Fra le principali nuove iniziative l’accordo prevede il Technology Facilitation Mechanism (di cui si č giŕ detto)  per incrementare la collaborazione fra governi, comunitŕ scientifica, imprese e societŕ civile, un Global Infrastructure Forum per identificare e affrontare le sfide del gap infrastrutturale ed evidenziare le opportunitŕ di investimento e cooperazione, per assicurare che i progetti siano sostenibili dal punto di vista economico, sociale e ambientale.

I paesi partecipanti hanno, inoltre, adottato un nuovo social compact in favore dei poveri e dei gruppi vulnerabili che prevede la realizzazione di sistemi di protezione sociale; hanno stabilito di considerare l’adozione di misure fiscali per scoraggiare il consumo di sostanze nocive, fra cui in primo luogo il tabacco, di promuovere l’accesso al credito per le piccole imprese, di sviluppare e rendere operativa una strategia globale per l’occupazione giovanile, di implementare l’International Labour Organization Global Jobs Pact entro il 2020.

L’accordo rinnova l’impegno dei paesi sviluppati a destinare lo 0.7% del Reddito nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo e una quota fra lo 0,15% e lo 0,20% ai Paesi meno avanzati (PMA). Gli stessi paesi hanno anche stabilito di rafforzare le misure per promuovere gli investimenti nei paesi meno avanzati e di rendere operativa entro il 2017 la Technology Bank per i PMA. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, l’Action Agenda chiama i paesi sviluppati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 da diverse fonti per affrontare i bisogni di risorse dei PVS.

Sul tema della cooperazione fiscale, l’AAAA prevede un maggiore supporto all’UN Committee of Experts on International Cooperation in Tax Matters per migliorarne la capacitŕ operativa e l’efficacia; e verrŕ aumentato l’impegno dell’Economic and Social Council (ECOSOC) attraverso gli Special Meeting on International Cooperation on Tax Matters.

Come giŕ accennato, l’accordo č stato giudicato deludente da molti stakeholder fra cui numerose organizzazioni della societŕ civile. Nelle reazioni immediate, alcune ONG internazionali hanno riconosciuto che l’AAAA rappresenta comunque un passo avanti, mentre altre organizzazioni hanno criticato aspramente il documento stigmatizzando la vaghezza di alcuni impegni e valutando negativamente alcuni punti importanti[24].La presenza nel testo di molti “incoraggiamenti” a realizzare le azioni viene interpretata come mancanza di vera volontŕ di impegnarsi per il cambiamento, evitando un intervento concreto e vincolante su tante questioni scottanti[25]. L’Addis Ababa CSO FfD Forum considera il documento quasi completamente privo di actionable deliverables e ritiene che mini gli accordi sottoscritti con il Monterrey Consensus e la Doha Declaration in occasione delle due precedenti conferenze sul tema[26].

Il tema probabilmente piů scottante rimane quello della cooperazione internazionale in materia fiscale e di contrasto ai flussi illeciti di capitale. Il risultato finale č giudicato molto negativamente dalla societŕ civile che ha piů volte accusato alcuni paesi avanzati, fra cui Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, di ostacolare la svolta necessaria in questo campo, identificata nell’istituzione di un’agenzia internazionale dedicata[27]. L’idea dell’istituzione di un nuovo organismo č stata fortemente perorata soprattutto dalla societŕ civile e dai PVS, in primis il G77; si puntava a un’agenzia intergovernativa, trasparente e sufficientemente dotata di risorse, sotto l’egida delle Nazioni Unite e partecipata da tutti gli stati membri per guidare le decisioni in tema di cooperazione fiscale internazionale. Alcuni paesi avanzati, come ad esempio la Svezia e i Paesi Bassi[28], hanno appoggiato la posizione favorevole alla riforma dei meccanismi attualmente attivi, senza tuttavia arrivare ad avallare la richiesta di una nuova agenzia.

I fautori della proposta ricordano soprattutto le stime sull’ammontare di risorse sottratte ai bilanci pubblici dei PVS, che sono quantificate nell’ordine di mille miliardi di dollari l’anno, molto di piů di quanto ricevano in aiuto pubblico. Il fatto che attualmente gli standard inerenti la cooperazione internazionale sui temi fiscali siano stabiliti in consessi - come l’OCSE - che escludono la gran parte dei paesi č ritenuto uno degli ostacoli principali alla soluzione dei problemi dell’elusione fiscale internazionale e del traffico illegale di capitali. A definire il quadro complessivo di sistema, occorre aggiungere le valutazioni sulla portata degli scambi intra-impresa che coinvolgono le aziende multinazionali e che si stima coprano piů della metŕ dell’intero commercio globale[29].

Sul tappeto ci sono questioni fondamentali per la mobilitazione delle risorse interne, su cui la stessa AAAA fa affidamento per colmare il gap di fondi necessari a finanziare l’Agenda post-2015. Fra queste, la possibilitŕ di obbligare le aziende multinazionali a dichiarare pubblicamente l’ammontare e la destinazione delle tasse effettivamente pagate, nonché la fissazione di regole per definire dove le stesse multinazionali siano tenute a versare le imposte. Il regime attuale prevede sostanzialmente che ciň accada nel paese dove ha sede il quartier generale dell’impresa, mentre i PVS sono favorevoli a spostare il luogo di tassazione nei paesi dove si svolgono la maggior parte delle attivitŕ.

Il fatto che la questione non venga affrontata in modo decisivo viene considerato dai responsabili delle maggiori campagne sul tema un’aperta violazione degli impegni presi a Monterrey, che stabilivano il principio della ricerca della good governance a tutti i livelli. Viene anche fatto notare come l’AAAA insista sulla necessitŕ di modernizzare i sistemi fiscali nei PVS per la mobilitazione del risparmio interno, con interventi nel campo della formalizzazione e dell’uscita dall’illegalitŕ dei milioni di piccole e micro imprese che sostengono l’economia sommersa delle fasce piů povere, senza perň una valutazione seria della portata effettiva dei flussi finanziari ricavabili da questo tipo di iniziative e della sproporzione rispetto alle somme che vengono sottratte a molti paesi per effetto delle attuali regole che permettono l’elusione fiscale e il traffico illegale di capitali verso i paradisi fiscali[30].

Un altro tema molto controverso rimane quello della partecipazione dei privati, su cui si concentrano posizioni molto critiche[31] che giudicano l’accordo incapace di assicurare l’accountability del settore privato sulla base degli accordi internazionali sui diritti umani, sui diritti dei lavoratori e sugli standard ambientali, anche in ragione dell’eliminazione della parte di bozza di accordo che richiedeva alle imprese di garantire la trasparenza del proprio operato di fronte all’autoritŕ pubblica e alle popolazioni. Il tema specifico delle Public Private Partnership(PPP) ha sollevato il dibattito anche all’interno della societŕ civile[32].

Inoltre, rimane aperta la polemica sull’opportunitŕ di aprire alle imprese anche multinazionali quali protagonisti dello sviluppo, nella speranza di ottenere risposte positive agli “incoraggiamenti” perché le allocazioni di investimenti si indirizzino verso progetti sostenibili. Le voci critiche sottolineano come la l’AAAA chieda ai governi di allineare gli incentivi alle imprese agli obiettivi di sostenibilitŕ, mentre tralasci la necessitŕ di introdurre anche vincoli normativi alle imprese per orientarne l’azione verso l’inclusione sociale, il rispetto dei diritti umani e delle risorse ambientali. Anche la richiesta di maggiore trasparenza per le fondazioni filantropiche č guardata con favore, ma viene notato come quelle fondazioni siano spesso alimentate da imprese che fanno largo uso di sistemi di elusione fiscale, sottraendo risorse alle finanze pubbliche che potrebbero essere usate per lo sviluppo sostenibile, spesso in quantitŕ maggiore rispetto a quanto investito dalle fondazioni.

Le puntualizzazioni negative espresse dalla societŕ civile hanno toccato anche altri temi rilevanti dell’Agenda. In alcuni casi, la critica si appunta sull’approccio stesso con cui l’AAAA affronta le singole questioni. Č il caso, ad esempio, dell’uguaglianza di genere, il cui inserimento nell’Agenda viene giudicato incapace di arrestare la strumentalizzazione delle donne, visto che si stabilisce che il riconoscimento dei diritti possa essere funzionale allo sviluppo, piuttosto che riconoscerne il valore in sé. Ma la gran parte dei punti critici riguarda la scarsa incisivitŕ del testo su questioni controverse, dove prevale la necessitŕ di un compromesso con gli attori che frenano e, di fatto, lavorano per mantenere lo status quo.

Un altro elemento rimasto sul tappeto č quello del rilancio dell’azione della cooperazione internazionale allo sviluppo, che soffre in primo luogo della mancata attuazione da parte di donatori degli impegni presi rispetto all’erogazione dei fondi. A fronte di un’evidente latitanza sulla questione del raggiungimento della quota di 0,7% del Reddito nazionale lordo da destinare all’aiuto, viene criticata la scelta di non ribadire in maniera incisiva questo impegno, spostando tutta l’attenzione e le speranze di concretizzare l’Agenda sulla mobilitazione di altri flussi come quelli dal settore privato o quelli del risparmio pubblico e privato nei PVS.

Allo stesso modo, si rimprovera alla Conferenza di Addis Abeba di non aver affrontato in maniera incisiva il tema della coerenza dei regimi internazionali relativi al commercio con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile post-2015. Fra gli argomenti assenti nella AAAA e sollevati dalle voci piů critiche: la necessitŕ di sottoporre gli accordi commerciali a valutazioni di sostenibilitŕ e di rispetto dei diritti umani, di operare per ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime e di eliminare le clausole per la composizione dei contenziosi fra imprese internazionali e governi, di rendere i regimi commerciali coerenti con la volontŕ piů volte espressa di favorire modelli di industrializzazione inclusivi e basati sullo sviluppo della piccola impresa.

In altri casi si propone di approfondire alcuni elementi non sufficientemente sviluppati, come per quanto riguarda le misure di riduzione del debito sovrano che non dovrebbero solo  tener conto, secondo le indicazioni sviluppate in ambito ONU, del principio di sostenibilitŕ finanziaria, ma essere anche utilizzate come riconoscimento dell’impegno di un governo per la difesa dei diritti umani. Nel caso dell’istituzione del Technology Facilitation Mechanism, si ricorda come la tecnologia non sia neutrale e come nel trasferimento tecnologico sia pertanto importante considerarne con attenzione il ruolo per sviluppare i potenziali specifici dei PVS, con la partecipazione fattiva delle comunitŕ locali e di tutti gli attori, fra cui in primo luogo le donne.

Anche dal punto di vista del richiamo alla trasparenza e alla accountability nel follow-up dell’AAAA, che pure viene giudicata positivamente, si nota la carenza di impegni altrettanto concreti per i governi e gli altri attori che l’Agenda chiama ad essere protagonisti della mobilitazione di risorse e che non sono sottoposti a nessuna richiesta di rendere pubbliche e accessibili in tempi certi le informazioni sulla propria partecipazione al finanziamento dello sviluppo sostenibile.

 

 


L’attivitŕ del Comitato permanente sull’agenda post 2015. Cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato
(a cura del Servizio Studi della Camera)

All'inizio della XVII legislatura č stato costituito, in seno alla Commissione Affari esteri della Camera, il Comitato Agenda post-2015, cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato, presieduto dall'onorevole Maria Edera Spadoni.

Anche sulla base dell'esperienza maturata dal Comitato per gli Obiettivi del Millennio costituito nella precedente legislatura, il Comitato ha deciso un programma di lavoro comprendente lo svolgimento di audizioni di rappresentanti del mondo del volontariato e delle ONG, per acquisire elementi sul dibattito internazionale riguardante la costruzione di un'agenda per lo sviluppo per gli anni successivi al 2015 (v. seduta del 23 luglio 2013).

Il lavoro del Comitato č stato inaugurato dall'audizione del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli (seduta del 1° agosto 2013) che ha tra l'altro toccato il tema della riflessione che sta coinvolgendo la comunitŕ internazionale a proposito della necessitŕ di far convergere i due filoni che riconducono il tema dello sviluppo, rispettivamente, ai sustainable development goals (SDGs, proposti nella Conferenza Rio+20) da un lato, e agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, dall'altro.

Nella seduta del 13 febbraio 2014) il Comitato Agenda post-2015 ha esaminato la Relazione annuale al Parlamento sull'attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo nel 2012 (Doc. LV) e la Relazione predisposta dal Ministero dell'economia e delle finanze sull'attivitŕ di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla partecipazione italiana alle risorse di detti organismi per l'anno 2012 (Doc. LV, n.bis).

Il (17 ottobre 2013) č stato sentito il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo presso il Ministero degli affari esteri, Giampaolo Cantini che ha innanzitutto ricordato come il tema principale scelto dal Presidente dell'Assemblea generale dell'Onu  per la 68° sessione (inaugurata nel settembre 2013) fosse il conseguimento degli obiettivi del millennio entro il 2015 e l'avvio del processo negoziale per la definizione della nuova Agenda per lo sviluppo. Cantini ha poi riferito del dibatto internazionale sull'Agenda post-2015, nel quale emergeva l'esigenza di riprendere gli obiettivi attuali, ma anche di dare un risalto adeguato alle condizioni di pace e sicurezza, ai temi della governance e del rule of law come componenti fondamentali per le strategie di sviluppo, nonché ai temi di gender. Riguardo la cooperazione allo sviluppo, Cantini ha dato conto delle risorse disponibili) e delle numerose grandi scadenze a livello internazionale nelle quali la cooperazione italiana č impegnata, tra le quali l'Expo 2015 e la II Conferenza mondiale sulla nutrizione del prossimo novembre.

Il 17 settembre 2014  il Comitato ha svolto l'audizione del viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, On. Lapo Pistelli, all'esito dell'approvazione della nuova normativa sulla cooperazione italiana allo sviluppo, approvata dal Parlamento con la legge 11 agosto 2014, n. 125: l'audizione del viceministro Pistelli ha avuto l'obiettivo precipuo di focalizzare l'attenzione sugli strumenti di attuazione della nuova normativa - si ricorda al proposito che la precedente legge, la legge 49 del 1987, rimane in vigore fino a una data collegata alla approvazione del  regolamento attuativo della nuova disciplina. Tre mesi dopo, il 17 dicembre 2014, il Comitato ha nuovamente ascoltato il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Ministro Giampaolo Cantini, anche in questo caso nel quadro della nuova normativa nazionale incardinata con la citata legge 125 del 2014.

Nella seduta del 17 marzo 2015, poi, il Comitato permanente ha proceduto all'audizione del funzionario preposto all'Unitŕ tecnica centrale di supporto alla Direzione generale cooperazione e sviluppo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministro plenipotenziario Francesco Paolo Venier, in ordine alle attivitŕ dell'Unitŕ tecnica suddetta nel piů ampio quadro dell'attuazione della legge che ha profondamente innovato la disciplina italiana sulla cooperazione allo sviluppo, vale a dire la legge n. 125 del 2014.

Il Comitato ha inoltre svolto una serie di audizioni informali.  Sono stati finora ascoltati rappresentanti di Action Aid, di Save the children Italia, della Fondazione Pangea e dell'Iniziativa Ara Pacis (5 novembre 2013), il Presidente di Green Cross Italia, Elio Pacilio (14 novembre 2013), il Presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerrera (19 novembre 2013), Padre Zanotelli, direttore di Nigrizia (17 dicembre 2013), il dottor Giovanni Putoto, responsabile per la programmazione della ONG Medici per l'Africa-CUAMM (6 maggio 2014). Il 16 giugno 2015, nell'ambito dell'esame dello schema di decreto ministeriale riguardante lo "Statuto dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo" (Atto n. 175)  si č svolta l'audizione di rappresentanti di associazioni di coordinamento di organizzazioni non governative operanti nel settore della cooperazione allo sviluppo

 


La cooperazione parlamentare in ambito ONU
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali della Camera)

 

XVII LEGISLATURA

 

 

Il 12 maggio 2009 l’Italia ha presentato la propria candidatura al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2017-2018. Le elezioni si terranno nell'autunno 2016. Attualmente sono candidati, per i due posti a disposizione del nostro gruppo regionale, anche Paesi Bassi e Svezia.

 

 

1. INCONTRI

In occasione della quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell'Unione interparlamentare, svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2 settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario generale delle Nazioni Unite Jan Kenneth Eliasson.

Il 20 novembre 2014, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.

Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a New York (a latere della   seconda riunione del Comitato preparatorio della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace, Hervé Ladsous, e il 18 novembre il Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.

L’11 novembre 2014, la Presidente Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma Alimentare Mondiale.

Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini č intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l'impatto umano. La prospettiva dell'UNRWA (Agenzia dell'ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli operatori dell'informazione".

Il 29 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.

Il 22 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila B. Keetharuth.

La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti d'America dal 20 al 23 maggio 2014, si č recata in visita, il 22 maggio, presso le Nazioni Unite, dove ha incontrato funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.

Il 14 novembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell'ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab Hawa Bangura.

Il 24 ottobre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore per la stabilitŕ della regione", con il Commissario generale dell'Agenzia ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), Filippo Grandi.

Il 18 settembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.

La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha ricevuto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il 9 aprile 2013

 

Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della volontŕ popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.


2. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)

 

La delegazione parlamentare italiana alle sessioni
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite č la principale sede di decisione e l'organo piů rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale ordinaria dell'Assemblea inizia il terzo martedě di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in qualitŕ di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.

Nelle precedenti legislature, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si č recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale

Nella XVII legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni:

·       69ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione era composta dai deputati Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice Presidente della Commissione Esteri e Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della NATO.

·       68ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione era composta dai deputati Deborah Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed i rapporti con l’Unione europea, Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del Comitato permanente per i diritti umani.

 


3. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE

CONFERENZE IN AMBITO ONU

La partecipazione parlamentare alle principali Conferenze ONU

Sotto l’egida dell'ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l'adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle questioni piů delicate che l'ONU ha in agenda. La frequenza e l'importanza di tali appuntamenti sono tali da coinvolgere l'attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo, ma anche dei Parlamenti e della societŕ civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell'Unione Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine delle Conferenze.  La Camera partecipa regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Societŕ dell’informazione.

 

 

a)     La Commissione sullo status delle donne (CSW)

La Commissione sullo status delle donne (CSW) č stata istituita dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946, come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito principale della Commissione, il cui mandato č stato esteso nel 1987 (risoluzione ECOSOC 1987/22), č quello di elaborare rapporti e fornire raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta, inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.

La Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne. A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le raccomandazioni necessarie per accelerarne l'attuazione[33].

Ogni anno, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare il punto sui progressi riguardanti la paritŕ di genere, per individuare le sfide future, per stabilire gli standard globali e per formulare politiche concrete di promozione della paritŕ di genere e dell’avanzamento delle donne in generale.

La Commissione si riunisce annualmente per un periodo di dieci giorni di lavoro, alla fine di febbraio – inizio marzo.

Nella XVII legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alla 58ma Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era composta dai deputati Valeria Valente (PD), Presidente del Comitato per le pari opportunitŕ e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare. Alla 59ma Sessione svoltasi dal 9 al 20 marzo 2015 hanno partecipato le deputate. Lorena Milanato (FI-PdL), componente del Comitato per le pari opportunitŕ e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare.

 

b)     La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della concentrazione in atmosfera dell'anidride carbonica. Piů recentemente, nel 1997, č stato approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto. Esso č significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).

Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare i progressi e valutare il percorso da seguire per l'attuazione della Convenzione. Il Segretariato dell'UNFCCC supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L'Italia ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto č entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

 

Nella XVII legislatura si č tenuta a Varsavia dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualitŕ di osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione Ambiente.

L'ultima Conferenza (COP20) si č tenuta a Lima, dal 6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente.

La prossima Conferenza (COP21) avrŕ luogo a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre 2015.

 

 

c)     Societŕ dell’informazione (World Summit on the Information Society – WSIS)

Il Vertice Mondiale sulla societŕ dell’informazione, organizzato dalle Nazioni Unite fra il 2003 e il 2005 ha avuto un grande effetto di traino su tutte le iniziative in corso a livello mondiale mirate a favorire uno sviluppo piů equo ed inclusivo delle tecnologie informatiche.

La prima sessione del World Summit si č svolta a Ginevra dal 10 al 12 dicembre 2003, mentre la seconda ha avuto luogo a Tunisi dal 16 al 18 novembre 2005. In ambedue le fasi era presente una delegazione della Camera dei deputati. L’Unione interparlamentare ha organizzato una riunione-dibattito sui temi oggetto del Vertice.

A seguito dei Vertici di Ginevra, a Tunisi le Nazioni Unite si sono fatte promotrici di una iniziativa volta, tra l’altro, a promuovere una “Carta dei diritti della rete Internet”. Tale iniziativa, denominata Internet Governance Forum, ha tenuto le seguenti riunioni: la prima ad Atene (30 ottobre-2 novembre 2006), la seconda a Rio de Janeiro, in Brasile, dal 12 al 15 novembre 2007 e la terza a Hyderabad, dal 3 al 6 dicembre 2008. La quarta riunione ha avuto luogo a Sharm El Sheikh, in Egitto, dal 15 al 18 novembre 2009 e la quinta a Vilnius, in Lituania, dal 14 al 17 settembre 2010. La sesta riunione si č tenuta a Nairobi dal 27 al 30 settembre 2011, mentre la settima si č svolta a Baku dal 6 al 9 novembre 2012.

A questi eventi non č stato designato a partecipare alcun deputato.


Prioritŕ dell’UE in vista della settantesima
assemblea generale delle nazioni unite

(a cura dell’Ufficio Rapporti per l’Unione europea della Camera)

 

 

Il Consiglio dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le prioritŕ dell’UE in vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si svolgerŕ a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015.

Le prioritŕ definite del Consiglio sono cosě articolate:

 

Riesame delle operazioni di pace delle Nazioni Unite

Le operazioni di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari, coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti umani.

L’UE considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per conseguire una stabilitŕ duratura e sostenibile.

Il riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre piů importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi internazionali per la pace e la sicurezza.

Le operazioni di pace non possono perň sostituirsi ai processi politici. Sono necessari sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un conflitto.

L’Ue considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i paesi terzi. Č necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la sicurezza.

 

Non proliferazione e disarmo

L’UE ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori.

L’UE si adopererŕ per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirŕ attivamente al suo riesame globale, che deve essere completato nel 2016.

L’UE continuerŕ a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e considera una prioritŕ assoluta l’entrata in vigore del trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

L’UE č, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine, intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta internazionale per le attivitŕ nello spazio extraatmosferico.

 

Lotta contro il terrorismo

L’UE sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti e marginalizzazione sociale, economica e politica.

L’UE ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate.

 

Agenda globale post 2015

L’UE č fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile con societŕ pacifiche e stabili e includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, paritŕ di genere e sostenibilitŕ ambientale.

I risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York (vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici.

L’ UE ritiene che il principale campo d’azione sarŕ la definizione e l’attuazione di un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilitŕ e valutazione, che dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015.

Tra le tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.

Cambiamenti climatici

L’UE punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente, che tenga conto delle esigenze dei piů vulnerabili.

L’UE resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari attingendo ad un ampia varietŕ di fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento.

Nel contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

 

Diritti umani e diritto internazionale

L’UE si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e sicurezza.

L’UE sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché la responsabilitŕ primaria di consegnare gli autori di reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la sua giurisdizione qualora le autoritŕ nazionali non siano in grado o non siano disposte a perseguire veramente i crimini piů gravi motivo di allarme per la comunitŕ internazionale.

L’UE, in tale ambito, intende:

·  sostenere la libertŕ di opinione e di espressione online e offline quale diritto umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace;

·  continuare a propugnare la libertŕ di religione o credo e chiederŕ maggiori sforzi volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose.

·  proseguire gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;

·  a promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.

·  continuare a promuovere i diritti dei minori;

·  continuare ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.

 

Protezione dello spazio umanitario

L’UE continuerŕ a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati.

Le discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del processo piů ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema umanitario.

 

Questioni di genere

L’UE sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste.

L’emancipazione e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.

 

Ciberspazio

L’Unione europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e sicurezza internazionali nel ciberspazio.

In tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti online e offline. Č inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance di internet. L’Unione europea resterŕ ferma sul principio che a nessuna singola entitŕ, societŕ, organizzazione o governo si debba consentire il controllo di internet.

L’Unione europea riconosce la necessitŕ costante di lavorare attivamente in tale ambito alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla riservatezza e alla libertŕ di espressione.

 

Riforma e maggiore efficienza delle Nazioni Unite

Sfide emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalitŕ di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e del personale delle Nazioni Unite continuerŕ ad essere una prioritŕ dell’UE. La riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio dell’attivitŕ dell’Assemblea generale.

 

Rafforzamento dei partenariati multilaterali

L’Ue ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale č il mezzo per sostenere la pace e la prosperitŕ in tutto il mondo e superare i conflitti tra le nazioni.

L’UE accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del "mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale di sicurezza.

Occorre fare piů affidamento su azioni a piů livelli e multiformi in tutte le diverse fasi dei conflitti e in tutte le fasi č necessaria una cooperazione piů stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto.

L’UE ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza di una stretta cooperazione trilaterale.

 


Il Department of Peace-Keeping Operations (DPKO)
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

Il DPKO (Department of Peace-keeping Operations) č l’ufficio delle Nazioni Unite, collocato all’interno del Segretariato Generale, con la funzione di assistere gli Stati membri dell’ONU e il Segretario generale all’espletamento del compito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il DPKO vede al proprio vertice un Segretario generale aggiunto, sotto le dipendenze dirette del Segretario generale dell’ONU.

Da tale Segretario generale aggiunto, capo del Dipartimento, dipendono quattro uffici: per le operazioni; per gli affari militari; per gli affari giuridici e la sicurezza; infine la divisione per l’addestramento, la valutazione e la politica.

Il Budget annuale delle Nazioni Unite prevede una specifica voce di finanziamento dedicata al DPKO, cui tutti gli Stati membri devono contribuire, o in termini monetari o di uomini e mezzi.

Il Segretario generale aggiunto per il DPKO č Hervé Ladsous, che ha assunto formalmente l’incarico nell’ottobre 2011. Il suo predecessore era Alain Le Roy.

La missione principale del DPKO consiste nel pianificare, preparare, gestire e dirigere le operazioni di mantenimento della pace patrocinate dalle Nazioni Unite, al fine di assicurare l’esercizio del mandato sotto l’autoritŕ del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale, nonché sotto la direzione generale attribuita al Segretario generale, come espressamente previsto dalla risoluzione di autorizzazione delle stesse missioni.

Il DPKO provvede a fornire le indicazioni di tipo politico e tecnico per la realizzazione delle missioni di pace delle Nazioni Unite nonché a mantenere un canale costante di dialogo con il Consiglio di Sicurezza, con i Paesi membri che forniscono le truppe e gli equipaggiamenti per le missioni, nonché con le parti del conflitto, perché questi possano realizzare gli obiettivi per il mantenimento della pace stabiliti dalla risoluzione di autorizzazione della missione del Consiglio di Sicurezza.

Il DPKO, quindi, funge non solo da centro di comando e controllo delle missioni di pace, ma anche di coordinamento tra i diversi attori che in esse sono interessati, come organizzazioni non governative (ONG), autoritŕ governative e non a livello locale, nonché forze di polizia e militari impegnati sul campo. Al DPKO, inoltre, č attribuita la responsabilitŕ del coordinamento di tutti gli aspetti concernenti le missioni di pace ONU, dalle problematiche militari, di polizia, politiche ed economiche.

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Le operazioni di peace-keeping[34] istituite dalle Nazioni Unite sono comunemente oggetto di sistemazione dottrinaria che le distingue in operazioni di prima, seconda e terza generazione. Tale distinzione concerne non soltanto il periodo storico in cui queste sono state istituite, ma anche i compiti cui esse sono state votate e la natura stessa della missione cui erano chiamate a rispondere.

Appartengono alle c.d. operazioni di prima generazione (o di peace-keeping puro) quelle istituite tra il 1948 e il 1987. Caratteristiche di tali operazioni erano: la necessitŕ di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizzante la missione; il consenso dello Stato in cui veniva effettuata l’operazione; il ricorso all’uso della forza armata da parte del personale militare impiegato nella missione nel solo caso di legittima difesa, nonché nei soli casi di conflitti internazionali.

Con la fine della Guerra fredda, si assiste al sorgere delle operazioni di pace c.d. di seconda generazione, che si ispirano al documento An Agenda for Peace[35] pubblicato nel 1992 dall’allora Segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali. In tale documento strategico, Boutros-Ghali sottolineava come il numero di missioni istituite tra il 1948 e il 1987 (13 missioni di peacekeeping) uguagliava quello delle missioni comprese tra il 1987 e il 1992, evidenziando la necessitŕ di un ripensamento globale del ruolo delle Nazioni Unite e delle missioni da esse istituite alla luce del cambiamento dello scenario globale.

Le operazioni di seconda generazione, definite anche di peacemaking e/o peacebuilding, implicano il maggiore rilievo attribuito alla ‘componente civile’ delle operazioni, cioč la collaborazione con le forze appartenenti ad organizzazioni regionali, l’amministrazione del territorio, il monitoraggio elettorale, l’assistenza umanitaria, la ricostruzione economica e finanziaria, nonché la protezione dei diritti umani. Allo scopo di supportare il processo di decisione e il coordinamento tra civili, militari e forze di polizia attraverso uno scambio di informazioni a livello strategico č stato istituito nell’aprile 1993 il Situation Centre of the Department of Peacekeeping Operations, che rappresenta uno strumento di cruciale importanza per collegare i centri decisionali, in particolare lo staff del Segretariato con le unitŕ operative sul campo.

Eventi quali il genocidio in Ruanda nel 1994 e il massacro di Srebrenica nel 1995 spinsero molti tra i paesi membri delle Nazioni Unite a chiedere all’Organizzazione di rivedere la propria politica di peacekeeping e contribuirono al superamento delle operazioni di cosiddetta seconda generazione.

 

Il terzo punto di svolta č rappresentato dal c.d. Brahimi Report pubblicato nel 2001, ovvero il documento finale del Panel on United Nations Peace Operations[36] istituito per volontŕ dell’allora Segretario generale Kofi Annan, allo scopo di rivedere il sistema di funzionamento e il quadro giuridico delle missioni di pace ONU.

Le operazioni piů recenti, quelle che si dicono "di terza generazione",  si collocano nella categoria del c.d. peace enforcing e peace support operations, categorie ibride rispetto al passato, la cui base giuridica non trova riferimento nella Carta dell’ONU ma negli sviluppi del processo di riforma e crescita di questo importante settore delle attivitŕ dell’ONU.

Il citato Brahimi Report analizzava le diverse operazioni per la pace poste in essere dalle Nazioni Unite, evidenziando allo stesso tempo le difficoltŕ che il personale, civile e militare, ha incontrato e che hanno determinato l’insuccesso delle medesime. I suggerimenti che il Report forniva erano in particolare due: dare al mandato delle Nazioni Unite maggiore chiarezza, credibilitŕ e realizzabilitŕ, nonché l’importanza di migliorare la cooperazione ed il dialogo con i paesi che contribuiscono alle peacekeeping operations attraverso l’invio di truppe. Altro nodo cruciale č rappresentato dalla c.d. Responsibility to Protect, principio derivante dalle lessons learned rappresentate dalle missioni in Rwanda e in Bosnia negli anni Novanta.

Con il documento conclusivo del World Summit 2005,  e soprattutto con la Risoluzione A/RES/60/1, le Nazioni Unite si sono dotate di un documento strategico fondato su un approccio multidimensionale alla pace e sicurezza mondiale, in cui due paragrafi sono dedicati rispettivamente al peacekeeping e al peacebuilding. In esso viene sottolineata l’importanza della cooperazione civile e militare nei teatri operativi, cosě come l’apporto fornito, in accordo al Capitolo VIII della Carta, da parte delle organizzazioni regionali per la sicurezza (soprattutto con riferimento all’Unione Europea e l’Unione Africana). Per ciň che concerne il peacebuilding, č di rilievo l’auspicio della creazione di un Fondo dedicato integralmente al peacebuilding, con pianificazione pluriennale, nonché l’auspicio della creazione di una commissione a composizione mista dedicata integralmente a tali tipi di operazioni.

Nel corso della stessa Sessione dell’Assemblea Generale, nell’ambito del World Summit 2005, č stata istituita una apposita Commissione per le missioni di peace-building con la risoluzione 30 Dicembre 2005, A/RES/60/180. Scopo di tale Commissione č  quello di proporre strategie integrate post-conflict, sostenere i finanziamenti per la realizzazione delle missioni, fornire alle missioni stesse una prospettiva di medio e lungo periodo, nonché sviluppare le c.d. best practices.

 

La Commissione ha una composizione mista, presentando al proprio interno 7 membri del Consiglio di Sicurezza, 7 dell’ECOSOC (Comitato Economico e sociale), rappresentanti di 5 Paesi tra i 10 che piů contribuiscono al budget dell’ONU, dei 5 tra i 10 che forniscono piů truppe, ed infine 7 membri a rotazione. Alla Commissione viene attribuito un ruolo di indirizzo strategico, e non operativo, come invece č quello attribuito al DPKO. L’importanza della Commissione risiede nella redazione di un Annual Report[37] indirizzato all’Assemblea generale, nel quale viene fotografato lo status quo delle missioni di peacebuilding in corso, nonché indirizzi strategici per il futuro.

Nel corso del decennio 2000 - 2010 il processo di riforma e di aggiornamento della struttura preposta alle operazioni di peacekeeping č continuato. Nel 2009 il Dipartimento ha pubblicato il documento New Parthership Agenda: Charting a new Horizon for UN Peacekeeping, nel quale vengono fissati nuovi, aggiornati termini di impegno delle Nazioni Unite di fronte alle sfide del mondo attuale. Si tratta, in pratica, di chiarire e razionalizzare i rapporti tra i protagonisti delle operazioni, l’ONU, gli Stati membri e gli Stati teatro di intervento; di assicurare un chiaro e definito coordinamento politico ed una strategia unitaria che rendano attuabili missioni coerenti ed efficaci, di garantire un rapido dispiegamento delle forze internazionali ed una efficiente gestione delle crisi. Il documento mira a rinvigorire il dialogo tra gli Stati membri e altri Partners coinvolti nelle operazioni allo scopo di migliorare l’efficacia delle operazioni stesse e di far fronte alle necessitŕ che via via si presentano.

Una fase rilevante del processo di riforma dell’architettura di peacekeeping si é registrata nel giugno 2007, quando il Segretario generale, allo scopo di rafforzare la capacitŕ dell’ONU di gestire e sostenere nuove operazioni ha promosso una ristrutturazione del Dipartimento[38] sostanzialmente dividendolo in due con la creazione di un separato Dipartimento per il sostegno logistico (Department of Field Support), sostenendo l’iniziativa di assegnare nuovi compiti al DPKO, incrementando le risorse finanziarie assegnate ai due Dipartimenti e agli altri uffici del Segretariato generale coinvolti nelle attivitŕ di peacekeeping e peacebuilding. Il Department of Field Support fornisce sostegno alle missioni per la promozione della pace e della sicurezza relativamente alle aree del finanziamento, della logistica, dell’informazione, comunicazione e tecnologia, delle risorse umane e dell’amministrazione generale[39].

 

Le missioni che vengono istituite in seno alle Nazioni Unite, e di cui risponde il DPKO, devono conformarsi ad un ventaglio di princěpi, espressamente richiamati in specifici documenti strategici delle Nazioni Unite, quali, come detto prima, An Agenda for Peace del 1992, il Final Report del Panel on United Nations Peace Operations del 2000, il documento Peace Operations 2010 presentato all’interno del Report dell’Assemblea generale del 24 febbraio 2006 e la New Horizon initiative for UN Peacekeeping del 2009.

In generale, si puň affermare che le missioni di pace dell’ONU debbano tendere ad alleviare le sofferenze umane e soprattutto creare un ambiente favorevole per istituzioni responsabili, affinché le condizioni di pace e sicurezza siano durature nel tempo.

Un importante filone di riforma delle strutture di peacekeeping ha riguardato le norme di comportamento e la disciplina del personale. A seguito di scandali riguardanti il comportamento di peacekeepers, tanto civili quanto militari, il DPKO si č dotato di un Codice di Condotta e delle c.d. 10 regole del Peacekeeper, cui ciascun individuo impiegato in missioni di pace sotto l’egida ONU deve attenersi[40].

L’11 settembre 2015 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha presentato il rapporto "Il futuro delle operazioni di pace delle Nazioni Unite" che individua tre cambiamenti, definiti "fondamentali"[41], che si richiedono per adattare le operazioni alle nuove realtŕ. Il primo riguarda la necessitŕ di rendere prioritaria la prevenzione e la mediazione, in modo da evitare risposte tardive e costose alle crisi; il secondo cambiamento riguarda la pianificazione e lo svolgimento delle operazioni, che devono essere piů rapidi, rispondenti alle necessitŕ e responsabili nei confronti dei paesi e popoli in conflitto; il terzo cambiamento, infine, consiste nel porre in essere un quadro globale-regionale per affrontare le sfide attuali alla pace ed alla sicurezza, a partire da una partnership rafforzata con l’Unione Africana. Il rapporto, che contiene anche alcune misure per sradicare il fenomeno degli abusi sessuali compiuti dai caschi blu, fa seguito alle raccomandazioni del High-Level Independent Panel istituito nell’ottobre 2014 allo scopo di studiare la riforma del sistema del peacekeeping alla luce dell’attuale diffusione e intensificazione dei conflitti.

Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite aggiornati al 30 giugno 2015, le operazioni attualmente in corso e sotto la responsabilitŕ del DPKO sono 16[42] e coinvolgono[43]:

92.299 unitŕ militari, compresi gli osservatori;

13.095 personale di polizia;

  5.315 personale civile internazionale;

11.476 personale civile reclutato localmente;

  1.760 volontari delle Nazioni Unite.

Primo contributore di Caschi Blu tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia partecipa attualmente a due missioni di pace ONU: con circa 1.100 unitŕ alla missione UNIFIL in Libano (il cui comandante č, dal luglio 2014, il Generale Luciano Portolano) e con 2 unitŕ alla missione Mali-MINUSMA.


Organigramma del Dipartimento[44]

 

 

 

 

 

 

 


La proposta di autolimitazione del potere di veto in Consiglio di sicurezza di fronte alla denuncia di atrocitŕ di massa
(a cura del Servizio Studi della Camera)

Il conflitto siriano, che giŕ si presentava dopo il primo anno come una situazione di stallo suscettibile di condurre alla distruzione del tessuto economico, sociale e civile del paese, č stato lo scenario principale per l’avvio di una serie di proposte di riforma del funzionamento Consiglio di sicurezza dell’ONU - stante il pluriennale ristagno delle proposte di modifica dei meccanismi di funzionamento del CdS tramite emendamento della Carta delle Nazioni Unite.

Alla fine di marzo 2012, infatti, per iniziativa della Svizzera, insieme ad altri quattro Stati del cosiddetto gruppo Small Five (Costa Rica, Giordania, Liechtenstein e Singapore), veniva presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione con una serie di proposte, la piů rilevante delle quali appariva l’autolimitazione, da parte dei cinque membri permanenti, della prerogativa del diritto di veto quando il Consiglio sia chiamato a discutere di questioni che coinvolgono la piů generale responsabilitŕ di protezione dei civili nei conflitti armati – emersa come preciso dovere della Comunitŕ internazionale dai lavori del World Summit ONU del 2005 -, e segnatamente in relazione a situazioni che presentino chiari profili di crimini contro l’umanitŕ e atrocitŕ di massa, come anche azioni di carattere genocidario. In sostanza nella proposta di Small Five si configurava la necessitŕ, da parte dei Big Five, di astenersi dal ricorso al diritto di veto per bloccare decisioni del Consiglio chiaramente volte a prevenire o porre fine a quel tipo di situazioni. Didier Burkhalter, tuttora ministro degli esteri del Governo federale elvetico, riconosceva implicitamente il legame delle proposte formulate da Berna con il conflitto siriano in corso

Anche se in via indiretta, la proposta del gruppo Small Five era corroborata il 3 agosto 2012, quando l’Assemblea generale dell’ONU stigmatizzava la paralisi del Consiglio di sicurezza, rivelatosi incapace di ogni azione decisa per porre un argine al dilagare sempre piů grave dei combattimenti in territorio siriano: la risoluzione era approvata da un’ampia maggioranza di 133 paesi, e gli schieramenti internazionali mostravano un forte isolamento della Russia della Cina, tradizionalmente contrarie ad ogni intervento della Comunitŕ internazionale negli affari interni dei vari Stati. La proposta del gruppo Small Five, tuttavia, era in seguito ritirata per motivi di equilibri diplomatici (probabili pressioni ricevute dai cinque paesi).

La questione era rilanciata nel settembre 2013, in occasione dell’apertura della Sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, proprio dal capo di uno dei cinque Stati membri del Consiglio di sicurezza, il Presidente francese François Hollande - che dava peraltro seguito alla posizione francese del novembre 2012, formulata in appoggio alle proposte nella stessa direzione di sette Stati partecipanti a una riunione sui metodi di lavoro del Consiglio di sicurezza -, il quale, nel suo intervento in Assemblea generale, sosteneva esservi situazioni in cui un’azione collettiva della Comunitŕ internazionale č assolutamente necessaria, e pertanto il diritto di veto avrebbe dovuto cedere alla necessitŕ di contrastare e porre fine a crimini di guerra e azioni di genocidio.

Alla presa di posizione della Francia si univano il Costa Rica ed il Cile. Il Ministro degli esteri francese Laurent Fabius precisava i contorni della proposta del proprio paese nei termini di un codice di astensione dal ricorso al diritto di veto su base volontaria e collettiva da parte dei Cinque Grandi: la specifica decisione sui caratteri di uno scenario suscettibili di produrre quella astensione sarebbe stata adottata dal Segretario generale delle Nazioni Unite su richiesta di almeno 50 Stati membri. La proposta francese era temperata dalla esclusione dei casi nei quali fossero in gioco vitali interessi nazionali di uno Stato membro permanente del Consiglio di sicurezza.

A margine della Sessione inaugurale dei lavori dell’Assemblea generale del settembre 2014 la Francia rilanciava la propria proposta, presiedendo unitamente al Messico una riunione ministeriale sull’argomento, e il vicesegretario delle Nazioni Unite Jan Eliasson invitava gli Stati membri a considerare seriamente la proposta della Francia. Per quanto concerne l’Italia, poche settimane dopo il rappresentante del nostro paese, Inigo Lambertini, intervenendo in un dibattito aperto in seno al Consiglio di sicurezza sui metodi di lavoro del Consiglio stesso, si univa alle proposte capitanate dalla Francia, sottolineando i profili di responsabilitŕ che la prerogativa del diritto di veto comporta per i cinque membri permanenti.

Da ultimo, il Rappresentante francese alle Nazioni Unite François Delattre, intervenendo in un dibattito in Assemblea generale l’8 settembre 2015 sul piů generale tema della responsabilitŕ di protezione dei civili nei conflitti armati, ha ribadito i contorni della proposta francese, inquadrandoli proprio nel piů ampio filone emerso dal World Summit del 2005.

 

 


L’attuazione in Italia della Risoluzione 1325 (2000) dell’ONU su donne, pace e sicurezza
(a cura del Servizio Studi della Camera)

La Risoluzione 1325 “Donne, pace e sicurezza”,  adottata all’unanimitŕ il 31 ottobre 2000 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, č la prima Risoluzione di questo organismo che esplicitamente menziona sia l’impatto della guerra sulle donne, sia il contributo delle donne per la soluzione dei conflitti e per una pace durevole. La risoluzione riconosce e valorizza il contributo delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, nel peacekeeping e nel peace-building. La Risoluzione 1325 costituisce un importante documento politico ed uno strumento giuridico fondamentale sia per la promozione della partecipazione delle donne a livello decisionale, sia per la tutela delle donne e delle ragazze nei conflitti, per la prevenzione della violenza contro le donne attraverso la promozione dei diritti, la responsabilitŕ, l’applicazione delle leggi e l’inclusione della prospettiva di genere nelle operazioni di pace nelle zone in conflitto o in post-conflitto.

Sul tema Women Peace and Security-WPS il Consiglio di Sicurezza ha adottato nel tempo sette risoluzioni, di cui la 1325 del 2000 č la capostipite, che nel loro complesso costituiscono il quadro di definizione, attuazione e monitoraggio di una nutrita Agenda di settore - da osservarsi sia a livello internazionale sia regionale, nazionale e locale -, guida e parametro di riferimento per le azioni degli organi e degli Stati membri delle Nazioni Unite in materia. Si tratta delle risoluzioni 1820 (2008) in materia di violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1888 e 1889 (2009) sulla violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1960 (2010) sullo sviluppo di un sistema di accountability, con cui si č prevista, tra l’altro, la pubblicazione delle liste degli autori di reato; 2106 (2013) che chiarisce e rafforza il ruolo del sistema onusiano nel prevenire e rispondere alla violenza sessuale nei conflitti armati.

L’ultima delle risoluzioni tematiche č la 2122 (2013) del 18 ottobre 2013 che, sulla base dei contenuti del Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite (S/2013/525), rafforza le misure che consentono alle donne di partecipare alle varie fasi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, nonché della ripresa del paese in questione, ponendo agli Stati membri, alle organizzazioni regionali e alle Nazioni Unite stesse, l’obbligo di riservare seggi alle donne nei tavoli di pace, La risoluzione 2122, inoltre, riconosce la necessitŕ di una tempestiva informazione ed analisi dell’impatto dei conflitti armati su donne e ragazze; chiede ai leader delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle violazioni dei diritti umani e degli abusi di donne nei conflitti armati e nelle situazioni di post conflitto e chiede alle missioni di peacekeeping di dare risposta alle minacce della sicurezza delle donne in situazioni di conflitto e post conflitto; incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni ad aumentare la percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di polizia in esse impiegate; sottolinea la necessitŕ di continuare gli sforzi per eliminare gli ostacoli che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in situazioni di conflitto o post conflitto.   

Il metodo di maggiore efficacia per la reale attuazione del complesso delle disposizioni contenute nelle Risoluzioni onusiane in tema di Donne, Pace e Sicurezza č stato individuato nei Piani d’azione nazionali (NAP), la cui adozione č stata prevista, per la prima volta, dal Consiglio di sicurezza nel Presidential Statement del 28 ottobre 2004. Il documento invitava gli Stati membri delle Nazioni Unite a proseguire sulla strada dell’attuazione della Risoluzione 1325, “including through the development of national action plans”. I NAP consentono ai singoli governi di articolare le prioritŕ e di coordinare i diversi organismi competenti per la sicurezza, la politica estera, lo sviluppo e le questioni di genere ai fini dell’implementazione della 1325 e delle successive Risoluzioni.

Secondo i dati disponibili ed aggiornati al 2013[45], una quarantina di Paesi ha adottato un Piano d’azione nazionale. Di seguito si ricostruisce il timeline di adozione dei Piani:

2005: Danimarca

2006: Regno Unito, Svezia, Norvegia

2007: Svizzera, Spagna, Olanda, Costa d’Avorio, Austria

2008: Uganda, Islanda, Finlandia

2009: Liberia, Portogallo, Belgio, Guinea, Cile

2010: Sierra Leone, Rwanda, Filippine, Italia, Francia, Estonia, Repubblica 

           Democratica del Congo, Canada, Bosnia Erzegovina

2011: Nepal, Lituania, Georgia, Guinea-Bissau, Irlanda, Serbia, Burundi,   

          Slovenia, Croazia, Senegal, Stati Uniti 

2012: Germania, Ghana, Australia

2013: Nigeria, Macedonia, Kyrgyzstan.

 

Si segnala, inoltre, che tra il 2008 e il 2013, nove Paesi del continente europeo - Danimarca, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi, Norvegia, Regno Unito, Finlandia, Austria e Islanda - hanno sottoposto il proprio Piano nazionale a revisione. Del resto l’Europa, con 22 NAP - di cui 15 predisposti in Paesi UE -, rappresenta oltre il 50% del totale dei Piani d’Azione Nazionali; l’Africa conta 13 Paesi, Stati Uniti e Cile rappresentano l’America, Nepal, Kyrgyzstan e Filippine l’Asia e la sola Australia l’Oceania.

Il secondo Piano d’azione nazionale italiano “Donne, Pace e Sicurezza” č stato presentato in occasione della Tavola rotonda “Donne, pace e sicurezza - Standard minimi, linee guida armonizzate e politiche comuni per l'Agenda Europea”. L’evento, realizzato dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, si č svolto presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale il 26 novembre 2014, nell’ambito delle manifestazioni celebrative della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”.

E’ previsto, inoltre, che il Piano sia oggetto di un monitoraggio costante, effettuato attraverso incontri annuali specifici di alto livello ed un reporting progressivo, che si avvarrŕ anche del contributo della societŕ civile, al fine di renderlo sempre piů operativo, aggiornato e sinergico. Il Governo, pertanto, - si legge nell’introduzione al Piano - si impegna a presentare un rapporto di aggiornamento e revisione alla fine del primo anno, cosě da poter individuare le aree da rafforzare, anche alla luce delle consultazioni che si terranno, come accennato, sia con la societŕ civile, sia con il Parlamento.

Tutto ciň anche alla luce della Revisione di Alto Livello della UNSCR 1325 prevista per ottobre 2015.  Il Consiglio di sicurezza, infatti, ha evidenziato che, pur essendo il quadro senz’altro migliorato nei 14 anni di vigenza della Risoluzione 1325 e nonostante le successive Risoluzioni tematiche, senza un cambiamento significativo nelle modalitŕ di implementazione della Risoluzione-madre le prospettive delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nella protezione e promozione della pace sono destinate a permanere sottorappresentate. Il Segretario Generale, pertanto, ha invitato gli Stati membri, le organizzazioni regionali e gli enti delle Nazioni Unite a rivedere i Piani di attuazione vigenti e gli obiettivi in vista di una Revisione di Alto Livello della Risoluzione 1325, commissionando anche uno studio globale sulla sua implementazione, che confluirŕ nella sua relazione annuale 2015 al Consiglio di sicurezza. Lo studio, coordinato da Radhika Coomaraswamy, giŕ Special Representative of the Secretary-General on Children and Armed Conflict e giŕ Special Rapporteur on Violence against Women, evidenzierŕ esempi di buone pratiche, lacune di attuazione, sfide e prioritŕ per l'azione.

Il Piano di azione nazionale italiano 2014-2016 (articolato sulle c.d. 3P prevention, protection, participation, and relief, and recovery) č volto innanzitutto a rafforzare le iniziative di settore che l’Italia giŕ sostiene od attua per ridurre l’impatto che le situazioni di conflitto e post-conflitto determinano con riguardo alle donne e ai fanciulli, promuovendone al contempo, la partecipazione nella risoluzione e prevenzione dei conflitti in quanto “agenti per il cambiamento” (agents of change).

Nell’elaborare il nuovo Piano 2014-2016, che a differenza del precedente (2010-2013) a suo tempo sviluppato alla luce delle prime cinque Risoluzioni onusiane sopra ricordate deve tenere conto dell’articolazione del quadro di riferimento, ora comprensivo anche delle piů recenti Risoluzioni (n. 2106 e 2122 del 2013), si č tenuta in considerazione e valorizzata la crescente incidenza che la tematica in questione sta assumendo in ambito sia internazionale, sia domestico e regionale. Pertanto, sono stati potenziati ed evidenziati gli sforzi e le azioni promosse da tutte le Autoritŕ coinvolte nell’attuazione del Piano medesimo, č stato ampliato l’ambito degli attori coinvolti ed č stata promossa la sistematizzazione e l’integrazione delle azioni esistenti.

Il Piano italiano č stato elaborato nel rispetto del “Comprehensive EU approach to the implementation of Security Council Resolutions 1325 and 1820 on Women, Peace and Security” ed in considerazione anche, tra gli altri, delle indicazioni provenienti dalla societŕ civile, in particolare dal gruppo di lavoro Gender Peace and Security dello European Peacebuilding Liaison Office, nonché nel rispetto della “Cornice Strategica e del Piano comunitario in materia di diritti umani e democrazia” adottato nel giugno 2012.

Ribadito che gli obiettivi della Risoluzione 1325 consistono:

1.     nella prevenzione della violenza contro le donne ed i fanciulli e protezione dei diritti umani di donne e fanciulli, durante e dopo i conflitti armati;

2.     nella maggiore partecipazione delle donne nella promozione della pace;

3.     nell’applicazione dell’approccio di genere in tutti i progetti ed i programmi di promozione della pace,

il Gruppo di lavoro interministeriale ha individuato, ai fini del loro conseguimento una serie di sotto-obiettivi, di ciascuno dei quali viene riportato, nel Piano in esame, lo stato di attuazione e gli ulteriori impegni (commitments) che l’Italia intende assumere, a livello sia nazionale, sia internazionale.

Tali sotto-obiettivi consistono nel:

1)     valorizzare la presenza delle donne nelle Forze Armate nazionali e negli organi di polizia statale, rafforzandone il ruolo negli organi decisionali delle missioni di pace;

2)     promuovere l’inclusione della prospettiva di genere nelle Peace-Support Operations;

3)     assicurare training specifico, in particolare per il personale partecipante alle missioni di pace, sui differenti aspetti della Risoluzione 1325;

4)     proteggere i diritti umani delle donne, dei fanciulli e delle fasce piů deboli della popolazione, in fuga dai teatri di guerra e/o presenti nelle aree di post-conflitto;

5)     rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi decisionali;

6)     rafforzare la partecipazione della societŕ civile nell’attuazione della Risoluzione 1325;

7)     effettuare attivitŕ di monitoraggio e follow-up.

Completano il Piano 5 Allegati (annex), riguardanti: la raccolta di indicatori rilevanti che saranno desunti dalle informazioni fornite dalle amministrazioni coinvolte; l’elenco  esperti e delle Associazioni di settore che hanno partecipato alla consultazione e fornito indicazioni utili alla redazione del Piano; esempi di progetti (buone pratiche) sviluppati, anche con il sostegno della DGCS, da parte dell’Associazionismo di settore in aree di conflitto, post-conflitto ed in Paesi fragili; esempi di moduli didattici di settore e il riferimento (link) al documento Ue Concept on Strengthening EU Mediation and Dialogue Capacities adottato dagli Stati membri nel 2009 che č alla base del Mediation Support Team (MST) il quale č attivo in numerose aree, dove opera come strumento complementare dell’Azione esterna dell’Unione Europea.


Prioritŕ dell’UE in vista della LXX Assemblea generale delle Nazioni Unite
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera)

 

Il Consiglio dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le prioritŕ dell’UE in vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si svolgerŕ a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015.

Le prioritŕ definite del Consiglio sono cosě articolate:

 

Riesame delle operazioni di pace delle Nazioni Unite

Le operazioni di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari, coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti umani.

L’UE considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per conseguire una stabilitŕ duratura e sostenibile.

Il riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre piů importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi internazionali per la pace e la sicurezza.

Le operazioni di pace non possono perň sostituirsi ai processi politici. Sono necessari sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un conflitto.

L’Ue considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i paesi terzi. Č necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la sicurezza.

 

Non proliferazione e disarmo

L’UE ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori.

L’UE si adopererŕ per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirŕ attivamente al suo riesame globale, che deve essere completato nel 2016.

L’UE continuerŕ a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e considera una prioritŕ assoluta l’entrata in vigore del trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

L’UE č, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine, intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta internazionale per le attivitŕ nello spazio extraatmosferico.

 

Lotta contro il terrorismo

L’UE sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti e marginalizzazione sociale, economica e politica.

L’UE ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate.

 

Agenda globale post 2015

L’UE č fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile con societŕ pacifiche e stabili e includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, paritŕ di genere e sostenibilitŕ ambientale.

I risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York (vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici.

L’ UE ritiene che il principale campo d’azione sarŕ la definizione e l’attuazione di un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilitŕ e valutazione, che dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015.

Tra le tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.

Cambiamenti climatici

L’UE punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente, che tenga conto delle esigenze dei piů vulnerabili.

L’UE resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari attingendo ad un ampia varietŕ di fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento.

Nel contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

 

Diritti umani e diritto internazionale

L’UE si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e sicurezza.

L’UE sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché la responsabilitŕ primaria di consegnare gli autori di reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la sua giurisdizione qualora le autoritŕ nazionali non siano in grado o non siano disposte a perseguire veramente i crimini piů gravi motivo di allarme per la comunitŕ internazionale.

L’UE, in tale ambito, intende:

·  sostenere la libertŕ di opinione e di espressione online e offline quale diritto umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace;

·  continuare a propugnare la libertŕ di religione o credo e chiederŕ maggiori sforzi volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose.

·  proseguire gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;

·  a promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.

·  continuare a promuovere i diritti dei minori;

·  continuare ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.

 

Protezione dello spazio umanitario

L’UE continuerŕ a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati.

Le discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del processo piů ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema umanitario.

 

Questioni di genere

L’UE sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste.

L’emancipazione e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.

 

Ciberspazio

L’Unione europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e sicurezza internazionali nel ciberspazio.

In tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti online e offline. Č inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance di internet. L’Unione europea resterŕ ferma sul principio che a nessuna singola entitŕ, societŕ, organizzazione o governo si debba consentire il controllo di internet.

L’Unione europea riconosce la necessitŕ costante di lavorare attivamente in tale ambito alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla riservatezza e alla libertŕ di espressione.

 

Riforma e maggiore efficienza delle Nazioni Unite

Sfide emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalitŕ di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e del personale delle Nazioni Unite continuerŕ ad essere una prioritŕ dell’UE. La riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio dell’attivitŕ dell’Assemblea generale.

 

Rafforzamento dei partenariati multilaterali

L’Ue ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale č il mezzo per sostenere la pace e la prosperitŕ in tutto il mondo e superare i conflitti tra le nazioni.

L’UE accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del "mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale di sicurezza.

Occorre fare piů affidamento su azioni a piů livelli e multiformi in tutte le diverse fasi dei conflitti e in tutte le fasi č necessaria una cooperazione piů stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto.

L’UE ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza di una stretta cooperazione trilaterale.

 

 

 


La Missione EUNAVFOR Med
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[46]

L’11 maggio 2015 l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Federica Mogherini, ha illustrato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite le misure che l’Unione europea era in procinto di adottare per far fronte all’emergenza delle tragedie nel Mediterraneo, dando conto a un tempo della nuova agenda europea sulle migrazioni, che la Commissione avrebbe presentato due giorni dopo, e dell’operazione navale militare PSDC dell’Unione europea nel Mediterraneo centro-meridionale (EUNAVFOR MED), successivamente istituita dalla decisione (PESC) 2015/778 del 18 maggio 2015, evidenziando la necessitŕ che l’Unione operi con il sostegno esplicito del Consiglio di sicurezza, espresso tramite una risoluzione mirata.

L’intervento dell’AR ha costituito la prima applicazione dell’articolo 34, comma 2, ultimo alinea del

Trattato sull’Unione europea (TUE), che recita: "Allorché l’Unione ha definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri che

vi partecipano chiedono che l’Alto rappresentante sia invitato a presentare la posizione dell’Unione".

Si ricorda che il mandato di EUNAVFOR MED, come definito dall’articolo 2 della citata decisione, prevede le seguenti fasi operative:

·        individuazione e monitoraggio delle reti di migrazione attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento in alto mare;

·        fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospette;

·        fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto mare o nelle acque territoriali e interne di uno Stato costiero, di imbarcazioni sospette, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato;

·        adozione di tutte le misure necessarie nei confronti delle imbarcazioni sospette, ivi compresa la possibilitŕ di metterle fuori uso o renderle inutilizzabili, nel territorio dello stato costiero interessato, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato.

Mentre le misure di cui ai primi due punti sono attuabili, nel rispetto del diritto internazionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), prescindendo da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza e dal consenso dello Stato costiero interessato, le misure di cui agli ultimi due punti sono subordinate all’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza od all’ottenimento del consenso dello Stato interessato.

Č da notare che la formulazione del punto c): "anche mettendoli fuori uso o rendendoli inutilizzabili" č frutto di un compromesso teso a rendere accettabile la formulazione, ai fini dei negoziati in corso alle Nazioni Unite, anche da parte della Russia, che non accetterebbe la possibilitŕ di "distruggere" tout court le imbarcazioni sospettate di traffico. La Russia resta peraltro contraria alla possibilitŕ di agire sul territorio libico.

Č rimessa al Consiglio dell’UE la valutazione delle condizioni per il passaggio dalla prima fase alle successive, tenendo conto delle risoluzioni ONU intercorse e del consenso dello Stato costiero.

Mentre per le azioni di cui alla seconda e terza a fase dell’operazione sarebbe pertanto sufficiente una risoluzione del Consiglio di sicurezza o il consenso dello Stato costiero, in base al paragrafo 3 dell’art. 2 della decisione PESC sopra menzionata, per decidere il passaggio dalla prima alla seconda e terza fase č invece necessaria la compresenza di una risoluzione e del consenso: un aggravio della procedura che ha consentito l’approvazione della decisione (per la quale č prevista l’unanimitŕ in Consiglio).

Parallelamente all’iniziativa dell’Alto Rappresentante dell’UE presso il Palazzo di Vetro, le diplomazie europee si sono messe al lavoro per ottenere un mandato da parte dell’ONU.

La bozza di risoluzione in discussione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul contrasto al business dei trafficanti di uomini in Libia - che dovrebbe costituire la cornice giuridica per le successive fasi di EUNAVFOR MED - č stata inizialmente elaborata dall’Italia e presentata dal Regno Unito in quanto il nostro Paese non č attualmente rappresentato in Consiglio di Sicurezza, mentre il Regno Unito č membro permanente (pen holder); č appoggiata dai quattro membri europei del Consiglio di Sicurezza: i due membri permanenti, Regno Unito e Francia, piů Spagna e Lituania. L’adozione della risoluzione dipende perň dall’atteggiamento cauto della Russia e della Cina (che solitamente sulle questioni mediterranee tende ad allinearsi a Mosca), preoccupate di evitare il ripetersi di quanto avvenuto nel 2011, con l’adozione della Risoluzione 1973, che diede il via all’intervento che portň alla caduta del regime di Gheddafi.

Il testo inizialmente elaborato dall’Italia prende a modello la Risoluzione n. 1851(2008) sulla lotta alla pirateria al largo della Somalia, ponendosi sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite , che autorizza l’uso della forza di fronte a minacce alla pace, a rotture della pace e ad atti di aggressione. Com’č noto, tale Risoluzione ha consentito interventi di contrasto alla pirateria al largo delle coste della Somalia ma anche land-based operations, autorizzando gli Stati o le organizzazioni regionali notificate dal governo federale di transizione della Somalia a prendere all necessary measures appropriate in Somalia per impedire a coloro che usano il territorio somalo di pianificare, facilitare, intraprendere atti di pirateria; ha autorizzato Stati ed organizzazioni regionali a cooperare nel contrasto alla pirateria dispiegando navi ed aerei militari, sequestrando e disponendo di barche ed armi, facendo seguito alla lettera del governo federale di transizione della Somalia che chiedeva assistenza internazionale per contrastare la recrudescenza della pirateria.

Seguendo tale schema, la bozza di risoluzione sulla Libia prevedrebbe la possibilitŕ di ricognizioni non solo navali ma anche aeree. Mentre la decisione PESC non fa riferimento esplicito a ricognizioni aeree, vi sono mezzi aerei che giŕ operano al largo delle coste libiche nell’ambito della missione Triton[47] di FRONTEX.

La bozza proposta dall’Italia conterrebbe anche il riferimento ad una "lettera" delle autoritŕ libiche alle Nazioni Unite volta a chiedere un’operazione di assistenza che metta in sicurezza le acque territoriali dello Stato e il suo stesso territorio, lettera che dovrebbe indicare gli Stati e le organizzazioni regionali che coopererebbero a tale scopo. Il consenso libico rappresenta un aspetto di preminente importanza per Stati Uniti, Russia, Cina e Venezuela.

La bozza farebbe poi riferimento anche alla messa in salvo delle persone che possano trovarsi a bordo delle imbarcazioni, in accordo con le regole del diritto internazionale, dei diritti umani e delle norme internazionali sui rifugiati. Un aspetto sensibile del negoziato sul testo riguarderebbe proprio gli aspetti umanitari dell’emergenza migratoria.

Il nodo principale da sciogliere riguarda l’ambito di applicazione della risoluzione ONU, che alcuni, tra cui la Russia, vorrebbero limitato all’alto mare, mentre gli europei vorrebbero estendere alle acque territoriali libiche o al territorio libico (incursioni mirate sulla costa).

Dall’ambito di applicazione dipende non solo il teatro delle operazioni possibili, ma anche la loro complessitŕ.

Alcuni membri del Consiglio, infine, richiamano alla prudenza riguardo a formulazioni che possano prefigurare interventi di portata piů ampia come l’autorizzazione di "all necessary measures".

Secondo notizie di stampa, la risoluzione potrebbe essere adottata alla fine del mese, nel corso della riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Quanto a un possibile contributo della NATO all’operazione navale, il Segretario generale Stoltenberg il 18 maggio, mostrando apprezzamento per gli sforzi dell’UE per l’elaborazione di una risposta more comprehensive all’emergenza migratoria e per l’istituzione di un’operazione navale per smantellare le reti criminali di trafficanti d’uomini nel Mediterraneo, ha dichiarato che finora non č stata rivolta una richiesta alla NATO che tuttavia resta pronta in caso di richieste di aiuto.

Il Consiglio dell’UE con decisione PESC 2015/972 del 22 giugno 2015 ha approvato il lancio dell’operazione EUNAVFOR MED. L’operazione č posta sotto il comando del Contrammiraglio Credendino e con comando operativo basato a Roma. Il Comando del dispositivo aerovanale  (Force Commander) č stato affidato al  Contrammiraglio Andrea Gueglio che opera dalla portaerei Cavour.

Oltre alla portaerei italiana - nave ammiraglia dell’operazione navale EUNAVFOR MED (v. infra) - nella prima fase dell’operazione, verranno dispiegate: 8 unitŕ navali di superficie e sottomarine e 12 assetti aerei. Tra gli Stati contributori figurano attualmente 14 Stati membri (Belgio, Germania, Grecia, Estonia, Finlandia, Francia, Ungheria, Italia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Svezia, Slovenia, Regno Unito).

Assetti militari e personale militare saranno forniti dagli Stati contributori. Il budget per i costi comuni č di 11,82 milioni di euro per un periodo di 12 mesi da quando verrŕ raggiunta la piena capacitŕ operativa.

L’operazione EUNAVFOR MED intende contribuire al contrasto al business dei trafficanti di uomini nel Mediterraneo nel quadro di un comprehensive approach dell’UE che include, sul fronte dell’azione esterna, le seguenti azioni:

·          Rafforzamento della partnership con l’Unione Africana (in vista del summit di Malta in autunno) e con le organizzazioni regionali africane, con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, con l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite;

·          Sostegno dell’UE ai processi di Rabat e Khartoum;

·          Accresciuta presenza dell’UE nel Mediterraneo, tramite le operazioni Triton e Poseidon di FRONTEX nel Mediterraneo;

·          Accresciuto sostegno alla gestione dei confini nella regione, anche attraverso missioni PSDC, in particolare rafforzando EUCAP SAHEL Niger ;

·          Affrontare le cause remote (povertŕ, crisi e conflitti) anche tramite il miglioramento delle situazioni della sicurezza, umanitarie e dei diritti umani e delle condizioni socio-economiche nei Paesi di origine;

·          Cooperazione con i Paesi di transito per il controllo dei flussi e per un contrasto efficace dei trafficanti;

·          Costruzione di capacitŕ nei Paesi di origine e di transito che consentano alle autoritŕ locali di affrontare la questione in maniera piů efficace.

Il decreto-legge 8 luglio 2015, n. 99, convertito dalla legge 4 agosto 2015, n. 117, ha autorizzato la partecipazione del personale militare italiano ad  EUNAVFOR MED, relativamente al periodo 27 giugno-30 settembre 2015  (allineando cosě il termine a quello dell’ultimo decreto di proroga missioni, D.L. n. 7/2015).

Nello specifico il provvedimento ha autorizzato la spesa di 26 milioni di euro (reperiti a valere sul fondo missioni per 19 milioni e sui rimborsi ONU per 7 milioni) per la partecipazione di 1.020 unitŕ di personale militare e per l’impiego di mezzi navali (la portaerei Cavour e un sommergibile di classe Todaro) e mezzi aeromobili. Il decreto ha regolato, poi, la disciplina  applicabile alla missione con particolare riferimento alle disposizioni di carattere penale (codice penale militare di pace) e quelle sul personale e di natura contabile, richiamando a tal fine le consuete disposizioni contenute nei periodici provvedimenti di proroga missioni.

L’Italia contribuisce complessivamente all’operazione mettendo a disposizione:

  1. il quartier generale operativo UE  in Roma;
  2. la portaerei Cavour  con alcuni aeromobili imbarcati;
  3. un dispositivo aeronavale composto da un sommergibile, due velivoli a pilotaggio (MQ-1 e MQ-9) remoto;
  4. supporti sanitari imbarcati e a terra;
  5. risorse logistiche nelle basi di Augusta, Sigonella e Pantelleria.

Il 14 settembre scorso il Consiglio Affari Generali ha avallato l’avvio della nuova fase dell’operazione navale, dal momento che la prima fase dedicata all’ “intelligence, raccolta e analisi delle informazioni  ha raggiunto tutti gli obiettivi militari prefissati”, cui si aggiunge il salvataggio di 1500 migranti.

L’esito positivo della valutazione della proposta, passata al vaglio dei ministri degli Affari esteri degli Stati UE senza discussione, come “punto A”, permetterŕ ai mezzi di Eunavfor MED di effettuare “abbordaggi, perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare”, prosegue la nota, di quelle imbarcazioni “sospettate di venir utilizzate per il traffico di esseri umani nell’ambito delle legislazioni internazionali”, in particolare l’UNCLOS e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Arresti saranno quindi possibili, ma solo al di fuori delle acque territoriali libiche. I migranti e i sospetti catturati in acque internazionali saranno portati in Italia. Questo fa sě che per la seconda fase non sia necessaria una specifica e ulteriore risoluzione delle Nazioni Unite.

In termini di mezzi, la fase 2 prevede, oltre alle unitŕ giŕ presenti (portaerei Cavour, una fregata e un sottomarino italiani, una fregata e una nave rifornimento tedesche e un’unitŕ ausiliaria britannica), il dispiegamento di 7 fregate supplementari, numerosi elicotteri, sottomarini e droni.

La ripartizione dei contributi in uomini e mezzi di ciascuno stato membro verrŕ definito dagli stati maggiori dei paesi membri nel corso della conferenza tecnica sulla costituzione della forza, prevista per mercoledě. Successivamente gli ambasciatori europei presso la UE decideranno, nell’ambito del Comitato di Politica e Sicurezza, quando lanciare ufficialmente il secondo passaggio.

La decisione del Consiglio risponde a un’esigenza espressa nelle scorse settimane da piů parti. A fine agosto aveva fatto dichiarazioni in tal senso – in relazione al passaggio alla fase due – l’ammiraglio italiano Enrico Credendino, comandante della Eunavfor Med, seguito dall’Alta rappresentante Federica Mogherini che, a margine del vertice dei ministri della difesa dell’Unione a Lussemburgo aveva dichiarato che “il passaggio alla fase due dell’operazione navale nel Mediterraneo per contrastare i trafficanti di esseri umani” aveva ricevuto un “ampio consenso”. Tale consenso era giŕ stato espresso a livello di ambasciatori la settimana precedente.

Il 24 settembre, l’Alta Rappresentante, in visita al quartier generale dell'operazione a Roma, ha precisato che la seconda fase partirŕ il 7 ottobre:
l’iniziativa si chiamerŕ – ha aggiunto Federica Mogherini – “Operazione Sofia”, dal nome di una bambina, figlia di una donna migrante, nata a bordo di una delle unitŕ navali che hanno preso parte alla prima fase dell'operazione. Denominare l’operazione con il nome della bambina nata a bordo di una delle navi - ha spiegato  - serve a “dare un segnale di speranza alle persone che stiamo salvando”.


La Missione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL)
(a cura del Servizio Studi della Camera)

L’Italia č inserita nella forza multinazionale denominata United Nations Interim Force in Lebanon UNIFIL che dal 1978 opera lungo la linea “armistiziale” Blue Line tra il Libano ed Israele. Prima della crisi del luglio/agosto 2006 la forza multinazionale di UNIFIL aveva il compito di verificare il ritiro delle truppe israeliane dal confine meridionale del Libano e assistere lo stesso governo a ristabilire la propria autoritŕ nell’area. Dopo la crisi del luglio/agosto 2006, ai precedenti compiti, si sono aggiunti il sostegno alle forze armate libanesi nel dispiegamento nel sud del paese, l’assistenza umanitaria alla popolazione civile e il monitoraggio della cessazione delle ostilitŕ nell’area compresa tra la “Blue Line” ed il fiume Litani.

Con lo scoppio della crisi siriana l'azione dell'UNIIFIL č divenuta ancora piů importante, in quanto il Libano svolge un ruolo cruciale per la stabilitŕ di tutta la regione. Il contributo italiano alla missione si estende anche alla componente navale dell'UNIFIL (Maritime Task Force), per il controllo delle acque prospicienti il territorio libanese richiesto dal Department of Peacekeeping Operations delle Nazioni Unite.

Su decisione delle Nazioni Unite, dal 28 gennaio 2012, l’Italia ha assunto il comando della missione UNIFIL: a partire dal 24 luglio 2014 il generale di brigata Luciano Portolano č succeduto al suo collega Paolo Serra alla guida della missione UNIFIL.

Alla missione UNIFIL partecipano oltre 10.000 soldati provenienti dai seguenti Paesi: Armenia, Austria, Bangladesh, Bielorussia, Belgio, Brasile, Brunei, Cambogia, Cina, Croazia, Cipro, El Salvador, Francia, Finlandia, Repubblica di Macedonia, Germania, Ghana, Grecia, Guatemala, Ungheria, India, Indonesia, Italia, Irlanda, Kenia, Malesia, Nepal, Nigeria, Qatar, Korea, Serbia, Sierra Leone, Slovenia, Spagna, Sri Lanka, Tanzania e Turchia.

Il comando della forza nazionale č stanziato presso la base "Millevoi" in Shama (sede del Comando del Settore Ovest di UNIFIL), mentre l’unitŕ di manovra ed i supporti sono dislocati tra le basi di Al Mansouri, Shama e le basi operative avanzate lungo la “Blue Line”.

Attualmente la Joint Task Force – Lebanon consta di 1100 uomini e donne, principalmente composta da militari della Brigata Aeromobile “Friuli”, di stanza a Bologna.

All’Italia č altresě affidato il comando del Sector West di UNIFIL che, dal 13 aprile 2015, č al comando del Generale di Brigata Salvatore Cuoci, giŕ Comandante della Brigata Aeromobile “Friuli”. In tale ambito opera la Task Force italiana in Libano che gestisce le unitŕ di manovra e di supporto fornite da altre nazioni quali: Armenia, Brunei, Estonia, Finlandia, Ghana, Irlanda, Malesia, Repubblica di Corea, Slovenia e Tanzania e Serbia.

​Con il decreto legge n. 7 del 2015 (articolo 12 comma 4), convertito dalla legge n. 43 del 2015, č stata autorizzata fino al 30 settembre 2015, la spesa di euro di euro 19.477.897 per la proroga della partecipazione del contingente militare italiano alla missione delle Nazioni Unite in Libano, denominata United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL), compreso l'impiego di unitŕ navali nella UNIFIL.

L'autorizzazione di spesa č estesa, altresě, alla proroga dell'impiego di personale militare in attivitŕ di addestramento delle forze armate libanesi, quale contributo italiano nell'ambito dell’International Support Group for Lebanon (ISG), inaugurato a New York il 25 settembre 2013 alla presenza del Segretario generale delle Nazioni Unite. La costituzione dell'ISG consegue a un appello del Consiglio di sicurezza per un forte e coordinato sostegno internazionale inteso ad assistere il Libano nei settori in cui esso č piů colpito dalla crisi siriana, compresi l'assistenza ai rifugiati e alle comunitŕ ospitanti, il sostegno strutturale e finanziario al Governo nonché il rafforzamento delle capacitŕ delle forze armate libanesi, chiamate a sostenere uno sforzo senza precedenti per mantenere la sicurezza e la stabilitŕ, sia all'interno del territorio sia lungo il confine siriano e la Blue Line.

 

 


Approfondimenti geopolitici

 


Il dialogo politico in Libia. Un aggiornamento
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[48]

·      L'11 luglio 2015 viene firmato a Skhirat (Marocco) l'accordo politico quadro da parte di 18 su 22 partecipanti al Dialogo politico libico mediato dal Rappresentante Speciale dell'ONU, Leon. A luglio il Congresso Nazionale di Tripoli (GNC) non firma e chiede di rivederne alcune parti. Leon cerca dunque di circoscrivere la posizione del GNC, che appare determinata anche da tattiche dilatorie, attraverso l’apposizione negli allegati al testo di accordo politico di clausole interpretative e riserve.

·      L’11 e 12 agosto 2015, anche a seguito della forte pressione internazionale, una delegazione di Tripoli ha partecipato, pur senza essere autorizzata ad assumere impegni specifici, alla sessione di dialogo che si svolge a Ginevra in cui Leon presenta i primi due allegati (prioritŕ del nuovo Esecutivo e politica fiscale) all’accordo politico, di cui saranno parte integrante.

·      In parallelo, prende il via in seno alla Camera dei Rappresentanti (HoR) la discussione per la definizione della rosa di personalitŕ da indicare a UNSMIL per i vertici del futuro Governo.

·      Il 18 agosto 2015, nella riunione della Lega Araba, quest'ultima esprime sostegno verso il Governo libico di Tobruk e sottolinea la necessitŕ di contrastare DAESH, anche attraverso lo sviluppo di una “strategia araba” per garantire alla Libia l’assistenza necessaria. Al contempo, l’organizzazione rinnoval’appello alle parti per portare a compimento il processo di dialogo sotto l’egida delle Nazioni Unite.

·      Il 17 agosto  2015, in una dichiarazione congiunta i governi di Francia, Germania, Italia Regno Unito, Spagna e Stati Uniti esprimono forte condanna delle barbariche azioni di Daesh a Sirte e lanciano un deciso appello all’unitŕ delle fazioni libiche nella lotta contro DAESH e alla rapida positiva conclusione dell’accordo politico intra-libico.

·      Il 2 settembre 2015 Leon incontrando ad Istanbul una delegazione del Congresso Nazionale di Tripoli chiarisce che sebbene un progetto di accordo sia stato parafato da alcune parti il 12 luglio, un accordo sarŕ veramente raggiunto quando un pacchetto finale abbia un senso per ciascuno e sia firmato da ciascuno.

·      Il 12 settembre 2015 Leon riesce a convocare una nuova sessione di dialogo, a Skhirat, per presentare i testi degli allegati mancanti (sulla composizione del Consiglio di Stato, sugli emendamenti costituzionali e sulle cariche di Primo Ministro e di Vice).

·      Leon appare deciso a mantenere la porta aperta al Congresso evitando di conferirgli un potere di veto, nella consapevolezza che un accordo senza Tripoli costituirebbe un’importante ipoteca sulla stabilizzazione della Libia.

·      Nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2015 a Skhirat le delegazioni dei 2 governi libici rivali raggiungono un accordo su elementi centrali di compromesso finalizzato al raggiungimento dell'accordo di pace, che dovranno essere approvati dai rispettivi parlamenti.

·      Il  18 settembre 2015, in una dichiarazione congiunta, i Governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti, accogliendo con favore la tornata negoziale del dialogo politico guidato dalle Nazioni Unite in corso a Skhirat, in Marocco, e ribadendo pieno sostegno agli sforzi di León, esortano con forza tutte le parti del dialogo a continuare a partecipare ai colloqui in questa fase cruciale dei negoziati, al fine di raggiungere un accordo definitivo su un pacchetto che comprenda la nomina dei candidati per il Governo di Concordia Nazionale prima del 20 settembre, che sia avallato dalle parti prima della fine di settembre, affinché questi possano insediarsi quanto prima (e comunque non oltre il 21 ottobre), secondo le aspettative di tutti i libici. Ribadiscono, inoltre, che, in considerazione delle prossime festivitŕ dell’Eid, si ritiene cruciale che tutte le parti nel processo approvino un accordo definitivo e gli esponenti del nuovo Governo di Concordia Nazionale prima della fine di settembre. Infine, riaffermano il proprio sostegno in favore di una Libia unita, sovrana e indipendente. Sottolineano che la comunitŕ internazionale č pronta a fornire una significativa assistenza umanitaria, economica e di sicurezza ad una Libia unita non appena il nuovo governo sarŕ stato formato.

·      Nella tarda notte del 21 settembre 2015, Leon annuncia che č pronto il testo finale dell'accordo politico libico, che deve essere confermato nei prossimi giorni da tutte le parti e che tutte sono pronte a discutere i nomi del governo di concordia nazionale (che figureranno nell'allegato 1), immediatamente dopo le festivitŕ di Eid. Leon esprime l'auspicio che la sessione finale del dialogo politico possa tenersi durante la settimana dell'Assemblea Generale dell'ONU e che nei giorni immediatamente futuri possa essere parafato l'accordo presumibilmente a Skhirat e che la conclusione avvenga in Libia entro il 20 ottobre 2015, per evitare il vuoto politico in Libia e avere una quadro legale certo. Sollecitato sulle scadenze, il Rappresentante speciale auspica che l'adozione del testo possa avvenire entro il 1°ottobre 2015 a New York da tutte le parti libiche, in modo che la parafatura possa avvenire quanto prima e la conclusione entro il 20 ottobre 2015.

 

 


(…)

 


La Libia: punto di situazione
(a cura del Centro Studi Internazionali - CeSI)

di Stefania Azzolina

 

SETTEMBRE 2015

 

libia

Mappa della Libia. Elaborazione Ce.S.I.

 

 

I negoziati di pace guidati dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Bernardino Leon tra i due parlamenti avversari di Tripoli e Tobruk sembrano essere giunti nuovamente ad una fase di stallo. Infatti, la scadenza ultima prevista per il 20 settembre non ha visto il raggiungimento di un accordo per la formazione di un governo di Unitŕ Nazionale tra Camera dei Rappresentanti (House of Representatives – HoR) di Tobruk, di orientamento laico ed unica autoritŕ libica riconosciuta a livello internazionale, e il Congresso Generale Nazionale (General National Council - GNC) di Tripoli, di orientamento islamista. Nonostante pochi giorni prima fossero circolate delle voci su una possibile convergenza, le trattative si sono bloccate a causa dell’abbandono del tavolo negoziale dei delegati di Tobruk il 15 settembre scorso. L’HoR, infatti, si č opposto ad una serie di emendamenti al testo di accordo votato a fine agosto, ritenuti eccessivamente favorevoli alle richieste avanzate dai delegati del GNC. Piů in generale, la difficoltŕ di trovare un compromesso continua a risentire della presenza, all’interno delle singole rappresentanze, di varie fazioni pro e anti-negoziato.

 

Sebbene non si riscontrino ancora i presupposti per il raggiungimento di una sintesi tra le parti, complessivamente l’andamento dei negoziati ha registrato una graduale serie di piccoli passi in avanti. Dopo l’accordo-quadro firmato l’11 luglio tra l’HoR, le milizie di Misurata e diversi leader di tribů locali e regionali, i nuovi negoziati di agosto, prima a Ginevra e poi a Skhirat, in Marrocco, hanno visto la partecipazione di entrambi i governi. In questo senso, l’apertura di una embrionale forma di dialogo tra i due schieramenti rappresenta giŕ di per sé un notevole risultato politico dopo mesi di opposizione frontale e costituisce un punto di partenza importante per la futura costruzione di un esecutivo unitario nel Paese. Tuttavia, i contenuti e tempistiche di un eventuale accordo sembrano essere poco chiare e di difficile definizione. 

 

Le difficoltŕ incontrate sul piano diplomatico e l’andamento degli scontri sul campo, che attualmente non vedono il prevalere né delle forze del Generale Khalifa Haftar né di quelle islamiste di Alba Libica, paiono escludere una soluzione politica a breve termine, sebbene Leon abbia fissato un’ulteriore scadenza per sottoscrivere un nuovo testo entro il 20 ottobre prossimo.

Al di lŕ della dicotomia Tripoli - Tobruk, la situazione attuale sul campo vede il territorio libico ancora conteso tra numerose milizie locali e tribali che sovente non partecipano né sono rappresentate durante i negoziati. La scarsa rappresentativitŕ dei governi di Tripoli e Tobruk e l’estrema frammentazione dello scenario politico e militare della Libia, che rende quasi impossibile la partecipazione di tutte le realtŕ miliziane e tribali al meccanismo negoziale, potrebbe rischiare di mettere a serio repentaglio l’implementazione di un eventuale accordo tra HoR e GNC, qualora i diversi potentati locali vi si opponessero. Quindi, l’effettivitŕ di qualsiasi sintesi politica non potrŕ prescindere dalla rappresentativitŕ di tutti gli attori presenti nelle diverse realtŕ territoriali libiche, spesso legate tra loro da alleanze contingenti basate su accordi estremamente variabili e flessibili.

 

Se da una parte i tempi per la formazione di un governo di unitŕ nazionale non sembrano ancora essere maturi, dall’altra l’esigenza di trovare un accordo si fa sempre piů pressante di fronte agli effetti che il perdurare del vuoto di potere determina sul Paese. L’assenza di un’autoritŕ politica centrale, la mancanza di forze di sicurezza in grado di garantire il controllo dei confini nazionali, la distruzione di tutte le istituzioni preesistenti e la progressiva segmentazione della guerra civile su molteplici fronti sono tutti chiari sintomi di uno Stato ormai al collasso.

 

In un simile contesto cosě fortemente instabile, la propaganda jihadista ha visto crescere la sua capacitŕ di azione e proselitismo nel Paese. In modo particolare, nell’ultimo anno si č assistito ad un rafforzamento della presenza dello Stato Islamico (IS), o di gruppi a esso affiliati, lungo la zona costiera del Paese. A partire dalla proclamazione del Califfato di Bayda a Derna nel novembre del 2014, l’IS ha preso progressivamente il controllo di diverse cittŕ portuali come Sirte e Bengasi, quest’ultima teatro di recenti scontri con le forze di “Operazione Dignitŕ”, il conglomerato di milizie guidato dal Generale Haftar.

 

La penetrazione dell’IS lungo le coste libiche non solo rappresenta l’introduzione di un ulteriore elemento di criticitŕ nel giŕ complesso panorama nazionale, ma costituisce anche un fattore di grande apprensione per la Comunitŕ Internazionale, in modo particolare per le cancellerie europee. Infatti, il timore č che l’IS, scendendo a patti con le reti criminali locali, posa iniziare a compartecipare al controllo dello sfruttamento dei flussi migratori che vedono nella Libia uno dei suoi snodi piů importanti. Non č da escludere, inoltre, l’ipotesi in cui, di fronte al perdurare della precarietŕ dell’ordine politico, sociale ed economico del Paese, la propaganda dell’IS, soprattutto nella sua declinazione di modello para-statale, possa risultare attraente agli occhi delle classi sociali meno abbienti.

 

Di fronte a tali minacce, da diversi mesi la Comunitŕ Internazione discute l’ipotesi di una possibile missione di stabilizzazione in Libia. La maggiore difficoltŕ consiste, attualmente, nell’assenza dei presupposti politici interni al Paese affinché si possa intervenire in un quadro di legalitŕ e legittimitŕ internazionale, ovvero in seguito alla richiesta di intervento da parte di uno attore statuale unico.

 

In un simile contesto, appare doveroso sottolineare il ruolo nella diplomazia italiana, che potrebbe avere la forza di coinvolgere in un eventuale processo diplomatico Paesi oggi agli antipodi come il Qatar, che supporta con fermezza le realtŕ islamiste libiche, e gli Emirati e l’Egitto, che, al contrario, appoggiano le forze laiche.

 

Lo sviluppo di un’agenda comune dovrebbe essere perseguito anche attraverso un’opera di pressione e lobby all’interno delle Nazioni Unite, l’unica istituzione internazionale in grado di elargire la legittimitŕ politica e giuridica necessaria per intraprendere un’azione piů incisiva in Libia. Tuttavia, occorre sottolineare i rischi operativi di una eventuale missione militare. Infatti, le milizie dello Stato Islamico, pesantemente armate grazie ai canali del mercato nero e al saccheggio degli arsenali gheddafiani, sono pronte ad affrontare l’arrivo di un dispositivo militare convenzionale, rispetto al quale potrebbero essere in grado di massimizzare le loro tecniche asimmetriche (attentati, esplosivi improvvisati, guerriglia, imboscate). Dunque, qualsiasi ipotetico impegno militare dovrŕ necessariamente mettere in conto possibili pesanti costi umani, economici e politici.

 

Naturalmente, come accennato in precedenza, non č possibile immaginare alcuna iniziativa che preveda l’uso della forza senza avere una precisa strategia politica e una road map per il dialogo nazionale. Nonostante le mal celate simpatie di una parte della Comunitŕ Internazionale e di molte Cancellerie europee per il Generale Haftar e per il governo di Tobrouk, non č possibile pensare ad un qualsivoglia processo di dialogo politico libico internazionalmente riconosciuto che, oltre alle realtŕ sinora citate,  non includa i leader tribali del sud del Paese, soprattutto quelli appartenenti ai gruppi Tuareg e Toubou, indispensabili per la pacificazione dei territori centrali e meridionali libici. In questo senso, il coinvolgimento delle tribů e dei poteri locali appare imprescindibile, poiché avrebbe l’obbiettivo di privare il network jihadista legato allo Stato Islamico di quel supporto sociale indispensabile per la conduzione delle proprie operazioni. In questo senso, la Comunitŕ Internazionale potrebbe ispirarsi alla strategia della formazione dei Consigli del Risveglio in Iraq nel 2005. In quell’occasione, con una felice intuizione, il Generale Petraeus, Comandante della coalizione multinazionale in Iraq, favorě la formazione di una rete di milizie sunnite, alleate alle forze occidentali, in opposizione ad al-Qaeda in Iraq. Roma potrebbe essere la sede ideale per un primo, eventuale, conferenza internazionale che dia voce alle tribů libiche. 

 

 

 

Sulla base delle dinamiche fin qui esposte, l’andamento dei negoziati a Shkirat, la destrutturazione del sistema statale e la progressiva proliferazione sul territorio da parte dei diversi gruppi jihadisti, sembrerebbero suggerire la necessitŕ di politiche di lungo periodo per una reale stabilizzazione del Paese.

 

 


Siria: i piů recenti sviluppi
(a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)

La situazione sul terreno registra la prosecuzione del trend, iniziato la scorsa primavera, di progressivo arretramento delle forze leali al regime Assad, con conseguenti perdite di terreno (da gennaio 2015 il regime avrebbe ceduto circa il 20% del Paese) sia a favore dell’ISIS/DAESH - che in particolare controlla ormai buona parte del Nord-est del Paese con le sue risorse petrolifere, al punto da aver stabilito nella cittŕ siriana di Raqqa, e non in Iraq, la propria "capitale" - sia, soprattutto, a favore delle altre forze ribelli nel Nord-ovest della Siria, nello specifico nella zona di Idlib e della pianura di Ghab.

Sul variegato fronte dell’opposizione, si segnala che alcune milizie ribelli nei mesi scorsi si sono riunite in un’alleanza di fazioni, il cosiddetto Esercito della Conquista (Jaish al-Fateh), che includono formazioni riconducibili al Free Syrian Army tendenzialmente vicino alla Fratellanza Musulmana, gruppi radicali salafiti come Ahrar al-Sham ed i qaedisti di Jabhat al-Nusra, gruppo che, di fatto, guida l’alleanza. Tale coalizione sarebbe stata sostenuta da Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, al di lŕ delle divergenze, sarebbero animate da preoccupazioni condivise quali il coinvolgimento dell’Iran nel conflitto e la minaccia del “Califfato” (inaccettabile soprattutto per i Saud che non tollerano che altri si proclamino califfi).

Sempre maggiori sono le perplessitŕ sulla coesione e sulle capacitŕ offensive del Free Syrian Army, accentuate dalle notizie relative ai risultati deludenti ottenuti dal costosissimo programma di addestramento di militari siriani condotto dagli americani e dai loro alleati.

 Per quanto riguarda DAESH, sul terreno - in conflitto aperto con i tre maggiori attori della crisi siriana cioč forze governative, opposizione, milizie curde, nonché sottoposto ai bombardamenti aerei della Coalizione anti-DAESH - l’avanzamento č controverso: nei mesi estivi si č avuto da una parte un importante arretramento di DAESH nel Nord-Ovest, su pressione dell’opposizione, e nel Nord, su pressione delle milizie curde, sostenute dai bombardamenti della Coalizione anti-DAESH; dall’altro, un’avanzata dal Deserto centrale in direzione di Homs, resa possibile dall’indebolimento delle forze governative, che ha consentito la conquista di Palmira in maggio e in agosto della cittadina assira di Al Qaryatain (Homs), situata ad appena 30 km dal confine libanese, da Homs e da Damasco.

Sul piano della risonanza mediatica, l’escalation dei crimini di DAESH, come la barbara esecuzione dell’ex capo archeologo di Palmira e la distruzione del millenario monastero cattolico di Mar Elian ad Al Qaryatain, appare come un tentativo di DAESH di rivendicare la propria vitalitŕ.

Situazione umanitaria. Secondo dati ONU del luglio 2015, vi sono circa 12,2 milioni di siriani hanno attualmente bisogno di assistenza umanitaria e si stima che 220.000 persone sono state uccise dall’inizio del conflitto nel 2011. Soltanto nel 2015, oltre un milione di persone hanno lasciato le loro case, aggiungendosi ai 7,6 milioni di sfollati interni giŕ presenti nel paese. Quanto ai rifugiati nei paesi limitrofi (Turchia, Libano, Giordania, Iraq), il numero ha ormai superato i 4 milioni (di questi circa il 2-3% cerca rifugio in Europa), facendo registrare la piů grande popolazione di rifugiati a causa di un unico conflitto da piů di 25 anni (Ruanda).

Riguardo al coinvolgimento degli attori internazionali sul piano politico e militare, nelle ultime settimane sembrano profilarsi elementi di novitŕ.

Da un lato, č maturata la proposta francese di effettuare bombardamenti contro le forze jihadiste di DAESH non solo in Iraq ma anche in Siria, accolta con favore anche dal Regno Unito.

Dall’altro lato, si č profilato un maggiore attivismo russo, sia sul terreno (tramite la creazione attorno a Tartus di una base avanzata a Jableh, nei pressi di Latakia), in funzione pro-Assad, sia a livello diplomatico. Non sembra implausibile che la Russia abbia deciso di aprire all’Arabia Saudita, con il comune obiettivo di combattere DAESH e che il Presidente della Federazione russa Putin intenda lanciare un "dialogo a quattro" con Stati Uniti, Arabia Saudita ed Iran e, forse, portare una proposta in tal senso all’Assemblea Generale dell’ONU.

Inoltre, il Presidente Putin sembra deciso a sfruttare i nuovi spazi negoziali aperti dall’attestarsi delle posizioni occidentali sull’accettazione che l’allontanamento di Assad sia l’esito di un processo di transizione e non la pre-condizione per avviare il processo, come avrebbero preteso fino a uno o due anni fa.

Giŕ nelle ultime settimane, anche in considerazione dell’avanzata di ISIS e di al-Nusra (affiliato ad al-Qaeda), si č registrato un rinnovato slancio dello sforzo negoziale tra Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran, Turchia e Inviato Speciale dell’ONU in Siria (Staffan de Mistura, giŕ vice ministro degli esteri italiano) per trovare un’intesa su un eventuale governo di transizione, in base all’accordo di Ginevra del 2012, dal momento che l’indebolimento di Assad faceva sembrare Mosca propensa a immaginarne un’uscita di scena.

Tuttavia, per il momento, l’intenso lavoro diplomatico si č nuovamente arenato sul dibattito ‘ruolo/non ruolo’ che Assad avrebbe potuto esercitare in questa ipotetica transizione. Staffan de Mistura da parte sua ha presentato a fine luglio 2015 un nuovo approccio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che prevede che le consultazioni tra le Parti siriane si focalizzino maggiormente lungo 4 aree tematiche: protezione per tutti; questioni politiche e legali; questioni militari, di sicurezza e contro-terrorismo; continuitŕ dei servizi pubblici, ricostruzione sviluppo. Sostenendo tale approccio, a metŕ agosto il Consiglio di Sicurezza ha fatto appello a tutte le Parti perché si impegnino in buona fede a sostenere gli sforzi dell’Inviato Speciale per una soluzione politica.

Comincia a prendere campo tra gli osservatori la tesi secondo cui, visto che al momento il Califfato sembra essere l’unica forza ritenuta nemica da tutti (dall’Occidente, cosě come dalla Russia - che vede con terrore l’ISIS anche per le ripercussioni che il messaggio jihadista puň innescare nelle enclave musulmane russe nel Caucaso - e dall’Iran che, tramite le sue milizie sciite, sta combattendo sul campo l’IS; contrastata - secondo alcuni analisti - anche da Arabia Saudita, EAU e Turchia), una soluzione percorribile sembrerebbe quella di unire gli sforzi per eliminare sul campo DAESH (in grado di recare minacce anche al di fuori della Siria e del Vicino Oriente), lavorando parallelamente a un processo politico per la formazione di un nuovo governo.

Sarebbe interesse degli occidentali favorire la formazione di un governo che non sia solo espressione del campo sunnita, rassicurando cosě Russia e Iran, possibilmente allontanando definitivamente Assad e il suo entourage dal Paese, come auspicato anche dalla Turchia. Ciň avrebbe un duplice effetto positivo: allentare un fronte di tensione tra NATO e Russia ed indebolire il fronte jihadista.

D’altronde, la Russia pur accrescendo il suo sostegno ad Assad con rinforzi sul campo e forniture di armi - conscia del fatto che gli occidentali sono restii ad un intervento militare diretto di regime change anche per via dell’esperienza libica, né sono in grado di contare sulla capacitŕ offensiva dell’opposizione siriana moderata - intende far leva sul fatto che la minaccia dell’ISIS e di al-Qaeda costituisce per gli Occidentali una prioritŕ di livello superiore a quella attribuita ad Assad (seppure preferiscano insistere sulla tesi del ‘non ruolo’  di Assad in un’ipotetica transizione).

La Russia dunque starebbe rafforzando ulteriormente il proprio sostegno militare ad Assad per soccorrere l’alleato in crescente difficoltŕ – nonché per salvare i propri interessi nazionali nell’area – anche nella prospettiva di poter tornare al tavolo negoziale da una posizione di maggior forza. La strategia della Russia sarebbe dunque quella di contrastare l’ISIS ma anche consolidare il suo ruolo in Medio Oriente e mantenere i suoi punti di forza in Siria, attraverso un negoziato in cui il regime di Assad sia parte preminente (se non perfino Assad stesso) e possibilmente di imprimere un’accelerazione al processo negoziale prima che si verifichi sul terreno la temuta "battaglia di Damasco".

Da ultimo giungono dall’Iran, altro alleato degli Assad, dichiarazioni che segnalano una disponibilitŕ di collaborazione verso “chiunque” si adoperi per la soluzione del conflitto. Un’apertura, verosimilmente, al principale antagonista in area, l’Arabia Saudita.

 

Facendo leva sull’interesse comune di contrastare l’ISIS, la diplomazia potrebbe ritrovare slancio, riprendendo lo schema di lavoro elaborato da Kofi Annan a Ginevra nel giugno 2012, sostanzialmente ancora percorribile  - anche parallelamente ad iniziative militari di contrasto all’ISIS.

Com’č noto, sotto impulso di Kofi Annan, i 5 membri del Consiglio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU convocati a Ginevra il 30 giugno 2012 (Conferenza di Ginevra I) raggiunsero un accordo sull’obiettivo prioritario da perseguire in vista di una soluzione della crisi siriana ovvero una transizione politica ad un governo di intesa nazionale senza Assad. Venne pertanto convenuta una roadmap, in vista: della creazione di un governo transitorio ampiamente inclusivo, dotato di tutti i poteri; dell’avvio di un processo di dialogo nazionale inclusivo e costituente, sotto l’egida dell’ONU; dell’avvio di una revisione della Costituzione da sottoporre a referendum, dell’indizione di elezioni pluraliste. Tale metodo garantirebbe la continuitŕ delle istituzioni statali ed il perseguimento dei criminali (principio di accountability).

 

Contrasto a DAESH (ISIS): ruolo della Coalizione internazionale

Il Vertice NATO di Newport (4-5 settembre 2014) registrava una notevole compattezza rispetto alla minaccia mediorientale rappresentata dall’espansione dell’ISIS in Iraq e Siria e condannava il ricorso alla violenza e i barbarici attacchi contro le popolazioni civili e le comunitŕ religiose. Minacciava il ricorso alla difesa collettiva se fosse minacciata la sicurezza di un alleato. Ribadiva il sostegno al processo politico iracheno.

Tuttavia, la formazione di una coalizione guidata dagli Stati Uniti e con la presenza di Regno Unito, Francia, Italia e di altri paesi, per giungere all’obiettivo di contrastare l’ISIS senza tuttavia l’utilizzazione di truppe di terra, coinvolgendo altresě i vari attori regionali, in primis la Turchia, č stata decisa a margine del vertice di Newport. Si č infatti tenuta una riunione ministeriale specifica per il contrasto a DAESH che ha coinvolto i Ministri degli esteri e della difesa di dieci Paesi tra cui anche l’Italia, il cui senso era quello di creare una rete di Paesi piů ampia anche al di fuori dell’Alleanza atlantica, a partire dai Paesi arabi e islamici, con una pluralitŕ di strumenti, non solo sul piano militare, ma anche sul versante dell’aiuto umanitario, del controllo dei flussi economici e finanziari, nella cornice delle Nazioni Unite.

Perseguendo un approccio multidimensionale, le principali linee di azione nelle quali si articola lo sforzo collettivo sono state meglio individuate successivamente, il 3 dicembre 2014, nel corso della riunione della coalizione anti-DAESH (composta da 61 Paesi), a margine della riunione ministeriale NATO; esse consistono in: contributo militare, contrasto al flusso dei foreign fighters, confronto sul terreno della narrativa jihadista, lotta alle fonti di finanziamento e assistenza umanitaria, rinnovo dell’impegno per l’Iraq.

L’ulteriore  ministeriale di Londra del 22 gennaio 2015 ha formalizzato la nascita di un gruppo ristretto della coalizione, cosiddetto Small Group, composto da 21 Paesi, tra cui l’Italia, sugli oltre sessanta che partecipano alla coalizione. Allo tale formazione ristretta, che si riunirŕ con regolaritŕ a livello tecnico e ministeriale, spetterŕ il compito di supervisione politica della strategia collettiva.

La seconda riunione ministeriale dello Small Group, svoltasi il 2 giugno 2015 a Parigi, ha confermato il sostegno al Primo Ministro iracheno al-Abadi, a cui č stato dato mandato di rafforzare gli sforzi a favore della riconciliazione nazionale; ha introdotto un approccio piů flessibile nell’utilizzo delle risorse e dei meccanismi della Coalizione per fronteggiare la crescente minaccia posta da gruppi affiliati a DAESH in altre aree come la Libia; ha adottato un documento di sintesi strategica della Coalizione, la Core Vision, che ne definisce le finalitŕ, la struttura e l’organizzazione.

Una successiva riunione (a livello Direttori Politici) dello Small Group, tenutasi a Québec City il 30 luglio 2015, ha consentito di affinare ulteriormente gli aspetti strategici e operativi legati alle linee d’azione lungo le quali si esplica la strategia comune.

Un appuntamento cruciale per la Coalizione č costituito dalla  riunione a livello di Capi di Stato e di Governo (“Leaders’ Summit on Countering ISIL and Violent Extremism"),  che si svolgerŕ il 29 settembre 2015 a margine dell’UNGA, su invito del Presidente Obama, con l’obiettivo di focalizzare le prioritŕ della comunitŕ internazionale nella lotta al terrorismo ed alla radicalizzazione.

 

Impegno italiano nella Coalizione anti-DAESH

L’Italia, che partecipa attivamente ai cinque gruppi di lavoro della Coalizione, articola i propri sforzi secondo le 5 linee d’azione concordate insieme agli altri partner:

1.   stabilizzazione: leadership nel coordinamento dell’addestramento delle forze di polizia irachene (ad opera dell’Arma dei Carabinieri) da dispiegare per la stabilizzazione nelle aree liberate dalla presenza di DAESH (con prioritŕ, nell’attuale fase, alla provincia dell’Anbar). Il primo contingente, composto di 10 unitŕ ha giŕ attivato il primo ciclo formativo a Baghdad. A regime (in autunno) saranno circa 110. Inoltre, la Cooperazione Italiana č operativa con progetti a favore dei gruppi maggiormente vulnerabili, nel settore sanitario, e nella tutela del patrimonio culturale. E’ stato creato un apposti Fondo dell’UNDP (Funding Facility for Immediate Stabilization), per mobilitare rapidamente risorse nelle aree liberate, cui l’Italia ha comunicato la sua intenzione di contribuire.

2.   contrasto al finanziamento del terrorismo: l’Italia co-presiede il relativo gruppo di lavoro. Durante la riunione inaugurale di Roma (19-20 marzo) sono stati delineati i settori principali di contrasto: sistema finanziario internazionale, sfruttamento delle risorse economiche; le risorse provenienti dall’esterno; flussi finanziari tra DAESH e suoi affiliati. Sono stati costituiti altresě sotto-gruppi con specifici compiti. Tra essi, quelli sul contrabbando di beni culturali ed archeologici, sui flussi finanziari tra DAESH e i suoi affiliati esterni e sul contrabbando di petrolio. L’Italia ha ottenuto la presidenza del sotto-gruppo sul commercio illegale di opere d’arte;

3.   impegno Militare: fornitura di armi e munizioni alle forze curde irachene; dispiegamento di assetti aerei; contingente di 280 addestratori, a regime, con ruolo di Lead Nation nell’addestramento ad Erbil da giugno 2015 a dicembre 2015 (al momento oltre 1200 peshmerga sono stati formati dal nostro contingente);

4.   contrasto ai foreign fighters: con l’ampio pacchetto di misure adottato dal Governo italiano (D.L. 7/2015)[49] nel campo della repressione, della prevenzione del reclutamento e del contrasto alla propaganda online.

5.   comunicazione strategica: azioni di outreach verso le organizzazioni islamiche italiane per un loro coinvolgimento nell’azione di contrasto ideologico a DAESH ad opera del Ministero dell’Interno ed una intensa attivitŕ diplomatica con le leadership dei Paesi arabi moderati.

 


Somalia: punto di situazione
(a cura del Centro Studi Internazionali - CESI)

di Marco Di Liddo

 

SETTEMBRE 2015

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Mappa della Tunisia. Elaborazione Ce.S.I.

La spinta ottimistica che, a cavallo tra la fine del 2012 e il 2014, aveva lasciato ben sperare per il futuro del Paese sembra essersi inevitabilmente esaurita, trascinando nuovamente il Governo Federale nell’incertezza politica e nell’instabilitŕ securitaria. 

Infatti, nel periodo in questione, l’elezione del Presidente Hassan Sheikh Mohamud, la prima democratica dall’inizio della guerra civile nel 1992, e le vittorie di AMISOM (African Union Mission in Somalia) a Kisimayo, Baidoa, Marca e in altri importanti centri urbani delle regioni centrali e meridionali del Paese, avevano costretto al-Shabaab (Ḥarakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn, Movimento dei Giovani Combattenti) ad una precipitosa ritirata e all’abbandono di una consistente porzione dei territori sotto il loro controllo. La rotta del gruppo jihadista, alimentata da crescenti tensioni interne e dall’abbandono di alcuni leader di lunga militanza quali Hassan Dahir Aweys, Hassan Abdullah Hersi al-Turki e Sheikh Atom, era stata cosě improvvisa e vasta da lasciar erroneamente presagire una imminente estinzione dell’insorgenza di matrice salafita. Probabilmente, il momento piů difficile per al-Shabaab č corrisposto all’uccisione sia del suo emiro Ahmed Abdi Godane (Mukhtar Abu Zubair), il comandante che aveva significativamente rafforzato i legami internazionali del gruppo, eliminato da un raid statunitense il 1 settembre 2014, che del comandante del dipartimento intelligence e sicurezza del movimento, l’influente Yusuf Dheeq, eliminato nel gennaio successivo.  

Tuttavia, ai successi militari, resi possibili soprattutto grazie al contributo delle truppe ugandesi, etiopi e keniote, nonché al crescente coinvolgimento di Washington nell’Operazione “Oceano Indiano”[50], non č seguita una adeguata strategia di riconciliazione tra le istituzioni e la popolazione. Le problematiche nel ricostruire il tessuto politico e sociale somalo č dovuta a due ordini di fattori.

Il primo, di natura sistemica, č legato alla tradizionale rivalitŕ e difficoltŕ di dialogo tra i diversi clan e sub-clan del Paese, che continuano ad obbedire a logiche familistiche e tribali piuttosto che a logiche politiche di respiro nazionale. Tale approccio rende estremamente influenti i consigli di villaggio, i potentati locali, le milizie e i loro comandanti, poco disposti a subordinarsi al Parlamento e al Governo di Mogadiscio. La frattura tra centro e periferia č ulteriormente acuita dall’origine stessa dell’attuale classe dirigente somala, perlopiů espressione della diaspora all’estero e, dunque, poco rappresentativa e legittimata dalla popolazione nazionale. Inoltre, occorre sottolineare come a contribuire alla scarsa governance e alla conflittualitŕ interna del Paese sono alcuni Stati della regione che, pur contribuendo ad AMISOM nel tentativo di stabilizzare la Somalia e neutralizzare la minaccia jihadista, perseguono i propri obbiettivi di politica estera. Nella fattispecie, Kenya ed Etiopia continuano a sostenere milizie, clan e signori della guerra con il fine ultimo di aumentare la propria influenza nel Paese.

In dettaglio, l’Etiopia punta, nel breve periodo alla costruzione di un cordone di sicurezza occidentale che renda quanto piů impermeabile possibile il confine al passaggio di miliziani di al-Shabaab e nel lungo periodo all’ascesa di un governo che garantisca l’accesso al mare alle imprese nazionali. Da par suo, il Kenya vorrebbe continuare a sostenere il progetto di rafforzamento dello Stato Federale dello Jubbaland, una regione che include le province meridionali somali e che, nel disegno di Nairobi, dovrebbe fungere sia da zona-cuscinetto per filtrare le incursioni di al-Shabaab sia da autentico protettorato keniota in Somalia. Infine, nella categoria delle problematiche sistemiche, bisogna ricordare l’estrema povertŕ in cui vessa il popolo somalo. Condizione, quest’ultima, che lo rende vulnerabile alla propaganda jihadista e che alimenta un profondo malcontento che, spesso, si manifesta in una profonda critica verso le istituzioni centrali.

Come se non bastasse, l’indigenza della popolazione potrebbe rappresentare, nel breve termine, la condizione di base per la resurrezione del fenomeno della pirateria nel Golfo di Aden. Infatti, gli elementi che avevano contribuito, a partire dal 2012, ad abbattere il numero di attacchi erano stati l’efficacia delle due missioni internazionali anti-pirateria, Ocean Shield della NATO e Atalanta dell’UE, e la decisione, da parte dei pirati, di investire e “godersi” gli altissimi proventi dei riscatti ricevuti nel corso degli anni. Tuttavia, l’esaurimento dei fondi e la difficoltŕ delle attivitŕ ittiche a causa del perdurare della pesca illegale a largo della Somalia potrebbero spingere le bande di pirati a riprendere gli attacchi su larga scala.  

Oltre ai fattori sistemici, il percorso di stabilizzazione somalo č reso impervio da fattori contingenti, quale il comportamento talvolta poco professionale dei militari di AMISOM, accusati di maltrattamenti e abusi verso la popolazione civile e percepiti, in alcune occasioni, come forze occupanti piuttosto che liberatrici.

Le criticitŕ del governo e la fase di stallo in cui č entrata AMISOM, penalizzata dal basso livello addestrativo del contingente e dalla mancanza di adeguati assetti di supporto aerei, hanno permesso ad al-Shabaab di riorganizzare i propri ranghi e riprendere una offensiva militare di ampio respiro. Le nuove manovre da parte del movimento jihadista si sono concretizzate attraverso due tradizionali direttrici operative: da una parte, l’utilizzo di attentati suicidi e assalti “mordi e fuggi” nelle cittŕ controllate dal Governo Federale e dalle sue Forze Armate; dall’altra, attacchi strutturati, effettuati da gruppi di fuoco numerosi, contro basi di AMISOM e villaggi contesi o scarsamente protetti. Nel primo caso, appare particolarmente indicativa la campagna di attentati che ha insanguinato Mogadiscio per tutto il 2015 e che ha avuto il suo apice nell’attacco dello scorso 21 settembre contro il Palazzo Presidenziale (4 morti e decine di feriti). Tuttavia, č nella seconda fattispecie che al-Shabaab ha fatto registrare un significativo incremento nelle attivitŕ. Tra queste, occorre ricordare l’attacco contro la base AMISOM di Janale (80 km a sud di Mogadiscio), avvenuto lo scorso 3 settembre, che ha causato la morte di 50 soldati ugandesi e la razzia di un ingente quantitativo di armi e munizioni. Inoltre, appaiono degne di nota le conquiste dei villaggi di el-Saliindi e Kuntuwarey, situati sulla strada tra la capitale e il porto di Barawe, ultimo rilevante avamposto costiero controllato da al-Shabaab. Tali acquisizioni territoriali hanno consolidato il controllo che il gruppo jihadista ancora ha su una larga porzione delle regioni centrali e meridionali della Somalia.

In ogni caso, oltre a favorevoli condizioni politico-militari, la ripresa dell’insurrezione jihadista risponde a logiche di equilibri interni. Infatti, dopo la morte dell’emiro Godane, il gruppo č stato attraversato da gravi contrasti tra fazioni per la sua successione. A prevalere č stata la fazione espressione del clan Diir, lo stesso dell’emiro uscente, fautrice della prosecuzione del legame con al-Qaeda, dell’afflusso di un notevole numero di foreign fighters[51] e dell’isolamento della vecchia ala pan-somala del movimento. Tale fazione, che predilige la centralitŕ della guida politica (Shura) rispetto a quella militare, ha permesso l’ascesa all’emirato del cugino di Godane, Ahmed Omar. La seconda fazione, riunita attorno all’Amniyaat (il reparto intelligence e “operazioni speciali” di al-Shabaab), guidata dal suo capo Mahad Karatey, intende aumentare il peso dell’ala militare del gruppo e riducendo al minimo l’influenza della Shura. Inoltre, Karatey vorrebbe denunciare l’alleanza con al-Qaeda e pronunciare il bayat (giuramento di fedeltŕ) nei confronti dello Stato Islamico, ritenuto un brand piů attraente e necessario per il definitivo rilancio del movimento jihadista africano orientale. In ogni caso, entrambe le fazioni concordano sulla natura maturamente transnazionale ormai assunta da al-Shabaab e sulla portata regionale della sua agenda. In questo senso, la Somalia continua ad essere uno dei fronti piů caldi per l’insurrezione jihadista, ma non il solo. Infatti, in prospettiva, il movimento terroristico sembra essere orientato all’espansione delle proprie attivitŕ in Kenya e nella regione dei Laghi.

Dunque, alla luce della rivalitŕ tra Ahmed Omar e Mahad Karatey, la recente ondata di attentati e attacchi potrebbe essere interpretata come il tentativo della fazione oggi al potere di dimostrare la vitalitŕ e la pericolositŕ del gruppo nonostante le defezioni e l’uccisione di suoi membri di spicco, tenendo cosě a freno le correnti di opposizione.

In conclusione, la Somalia appare ben lungi da una situazione di stabilitŕ tale da permetterle di tornare a pieno titolo nei consessi internazionali che le competono. Infatti, al momento il Governo di Mogadiscio risulta ancora troppo debole per pretendere di imporre la propria autoritŕ su tutto il territorio. Inoltre, senza il contributo dell’Unione Africana, delle Nazioni Unite e dei partner occidentali, il Paese non sarebbe in grado di sopravvivere e tornerebbe in balia dell’insorgenza jihadista, con l’inevitabile compromissione dei timidi risultati sinora raggiunti.   

 

 


Schede Paese

 


Algeria
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

Algeria

 

Algeria

(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[52]

 

Dati

 

Superficie: 2.381.741  Kmq

Italia: 301.340 kmq

Popolazione: 39.542.166 (stima luglio 2015)

Italia: 61.680.122 (stima luglio 2014)

Capitale: Algeri

 

Forma di governo: Repubblica semipresidenziale

 

Capo di Stato: Abdelaziz Bouteflika (dal 28 aprile 1999)

 

Capo del Governo: Primo Ministro Abdelmalek Sellal (dal 28 aprile 2014)

 

Tasso di crescita: 4% (2014); 2,8% (2013)

Italia: -0,2%

Pil pro capite: 14.300 $ (2014); 14.000 (2013)

Italia: US$ 34.500 (2014)

Disoccupazione: 9,7% (2014); 9,8% (2013)

Italia: 12,5% (2014)

Debito pubblico: 7,5% del Pil (2014)

Italia: 134,1% (2014)

 

Cenni storici

L’Algeria fonda le proprie basi istituzionali sull’Accordo di Evian, che nel 1962 pose fine alla guerra d’indipendenza contro la Francia, iniziata nel 1954. Il conflitto provocň piů di 250.000 vittime e rappresentň anche il tramonto dell’esperienza coloniale di Parigi, all’epoca giŕ segnata dalle sconfitte nei territori dell’Indocina. La guerra d’indipendenza ha profondamente segnato la storia del paese non solo dal punto di vista dell’identitŕ nazionale, ma anche da quello istituzionale: da allora l’esercito formato dai ranghi del Front de Libération Nationale (Fln) ha acquisito un ruolo centrale nella vita come garante delle istituzioni repubblicane.

In questo contesto, negli anni Novanta l’Algeria č stata nuovamente teatro di violenze, scoppiate tra i movimenti di ispirazione islamica e l’esercito. Il tentativo di avviare un processo di democratizzazione si era arenato allorché il partito islamico del Front Islamique du Salut (Fis) vinse il primo turno delle elezioni politiche nel dicembre 1991, ponendo le basi per una vittoria al secondo turno. Di fronte a tale scenario, i militari misero in atto un colpo di stato, innescando una guerra civile che si protrasse per tutto il decennio e che causň quasi 200.000 vittime. Da allora il paese, con l’attuale presidente Bouteflika, ha intrapreso il cammino verso la normalizzazione, anche se gli strascichi del conflitto restano evidenti, e ha cercato di consolidare i rapporti con la comunitŕ internazionale.

A livello regionale sussistono numerosi fattori di instabilitŕ. Su tutti, i rapporti con il Marocco: le frontiere tra i due paesi sono chiuse dal 1994 e gli scambi diplomatici, in questi ultimi anni, non hanno prodotto alcun accordo circa il contenzioso sull’indipendenza dei Sahrawi, nonostante vi siano stati negli ultimi anni dei tentativi di riavvicinamento tra i due paesi. Il motivo del contenzioso č il sostegno dell’Algeria al popolo del Sahara occidentale, rappresentato dal Fronte Polisario (dall’abbreviazione spagnola di Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro).

 

Quadro istituzionale

La Repubblica Democratica Popolare di Algeria č una repubblica semipresidenziale. Il Presidente viene eletto a suffragio universale diretto ogni cinque anni a maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio. Una modifica costituzionale del 2008 ha abolito il limite di mandati presidenziali. Il Presidente nomina il primo ministro che deve avere la fiducia del Parlamento. L'Algeria ha una struttura parlamentare bicamerale asimmetrica. L'Assemblea popolare, Camera bassa, č composta di 462 membri eletti a suffragio universale diretto per un mandato di cinque anni. La camera alta, denominata Consiglio delle Nazioni (Majlis al-Oumma) č invece formata da 144 seggi, un terzo dei quali viene designato dal Presidente della Repubblica e i rimanenti due terzi vengono eletti con un procedimento indiretto, per un mandato di sei anni. Il Consiglio delle Nazioni viene rinnovato per metŕ ogni tre anni.


Politica interna

Le recenti voci sulle cattive condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, eletto per il suo quarto mandato consecutivo nel 2014, hanno riacceso il dibattito sulla successione all'anziano leader, anche se non si avverte un consenso diffuso attorno al nome di un possibile successore. Il leader del partito di governo č Ahmed Ouyahia, capo dello staff del presidente, il quale ha ammesso che Bouteflika č malato ma ha affermato che č ancora in grado di svolgere le sue funzioni presidenziali. Egli risponde cosě alle pressioni esercitate dalle opposizioni che vorrebbero una transizione controllata.

Un gruppo di forze di opposizione guidato dall'ex primo ministro e candidato presidente Ali Benflis ha formato la campagna per il Coordinamento nazionale per le libertŕ e la transizione democratica, mentre il Fronte delle forze socialiste, un'altra forza di opposizione, ha convocato una Conferenza per costruire un consenso attorno al tema del cambiamento di regime. Il quadro dell'opposizione appare perň diviso e non in grado attualmente di determinare un cambiamento di regime, mentre il regime gestisce dall'interno i possibili cambiamenti.

Si respira dunque un clima di incertezza attorno al futuro del paese e al dopo Bouteflika. Recentemente č stata avanzata la candidatura come possibile successore di Bouteflika anche del fratello Said, professore universitario e consigliere del presidente, ma la scelta non appare sostenuta dal consenso popolare. Dopo 16 anni consecutivi al potere, molti algerini sembrano stanchi del regime di Bouteflika e se suo fratello prendesse le redini del potere si rafforzerebbe questo sentimento di malcontento.

Con l'elezione a leader del partito Rassemblement National Populaire (RNP), Ouyahia sembra aver costruito le condizioni per essere candidato alle elezioni presidenziali. Dopo avere perso la posizione di primo ministro nel 2012 la sua figura č riemersa al centro del panorama politico con la nomina a capo dello staff del presidente nel 2014. Negli ultimi mesi Ouyahia č stato molto visibile sulla scena pubblica, richiamando all'unitŕ il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), il partito di governo, nei confronti delle richieste di cambiamento delle opposizioni. Ha anche difeso il capo dell'esercito Gaid Salah che aveva ricevuto delle critiche per aver interferito nella vita dei partiti politici. In vista di una candidatura presidenziale, Ouyahia potrebbe scontare nei confronti dell'opinione pubblica la sua lunga permanenza al potere, essendo stato Primo Ministro 3 volte dal 1995. Inoltre sta emergendo una contrapposizione con il Segretario generale del FLN Amar Saadani che ha criticato l'idea del fronte unico a sostegno di Bouteflika.

Lo stesso Saadani potrebbe essere un candidato alla presidenza anche se la sua figura appare divisiva. Anche l'attuale Primo Ministro Abdelmalek Sellal č stato considerato come possibile candidato presidenziale e, dopo avere avuto un profilo indipendente, negli ultimi tempi si č avvicinato al FLN e alle elite del partito. Un altro possibile successore č Lakhdar Brahimi, che č stato inviato dell'Onu e della Lega Araba in Siria fino al 2014, anche se l'etŕ, 81 anni (3 anni piů anziano di Bouteflika), non gioca a suo favore. Altro candidato possibile, ma con minori possibilitŕ di riuscita, č Liamine Zeroual, giŕ presidente negli anni 90'. Tra gli oppositori si sono intensificate le critiche al regime di Ali Benfils, che ha corso per le presidenziali nel 2004 e nel 2014.

In generale si assiste a una situazione politica di incertezza riguardo alla transizione del paese, dovuta anche all'assenza del presidente dalla vita pubblica, che non consente ai cittadini e al mondo economico e sociale di avere indicazioni chiare sul futuro del paese. Questo impedisce anche di attirare investimenti stranieri. Il malcontento popolare si nota soprattutto tra le giovani generazioni che appaiono disilluse verso un sistema politico percepito come sclerotico e incapace di rispondere alla domanda di lavoro e di piů alti livelli di vita. Secondo gli osservatori questi fattori, uniti alle divisioni che emergono all'interno del regime, potrebbero portare a una destabilizzazione dell'Algeria. All'inizio di agosto, Bouteflika ha proceduto a un rimpasto governativo, il secondo dall'inizio dell'anno e il terzo da maggio 2014. Si č trattato di un rimpasto tutto interno al sistema ed ha interessato i ministeri del commercio, dell'agricoltura e della gioventů e lo sport: il mutamento operato non sembra destinato a cambiare significativamente la politica del governo, né d'altra parte č tale da mutare la percezione dell’esecutivo da parte della popolazione algerina.

In ambito regionale, gli eventi in corso nei Paesi confinanti hanno riacutizzato in Algeria il timore per il deteriorarsi della sicurezza, a causa delle pressioni esterne provenienti dalla Libia, dai Paesi saheliani e in parte anche dalla Tunisia (soprattutto nelle zone di confine con Algeria e Libia). Le cellule terroristiche presenti nel Paese continuano ad attaccare i militari con preoccupante continuitŕ. L’ultimo episodio risale al 18 luglio 2015, durante le festivitŕ dell’Eid: 9 militari sarebbero caduti nella regione di Ain Delfa.

Sullo sfondo, i problemi socio-economici che l’Algeria affronta da tempo: inflazione; disoccupazione giovanile (superiore al 28%); scarsa diversificazione dell’economia e forte dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, il cui prezzo continua a calare. Le misure economiche cui tradizionalmente il governo ha ricorso – sussidi, finanziamenti a fondo perduto, assunzione nelle pubbliche imprese o amministrazioni – potrebbero dimostrarsi insostenibili nel medio e lungo periodo. Inoltre, all’inizio del 2015 si sono registrate una serie di démarches avanzate dalle forze di opposizione, come quella improvvisata ad Algeri del 14 febbraio, guidata dal coordinamento che raggruppa la maggioranza delle opposizioni, la CNLTD (Coordination Nationale pour les libertés et la transition démocratique). La marcia č stata organizzata a seguito del rifiuto delle Autoritŕ di autorizzare lo svolgimento di una conferenza sulle “condizioni per la trasparenza delle elezioni”, preparata dalla stessa CNLTD.

Politica estera

Prioritŕ della politica estera algerina č il mantenimento di relazioni costruttive con l'Unione europea, regione che č la principale destinazione del gas esportato dal paese. Sono cordiali le relazioni con gli Stati Uniti che si basano soprattutto sulla lotta all'estremismo islamico e sulla tutela degli interessi americani nei settori del petrolio e del gas.  Il timore che un nuovo fronte di radicalismo islamico, rinfocolato dalla crisi libica, dalla disfatta dei fratelli musulmani in Egitto e dall'avanzata di Daesh in Siria e Iraq, possa diffondersi anche nel Nord Africa determina una concentrazione della politica estera algerina sul contrasto al jihadismo che rischia di destabilizzare il paese. Ciň sta determinando una tendenza al rafforzamento della cooperazione regionale e all'aumento delle spese per la sicurezza.

L’Algeria, che aveva mostrato scarse affinitŕ politiche con le nuove leadership emerse dalla Primavera Araba, si confronta adesso con le evoluzioni in corso in Egitto e Tunisia. Rispetto all’Egitto, le reazioni ufficiali del Governo di Algeri alla caduta di Morsi sono state improntate alla cautela e al consueto principio di non ingerenza. Piů veementi i commenti di alcuni partiti di opposizione, che hanno accusato le forze armate dei paesi arabi di complicitŕ con le “élites laiche estremiste”. Gran parte dell’opinione pubblica ha accolto con sollievo l’intervento dell’esercito egiziano, considerandolo necessario per arginare un Islam politico percepito come aggressivo e inconciliabile con le istanze di moderazione.

Sicurezza, controllo delle frontiere e contrasto al terrorismo sono al centro di un’intensa cooperazione con la Tunisia, soprattutto dopo il gravissimo attacco terroristico sferrato al confine tra i due paesi il 17 luglio 2014 dalla brigata Okba Ibn Nafaa, legata ad Ansar Al Sharia, in cui sono morti 14 militari tunisini e feriti altri 23.

Dopo una ripresa dei contatti col Marocco e l’avvio di cooperazioni settoriali nel 2012, sono riemerse le incomprensioni di fondo che ostacolano il processo di normalizzazione bilaterale, la riapertura della frontiera comune (chiusa dal 1994) e l’integrazione regionale in ambito UMA (Unione del Maghreb arabo, tra Libia, Tunisia, Algeria,Marocco e Mauritania). La posizione di Algeri sulla questione del Sahara Occidentale – che continua a rappresentare un elemento di grande frizione tra i due Paesi – č immutata: l’Algeria non si considera parte in causa nella questione del Sahara Occidentale, ultimo caso di decolonizzazione dell’Africa, la cui soluzione deve rinvenirsi nel quadro negoziale ONU, attraverso il principio dell’autodeterminazione  per i saharawi, da esercitarsi attraverso un referendum che includa l’opzione dell’indipendenza. Ma per Algeri le difficoltŕ nel rapporto con Rabat sono piů ampie, con rivalitŕ risalenti al periodo coloniale e che oggi investono anche l’asserita scarsa diligenza della dirigenza marocchina nel controllare i flussi di traffici illegali (persone, droga e armi) in direzione dell’Algeria (ciň che motiverebbe la chiusura della frontiera terrestre).

La situazione in Libia č fonte di estrema preoccupazione per Algeri, soprattutto in termini di ricadute sulla stabilitŕ e sicurezza interna e dell’intera regione. Nella convinzione che debba essere perseguita solo la via di una soluzione negoziale, l’Algeria guarda con preoccupazione al sostegno (incoraggiamento politico verso posizioni oltranziste, rifornimenti di armi e, a fortiori, raid o interventi militari) offerto o promesso da alcuni partner regionali a questa o quella parte libica. Con l’obiettivo di facilitare il dialogo, l’Algeria ha pertanto avviato consultazioni con esponenti di entrambi gli schieramenti.

Sul dossier siriano, la linea seguita da Algeri č stata di favorire una soluzione pacifica e consensuale che ponesse fine allo spargimento di sangue e rispondesse alle legittime aspirazioni di libertŕ, democrazia e buon governo, preservando l’unitŕ, la stabilitŕ e la sovranitŕ della Siria da ogni ingerenza esterna. I piů recenti e drammatici sviluppi legati all’avanzata dell’ISIS preoccupano ovviamente Algeri, anche per la possibile presenza di combattenti algerini in Siria e Iraq.

Sulla questione palestinese l’Algeria, pur non riuscendo a recuperare il ruolo politico di riferimento svolto negli anni ‘70, mantiene una posizione radicale nei confronti di Israele, con cui rifiuta di stabilire relazioni diplomatiche. Crescente č l’intesa, sui piani sia economico che politico e militare, col Sud Africa. La visita dello scorso aprile del Presidente Zuma ha confermato la convergenza tra due Stati che, per il loro potenziale economico, diplomatico e militare, ambiscono ad un ruolo di leader regionali, espandendo la loro influenza sui due poli opposti del continente africano.

Bouteflika ha mantenuto un rapporto di consonanza politica con Cuba, Venezuela e Cina e impresso nuovo slancio alle relazioni con Teheran, considerata un partner strategico a livello regionale. Algeri manifesta simpatia per le posizioni iraniane sul nucleare e sul principio del diritto allo sviluppo di programmi nazionali di nucleare civile; ha interesse all’avvio di collaborazioni nei settori spaziale, petrolchimico, ambientale e industriale.

I rapporti UE-Algeria sono disciplinati dall’Accordo di Associazione, in vigore dal 2005, che prevede sia una collaborazione nei settori economico (inclusa l’istituzione di un’area di libero scambio), sociale, scientifico, culturale e migratorio, sia un dialogo politico in tema di democrazia, diritti umani, sicurezza e lotta al terrorismo. Per l’UE l’Algeria dovrebbe essere un mercato di sbocco, un fornitore affidabile di energia e un garante della sicurezza delle frontiere. Dopo una fase di freddezza e di frizioni commerciali - seguita alla decisione, presa da Algeri nel 2010, di sospendere unilateralmente il programma di smantellamento tariffario previsto dall’Accordo di Associazione - si sta ora registrando un complessivo rilancio delle relazioni bilaterali.

 

Economia

La forte dipendenza che l'economia algerina ha dal settore degli idrocarburi pone serie sfide a medio e lungo termine, anche a causa della volatilitŕ del prezzo del petrolio. Il governo intende promuovere gradualmente la diversificazione dell'economia, favorendo settori produttivi quali il farmaceutico, l'automobilistico e l'acciaio. Il settore privato č ancora ridotto e lo stato continua a supportare l'industria per assicurare livelli congrui di lavoro e produzione.

Il piano di diversificazione dell'economia nazionale avviato dal Presidente nel 2011 promuove la riduzione dell'import di materie prime quali il cemento, il ferro e l'acciaio. A tal fine, il governo ha annunciato un progetto di espansione della produzione siderurgica che dovrebbe risultare nella creazione di un hub mediterraneo dell'acciaio per tutta l'Africa.

La costruzione di strade, ferrovie e infrastrutture energetiche, necessaria per promuovere la diversificazione, č un obiettivo del governo anche se č rallentata dai vincoli finanziari e amministrativi. Assicurare il fabbisogno energetico č un'altra prioritŕ, al fine bilanciare l'alto livello di esportazione con la crescente domanda interna di energia.

La riduzione del prezzo del petrolio ha determinato una diminuzione della crescita economica che nel 2015 č prevista attestarsi attorno al 2,6%. Negli anni successivi la crescita dovrebbe tornare a crescere attorno a una media del 3,4%, un livello ritenuto ancora troppo basso in relazione alla grande ricchezza naturale e di materie prime del paese.

La politica fiscale resta espansiva, con investimenti pubblici, aumenti salariali per i dipendenti statali e misure di sostegno ai consumi; quella monetaria č mirata al controllo dell’eccesso di liquiditŕ e dei rischi inflazionistici (insiti anche negli aumenti salariali). L’inflazione č scesa dall’8,9% del 2012 al 4,5% del 2013.

Le privatizzazioni, timidamente avviate nei primi anni 2000, sono state sospese a partire dal 2008. L’imprenditoria privata, con rare eccezioni, si presenta polverizzata. Il suo sviluppo č frenato dalla difficoltŕ di accesso al credito, dall’incertezza del quadro normativo e dalle lentezze burocratiche: aspetti che si riflettono nel basso posizionamento dell’Algeria nelle classifiche della Banca Mondiale per “Doing business” (153° posto su 189 paesi, classifica 2013) e “libertŕ economica” (164° su 189).

La debolezza del sistema produttivo rende la popolazione dipendente dalle importazioni anche per il soddisfacimento dei bisogni alimentari. La scarsa produttivitŕ determina salari bassi e tensioni sociali, aggravate a loro volta dall’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, in un Paese in cui il 45% degli abitanti ha meno di 24 anni.

 

Rapporti bilaterali

Per l’Italia č di prioritaria importanza assicurare un sostegno adeguato alla stabilitŕ dell’Algeria, contribuendo anche sul piano economico al progressivo sviluppo e alla liberalizzazione e modernizzazione del Paese. La convergenza di vedute sulle principali tematiche di politica internazionale, cosě come nel contrasto al terrorismo e all’immigrazione illegale, sono state sancite dalla firma nel 2003 del Trattato di Amicizia, Cooperazione e Buon Vicinato, che prevede la realizzazione di consultazioni annuali, alternativamente in Italia e Algeria, al piů alto livello politico ed istituzionale. Nel quadro delle previsioni del Trattato, si sono svolti tre Vertici bilaterali: il 14 novembre 2007 ad Alghero, il 14 novembre 2012 ad Algeri e il 27 maggio 2015 a Roma.

In particolare l’ultimo vertice bilaterale ha contribuito a un ulteriore rafforzamento dei legami tra i due Paesi, grazie alla presenza di una qualificata delegazione algerina (Primo Ministro, Ministro degli Affari Maghrebini, Ministro dell’Industria, Ministro dell’Energia), accolta dal Presidente del Consiglio, dal Ministro degli Esteri, dal Ministro dei Trasporti e dal Ministro dello Sviluppo Economico. Il vertice č stato anche l’occasione per l’adozione di una Dichiarazione finale e per la firma di 10 tra accordi e intese, nei campi piů diversificati.

Secondo i dati ISTAT, nel 2014 l’interscambio commerciale tra Italia e Algeria č ammontato a 8,149 miliardi di euro, con una contrazione annua del 22,7%. Le esportazioni italiane sono state pari a 4,316 miliardi di euro (+1,2%), le importazioni a 3,833 miliardi di euro (-38,9%): il saldo positivo per la nostra bilancia commerciale č stato di 483 milioni di euro (nel 2013 la nostra bilancia aveva registrato un deficit di 2,007 miliardi di euro). L’anno scorso, i macchinari hanno costituito il 26,6% delle esportazioni italiane, seguiti da “ghisa, ferro e acciaio” (18,1%) e dai combustibili (9,2%). Nel 2014, i carburanti hanno rappresentato il 96,9% delle importazioni italiane dall’Algeria.

 

 


Marocco
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) [53]

 

 

File:Flag of Morocco.svg

 

 

 

Dati

 

Superficie: 446.550 kmq

Italia: 301.340 kmq

Popolazione: 32.987.206 (luglio 2014)

Italia: 61.680.122 (stima luglio 2014)

Capitale: Rabat

 

Forma di Governo: Monarchia costituzionale

 

Capo dello Stato: Re Mohammed VI (dal 30 luglio 1999)

 

Capo del governo: Abdelillah Benkirane (dal 29 novembre 2011)

 

Tasso di crescita: 3,5% (2014); 4,4% (2013)

Italia: -0,2% (2014)

Pil pro capite: 7.700 US$ (2014); 7.500 US$ (2013)

Italia: US$ 34.500 (2014)

Disoccupazione: 9,6% (2014); 9,2% (2013)

Italia: 12,5% (2014)

Debito pubblico (% del PIL): 76,6% (2014)

Italia: 134,1% (2014)

 

Cenni storici

Paese di antichissimo insediamento (testimoniato da importanti reperti del paleolitico e neolitico) il Marocco venne successivamente a contatto con Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi, Turchi, Francesi e Spagnoli, e altri popoli ancora. L’invasione o il contatto con questi popoli non ha perň turbato le caratteristiche proprie della preesistente etnia berbera, la cui origine risalirebbe alla civiltŕ caspiana: di esse sopravvivono tuttora la lingua, articolata in numerosi dialetti, la tradizione, i costumi, le superstizioni, un’arte che si estrinseca nella decorazione geometrica dei tappeti, del vasellame e della manifattura di oggetti in argento. E’ tuttavia incontestabile che l’occupazione araba abbia profondamente influenzato la societŕ berbera che, dopo molte resistenze, sanguinose rivolte  e apostasie, ha finito con l’accettare l’Islam. Veicolo della religione musulmana fu, nei secoli,  la lingua araba che, a spese delle lingue berbere, si diffuse dalle pianure alle montagne, dove le popolazioni sono diventate bilingui. Una ulteriore metamorfosi della realtŕ berbera si ebbe durante il periodo coloniale, con l’arabizzazione dei montanari scesi verso le pianure, valorizzate dall’agricoltura europea, e verso le cittŕ, in cerca di lavoro. Il diretto contatto con francesi e spagnoli ha profondamente influenzato le popolazioni marocchine, specie quelle urbane. Infine non bisogna dimenticare l’apporto dell’elemento israelita: oltre al nucleo formatosi in loco fin dai primi secoli dell’era cristiana, per giudaizzazione dei berberi, si devono comprendere gli ebrei delle grandi cittŕ discendenti dalle comunitŕ ebraiche espulse dalla Spagna fra il 15° e il 17° secolo, e quelli delle tribů montane discendenti dagli antichi immigrati della Palestina e della Cirenaica.

Storicamente, dinastie regnanti berbere e arabe si sono alternate alla guida del Marocco, la cui influenza e prosperitŕ č testimoniata dalle antiche cittŕ imperiali (Fez, Marrakesh, Rabat). In epoca coloniale il Marocco fu oggetto e teatro di contese fra Spagna e Francia. Nel 1912 il Marocco diviene protettorato francese, ma al Sovrano, appartenente alla dinastia Filali (dinastia ancor oggi regnante dal 1654, che vanta una discendenza dal Profeta),  venne  concesso di mantenere la sua carica, sia pure con funzioni puramente rappresentative. Negli anni venti, tuttavia,  si rafforza il sentimento nazionalista marocchino, che sfocia in una ribellione berbera, repressa nel 1926 dai francesi. Nascono quindi i primi movimenti nazionalisti, che danno vita all’Istiqlal (partito dell’Indipendenza), cui diede voce il sovrano Mohammed V. Dopo un lungo periodo di instabilitŕ e un fallito tentativo francese di esiliare il sovrano, nel 1956 venne proclamata l’indipendenza e Mohammed V assunse il titolo di re del Marocco nel 1956. Alla sua morte, nel 1962, salě al trono il figlio Hassam II, che indisse le prime elezioni democratiche nel paese nel 1963. Tuttavia il lungo regno di Hassam II si caratterizzň in termini autoritari: sospesa la costituzione nel 1965, ebbe inizio un periodo di dura repressione di tutte le opposizioni interne. Al principio degli anni settanta, dopo due falliti colpi di stato militari, ebbe luogo, con la “marcia verde”, l’occupazione militare dei 2/3 del territorio del Sahara occidentale (ex Sahara Spagnolo), nel frattempo abbandonato dagli spagnoli. Nel 1994, anche a seguito di pressioni internazionali, Hassan II aprě al multipartitismo. Nel 1997 l’Unione Socialista delle Forze popolari vinse le elezioni e per la prima volta assume la guida del governo.

Succeduto nel 1999 al padre Hassan II, l'attuale sovrano Mohammed VI ha promosso una stagione di riconciliazione e riforme; vengono inaugurati nel 2004 i lavori della Commissione per l’Equitŕ e la Riconciliazione incaricata di fare luce sulle violazioni dei diritti umani sotto il lungo regno di Hassan II. Nel 2011 viene approvata la riforma della Costituzione, di cui si dirŕ appresso.

Quadro istituzionale

In base alla Costituzione del 1962, il Marocco č una monarchia costituzionale. Dal 1999 a capo dello Stato č Re Mohammed VI, alauita, che vanta lo status di sharif, ossia la discendenza dalla famiglia del Profeta. Tale prerogativa conferisce al sovrano i titoli di "difensore della fede" e "comandante dei fedeli", aggiungendo alla funzione politica quella di guida religiosa. Il sovrano detiene poteri politici molto ampi: nomina il Primo Ministro e gli altri ministri "di sovranitŕ" (Esteri, Interno, Giustizia e Affari islamici), comanda le forze armate (essendo il Paese privo di un Ministero della difesa). L'attuale Primo Ministro č Abdelillah Benkirane, Segretario generale del partito islamico moderato "Giustizia e Sviluppo", che nel novembre 2011 ha vinto le elezioni.

Il potere legislativo č affidato a un parlamento bicamerale formato dalla Camera dei Rappresentanti (Majlis al-Nuwab), composta da 325 deputati eletti a suffragio universale diretto per un mandato quinquennale, e dalla Camera dei Consiglieri (Majlis al-Mustasharin), composta da 270 consiglieri che vengono rinnovati per un terzo ogni tre anni attraverso elezioni indirette. La Costituzione del 1962 č stata emendata nel 1996 con l'introduzione del bicameralismo e, infine, nel 2011.

 

Primavera araba e nuova Costituzione

Alla primavera araba, che in Marocco ha avuto consistenza piů contenuta e pacifica che in altri paesi del Nord Africa, il Re Mohammed VI ha risposto con un programma di riforme e una nuova Costituzione - approvata il 1° luglio 2011 e confermata con referendum popolare - cui hanno fatto seguito elezioni anticipate. Il nuovo assetto costituzionale introduce elementi di riequilibrio tra i poteri del monarca e quelli del Primo Ministro e l'apertura a diversi diritti civili.

La nuova Costituzione prevede: il riconoscimento del berbero quale lingua ufficiale – accanto all’arabo; l’inviolabilitŕ - e non piů sacralitŕ - della persona del Re; la costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo e dei meccanismi di tutela; il potenziamento del potere esecutivo e della figura del Primo Ministro (designato dal Re all’interno del partito di maggioranza relativa alla Camera dei Rappresentanti, egli ha il potere di proporre i membri del suo Governo e di revocarne il mandato); il ruolo centrale del Parlamento (il Governo č responsabile esclusivamente nei confronti della Camera dei Rappresentanti e non piů anche nei confronti del Re); il rafforzamento dell’indipendenza del potere giudiziario; un piů marcato decentramento regionale (le regioni avranno per la prima volta organismi eletti a suffragio diretto); nuovi meccanismi di governance, con l’elevazione a rango costituzionale di una serie di organismi di controllo. Particolare attenzione č dedicata allo sviluppo sociale, anche nell'ottica della lotta al fondamentalismo.

Politica interna

Il Marocco continua ad avere una solida stabilitŕ politica. Il Re Maometto VI č la figura politica dominante e la guida spirituale del popolo (Amir Al-Muminim o Comandante della Fede). Sebbene i ruoli del Primo Ministro e del Parlamento siano stati rafforzati dalla nuova Costituzione del 2011, l'agenda politica continua a essere in larga misura condizionata dal sovrano e dai suoi consiglieri piů vicini. Il complesso sistema elettorale di tipo proporzionale tende a frammentare il quadro politico: attualmente in Parlamento sono rappresentati 18 partiti e il partito di governo "Partito della giustizia e dello sviluppo" (PJD) controlla solo 107 dei 395 seggi, una situazione che rende difficile portare a termine delle riforme.

Attualmente il PJD governa con una coalizione formata anche dai liberali e dal partito pro-monarchia Rassemblement national des indépendants.

Un’intensa stagione elettorale, a livello locale e nazionale, si č aperta per il Marocco con le elezioni dei rappresentanti a livello comunale e regionale, il 4 settembre 2015, e con quelle per le prefetture e province il 17 settembre 2015: in quest’ultimo caso, gli elettori sono i rappresentanti dei consigli comunali e regionali. Il 2 ottobre si voterŕ per la Camera dei Consiglieri (camera alta): i membri sono eletti con un suffragio indiretto e a votare saranno i consigli comunali, regionali e prefettizi e i rappresentanti di categoria (camere di commercio, sindacati). Si tratta delle prime consultazioni elettorali dall’entrata in vigore della nuova Costituzione e per la prima volta l’elezione dei Presidenti delle Regioni avverrŕ a suffragio diretto.

Il PJD ha vinto il 25,7% dei 678 seggi nei consigli regionali, un netto miglioramento rispetto al 5,5% dei seggi che deteneva in precedenza. Nei consigli municipali il Partito liberale Autenticitŕ e modernitŕ (PAM), uno dei principali rivali del PJD, con il 21,1% dei voti č risultato il primo partito, seguito dal Partito dell'IStqlal (16,2%) e dal PJD (15,9%).

La vittoria delle elezioni regionali rafforza il mandato del PJD in vista delle prossime elezioni della Camera bassa previste per il 2016, ma resta improbabile che il PJD possa avere da solo i voti necessari a governare.

Il PJD conserva un forte radicamento e la sua agenda sociale e conservatrice attira una consistente porzione dell'elettorato. Tuttavia, gli sforzi del Governo e dei partiti politici per incrementare la base elettorale non hanno ancora raggiunto i risultati sperati. Infatti, in base all’art. 4 della Legge 57/2011, i cittadini aventi diritto al voto sono tenuti a iscriversi nelle liste elettorali generali ma, secondo l’ultimo aggiornamento della lista generale (31 marzo 2014), il numero degli iscritti (oltre 13 milioni) č ancora al di sotto di quello effettivo degli aventi diritto al voto. Questo dato č sintomatico di un contesto caratterizzato da un diffusa sfiducia nei confronti di partiti politici, associazioni e sindacati da parte della popolazione: basti pensare che, secondo un recente sondaggio, circa l’80% dei marocchini ignora l’identitŕ dei propri rappresentanti locali. Negli ultimi anni il Marocco ha compiuto passi in avanti in materia di diritti civili e umani, anche se permangono alcune criticitŕ nella regione del Sahara Occidentale.

Il 6 febbraio 2015 il Consiglio dei Ministri ha approvato un progetto di decreto che dovrŕ essere esaminato dal Parlamento: si tratta di una Legge organica che doterebbe le regioni (il cui numero passerŕ dalle attuali 16 a 12) di maggiore autonomia e poteri. La portata di questo decreto dovrŕ essere inquadrata anche con riferimento alla questione del Sahara Occidentale e, in particolare, alla proposta marocchina di un piano di ampia autonomia per le regioni del Sud.

Sul piano della sicurezza il Paese si trova a fronteggiare, come gli altri Stati della regione, la crescente minaccia dell’estremismo, associata all’aumento dell’instabilitŕ nella fascia saheliana. Č in aumento la capacitŕ dei movimenti radicali di ramificarsi nella societŕ marocchina, anche attraverso le comunitŕ residenti all’estero. La politica proattiva adottata dal Regno negli ultimi mesi in questo settore ha consentito di smantellare diverse cellule di jihadisti create per il reclutamento di terroristi da impiegare nell’organizzazione dello “Stato Islamico” in Siria ed in Iraq.

 

Politica estera

Il Regno del Marocco ricopre da sempre un ruolo strategico nei traffici commerciali in entrata e in uscita dallo stretto di Gibilterra. Č in questo senso significativo che il Marocco abbia stipulato negli anni importanti partnership commerciali e oltre 50 accordi bilaterali di libero scambio, tanto con i paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, e in primis con l’Unione Europea, quanto con Stati Uniti, Turchia, altri paesi mediterranei come Tunisia, Egitto e Giordania, e piů di recente anche con Cina, Giappone e diverse altre economie latinoamericane, africane e dell’Europa dell’Est. Nella proiezione estera del paese convivono dunque sia la vocazione "europea" e la collaborazione con l'UE, sia la vocazione "africana, araba e mediterranea". Nella strategia africana del Marocco ha un ruolo centrale la dimensione economica e commerciale, con un’attenzione particolare alla penetrazione delle imprese marocchine in questi Paesi, mobilitando ingenti risorse anche grazie alla forte direzione statale nelle principali aziende del Regno. Questa azione viene accompagnata da una buona dose di retorica e definita come cooperazione “fraterna” e “solidale”, ma l’impatto che ha sulle societŕ degli stati africani interessati č limitato se si guarda agli ambiti della riduzione della povertŕ, dell’istruzione e della sanitŕ.

Le relazioni con l'Unione europea, che per il Marocco sono il principale mercato per il commercio, gli investimenti e il turismo, saranno rafforzate nel medio termine dalla firma di un Accordo globale di libero scambio. Non ci sono tempi precisi per la sua sottoscrizione definitiva, anche a causa di frizioni e rallentamenti legati a temi sensibili come migrazioni, sicurezza e diritti umani.

I paesi occidentali sostengono il Marocco come paese strategico nella lotta regionale al terrorismo e come porta di accesso all'Africa Subsahariana. Il Marocco sta assumendo un ruolo sempre piů marcato nella sicurezza regionale, per esempio contribuendo alla missione, a guida saudita, nello Yemen e ospitando i colloqui di pace sulla Libia, in uno sforzo di prevenzione dei fattori di instabilitŕ. D'altra parte questa sua crescente esposizione sulle questioni di sicurezza potrebbe anche attrarre gli attacchi dei gruppi estremisti. Il Marocco č uno dei principali fornitori di truppe per alcune missioni di peacekeeping ONU nel continente (MONUC e UNOCI). Rabat partecipa altresě a missioni di peacekeeping ONU in altre aree geografiche (Kosovo, Bosnia-Erzegovina) e, dal 2011, all’operazione NATO anti-terrorismo Active Endeavour.

Per quanto riguarda la situazione libica, la posizione di equidistanza dalle parti ha consentito a Rabat di guadagnare la fiducia di tutte le fazioni e di poter cosě ospitare i round negoziali a Shkirat nei pressi di Rabat. La costante presenza istituzionale alle varie sessioni che si sono succedute č testimonianza del costante impegno e della grande attenzione con cui le autoritŕ marocchine hanno seguito i negoziati. E' stato di recente anche ribadito l’impegno marocchino nel quadro della coalizione anti-Daesh. Il Marocco puň vantare una lunga esperienza di contrasto a movimenti di matrice qaedista e non sembra al momento direttamente esposto al pericolo dell’avanzata del Daesh. Tuttavia, tra i 1.500 ed i 2.000 c.d. foreign fighters di cittadinanza marocchina si troverebbero in Siria ed in Iraq per combattere tra le fila del movimento.

Uno strumento utilizzato dal Marocco nel contrasto al terrorismo č proprio quello legato all’ambito religioso e alla sua separazione dalle logiche terroriste. Il Regno ha messo in campo un’attivitŕ di aggiornamento e formazione degli Imam, volta a far sě che nelle moschee venga diffuso un messaggio dell’Islam quanto piů lontano dalla retorica degli integralisti. Tale attivitŕ viene veicolata attraverso l’istituto di formazione degli Imam Mohamed VI che accoglie anche Imam provenienti dall’estero.

Recentemente si segnala la creazione della Fondazione degli oulema africani, che ha l’obiettivo di coordinare le attivitŕ degli intellettuali di religione islamica e la promozione di un islam tollerante e moderato, in complementarietŕ con l’Istituto di formazione degli Imam.

Il Marocco vive i rapporti piů controversi dal punto di vista politico con alcuni dei suoi vicini, soprattutto con l’Algeria. I due paesi sono infatti divisi da una rivalitŕ storica, che nei decenni ha mantenuto lo stato delle relazioni bilaterali costantemente in tensione. Su queste pesano in maniera determinante tanto il sostegno algerino al Fronte Polisario (si veda paragrafo), quanto i contenziosi legati alla definizione territoriale del confine comune (chiuso dal 1994) e alla gestione dei flussi di immigrazione clandestina. Le tensioni tra i due stati hanno inoltre pregiudicato finora il coordinamento a livello regionale nell’attivitŕ antiterroristica, che sarebbe particolarmente necessaria in considerazione del carattere transfrontaliero del raggio di azione delle organizzazioni terroristiche attive nei territori marocchino e algerino, come quella di al-Qaida nel Maghreb (Aqim).

Sempre a livello regionale si registra qualche tensione con l’Egitto, a causa della salita al potere di Sisi e dell’estromissione dalla vita politica dei Fratelli Mussulmani, che non č stata accolta  favorevolmente dagli islamisti marocchini. Da ultimo la dura reazione del Parti Justice et Développement di fronte alla condanna a morte dell’ex Presidente Morsi ed esponenti dei Fratelli Mussulmani in Egitto.

 

Sahara occidentale e questione Sahrawi

Il Sahara occidentale č una regione che costeggia l’Oceano Atlantico, stretta tra il Marocco e la Mauritania, e abitata in prevalenza dal popolo Sahrawi. Dal 1976 la regione č contesa tra il Fronte Polisario (movimento rappresentante l’etnia saharawi, che ne rivendica l’indipendenza) e il Marocco, che lo controlla per l’80% della sua estensione. Il governo di Rabat considera il territorio come una propria regione, anche se ufficialmente nessun Paese ha riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco.

Dopo i violenti scontri tra le due parti, nel 1991 le Nazioni Unite hanno avviato la missione di pace, la MINURSO, il cui mandato viene rinnovato annualmente, con l’incarico di organizzare un referendum con cui far scegliere al popolo saharawi tra l’indipendenza o l’autonomia all’interno dello stato marocchino. Ad oggi il referendum non si č mai tenuto.

L’Inviato Personale per il Sahara Occidentale del Segretario Generale dell’ONU, l’Ambasciatore statunitense Ross, ha cercato fin dal gennaio 2009 di far ripartire il dialogo tra Marocco e Fronte Polisario attraverso colloqui informali, propedeutici alla convocazione di un vero e proprio round negoziale volto a definire il futuro status della regione. Gli incontri non hanno prodotto particolari risultati. Nel 2011 le Parti hanno analizzato per la prima volta assieme ai Paesi osservatori (Algeria e Mauritania), le rispettive proposte di soluzione del contenzioso (autonomia sotto sovranitŕ marocchina per Rabat; referendum con opzione dell’indipendenza per il Polisario). Ciň non ha tuttavia condotto all’avvio di una discussione “effettiva”.

I negoziati tra le parti sono ripresi recentemente, dopo un’interruzione di oltre 9 mesi a causa del rifiuto marocchino di consentire l’ingresso nel proprio territorio dell’Inviato personale del SG ONU Amb. Ross e dello SRSG e capo della MINURSO Kim Bolduc. Tale irrigidimento era seguito al rapporto MINURSO dell’aprile 2014 e al tentativo di allargare il mandato della Missione anche al monitoraggio dei diritti umani. L’impasse nell’interazione tra ONU e Marocco č stata sbloccata grazie ad un intervento del SG ONU direttamente su Re Mohammed VI, a fine gennaio. Il mandato della Missione MINURSO č stato rinnovato da ultimo, senza modifiche significative, il 28 aprile 2015 per un altro anno. Le autoritŕ marocchine hanno manifestato la loro soddisfazione sottolineando come la risoluzione rappresenti un risultato prezioso per il Regno, poiché definisce in modo chiaro le regole del processo politico e negoziale sul Sahara, riconoscendo al contempo gli sforzi del Marocco come “seri e credibili”.

L’Italia ha sempre mantenuto una posizione di equidistanza, ribadendo che solo il dialogo diretto tra Marocco e Fronte Polisario, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, puň definire una soluzione giusta e duratura che garantisca il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi. Nell’assenza di una posizione comune europea su questo dossier, il nostro Paese ha, a piů riprese, invitato Marocco e Polisario a mantenere un dialogo franco, aperto e senza precondizioni. Tenuto conto che la situazione umanitaria dei rifugiati saharawi č da molti anni oggetto di forte attenzione da parte della nostra opinione pubblica, il Governo italiano si č impegnato a mantenere il proprio sostegno annuale ai programmi dedicati alla realizzazione di scambi di visite tra familiari saharawi residenti nel Sahara Occidentale e nei campi profughi di Tindouf, in Algeria (dove si stima risiedano circa 120.000 rifugiati), separati da oltre 35 anni a causa del protrarsi del contenzioso.

Altrettanto rilevante č l’assistenza offerta con l’invio di beni alimentari e la realizzazione di programmi di emergenza e riabilitazione, per garantire migliori condizioni igienico-sanitarie nei campi saharawi e prevenire l’insorgere di malattie. L’Italia ha pertanto accordando annualmente un contributo complessivo pari a un milione di Euro, veicolato tramite le agenzie onusiane che ospitano le popolazioni nei campi di Tindouf. Contributo che č stato accordato anche per l’anno 2015.

Le agenzie onusiane hanno peraltro lanciato a piů riprese un allarme in merito alla situazione umanitaria nei campi, informando come ad oggi gli aiuti umanitari stanziati per il 2015 non permetteranno di assicurare forniture alimentari di base per i rifugiati sahrawi, a partire dal prossimo mese di settembre (c.d. breakdown umanitario). Ciň mentre aumentano le preoccupazioni sul fronte della sicurezza, a causa del deteriorarsi della situazione nel Sahel, in particolare nei pressi dei campi di Tindouf, sottoposti a una rafforzata sorveglianza da parte di miliziani saharawi ed esercito algerino. Dopo l’intervento militare internazionale in Mali, numerose sono state le segnalazioni di sconfinamenti di gruppi armati in fuga dal Paese saheliano in direzione dei campi saharawi dove, nell’ottobre 2011, venne sequestrata assieme a due colleghi spagnoli la cooperante italiana Rossella Urru.

Economia

Il quadro macroeconomico del Marocco č caratterizzato da rilevanti squilibri strutturali, dovuti sia all’eccessiva dipendenza dai mercati esteri (soprattutto per le risorse energetiche), che alla debolezza del settore primario (agricoltura e allevamento), alla scarsa diversificazione dell’industria nazionale (secondario) e alla insufficiente competitivitŕ del settore terziario (servizi).

Il Marocco soffre di una carenza di infrastrutture adeguate allo sviluppo del paese e i progetti di nuove opere sono rallentati da una burocrazia inefficiente, dal nepotismo e dalla corruzione. Gli investimenti restano vulnerabili ai tagli, data la continua esposizione del Marocco a fattori esterni quali il turismo e il prezzo delle materie prime. Altri fattori di debolezza dell'economia, secondo l'Economist Intelligence Unit, sono la burocrazia, la scarsa competitivitŕ della forza lavoro e la concentrazione del potere economico in poche mani.

Nonostante la lenta e fragile ripresa del continente europeo, che č il principale partner economico del Marocco, č atteso per il 2015 un tasso di crescita del 4,8%, il doppio rispetto al 2,4% del 2014. La crescita piů sostenuta del 2015 riflette l'aumento della produzione agricola, che ha avuto effetto sui consumi privati, e della produzione industriale. I forti legami con i paesi del Medio oriente e dell'Africa Subsahariana e la ripresa dell'Euro zona dovrebbero consentire tassi di crescita sostenuti anche negli anni prossimi. Rimane tuttavia la necessitŕ di realizzare riforme economiche che sviluppino l'occupazione e gli investimenti e aumentino la competitivitŕ del paese.

 

Rapporti bilaterali.

L’Italia ritiene di prioritaria importanza assicurare un adeguato sostegno alla stabilitŕ, al progressivo sviluppo e alla modernizzazione del Marocco, partner d’interesse strategico per la stabilitŕ e sicurezza nel Mediterraneo e nell’azione di contrasto al terrorismo internazionale, la criminalitŕ organizzata e l’immigrazione clandestina.

Il quadro di riferimento del rapporto bilaterale č il Protocollo sulle consultazioni politiche rafforzate firmato nel 2000, che prevede lo svolgimento di riunioni politiche a cadenza annuale, a livello di Ministri e/o Sottosegretari degli Affari Esteri dei due Paesi, alternativamente a Roma e a Rabat, sui principali temi bilaterali e di politica internazionale. Da ultimo, il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini si č recato in visita in Marocco dal 4 al 6 luglio, accompagnata da una delegazione di rappresentanti di otto universitŕ e centri di ricerca. Oltre agli incontri con il Ministro per l’insegnamento superiore, Daoudi, e il Ministro dell’Educazione Nazionale, Belmokhtar, č stata firmata una Dichiarazione Congiunta che individua otto assi prioritari di collaborazione con il mondo universitario e della ricerca marocchino.

L'interscambio commerciale Italia - Marocco si č attestato a fine 2014 alla cifra di 2,12 miliardi di euro, registrando una flessione del 3% rispetto al 2013, quando la somma dei flussi di merci tra i due Paesi era pari ad oltre 2,18 miliardi. In particolare, le esportazioni italiane verso il Paese nordafricano sono calate del 7,5 %, passando da 1,53 miliardi di euro del 2013 a 1,41 miliardi nel 2014. Le esportazioni marocchine verso l'Italia, invece, sono aumentate con una dinamica quasi speculare (+ 7,3 %), crescendo da 656 a 704 milioni di euro. Il saldo commerciale rimane quindi in favore dell'Italia (+ 710 milioni), pur registrando una diminuzione di 163 milioni rispetto al saldo 2013 (pari a 873 milioni).

In ambito UE siamo i terzi esportatori dopo Francia e Spagna, e i terzi importatori dopo Spagna e Francia. Su scala globale, invece, nel 2013 siamo stati il settimo fornitore (con una quota di mercato del 5,17%) e il sesto cliente del Marocco (con una quota del 5,1%). In questa fase storica di marcate difficoltŕ dei rapporti franco-marocchini, incrinatisi negli ultimi mesi a causa di reciproche incomprensioni soprattutto per questioni legate alla cooperazione giudiziaria fra i due Paesi, si potrebbero aprire per l’Italia nuove opportunitŕ, soprattutto sul fronte economico.

Particolarmente importante nei rapporti bilaterali la questione migratoria. La comunitŕ marocchina legalmente residente in Italia č la prima extra-UE in termini numerici, e la seconda in termini assoluti (580.000 unitŕ a fine 2014).  Si tratta di una comunitŕ caratterizzata da una forte componente di minori (poco meno di un terzo del totale), gran parte dei quali nati in Italia. Pur diffusa su tutto il territorio, la comunitŕ marocchina si concentra nelle aree industriali del Nord Italia (Lombardia in testa, cui fanno seguito l’Emilia Romagna, il Piemonte e il Veneto). Secondo rilevamenti dell’ICE, la comunitŕ imprenditoriale marocchina č la piů numerosa tra quelle straniere in Italia con oltre 57.000 aziende private, seguita da quella cinese e romena. Il Marocco figura al primo posto per numero di detenuti in Italia (circa il 20% del totale dei detenuti stranieri nel nostro Paese).

 

 


(…)

 


Tunisia
(a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)
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Dati

 

Superficie:  163.610 kmq

Italia: 301.340 kmq

Popolazione: 11.037.225  (stima luglio 2015)

Italia: 61.855.120 (stima luglio 2015)

Capitale: Tunisi

 

Forma di governo: repubblica semipresidenziale

 

Capo dello Stato: Presidente Beji CAID ESSEBSI (dal 31 dicembre 2014)

 

Capo del Governo: Primo Ministro Habib ESSID (dal 6 febbraio 2015)

 

Tasso di crescita: 2,8% (2014); 2,3% (2013)

Italia: -0,2% (2014); - 1,9% (2013)

Pil pro capite: US$ 11.400 (2014); 11.200 (2013)

Italia: US$ 34.500 (2014); 34.700 (2013)

Disoccupazione: 15.2% (2014); 15,8% (2013)

Italia: 12,5 (2014); 12,2% (2013)

 

Cenni storici

La Tunisia ottenne l'indipendenza nel 1956, alla fine dell'occupazione francese (1881-1956). Nel luglio del 1957 fu instaurata la repubblica, a capo della quale fu eletto Habib Bourguiba. Da allora la vita politica tunisina fu di fatto monopolizzata da quest’ultimo (rieletto nel 1964, nel 1974 e nel 1975 confermato presidente a vita) e dal suo partito (il Neo Destur, denominato dal 1964 Partito socialista desturiano), che garantirono stabilitŕ al paese, ma con profonde contraddizioni. A misure di tipo liberale, quali il riconoscimento delle libertŕ fondamentali del cittadino (sancite dalla Costituzione del giugno 1959), si oppose la realtŕ di un regime a partito unico e l’intolleranza verso qualsiasi forma di dissenso, nonché il consolidarsi di una prassi clientelare e di forme di nepotismo. La seconda metŕ degli anni 1970 fu segnata dall’emergere di gravi difficoltŕ economiche, con una lunga fase di aspre tensioni sociali e la costituzione di due formazioni di orientamento progressista, il Movimento per l’unitŕ popolare (MUP) e il Movimento dei democratici socialisti (MDS), che affiancarono il Partito comunista tunisino (PCT) nell’opposizione clandestina al regime.

In politica estera Bourguiba stabilě buoni rapporti con i paesi occidentali (ottenendo notevoli finanziamenti dagli USA) e, dalla metŕ degli anni Sessanta, anche con la Francia. Con i paesi arabi (la Tunisia era entrata a far parte della Lega araba nel 1958) i rapporti furono difficili negli anni Sessanta, a causa di un atteggiamento ritenuto troppo accondiscendente verso Israele, ma si fecero poi piů distesi. Negli anni Settanta vennero rinsaldati i rapporti con Algeria, Arabia Saudita e gli stati dell’Africa francofona.

Alla fine degli anni Settanta divennero evidenti i sintomi di un profondo malessere sociale, in parte alimentato dal fondamentalismo islamico. Scioperi e insurrezioni – la piů grave delle quali fu la rivolta del pane, degenerata in una vera e propria guerra civile nel 1984 – si moltiplicarono, provocando dure repressioni da parte del regime. Nel 1986 Bourguiba nominň il Generale Ben Ali ministro degli Interni per arginare la deriva fondamentalista del Mouvement de la tendance islamique (MTI) e l'anno successivo fu da lui destituito. Divenuto Primo Ministro, Ben Ali pose fine alle repressioni, introducendo il multipartitismo ed abolendo la Presidenza a vita. Nel 1989 Ben Ali divenne per la prima volta Presidente della Repubblica. Anche le presidenziali del marzo 1994 videro una vittoria plebiscitaria (99,9% dei voti) di Ben Ali. Malgrado la volontŕ di democratizzazione del Paese, il nuovo governo, bloccato dalle contraddizioni della societŕ tunisina, manifestň comunque un autoritarismo non molto dissimile da quello del precedente regime, fino a varare nel 1992 una legge assai restrittiva sui diritti d'associazione. Nel frattempo i rapporti internazionali videro un andamento alterno delle relazioni con gli Stati Uniti (peggiorate durante la guerra del Golfo) e il miglioramento di quelle con i Paesi vicini. Le elezioni dell'ottobre 1999, le prime multipartitiche, riconfermarono, con larghissimo consenso, il presidente Ben Ali per un terzo mandato. Nonostante la Costituzione limitasse la presidenza a tre mandati di governo di cinque anni ciascuno, nel settembre del 2001 Ben Ali veniva scelto come candidato alla presidenza e, attraverso l'approvazione di un referendum costituzionale che portava il limite dei mandati presidenziali da tre a cinque (2002), veniva riconfermato con una larghissima maggioranza nelle elezioni del 2004 e del 2009. Il regime assoluto del presidente Ben Ali doveva, perň, fare i conti con un malcontento sociale sempre piů crescente, culminato nelle rivolte di piazza della fine del 2010 e l'inizio del 2011 (la cosiddetta "Rivoluzione dei gelsomini"). L’inizio della rivolta viene simbolicamente fatto coincidere con il gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante che il 17 dicembre 2010 si č dato fuoco per protesta nella cittadina di Sidi Bouzid. La rivolta tunisina č stata all'origine di un'ondata di proteste che ha investito nel corso del 2011 numerosi paesi arabi (c.d. "Primavera araba").

A fronte della continuazione delle proteste e della decisione da parte dell’esercito di schierarsi dalla parte dei manifestanti, Ben Alě lasciň infine il potere nelle mani di un governo provvisorio composto perlopiů da esponenti dell’ex regime e guidato da Mohamed Ghannouchi. A causa delle contestazioni, quest’ultimo fu perň costretto a dimettersi; la carica di primo ministro del governo provvisorio passň quindi a Beji Caid Essebsi, che sciolse la polizia segreta e guidň il paese nei suoi primi passi verso la transizione democratica. In ottobre si svolsero le elezioni per l'Assemblea costituente, vinte dal partito islamista Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi. I partiti della coalizione di governo nominavano capo dello stato Moncef Marzouki e primo ministro Hamadi Jebali. Dimissionario dopo appena un anno, Jebali fu sostituito nel marzo 2013 dal compagno di partito Ali Larayedh. La crisi politica del 2013, aggravata dagli attacchi alle ambasciate francese e Usa e dagli scontri fra le forze dell'ordine e i salafiti, fu superata con l'approvazione quasi unanime di una nuova Costituzione (26 gennaio 2014) e la formazione di un nuovo governo tecnico guidato da Mehdi Jomaa. La nuova Costituzione č il frutto di un non facile compromesso tra le forze politiche rappresentate nell'Assemblea costituente e ha impresso un senso di svolta alla societŕ tunisina che si apre alle sfide della democrazia dopo decenni di autoritarismo. Sulla scia di tali cambiamenti il 1° dicembre 2014 Beji Caid Essebsi č diventato il primo presidente della Tunisia eletto democraticamente nella storia del paese.

 

Popolazione e societŕ

La Tunisia, con i suoi 10 milioni di abitanti, č il paese piů piccolo di tutta l’area maghrebina e il meno popoloso dopo la Libia. A differenza di quest’ultima, perň, la Tunisia risulta etnicamente molto omogenea, presentando scarse divisioni dal punto di vista tribale e religioso, elemento che ne rafforza la coesione interna. Circa il 98% della popolazione, č araba, mentre la minoranza berbera e quella ebrea rappresentano ciascuna l’1%. La composizione etnica si riflette a livello religioso: il 98% della popolazione professa la religione musulmana sunnita, mentre vi sono piccole minoranze cristiane e afferenti alla religione ebraica. Il tasso di crescita della popolazione risulta essere il piů basso di tutta l’area medio-oriente/nordafrica (MENA), come effetto di un tasso di feconditŕ minore rispetto agli altri paesi dell’area. La Tunisia ha anche una delle popolazioni piů urbanizzate di tutta la regione ed č interessata, sia in misura diretta che indiretta, dal fenomeno dell’emigrazione: migliaia di persone partono da qui per raggiungere l’Europa, di solito attraverso l’Italia. La Tunisia vanta livelli di istruzione elevati e un sistema educativo tra i piů efficienti della regione. Il tasso di alfabetizzazione č superiore a quello di molti altri paesi maghrebini e mediorientali, specie per quanto riguarda le fasce giovanili, e sono molti i tunisini che studiano in universitŕ estere. La spesa per l’istruzione della Tunisia, d’altra parte, č la piů alta di tutta la regione e una delle piů alte al mondo (oltre il 6,2% del PIL nel 2009; Italia 4,7% nello stesso anno). A differenza di molti altri paesi dell’area MENA, la Tunisia non ha nel proprio territorio una rilevante disponibilitŕ di risorse naturali. Il paese produce gran parte dell’energia consumata, ma le risorse da esportare sono esigue. Tale condizione ha fatto sě che, rispetto ad altri attori regionali, il sistema economico tunisino divenisse piů orientato al manifatturiero e al terziario e all'interscambio con i paesi europei.

 

Quadro istituzionale

Prima della Rivoluzione, la Tunisia era una repubblica presidenziale, con un parlamento bicamerale, con la Camera alta (dei consiglieri) a composizione mista, elettiva e di nomina presidenziale. A seguito della "Rivoluzione dei gelsomini" l'Assemblea Costituente, insediata nel 2011, ha approvato in via definitiva, il 26 gennaio 2014 la nuova Costituzione tunisina, che ha introdotto un modello semipresidenzialista corretto e un Parlamento monocamerale. Il Presidente č eletto a suffragio universale diretto a maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio; il mandato presidenziale č quinquennale e rinnovabile una sola volta. L'Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (ARP) si compone di 217 membri eletti a suffragio universale diretto con metodo proporzionale per un mandato quinquennale.

L'importanza della nuova Costituzione ha travalicato la dimensione nazionale tunisina e si č posta, in modo naturale, come esito e modello di una rivoluzione democratica condotta con metodo inclusivo in un paese arabo mediterraneo. All'atto della sua adozione, le scelte da essa compiute sono apparse un possibile laboratorio per il futuro dei paesi arabi. Da qui, forse, l'acutizzarsi della minaccia terroristica jihadista, che vede nel modello tunisino un elemento fortemente dissonante rispetto ai propri obiettivi strategici.

La condizione femminile era stata la prima vittima del conflitto in atto nel mondo arabo fra riformatori laici e estremisti islamici. In Tunisia invece, per la prima volta, la Costituzione di un paese arabo ha proclamato solennemente la paritŕ di diritti fra uomini e donne ("tutti i cittadini e le cittadine hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Sono uguali davanti alla legge senza alcuna discriminazione"). La formulazione ha dato ragione alle associazioni femministe tunisine che il 13 agosto 2012 erano scese in piazza per denunciare il tentativo messo in atto da Ennahda di introdurre nella Costituzione il concetto di "complementarietŕ" della donna rispetto all'uomo, anziché paritŕ.

La Sharia (la legge islamica) non č richiamata dalla Costituzione come fonte del diritto, e anche se l'Islam č riconosciuto come religione nazionale viene preservato il carattere laico dello Stato; infatti contemporaneamente la Costituzione tutela la libertŕ di religione e di culto. Il capitolo "Diritti e Libertŕ" afferma i principi della libertŕ di opinione, di espressione, di informazione, di creazione artistica, di associazione partitica, le libertŕ sindacali, l'accesso ai social network, il diritto alla riservatezza della corrispondenza e il diritto di essere immediatamente informati sui motivi della limitazione delle libertŕ personali.

L'assetto costituzionale dei poteri delinea un modello di semipresidenzialismo corretto a favore del premier; la preoccupazione maggiore, per evitare il ripetersi in futuro di derive autoritarie, č stata quella di un accurato bilanciamento dei poteri fra il capo del Governo (che detiene la sostanza del potere esecutivo) e il Presidente della Repubblica, che condivide con il capo del governo le prerogative in materia di Esteri e Difesa e svolge un importante ruolo di controbilanciamento dell'esecutivo. Al riguardo: č introdotto il meccanismo della sfiducia costruttiva, ma il Presidente della Repubblica puň sollecitare un voto di sfiducia svincolato dall'indicazione di un nuovo Premier; in caso di impedimento permanente del Capo del Governo, il successore viene indicato nuovamente dal partito/raggruppamento vincitore alle precedenti elezioni, ma il Capo dello Stato puň procedere motu proprio in caso di dimissioni o se č stata approvata la sfiducia da lui promossa (č significativa inoltre la previsione che il Presidente stesso decada qualora la sfiducia venisse respinta per due volte); č il Capo del Governo a subentrare ad interim al Presidente della Repubblica in caso di impedimento temporaneo, ma passati 60 giorni o in caso di impedimento permanente č il Presidente del Parlamento ad assumere la piů alta carica dello Stato ed a convocare nuove elezioni presidenziali. Inoltre, nonostante "la determinazione della politica generale dello Stato" sia riconosciuta al Capo del Governo, questi condivide con il Presidente della Repubblica le prerogative su Esteri e Difesa, il che rafforza l'interdipendenza fra le due cariche.

In tale esercizio di ricerca di un costante equilibrio tra Poteri, l'Assemblea dei Rappresentanti del popolo (ARP, il parlamento) e la magistratura hanno un ruolo non di secondo piano. Se infatti il Presidente della Repubblica puň prendere, in consultazione con altre Istituzioni, misure eccezionali "in caso di pericolo imminente per la Nazione o per la sicurezza", queste non possono prevedere lo scioglimento dell'ARP, la quale dopo trenta giorni puň chiedere alla Corte Costituzionale di verificare il permanere delle dette circostanze. Tali misure eccezionali presentano peraltro qualche margine di incertezza e si prestano a piů di un dubbio interpretativo; la formulazione del relativo articolato rappresenta perciň una zona grigia che occorrerŕ approfondire.

Qualche approssimazione č presente anche nel capitolo dedicato alle Istanze Costituzionali, cinque organi indipendenti (tra essi l'Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni, ISIE) chiamati ad operare per il "rafforzamento della democrazia".

Il diritto alla vita č definito "sacro". Come noto, infatti, il relativo articolo prevede limitazioni "in casi estremi previsti della legge", formulazione che conferma nei fatti la permanenza nell'ordinamento tunisino della pena di morte; 102 i deputati contrari all'emendamento che ne prevedeva l'abolizione (sui 167 presenti al voto). Peraltro la Tunisia aveva votato nel 2012 la Risoluzione ONU sulla moratoria.

 

Politica interna

Le piů recenti elezioni legislative e presidenziali, le prime dall'adozione della nuova Costituzione, hanno avuto luogo rispettivamente a ottobre e a novembre/dicembre del 2014. Le elezioni legislative sono state vinte dai laici di Nidaa Tounes (NT), che hanno ottenuto la maggioranza relativa con il 39% dei suffragi e 86 seggi all'ARP; la formazione islamica moderata Ennahda, che aveva vinto le elezioni per l'Assemblea costituente nel 2011, ha subito un significativo arretramento, ottenendo comunque il 32% dei suffragi e 69 seggi. Il partito di maggioranza, dunque, nonostante l'appoggio di altre due formazioni laiche minori, si č trovato a dover concludere un accordo informale con Ennahda per la formazione del nuovo Governo, insediatosi il 5 febbraio scorso e guidato da Habib Essid. Tra i ministri del nuovo esecutivo sette sono personalitŕ indipendenti. All'ordine del giorno dell'Assemblea figura l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura e della Corte Costituzionale. Le elezioni presidenziali sono state vinte da Béji Caďd Essebsi, leader di NT, dopo il ballottaggio con il Presidente ad interim Marzouki.

Fra i temi all'ordine del giorno si segnala un disegno di legge, fortemente voluto dal Presidente Essesbi, sulla riconciliazione nazionale in campo economico e finanziario che porrebbe fine ai procedimenti penali contro uomini d'affari accusati o condannati per corruzione. Il disegno di legge, fortemente avversato dalle opposizioni e dalla societŕ civile, che vi ravvisano un tradimento dello spirito della rivoluzione del 2011, č sostenuto dall'esecutivo in ragione dell'opportunitŕ di recuperare in tal modo ingenti risorse economiche in un periodo di crisi.

La vita politica della giovane e ancora fragile democrazia tunisina č peraltro tuttora dominata dalla crisi di sicurezza seguita ai gravi attacchi terroristici che hanno colpito il paese a marzo e giugno di quest'anno. Se dopo l'attentato al museo del Bardo, in cui hanno perso la vita 24 persone, l'orgogliosa reazione del paese aveva trovato espressione in una grande marcia internazionale contro il terrorismo, alla quale avevano preso parte , in segno di solidarietŕ, numerosi capi di Stato e di governo stranieri, all'indomani dell'attentato di Sousse, che ha colpito una delle piů popolari mete turistiche del paese e si č concluso con la morte di 38 persone, il Presidente Essesbi ha ammesso che la Tunisia non č in grado di farcela da sola, senza l'aiuto dei paesi amici. Una serie di misure urgenti sono state prese per fronteggiare la minaccia terroristica: la chiamata di circa 1000 riservisti, la chiusura di 80 moschee abusive, l'adozione di una nuova legge antiterrorismo che contiene la contestata previsione della pena di morte per i terroristi, e la dichiarazione dello stato di emergenza per tutto il paese, proclamato dal Presidente Essesbi il 5 luglio scorso e successivamente rinnovato fino alla fine di settembre. Al terrorismo si aggiunge il fenomeno dei foreign fighters tunisini, che si stima siano circa 3000 fra Siria e Iraq, di cui circa cinquecento sarebbero di recente rientrati nel Paese.

 

Particolare rilevanza riveste la nuova legge sul terrorismo presentata dal Governo il 26 marzo scorso e adottata dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo il 24 luglio, essendo l’iter di adozione stato rallentato dalle polemiche suscitate dalla previsione della pena di morte per crimini di terrorismo. Essa sostituisce la precedente legge del 2003,  specificando meglio la natura di atto terroristico e individuando nuovi profili di responsabilitŕ anche per chi sostiene i movimenti estremisti. Essa prevede la creazione di un nuovo quadro giuridico per l'utilizzo di "mezzi speciali di investigazione" (intercettazioni, infiltrazioni, ecc), nonché l’istituzione di una nuova specialitŕ giuridica dedicata al terrorismo e una commissione nazionale per la lotta al terrorismo, incaricata di controllare l’applicazione delle norme internazionali e proporre misure da adottare.

 

Sostegno UE e bilaterale nel contrasto al terrorismo

In occasione della visita a Bruxelles del PM tunisino Essid, il 27-28 maggio, il SEAE ha consegnato alle autoritŕ tunisine un Memorandum che delinea una serie di azioni urgenti da intraprendere nel campo del contrasto al terrorismo. Esso si struttura in due parti, la prima riguardante un rafforzamento della cooperazione tra UE e Tunisia in questo campo, attraverso riunioni periodiche ad alta frequenza e scambio di informazioni, la seconda focalizzata su nuovi progetti concreti per rafforzare le strutture tunisine di contrasto al terrorismo. Si tratterebbe in un primo tempo della messa a disposizione di esperti europei che potrebbero formare e affiancare i funzionari tunisini. Gli aspetti operativi delle proposte saranno curati dall’esperto sicurezza (francese) assegnato alla Delegazione a Tunisi.

Il sopracitato Memorandun si č andato ad aggiungere a un vasto programma, cui L’UE stava giŕ lavorando, di “security sector reform” da 23 milioni di euro (fondi ENI) la cui finalizzazione č stata accelerata dopo l’attentato di Sousse. Il programma si articola su tre componenti: rafforzamento delle strutture del Ministero dell’Interno, sicurezza delle frontiere (in cui l’Italia potrebbe avere un ruolo di primo piano) e assistenza tecnica ai servizi di intelligence in funzione di lotta al terrorismo.

Il Consiglio Affari Esteri del 20 luglio ha approvato delle Conclusioni sulla Tunisia,. Il testo rinnova la solidarietŕ dell’UE nei confronti della Tunisia a seguito degli eventi di Sousse e fa appello a un approfondimento del partenariato privilegiato tra l’Unione e la Tunisia. Il CAE sostiene l’iniziativa, proposta dall’Italia, di una conferenza internazionale sugli investimenti in Tunisia e sottolinea l’importanza dell’adesione tunisina al programma Horizon 2020 sulla ricerca. Nell'ambito del sostegno alla Tunisia per il CT e la sicurezza, il Consiglio sottolinea la risposta positiva delle Autoritŕ tunisine alle proposte contenute nel Memorandum UE su specifici progetti di CT trasmesso a fine maggio.

L’assistenza italiana in materia di contrasto al terrorismo emana in particolare dal processo verbale sottoscritto dai due Ministri dell’Interno nel 2011, in base al quale l’Italia ha realizzato un oneroso programma di assistenza tecnica, per un valore di oltre 138 milioni di euro. Esso ha comportato la cessione di 16 imbarcazioni (4 classe 700, 6 pattugliatori da 34 metri, 6 pattugliatori da 27 metri) per il potenziamento delle capacitŕ operative di pattugliamento marittimo delle competenti autoritŕ tunisine. Da ultimo sono stati forniti strumenti di visione notturna per il personale impiegato nelle aree montagnose prossime all’Algeria, nonché giubbotti antiproiettile.

 

Politica estera

Il governo insediatosi a febbraio ha assunto, in politica estera, un approccio maggiormente pragmatico del suo predecessore: se il governo guidato da Ennahda aveva assunto posizioni allineate con Ankara e Doha, e aveva interrotto dal 2011 le relazioni con la Siria di Assad, il nuovo governo ha invece comunicato di recente la volontŕ di ristabilire le relazioni diplomatiche con la Siria e con la Libia (dove in aggiunta alle relazioni con il governo di Tobruk, č stato aperto un consolato a Tripoli), con lo scopo tra l'altro di studiare le dinamiche di reclutamento di combattenti jihadisti in tali paesi. Per contro, le relazioni con la Turchia sono attualmente tese, anche a seguito delle dichiarazioni del ministro degli esteri tunisino che ha esortato Ankara ad assumere un atteggiamento di maggior rigore contro i flussi di jihadisti tunisini verso la Siria. Solida la cooperazione con Algeri nella lotta al terrorismo, avviata a partire dal 2013.

Il 10 luglio gli USA hanno annunciato l'attribuzione alla Tunisia dello status di major non-NATO ally, che comporta l'accesso privilegiato a programmi di formazione, forniture e finanziamenti.

Le relazioni tra la Tunisia e l'Unione europea sono articolate su diversi piani. In primo luogo, nell'ambito della Politica Europea di Vicinato (PEV), l'UE riconosce lo straordinario sforzo riformistico della Tunisia, che testimonia la validitŕ, almeno per il caso tunisino, dell'approccio del "more for more". A fronte di ciň, la Commissione ha assicurato che l'allocazione di fondi ENI (European Neighborhood Instrument) per il 2015 sarŕ almeno pari a quella del 2014 (200 milioni di euro), di cui 70 milioni sono giŕ stati sbloccati a fine maggio. In merito al rinnovamento della PEV, la Tunisia auspica una maggiore differenziazione dell'offerta europea basata sulle necessitŕ di ciascun partner del Vicinato. In secondo luogo, quanto alla cooperazione in materia migratoria, il Partenariato di Mobilitŕ concluso nel 2014 prevede quattro assi di cooperazione: migrazione legale, contrasto alla migrazione illegale, approfondimento del nesso migrazione/sviluppo e protezione internazionale. La Tunisia č parte dei processi di Rabat e di Khartoum, quadri di dialogo migratorio tra l'Ue e i paesi dell'area mediterranea e del Corno d'Africa.

 

Economia

Diversificata, orientata al mercato: l'economia della Tunisia č stata a lungo citata come una storia di successo in Africa e nel Medio Oriente, ma deve affrontare una serie di sfide in seguito alla rivoluzione del 2011. Dopo il fallimento delle politiche economiche di stampo socialista adottate negli anni '60, la Tunisia ha intrapreso una strategia incentrata sulle esportazioni, rafforzando gli investimenti esteri e il turismo, che sono diventati centrali per l'economia del paese. Esportazioni chiave includono attualmente tessile e abbigliamento, prodotti alimentari, prodotti petroliferi, prodotti chimici, e fosfati, con circa l'80% delle esportazioni destinate al principale partner economico di Tunisi, l'Unione europea. La strategia liberista della Tunisia, insieme agli investimenti in istruzione e infrastrutture, hanno consentito decenni di crescita ai ritmi del 4-5% annuo del PIL e un considerevole miglioramento del tenore di vita. L'ex presidente (1987-2011) Zine El Abidine Ben Ali ha continuato a perseguire queste politiche, ma il sistema clientelare e la diffusa corruzione hanno ostacolato le performance economiche e la disoccupazione č aumentata a spese soprattutto della crescente schiera di giovani laureati. Il disagio sociale ha contribuito al rovesciamento di Ben Ali nel 2011, che ha mandato in tilt l'economia tunisina a causa della drastica diminuzione degli introiti da turismo e investimenti. Il tasso di crescita ha toccato nel 2011 il -1,6%, per poi riprendere a salire negli anni successivi ma sempre a tassi che non hanno consentito al Paese di ridurre il tasso di disoccupazione, che continua a superare il 15%. La ripresa dell'economia, peraltro, č giudicata dagli osservatori fondamentale per il successo del nuovo corso politico. A tal fine il governo sta predisponendo un piano di risanamento economico e sociale teso al rilancio di progetti di investimento finora sospesi, specialmente nel settore delle infrastrutture. La ripresa del turismo, che rappresenta il 7% del PIL tunisino, non si presenta di facile realizzazione a seguito dei recenti attentati del Bardo e di Sousse.

Il governo ha recentemente annunciato le linee del suo piano di sviluppo 2016-20. Gli obiettivi principali del piano quinquennale sono: la diversificazione dell'economia, fondata su industrie e servizi ad alto valore aggiunto, innovativi e tecnologicamente avanzati; la promozione di una maggiore inclusione sociale attraverso il miglioramento dei servizi educativi e sanitari, il rafforzamento dei diritti delle donne e la riduzione della povertŕ; la riduzione delle disparitŕ regionali; e il miglioramento della protezione dell'ambiente e il taglio consumo energetico. Il piano fissa il target di crescita media annua al 5% per il periodo 2016-20.

Il Piano di Sviluppo sembra riflettere la volontŕ di mantenere i finanziamenti del FMI, della Banca mondiale e di altri donatori. Il FMI ha di recente affermato che le riforme poste in essere finora sono state lente ma "soddisfacenti", date gli eventi che il paese si č trovato a fronteggiare, ed č probabile che accolga con favore l'ulteriore impegno per le riforme strutturali contenuto nel Piano 2016-20. Il direttore generale del FMI Christine Lagarde ha promesso ulteriore sostegno al paese nel corso di una visita a Tunisi a metŕ settembre e il capo della Banca Centrale di Tunisia, Chedly Ayari, ha annunciato che la Tunisia a breve avvierŕ colloqui con il FMI per un nuovo stand-by agreement del valore di circa 1,7 miliardi di dollari.

 

Rapporti bilaterali

I rapporti politici bilaterali fra Italia e Tunisia sono amichevoli e intensi: prossimitŕ geografica, comune appartenenza mediterranea e il continuo contatto tra le societŕ civili contribuiscono al loro sviluppo. Comuni le sensibilitŕ su numerose tematiche di rilievo internazionale. L’ampio partenariato investe settori come la lotta al terrorismo internazionale e il contrasto all’immigrazione clandestina. Nel maggio 2012 i due paesi hanno istituito un Partenariato Strategico Rafforzato, in attesa di riattivazione sul piano dei vertici periodici.

Numerosi gli scambi di visite ai massimi livelli. Si ricorda da ultimo l'incontro del Ministro Gentiloni con il suo omologo Baccouche lo scorso 24 agosto a Rimini, dedicato ai temi della sicurezza e del sostegno economico, e la visita del Presidente Mattarella a Tunisi, il 18 maggio 2015, in occasione della quale č stato firmato il Memorandum di Cooperazione italo-tunisino 2014-2016 per la programmazione delle attivitŕ di cooperazione.

In campo economico, l'Italia č il secondo partner commerciale della Tunisia, con un trend positivo; settore d'elezione della presenza di imprese italiane in Tunisia č il tessile/abbigliamento, ma sono anche rilevanti il settore turistico (circa 500.000 presenze italiane annue prima della crisi) ed energetico (transita in Tunisia un importante tratto del gasdotto TTPC, che collega Italia e Algeria). Č da menzionare l'azione di sostegno all'economia tunisina da parte dell'Italia, che si č espressa da ultimo nella lettera, firmata dal ministro Gentiloni e dall'omologo francese Fabius, indirizzata alle istituzioni europee per promuovere il sostegno internazionale alla Tunisia e per proporre l'organizzazione di una Conferenza internazionale per gli investimenti da tenere in Tunisia nella seconda metŕ del 2015. Sul piano bilaterale, avrŕ luogo a Tunisi il prossimo ottobre un Forum economico Italia - Tunisia.

In tema di cooperazione allo sviluppo, si segnala il giŕ menzionato Memorandum di cooperazione italo-tunisino 2014-2016, che prevede un pacchetto di iniziative a dono per 11,6 milioni di euro e un intervento a credito di aiuto del valore di 50 milioni, nonché l'attuazione di un'operazione di conversione del debito di 25 milioni di euro per realizzare progetti sociali nelle aree svantaggiate del Paese.

La collaborazione bilaterale nel settore migratorio si basa su uno scambio di note del 1998 sull'ingresso e il soggiorno sul territorio dei due paesi dei rispettivi cittadini e su un accordo in materia di lotta alla criminalitŕ del 2003. Nel 2011, in conseguenza dell'eccezionale flusso migratorio irregolare seguito alla rivoluzione dei gelsomini, č stato concluso un Processo verbale tra i rispettivi ministri dell'interno che prevedeva procedure semplificate di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari e ha consentito di ridurre notevolmente i flussi negli anni successivi. Questo regime, basato su presupposti emergenziali, dovrebbe ora lasciare il posto a un accordo complessivo sulle migrazioni, in fase di negoziato. Il principale nodo da sciogliere resta quello delle disposizioni in materia di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari.

Nel 1991, Italia e Tunisia hanno firmato una Convenzione di Cooperazione nel campo militare, con incontri periodici della Commissione Militare Mista italo-tunisina.

L'assistenza italiana in materia di contrasto al terrorismo si basa anch'essa sul giŕ citato Processo verbale del 2011, in base al quale l'Italia ha realizzato un oneroso programma di assistenza tecnica del valore di oltre 138 milioni di euro.

 

 


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Profili biografici

 


Amm. Enrico Credendino -
Comandante della missione EU NAVFOR MED

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L’Amm. Enrico Credendino č nato a Torino il 21 gennaio 1963.

Il 18 maggio 2015 č stato designato dal Consiglio degli Esteri e della Difesa dell'Unione Europea comandante della missione EU NAVFOR MED contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. La missione durerŕ tre mesi, dal 27 giugno al 30 settembre 2015.

Credendino e’ entrato in Accademia Navale nel 1980 terminando il Corso Normale nel 1984 con il grado di Guardiamarina. Ha una laurea in scienze marittime dall’Universitŕ di Pisa e una in Scienze politiche dall’Universitŕ di Trieste.  Č stato imbarcato sull’incrociatore Vittorio Veneto, sull’incrociatore Andrea Doria e sul caccia lanciamissili Ardito, con gli incarichi di Ufficiale Addetto alle artiglierie, ai sistemi missilistici, di 1° Direttore del Tiro e di Capo Reparto Operazioni.

Ha comandato il pattugliatore Spica, la fregata Maestrale, la 1^ Squadriglia Pattugliatori – disimpegnando anche l’incarico di Ufficiale Relatore della Scuola di Comando Navale – e il caccia lanciamissili Francesco Mimbelli.

Le destinazioni a terra includono incarichi quali: Comandante della prima e seconda classe degli Allievi dei Ruoli Normali dell’Accademia Navale di Livorno; Ufficiale Addetto al Reparto Panificazione Generale dello Stato Maggiore Marina; Direttore dei Corsi Allievi dell’Accademia Navale di Livorno; Capo dell’Ufficio Politica delle Alleanze dello Stato Maggiore della Difesa e Vice Capo del Reparto Panificazione Generale dello Stato Maggiore Marina.

Promosso Contrammiraglio il 1 luglio 2011, ha assunto – sino all’agosto 2013 – gli incarichi di Vice Comandante delle Forze d’Altura e Deputy Commander of the Italian Maritime Forces, di Comandante della Forza Anfibia Italo–Spagnola e di Comandante del Gruppo Navale Italiano.

Tra agosto e dicembre 2012 č stato al comando della Forza Navale europea EU NAVFOR impegnata nell’operazione “Atalanta” contro la pirateria nelle acque del Corno d’Africa.

Da agosto 2013 č Capo del 3 Reparto Pianificazione Generale dello Stato Maggiore della Marina. Dal 2014 č ammiraglio di divisione.

Č sposato ed ha una figlia.


Hanna Hopko
Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino

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Hanna Hopko č nata il 4 marzo 1982 ad Hanachivka. Nel 2004 ha conseguito un Master in Giornalismo internazionale all’Universitŕ di Leopoli. Ha studiato alla Bloomberg School of Public Health dell’Universitŕ Johns Hopkins e nel 2009 ha ottenuto un PhD all’Universitŕ statale Taras Shevchenko di Kiev. Ha seguito corsi di perfezionamento alla Scuola di Studi politici ucraina.

Dal 27 novembre 2014 ricopre la carica di Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino.

Č componente del Comitato esecutivo per le riforme del Consiglio nazionale per le riforme e del Centro d’azione per la lotta alla corruzione.

Dal 2005 al 2007 ha lavorato come manager per la comunicazione per l’Ukraine Citizen Action Network. Ha tenuto corsi di giornalismo in materia ambientale.

Nel 2009 ha co-fondato il "Life" Regional Advocacy Center, principale partner in Ucraina della Bloomberg Initiative per la riduzione dell’uso del tabacco, di cui č stata Vice Direttore fino all’aprile 2012. Nel 2009, ha ricoperto la carica di coordinatore della Coalizione nazionale delle ONG ed Iniziative per un’Ucraina libera dal fumo; in tale qualitŕ ha patrocinato con successo 5 leggi per il controllo dell’uso del tabacco.

Nel gennaio 2012, č entrata far parte del Consiglio di Amministrazione dell’ospedale pediatrico Ohkmatdyt.

Dal 2010 al 2012, Hanna Hopko č stata consulente del Gruppo parlamentare Moralitŕ, Spiritualitŕ e Salute pubblica.

Dal gennaio 2011 al settembre 2014 ha lavorato come esperta all’Istituto per l’Educazione politica e al National Democracy Institute (NDI). Da febbraio a settembre 2014 ha lavorato come coordinatrice dell’Iniziativa Reanimation Package of Reforms, che riunisce attivisti, esperti e giornalisti per promuovere e accelerare le riforme nel Paese. Ha fatto parte di un gruppo parlamentare Platform of the Reforms.

Nel 2014 č stata eletta al Parlamento ucraino nelle fila di Self Reliance, un partito politico fondato dal sindaco di Leopoli che si ispira ai principi della moralitŕ cristiana e del buon senso. Il 31 agosto č stata espulsa dal Partito per aver sostenuto gli emendamenti alla Costituzione ucraina che prevedevano la decentralizzazione e maggiori poteri per le aree sotto l’influenza dei separatisti russofoni.

Č sposata ed ha un figlio.

 


Gen. Luciano Portolano
Comandante della missione
UNIFIL in Libano

 

http://unifil.unmissions.org/Portals/UNIFIL/Images/FC%20Portolano-Portrait.jpg

Il gen. Luciano Portolano č nato ad Agrigento il 18 settembre 1960.

Dal luglio 2014 č Comandante della missione UNIFIL in Libano.

Ha iniziato la carriera militare frequentando l'Accademia Militare di Modena prima e la Scuola di applicazione di Torino poi, conseguendo la Laurea in Scienze Strategiche. Successivamente ha conseguito i Master in "Gestione Integrata e Sviluppo delle Risorse Umane" e in "Scienze Strategiche".

Ha operato in molte missioni/operazioni militari al di fuori del territorio italiano:

Dal 2007 al 2010 ha prestato servizio come addetto militare presso l'ambasciata italiana a Londra. Dal 2010 al 2012 č stato il Comandante della Brigata Sassari.

Successivamente č stato impiegato presso il COI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



[1]https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/7891Transforming%20Our%20World.pdf

[2]Traduzione da: UN (2015), Statement by the Secretary-General following agreement on the Outcome Document of the Post-2015 Development Agenda, New York, 2 August 2015, http://www.un.org.

[3] M. Zupi (2013),” L’agenda di sviluppo post-2015”, CeSPI, Osservatorio di Politica Internazionale, N. 79, Roma.

[4] https://sustainabledevelopment.un.org/sdgsproposal

[5] http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/69/315&Lang=E.

[6] https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/4673techreport.pdf.

[7] http://www.un.org/en/ga/president/68/pdf/stocktaking/PGA%20Stocktaking%20Event%20-%20Summary.pdf.

[8]https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/8932013-05%20-%20HLP%20Report%20-%20A%20New%20Global%20Partnership.pdf.

[9] http://unsdsn.org/wp-content/uploads/2013/06/140505-An-Action-Agenda-for-Sustainable-Development.pdf.

[10] http://www.un.org/disabilities/documents/reports/SG_Synthesis_Report_Road_to_Dignity_by_2030.pdf.

[11] http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/70/75&referer=/english/&Lang=E.

[12]Beyond 2015 (2015), New Global Sustainable Development Goals demand bold implementation commitments by Governments, Brussels (and globally), August 5, http://www.beyond2015.org.

[13]Donne, bambini e giovani, popolazioni indigene, ONG, autoritŕ locali, lavoratori e sindacati, mondo del business e aziende, comunitŕ scientifico-tecnologica, contadini.

[14]Redazione (2015), “The 169 commandments. The proposed sustainable development goals would be worse than useless”, e “Global economic development. Unsustainable goals: 2015 will be a big year for global governance. Perhaps too big”, The Economist, 28 marzo.

[15] M. F. Bellemare (2015), “Development Bloat. How Mission Creep Harms the Poor”, Foreign Affairs, 5 gennaio.

[16] Il Gruppo dei 77 č la maggiore organizzazione intergovernativa dei paesi in via di sviluppo in seno alle Nazioni Unite, ed ha lo scopo di fornire ai paesi del Sud i mezzi per articolare e promuovere i propri interessi economici collettivi e aumentare la loro capacitŕ negoziale comune su tutte le principali questioni economiche internazionali. Il G77 promuove inoltre la cooperazione Sud-Sud per lo sviluppo. <http://www.g77.org/> (N.d.R.)

[17] http://www.theguardian.com/global-development/2014/sep/24/un-begins-talks-sdgs-battle-looms-over-goals.

[18] Leo Williams (2015), Beyond 2015 and ‘Transforming Our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development’

Submitted on Tue, 08/11/2015 - 11:04, http://www.beyond2015.org.

[19]DeenT. (2015), U.N. Targets Trillions of Dollars to Implement Sustainable Development Agenda, Inter Press Service, http://www.ipsnews.net/

[20] ODI, ECDPM, GDI, Universitŕ di Atene, Southern Voice Network (2015), 2015 European Report on Development: Combining finance and policies to implement a transformative post-2015 development agenda, Commissione Europea, Bruxelles.

[21]Anyangwe E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception, The Guardian, http://www.theguardian.com.

[22]UNDESA (2015), Financing sustainable development and developing sustainable finance. A DESA Briefing Note On The Addis Ababa Action Agenda, New York.

[23]Termine coniato nel 2008 da JP Morgan e Rockefeller Foundation per definire una nuova classe di investimenti in grado di generare impatto come parte intrinseca dell’investimento, misurare le ricadute in termini di esternalitŕ sulla comunitŕ di riferimento e valorizzare il ritorno economico almeno pari al capitale investito. Si tratta, cioč, di investimenti che generano nuovo valore per le comunitŕ territoriali, producendo alto impatto sociale, ambientale e occupazionale. Come esempi pratici, si citano gli Smart system (cioč progetti che consentono di rendere intelligente il funzionamento degli edifici pubblici), lo sviluppo di nuove strumentazioni tecnologiche, sistemi di filtraggio e conservazione dell’acqua, sistemi di riciclo e trasformazione dei rifiuti, sviluppo e conservazione delle energie rinnovabili,sistemi di formazione a distanza. Oggetto di particolare attenzione e discussione in proposito č la definizione di metodi di misurazione dell’impatto degli investimenti: un esempio concreto č rappresentato dal catalogo IRIS gestito dal Global Impact Investing Network, o GIIN (si veda: https://iris.thegiin.org/).

[24]Anyangwe E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception, Thursday 16 July 2015 13.25; Ní Chonghaile C. (2015), Addis Ababa outcome: milestone or millstone for the world's poor?, Thursday 16 July 2015 11.19, http://www.theguardian.com.

[25]Adams B., Luchsinger G. (2015), An Action Plan Without Much Action, Global Policy Watch, www.globalpolicywatch.org.

[26] Addis Ababa CSO FfD Forum (2015), Third FfD Failing to Finance Development. Civil Society Response to the Addis Ababa Action Agenda on Financing for Development, Addis Ababa, 16 July 2015, https://csoforffd.wordpress.com.

[27]Inman P. (2015), Rich countries accused of foiling effort to give poorer nations a voice on tax, http://www.theguardian.com.

[28]Government of Netherland (2015), Government stepping up support to developing countries on tax issues, News item 22-06-2015, http://www.government.nl.

[29] The Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation (2015), Declaration, www.icrict.org.

[30]Adams B., Luchsinger G. (2015).

[31]Eurodad (2015), Press Statement on the Addis Ababa FfD outcome, www.eurodad.org; Terlecki S. (2015), Addis Ababa: 'New Flower' of an Ambitious and Comprehensive Financing Framework?, 17 July 2015, CONCORD, www.concord.org.

[32] Romero M.J. (2015), What lies beneath? A critical assessment of PPPs and their impact on sustainable development, Eurodad, www.eurodad.org; Buckley J. Sekidde S. (2015), Understanding private health care in Somalia, Oxford Policy Management, http://www.opml.co.uk.

[33]   Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due risoluzioni contenenti, rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per attuare la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di Azione.

 

[34]   Dal 1948 ad oggi sono 71 le operazioni di peace-keeping (Fonte: http://www.un.org/en/peacekeeping/resources/statistics/factsheet.shtml) vedi anche: http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/operationslist.pdf

[35]   Boutros Boutros Ghali, An Agenda for Peace - Preventive Diplomacy, peacemaking and peacekeeping, in http://www.unrol.org/files/A_47_277.pdf

 

[36]   Brahimi Lakhdar, Report of the Panel on United Nations Peace Operations, in

http://www.unrol.org/files/brahimi%20report%20peacekeeping.pdf

[37]   Official Records of the General Assembly, Sixty-fifth Session, Supplement No. 19 (A/65/19).

[38] http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/61/858  "Secretary General Comprehensive report on  strengthening the capacity of the United Nations to manage and sustain peace operations".

[39]   Per approfondimenti sul tema vedi: il dossier della serie "Documentazione e Ricerche" del novembre 2011, predisposto dai Servizi Studi della Camera dei deputati (n. 296) e del Senato della Repubblica (n. 318) "Incontro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera e del Senato con il Capo del Dipartimento per il sostegno logistico alle operazioni di pace delle Nazioni Unite" (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00737585.pdf)

[40]   Vd il sito internet della 'Conduct and discipline Unit" http://cdu.unlb.org/ 

[41]    http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=51855

[42]   Per l'elenco delle 16 operazioni in corso e per la speciale missione politica in Afghanistan vedi: http://www.un.org/en/peacekeeping/operations/current.shtml

[43]   http://www.un.org/en/peacekeeping/about/              

[44]   http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/dpkodfs_org_chart.pdf

[45] Barbara Miller, Milad Pournik, and Aisling Swaine, Women in Peace and Security through United Nations Security Resolution 1325: Literature Review, Content Analysis of National Action Plans, and Implementation, The George Washington University  Institute for Global and International Studies , 2014.

[46] Aggiornamenti a cura del Servizio Studi della Camera

[47] Triton č stata potenziata a seguito del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015 che ne ha triplicato la dotazione finanziaria e ne ha esteso l'area operativa e ha potenziato i mezzi a sua disposizione che giungeranno, in estate, a contare 3 aerei, 6 navi da pattugliamento offshore, 12 barche da pattugliamento, 2 elicotteri, 9 squadre di debriefing e 6 di monitoraggio.

 

[48] Aggiornamento: 22 settembre 2015.

 

[49]   Recante Proroga missioni internazionali e contrasto al terrorismo.

[50] Lanciata il 16 agosto 2014, l’Operazione Oceano Indiano č guidata dal governo federale somalo, con l’assistenza di AMISOM e delle Forze Armate statunitensi e mira ad eliminare le residue sacche di resistenza nei territori controllati prevalentemente dalle autoritŕ di Mogadiscio. Washinton contribuisce con una componete di velivoli a pilotaggio remoto, sia armati che per ricognizione ed intelligence, operanti dalle vicine basi di Djibouti e Arba Minch in Etiopia, e con piccoli team di9 Forze Speciali.

 

[51] Soprattutto di provenienza yemenita, sudanese, eritrea a anglo-americana. L’ingresso di combattenti stranieri č una misura indispensabile per la sopravvivenza del gruppo, gravato dall’altissimo numero di defezioni di miliziani somali a causa della brutalitŕ di al-Shabaab nei confronti della popolazione civile.

[52] Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani

[53]   Aggiornamento: settembre 2015Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit. Aggiornamento: settembre 2015

[54] Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI; Cia World Factbook; Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani; notizie di stampa

 

SERVIZIO STUDI

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Partecipazione alla LXX Sessione dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite

(New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

n. 190

 

 

 

25 settembre 2015


SENATO DELLA REPUBBLICA:

 

Servizio Affari Internazionali

Tel. 06 6706-2180 – segreteriaAAII@senato.it  @SR_Affariinternazionali

Elementi di documentazione n. 4

 

 

 

 

CAMERA DEI DEPUTATI:

 

Servizio Studi – Dipartimento Affari esteri

Tel. 06 6760-4172 - st_affari_esteri@camera.it - Twitter_logo_blue.png CD_affari_esteri

Documentazione e ricerche n. 190

 

 

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti uffici:

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

Servizio Rapporti Internazionali

( 066760-3948– / 066760-9515 – * cdrin1@camera.it

 

 

La documentazione dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati č destinata alle esigenze di documentazione interna per l'attivitŕ degli organi parlamentari e dei parlamentari. Si declina ogni responsabilitŕ per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. I contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che sia citata la fonte.

 

 

 

In copertina: Piazza San Macuto in una stampa d’epoca

 

 

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INDICE

Focus tematici

L’agenda di sviluppo per il post-2015 (a cura del Centro Studi Politica internazionale - CeSPI) 5

L’attivitŕ del Comitato permanente sull’agenda post 2015. Cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato  (a cura del Servizio Studi della Camera) 31

La cooperazione parlamentare in ambito ONU (a cura del Servizio Rapporti Internazionali della Camera) 33

Il Department of Peace-Keeping Operations (DPKO)  (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 45

La proposta di autolimitazione del potere di veto in Consiglio di sicurezza di fronte alla denuncia di atrocitŕ di massa  (a cura del Servizio Studi della Camera) 53

L’attuazione in Italia della Risoluzione 1325 (2000) dell’ONU su donne, pace e sicurezza  (a cura del Servizio Studi della Camera) 55

Prioritŕ dell’UE in vista della LXX Assemblea generale delle Nazioni Unite  (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera) 61

La Missione EUNAVFOR Med  (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 67

La Missione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL) (a cura del Servizio Studi della Camera) 73

Approfondimenti geopolitici

Il dialogo politico in Libia. Un aggiornamento (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 77

La Libia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali - CeSI) 83

Siria: i piů recenti sviluppi (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 89

Somalia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali - CESI) 95

Schede Paese

Algeria (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 103

Marocco (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) 111

Tunisia (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 123

Profili biografici

Amm. Enrico Credendino - Comandante della missione EU NAVFOR MED.. 139

Hanna Hopko Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino. 141

Gen. Luciano Portolano Comandante della missione UNIFIL in Libano. I

 

 

 

 


Focus tematici

 


(…)

 

 


L’agenda di sviluppo per il post-2015
(a cura del Centro Studi Politica internazionale - CeSPI)

 

1. I nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2015-2030: storia di un processo lungo e tortuoso

Il processo con cui i paesi membri delle Nazioni Unite definiscono i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile - che rinnovano ed espandono l’agenda fissata nel 2000 con gli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals, MDG) si avvicina alla sua conclusione.

A fine settembre 2015, in occasione dello specifico summit (25-27 settembre) che riunirŕ i Capi di Stato e di Governo nell’ambito dell’apertura della 70a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sarŕ formalmente approvata la nuova agenda che la comunitŕ degli Stati membri dovrŕ far propria per impostare il lavoro successivo (28 settembre-6 ottobre), perché poi possa entrare in vigore a partire dal primo gennaio 2016. In preparazione di tale evento, l’attuale Presidente della 69a sessione dell’Assemblea Generale, l’ugandese Sam Kutesa, ha incaricato Macharia Kamau (ambasciatore del Kenya) e David Donoghue (ambasciatore dell’Irlanda) di svolgere il ruolo di co-facilitatori delle consultazioni informali preparatorie. L’11 agosto 2015 i due co-facilitatori hanno trasmesso al Presidente dell’Assemblea Generale la bozza del testo finale approvato per consenso dagli Stati membri il 2 agosto.

La bozza del testo da approvare, intitolato Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development[1], presenta la nuova agenda per il quindicennio 2015-2030 e riassume in 29 pagine i risultati di oltre due anni di dibattito. Nelle parole del Segretario Generale Ban Ki-moon, si tratta di “un’agenda universale, trasformativa e integrata che preannunzia una svolta epocale per il nostro mondo: č l’agenda delle persone, un piano d’azione per eliminare la povertŕ in tutte le sue dimensioni, in modo irreversibile, dovunque, non lasciando indietro nessuno[2].

Sempre secondo il Segretario Generale, l’agenda “traccerŕ la rotta di una nuova era di sviluppo sostenibile in cui la povertŕ sarŕ sradicata, la prosperitŕ sarŕ condivisa e i fattori chiave che determinano i cambiamenti climatici saranno opportunamente affrontati.”

Un’agenda, quindi, molto (forse troppo) ambiziosa, che conclude un iter negoziale estremamente complesso, che ha sperimentato un elevato livello di partecipazione da parte della societŕ civile internazionale, dei diversi governi e del sistema ONU. Oltre due anni di negoziati intensi, alla ricerca di una formula inedita in grado di assicurare una vasta partecipazione, cioč cercando di assegnare un ruolo maggiore alla base della gerarchia organizzativa nel prendere decisioni e determinare le responsabilitŕ, in nome di un approccio bottom-up che era mancato in occasione degli MDG. Un iter complesso e non lineare, in cui si č assistito ad una proliferazione di proposte e documenti paralleli, non sempre allineati, piů che a un ordinata sequenza di testi di progressivo avvicinamento al documento finale.

Si č trattato di un iter scomponibile in quattro fasi: (1) l’impostazione del processo, (2) la definizione dei contenuti, (3) negoziati e dibattito, (4) l’accordo.

Per quanto detto, tuttavia, le quattro fasi non sono state rigidamente sequenziali e, in particolare, la definizione dei contenuti ha accompagnato negoziati e dibattito piů che precederli.

Gli input sono venuti da fonti intergovernative e non solo.

 

Fig. 1. Il percorso del processo preparatorio e dei negoziati ufficiali relativi all’agenda post-2015

Fonte: aggiornamento della figura in M. Zupi (2013)

 

Anzitutto, nel 2012 č stato concretamente avviato il processo per la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) emersi dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20) del giugno dello stesso anno, processo parallelo e complementare all'agenda post-MDG e che fa riferimento alle tre dimensioni (economica, sociale e ambientale) dello sviluppo sostenibile. Il documento conclusivo di Rio+20, The Future We Want, adottato con la risoluzione dell’Assemblea generale n. 66/288 e ratificato nel settembre 2012, riconosce come sfida centrale l'eliminazione della povertŕ, identifica la Green economy come un importante strumento per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile e indica alcune caratteristiche di base degli SDG: orientati all'azione, concisi, facilmente comunicabili, di numero limitato, di natura globale e universalmente applicabili a tutti i paesi, pur tenendo conto delle differenti realtŕ nazionali. Il documento indica inoltre che gli SDG dovranno essere valutati alla luce di specifici indicatori e traguardi[3].

L’High-level Political Forum (HLPF) on sustainable development, istituito dalla conferenza Rio+20 in sostituzione della UN Commission on Sustainable Development (CSD, a sua volta insediata a seguito della Conferenza di Rio nel 1992), č stato il principale organismo creato dalle Nazioni Unite sul tema. L’HLPF č stato, infatti, incaricato di guidare i lavori per lo sviluppo del processo affrontando le sfide emergenti, promuovendo il dialogo fra politica e scienza e rafforzando l’integrazione fra dimensioni economica e sociale dello sviluppo.

L’Open Working Group (OWG) sugli SDG, istituito dall’Assemblea Generale il 22 gennaio 2013 con la partecipazione di 70 paesi, raggruppati nelle cosiddette 30 constituency, ha sviluppato nel corso di 13 incontri un rapporto che l’Assemblea Generale, con la risoluzione del 10 settembre 2014, ha elevato a base principale della nuova impostazione[4]. Al lavoro dell’OWG č stato affiancato il 21 giugno 2013 quello dell’Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable Development Financing (ICESDF), formato da 30 membri, secondo quanto stabilito durante la conferenza di Rio+20, e supportato dal Working Group on Financing for Sustainable Development, integrato nell’UN System Task Team on the Post-2015 Development Agenda (istituito nel 2012 e composto da rappresentanti di oltre 60 organizzazioni internazionali ed enti delle Nazioni Unite). La discussione interna all’OWG č stata alimentata anche dai risultati di una serie di global consultation che hanno incluso 83 consultazioni nazionali e 11 consultazioni tematiche. Sono stati organizzati sondaggi diretti dell’opinione pubblica e una consultazione online denominata My world che ha raggiunto oltre 7 milioni di risposte. Gli esperti, nominati su base regionale paritaria, hanno prodotto un rapporto finale adottato nell’agosto 2014 e contenente indicazioni per la mobilitazione di risorse per lo sviluppo sostenibile[5].

In tema di trasferimento tecnologico, la specifica sessione dedicata durante Rio+20 ha prodotto una richiesta alle agenzie delle Nazioni Unite di identificare meccanismi di facilitazione per lo sviluppo, trasferimento e disseminazione di efficienti tecnologie pulite. A questo scopo il Presidente dell’Assemblea Generale, sulla base della Risoluzione 67/203 del 21 dicembre 2012, ha convocato quattro workshop sul tema sfociati in quattro giorni di dialogo strutturato presso la stessa Assemblea che hanno prodotto una serie di raccomandazioni[6].

Il Presidente dell’Assemblea Generale ha inoltre convocato nel primo semestre 2014 sei High-level events and thematic dialogues, focalizzati su trattamento delle acque ed energia sostenibile; contributo delle donne, dei giovani e della societŕ civile; ruolo del partenariato; garanzia di societŕ stabili e pacifiche; cooperazione triangolare Nord Sud e Sud Sud e ICT per lo sviluppo; diritti umani e stato di diritto. Nel settembre 2013, un High-level stocktaking event ha portato a sintesi il lavoro sviluppato durante i sei eventi[7].

Un sostanziale apporto č stato, indubbiamente, fornito dai due principali organismi non intergovernativi coinvolti. L’High-Level Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda (HLP), istituito dal Segretario Generale nel luglio 2012, č stato co-presieduto dai Presidenti di Indonesia (Susilo Bambang Yudhoyono) e Liberia (Ellen Johnson Sirleaf) e dal Primo Ministro del Regno Unito (David Cameron), e ha riunito rappresentanti della societŕ civile, del mondo della ricerca, del settore privato, di amministrazioni locali e nazionali. Il Panel ha pubblicato nel maggio 2013 il rapporto A New Global Partnership[8] centrato su cinque indicazioni principali che includono la lotta alla povertŕ estrema e alle disuguaglianze, l’inserimento dello sviluppo sostenibile al centro dell’agenda post 2015, la trasformazione dell’economia facendo leva sull’importanza dell’occupazione piena e a condizioni dignitose e sull’inclusione, la promozione della pace e di istituzioni aperte e accountable per tutta la popolazione, la creazione di un nuovo partenariato globale.

Il secondo organismo non governativo č il Sustainable Development Solutions Network (SDSN), una rete globale indipendente di centri di ricerca, universitŕ e istituzioni tecniche che lavorano con diversi stakeholder, fra cui il settore privato, la societŕ civile, agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. Nel 2013, l’SDSN ha trasmesso al Segretario Generale il rapporto An Action Agenda for Sustainable Development[9] in cui propone dieci obiettivi per la promozione dello sviluppo sostenibile e una bozza di rapporto sulla questione della predisposizione di indicatori e di un sistema di monitoraggio per la valutazione dell’attuazione dell’Agenda.

Il 4 dicembre 2014, il Segretario Generale ha presentato all’Assemblea Generale il suo rapporto di sintesi per orientare i negoziati nel 2015, intitolato The Road to Dignity by 2030: Ending Poverty, Transforming All Lives and Protecting the Planet[10]. Il documento di sintesi evidenzia la continuitŕ diretta tra MDG e SDG, parlando esplicitamente della necessitŕ di “completare il lavoro” avviato con gli MDG ma anche dell’opportunitŕ di andare oltre, dinanzi all’opportunitŕ che il 2015 diventi l’anno piů importante in materia di sviluppo dal momento dell’istituzione delle Nazioni Unite. Il rapporto di sintesi riafferma la necessitŕ di un’agenda universale e di trasformazione, che metta al centro le persone e il pianeta, fondata sui diritti umani e sostenuta da un partenariato globale. Inoltre, il Segretario Generale riconosce nei 17 Obiettivi e nei 169 target di sviluppo sostenibile proposti dall’OWG la base di partenza per il negoziato tra le parti, le cui discussioni dovranno necessariamente affrontare il correlato tema dei mezzi di realizzazione, cioč della finanza per lo sviluppo, oggetto dell’apposita conferenza di luglio 2015 ad Addis Abeba. Un’agenda fondata sull’interazione tra le tre dimensioni centrali dello sviluppo (economica, sociale e ambientale), il che implica una rivisitazione anche del modo di pensare e agire del sistema delle Nazioni Unite, come lo stesso Segretario Generale torna a sottolineare in un suo rapporto di fine marzo 2015 per il Consiglio Economico e Sociale intitolato Mainstreaming of the three dimensions of sustainable development throughout the United Nations system[11].

La partecipazione della societŕ civile č stata uno dei pilastri dell’elaborazione dell’Agenda. Ne sono prova tangibile il lavoro della Campagna Beyond 2015, che riunisce oltre 1.300 organizzazioni di tutto il mondo, oppure - per quanto riguarda il mondo della ricerca, dei think-tank e delle universitŕ - quello della rete leader in Europa EADI che riunisce oltre 150 istituzioni universitarie e think tank di 28 paesi europei. Questo processo lungo, elaborato e reso molto complesso dalla scelta di fondarlo su un’ampia partecipazione e sulla volontŕ di allargare i temi sul tappeto, č considerato dalla societŕ civile coinvolta un elemento di grande forza per il rilancio dell’azione internazionale[12]. Come stabilito nella A/69/L.46 – Draft decision - modalities for the process of intergovernmental negotiations on the post-2015 development agenda, i co-facilitatori hanno assicurato il coinvolgimento degli stakeholder, che includono i Major Groups che dal primo Earth Summit del 1992 partecipano alle attivitŕ delle Nazioni Unite in tema di sviluppo sostenibile, la societŕ civile[13], i parlamenti, le autoritŕ locali e il settore privato, sulla base della pratica dell’OWG e della Risoluzione 69/244.

 

2. La bozza del testo finale della nuova Agenda

La versione finale della bozza di agenda di sviluppo per il post-2015 č stata approvata a conclusione di un incontro plenario informale dopo due settimane di negoziati intergovernativi. La sessione finale, particolarmente laboriosa, ha visto le ultime modifiche che hanno interessato dettagli di questioni relative ai paragrafi sul clima, diritti dei migranti, popolazioni di territori sotto occupazione coloniale e straniera, condivisione dei benefici delle risorse genetiche, sostenibilitŕ del debito, risorse per le diverse categorie di paesi maggiormente svantaggiati.

Come ha riportato l’Ambasciatore Donoghue con soddisfazione, un accordo č stato trovato anche sulle questioni piů spinose, fra cui la modalitŕ con cui presentare la relazione fra l’Agenda post-2015 e l’Addis Ababa Action Agenda, le Responsabilitŕ Comuni ma Differenziate (Common But Differentiated Responsibilities, CBDR) e la forma di Preambolo e Dichiarazione nella loro funzione di sintesi.

Fig. 2. La struttura della bozza del testo finale e la nuvola delle parole contenute

·  Preamble – pp. 2

·  DECLARATION - pp. 3-10

Introduction (parr. 1-6)

Our vision (parr. 7-9)

Our shared principles and commitments (parr. 10-13)

Our world today (parr. 14-17)

The new Agenda (parr. 18-38)

Means of Implementation (parr. 39-46)

Follow-up and review (parr. 47-48)

A call for action to change our world (parr. 49-53)

·  Sustainable Development Goals and targets - pp. 11-23 (parr. 54-59)

·  Means of implementation and the Global Partnership- pp. 24-26 (parr. 60-71)

·  Follow-up and review- pp. 27-29 (parr. 72-91)

 

Il testo finale contiene cinque parti che includono i 17 Sustainable Development Goals e i 169 target proposti dall’OWG nel 2014, solo parzialmente modificati.

La descrizione di Obiettivi e target č preceduta da un Preambolo, centrato su cinque parole chiave (le cinque P), che introduce un piano di azione per le persone, il pianeta e la prosperitŕ (“for People, Planet and Prosperity”) e sottolinea il rafforzamento della pace universale (Peace) in “larger freedom” e riconosce lo sradicamento della povertŕ in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertŕ estrema, quale la piů grande sfida globale e la premessa fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Il Preambolo indica la natura universale e cooperativa dell’Agenda (Partnership) e l’impegno perché nessuno sia lasciato indietro.

Il Preambolo č seguito da una Dichiarazione in 53 paragrafi divisi in 8 sezioni: anzitutto un’introduzione generale e la vision alla base dell’Agenda, riassunta in tre paragrafi che riaffermano la volontŕ di costruire un mondo inclusivo, equo, liberato dalla povertŕ e che dia benessere e opportunitŕ di sviluppo a tutti gli esseri umani nel rispetto dell’ambiente e in armonia con la natura. La Dichiarazione riafferma poi, nella sezione successiva, una serie di principi condivisi dai paesi membri come base del rinnovato impegno, fra cui la Dichiarazione di Rio+20 e il principio delle responsabilitŕ comuni ma differenziate. Un richiamo agli MDG, alle sfide ancora aperte e alla necessitŕ di operare per completare il lavoro fin qui realizzato precede il corpo della Dichiarazione, rappresentato dall’Agenda che costituisce la sezione con piů paragrafi (21 paragrafi: dal 18 al 38) e declina gli impegni sanciti dagli Obiettivi e target, richiamando alcuni elementi chiave dell’impostazione, fra cui il riconoscimento dell’importanza dell’attenzione alla sostenibilitŕ e del ruolo di alcuni attori come le donne e i migranti. La sezione seguente della Dichiarazione sottolinea la necessitŕ di costruire un nuovo partenariato e di rivitalizzare i Means of Implementation (MoI), di cui viene esplicitamente ricordata l’importanza e che vengono richiamati sia nel 17° Goal, dedicato all’argomento, che in diversi target riferiti ai vari Goal tematici.

Il testo fa riferimento ai risultati della Terza Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo conclusasi ad Addis Abeba il 16 luglio 2015, ribadendo il ruolo dell’aiuto pubblico allo sviluppo quale catalizzatore per la mobilitazione di risorse, non solo finanziarie, da altre fonti fra cui il settore privato (dalle piccole imprese alle multinazionali), la societŕ civile e le organizzazioni filantropiche. Nella penultima sezione si assegna all’High-level Political Forum on Sustainable Development il ruolo centrale a livello globale per la gestione del follow-up dell’adozione dell’Agenda, con i Governi come primi responsabili. A questo scopo, devono essere rafforzate le capacitŕ delle istituzioni statistiche, soprattutto nei paesi africani, per poter garantire un adeguato e affidabile flusso di dati relativi agli indicatori. Si fa anche un esplicito riferimento all’impegno comune per sviluppare indicatori complementari al PIL per la misura del progresso. L’ultima sezione chiama all’azione i diversi attori comprendendo nell’appello - oltre ai governi e alle istituzioni internazionali - anche i parlamenti, le autoritŕ locali, le popolazioni indigene, la societŕ civile, le imprese e il settore privato in generale, la comunitŕ scientifica e l’intera popolazione.

Alla Dichiarazione segue la parte centrale del documento, intitolata Sustainable Development Goals and targets, con la lista degli 17 Obiettivi e 169 target che ricalca con alcune modifiche la proposta presentata dall’OWG nel luglio 2014. Si tratta principalmente di revisioni tecniche individuabili negli Obiettivi 2 (nutrizione), 3 (sanitŕ), 4 (istruzione), 6 (risorse idriche), 7 (energia), 8 (crescita economica ed occupazione), 9 (infrastrutture), 11 (urbanizzazione), 14 (oceani e mari), 15 (ecosistemi territoriali) e 17 (MoI).

Il documento riserva una parte specifica a quest’ultimo tema, precisando la relazione fra la Addis Ababa Action Agenda (AAAA: si veda capitolo piů avanti) e l’Agenda di sviluppo post-2015. Come giŕ in parte indicato nella Dichiarazione, il documento ribadisce che l’Agenda post 2015 e gli SDG possono essere realizzati solo nel contesto di un partenariato globale rivitalizzato, sostenuto dalle politiche e dalle azioni concrete delineate nella AAAA.

Inoltre, si stabilisce che la AAAA "č a sostegno, complemento e contribuisce a contestualizzare i MoI e i target dell’Agenda 2030” (par. 62), mentre viene riprodotto il paragrafo 123 della stessa AAAA che istituisce il Technology Facilitation Mechanism (TFM) a sostegno del raggiungimento degli obiettivi sulla base della cooperazione multistakeholder fra stati membri, comunitŕ scientifica, settore privato e societŕ civile, che si concretizzerŕ in un team di lavoro interagenzie, in un forum su tecnologia e innovazione e in una piattaforma di collaborazione fra i diversi attori.

Il TFM rappresenta un tema spinoso la cui istituzione era giŕ prevista nel documento finale di Rio+20 e che ha a lungo contrapposto Nord e Sud del Mondo. Come č emerso nel seminario di New York dell’aprile 2015, nell’ambito della sessione di lavoro congiunta tra processo post-2015 e processo sulla finanza per lo sviluppo, per molti paesi del Sud del mondo l’accesso alla tecnologia piů avanzata, attraverso meccanismi di trasferimento, č la via principale allo sviluppo; mentre paesi del Nord come gli Stati Uniti e le imprese multinazionali temono che tramite questi meccanismi si riduca di fatto la tutela dei diritti di proprietŕ intellettuale (Intellectual property rights, IPR), ed č proprio questa la ragione per cui i paesi del Nord hanno opposto resistenza durante l’intero negoziato per l’agenda di sviluppo post-2015 ad una menzione esplicita del tema degli IPR. L’ultima parte del documento, infine, definisce il quadro per il “follow-up and review” ai livelli nazionale, regionale e globale. Gli indicatori per gli SDG saranno sviluppati entro marzo 2016 dall’Inter-agency and Expert Group on SDG Indicators (IAEG-SDGs) in accordo con la UN Statistical Commission. Successivamente, verranno adottati dall’ECOSOC e dall’Assemblea Generale e saranno completati dagli indicatori per i livelli nazionali e regionali che saranno sviluppati, invece, dagli stati membri.

Un impegno specifico viene stabilito per il sostegno ai PVS e in particolare ai paesi africani, a quelli a basso reddito, a quelli insulari e senza sbocco al mare, per rafforzare le capacitŕ degli uffici statistici nazionali e dei sistemi di raccolta e analisi dati. A livello globale, l’HLPF riceverŕ dal Segretario Generale l’annuale SDG Progress Report basato sulle statistiche nazionali e regionali, nonché il Global Sustainable Development Report, che avrŕ fra l’altro la funzione di rafforzare il dialogo fra scienza e politica.

 

3. Gli Obiettivi e i target di sviluppo sostenibile (SDG)

I 17 SDG proposti, riprendendo il lavoro dell’OWG, definiscono l’orizzonte di intervento per le politiche di sviluppo nei diversi paesi e a livello mondiale. Essi sono:

1.       Eliminare la povertŕ in tutte le sue forme e dovunque;

2.       Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile;

3.       Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi etŕ;

4.       Garantire un’istruzione di qualitŕ inclusiva ed equa e promuovere opportunitŕ di apprendimento permanente per tutti;

5.       Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e ragazze;

6.       Assicurare a tutti disponibilitŕ e gestione sostenibile dell’acqua, condizioni d’igiene e smaltimento dei rifiuti;

7.       Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi;

8.       Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro a condizioni dignitose per tutti;

9.       Costruire infrastrutture resilienti, promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire l’innovazione;

10.    Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi;

11.    Rendere le cittŕ e tutti gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili;

12.    Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili;

13.    Adottare misure urgenti per contrastare i cambiamenti climatici e gli impatti che ne derivano;

14.    Conservare e usare in modo sostenibile oceani, mari e risorse marine per lo sviluppo sostenibile;

15.    Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare e invertire il processo di degrado della terra e la perdita di biodiversitŕ;

16.    Promuovere societŕ pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, trasparenti e inclusive a tutti i livelli;

17.    Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile (MoI) e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.

Scorrendo la lista e confrontandola con quella degli MDG, č evidente lo sforzo di promuovere un impegno in piena continuitŕ con gli Obiettivi del 2000, ripresi e rafforzati (uno su tutti: si passa dal dimezzare la povertŕ assoluta - MDG1 – alla sua eliminazione totale – SDG1). Si tratta perň anche di un allargamento dell’agenda, fondata sui tre pilastri (sociale, economico e ambientale), e non piů solo su quello sociale come nel caso degli MDG, il che spiega il numero piů che raddoppiato degli obiettivi.

Quello che č meno evidente č il tentativo, solo molto parzialmente riuscito, di evitare una logica settoriale (il cosiddetto silo approach) che si limiti ad affiancare, sommandoli uno all’altro, una lista di obiettivi distinti e numerosi, collegati alcuni alla dimensione sociale dello sviluppo, altri a quella economica e altri ancora a quella ambientale. Nelle intenzioni, la logica da adottare dovrebbe essere quella dell’approccio integrato delle tre dimensioni (o nested approach), che coglie la complessitŕ del reale in cui esse convivono. Il riscontro di questo tentativo lo si dovrebbe trovare scorrendo la lista dei target: nel caso degli MDG erano inizialmente 18 e divennero poi 21 nel 2006, nel caso degli SDG sono addirittura 169, cioč oltre otto volte piů numerosi.

Tra i numerosi target che definiscono l’agenda SDG esistono legami stretti riconducibili al tema di riferimento, pur essendo associati a goal diversi: per esempio, il tema della salute č esplicitamente indicato nel goal 3 (Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi etŕ) che, a sua volta, ricomprende 13 target; tuttavia, ci sono altri 8 target – associati ai goal 2, 6, 11 e 12 – che si riferiscono esplicitamente alla salute. In questo senso, si puň parlare - come fa il Segretario generale delle Nazioni Unite - di un raggruppamento allargato di target tematici, che vanno al di lŕ di quelli associati in senso stretto ad un goal specifico. Anche nel caso del goal 2 (Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile) – che č una delle aree prioritarie della politica italiana di cooperazione allo sviluppo - la correlazione tra ambiti distinti come la gestione del territorio, i metodi di produzione agricola, gli ecosistemi, la nutrizione e la sicurezza alimentare č esplicitata, diversamente dal passato. Piů in generale, molti target sono di fatto correlati a due o tre obiettivi di sviluppo. Ciň rende piů complesso il lavoro di analisi, ma anche quello operativo delle organizzazioni che si occupano di politiche di sviluppo e di cooperazione internazionale allo sviluppo, chiamate a superare l’approccio settoriale che caratterizza tradizionalmente il loro operato, alla ricerca di maggiore coordinamento e coerenza tra le parti.

Una particolaritŕ che, invece, caratterizza i target dell’agenda post-2015 relativa agli SDG, distinguendoli da quelli degli MDG, č la connessione diretta col tema dei MoI (Means of Implementation). Nel quadro degli MDG, infatti, l’Obiettivo 8 (Sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo), si articolava in 6 target (e 16 indicatori) relativi al tema dei MoI, esaurendoli. Nel caso degli SDG, l’ultimo Obiettivo, il 17, č relativo ai MoI (Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile) e prevede ben 19 target relativi a finanza, tecnologia, Capacity-building, commercio e temi sistemici come coerenza delle politiche, partenariato multi-stakeholder e monitoraggio; tuttavia, scorrendo gli altri 16 SDG si scopre che i target correlati sono distinti in due categorie: da una parte, indicati coi numeri in ordine crescente, si tratta di target specifici; da un’altra parte, classificati con lettere in ordine crescente, ci sono target in termini di MoI. Complessivamente, ci sono 107 target di tipo tradizionale e 62 target afferenti al campo dei MoI, non riconducibili unicamente all’ultimo Obiettivo, ma esplicitamente ancorati ai diversi Obiettivi.

Provando a schematizzare le differenze in termini di numeri tra target dell’agenda MDG e quella SDG, si ottiene una tabella che restituisce immediatamente la sistematicitŕ del maggiore numero di informazioni esibite nel caso degli SDG e, di converso, la tendenza alla sintesi comunicativa degli MDG che offrivano un livello di dettaglio relativamente maggiore solo in materia di salute (il focus degli MDG) e di sostenibilitŕ ambientale (un’area su cui – si diceva giŕ negli anni Novanta -occorreva investire maggiormente).

Tab. 1. Confronto tra MDG* e SDG in termini di target

 

SDG

MDG

goal

N. target

N. target relativi a MoI

N. target

N. indicatori

1

5

2

1

3

2

5

3

1

2

3

9

4

6

19

4

7

3

1

3

5

6

3

1

3

6

6

2

 

 

7

3

2

 

 

8

10

2

1

4

9

5

3

 

 

10

7

3

 

 

11

7

3

 

 

12

8

3

 

 

13

3

2

 

 

14

7

3

4

10

15

9

3

 

 

16

10

2

 

 

17

 

19

6

16

Tot.

107

62

21

60

 

169

 

 

* - Nel caso degli MDG, gli Obiettivi 1, 2 e 8 sono in realtŕ tutti accorpati nell’Obiettivo 1, mentre i target associati all’Obiettivo 3 sono suddivisi in tre Obiettivi separati (ob. 4 sulla mortalitŕ infantile, ob. 5 sulla salute materna e ob. 6 su AIDS; malaria ed altre malattie).

 

Rispetto al quadro degli MDG, negli SDG i target sono molto piů numerosi e si tratta di un numero molto alto anche in termini assoluti, il che renderŕ inevitabilmente piů complicato il monitoraggio futuro e meno immediata e comunicabile al pubblico la restituzione dei risultati; ma soprattutto si dovrŕ fare i conti con la difficoltŕ di rilevazione e affidabilitŕ delle informazioni disponibili in molti paesi.

In concreto, ciň porrŕ dei problemi nel corso del 2016, quando si tratterŕ di mettere a punto e verificare il lavoro operativo sul fronte degli indicatori da monitorare: nel caso degli MDG, gli indicatori utilizzati sono passati da 48 (nel 2000) a 60 (nel 2006), cioč oltre tre volte il numero dei target, il cui stato di avanzamento si misura proprio attraverso uno o piů indicatori. I 60 indicatori relativi agli MDG hanno evidenziato negli anni gravi problemi di disponibilitŕ e affidabilitŕ dei dati in molti PVS; ed č lecito a maggior ragione attendersi simili difficoltŕ nel caso dei piů numerosi e dettagliati indicatori relativi ai 169 target degli SDG, a meno di un investimento massiccio proprio sul fronte della cosiddetta “rivoluzione dei dati”, che deve significare anche e soprattutto il rafforzamento delle capacitŕ nazionali di raccogliere sistematicamente informazioni statistiche. Se si dovesse mantenere la stressa proporzione tra target e indicatori registrata negli MDG (1:3), per l’agenda degli SDG ciň vorrebbe dire monitorare lo stato di avanzamento di oltre 500 indicatori, un numero davvero elevato e poco gestibile. Soprattutto, č difficile immaginare che si possa disporre di una batteria di indicatori cosě numerosa e identica in tutti i paesi: l’idea di fondo che l’agenda degli SDG sia universale - cioč interessi indistintamente tutti i paesi del mondo, al Sud come al Nord - ma al contempo debba essere adattata alle specificitŕ del contesto nazionale, non puň prescindere dall’adozione di indicatori standardizzati. Per questa ragione, la definizione del minimo comune denominatore rappresentato da un numero limitato di indicatori comuni a tutti i paesi sarŕ la principale sfida per la messa in opera dell’agenda post-2015.

Infine, sempre confrontando l’agenda MDG e quella SDG, č evidente come - oltre al passaggio da una visione unidimensionale (sviluppo sociale) a una tridimensionale (sviluppo sociale, economico e ambientale) e ad un raccordo tra tre ambiti solitamente distinti come ambito di lavoro (i contenuti dello sviluppo, i MoI e l’agenda ambientale e dei cambiamenti climatici: tre ambiti istituzionali chiamati a raccordarsi nel 2015 con gli eventi rispettivamente di Addis Abeba, New York e Parigi) - ci sia l’emergere oggettivo di temi nuovi nell’agenda. A livello di Obiettivi, ci sono due Obiettivi indipendenti e che qualificano trasversalmente il modello di sviluppo: si tratta della disuguaglianza (ob. 10: Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi) e il modello di produzione e consumo (ob. 12: Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili), legato anche al sistema energetico da promuovere, basato sulle fonti rinnovabili (ob. 7: Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi). Obiettivi indipendenti e trasversali in grado di imprimere, se fossero presi alla lettera, una svolta profonda al paradigma del modello di sviluppo, in termini di una reale trasformazione di sistema. A livello di target, invece, si affermano molti temi, tra cui vale la pena di menzionare quello delle migrazioni, altro nodo di particolare interesse per l’Italia: si tratta di un termine che appare ben 15 volte nel testo, con riferimento alle fasce vulnerabili delle persone che devono essere empowered, ma anche in relazione al ruolo di protagonisti dello sviluppo che i migranti svolgono e possono svolgere in futuro (in particolare il paragrafo 29 del testo č molto netto in proposito). In termini di target, sono menzionati con riferimento all’Obiettivo 8 relativo all’occupazione (target 8.8), all’Obiettivo 10 relativo alle disuguaglianze (target 10.7 e 10.c) e all’Obiettivo 17 relativo ai MoI (target 17.18).

 

4. La discussione sulla nuova Agenda

Il testo approvato il 2 agosto č stato reso pubblico il 12 agosto. Nelle settimane successive sono arrivati i primi commenti. I principali mezzi di informazione, in realtŕ, non hanno dato risalto immediato al documento, probabilmente per il concorso di ferragosto e di un contenuto che in sostanza riprende pedissequamente la lista degli SDG proposti dal documento dell’OWG.

L’impianto degli SDG era stato in precedenza ampiamente criticato, anche in modo radicale: ad esempio il settimanale The Economist a fine marzo, palesemente ancorato ad una visione degli SDG come obiettivi per aiutare i paesi piů poveri, li aveva definiti un esercizio visionario e destinato a fallire, prolisso e disordinato; non solo un’opportunitŕ sprecata, ma un vero e proprio tradimento perpetrato ai danni dei piů poveri, un pasticcio per il numero troppo elevato di obiettivi e target che finiscono con l’imporre nessuna prioritŕ e che sono irrealistici per il semplice fatto che richiederebbero finanziamenti dell’ordine di 2-3 mila miliardi di dollari l’anno (qualcosa come il 15% dei risparmi mondiali o il 4% del PIL mondiale), cioč un ordine di grandezza decine di volte superiore a quanto č lecito attendersi. Gli MDG non erano solo pochi e semplici, ma anche abbastanza vaghi da permettere una declinazione in chiave nazionale, mentre 169 target sono troppi, confusi e cosě vincolanti da non adattarsi alle specificitŕ dei diversi contesti; insomma, si tratta di obiettivi “stupidi”, perché non si focalizzano solo sul goal 1 (che richiederebbe 65 miliardi di dollari l’anno per essere raggiunto), magari aggiungendo quelli relativi all’istruzione delle bambine o della salute materna e infantile (un MDG che non č stato raggiunto affatto), finendo con incorporare tutto ciň che chiedevano le numerose e disparate lobby presenti a New York[14]. Una critica che, in modo piů diplomatico, non era stata risparmiata neanche da un articolo dell’economista Marc F. Bellemare su Foreign Affairs, quando citando il noto saggio di Gilbert Rist, History of Development, ricordava che lo sviluppo, un tempo considerato un fenomeno complesso ma relativamente coerente, si stava polverizzando in un pulviscolo di obiettivi i cui collegamenti reciproci non era piů dato conoscere[15].

In relazione, invece, al documento pubblicato ad agosto, i commenti sono stati anzitutto quelli ufficiali. Ban Ki-moon lo ha salutato definendolo “l’Agenda di tutti, un piano d’azione per eliminare la povertŕ in tutte le sue dimensioni, irreversibilmente, dovunque, senza lasciare nessuno indietro. Un’agenda che si propone di assicurare la pace e la prosperitŕ, di consolidare un partenariato che metta le persone e il pianeta al centro. I 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile sono integrati, interconnessi e indivisibili, sono gli obiettivi di tutti e dimostrano la grandezza, l’universalitŕ e l’ambizione di questa nuova Agenda.”

Non sono mancate altre letture positive seguite all’accordo. In particolare, vengono evidenziati alcuni punti di forza fra cui, in primo luogo, oltre all’ampiezza del meccanismo di consultazione adottato, il rapporto con l’esperienza degli MDG e il carattere universalistico dell’impegno cui la comunitŕ internazionale č chiamata a partecipare.

La generale valutazione positiva dello strumento degli MDG mette in risalto la loro funzione di punto di riferimento per le politiche e i programmi di lotta alla povertŕ di governi e istituzioni internazionali, nonché per il loro monitoraggio da parte della societŕ civile. La scadenza quindicennale ha rappresentato un’occasione per fondare una nuova fase di impegno su alcuni degli elementi positivi dell’esperienza partita nel 2000, e fra tutti la strutturazione in obiettivi precisi e definiti, che dovranno essere dotati di indicatori per la misurazione degli impegni, dei progressi e dei risultati. Allo stesso tempo, si č detto e scritto, il rinnovo dell’iniziativa da parte della comunitŕ internazionale puň permettere di affrontare oggi alcune delle debolezze affiorate nel corso degli ultimi anni.

In primo luogo, il dibattito preparatorio ha evidenziato una generale volontŕ di espandere il profilo dell’agenda, superando la piů volte richiamata eccessiva ristrettezza tematica degli MDG che mancavano di un chiaro riferimento alle cause della povertŕ e alla natura multidimensionale dello sviluppo. Ulteriori lacune, strettamente legate alle criticitŕ appena citate, sono la marginalitŕ riservata alla questione della disuguaglianza di genere, l’assenza di obiettivi riguardanti i diritti umani e la poca chiarezza in materia di sviluppo economico, punti che insieme a molti altri hanno trovato spazio nella molto piů ampia articolazione raggiunta con l’Agenda post-2015.

Altro tema di discussione č il tipo di coinvolgimento da parte dei paesi membri. Sebbene gli MDG fossero validi in linea di principio per tutti i paesi firmatari, erano normalmente trattati quali obiettivi da raggiungere da parte dei PVS attraverso il finanziamento dei donatori. Gli SDG, al contrario, grazie soprattutto alla forte espansione tematica e alla centralitŕ della questione della sostenibilitŕ globale dello sviluppo, coinvolgono in maniera paritaria e interdipendente l’intera comunitŕ internazionale, mutando, almeno nelle intenzioni, il profilo dell’azione internazionale per lo sviluppo che per oltre mezzo secolo ha seguito la logica donatore-beneficiario, in modo da riflettere i nuovi equilibri mondiali.

Sempre in questa prospettiva, il partenariato globale rilanciato dal processo post-2015 pone le basi per una integrazione effettiva del concetto di interdipendenza nelle pratiche di cooperazione internazionale. Allo stesso modo, il profilo multi-stakeholder che ha improntato la fase preparatoria richiama la volontŕ di individuare modalitŕ efficaci di mobilitare i diversi segmenti della societŕ internazionale sugli obiettivi comuni, a cominciare dalla necessitŕ di un coinvolgimento maggiore e diretto del settore privato nelle sfide dello sviluppo.

Un ulteriore elemento di forza degli SDG che viene approfondito riguarda il monitoraggio del processo di realizzazione dell’Agenda. Il riconoscimento della necessitŕ di elevare la qualitŕ del reporting č testimoniato dalla presenza di una parte consistente del testo di accordo che tratta precisamente dell’architettura della funzione di follow-up and review.

Per quanto riguarda la struttura degli Obiettivi, l’allargamento dell’orizzonte tematico soddisfa – secondo le dichiarazioni ufficiali di governi e organizzazioni delle Nazioni Unite - molte delle specifiche esigenze emerse durante la fase preparatoria, avendo fra i risultati anche l’inclusione di molti elementi della riflessione sugli ostacoli allo sviluppo, fra cui la disuguaglianza, i modelli insostenibili di produzione e consumo, l’inadeguatezza delle infrastrutture e della circolazione dell’innovazione tecnologica e la carenza di opportunitŕ di impiego pieno a condizioni dignitose. La dimensione ambientale assume un ruolo decisivo grazie alla presenza, tra l’altro, di specifici Obiettivi su cambiamento climatico, risorse oceaniche e marine, ecosistemi e biodiversitŕ.

L’accoglienza al testo da parte degli stati membri riflette le posizioni che sono andate via via delineandosi nel corso del negoziato (vedi tabella in Appendice). Molte delle dichiarazioni (fra cui, nello specifico, quelle di Stati Uniti, India e Svizzera) hanno sottolineato la grande rilevanza del processo e dell’accordo raggiunto che rilancia l’azione multilaterale.

Uno dei gruppi piů importanti al tavolo č stato quello dei cosiddetti G77[16] + Cina, che č stato rappresentato nell’incontro finale dal Sudafrica. Nella dichiarazione a commento del testo approvato, il delegato sudafricano ha sottolineato l’importanza del riconoscimento dello sradicamento della povertŕ in tutte le sue forme quale maggiore sfida e principale presupposto per lo sviluppo sostenibile, concetto che č stato successivamente ribadito anche dal rappresentante indiano.

A nome dei 48 paesi meno avanzati (the Least developed countries, LDC), il Benin ha espresso grande soddisfazione per l’esito del negoziato auspicando il mantenimento della forma definitiva del documento, mentre le Maldive, in rappresentanza di 39 paesi insulari (Alliance of Small Island States, AOSIS), ha subordinato l’approvazione ad un accordo su alcune modifiche al testo relativo all’Obiettivo 13 sui cambiamenti climatici.

Dai paesi africani - sia come gruppo regionale sia a livello di alcuni stati, come nel caso della Nigeria - sono venuti apprezzamenti per il valore conferito all’ownership, alle prioritŕ, alla legislazione e al contesto culturale nazionali. Dalla Nigeria, affiancata dall’Iran, sono venute tuttavia anche puntualizzazioni sull’importanza dell’attenzione ai valori religiosi nazionali e sui limiti del mandato nell’Agenda relativo a orientamento sessuale, identitŕ di genere e diritto all’aborto (l’ambito dei diritti umani, quello dei Sexual and reproductive health and rights o SRHR, su cui si sono registrate maggiori contrapposizioni e resistenze in seno ai processi negoziali).

Anche dall’America latina sono giunte note di apprezzamento, in particolare da Messico e Colombia, che apprezzano il cambiamento di paradigma dello sviluppo che si sposta dalla crescita delle imprese al benessere sostenibile di tutti gli individui. Considerazioni puntuali sull’impegno a fornire le risorse finanziarie necessarie all’azione sono state proposte dall’UE, che ha raccolto numerose manifestazioni di consenso dalla platea in diversi passaggi, fra cui la riaffermazione della volontŕ di fornire un contributo rilevante. Il rappresentante indiano ha sottolineato la soddisfazione per la riaffermazione delle Responsabilitŕ Comuni ma Differenziate e il mantenimento dell’intero impianto di SDG sviluppato dall’OWG nel 2014.

Nelle dichiarazioni sembra essere, quindi, superata la posizione espressa soprattutto dal Regno Unito negli interventi del primo ministro Cameron[17], circa l’opportunitŕ di snellire il numero di Obiettivi per rendere l’intero impianto piů incisivo dal punto di vista comunicativo.

Anche la societŕ civile internazionale sembra aver accolto positivamente l’accordo. Nelle parole di Leo Williams, coordinatore della Campagna Beyond 2015, l’investimento notevole di risorse da parte della comunitŕ internazionale guidata dalle strutture messe in campo dalle Nazioni Unite ha dato frutti importanti[18]. Viene in questo caso salutato con favore l’elevato livello di ambizione e il chiaro impegno verso l’approccio universalistico e integrato, i passi avanti per realizzare inclusione e partecipazione senza esclusione alcuna anche nelle fasi di realizzazione e follow-up, e il deciso focus sul tema dell’uguaglianza di genere.

Anche l’accento sui temi ambientali presente nella Dichiarazione č considerato un elemento positivo e viene accolto favorevolmente il riferimento all’aumento della temperatura media globale di 2/1,5 °C quale ostacolo allo sviluppo sostenibile nel paragrafo 31. La Campagna Beyond 2015 auspica, perň, l’inserimento anche i riferimenti alla non discriminazione e alla necessitŕ di promuovere politiche indirizzate alla redistribuzione. Si pone, inoltre, la scottante questione della concretizzazione degli impegni, iniziando dalla richiesta rivolta ai governi di fornire risposte a livello nazionale non oltre il 2018, fissando baseline e benchmark per ognuno dei target. Gli stessi governi sono incoraggiati a programmare valutazioni regolari dei progressi con cadenza almeno quadriennale, includendo l’importante livello subnazionale nella rilevazione e analisi dei dati.

Le dichiarazioni a caldo da parte di altri esponenti delle maggiori organizzazioni della societŕ civile sono notevolmente allineate sui principali punti menzionati[19]. Jens Martens, direttore del Global Policy Forum di Bonn, esprime soddisfazione con toni simili a quelli usati da Beyond 2015 per un’agenda ambiziosa, che affronta le crescenti disuguaglianze fra paesi e comunitŕ e si propone di eliminare la povertŕ in tutte le sue forme. Meno entusiasmo viene riservato alla parte del testo finale che tratta dei MoI. Secondo la sua lettura, che trova riscontro in altre dichiarazioni di esponenti della societŕ civile internazionale, la realizzazione degli SDG avrŕ bisogno di cambiamenti sostanziali che interessino le politiche fiscali e la governance finanziaria globale.

Parole simili sono contenute nel corposo European Development Report pubblicato a maggio da alcuni think tank europei – l’inglese ODI (Overseas Development Institute), l’olandese ECDPM (European Centre for Development Policy Management), il tedesco GDI (German Development Institute), l’Universitŕ di Atene e il Southern Voice Network. Il rapporto dichiarava esplicitamente che gli SDG richiederanno un incremento significativo di risorse finanziarie, ben al di lŕ dell’Aiuto pubblico allo sviluppo, e tali risorse aggiuntive a loro volta richiederanno quadri istituzionali e di politiche ben diversi dal passato a livello locale, nazionale e globale. Si sottolinea, perciň, il nesso che associa gli SDG ad una diversa finanza e questa a nuove ed efficaci politiche, tre componenti che insieme possono concorrere a realizzare un’agenda realmente universale e di trasformazione profonda[20].

Bhumika Muchhala, del Third World Network, definisce il testo, invece, vago e nota come non siano presenti accenni a impegni precisi in termini di risorse aggiuntive internazionali, mentre sembra si faccia molto affidamento sull’apporto del settore privato e sulla mobilitazione delle risorse interne ai PVS. Anche rispetto al preconizzato partenariato multi-stakeholder, Muchhala sottolinea l’assenza di questioni quali quelle della trasparenza e dell’accountability o delle valutazioni e monitoraggi da parte di terze parti indipendenti.

Anche i numerosi passi avanti sui temi della disparitŕ di genere hanno riscosso consensi da parte della societŕ civile. La International Women’s Health Coalition considera la bozza un rilevante segnale dell’intenzione di operare un significativo cambiamento e riafferma la necessitŕ di mantenere alta l’attenzione perché i governi nazionali lavorino per mantenere gli impegni. Deon Nel, direttore esecutivo per la Conservation del WWF, ha usato parole del genere, esprimendo soddisfazione per la svolta ambientalista che stabilisce un percorso comune per persone, pianeta e prosperitŕ e sposta l’attenzione sul piano nazionale per il raggiungimento di risultati concreti.

5. Il finanziamento dello sviluppo sostenibile: i nodi irrisolti della Conferenza di Addis Abeba

La concretizzazione degli impegni indicati dagli SDG poggia, in primo luogo, sulla capacitŕ dei paesi e della comunitŕ internazionale di attuare quella che viene giudicata la piů grande mobilitazione di risorse per lo sviluppo. Due mesi prima del summit di New York, e in relazione diretta con l’agenda degli SDG, si č tenuta ad Addis Abeba dal 13 al 16 luglio 2015 la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sulla Finanza per lo Sviluppo, che ha affrontato il tema specifico e approvato la Addis Ababa Action Agenda (AAAA), con risultati giudicati perň insufficienti da molti stakeholder.

Il Segretario Generale Ban Ki-moon ha detto di considerare l’Agenda di Addis Abeba un importante “passo avanti” per costruire un mondo di prosperitŕ e dignitŕ per tutti: parole che sono state da molti interpretate come il riconoscimento della necessitŕ di fare ulteriori progressi sulle questioni rimaste irrisolte.Allo stesso modo, la sua Consulente Speciale per il processo post 2015, Amina J. Mohammed, riconoscendo la delusione suscitata dal documento finale, ha chiesto alla societŕ civile di mantenere la speranza perché convinta che le strade su tutti i temi di interesse siano comunque state aperte[21].

L’Action Agenda č un documento di 31 pagine articolato in 134 punti suddivisi in due parti principali. La prima parte stabilisce il quadro globale per il finanziamento dello sviluppo post-2015, mentre la seconda parte č dedicata alle Aree di Azione che comprendono le risorse pubbliche nazionali, le imprese e il settore privato finanziario nazionale e internazionale, la cooperazione internazionale allo sviluppo, il commercio internazionale come motore dello sviluppo, la sostenibilitŕ del debito, le questioni sistemiche, l’innovazione scientifica e tecnologica e del capacity building, la raccolta e il monitoraggio dei dati e il follow-up.

L’accordo definisce il fabbisogno finanziario per raggiungere gli Obiettivi della nuova agenda quantificandolo nell’ordine di alcune migliaia di miliardi di dollari l’anno e indica la possibilitŕ concreta di raggiungere tale somma in ragione del risparmio pubblico e privato, a condizione che “le risorse finanziarie siano investite e allineate conformemente alle aree prioritarie definite dall’Agenda di sviluppo”. A questo scopo, l’Action Agenda predispone:

1.   una cornice globale per il finanziamento dello sviluppo sostenibile, che allinea tutti i flussi di risorse e le politiche, pubbliche e private, nazionali e internazionali, con le prioritŕ economiche, sociali e ambientali;

2.   un set di politiche per gli stati membri, con un pacchetto di oltre cento misure concrete per attingere alle possibili fonti di risorse finanziarie, tecnologiche, per l’innovazione, il commercio e la rilevazione di dati per sostenere la mobilitazione dei mezzi per una trasformazione globale verso lo sviluppo sostenibile[22].

L’accordo indica gli impegni, gli strumenti e gli obiettivi che incoraggiano i paesi a definire i propri target e le scadenze nazionali per accrescere le entrate, utilizzare il sostegno internazionale, rafforzare la cooperazione fiscale internazionale e la lotta ai flussi illeciti e velocizzare il rientro dei capitali.

Inoltre, il testo impegna alla trasparenza e all’attenzione alle questioni di genere nei bilanci e negli acquisti della Pubblica Amministrazione (il cosiddetto public procurement), all’uso razionale dei sussidi per i combustibili fossili e invita le banche nazionali di sviluppo a intraprendere gli investimenti necessari per lo sviluppo sostenibile.

Relativamente al settore privato, l’AAAA incoraggia un modello di business che tenga conto degli impatti sociali, ambientali e sulla governance, che integri funzioni di reporting e favorisca l’impact investing[23]. I partecipanti sono impegnati a sostenere lo sviluppo dei mercati locali di capitali, a ridurre i costi dei trasferimenti di rimesse sotto il 3% e ad assicurare che entro il 2030 non esistano corridoi di trasferimento con costi superiori al 5%. Si sono inoltre impegnati a favorire l’inclusione finanziaria come obiettivo di policy nella legislazione, a sviluppare i quadri regolamentari per allineare gli incentivi al settore privato con gli obiettivi pubblici. Le fondazioni private sono incoraggiate a utilizzare attivamente i propri fondi per investimenti nello sviluppo sostenibile.

Fra le principali nuove iniziative l’accordo prevede il Technology Facilitation Mechanism (di cui si č giŕ detto)  per incrementare la collaborazione fra governi, comunitŕ scientifica, imprese e societŕ civile, un Global Infrastructure Forum per identificare e affrontare le sfide del gap infrastrutturale ed evidenziare le opportunitŕ di investimento e cooperazione, per assicurare che i progetti siano sostenibili dal punto di vista economico, sociale e ambientale.

I paesi partecipanti hanno, inoltre, adottato un nuovo social compact in favore dei poveri e dei gruppi vulnerabili che prevede la realizzazione di sistemi di protezione sociale; hanno stabilito di considerare l’adozione di misure fiscali per scoraggiare il consumo di sostanze nocive, fra cui in primo luogo il tabacco, di promuovere l’accesso al credito per le piccole imprese, di sviluppare e rendere operativa una strategia globale per l’occupazione giovanile, di implementare l’International Labour Organization Global Jobs Pact entro il 2020.

L’accordo rinnova l’impegno dei paesi sviluppati a destinare lo 0.7% del Reddito nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo e una quota fra lo 0,15% e lo 0,20% ai Paesi meno avanzati (PMA). Gli stessi paesi hanno anche stabilito di rafforzare le misure per promuovere gli investimenti nei paesi meno avanzati e di rendere operativa entro il 2017 la Technology Bank per i PMA. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, l’Action Agenda chiama i paesi sviluppati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 da diverse fonti per affrontare i bisogni di risorse dei PVS.

Sul tema della cooperazione fiscale, l’AAAA prevede un maggiore supporto all’UN Committee of Experts on International Cooperation in Tax Matters per migliorarne la capacitŕ operativa e l’efficacia; e verrŕ aumentato l’impegno dell’Economic and Social Council (ECOSOC) attraverso gli Special Meeting on International Cooperation on Tax Matters.

Come giŕ accennato, l’accordo č stato giudicato deludente da molti stakeholder fra cui numerose organizzazioni della societŕ civile. Nelle reazioni immediate, alcune ONG internazionali hanno riconosciuto che l’AAAA rappresenta comunque un passo avanti, mentre altre organizzazioni hanno criticato aspramente il documento stigmatizzando la vaghezza di alcuni impegni e valutando negativamente alcuni punti importanti[24].La presenza nel testo di molti “incoraggiamenti” a realizzare le azioni viene interpretata come mancanza di vera volontŕ di impegnarsi per il cambiamento, evitando un intervento concreto e vincolante su tante questioni scottanti[25]. L’Addis Ababa CSO FfD Forum considera il documento quasi completamente privo di actionable deliverables e ritiene che mini gli accordi sottoscritti con il Monterrey Consensus e la Doha Declaration in occasione delle due precedenti conferenze sul tema[26].

Il tema probabilmente piů scottante rimane quello della cooperazione internazionale in materia fiscale e di contrasto ai flussi illeciti di capitale. Il risultato finale č giudicato molto negativamente dalla societŕ civile che ha piů volte accusato alcuni paesi avanzati, fra cui Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, di ostacolare la svolta necessaria in questo campo, identificata nell’istituzione di un’agenzia internazionale dedicata[27]. L’idea dell’istituzione di un nuovo organismo č stata fortemente perorata soprattutto dalla societŕ civile e dai PVS, in primis il G77; si puntava a un’agenzia intergovernativa, trasparente e sufficientemente dotata di risorse, sotto l’egida delle Nazioni Unite e partecipata da tutti gli stati membri per guidare le decisioni in tema di cooperazione fiscale internazionale. Alcuni paesi avanzati, come ad esempio la Svezia e i Paesi Bassi[28], hanno appoggiato la posizione favorevole alla riforma dei meccanismi attualmente attivi, senza tuttavia arrivare ad avallare la richiesta di una nuova agenzia.

I fautori della proposta ricordano soprattutto le stime sull’ammontare di risorse sottratte ai bilanci pubblici dei PVS, che sono quantificate nell’ordine di mille miliardi di dollari l’anno, molto di piů di quanto ricevano in aiuto pubblico. Il fatto che attualmente gli standard inerenti la cooperazione internazionale sui temi fiscali siano stabiliti in consessi - come l’OCSE - che escludono la gran parte dei paesi č ritenuto uno degli ostacoli principali alla soluzione dei problemi dell’elusione fiscale internazionale e del traffico illegale di capitali. A definire il quadro complessivo di sistema, occorre aggiungere le valutazioni sulla portata degli scambi intra-impresa che coinvolgono le aziende multinazionali e che si stima coprano piů della metŕ dell’intero commercio globale[29].

Sul tappeto ci sono questioni fondamentali per la mobilitazione delle risorse interne, su cui la stessa AAAA fa affidamento per colmare il gap di fondi necessari a finanziare l’Agenda post-2015. Fra queste, la possibilitŕ di obbligare le aziende multinazionali a dichiarare pubblicamente l’ammontare e la destinazione delle tasse effettivamente pagate, nonché la fissazione di regole per definire dove le stesse multinazionali siano tenute a versare le imposte. Il regime attuale prevede sostanzialmente che ciň accada nel paese dove ha sede il quartier generale dell’impresa, mentre i PVS sono favorevoli a spostare il luogo di tassazione nei paesi dove si svolgono la maggior parte delle attivitŕ.

Il fatto che la questione non venga affrontata in modo decisivo viene considerato dai responsabili delle maggiori campagne sul tema un’aperta violazione degli impegni presi a Monterrey, che stabilivano il principio della ricerca della good governance a tutti i livelli. Viene anche fatto notare come l’AAAA insista sulla necessitŕ di modernizzare i sistemi fiscali nei PVS per la mobilitazione del risparmio interno, con interventi nel campo della formalizzazione e dell’uscita dall’illegalitŕ dei milioni di piccole e micro imprese che sostengono l’economia sommersa delle fasce piů povere, senza perň una valutazione seria della portata effettiva dei flussi finanziari ricavabili da questo tipo di iniziative e della sproporzione rispetto alle somme che vengono sottratte a molti paesi per effetto delle attuali regole che permettono l’elusione fiscale e il traffico illegale di capitali verso i paradisi fiscali[30].

Un altro tema molto controverso rimane quello della partecipazione dei privati, su cui si concentrano posizioni molto critiche[31] che giudicano l’accordo incapace di assicurare l’accountability del settore privato sulla base degli accordi internazionali sui diritti umani, sui diritti dei lavoratori e sugli standard ambientali, anche in ragione dell’eliminazione della parte di bozza di accordo che richiedeva alle imprese di garantire la trasparenza del proprio operato di fronte all’autoritŕ pubblica e alle popolazioni. Il tema specifico delle Public Private Partnership(PPP) ha sollevato il dibattito anche all’interno della societŕ civile[32].

Inoltre, rimane aperta la polemica sull’opportunitŕ di aprire alle imprese anche multinazionali quali protagonisti dello sviluppo, nella speranza di ottenere risposte positive agli “incoraggiamenti” perché le allocazioni di investimenti si indirizzino verso progetti sostenibili. Le voci critiche sottolineano come la l’AAAA chieda ai governi di allineare gli incentivi alle imprese agli obiettivi di sostenibilitŕ, mentre tralasci la necessitŕ di introdurre anche vincoli normativi alle imprese per orientarne l’azione verso l’inclusione sociale, il rispetto dei diritti umani e delle risorse ambientali. Anche la richiesta di maggiore trasparenza per le fondazioni filantropiche č guardata con favore, ma viene notato come quelle fondazioni siano spesso alimentate da imprese che fanno largo uso di sistemi di elusione fiscale, sottraendo risorse alle finanze pubbliche che potrebbero essere usate per lo sviluppo sostenibile, spesso in quantitŕ maggiore rispetto a quanto investito dalle fondazioni.

Le puntualizzazioni negative espresse dalla societŕ civile hanno toccato anche altri temi rilevanti dell’Agenda. In alcuni casi, la critica si appunta sull’approccio stesso con cui l’AAAA affronta le singole questioni. Č il caso, ad esempio, dell’uguaglianza di genere, il cui inserimento nell’Agenda viene giudicato incapace di arrestare la strumentalizzazione delle donne, visto che si stabilisce che il riconoscimento dei diritti possa essere funzionale allo sviluppo, piuttosto che riconoscerne il valore in sé. Ma la gran parte dei punti critici riguarda la scarsa incisivitŕ del testo su questioni controverse, dove prevale la necessitŕ di un compromesso con gli attori che frenano e, di fatto, lavorano per mantenere lo status quo.

Un altro elemento rimasto sul tappeto č quello del rilancio dell’azione della cooperazione internazionale allo sviluppo, che soffre in primo luogo della mancata attuazione da parte di donatori degli impegni presi rispetto all’erogazione dei fondi. A fronte di un’evidente latitanza sulla questione del raggiungimento della quota di 0,7% del Reddito nazionale lordo da destinare all’aiuto, viene criticata la scelta di non ribadire in maniera incisiva questo impegno, spostando tutta l’attenzione e le speranze di concretizzare l’Agenda sulla mobilitazione di altri flussi come quelli dal settore privato o quelli del risparmio pubblico e privato nei PVS.

Allo stesso modo, si rimprovera alla Conferenza di Addis Abeba di non aver affrontato in maniera incisiva il tema della coerenza dei regimi internazionali relativi al commercio con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile post-2015. Fra gli argomenti assenti nella AAAA e sollevati dalle voci piů critiche: la necessitŕ di sottoporre gli accordi commerciali a valutazioni di sostenibilitŕ e di rispetto dei diritti umani, di operare per ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime e di eliminare le clausole per la composizione dei contenziosi fra imprese internazionali e governi, di rendere i regimi commerciali coerenti con la volontŕ piů volte espressa di favorire modelli di industrializzazione inclusivi e basati sullo sviluppo della piccola impresa.

In altri casi si propone di approfondire alcuni elementi non sufficientemente sviluppati, come per quanto riguarda le misure di riduzione del debito sovrano che non dovrebbero solo  tener conto, secondo le indicazioni sviluppate in ambito ONU, del principio di sostenibilitŕ finanziaria, ma essere anche utilizzate come riconoscimento dell’impegno di un governo per la difesa dei diritti umani. Nel caso dell’istituzione del Technology Facilitation Mechanism, si ricorda come la tecnologia non sia neutrale e come nel trasferimento tecnologico sia pertanto importante considerarne con attenzione il ruolo per sviluppare i potenziali specifici dei PVS, con la partecipazione fattiva delle comunitŕ locali e di tutti gli attori, fra cui in primo luogo le donne.

Anche dal punto di vista del richiamo alla trasparenza e alla accountability nel follow-up dell’AAAA, che pure viene giudicata positivamente, si nota la carenza di impegni altrettanto concreti per i governi e gli altri attori che l’Agenda chiama ad essere protagonisti della mobilitazione di risorse e che non sono sottoposti a nessuna richiesta di rendere pubbliche e accessibili in tempi certi le informazioni sulla propria partecipazione al finanziamento dello sviluppo sostenibile.

 

 


L’attivitŕ del Comitato permanente sull’agenda post 2015. Cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato
(a cura del Servizio Studi della Camera)

All'inizio della XVII legislatura č stato costituito, in seno alla Commissione Affari esteri della Camera, il Comitato Agenda post-2015, cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato, presieduto dall'onorevole Maria Edera Spadoni.

Anche sulla base dell'esperienza maturata dal Comitato per gli Obiettivi del Millennio costituito nella precedente legislatura, il Comitato ha deciso un programma di lavoro comprendente lo svolgimento di audizioni di rappresentanti del mondo del volontariato e delle ONG, per acquisire elementi sul dibattito internazionale riguardante la costruzione di un'agenda per lo sviluppo per gli anni successivi al 2015 (v. seduta del 23 luglio 2013).

Il lavoro del Comitato č stato inaugurato dall'audizione del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli (seduta del 1° agosto 2013) che ha tra l'altro toccato il tema della riflessione che sta coinvolgendo la comunitŕ internazionale a proposito della necessitŕ di far convergere i due filoni che riconducono il tema dello sviluppo, rispettivamente, ai sustainable development goals (SDGs, proposti nella Conferenza Rio+20) da un lato, e agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, dall'altro.

Nella seduta del 13 febbraio 2014) il Comitato Agenda post-2015 ha esaminato la Relazione annuale al Parlamento sull'attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo nel 2012 (Doc. LV) e la Relazione predisposta dal Ministero dell'economia e delle finanze sull'attivitŕ di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla partecipazione italiana alle risorse di detti organismi per l'anno 2012 (Doc. LV, n.bis).

Il (17 ottobre 2013) č stato sentito il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo presso il Ministero degli affari esteri, Giampaolo Cantini che ha innanzitutto ricordato come il tema principale scelto dal Presidente dell'Assemblea generale dell'Onu  per la 68° sessione (inaugurata nel settembre 2013) fosse il conseguimento degli obiettivi del millennio entro il 2015 e l'avvio del processo negoziale per la definizione della nuova Agenda per lo sviluppo. Cantini ha poi riferito del dibatto internazionale sull'Agenda post-2015, nel quale emergeva l'esigenza di riprendere gli obiettivi attuali, ma anche di dare un risalto adeguato alle condizioni di pace e sicurezza, ai temi della governance e del rule of law come componenti fondamentali per le strategie di sviluppo, nonché ai temi di gender. Riguardo la cooperazione allo sviluppo, Cantini ha dato conto delle risorse disponibili) e delle numerose grandi scadenze a livello internazionale nelle quali la cooperazione italiana č impegnata, tra le quali l'Expo 2015 e la II Conferenza mondiale sulla nutrizione del prossimo novembre.

Il 17 settembre 2014  il Comitato ha svolto l'audizione del viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, On. Lapo Pistelli, all'esito dell'approvazione della nuova normativa sulla cooperazione italiana allo sviluppo, approvata dal Parlamento con la legge 11 agosto 2014, n. 125: l'audizione del viceministro Pistelli ha avuto l'obiettivo precipuo di focalizzare l'attenzione sugli strumenti di attuazione della nuova normativa - si ricorda al proposito che la precedente legge, la legge 49 del 1987, rimane in vigore fino a una data collegata alla approvazione del  regolamento attuativo della nuova disciplina. Tre mesi dopo, il 17 dicembre 2014, il Comitato ha nuovamente ascoltato il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Ministro Giampaolo Cantini, anche in questo caso nel quadro della nuova normativa nazionale incardinata con la citata legge 125 del 2014.

Nella seduta del 17 marzo 2015, poi, il Comitato permanente ha proceduto all'audizione del funzionario preposto all'Unitŕ tecnica centrale di supporto alla Direzione generale cooperazione e sviluppo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministro plenipotenziario Francesco Paolo Venier, in ordine alle attivitŕ dell'Unitŕ tecnica suddetta nel piů ampio quadro dell'attuazione della legge che ha profondamente innovato la disciplina italiana sulla cooperazione allo sviluppo, vale a dire la legge n. 125 del 2014.

Il Comitato ha inoltre svolto una serie di audizioni informali.  Sono stati finora ascoltati rappresentanti di Action Aid, di Save the children Italia, della Fondazione Pangea e dell'Iniziativa Ara Pacis (5 novembre 2013), il Presidente di Green Cross Italia, Elio Pacilio (14 novembre 2013), il Presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerrera (19 novembre 2013), Padre Zanotelli, direttore di Nigrizia (17 dicembre 2013), il dottor Giovanni Putoto, responsabile per la programmazione della ONG Medici per l'Africa-CUAMM (6 maggio 2014). Il 16 giugno 2015, nell'ambito dell'esame dello schema di decreto ministeriale riguardante lo "Statuto dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo" (Atto n. 175)  si č svolta l'audizione di rappresentanti di associazioni di coordinamento di organizzazioni non governative operanti nel settore della cooperazione allo sviluppo

 


La cooperazione parlamentare in ambito ONU
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali della Camera)

 

XVII LEGISLATURA

 

 

Il 12 maggio 2009 l’Italia ha presentato la propria candidatura al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2017-2018. Le elezioni si terranno nell'autunno 2016. Attualmente sono candidati, per i due posti a disposizione del nostro gruppo regionale, anche Paesi Bassi e Svezia.

 

 

1. INCONTRI

In occasione della quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell'Unione interparlamentare, svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2 settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario generale delle Nazioni Unite Jan Kenneth Eliasson.

Il 20 novembre 2014, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.

Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a New York (a latere della   seconda riunione del Comitato preparatorio della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace, Hervé Ladsous, e il 18 novembre il Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.

L’11 novembre 2014, la Presidente Boldrini ha partecipato con un proprio intervento alla riunione del Consiglio di Amministrazione Programma Alimentare Mondiale.

Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini č intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l'impatto umano. La prospettiva dell'UNRWA (Agenzia dell'ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi) e degli operatori dell'informazione".

Il 29 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.

Il 22 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha incontrato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila B. Keetharuth.

La Presidente Boldrini, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti d'America dal 20 al 23 maggio 2014, si č recata in visita, il 22 maggio, presso le Nazioni Unite, dove ha incontrato funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.

Il 14 novembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell'ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, Zeinab Hawa Bangura.

Il 24 ottobre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore per la stabilitŕ della regione", con il Commissario generale dell'Agenzia ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), Filippo Grandi.

Il 18 settembre 2013, la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.

La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha ricevuto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il 9 aprile 2013

 

Ban Ki-moon. Il Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee parlamentari, espressione della volontŕ popolare. Tra i temi sollevati da Ban Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.


2. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)

 

La delegazione parlamentare italiana alle sessioni
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite č la principale sede di decisione e l'organo piů rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale ordinaria dell'Assemblea inizia il terzo martedě di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in qualitŕ di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.

Nelle precedenti legislature, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si č recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale

Nella XVII legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria delegazione alle seguenti sessioni:

·       69ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione era composta dai deputati Fabrizio Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice Presidente della Commissione Esteri e Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della NATO.

·       68ma sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione era composta dai deputati Deborah Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed i rapporti con l’Unione europea, Andrea Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del Comitato permanente per i diritti umani.

 


3. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE

CONFERENZE IN AMBITO ONU

La partecipazione parlamentare alle principali Conferenze ONU

Sotto l’egida dell'ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l'adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle questioni piů delicate che l'ONU ha in agenda. La frequenza e l'importanza di tali appuntamenti sono tali da coinvolgere l'attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo, ma anche dei Parlamenti e della societŕ civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell'Unione Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine delle Conferenze.  La Camera partecipa regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Societŕ dell’informazione.

 

 

a)     La Commissione sullo status delle donne (CSW)

La Commissione sullo status delle donne (CSW) č stata istituita dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946, come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito principale della Commissione, il cui mandato č stato esteso nel 1987 (risoluzione ECOSOC 1987/22), č quello di elaborare rapporti e fornire raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta, inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.

La Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne. A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le raccomandazioni necessarie per accelerarne l'attuazione[33].

Ogni anno, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare il punto sui progressi riguardanti la paritŕ di genere, per individuare le sfide future, per stabilire gli standard globali e per formulare politiche concrete di promozione della paritŕ di genere e dell’avanzamento delle donne in generale.

La Commissione si riunisce annualmente per un periodo di dieci giorni di lavoro, alla fine di febbraio – inizio marzo.

Nella XVII legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alla 58ma Sessione della Commissione sulla condizione femminile sulla condizione femminile delle Nazioni Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10 al 14 marzo 2014. La Delegazione era composta dai deputati Valeria Valente (PD), Presidente del Comitato per le pari opportunitŕ e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare. Alla 59ma Sessione svoltasi dal 9 al 20 marzo 2015 hanno partecipato le deputate. Lorena Milanato (FI-PdL), componente del Comitato per le pari opportunitŕ e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare.

 

b)     La Conferenza delle Parti (COP) sui cambiamenti climatici

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della concentrazione in atmosfera dell'anidride carbonica. Piů recentemente, nel 1997, č stato approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto. Esso č significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).

Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti (COP) - alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo si riuniscono per monitorare i progressi e valutare il percorso da seguire per l'attuazione della Convenzione. Il Segretariato dell'UNFCCC supporta tutte le istituzioni coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L'Italia ha ratificato il Protocollo con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto č entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

 

Nella XVII legislatura si č tenuta a Varsavia dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX Sessione della Conferenza delle Parti (COP19) relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualitŕ di osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa (M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione Ambiente.

L'ultima Conferenza (COP20) si č tenuta a Lima, dal 6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente.

La prossima Conferenza (COP21) avrŕ luogo a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre 2015.

 

 

c)     Societŕ dell’informazione (World Summit on the Information Society – WSIS)

Il Vertice Mondiale sulla societŕ dell’informazione, organizzato dalle Nazioni Unite fra il 2003 e il 2005 ha avuto un grande effetto di traino su tutte le iniziative in corso a livello mondiale mirate a favorire uno sviluppo piů equo ed inclusivo delle tecnologie informatiche.

La prima sessione del World Summit si č svolta a Ginevra dal 10 al 12 dicembre 2003, mentre la seconda ha avuto luogo a Tunisi dal 16 al 18 novembre 2005. In ambedue le fasi era presente una delegazione della Camera dei deputati. L’Unione interparlamentare ha organizzato una riunione-dibattito sui temi oggetto del Vertice.

A seguito dei Vertici di Ginevra, a Tunisi le Nazioni Unite si sono fatte promotrici di una iniziativa volta, tra l’altro, a promuovere una “Carta dei diritti della rete Internet”. Tale iniziativa, denominata Internet Governance Forum, ha tenuto le seguenti riunioni: la prima ad Atene (30 ottobre-2 novembre 2006), la seconda a Rio de Janeiro, in Brasile, dal 12 al 15 novembre 2007 e la terza a Hyderabad, dal 3 al 6 dicembre 2008. La quarta riunione ha avuto luogo a Sharm El Sheikh, in Egitto, dal 15 al 18 novembre 2009 e la quinta a Vilnius, in Lituania, dal 14 al 17 settembre 2010. La sesta riunione si č tenuta a Nairobi dal 27 al 30 settembre 2011, mentre la settima si č svolta a Baku dal 6 al 9 novembre 2012.

A questi eventi non č stato designato a partecipare alcun deputato.


Prioritŕ dell’UE in vista della settantesima
assemblea generale delle nazioni unite

(a cura dell’Ufficio Rapporti per l’Unione europea della Camera)

 

 

Il Consiglio dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le prioritŕ dell’UE in vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si svolgerŕ a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015.

Le prioritŕ definite del Consiglio sono cosě articolate:

 

Riesame delle operazioni di pace delle Nazioni Unite

Le operazioni di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari, coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti umani.

L’UE considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per conseguire una stabilitŕ duratura e sostenibile.

Il riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre piů importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi internazionali per la pace e la sicurezza.

Le operazioni di pace non possono perň sostituirsi ai processi politici. Sono necessari sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un conflitto.

L’Ue considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i paesi terzi. Č necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la sicurezza.

 

Non proliferazione e disarmo

L’UE ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori.

L’UE si adopererŕ per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirŕ attivamente al suo riesame globale, che deve essere completato nel 2016.

L’UE continuerŕ a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e considera una prioritŕ assoluta l’entrata in vigore del trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

L’UE č, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine, intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta internazionale per le attivitŕ nello spazio extraatmosferico.

 

Lotta contro il terrorismo

L’UE sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti e marginalizzazione sociale, economica e politica.

L’UE ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate.

 

Agenda globale post 2015

L’UE č fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile con societŕ pacifiche e stabili e includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, paritŕ di genere e sostenibilitŕ ambientale.

I risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York (vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici.

L’ UE ritiene che il principale campo d’azione sarŕ la definizione e l’attuazione di un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilitŕ e valutazione, che dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015.

Tra le tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.

Cambiamenti climatici

L’UE punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente, che tenga conto delle esigenze dei piů vulnerabili.

L’UE resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari attingendo ad un ampia varietŕ di fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento.

Nel contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

 

Diritti umani e diritto internazionale

L’UE si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e sicurezza.

L’UE sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché la responsabilitŕ primaria di consegnare gli autori di reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la sua giurisdizione qualora le autoritŕ nazionali non siano in grado o non siano disposte a perseguire veramente i crimini piů gravi motivo di allarme per la comunitŕ internazionale.

L’UE, in tale ambito, intende:

·  sostenere la libertŕ di opinione e di espressione online e offline quale diritto umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace;

·  continuare a propugnare la libertŕ di religione o credo e chiederŕ maggiori sforzi volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose.

·  proseguire gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;

·  a promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.

·  continuare a promuovere i diritti dei minori;

·  continuare ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.

 

Protezione dello spazio umanitario

L’UE continuerŕ a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati.

Le discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del processo piů ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema umanitario.

 

Questioni di genere

L’UE sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste.

L’emancipazione e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.

 

Ciberspazio

L’Unione europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e sicurezza internazionali nel ciberspazio.

In tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti online e offline. Č inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance di internet. L’Unione europea resterŕ ferma sul principio che a nessuna singola entitŕ, societŕ, organizzazione o governo si debba consentire il controllo di internet.

L’Unione europea riconosce la necessitŕ costante di lavorare attivamente in tale ambito alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla riservatezza e alla libertŕ di espressione.

 

Riforma e maggiore efficienza delle Nazioni Unite

Sfide emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalitŕ di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e del personale delle Nazioni Unite continuerŕ ad essere una prioritŕ dell’UE. La riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio dell’attivitŕ dell’Assemblea generale.

 

Rafforzamento dei partenariati multilaterali

L’Ue ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale č il mezzo per sostenere la pace e la prosperitŕ in tutto il mondo e superare i conflitti tra le nazioni.

L’UE accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del "mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale di sicurezza.

Occorre fare piů affidamento su azioni a piů livelli e multiformi in tutte le diverse fasi dei conflitti e in tutte le fasi č necessaria una cooperazione piů stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto.

L’UE ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza di una stretta cooperazione trilaterale.

 


Il Department of Peace-Keeping Operations (DPKO)
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

Il DPKO (Department of Peace-keeping Operations) č l’ufficio delle Nazioni Unite, collocato all’interno del Segretariato Generale, con la funzione di assistere gli Stati membri dell’ONU e il Segretario generale all’espletamento del compito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il DPKO vede al proprio vertice un Segretario generale aggiunto, sotto le dipendenze dirette del Segretario generale dell’ONU.

Da tale Segretario generale aggiunto, capo del Dipartimento, dipendono quattro uffici: per le operazioni; per gli affari militari; per gli affari giuridici e la sicurezza; infine la divisione per l’addestramento, la valutazione e la politica.

Il Budget annuale delle Nazioni Unite prevede una specifica voce di finanziamento dedicata al DPKO, cui tutti gli Stati membri devono contribuire, o in termini monetari o di uomini e mezzi.

Il Segretario generale aggiunto per il DPKO č Hervé Ladsous, che ha assunto formalmente l’incarico nell’ottobre 2011. Il suo predecessore era Alain Le Roy.

La missione principale del DPKO consiste nel pianificare, preparare, gestire e dirigere le operazioni di mantenimento della pace patrocinate dalle Nazioni Unite, al fine di assicurare l’esercizio del mandato sotto l’autoritŕ del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale, nonché sotto la direzione generale attribuita al Segretario generale, come espressamente previsto dalla risoluzione di autorizzazione delle stesse missioni.

Il DPKO provvede a fornire le indicazioni di tipo politico e tecnico per la realizzazione delle missioni di pace delle Nazioni Unite nonché a mantenere un canale costante di dialogo con il Consiglio di Sicurezza, con i Paesi membri che forniscono le truppe e gli equipaggiamenti per le missioni, nonché con le parti del conflitto, perché questi possano realizzare gli obiettivi per il mantenimento della pace stabiliti dalla risoluzione di autorizzazione della missione del Consiglio di Sicurezza.

Il DPKO, quindi, funge non solo da centro di comando e controllo delle missioni di pace, ma anche di coordinamento tra i diversi attori che in esse sono interessati, come organizzazioni non governative (ONG), autoritŕ governative e non a livello locale, nonché forze di polizia e militari impegnati sul campo. Al DPKO, inoltre, č attribuita la responsabilitŕ del coordinamento di tutti gli aspetti concernenti le missioni di pace ONU, dalle problematiche militari, di polizia, politiche ed economiche.

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Le operazioni di peace-keeping[34] istituite dalle Nazioni Unite sono comunemente oggetto di sistemazione dottrinaria che le distingue in operazioni di prima, seconda e terza generazione. Tale distinzione concerne non soltanto il periodo storico in cui queste sono state istituite, ma anche i compiti cui esse sono state votate e la natura stessa della missione cui erano chiamate a rispondere.

Appartengono alle c.d. operazioni di prima generazione (o di peace-keeping puro) quelle istituite tra il 1948 e il 1987. Caratteristiche di tali operazioni erano: la necessitŕ di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizzante la missione; il consenso dello Stato in cui veniva effettuata l’operazione; il ricorso all’uso della forza armata da parte del personale militare impiegato nella missione nel solo caso di legittima difesa, nonché nei soli casi di conflitti internazionali.

Con la fine della Guerra fredda, si assiste al sorgere delle operazioni di pace c.d. di seconda generazione, che si ispirano al documento An Agenda for Peace[35] pubblicato nel 1992 dall’allora Segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali. In tale documento strategico, Boutros-Ghali sottolineava come il numero di missioni istituite tra il 1948 e il 1987 (13 missioni di peacekeeping) uguagliava quello delle missioni comprese tra il 1987 e il 1992, evidenziando la necessitŕ di un ripensamento globale del ruolo delle Nazioni Unite e delle missioni da esse istituite alla luce del cambiamento dello scenario globale.

Le operazioni di seconda generazione, definite anche di peacemaking e/o peacebuilding, implicano il maggiore rilievo attribuito alla ‘componente civile’ delle operazioni, cioč la collaborazione con le forze appartenenti ad organizzazioni regionali, l’amministrazione del territorio, il monitoraggio elettorale, l’assistenza umanitaria, la ricostruzione economica e finanziaria, nonché la protezione dei diritti umani. Allo scopo di supportare il processo di decisione e il coordinamento tra civili, militari e forze di polizia attraverso uno scambio di informazioni a livello strategico č stato istituito nell’aprile 1993 il Situation Centre of the Department of Peacekeeping Operations, che rappresenta uno strumento di cruciale importanza per collegare i centri decisionali, in particolare lo staff del Segretariato con le unitŕ operative sul campo.

Eventi quali il genocidio in Ruanda nel 1994 e il massacro di Srebrenica nel 1995 spinsero molti tra i paesi membri delle Nazioni Unite a chiedere all’Organizzazione di rivedere la propria politica di peacekeeping e contribuirono al superamento delle operazioni di cosiddetta seconda generazione.

 

Il terzo punto di svolta č rappresentato dal c.d. Brahimi Report pubblicato nel 2001, ovvero il documento finale del Panel on United Nations Peace Operations[36] istituito per volontŕ dell’allora Segretario generale Kofi Annan, allo scopo di rivedere il sistema di funzionamento e il quadro giuridico delle missioni di pace ONU.

Le operazioni piů recenti, quelle che si dicono "di terza generazione",  si collocano nella categoria del c.d. peace enforcing e peace support operations, categorie ibride rispetto al passato, la cui base giuridica non trova riferimento nella Carta dell’ONU ma negli sviluppi del processo di riforma e crescita di questo importante settore delle attivitŕ dell’ONU.

Il citato Brahimi Report analizzava le diverse operazioni per la pace poste in essere dalle Nazioni Unite, evidenziando allo stesso tempo le difficoltŕ che il personale, civile e militare, ha incontrato e che hanno determinato l’insuccesso delle medesime. I suggerimenti che il Report forniva erano in particolare due: dare al mandato delle Nazioni Unite maggiore chiarezza, credibilitŕ e realizzabilitŕ, nonché l’importanza di migliorare la cooperazione ed il dialogo con i paesi che contribuiscono alle peacekeeping operations attraverso l’invio di truppe. Altro nodo cruciale č rappresentato dalla c.d. Responsibility to Protect, principio derivante dalle lessons learned rappresentate dalle missioni in Rwanda e in Bosnia negli anni Novanta.

Con il documento conclusivo del World Summit 2005,  e soprattutto con la Risoluzione A/RES/60/1, le Nazioni Unite si sono dotate di un documento strategico fondato su un approccio multidimensionale alla pace e sicurezza mondiale, in cui due paragrafi sono dedicati rispettivamente al peacekeeping e al peacebuilding. In esso viene sottolineata l’importanza della cooperazione civile e militare nei teatri operativi, cosě come l’apporto fornito, in accordo al Capitolo VIII della Carta, da parte delle organizzazioni regionali per la sicurezza (soprattutto con riferimento all’Unione Europea e l’Unione Africana). Per ciň che concerne il peacebuilding, č di rilievo l’auspicio della creazione di un Fondo dedicato integralmente al peacebuilding, con pianificazione pluriennale, nonché l’auspicio della creazione di una commissione a composizione mista dedicata integralmente a tali tipi di operazioni.

Nel corso della stessa Sessione dell’Assemblea Generale, nell’ambito del World Summit 2005, č stata istituita una apposita Commissione per le missioni di peace-building con la risoluzione 30 Dicembre 2005, A/RES/60/180. Scopo di tale Commissione č  quello di proporre strategie integrate post-conflict, sostenere i finanziamenti per la realizzazione delle missioni, fornire alle missioni stesse una prospettiva di medio e lungo periodo, nonché sviluppare le c.d. best practices.

 

La Commissione ha una composizione mista, presentando al proprio interno 7 membri del Consiglio di Sicurezza, 7 dell’ECOSOC (Comitato Economico e sociale), rappresentanti di 5 Paesi tra i 10 che piů contribuiscono al budget dell’ONU, dei 5 tra i 10 che forniscono piů truppe, ed infine 7 membri a rotazione. Alla Commissione viene attribuito un ruolo di indirizzo strategico, e non operativo, come invece č quello attribuito al DPKO. L’importanza della Commissione risiede nella redazione di un Annual Report[37] indirizzato all’Assemblea generale, nel quale viene fotografato lo status quo delle missioni di peacebuilding in corso, nonché indirizzi strategici per il futuro.

Nel corso del decennio 2000 - 2010 il processo di riforma e di aggiornamento della struttura preposta alle operazioni di peacekeeping č continuato. Nel 2009 il Dipartimento ha pubblicato il documento New Parthership Agenda: Charting a new Horizon for UN Peacekeeping, nel quale vengono fissati nuovi, aggiornati termini di impegno delle Nazioni Unite di fronte alle sfide del mondo attuale. Si tratta, in pratica, di chiarire e razionalizzare i rapporti tra i protagonisti delle operazioni, l’ONU, gli Stati membri e gli Stati teatro di intervento; di assicurare un chiaro e definito coordinamento politico ed una strategia unitaria che rendano attuabili missioni coerenti ed efficaci, di garantire un rapido dispiegamento delle forze internazionali ed una efficiente gestione delle crisi. Il documento mira a rinvigorire il dialogo tra gli Stati membri e altri Partners coinvolti nelle operazioni allo scopo di migliorare l’efficacia delle operazioni stesse e di far fronte alle necessitŕ che via via si presentano.

Una fase rilevante del processo di riforma dell’architettura di peacekeeping si é registrata nel giugno 2007, quando il Segretario generale, allo scopo di rafforzare la capacitŕ dell’ONU di gestire e sostenere nuove operazioni ha promosso una ristrutturazione del Dipartimento[38] sostanzialmente dividendolo in due con la creazione di un separato Dipartimento per il sostegno logistico (Department of Field Support), sostenendo l’iniziativa di assegnare nuovi compiti al DPKO, incrementando le risorse finanziarie assegnate ai due Dipartimenti e agli altri uffici del Segretariato generale coinvolti nelle attivitŕ di peacekeeping e peacebuilding. Il Department of Field Support fornisce sostegno alle missioni per la promozione della pace e della sicurezza relativamente alle aree del finanziamento, della logistica, dell’informazione, comunicazione e tecnologia, delle risorse umane e dell’amministrazione generale[39].

 

Le missioni che vengono istituite in seno alle Nazioni Unite, e di cui risponde il DPKO, devono conformarsi ad un ventaglio di princěpi, espressamente richiamati in specifici documenti strategici delle Nazioni Unite, quali, come detto prima, An Agenda for Peace del 1992, il Final Report del Panel on United Nations Peace Operations del 2000, il documento Peace Operations 2010 presentato all’interno del Report dell’Assemblea generale del 24 febbraio 2006 e la New Horizon initiative for UN Peacekeeping del 2009.

In generale, si puň affermare che le missioni di pace dell’ONU debbano tendere ad alleviare le sofferenze umane e soprattutto creare un ambiente favorevole per istituzioni responsabili, affinché le condizioni di pace e sicurezza siano durature nel tempo.

Un importante filone di riforma delle strutture di peacekeeping ha riguardato le norme di comportamento e la disciplina del personale. A seguito di scandali riguardanti il comportamento di peacekeepers, tanto civili quanto militari, il DPKO si č dotato di un Codice di Condotta e delle c.d. 10 regole del Peacekeeper, cui ciascun individuo impiegato in missioni di pace sotto l’egida ONU deve attenersi[40].

L’11 settembre 2015 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha presentato il rapporto "Il futuro delle operazioni di pace delle Nazioni Unite" che individua tre cambiamenti, definiti "fondamentali"[41], che si richiedono per adattare le operazioni alle nuove realtŕ. Il primo riguarda la necessitŕ di rendere prioritaria la prevenzione e la mediazione, in modo da evitare risposte tardive e costose alle crisi; il secondo cambiamento riguarda la pianificazione e lo svolgimento delle operazioni, che devono essere piů rapidi, rispondenti alle necessitŕ e responsabili nei confronti dei paesi e popoli in conflitto; il terzo cambiamento, infine, consiste nel porre in essere un quadro globale-regionale per affrontare le sfide attuali alla pace ed alla sicurezza, a partire da una partnership rafforzata con l’Unione Africana. Il rapporto, che contiene anche alcune misure per sradicare il fenomeno degli abusi sessuali compiuti dai caschi blu, fa seguito alle raccomandazioni del High-Level Independent Panel istituito nell’ottobre 2014 allo scopo di studiare la riforma del sistema del peacekeeping alla luce dell’attuale diffusione e intensificazione dei conflitti.

Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite aggiornati al 30 giugno 2015, le operazioni attualmente in corso e sotto la responsabilitŕ del DPKO sono 16[42] e coinvolgono[43]:

92.299 unitŕ militari, compresi gli osservatori;

13.095 personale di polizia;

  5.315 personale civile internazionale;

11.476 personale civile reclutato localmente;

  1.760 volontari delle Nazioni Unite.

Primo contributore di Caschi Blu tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia partecipa attualmente a due missioni di pace ONU: con circa 1.100 unitŕ alla missione UNIFIL in Libano (il cui comandante č, dal luglio 2014, il Generale Luciano Portolano) e con 2 unitŕ alla missione Mali-MINUSMA.


Organigramma del Dipartimento[44]

 

 

 

 

 

 

 


La proposta di autolimitazione del potere di veto in Consiglio di sicurezza di fronte alla denuncia di atrocitŕ di massa
(a cura del Servizio Studi della Camera)

Il conflitto siriano, che giŕ si presentava dopo il primo anno come una situazione di stallo suscettibile di condurre alla distruzione del tessuto economico, sociale e civile del paese, č stato lo scenario principale per l’avvio di una serie di proposte di riforma del funzionamento Consiglio di sicurezza dell’ONU - stante il pluriennale ristagno delle proposte di modifica dei meccanismi di funzionamento del CdS tramite emendamento della Carta delle Nazioni Unite.

Alla fine di marzo 2012, infatti, per iniziativa della Svizzera, insieme ad altri quattro Stati del cosiddetto gruppo Small Five (Costa Rica, Giordania, Liechtenstein e Singapore), veniva presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione con una serie di proposte, la piů rilevante delle quali appariva l’autolimitazione, da parte dei cinque membri permanenti, della prerogativa del diritto di veto quando il Consiglio sia chiamato a discutere di questioni che coinvolgono la piů generale responsabilitŕ di protezione dei civili nei conflitti armati – emersa come preciso dovere della Comunitŕ internazionale dai lavori del World Summit ONU del 2005 -, e segnatamente in relazione a situazioni che presentino chiari profili di crimini contro l’umanitŕ e atrocitŕ di massa, come anche azioni di carattere genocidario. In sostanza nella proposta di Small Five si configurava la necessitŕ, da parte dei Big Five, di astenersi dal ricorso al diritto di veto per bloccare decisioni del Consiglio chiaramente volte a prevenire o porre fine a quel tipo di situazioni. Didier Burkhalter, tuttora ministro degli esteri del Governo federale elvetico, riconosceva implicitamente il legame delle proposte formulate da Berna con il conflitto siriano in corso

Anche se in via indiretta, la proposta del gruppo Small Five era corroborata il 3 agosto 2012, quando l’Assemblea generale dell’ONU stigmatizzava la paralisi del Consiglio di sicurezza, rivelatosi incapace di ogni azione decisa per porre un argine al dilagare sempre piů grave dei combattimenti in territorio siriano: la risoluzione era approvata da un’ampia maggioranza di 133 paesi, e gli schieramenti internazionali mostravano un forte isolamento della Russia della Cina, tradizionalmente contrarie ad ogni intervento della Comunitŕ internazionale negli affari interni dei vari Stati. La proposta del gruppo Small Five, tuttavia, era in seguito ritirata per motivi di equilibri diplomatici (probabili pressioni ricevute dai cinque paesi).

La questione era rilanciata nel settembre 2013, in occasione dell’apertura della Sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, proprio dal capo di uno dei cinque Stati membri del Consiglio di sicurezza, il Presidente francese François Hollande - che dava peraltro seguito alla posizione francese del novembre 2012, formulata in appoggio alle proposte nella stessa direzione di sette Stati partecipanti a una riunione sui metodi di lavoro del Consiglio di sicurezza -, il quale, nel suo intervento in Assemblea generale, sosteneva esservi situazioni in cui un’azione collettiva della Comunitŕ internazionale č assolutamente necessaria, e pertanto il diritto di veto avrebbe dovuto cedere alla necessitŕ di contrastare e porre fine a crimini di guerra e azioni di genocidio.

Alla presa di posizione della Francia si univano il Costa Rica ed il Cile. Il Ministro degli esteri francese Laurent Fabius precisava i contorni della proposta del proprio paese nei termini di un codice di astensione dal ricorso al diritto di veto su base volontaria e collettiva da parte dei Cinque Grandi: la specifica decisione sui caratteri di uno scenario suscettibili di produrre quella astensione sarebbe stata adottata dal Segretario generale delle Nazioni Unite su richiesta di almeno 50 Stati membri. La proposta francese era temperata dalla esclusione dei casi nei quali fossero in gioco vitali interessi nazionali di uno Stato membro permanente del Consiglio di sicurezza.

A margine della Sessione inaugurale dei lavori dell’Assemblea generale del settembre 2014 la Francia rilanciava la propria proposta, presiedendo unitamente al Messico una riunione ministeriale sull’argomento, e il vicesegretario delle Nazioni Unite Jan Eliasson invitava gli Stati membri a considerare seriamente la proposta della Francia. Per quanto concerne l’Italia, poche settimane dopo il rappresentante del nostro paese, Inigo Lambertini, intervenendo in un dibattito aperto in seno al Consiglio di sicurezza sui metodi di lavoro del Consiglio stesso, si univa alle proposte capitanate dalla Francia, sottolineando i profili di responsabilitŕ che la prerogativa del diritto di veto comporta per i cinque membri permanenti.

Da ultimo, il Rappresentante francese alle Nazioni Unite François Delattre, intervenendo in un dibattito in Assemblea generale l’8 settembre 2015 sul piů generale tema della responsabilitŕ di protezione dei civili nei conflitti armati, ha ribadito i contorni della proposta francese, inquadrandoli proprio nel piů ampio filone emerso dal World Summit del 2005.

 

 


L’attuazione in Italia della Risoluzione 1325 (2000) dell’ONU su donne, pace e sicurezza
(a cura del Servizio Studi della Camera)

La Risoluzione 1325 “Donne, pace e sicurezza”,  adottata all’unanimitŕ il 31 ottobre 2000 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, č la prima Risoluzione di questo organismo che esplicitamente menziona sia l’impatto della guerra sulle donne, sia il contributo delle donne per la soluzione dei conflitti e per una pace durevole. La risoluzione riconosce e valorizza il contributo delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, nel peacekeeping e nel peace-building. La Risoluzione 1325 costituisce un importante documento politico ed uno strumento giuridico fondamentale sia per la promozione della partecipazione delle donne a livello decisionale, sia per la tutela delle donne e delle ragazze nei conflitti, per la prevenzione della violenza contro le donne attraverso la promozione dei diritti, la responsabilitŕ, l’applicazione delle leggi e l’inclusione della prospettiva di genere nelle operazioni di pace nelle zone in conflitto o in post-conflitto.

Sul tema Women Peace and Security-WPS il Consiglio di Sicurezza ha adottato nel tempo sette risoluzioni, di cui la 1325 del 2000 č la capostipite, che nel loro complesso costituiscono il quadro di definizione, attuazione e monitoraggio di una nutrita Agenda di settore - da osservarsi sia a livello internazionale sia regionale, nazionale e locale -, guida e parametro di riferimento per le azioni degli organi e degli Stati membri delle Nazioni Unite in materia. Si tratta delle risoluzioni 1820 (2008) in materia di violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1888 e 1889 (2009) sulla violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1960 (2010) sullo sviluppo di un sistema di accountability, con cui si č prevista, tra l’altro, la pubblicazione delle liste degli autori di reato; 2106 (2013) che chiarisce e rafforza il ruolo del sistema onusiano nel prevenire e rispondere alla violenza sessuale nei conflitti armati.

L’ultima delle risoluzioni tematiche č la 2122 (2013) del 18 ottobre 2013 che, sulla base dei contenuti del Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite (S/2013/525), rafforza le misure che consentono alle donne di partecipare alle varie fasi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, nonché della ripresa del paese in questione, ponendo agli Stati membri, alle organizzazioni regionali e alle Nazioni Unite stesse, l’obbligo di riservare seggi alle donne nei tavoli di pace, La risoluzione 2122, inoltre, riconosce la necessitŕ di una tempestiva informazione ed analisi dell’impatto dei conflitti armati su donne e ragazze; chiede ai leader delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle violazioni dei diritti umani e degli abusi di donne nei conflitti armati e nelle situazioni di post conflitto e chiede alle missioni di peacekeeping di dare risposta alle minacce della sicurezza delle donne in situazioni di conflitto e post conflitto; incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni ad aumentare la percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di polizia in esse impiegate; sottolinea la necessitŕ di continuare gli sforzi per eliminare gli ostacoli che impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in situazioni di conflitto o post conflitto.   

Il metodo di maggiore efficacia per la reale attuazione del complesso delle disposizioni contenute nelle Risoluzioni onusiane in tema di Donne, Pace e Sicurezza č stato individuato nei Piani d’azione nazionali (NAP), la cui adozione č stata prevista, per la prima volta, dal Consiglio di sicurezza nel Presidential Statement del 28 ottobre 2004. Il documento invitava gli Stati membri delle Nazioni Unite a proseguire sulla strada dell’attuazione della Risoluzione 1325, “including through the development of national action plans”. I NAP consentono ai singoli governi di articolare le prioritŕ e di coordinare i diversi organismi competenti per la sicurezza, la politica estera, lo sviluppo e le questioni di genere ai fini dell’implementazione della 1325 e delle successive Risoluzioni.

Secondo i dati disponibili ed aggiornati al 2013[45], una quarantina di Paesi ha adottato un Piano d’azione nazionale. Di seguito si ricostruisce il timeline di adozione dei Piani:

2005: Danimarca

2006: Regno Unito, Svezia, Norvegia

2007: Svizzera, Spagna, Olanda, Costa d’Avorio, Austria

2008: Uganda, Islanda, Finlandia

2009: Liberia, Portogallo, Belgio, Guinea, Cile

2010: Sierra Leone, Rwanda, Filippine, Italia, Francia, Estonia, Repubblica 

           Democratica del Congo, Canada, Bosnia Erzegovina

2011: Nepal, Lituania, Georgia, Guinea-Bissau, Irlanda, Serbia, Burundi,   

          Slovenia, Croazia, Senegal, Stati Uniti 

2012: Germania, Ghana, Australia

2013: Nigeria, Macedonia, Kyrgyzstan.

 

Si segnala, inoltre, che tra il 2008 e il 2013, nove Paesi del continente europeo - Danimarca, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi, Norvegia, Regno Unito, Finlandia, Austria e Islanda - hanno sottoposto il proprio Piano nazionale a revisione. Del resto l’Europa, con 22 NAP - di cui 15 predisposti in Paesi UE -, rappresenta oltre il 50% del totale dei Piani d’Azione Nazionali; l’Africa conta 13 Paesi, Stati Uniti e Cile rappresentano l’America, Nepal, Kyrgyzstan e Filippine l’Asia e la sola Australia l’Oceania.

Il secondo Piano d’azione nazionale italiano “Donne, Pace e Sicurezza” č stato presentato in occasione della Tavola rotonda “Donne, pace e sicurezza - Standard minimi, linee guida armonizzate e politiche comuni per l'Agenda Europea”. L’evento, realizzato dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, si č svolto presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale il 26 novembre 2014, nell’ambito delle manifestazioni celebrative della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”.

E’ previsto, inoltre, che il Piano sia oggetto di un monitoraggio costante, effettuato attraverso incontri annuali specifici di alto livello ed un reporting progressivo, che si avvarrŕ anche del contributo della societŕ civile, al fine di renderlo sempre piů operativo, aggiornato e sinergico. Il Governo, pertanto, - si legge nell’introduzione al Piano - si impegna a presentare un rapporto di aggiornamento e revisione alla fine del primo anno, cosě da poter individuare le aree da rafforzare, anche alla luce delle consultazioni che si terranno, come accennato, sia con la societŕ civile, sia con il Parlamento.

Tutto ciň anche alla luce della Revisione di Alto Livello della UNSCR 1325 prevista per ottobre 2015.  Il Consiglio di sicurezza, infatti, ha evidenziato che, pur essendo il quadro senz’altro migliorato nei 14 anni di vigenza della Risoluzione 1325 e nonostante le successive Risoluzioni tematiche, senza un cambiamento significativo nelle modalitŕ di implementazione della Risoluzione-madre le prospettive delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nella protezione e promozione della pace sono destinate a permanere sottorappresentate. Il Segretario Generale, pertanto, ha invitato gli Stati membri, le organizzazioni regionali e gli enti delle Nazioni Unite a rivedere i Piani di attuazione vigenti e gli obiettivi in vista di una Revisione di Alto Livello della Risoluzione 1325, commissionando anche uno studio globale sulla sua implementazione, che confluirŕ nella sua relazione annuale 2015 al Consiglio di sicurezza. Lo studio, coordinato da Radhika Coomaraswamy, giŕ Special Representative of the Secretary-General on Children and Armed Conflict e giŕ Special Rapporteur on Violence against Women, evidenzierŕ esempi di buone pratiche, lacune di attuazione, sfide e prioritŕ per l'azione.

Il Piano di azione nazionale italiano 2014-2016 (articolato sulle c.d. 3P prevention, protection, participation, and relief, and recovery) č volto innanzitutto a rafforzare le iniziative di settore che l’Italia giŕ sostiene od attua per ridurre l’impatto che le situazioni di conflitto e post-conflitto determinano con riguardo alle donne e ai fanciulli, promuovendone al contempo, la partecipazione nella risoluzione e prevenzione dei conflitti in quanto “agenti per il cambiamento” (agents of change).

Nell’elaborare il nuovo Piano 2014-2016, che a differenza del precedente (2010-2013) a suo tempo sviluppato alla luce delle prime cinque Risoluzioni onusiane sopra ricordate deve tenere conto dell’articolazione del quadro di riferimento, ora comprensivo anche delle piů recenti Risoluzioni (n. 2106 e 2122 del 2013), si č tenuta in considerazione e valorizzata la crescente incidenza che la tematica in questione sta assumendo in ambito sia internazionale, sia domestico e regionale. Pertanto, sono stati potenziati ed evidenziati gli sforzi e le azioni promosse da tutte le Autoritŕ coinvolte nell’attuazione del Piano medesimo, č stato ampliato l’ambito degli attori coinvolti ed č stata promossa la sistematizzazione e l’integrazione delle azioni esistenti.

Il Piano italiano č stato elaborato nel rispetto del “Comprehensive EU approach to the implementation of Security Council Resolutions 1325 and 1820 on Women, Peace and Security” ed in considerazione anche, tra gli altri, delle indicazioni provenienti dalla societŕ civile, in particolare dal gruppo di lavoro Gender Peace and Security dello European Peacebuilding Liaison Office, nonché nel rispetto della “Cornice Strategica e del Piano comunitario in materia di diritti umani e democrazia” adottato nel giugno 2012.

Ribadito che gli obiettivi della Risoluzione 1325 consistono:

1.     nella prevenzione della violenza contro le donne ed i fanciulli e protezione dei diritti umani di donne e fanciulli, durante e dopo i conflitti armati;

2.     nella maggiore partecipazione delle donne nella promozione della pace;

3.     nell’applicazione dell’approccio di genere in tutti i progetti ed i programmi di promozione della pace,

il Gruppo di lavoro interministeriale ha individuato, ai fini del loro conseguimento una serie di sotto-obiettivi, di ciascuno dei quali viene riportato, nel Piano in esame, lo stato di attuazione e gli ulteriori impegni (commitments) che l’Italia intende assumere, a livello sia nazionale, sia internazionale.

Tali sotto-obiettivi consistono nel:

1)     valorizzare la presenza delle donne nelle Forze Armate nazionali e negli organi di polizia statale, rafforzandone il ruolo negli organi decisionali delle missioni di pace;

2)     promuovere l’inclusione della prospettiva di genere nelle Peace-Support Operations;

3)     assicurare training specifico, in particolare per il personale partecipante alle missioni di pace, sui differenti aspetti della Risoluzione 1325;

4)     proteggere i diritti umani delle donne, dei fanciulli e delle fasce piů deboli della popolazione, in fuga dai teatri di guerra e/o presenti nelle aree di post-conflitto;

5)     rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi decisionali;

6)     rafforzare la partecipazione della societŕ civile nell’attuazione della Risoluzione 1325;

7)     effettuare attivitŕ di monitoraggio e follow-up.

Completano il Piano 5 Allegati (annex), riguardanti: la raccolta di indicatori rilevanti che saranno desunti dalle informazioni fornite dalle amministrazioni coinvolte; l’elenco  esperti e delle Associazioni di settore che hanno partecipato alla consultazione e fornito indicazioni utili alla redazione del Piano; esempi di progetti (buone pratiche) sviluppati, anche con il sostegno della DGCS, da parte dell’Associazionismo di settore in aree di conflitto, post-conflitto ed in Paesi fragili; esempi di moduli didattici di settore e il riferimento (link) al documento Ue Concept on Strengthening EU Mediation and Dialogue Capacities adottato dagli Stati membri nel 2009 che č alla base del Mediation Support Team (MST) il quale č attivo in numerose aree, dove opera come strumento complementare dell’Azione esterna dell’Unione Europea.


Prioritŕ dell’UE in vista della LXX Assemblea generale delle Nazioni Unite
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera)

 

Il Consiglio dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le prioritŕ dell’UE in vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si svolgerŕ a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015.

Le prioritŕ definite del Consiglio sono cosě articolate:

 

Riesame delle operazioni di pace delle Nazioni Unite

Le operazioni di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari, coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti umani.

L’UE considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per conseguire una stabilitŕ duratura e sostenibile.

Il riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre piů importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi internazionali per la pace e la sicurezza.

Le operazioni di pace non possono perň sostituirsi ai processi politici. Sono necessari sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un conflitto.

L’Ue considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i paesi terzi. Č necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la sicurezza.

 

Non proliferazione e disarmo

L’UE ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare, costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori.

L’UE si adopererŕ per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirŕ attivamente al suo riesame globale, che deve essere completato nel 2016.

L’UE continuerŕ a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) e considera una prioritŕ assoluta l’entrata in vigore del trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

L’UE č, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine, intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta internazionale per le attivitŕ nello spazio extraatmosferico.

 

Lotta contro il terrorismo

L’UE sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti e marginalizzazione sociale, economica e politica.

L’UE ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature nelle regioni interessate.

 

Agenda globale post 2015

L’UE č fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile con societŕ pacifiche e stabili e includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, paritŕ di genere e sostenibilitŕ ambientale.

I risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York (vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertŕ e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici.

L’ UE ritiene che il principale campo d’azione sarŕ la definizione e l’attuazione di un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilitŕ e valutazione, che dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015.

Tra le tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.

Cambiamenti climatici

L’UE punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente, che tenga conto delle esigenze dei piů vulnerabili.

L’UE resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno di dollari attingendo ad un ampia varietŕ di fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento.

Nel contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

 

Diritti umani e diritto internazionale

L’UE si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e sicurezza.

L’UE sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché la responsabilitŕ primaria di consegnare gli autori di reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la sua giurisdizione qualora le autoritŕ nazionali non siano in grado o non siano disposte a perseguire veramente i crimini piů gravi motivo di allarme per la comunitŕ internazionale.

L’UE, in tale ambito, intende:

·  sostenere la libertŕ di opinione e di espressione online e offline quale diritto umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace;

·  continuare a propugnare la libertŕ di religione o credo e chiederŕ maggiori sforzi volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose.

·  proseguire gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;

·  a promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.

·  continuare a promuovere i diritti dei minori;

·  continuare ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.

 

Protezione dello spazio umanitario

L’UE continuerŕ a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati.

Le discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del processo piů ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema umanitario.

 

Questioni di genere

L’UE sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste.

L’emancipazione e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.

 

Ciberspazio

L’Unione europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e sicurezza internazionali nel ciberspazio.

In tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti online e offline. Č inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance di internet. L’Unione europea resterŕ ferma sul principio che a nessuna singola entitŕ, societŕ, organizzazione o governo si debba consentire il controllo di internet.

L’Unione europea riconosce la necessitŕ costante di lavorare attivamente in tale ambito alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla riservatezza e alla libertŕ di espressione.

 

Riforma e maggiore efficienza delle Nazioni Unite

Sfide emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalitŕ di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e del personale delle Nazioni Unite continuerŕ ad essere una prioritŕ dell’UE. La riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio dell’attivitŕ dell’Assemblea generale.

 

Rafforzamento dei partenariati multilaterali

L’Ue ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale č il mezzo per sostenere la pace e la prosperitŕ in tutto il mondo e superare i conflitti tra le nazioni.

L’UE accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del "mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale di sicurezza.

Occorre fare piů affidamento su azioni a piů livelli e multiformi in tutte le diverse fasi dei conflitti e in tutte le fasi č necessaria una cooperazione piů stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto.

L’UE ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza di una stretta cooperazione trilaterale.

 

 

 


La Missione EUNAVFOR Med
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[46]

L’11 maggio 2015 l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Federica Mogherini, ha illustrato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite le misure che l’Unione europea era in procinto di adottare per far fronte all’emergenza delle tragedie nel Mediterraneo, dando conto a un tempo della nuova agenda europea sulle migrazioni, che la Commissione avrebbe presentato due giorni dopo, e dell’operazione navale militare PSDC dell’Unione europea nel Mediterraneo centro-meridionale (EUNAVFOR MED), successivamente istituita dalla decisione (PESC) 2015/778 del 18 maggio 2015, evidenziando la necessitŕ che l’Unione operi con il sostegno esplicito del Consiglio di sicurezza, espresso tramite una risoluzione mirata.

L’intervento dell’AR ha costituito la prima applicazione dell’articolo 34, comma 2, ultimo alinea del

Trattato sull’Unione europea (TUE), che recita: "Allorché l’Unione ha definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri che

vi partecipano chiedono che l’Alto rappresentante sia invitato a presentare la posizione dell’Unione".

Si ricorda che il mandato di EUNAVFOR MED, come definito dall’articolo 2 della citata decisione, prevede le seguenti fasi operative:

·        individuazione e monitoraggio delle reti di migrazione attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento in alto mare;

·        fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospette;

·        fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto mare o nelle acque territoriali e interne di uno Stato costiero, di imbarcazioni sospette, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato;

·        adozione di tutte le misure necessarie nei confronti delle imbarcazioni sospette, ivi compresa la possibilitŕ di metterle fuori uso o renderle inutilizzabili, nel territorio dello stato costiero interessato, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato.

Mentre le misure di cui ai primi due punti sono attuabili, nel rispetto del diritto internazionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), prescindendo da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza e dal consenso dello Stato costiero interessato, le misure di cui agli ultimi due punti sono subordinate all’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza od all’ottenimento del consenso dello Stato interessato.

Č da notare che la formulazione del punto c): "anche mettendoli fuori uso o rendendoli inutilizzabili" č frutto di un compromesso teso a rendere accettabile la formulazione, ai fini dei negoziati in corso alle Nazioni Unite, anche da parte della Russia, che non accetterebbe la possibilitŕ di "distruggere" tout court le imbarcazioni sospettate di traffico. La Russia resta peraltro contraria alla possibilitŕ di agire sul territorio libico.

Č rimessa al Consiglio dell’UE la valutazione delle condizioni per il passaggio dalla prima fase alle successive, tenendo conto delle risoluzioni ONU intercorse e del consenso dello Stato costiero.

Mentre per le azioni di cui alla seconda e terza a fase dell’operazione sarebbe pertanto sufficiente una risoluzione del Consiglio di sicurezza o il consenso dello Stato costiero, in base al paragrafo 3 dell’art. 2 della decisione PESC sopra menzionata, per decidere il passaggio dalla prima alla seconda e terza fase č invece necessaria la compresenza di una risoluzione e del consenso: un aggravio della procedura che ha consentito l’approvazione della decisione (per la quale č prevista l’unanimitŕ in Consiglio).

Parallelamente all’iniziativa dell’Alto Rappresentante dell’UE presso il Palazzo di Vetro, le diplomazie europee si sono messe al lavoro per ottenere un mandato da parte dell’ONU.

La bozza di risoluzione in discussione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul contrasto al business dei trafficanti di uomini in Libia - che dovrebbe costituire la cornice giuridica per le successive fasi di EUNAVFOR MED - č stata inizialmente elaborata dall’Italia e presentata dal Regno Unito in quanto il nostro Paese non č attualmente rappresentato in Consiglio di Sicurezza, mentre il Regno Unito č membro permanente (pen holder); č appoggiata dai quattro membri europei del Consiglio di Sicurezza: i due membri permanenti, Regno Unito e Francia, piů Spagna e Lituania. L’adozione della risoluzione dipende perň dall’atteggiamento cauto della Russia e della Cina (che solitamente sulle questioni mediterranee tende ad allinearsi a Mosca), preoccupate di evitare il ripetersi di quanto avvenuto nel 2011, con l’adozione della Risoluzione 1973, che diede il via all’intervento che portň alla caduta del regime di Gheddafi.

Il testo inizialmente elaborato dall’Italia prende a modello la Risoluzione n. 1851(2008) sulla lotta alla pirateria al largo della Somalia, ponendosi sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite , che autorizza l’uso della forza di fronte a minacce alla pace, a rotture della pace e ad atti di aggressione. Com’č noto, tale Risoluzione ha consentito interventi di contrasto alla pirateria al largo delle coste della Somalia ma anche land-based operations, autorizzando gli Stati o le organizzazioni regionali notificate dal governo federale di transizione della Somalia a prendere all necessary measures appropriate in Somalia per impedire a coloro che usano il territorio somalo di pianificare, facilitare, intraprendere atti di pirateria; ha autorizzato Stati ed organizzazioni regionali a cooperare nel contrasto alla pirateria dispiegando navi ed aerei militari, sequestrando e disponendo di barche ed armi, facendo seguito alla lettera del governo federale di transizione della Somalia che chiedeva assistenza internazionale per contrastare la recrudescenza della pirateria.

Seguendo tale schema, la bozza di risoluzione sulla Libia prevedrebbe la possibilitŕ di ricognizioni non solo navali ma anche aeree. Mentre la decisione PESC non fa riferimento esplicito a ricognizioni aeree, vi sono mezzi aerei che giŕ operano al largo delle coste libiche nell’ambito della missione Triton[47] di FRONTEX.

La bozza proposta dall’Italia conterrebbe anche il riferimento ad una "lettera" delle autoritŕ libiche alle Nazioni Unite volta a chiedere un’operazione di assistenza che metta in sicurezza le acque territoriali dello Stato e il suo stesso territorio, lettera che dovrebbe indicare gli Stati e le organizzazioni regionali che coopererebbero a tale scopo. Il consenso libico rappresenta un aspetto di preminente importanza per Stati Uniti, Russia, Cina e Venezuela.

La bozza farebbe poi riferimento anche alla messa in salvo delle persone che possano trovarsi a bordo delle imbarcazioni, in accordo con le regole del diritto internazionale, dei diritti umani e delle norme internazionali sui rifugiati. Un aspetto sensibile del negoziato sul testo riguarderebbe proprio gli aspetti umanitari dell’emergenza migratoria.

Il nodo principale da sciogliere riguarda l’ambito di applicazione della risoluzione ONU, che alcuni, tra cui la Russia, vorrebbero limitato all’alto mare, mentre gli europei vorrebbero estendere alle acque territoriali libiche o al territorio libico (incursioni mirate sulla costa).

Dall’ambito di applicazione dipende non solo il teatro delle operazioni possibili, ma anche la loro complessitŕ.

Alcuni membri del Consiglio, infine, richiamano alla prudenza riguardo a formulazioni che possano prefigurare interventi di portata piů ampia come l’autorizzazione di "all necessary measures".

Secondo notizie di stampa, la risoluzione potrebbe essere adottata alla fine del mese, nel corso della riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Quanto a un possibile contributo della NATO all’operazione navale, il Segretario generale Stoltenberg il 18 maggio, mostrando apprezzamento per gli sforzi dell’UE per l’elaborazione di una risposta more comprehensive all’emergenza migratoria e per l’istituzione di un’operazione navale per smantellare le reti criminali di trafficanti d’uomini nel Mediterraneo, ha dichiarato che finora non č stata rivolta una richiesta alla NATO che tuttavia resta pronta in caso di richieste di aiuto.

Il Consiglio dell’UE con decisione PESC 2015/972 del 22 giugno 2015 ha approvato il lancio dell’operazione EUNAVFOR MED. L’operazione č posta sotto il comando del Contrammiraglio Credendino e con comando operativo basato a Roma. Il Comando del dispositivo aerovanale  (Force Commander) č stato affidato al  Contrammiraglio Andrea Gueglio che opera dalla portaerei Cavour.

Oltre alla portaerei italiana - nave ammiraglia dell’operazione navale EUNAVFOR MED (v. infra) - nella prima fase dell’operazione, verranno dispiegate: 8 unitŕ navali di superficie e sottomarine e 12 assetti aerei. Tra gli Stati contributori figurano attualmente 14 Stati membri (Belgio, Germania, Grecia, Estonia, Finlandia, Francia, Ungheria, Italia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Svezia, Slovenia, Regno Unito).

Assetti militari e personale militare saranno forniti dagli Stati contributori. Il budget per i costi comuni č di 11,82 milioni di euro per un periodo di 12 mesi da quando verrŕ raggiunta la piena capacitŕ operativa.

L’operazione EUNAVFOR MED intende contribuire al contrasto al business dei trafficanti di uomini nel Mediterraneo nel quadro di un comprehensive approach dell’UE che include, sul fronte dell’azione esterna, le seguenti azioni:

·          Rafforzamento della partnership con l’Unione Africana (in vista del summit di Malta in autunno) e con le organizzazioni regionali africane, con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, con l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite;

·          Sostegno dell’UE ai processi di Rabat e Khartoum;

·          Accresciuta presenza dell’UE nel Mediterraneo, tramite le operazioni Triton e Poseidon di FRONTEX nel Mediterraneo;

·          Accresciuto sostegno alla gestione dei confini nella regione, anche attraverso missioni PSDC, in particolare rafforzando EUCAP SAHEL Niger ;

·          Affrontare le cause remote (povertŕ, crisi e conflitti) anche tramite il miglioramento delle situazioni della sicurezza, umanitarie e dei diritti umani e delle condizioni socio-economiche nei Paesi di origine;

·          Cooperazione con i Paesi di transito per il controllo dei flussi e per un contrasto efficace dei trafficanti;

·          Costruzione di capacitŕ nei Paesi di origine e di transito che consentano alle autoritŕ locali di affrontare la questione in maniera piů efficace.

Il decreto-legge 8 luglio 2015, n. 99, convertito dalla legge 4 agosto 2015, n. 117, ha autorizzato la partecipazione del personale militare italiano ad  EUNAVFOR MED, relativamente al periodo 27 giugno-30 settembre 2015  (allineando cosě il termine a quello dell’ultimo decreto di proroga missioni, D.L. n. 7/2015).

Nello specifico il provvedimento ha autorizzato la spesa di 26 milioni di euro (reperiti a valere sul fondo missioni per 19 milioni e sui rimborsi ONU per 7 milioni) per la partecipazione di 1.020 unitŕ di personale militare e per l’impiego di mezzi navali (la portaerei Cavour e un sommergibile di classe Todaro) e mezzi aeromobili. Il decreto ha regolato, poi, la disciplina  applicabile alla missione con particolare riferimento alle disposizioni di carattere penale (codice penale militare di pace) e quelle sul personale e di natura contabile, richiamando a tal fine le consuete disposizioni contenute nei periodici provvedimenti di proroga missioni.

L’Italia contribuisce complessivamente all’operazione mettendo a disposizione:

  1. il quartier generale operativo UE  in Roma;
  2. la portaerei Cavour  con alcuni aeromobili imbarcati;
  3. un dispositivo aeronavale composto da un sommergibile, due velivoli a pilotaggio (MQ-1 e MQ-9) remoto;
  4. supporti sanitari imbarcati e a terra;
  5. risorse logistiche nelle basi di Augusta, Sigonella e Pantelleria.

Il 14 settembre scorso il Consiglio Affari Generali ha avallato l’avvio della nuova fase dell’operazione navale, dal momento che la prima fase dedicata all’ “intelligence, raccolta e analisi delle informazioni  ha raggiunto tutti gli obiettivi militari prefissati”, cui si aggiunge il salvataggio di 1500 migranti.

L’esito positivo della valutazione della proposta, passata al vaglio dei ministri degli Affari esteri degli Stati UE senza discussione, come “punto A”, permetterŕ ai mezzi di Eunavfor MED di effettuare “abbordaggi, perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare”, prosegue la nota, di quelle imbarcazioni “sospettate di venir utilizzate per il traffico di esseri umani nell’ambito delle legislazioni internazionali”, in particolare l’UNCLOS e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Arresti saranno quindi possibili, ma solo al di fuori delle acque territoriali libiche. I migranti e i sospetti catturati in acque internazionali saranno portati in Italia. Questo fa sě che per la seconda fase non sia necessaria una specifica e ulteriore risoluzione delle Nazioni Unite.

In termini di mezzi, la fase 2 prevede, oltre alle unitŕ giŕ presenti (portaerei Cavour, una fregata e un sottomarino italiani, una fregata e una nave rifornimento tedesche e un’unitŕ ausiliaria britannica), il dispiegamento di 7 fregate supplementari, numerosi elicotteri, sottomarini e droni.

La ripartizione dei contributi in uomini e mezzi di ciascuno stato membro verrŕ definito dagli stati maggiori dei paesi membri nel corso della conferenza tecnica sulla costituzione della forza, prevista per mercoledě. Successivamente gli ambasciatori europei presso la UE decideranno, nell’ambito del Comitato di Politica e Sicurezza, quando lanciare ufficialmente il secondo passaggio.

La decisione del Consiglio risponde a un’esigenza espressa nelle scorse settimane da piů parti. A fine agosto aveva fatto dichiarazioni in tal senso – in relazione al passaggio alla fase due – l’ammiraglio italiano Enrico Credendino, comandante della Eunavfor Med, seguito dall’Alta rappresentante Federica Mogherini che, a margine del vertice dei ministri della difesa dell’Unione a Lussemburgo aveva dichiarato che “il passaggio alla fase due dell’operazione navale nel Mediterraneo per contrastare i trafficanti di esseri umani” aveva ricevuto un “ampio consenso”. Tale consenso era giŕ stato espresso a livello di ambasciatori la settimana precedente.

Il 24 settembre, l’Alta Rappresentante, in visita al quartier generale dell'operazione a Roma, ha precisato che la seconda fase partirŕ il 7 ottobre:
l’iniziativa si chiamerŕ – ha aggiunto Federica Mogherini – “Operazione Sofia”, dal nome di una bambina, figlia di una donna migrante, nata a bordo di una delle unitŕ navali che hanno preso parte alla prima fase dell'operazione. Denominare l’operazione con il nome della bambina nata a bordo di una delle navi - ha spiegato  - serve a “dare un segnale di speranza alle persone che stiamo salvando”.


La Missione delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL)
(a cura del Servizio Studi della Camera)

L’Italia č inserita nella forza multinazionale denominata United Nations Interim Force in Lebanon UNIFIL che dal 1978 opera lungo la linea “armistiziale” Blue Line tra il Libano ed Israele. Prima della crisi del luglio/agosto 2006 la forza multinazionale di UNIFIL aveva il compito di verificare il ritiro delle truppe israeliane dal confine meridionale del Libano e assistere lo stesso governo a ristabilire la propria autoritŕ nell’area. Dopo la crisi del luglio/agosto 2006, ai precedenti compiti, si sono aggiunti il sostegno alle forze armate libanesi nel dispiegamento nel sud del paese, l’assistenza umanitaria alla popolazione civile e il monitoraggio della cessazione delle ostilitŕ nell’area compresa tra la “Blue Line” ed il fiume Litani.

Con lo scoppio della crisi siriana l'azione dell'UNIIFIL č divenuta ancora piů importante, in quanto il Libano svolge un ruolo cruciale per la stabilitŕ di tutta la regione. Il contributo italiano alla missione si estende anche alla componente navale dell'UNIFIL (Maritime Task Force), per il controllo delle acque prospicienti il territorio libanese richiesto dal Department of Peacekeeping Operations delle Nazioni Unite.

Su decisione delle Nazioni Unite, dal 28 gennaio 2012, l’Italia ha assunto il comando della missione UNIFIL: a partire dal 24 luglio 2014 il generale di brigata Luciano Portolano č succeduto al suo collega Paolo Serra alla guida della missione UNIFIL.

Alla missione UNIFIL partecipano oltre 10.000 soldati provenienti dai seguenti Paesi: Armenia, Austria, Bangladesh, Bielorussia, Belgio, Brasile, Brunei, Cambogia, Cina, Croazia, Cipro, El Salvador, Francia, Finlandia, Repubblica di Macedonia, Germania, Ghana, Grecia, Guatemala, Ungheria, India, Indonesia, Italia, Irlanda, Kenia, Malesia, Nepal, Nigeria, Qatar, Korea, Serbia, Sierra Leone, Slovenia, Spagna, Sri Lanka, Tanzania e Turchia.

Il comando della forza nazionale č stanziato presso la base "Millevoi" in Shama (sede del Comando del Settore Ovest di UNIFIL), mentre l’unitŕ di manovra ed i supporti sono dislocati tra le basi di Al Mansouri, Shama e le basi operative avanzate lungo la “Blue Line”.

Attualmente la Joint Task Force – Lebanon consta di 1100 uomini e donne, principalmente composta da militari della Brigata Aeromobile “Friuli”, di stanza a Bologna.

All’Italia č altresě affidato il comando del Sector West di UNIFIL che, dal 13 aprile 2015, č al comando del Generale di Brigata Salvatore Cuoci, giŕ Comandante della Brigata Aeromobile “Friuli”. In tale ambito opera la Task Force italiana in Libano che gestisce le unitŕ di manovra e di supporto fornite da altre nazioni quali: Armenia, Brunei, Estonia, Finlandia, Ghana, Irlanda, Malesia, Repubblica di Corea, Slovenia e Tanzania e Serbia.

​Con il decreto legge n. 7 del 2015 (articolo 12 comma 4), convertito dalla legge n. 43 del 2015, č stata autorizzata fino al 30 settembre 2015, la spesa di euro di euro 19.477.897 per la proroga della partecipazione del contingente militare italiano alla missione delle Nazioni Unite in Libano, denominata United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL), compreso l'impiego di unitŕ navali nella UNIFIL.

L'autorizzazione di spesa č estesa, altresě, alla proroga dell'impiego di personale militare in attivitŕ di addestramento delle forze armate libanesi, quale contributo italiano nell'ambito dell’International Support Group for Lebanon (ISG), inaugurato a New York il 25 settembre 2013 alla presenza del Segretario generale delle Nazioni Unite. La costituzione dell'ISG consegue a un appello del Consiglio di sicurezza per un forte e coordinato sostegno internazionale inteso ad assistere il Libano nei settori in cui esso č piů colpito dalla crisi siriana, compresi l'assistenza ai rifugiati e alle comunitŕ ospitanti, il sostegno strutturale e finanziario al Governo nonché il rafforzamento delle capacitŕ delle forze armate libanesi, chiamate a sostenere uno sforzo senza precedenti per mantenere la sicurezza e la stabilitŕ, sia all'interno del territorio sia lungo il confine siriano e la Blue Line.

 

 


Approfondimenti geopolitici

 


Il dialogo politico in Libia. Un aggiornamento
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[48]

·      L'11 luglio 2015 viene firmato a Skhirat (Marocco) l'accordo politico quadro da parte di 18 su 22 partecipanti al Dialogo politico libico mediato dal Rappresentante Speciale dell'ONU, Leon. A luglio il Congresso Nazionale di Tripoli (GNC) non firma e chiede di rivederne alcune parti. Leon cerca dunque di circoscrivere la posizione del GNC, che appare determinata anche da tattiche dilatorie, attraverso l’apposizione negli allegati al testo di accordo politico di clausole interpretative e riserve.

·      L’11 e 12 agosto 2015, anche a seguito della forte pressione internazionale, una delegazione di Tripoli ha partecipato, pur senza essere autorizzata ad assumere impegni specifici, alla sessione di dialogo che si svolge a Ginevra in cui Leon presenta i primi due allegati (prioritŕ del nuovo Esecutivo e politica fiscale) all’accordo politico, di cui saranno parte integrante.

·      In parallelo, prende il via in seno alla Camera dei Rappresentanti (HoR) la discussione per la definizione della rosa di personalitŕ da indicare a UNSMIL per i vertici del futuro Governo.

·      Il 18 agosto 2015, nella riunione della Lega Araba, quest'ultima esprime sostegno verso il Governo libico di Tobruk e sottolinea la necessitŕ di contrastare DAESH, anche attraverso lo sviluppo di una “strategia araba” per garantire alla Libia l’assistenza necessaria. Al contempo, l’organizzazione rinnoval’appello alle parti per portare a compimento il processo di dialogo sotto l’egida delle Nazioni Unite.

·      Il 17 agosto  2015, in una dichiarazione congiunta i governi di Francia, Germania, Italia Regno Unito, Spagna e Stati Uniti esprimono forte condanna delle barbariche azioni di Daesh a Sirte e lanciano un deciso appello all’unitŕ delle fazioni libiche nella lotta contro DAESH e alla rapida positiva conclusione dell’accordo politico intra-libico.

·      Il 2 settembre 2015 Leon incontrando ad Istanbul una delegazione del Congresso Nazionale di Tripoli chiarisce che sebbene un progetto di accordo sia stato parafato da alcune parti il 12 luglio, un accordo sarŕ veramente raggiunto quando un pacchetto finale abbia un senso per ciascuno e sia firmato da ciascuno.

·      Il 12 settembre 2015 Leon riesce a convocare una nuova sessione di dialogo, a Skhirat, per presentare i testi degli allegati mancanti (sulla composizione del Consiglio di Stato, sugli emendamenti costituzionali e sulle cariche di Primo Ministro e di Vice).

·      Leon appare deciso a mantenere la porta aperta al Congresso evitando di conferirgli un potere di veto, nella consapevolezza che un accordo senza Tripoli costituirebbe un’importante ipoteca sulla stabilizzazione della Libia.

·      Nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2015 a Skhirat le delegazioni dei 2 governi libici rivali raggiungono un accordo su elementi centrali di compromesso finalizzato al raggiungimento dell'accordo di pace, che dovranno essere approvati dai rispettivi parlamenti.

·      Il  18 settembre 2015, in una dichiarazione congiunta, i Governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti, accogliendo con favore la tornata negoziale del dialogo politico guidato dalle Nazioni Unite in corso a Skhirat, in Marocco, e ribadendo pieno sostegno agli sforzi di León, esortano con forza tutte le parti del dialogo a continuare a partecipare ai colloqui in questa fase cruciale dei negoziati, al fine di raggiungere un accordo definitivo su un pacchetto che comprenda la nomina dei candidati per il Governo di Concordia Nazionale prima del 20 settembre, che sia avallato dalle parti prima della fine di settembre, affinché questi possano insediarsi quanto prima (e comunque non oltre il 21 ottobre), secondo le aspettative di tutti i libici. Ribadiscono, inoltre, che, in considerazione delle prossime festivitŕ dell’Eid, si ritiene cruciale che tutte le parti nel processo approvino un accordo definitivo e gli esponenti del nuovo Governo di Concordia Nazionale prima della fine di settembre. Infine, riaffermano il proprio sostegno in favore di una Libia unita, sovrana e indipendente. Sottolineano che la comunitŕ internazionale č pronta a fornire una significativa assistenza umanitaria, economica e di sicurezza ad una Libia unita non appena il nuovo governo sarŕ stato formato.

·      Nella tarda notte del 21 settembre 2015, Leon annuncia che č pronto il testo finale dell'accordo politico libico, che deve essere confermato nei prossimi giorni da tutte le parti e che tutte sono pronte a discutere i nomi del governo di concordia nazionale (che figureranno nell'allegato 1), immediatamente dopo le festivitŕ di Eid. Leon esprime l'auspicio che la sessione finale del dialogo politico possa tenersi durante la settimana dell'Assemblea Generale dell'ONU e che nei giorni immediatamente futuri possa essere parafato l'accordo presumibilmente a Skhirat e che la conclusione avvenga in Libia entro il 20 ottobre 2015, per evitare il vuoto politico in Libia e avere una quadro legale certo. Sollecitato sulle scadenze, il Rappresentante speciale auspica che l'adozione del testo possa avvenire entro il 1°ottobre 2015 a New York da tutte le parti libiche, in modo che la parafatura possa avvenire quanto prima e la conclusione entro il 20 ottobre 2015.

 

 


(…)

 


La Libia: punto di situazione
(a cura del Centro Studi Internazionali - CeSI)

di Stefania Azzolina

 

SETTEMBRE 2015

 

libia

Mappa della Libia. Elaborazione Ce.S.I.

 

 

I negoziati di pace guidati dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Bernardino Leon tra i due parlamenti avversari di Tripoli e Tobruk sembrano essere giunti nuovamente ad una fase di stallo. Infatti, la scadenza ultima prevista per il 20 settembre non ha visto il raggiungimento di un accordo per la formazione di un governo di Unitŕ Nazionale tra Camera dei Rappresentanti (House of Representatives – HoR) di Tobruk, di orientamento laico ed unica autoritŕ libica riconosciuta a livello internazionale, e il Congresso Generale Nazionale (General National Council - GNC) di Tripoli, di orientamento islamista. Nonostante pochi giorni prima fossero circolate delle voci su una possibile convergenza, le trattative si sono bloccate a causa dell’abbandono del tavolo negoziale dei delegati di Tobruk il 15 settembre scorso. L’HoR, infatti, si č opposto ad una serie di emendamenti al testo di accordo votato a fine agosto, ritenuti eccessivamente favorevoli alle richieste avanzate dai delegati del GNC. Piů in generale, la difficoltŕ di trovare un compromesso continua a risentire della presenza, all’interno delle singole rappresentanze, di varie fazioni pro e anti-negoziato.

 

Sebbene non si riscontrino ancora i presupposti per il raggiungimento di una sintesi tra le parti, complessivamente l’andamento dei negoziati ha registrato una graduale serie di piccoli passi in avanti. Dopo l’accordo-quadro firmato l’11 luglio tra l’HoR, le milizie di Misurata e diversi leader di tribů locali e regionali, i nuovi negoziati di agosto, prima a Ginevra e poi a Skhirat, in Marrocco, hanno visto la partecipazione di entrambi i governi. In questo senso, l’apertura di una embrionale forma di dialogo tra i due schieramenti rappresenta giŕ di per sé un notevole risultato politico dopo mesi di opposizione frontale e costituisce un punto di partenza importante per la futura costruzione di un esecutivo unitario nel Paese. Tuttavia, i contenuti e tempistiche di un eventuale accordo sembrano essere poco chiare e di difficile definizione. 

 

Le difficoltŕ incontrate sul piano diplomatico e l’andamento degli scontri sul campo, che attualmente non vedono il prevalere né delle forze del Generale Khalifa Haftar né di quelle islamiste di Alba Libica, paiono escludere una soluzione politica a breve termine, sebbene Leon abbia fissato un’ulteriore scadenza per sottoscrivere un nuovo testo entro il 20 ottobre prossimo.

Al di lŕ della dicotomia Tripoli - Tobruk, la situazione attuale sul campo vede il territorio libico ancora conteso tra numerose milizie locali e tribali che sovente non partecipano né sono rappresentate durante i negoziati. La scarsa rappresentativitŕ dei governi di Tripoli e Tobruk e l’estrema frammentazione dello scenario politico e militare della Libia, che rende quasi impossibile la partecipazione di tutte le realtŕ miliziane e tribali al meccanismo negoziale, potrebbe rischiare di mettere a serio repentaglio l’implementazione di un eventuale accordo tra HoR e GNC, qualora i diversi potentati locali vi si opponessero. Quindi, l’effettivitŕ di qualsiasi sintesi politica non potrŕ prescindere dalla rappresentativitŕ di tutti gli attori presenti nelle diverse realtŕ territoriali libiche, spesso legate tra loro da alleanze contingenti basate su accordi estremamente variabili e flessibili.

 

Se da una parte i tempi per la formazione di un governo di unitŕ nazionale non sembrano ancora essere maturi, dall’altra l’esigenza di trovare un accordo si fa sempre piů pressante di fronte agli effetti che il perdurare del vuoto di potere determina sul Paese. L’assenza di un’autoritŕ politica centrale, la mancanza di forze di sicurezza in grado di garantire il controllo dei confini nazionali, la distruzione di tutte le istituzioni preesistenti e la progressiva segmentazione della guerra civile su molteplici fronti sono tutti chiari sintomi di uno Stato ormai al collasso.

 

In un simile contesto cosě fortemente instabile, la propaganda jihadista ha visto crescere la sua capacitŕ di azione e proselitismo nel Paese. In modo particolare, nell’ultimo anno si č assistito ad un rafforzamento della presenza dello Stato Islamico (IS), o di gruppi a esso affiliati, lungo la zona costiera del Paese. A partire dalla proclamazione del Califfato di Bayda a Derna nel novembre del 2014, l’IS ha preso progressivamente il controllo di diverse cittŕ portuali come Sirte e Bengasi, quest’ultima teatro di recenti scontri con le forze di “Operazione Dignitŕ”, il conglomerato di milizie guidato dal Generale Haftar.

 

La penetrazione dell’IS lungo le coste libiche non solo rappresenta l’introduzione di un ulteriore elemento di criticitŕ nel giŕ complesso panorama nazionale, ma costituisce anche un fattore di grande apprensione per la Comunitŕ Internazionale, in modo particolare per le cancellerie europee. Infatti, il timore č che l’IS, scendendo a patti con le reti criminali locali, posa iniziare a compartecipare al controllo dello sfruttamento dei flussi migratori che vedono nella Libia uno dei suoi snodi piů importanti. Non č da escludere, inoltre, l’ipotesi in cui, di fronte al perdurare della precarietŕ dell’ordine politico, sociale ed economico del Paese, la propaganda dell’IS, soprattutto nella sua declinazione di modello para-statale, possa risultare attraente agli occhi delle classi sociali meno abbienti.

 

Di fronte a tali minacce, da diversi mesi la Comunitŕ Internazione discute l’ipotesi di una possibile missione di stabilizzazione in Libia. La maggiore difficoltŕ consiste, attualmente, nell’assenza dei presupposti politici interni al Paese affinché si possa intervenire in un quadro di legalitŕ e legittimitŕ internazionale, ovvero in seguito alla richiesta di intervento da parte di uno attore statuale unico.

 

In un simile contesto, appare doveroso sottolineare il ruolo nella diplomazia italiana, che potrebbe avere la forza di coinvolgere in un eventuale processo diplomatico Paesi oggi agli antipodi come il Qatar, che supporta con fermezza le realtŕ islamiste libiche, e gli Emirati e l’Egitto, che, al contrario, appoggiano le forze laiche.

 

Lo sviluppo di un’agenda comune dovrebbe essere perseguito anche attraverso un’opera di pressione e lobby all’interno delle Nazioni Unite, l’unica istituzione internazionale in grado di elargire la legittimitŕ politica e giuridica necessaria per intraprendere un’azione piů incisiva in Libia. Tuttavia, occorre sottolineare i rischi operativi di una eventuale missione militare. Infatti, le milizie dello Stato Islamico, pesantemente armate grazie ai canali del mercato nero e al saccheggio degli arsenali gheddafiani, sono pronte ad affrontare l’arrivo di un dispositivo militare convenzionale, rispetto al quale potrebbero essere in grado di massimizzare le loro tecniche asimmetriche (attentati, esplosivi improvvisati, guerriglia, imboscate). Dunque, qualsiasi ipotetico impegno militare dovrŕ necessariamente mettere in conto possibili pesanti costi umani, economici e politici.

 

Naturalmente, come accennato in precedenza, non č possibile immaginare alcuna iniziativa che preveda l’uso della forza senza avere una precisa strategia politica e una road map per il dialogo nazionale. Nonostante le mal celate simpatie di una parte della Comunitŕ Internazionale e di molte Cancellerie europee per il Generale Haftar e per il governo di Tobrouk, non č possibile pensare ad un qualsivoglia processo di dialogo politico libico internazionalmente riconosciuto che, oltre alle realtŕ sinora citate,  non includa i leader tribali del sud del Paese, soprattutto quelli appartenenti ai gruppi Tuareg e Toubou, indispensabili per la pacificazione dei territori centrali e meridionali libici. In questo senso, il coinvolgimento delle tribů e dei poteri locali appare imprescindibile, poiché avrebbe l’obbiettivo di privare il network jihadista legato allo Stato Islamico di quel supporto sociale indispensabile per la conduzione delle proprie operazioni. In questo senso, la Comunitŕ Internazionale potrebbe ispirarsi alla strategia della formazione dei Consigli del Risveglio in Iraq nel 2005. In quell’occasione, con una felice intuizione, il Generale Petraeus, Comandante della coalizione multinazionale in Iraq, favorě la formazione di una rete di milizie sunnite, alleate alle forze occidentali, in opposizione ad al-Qaeda in Iraq. Roma potrebbe essere la sede ideale per un primo, eventuale, conferenza internazionale che dia voce alle tribů libiche. 

 

 

 

Sulla base delle dinamiche fin qui esposte, l’andamento dei negoziati a Shkirat, la destrutturazione del sistema statale e la progressiva proliferazione sul territorio da parte dei diversi gruppi jihadisti, sembrerebbero suggerire la necessitŕ di politiche di lungo periodo per una reale stabilizzazione del Paese.

 

 


Siria: i piů recenti sviluppi
(a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)

La situazione sul terreno registra la prosecuzione del trend, iniziato la scorsa primavera, di progressivo arretramento delle forze leali al regime Assad, con conseguenti perdite di terreno (da gennaio 2015 il regime avrebbe ceduto circa il 20% del Paese) sia a favore dell’ISIS/DAESH - che in particolare controlla ormai buona parte del Nord-est del Paese con le sue risorse petrolifere, al punto da aver stabilito nella cittŕ siriana di Raqqa, e non in Iraq, la propria "capitale" - sia, soprattutto, a favore delle altre forze ribelli nel Nord-ovest della Siria, nello specifico nella zona di Idlib e della pianura di Ghab.

Sul variegato fronte dell’opposizione, si segnala che alcune milizie ribelli nei mesi scorsi si sono riunite in un’alleanza di fazioni, il cosiddetto Esercito della Conquista (Jaish al-Fateh), che includono formazioni riconducibili al Free Syrian Army tendenzialmente vicino alla Fratellanza Musulmana, gruppi radicali salafiti come Ahrar al-Sham ed i qaedisti di Jabhat al-Nusra, gruppo che, di fatto, guida l’alleanza. Tale coalizione sarebbe stata sostenuta da Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, al di lŕ delle divergenze, sarebbero animate da preoccupazioni condivise quali il coinvolgimento dell’Iran nel conflitto e la minaccia del “Califfato” (inaccettabile soprattutto per i Saud che non tollerano che altri si proclamino califfi).

Sempre maggiori sono le perplessitŕ sulla coesione e sulle capacitŕ offensive del Free Syrian Army, accentuate dalle notizie relative ai risultati deludenti ottenuti dal costosissimo programma di addestramento di militari siriani condotto dagli americani e dai loro alleati.

 Per quanto riguarda DAESH, sul terreno - in conflitto aperto con i tre maggiori attori della crisi siriana cioč forze governative, opposizione, milizie curde, nonché sottoposto ai bombardamenti aerei della Coalizione anti-DAESH - l’avanzamento č controverso: nei mesi estivi si č avuto da una parte un importante arretramento di DAESH nel Nord-Ovest, su pressione dell’opposizione, e nel Nord, su pressione delle milizie curde, sostenute dai bombardamenti della Coalizione anti-DAESH; dall’altro, un’avanzata dal Deserto centrale in direzione di Homs, resa possibile dall’indebolimento delle forze governative, che ha consentito la conquista di Palmira in maggio e in agosto della cittadina assira di Al Qaryatain (Homs), situata ad appena 30 km dal confine libanese, da Homs e da Damasco.

Sul piano della risonanza mediatica, l’escalation dei crimini di DAESH, come la barbara esecuzione dell’ex capo archeologo di Palmira e la distruzione del millenario monastero cattolico di Mar Elian ad Al Qaryatain, appare come un tentativo di DAESH di rivendicare la propria vitalitŕ.

Situazione umanitaria. Secondo dati ONU del luglio 2015, vi sono circa 12,2 milioni di siriani hanno attualmente bisogno di assistenza umanitaria e si stima che 220.000 persone sono state uccise dall’inizio del conflitto nel 2011. Soltanto nel 2015, oltre un milione di persone hanno lasciato le loro case, aggiungendosi ai 7,6 milioni di sfollati interni giŕ presenti nel paese. Quanto ai rifugiati nei paesi limitrofi (Turchia, Libano, Giordania, Iraq), il numero ha ormai superato i 4 milioni (di questi circa il 2-3% cerca rifugio in Europa), facendo registrare la piů grande popolazione di rifugiati a causa di un unico conflitto da piů di 25 anni (Ruanda).

Riguardo al coinvolgimento degli attori internazionali sul piano politico e militare, nelle ultime settimane sembrano profilarsi elementi di novitŕ.

Da un lato, č maturata la proposta francese di effettuare bombardamenti contro le forze jihadiste di DAESH non solo in Iraq ma anche in Siria, accolta con favore anche dal Regno Unito.

Dall’altro lato, si č profilato un maggiore attivismo russo, sia sul terreno (tramite la creazione attorno a Tartus di una base avanzata a Jableh, nei pressi di Latakia), in funzione pro-Assad, sia a livello diplomatico. Non sembra implausibile che la Russia abbia deciso di aprire all’Arabia Saudita, con il comune obiettivo di combattere DAESH e che il Presidente della Federazione russa Putin intenda lanciare un "dialogo a quattro" con Stati Uniti, Arabia Saudita ed Iran e, forse, portare una proposta in tal senso all’Assemblea Generale dell’ONU.

Inoltre, il Presidente Putin sembra deciso a sfruttare i nuovi spazi negoziali aperti dall’attestarsi delle posizioni occidentali sull’accettazione che l’allontanamento di Assad sia l’esito di un processo di transizione e non la pre-condizione per avviare il processo, come avrebbero preteso fino a uno o due anni fa.

Giŕ nelle ultime settimane, anche in considerazione dell’avanzata di ISIS e di al-Nusra (affiliato ad al-Qaeda), si č registrato un rinnovato slancio dello sforzo negoziale tra Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran, Turchia e Inviato Speciale dell’ONU in Siria (Staffan de Mistura, giŕ vice ministro degli esteri italiano) per trovare un’intesa su un eventuale governo di transizione, in base all’accordo di Ginevra del 2012, dal momento che l’indebolimento di Assad faceva sembrare Mosca propensa a immaginarne un’uscita di scena.

Tuttavia, per il momento, l’intenso lavoro diplomatico si č nuovamente arenato sul dibattito ‘ruolo/non ruolo’ che Assad avrebbe potuto esercitare in questa ipotetica transizione. Staffan de Mistura da parte sua ha presentato a fine luglio 2015 un nuovo approccio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che prevede che le consultazioni tra le Parti siriane si focalizzino maggiormente lungo 4 aree tematiche: protezione per tutti; questioni politiche e legali; questioni militari, di sicurezza e contro-terrorismo; continuitŕ dei servizi pubblici, ricostruzione sviluppo. Sostenendo tale approccio, a metŕ agosto il Consiglio di Sicurezza ha fatto appello a tutte le Parti perché si impegnino in buona fede a sostenere gli sforzi dell’Inviato Speciale per una soluzione politica.

Comincia a prendere campo tra gli osservatori la tesi secondo cui, visto che al momento il Califfato sembra essere l’unica forza ritenuta nemica da tutti (dall’Occidente, cosě come dalla Russia - che vede con terrore l’ISIS anche per le ripercussioni che il messaggio jihadista puň innescare nelle enclave musulmane russe nel Caucaso - e dall’Iran che, tramite le sue milizie sciite, sta combattendo sul campo l’IS; contrastata - secondo alcuni analisti - anche da Arabia Saudita, EAU e Turchia), una soluzione percorribile sembrerebbe quella di unire gli sforzi per eliminare sul campo DAESH (in grado di recare minacce anche al di fuori della Siria e del Vicino Oriente), lavorando parallelamente a un processo politico per la formazione di un nuovo governo.

Sarebbe interesse degli occidentali favorire la formazione di un governo che non sia solo espressione del campo sunnita, rassicurando cosě Russia e Iran, possibilmente allontanando definitivamente Assad e il suo entourage dal Paese, come auspicato anche dalla Turchia. Ciň avrebbe un duplice effetto positivo: allentare un fronte di tensione tra NATO e Russia ed indebolire il fronte jihadista.

D’altronde, la Russia pur accrescendo il suo sostegno ad Assad con rinforzi sul campo e forniture di armi - conscia del fatto che gli occidentali sono restii ad un intervento militare diretto di regime change anche per via dell’esperienza libica, né sono in grado di contare sulla capacitŕ offensiva dell’opposizione siriana moderata - intende far leva sul fatto che la minaccia dell’ISIS e di al-Qaeda costituisce per gli Occidentali una prioritŕ di livello superiore a quella attribuita ad Assad (seppure preferiscano insistere sulla tesi del ‘non ruolo’  di Assad in un’ipotetica transizione).

La Russia dunque starebbe rafforzando ulteriormente il proprio sostegno militare ad Assad per soccorrere l’alleato in crescente difficoltŕ – nonché per salvare i propri interessi nazionali nell’area – anche nella prospettiva di poter tornare al tavolo negoziale da una posizione di maggior forza. La strategia della Russia sarebbe dunque quella di contrastare l’ISIS ma anche consolidare il suo ruolo in Medio Oriente e mantenere i suoi punti di forza in Siria, attraverso un negoziato in cui il regime di Assad sia parte preminente (se non perfino Assad stesso) e possibilmente di imprimere un’accelerazione al processo negoziale prima che si verifichi sul terreno la temuta "battaglia di Damasco".

Da ultimo giungono dall’Iran, altro alleato degli Assad, dichiarazioni che segnalano una disponibilitŕ di collaborazione verso “chiunque” si adoperi per la soluzione del conflitto. Un’apertura, verosimilmente, al principale antagonista in area, l’Arabia Saudita.

 

Facendo leva sull’interesse comune di contrastare l’ISIS, la diplomazia potrebbe ritrovare slancio, riprendendo lo schema di lavoro elaborato da Kofi Annan a Ginevra nel giugno 2012, sostanzialmente ancora percorribile  - anche parallelamente ad iniziative militari di contrasto all’ISIS.

Com’č noto, sotto impulso di Kofi Annan, i 5 membri del Consiglio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU convocati a Ginevra il 30 giugno 2012 (Conferenza di Ginevra I) raggiunsero un accordo sull’obiettivo prioritario da perseguire in vista di una soluzione della crisi siriana ovvero una transizione politica ad un governo di intesa nazionale senza Assad. Venne pertanto convenuta una roadmap, in vista: della creazione di un governo transitorio ampiamente inclusivo, dotato di tutti i poteri; dell’avvio di un processo di dialogo nazionale inclusivo e costituente, sotto l’egida dell’ONU; dell’avvio di una revisione della Costituzione da sottoporre a referendum, dell’indizione di elezioni pluraliste. Tale metodo garantirebbe la continuitŕ delle istituzioni statali ed il perseguimento dei criminali (principio di accountability).

 

Contrasto a DAESH (ISIS): ruolo della Coalizione internazionale

Il Vertice NATO di Newport (4-5 settembre 2014) registrava una notevole compattezza rispetto alla minaccia mediorientale rappresentata dall’espansione dell’ISIS in Iraq e Siria e condannava il ricorso alla violenza e i barbarici attacchi contro le popolazioni civili e le comunitŕ religiose. Minacciava il ricorso alla difesa collettiva se fosse minacciata la sicurezza di un alleato. Ribadiva il sostegno al processo politico iracheno.

Tuttavia, la formazione di una coalizione guidata dagli Stati Uniti e con la presenza di Regno Unito, Francia, Italia e di altri paesi, per giungere all’obiettivo di contrastare l’ISIS senza tuttavia l’utilizzazione di truppe di terra, coinvolgendo altresě i vari attori regionali, in primis la Turchia, č stata decisa a margine del vertice di Newport. Si č infatti tenuta una riunione ministeriale specifica per il contrasto a DAESH che ha coinvolto i Ministri degli esteri e della difesa di dieci Paesi tra cui anche l’Italia, il cui senso era quello di creare una rete di Paesi piů ampia anche al di fuori dell’Alleanza atlantica, a partire dai Paesi arabi e islamici, con una pluralitŕ di strumenti, non solo sul piano militare, ma anche sul versante dell’aiuto umanitario, del controllo dei flussi economici e finanziari, nella cornice delle Nazioni Unite.

Perseguendo un approccio multidimensionale, le principali linee di azione nelle quali si articola lo sforzo collettivo sono state meglio individuate successivamente, il 3 dicembre 2014, nel corso della riunione della coalizione anti-DAESH (composta da 61 Paesi), a margine della riunione ministeriale NATO; esse consistono in: contributo militare, contrasto al flusso dei foreign fighters, confronto sul terreno della narrativa jihadista, lotta alle fonti di finanziamento e assistenza umanitaria, rinnovo dell’impegno per l’Iraq.

L’ulteriore  ministeriale di Londra del 22 gennaio 2015 ha formalizzato la nascita di un gruppo ristretto della coalizione, cosiddetto Small Group, composto da 21 Paesi, tra cui l’Italia, sugli oltre sessanta che partecipano alla coalizione. Allo tale formazione ristretta, che si riunirŕ con regolaritŕ a livello tecnico e ministeriale, spetterŕ il compito di supervisione politica della strategia collettiva.

La seconda riunione ministeriale dello Small Group, svoltasi il 2 giugno 2015 a Parigi, ha confermato il sostegno al Primo Ministro iracheno al-Abadi, a cui č stato dato mandato di rafforzare gli sforzi a favore della riconciliazione nazionale; ha introdotto un approccio piů flessibile nell’utilizzo delle risorse e dei meccanismi della Coalizione per fronteggiare la crescente minaccia posta da gruppi affiliati a DAESH in altre aree come la Libia; ha adottato un documento di sintesi strategica della Coalizione, la Core Vision, che ne definisce le finalitŕ, la struttura e l’organizzazione.

Una successiva riunione (a livello Direttori Politici) dello Small Group, tenutasi a Québec City il 30 luglio 2015, ha consentito di affinare ulteriormente gli aspetti strategici e operativi legati alle linee d’azione lungo le quali si esplica la strategia comune.

Un appuntamento cruciale per la Coalizione č costituito dalla  riunione a livello di Capi di Stato e di Governo (“Leaders’ Summit on Countering ISIL and Violent Extremism"),  che si svolgerŕ il 29 settembre 2015 a margine dell’UNGA, su invito del Presidente Obama, con l’obiettivo di focalizzare le prioritŕ della comunitŕ internazionale nella lotta al terrorismo ed alla radicalizzazione.

 

Impegno italiano nella Coalizione anti-DAESH

L’Italia, che partecipa attivamente ai cinque gruppi di lavoro della Coalizione, articola i propri sforzi secondo le 5 linee d’azione concordate insieme agli altri partner:

1.   stabilizzazione: leadership nel coordinamento dell’addestramento delle forze di polizia irachene (ad opera dell’Arma dei Carabinieri) da dispiegare per la stabilizzazione nelle aree liberate dalla presenza di DAESH (con prioritŕ, nell’attuale fase, alla provincia dell’Anbar). Il primo contingente, composto di 10 unitŕ ha giŕ attivato il primo ciclo formativo a Baghdad. A regime (in autunno) saranno circa 110. Inoltre, la Cooperazione Italiana č operativa con progetti a favore dei gruppi maggiormente vulnerabili, nel settore sanitario, e nella tutela del patrimonio culturale. E’ stato creato un apposti Fondo dell’UNDP (Funding Facility for Immediate Stabilization), per mobilitare rapidamente risorse nelle aree liberate, cui l’Italia ha comunicato la sua intenzione di contribuire.

2.   contrasto al finanziamento del terrorismo: l’Italia co-presiede il relativo gruppo di lavoro. Durante la riunione inaugurale di Roma (19-20 marzo) sono stati delineati i settori principali di contrasto: sistema finanziario internazionale, sfruttamento delle risorse economiche; le risorse provenienti dall’esterno; flussi finanziari tra DAESH e suoi affiliati. Sono stati costituiti altresě sotto-gruppi con specifici compiti. Tra essi, quelli sul contrabbando di beni culturali ed archeologici, sui flussi finanziari tra DAESH e i suoi affiliati esterni e sul contrabbando di petrolio. L’Italia ha ottenuto la presidenza del sotto-gruppo sul commercio illegale di opere d’arte;

3.   impegno Militare: fornitura di armi e munizioni alle forze curde irachene; dispiegamento di assetti aerei; contingente di 280 addestratori, a regime, con ruolo di Lead Nation nell’addestramento ad Erbil da giugno 2015 a dicembre 2015 (al momento oltre 1200 peshmerga sono stati formati dal nostro contingente);

4.   contrasto ai foreign fighters: con l’ampio pacchetto di misure adottato dal Governo italiano (D.L. 7/2015)[49] nel campo della repressione, della prevenzione del reclutamento e del contrasto alla propaganda online.

5.   comunicazione strategica: azioni di outreach verso le organizzazioni islamiche italiane per un loro coinvolgimento nell’azione di contrasto ideologico a DAESH ad opera del Ministero dell’Interno ed una intensa attivitŕ diplomatica con le leadership dei Paesi arabi moderati.

 


Somalia: punto di situazione
(a cura del Centro Studi Internazionali - CESI)

di Marco Di Liddo

 

SETTEMBRE 2015

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Mappa della Tunisia. Elaborazione Ce.S.I.

La spinta ottimistica che, a cavallo tra la fine del 2012 e il 2014, aveva lasciato ben sperare per il futuro del Paese sembra essersi inevitabilmente esaurita, trascinando nuovamente il Governo Federale nell’incertezza politica e nell’instabilitŕ securitaria. 

Infatti, nel periodo in questione, l’elezione del Presidente Hassan Sheikh Mohamud, la prima democratica dall’inizio della guerra civile nel 1992, e le vittorie di AMISOM (African Union Mission in Somalia) a Kisimayo, Baidoa, Marca e in altri importanti centri urbani delle regioni centrali e meridionali del Paese, avevano costretto al-Shabaab (Ḥarakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn, Movimento dei Giovani Combattenti) ad una precipitosa ritirata e all’abbandono di una consistente porzione dei territori sotto il loro controllo. La rotta del gruppo jihadista, alimentata da crescenti tensioni interne e dall’abbandono di alcuni leader di lunga militanza quali Hassan Dahir Aweys, Hassan Abdullah Hersi al-Turki e Sheikh Atom, era stata cosě improvvisa e vasta da lasciar erroneamente presagire una imminente estinzione dell’insorgenza di matrice salafita. Probabilmente, il momento piů difficile per al-Shabaab č corrisposto all’uccisione sia del suo emiro Ahmed Abdi Godane (Mukhtar Abu Zubair), il comandante che aveva significativamente rafforzato i legami internazionali del gruppo, eliminato da un raid statunitense il 1 settembre 2014, che del comandante del dipartimento intelligence e sicurezza del movimento, l’influente Yusuf Dheeq, eliminato nel gennaio successivo.  

Tuttavia, ai successi militari, resi possibili soprattutto grazie al contributo delle truppe ugandesi, etiopi e keniote, nonché al crescente coinvolgimento di Washington nell’Operazione “Oceano Indiano”[50], non č seguita una adeguata strategia di riconciliazione tra le istituzioni e la popolazione. Le problematiche nel ricostruire il tessuto politico e sociale somalo č dovuta a due ordini di fattori.

Il primo, di natura sistemica, č legato alla tradizionale rivalitŕ e difficoltŕ di dialogo tra i diversi clan e sub-clan del Paese, che continuano ad obbedire a logiche familistiche e tribali piuttosto che a logiche politiche di respiro nazionale. Tale approccio rende estremamente influenti i consigli di villaggio, i potentati locali, le milizie e i loro comandanti, poco disposti a subordinarsi al Parlamento e al Governo di Mogadiscio. La frattura tra centro e periferia č ulteriormente acuita dall’origine stessa dell’attuale classe dirigente somala, perlopiů espressione della diaspora all’estero e, dunque, poco rappresentativa e legittimata dalla popolazione nazionale. Inoltre, occorre sottolineare come a contribuire alla scarsa governance e alla conflittualitŕ interna del Paese sono alcuni Stati della regione che, pur contribuendo ad AMISOM nel tentativo di stabilizzare la Somalia e neutralizzare la minaccia jihadista, perseguono i propri obbiettivi di politica estera. Nella fattispecie, Kenya ed Etiopia continuano a sostenere milizie, clan e signori della guerra con il fine ultimo di aumentare la propria influenza nel Paese.

In dettaglio, l’Etiopia punta, nel breve periodo alla costruzione di un cordone di sicurezza occidentale che renda quanto piů impermeabile possibile il confine al passaggio di miliziani di al-Shabaab e nel lungo periodo all’ascesa di un governo che garantisca l’accesso al mare alle imprese nazionali. Da par suo, il Kenya vorrebbe continuare a sostenere il progetto di rafforzamento dello Stato Federale dello Jubbaland, una regione che include le province meridionali somali e che, nel disegno di Nairobi, dovrebbe fungere sia da zona-cuscinetto per filtrare le incursioni di al-Shabaab sia da autentico protettorato keniota in Somalia. Infine, nella categoria delle problematiche sistemiche, bisogna ricordare l’estrema povertŕ in cui vessa il popolo somalo. Condizione, quest’ultima, che lo rende vulnerabile alla propaganda jihadista e che alimenta un profondo malcontento che, spesso, si manifesta in una profonda critica verso le istituzioni centrali.

Come se non bastasse, l’indigenza della popolazione potrebbe rappresentare, nel breve termine, la condizione di base per la resurrezione del fenomeno della pirateria nel Golfo di Aden. Infatti, gli elementi che avevano contribuito, a partire dal 2012, ad abbattere il numero di attacchi erano stati l’efficacia delle due missioni internazionali anti-pirateria, Ocean Shield della NATO e Atalanta dell’UE, e la decisione, da parte dei pirati, di investire e “godersi” gli altissimi proventi dei riscatti ricevuti nel corso degli anni. Tuttavia, l’esaurimento dei fondi e la difficoltŕ delle attivitŕ ittiche a causa del perdurare della pesca illegale a largo della Somalia potrebbero spingere le bande di pirati a riprendere gli attacchi su larga scala.  

Oltre ai fattori sistemici, il percorso di stabilizzazione somalo č reso impervio da fattori contingenti, quale il comportamento talvolta poco professionale dei militari di AMISOM, accusati di maltrattamenti e abusi verso la popolazione civile e percepiti, in alcune occasioni, come forze occupanti piuttosto che liberatrici.

Le criticitŕ del governo e la fase di stallo in cui č entrata AMISOM, penalizzata dal basso livello addestrativo del contingente e dalla mancanza di adeguati assetti di supporto aerei, hanno permesso ad al-Shabaab di riorganizzare i propri ranghi e riprendere una offensiva militare di ampio respiro. Le nuove manovre da parte del movimento jihadista si sono concretizzate attraverso due tradizionali direttrici operative: da una parte, l’utilizzo di attentati suicidi e assalti “mordi e fuggi” nelle cittŕ controllate dal Governo Federale e dalle sue Forze Armate; dall’altra, attacchi strutturati, effettuati da gruppi di fuoco numerosi, contro basi di AMISOM e villaggi contesi o scarsamente protetti. Nel primo caso, appare particolarmente indicativa la campagna di attentati che ha insanguinato Mogadiscio per tutto il 2015 e che ha avuto il suo apice nell’attacco dello scorso 21 settembre contro il Palazzo Presidenziale (4 morti e decine di feriti). Tuttavia, č nella seconda fattispecie che al-Shabaab ha fatto registrare un significativo incremento nelle attivitŕ. Tra queste, occorre ricordare l’attacco contro la base AMISOM di Janale (80 km a sud di Mogadiscio), avvenuto lo scorso 3 settembre, che ha causato la morte di 50 soldati ugandesi e la razzia di un ingente quantitativo di armi e munizioni. Inoltre, appaiono degne di nota le conquiste dei villaggi di el-Saliindi e Kuntuwarey, situati sulla strada tra la capitale e il porto di Barawe, ultimo rilevante avamposto costiero controllato da al-Shabaab. Tali acquisizioni territoriali hanno consolidato il controllo che il gruppo jihadista ancora ha su una larga porzione delle regioni centrali e meridionali della Somalia.

In ogni caso, oltre a favorevoli condizioni politico-militari, la ripresa dell’insurrezione jihadista risponde a logiche di equilibri interni. Infatti, dopo la morte dell’emiro Godane, il gruppo č stato attraversato da gravi contrasti tra fazioni per la sua successione. A prevalere č stata la fazione espressione del clan Diir, lo stesso dell’emiro uscente, fautrice della prosecuzione del legame con al-Qaeda, dell’afflusso di un notevole numero di foreign fighters[51] e dell’isolamento della vecchia ala pan-somala del movimento. Tale fazione, che predilige la centralitŕ della guida politica (Shura) rispetto a quella militare, ha permesso l’ascesa all’emirato del cugino di Godane, Ahmed Omar. La seconda fazione, riunita attorno all’Amniyaat (il reparto intelligence e “operazioni speciali” di al-Shabaab), guidata dal suo capo Mahad Karatey, intende aumentare il peso dell’ala militare del gruppo e riducendo al minimo l’influenza della Shura. Inoltre, Karatey vorrebbe denunciare l’alleanza con al-Qaeda e pronunciare il bayat (giuramento di fedeltŕ) nei confronti dello Stato Islamico, ritenuto un brand piů attraente e necessario per il definitivo rilancio del movimento jihadista africano orientale. In ogni caso, entrambe le fazioni concordano sulla natura maturamente transnazionale ormai assunta da al-Shabaab e sulla portata regionale della sua agenda. In questo senso, la Somalia continua ad essere uno dei fronti piů caldi per l’insurrezione jihadista, ma non il solo. Infatti, in prospettiva, il movimento terroristico sembra essere orientato all’espansione delle proprie attivitŕ in Kenya e nella regione dei Laghi.

Dunque, alla luce della rivalitŕ tra Ahmed Omar e Mahad Karatey, la recente ondata di attentati e attacchi potrebbe essere interpretata come il tentativo della fazione oggi al potere di dimostrare la vitalitŕ e la pericolositŕ del gruppo nonostante le defezioni e l’uccisione di suoi membri di spicco, tenendo cosě a freno le correnti di opposizione.

In conclusione, la Somalia appare ben lungi da una situazione di stabilitŕ tale da permetterle di tornare a pieno titolo nei consessi internazionali che le competono. Infatti, al momento il Governo di Mogadiscio risulta ancora troppo debole per pretendere di imporre la propria autoritŕ su tutto il territorio. Inoltre, senza il contributo dell’Unione Africana, delle Nazioni Unite e dei partner occidentali, il Paese non sarebbe in grado di sopravvivere e tornerebbe in balia dell’insorgenza jihadista, con l’inevitabile compromissione dei timidi risultati sinora raggiunti.   

 

 


Schede Paese

 


Algeria
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)

Algeria

 

Algeria

(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)[52]

 

Dati

 

Superficie: 2.381.741  Kmq

Italia: 301.340 kmq

Popolazione: 39.542.166 (stima luglio 2015)

Italia: 61.680.122 (stima luglio 2014)

Capitale: Algeri

 

Forma di governo: Repubblica semipresidenziale

 

Capo di Stato: Abdelaziz Bouteflika (dal 28 aprile 1999)

 

Capo del Governo: Primo Ministro Abdelmalek Sellal (dal 28 aprile 2014)

 

Tasso di crescita: 4% (2014); 2,8% (2013)

Italia: -0,2%

Pil pro capite: 14.300 $ (2014); 14.000 (2013)

Italia: US$ 34.500 (2014)

Disoccupazione: 9,7% (2014); 9,8% (2013)

Italia: 12,5% (2014)

Debito pubblico: 7,5% del Pil (2014)

Italia: 134,1% (2014)

 

Cenni storici

L’Algeria fonda le proprie basi istituzionali sull’Accordo di Evian, che nel 1962 pose fine alla guerra d’indipendenza contro la Francia, iniziata nel 1954. Il conflitto provocň piů di 250.000 vittime e rappresentň anche il tramonto dell’esperienza coloniale di Parigi, all’epoca giŕ segnata dalle sconfitte nei territori dell’Indocina. La guerra d’indipendenza ha profondamente segnato la storia del paese non solo dal punto di vista dell’identitŕ nazionale, ma anche da quello istituzionale: da allora l’esercito formato dai ranghi del Front de Libération Nationale (Fln) ha acquisito un ruolo centrale nella vita come garante delle istituzioni repubblicane.

In questo contesto, negli anni Novanta l’Algeria č stata nuovamente teatro di violenze, scoppiate tra i movimenti di ispirazione islamica e l’esercito. Il tentativo di avviare un processo di democratizzazione si era arenato allorché il partito islamico del Front Islamique du Salut (Fis) vinse il primo turno delle elezioni politiche nel dicembre 1991, ponendo le basi per una vittoria al secondo turno. Di fronte a tale scenario, i militari misero in atto un colpo di stato, innescando una guerra civile che si protrasse per tutto il decennio e che causň quasi 200.000 vittime. Da allora il paese, con l’attuale presidente Bouteflika, ha intrapreso il cammino verso la normalizzazione, anche se gli strascichi del conflitto restano evidenti, e ha cercato di consolidare i rapporti con la comunitŕ internazionale.

A livello regionale sussistono numerosi fattori di instabilitŕ. Su tutti, i rapporti con il Marocco: le frontiere tra i due paesi sono chiuse dal 1994 e gli scambi diplomatici, in questi ultimi anni, non hanno prodotto alcun accordo circa il contenzioso sull’indipendenza dei Sahrawi, nonostante vi siano stati negli ultimi anni dei tentativi di riavvicinamento tra i due paesi. Il motivo del contenzioso č il sostegno dell’Algeria al popolo del Sahara occidentale, rappresentato dal Fronte Polisario (dall’abbreviazione spagnola di Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro).

 

Quadro istituzionale

La Repubblica Democratica Popolare di Algeria č una repubblica semipresidenziale. Il Presidente viene eletto a suffragio universale diretto ogni cinque anni a maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio. Una modifica costituzionale del 2008 ha abolito il limite di mandati presidenziali. Il Presidente nomina il primo ministro che deve avere la fiducia del Parlamento. L'Algeria ha una struttura parlamentare bicamerale asimmetrica. L'Assemblea popolare, Camera bassa, č composta di 462 membri eletti a suffragio universale diretto per un mandato di cinque anni. La camera alta, denominata Consiglio delle Nazioni (Majlis al-Oumma) č invece formata da 144 seggi, un terzo dei quali viene designato dal Presidente della Repubblica e i rimanenti due terzi vengono eletti con un procedimento indiretto, per un mandato di sei anni. Il Consiglio delle Nazioni viene rinnovato per metŕ ogni tre anni.


Politica interna

Le recenti voci sulle cattive condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, eletto per il suo quarto mandato consecutivo nel 2014, hanno riacceso il dibattito sulla successione all'anziano leader, anche se non si avverte un consenso diffuso attorno al nome di un possibile successore. Il leader del partito di governo č Ahmed Ouyahia, capo dello staff del presidente, il quale ha ammesso che Bouteflika č malato ma ha affermato che č ancora in grado di svolgere le sue funzioni presidenziali. Egli risponde cosě alle pressioni esercitate dalle opposizioni che vorrebbero una transizione controllata.

Un gruppo di forze di opposizione guidato dall'ex primo ministro e candidato presidente Ali Benflis ha formato la campagna per il Coordinamento nazionale per le libertŕ e la transizione democratica, mentre il Fronte delle forze socialiste, un'altra forza di opposizione, ha convocato una Conferenza per costruire un consenso attorno al tema del cambiamento di regime. Il quadro dell'opposizione appare perň diviso e non in grado attualmente di determinare un cambiamento di regime, mentre il regime gestisce dall'interno i possibili cambiamenti.

Si respira dunque un clima di incertezza attorno al futuro del paese e al dopo Bouteflika. Recentemente č stata avanzata la candidatura come possibile successore di Bouteflika anche del fratello Said, professore universitario e consigliere del presidente, ma la scelta non appare sostenuta dal consenso popolare. Dopo 16 anni consecutivi al potere, molti algerini sembrano stanchi del regime di Bouteflika e se suo fratello prendesse le redini del potere si rafforzerebbe questo sentimento di malcontento.

Con l'elezione a leader del partito Rassemblement National Populaire (RNP), Ouyahia sembra aver costruito le condizioni per essere candidato alle elezioni presidenziali. Dopo avere perso la posizione di primo ministro nel 2012 la sua figura č riemersa al centro del panorama politico con la nomina a capo dello staff del presidente nel 2014. Negli ultimi mesi Ouyahia č stato molto visibile sulla scena pubblica, richiamando all'unitŕ il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), il partito di governo, nei confronti delle richieste di cambiamento delle opposizioni. Ha anche difeso il capo dell'esercito Gaid Salah che aveva ricevuto delle critiche per aver interferito nella vita dei partiti politici. In vista di una candidatura presidenziale, Ouyahia potrebbe scontare nei confronti dell'opinione pubblica la sua lunga permanenza al potere, essendo stato Primo Ministro 3 volte dal 1995. Inoltre sta emergendo una contrapposizione con il Segretario generale del FLN Amar Saadani che ha criticato l'idea del fronte unico a sostegno di Bouteflika.

Lo stesso Saadani potrebbe essere un candidato alla presidenza anche se la sua figura appare divisiva. Anche l'attuale Primo Ministro Abdelmalek Sellal č stato considerato come possibile candidato presidenziale e, dopo avere avuto un profilo indipendente, negli ultimi tempi si č avvicinato al FLN e alle elite del partito. Un altro possibile successore č Lakhdar Brahimi, che č stato inviato dell'Onu e della Lega Araba in Siria fino al 2014, anche se l'etŕ, 81 anni (3 anni piů anziano di Bouteflika), non gioca a suo favore. Altro candidato possibile, ma con minori possibilitŕ di riuscita, č Liamine Zeroual, giŕ presidente negli anni 90'. Tra gli oppositori si sono intensificate le critiche al regime di Ali Benfils, che ha corso per le presidenziali nel 2004 e nel 2014.

In generale si assiste a una situazione politica di incertezza riguardo alla transizione del paese, dovuta anche all'assenza del presidente dalla vita pubblica, che non consente ai cittadini e al mondo economico e sociale di avere indicazioni chiare sul futuro del paese. Questo impedisce anche di attirare investimenti stranieri. Il malcontento popolare si nota soprattutto tra le giovani generazioni che appaiono disilluse verso un sistema politico percepito come sclerotico e incapace di rispondere alla domanda di lavoro e di piů alti livelli di vita. Secondo gli osservatori questi fattori, uniti alle divisioni che emergono all'interno del regime, potrebbero portare a una destabilizzazione dell'Algeria. All'inizio di agosto, Bouteflika ha proceduto a un rimpasto governativo, il secondo dall'inizio dell'anno e il terzo da maggio 2014. Si č trattato di un rimpasto tutto interno al sistema ed ha interessato i ministeri del commercio, dell'agricoltura e della gioventů e lo sport: il mutamento operato non sembra destinato a cambiare significativamente la politica del governo, né d'altra parte č tale da mutare la percezione dell’esecutivo da parte della popolazione algerina.

In ambito regionale, gli eventi in corso nei Paesi confinanti hanno riacutizzato in Algeria il timore per il deteriorarsi della sicurezza, a causa delle pressioni esterne provenienti dalla Libia, dai Paesi saheliani e in parte anche dalla Tunisia (soprattutto nelle zone di confine con Algeria e Libia). Le cellule terroristiche presenti nel Paese continuano ad attaccare i militari con preoccupante continuitŕ. L’ultimo episodio risale al 18 luglio 2015, durante le festivitŕ dell’Eid: 9 militari sarebbero caduti nella regione di Ain Delfa.

Sullo sfondo, i problemi socio-economici che l’Algeria affronta da tempo: inflazione; disoccupazione giovanile (superiore al 28%); scarsa diversificazione dell’economia e forte dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, il cui prezzo continua a calare. Le misure economiche cui tradizionalmente il governo ha ricorso – sussidi, finanziamenti a fondo perduto, assunzione nelle pubbliche imprese o amministrazioni – potrebbero dimostrarsi insostenibili nel medio e lungo periodo. Inoltre, all’inizio del 2015 si sono registrate una serie di démarches avanzate dalle forze di opposizione, come quella improvvisata ad Algeri del 14 febbraio, guidata dal coordinamento che raggruppa la maggioranza delle opposizioni, la CNLTD (Coordination Nationale pour les libertés et la transition démocratique). La marcia č stata organizzata a seguito del rifiuto delle Autoritŕ di autorizzare lo svolgimento di una conferenza sulle “condizioni per la trasparenza delle elezioni”, preparata dalla stessa CNLTD.

Politica estera

Prioritŕ della politica estera algerina č il mantenimento di relazioni costruttive con l'Unione europea, regione che č la principale destinazione del gas esportato dal paese. Sono cordiali le relazioni con gli Stati Uniti che si basano soprattutto sulla lotta all'estremismo islamico e sulla tutela degli interessi americani nei settori del petrolio e del gas.  Il timore che un nuovo fronte di radicalismo islamico, rinfocolato dalla crisi libica, dalla disfatta dei fratelli musulmani in Egitto e dall'avanzata di Daesh in Siria e Iraq, possa diffondersi anche nel Nord Africa determina una concentrazione della politica estera algerina sul contrasto al jihadismo che rischia di destabilizzare il paese. Ciň sta determinando una tendenza al rafforzamento della cooperazione regionale e all'aumento delle spese per la sicurezza.

L’Algeria, che aveva mostrato scarse affinitŕ politiche con le nuove leadership emerse dalla Primavera Araba, si confronta adesso con le evoluzioni in corso in Egitto e Tunisia. Rispetto all’Egitto, le reazioni ufficiali del Governo di Algeri alla caduta di Morsi sono state improntate alla cautela e al consueto principio di non ingerenza. Piů veementi i commenti di alcuni partiti di opposizione, che hanno accusato le forze armate dei paesi arabi di complicitŕ con le “élites laiche estremiste”. Gran parte dell’opinione pubblica ha accolto con sollievo l’intervento dell’esercito egiziano, considerandolo necessario per arginare un Islam politico percepito come aggressivo e inconciliabile con le istanze di moderazione.

Sicurezza, controllo delle frontiere e contrasto al terrorismo sono al centro di un’intensa cooperazione con la Tunisia, soprattutto dopo il gravissimo attacco terroristico sferrato al confine tra i due paesi il 17 luglio 2014 dalla brigata Okba Ibn Nafaa, legata ad Ansar Al Sharia, in cui sono morti 14 militari tunisini e feriti altri 23.

Dopo una ripresa dei contatti col Marocco e l’avvio di cooperazioni settoriali nel 2012, sono riemerse le incomprensioni di fondo che ostacolano il processo di normalizzazione bilaterale, la riapertura della frontiera comune (chiusa dal 1994) e l’integrazione regionale in ambito UMA (Unione del Maghreb arabo, tra Libia, Tunisia, Algeria,Marocco e Mauritania). La posizione di Algeri sulla questione del Sahara Occidentale – che continua a rappresentare un elemento di grande frizione tra i due Paesi – č immutata: l’Algeria non si considera parte in causa nella questione del Sahara Occidentale, ultimo caso di decolonizzazione dell’Africa, la cui soluzione deve rinvenirsi nel quadro negoziale ONU, attraverso il principio dell’autodeterminazione  per i saharawi, da esercitarsi attraverso un referendum che includa l’opzione dell’indipendenza. Ma per Algeri le difficoltŕ nel rapporto con Rabat sono piů ampie, con rivalitŕ risalenti al periodo coloniale e che oggi investono anche l’asserita scarsa diligenza della dirigenza marocchina nel controllare i flussi di traffici illegali (persone, droga e armi) in direzione dell’Algeria (ciň che motiverebbe la chiusura della frontiera terrestre).

La situazione in Libia č fonte di estrema preoccupazione per Algeri, soprattutto in termini di ricadute sulla stabilitŕ e sicurezza interna e dell’intera regione. Nella convinzione che debba essere perseguita solo la via di una soluzione negoziale, l’Algeria guarda con preoccupazione al sostegno (incoraggiamento politico verso posizioni oltranziste, rifornimenti di armi e, a fortiori, raid o interventi militari) offerto o promesso da alcuni partner regionali a questa o quella parte libica. Con l’obiettivo di facilitare il dialogo, l’Algeria ha pertanto avviato consultazioni con esponenti di entrambi gli schieramenti.

Sul dossier siriano, la linea seguita da Algeri č stata di favorire una soluzione pacifica e consensuale che ponesse fine allo spargimento di sangue e rispondesse alle legittime aspirazioni di libertŕ, democrazia e buon governo, preservando l’unitŕ, la stabilitŕ e la sovranitŕ della Siria da ogni ingerenza esterna. I piů recenti e drammatici sviluppi legati all’avanzata dell’ISIS preoccupano ovviamente Algeri, anche per la possibile presenza di combattenti algerini in Siria e Iraq.

Sulla questione palestinese l’Algeria, pur non riuscendo a recuperare il ruolo politico di riferimento svolto negli anni ‘70, mantiene una posizione radicale nei confronti di Israele, con cui rifiuta di stabilire relazioni diplomatiche. Crescente č l’intesa, sui piani sia economico che politico e militare, col Sud Africa. La visita dello scorso aprile del Presidente Zuma ha confermato la convergenza tra due Stati che, per il loro potenziale economico, diplomatico e militare, ambiscono ad un ruolo di leader regionali, espandendo la loro influenza sui due poli opposti del continente africano.

Bouteflika ha mantenuto un rapporto di consonanza politica con Cuba, Venezuela e Cina e impresso nuovo slancio alle relazioni con Teheran, considerata un partner strategico a livello regionale. Algeri manifesta simpatia per le posizioni iraniane sul nucleare e sul principio del diritto allo sviluppo di programmi nazionali di nucleare civile; ha interesse all’avvio di collaborazioni nei settori spaziale, petrolchimico, ambientale e industriale.

I rapporti UE-Algeria sono disciplinati dall’Accordo di Associazione, in vigore dal 2005, che prevede sia una collaborazione nei settori economico (inclusa l’istituzione di un’area di libero scambio), sociale, scientifico, culturale e migratorio, sia un dialogo politico in tema di democrazia, diritti umani, sicurezza e lotta al terrorismo. Per l’UE l’Algeria dovrebbe essere un mercato di sbocco, un fornitore affidabile di energia e un garante della sicurezza delle frontiere. Dopo una fase di freddezza e di frizioni commerciali - seguita alla decisione, presa da Algeri nel 2010, di sospendere unilateralmente il programma di smantellamento tariffario previsto dall’Accordo di Associazione - si sta ora registrando un complessivo rilancio delle relazioni bilaterali.

 

Economia

La forte dipendenza che l'economia algerina ha dal settore degli idrocarburi pone serie sfide a medio e lungo termine, anche a causa della volatilitŕ del prezzo del petrolio. Il governo intende promuovere gradualmente la diversificazione dell'economia, favorendo settori produttivi quali il farmaceutico, l'automobilistico e l'acciaio. Il settore privato č ancora ridotto e lo stato continua a supportare l'industria per assicurare livelli congrui di lavoro e produzione.

Il piano di diversificazione dell'economia nazionale avviato dal Presidente nel 2011 promuove la riduzione dell'import di materie prime quali il cemento, il ferro e l'acciaio. A tal fine, il governo ha annunciato un progetto di espansione della produzione siderurgica che dovrebbe risultare nella creazione di un hub mediterraneo dell'acciaio per tutta l'Africa.

La costruzione di strade, ferrovie e infrastrutture energetiche, necessaria per promuovere la diversificazione, č un obiettivo del governo anche se č rallentata dai vincoli finanziari e amministrativi. Assicurare il fabbisogno energetico č un'altra prioritŕ, al fine bilanciare l'alto livello di esportazione con la crescente domanda interna di energia.

La riduzione del prezzo del petrolio ha determinato una diminuzione della crescita economica che nel 2015 č prevista attestarsi attorno al 2,6%. Negli anni successivi la crescita dovrebbe tornare a crescere attorno a una media del 3,4%, un livello ritenuto ancora troppo basso in relazione alla grande ricchezza naturale e di materie prime del paese.

La politica fiscale resta espansiva, con investimenti pubblici, aumenti salariali per i dipendenti statali e misure di sostegno ai consumi; quella monetaria č mirata al controllo dell’eccesso di liquiditŕ e dei rischi inflazionistici (insiti anche negli aumenti salariali). L’inflazione č scesa dall’8,9% del 2012 al 4,5% del 2013.

Le privatizzazioni, timidamente avviate nei primi anni 2000, sono state sospese a partire dal 2008. L’imprenditoria privata, con rare eccezioni, si presenta polverizzata. Il suo sviluppo č frenato dalla difficoltŕ di accesso al credito, dall’incertezza del quadro normativo e dalle lentezze burocratiche: aspetti che si riflettono nel basso posizionamento dell’Algeria nelle classifiche della Banca Mondiale per “Doing business” (153° posto su 189 paesi, classifica 2013) e “libertŕ economica” (164° su 189).

La debolezza del sistema produttivo rende la popolazione dipendente dalle importazioni anche per il soddisfacimento dei bisogni alimentari. La scarsa produttivitŕ determina salari bassi e tensioni sociali, aggravate a loro volta dall’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, in un Paese in cui il 45% degli abitanti ha meno di 24 anni.

 

Rapporti bilaterali

Per l’Italia č di prioritaria importanza assicurare un sostegno adeguato alla stabilitŕ dell’Algeria, contribuendo anche sul piano economico al progressivo sviluppo e alla liberalizzazione e modernizzazione del Paese. La convergenza di vedute sulle principali tematiche di politica internazionale, cosě come nel contrasto al terrorismo e all’immigrazione illegale, sono state sancite dalla firma nel 2003 del Trattato di Amicizia, Cooperazione e Buon Vicinato, che prevede la realizzazione di consultazioni annuali, alternativamente in Italia e Algeria, al piů alto livello politico ed istituzionale. Nel quadro delle previsioni del Trattato, si sono svolti tre Vertici bilaterali: il 14 novembre 2007 ad Alghero, il 14 novembre 2012 ad Algeri e il 27 maggio 2015 a Roma.

In particolare l’ultimo vertice bilaterale ha contribuito a un ulteriore rafforzamento dei legami tra i due Paesi, grazie alla presenza di una qualificata delegazione algerina (Primo Ministro, Ministro degli Affari Maghrebini, Ministro dell’Industria, Ministro dell’Energia), accolta dal Presidente del Consiglio, dal Ministro degli Esteri, dal Ministro dei Trasporti e dal Ministro dello Sviluppo Economico. Il vertice č stato anche l’occasione per l’adozione di una Dichiarazione finale e per la firma di 10 tra accordi e intese, nei campi piů diversificati.

Secondo i dati ISTAT, nel 2014 l’interscambio commerciale tra Italia e Algeria č ammontato a 8,149 miliardi di euro, con una contrazione annua del 22,7%. Le esportazioni italiane sono state pari a 4,316 miliardi di euro (+1,2%), le importazioni a 3,833 miliardi di euro (-38,9%): il saldo positivo per la nostra bilancia commerciale č stato di 483 milioni di euro (nel 2013 la nostra bilancia aveva registrato un deficit di 2,007 miliardi di euro). L’anno scorso, i macchinari hanno costituito il 26,6% delle esportazioni italiane, seguiti da “ghisa, ferro e acciaio” (18,1%) e dai combustibili (9,2%). Nel 2014, i carburanti hanno rappresentato il 96,9% delle importazioni italiane dall’Algeria.

 

 


Marocco
(a cura del Servizio Affari internazionali del Senato) [53]

 

 

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Dati

 

Superficie: 446.550 kmq

Italia: 301.340 kmq

Popolazione: 32.987.206 (luglio 2014)

Italia: 61.680.122 (stima luglio 2014)

Capitale: Rabat

 

Forma di Governo: Monarchia costituzionale

 

Capo dello Stato: Re Mohammed VI (dal 30 luglio 1999)

 

Capo del governo: Abdelillah Benkirane (dal 29 novembre 2011)

 

Tasso di crescita: 3,5% (2014); 4,4% (2013)

Italia: -0,2% (2014)

Pil pro capite: 7.700 US$ (2014); 7.500 US$ (2013)

Italia: US$ 34.500 (2014)

Disoccupazione: 9,6% (2014); 9,2% (2013)

Italia: 12,5% (2014)

Debito pubblico (% del PIL): 76,6% (2014)

Italia: 134,1% (2014)

 

Cenni storici

Paese di antichissimo insediamento (testimoniato da importanti reperti del paleolitico e neolitico) il Marocco venne successivamente a contatto con Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi, Turchi, Francesi e Spagnoli, e altri popoli ancora. L’invasione o il contatto con questi popoli non ha perň turbato le caratteristiche proprie della preesistente etnia berbera, la cui origine risalirebbe alla civiltŕ caspiana: di esse sopravvivono tuttora la lingua, articolata in numerosi dialetti, la tradizione, i costumi, le superstizioni, un’arte che si estrinseca nella decorazione geometrica dei tappeti, del vasellame e della manifattura di oggetti in argento. E’ tuttavia incontestabile che l’occupazione araba abbia profondamente influenzato la societŕ berbera che, dopo molte resistenze, sanguinose rivolte  e apostasie, ha finito con l’accettare l’Islam. Veicolo della religione musulmana fu, nei secoli,  la lingua araba che, a spese delle lingue berbere, si diffuse dalle pianure alle montagne, dove le popolazioni sono diventate bilingui. Una ulteriore metamorfosi della realtŕ berbera si ebbe durante il periodo coloniale, con l’arabizzazione dei montanari scesi verso le pianure, valorizzate dall’agricoltura europea, e verso le cittŕ, in cerca di lavoro. Il diretto contatto con francesi e spagnoli ha profondamente influenzato le popolazioni marocchine, specie quelle urbane. Infine non bisogna dimenticare l’apporto dell’elemento israelita: oltre al nucleo formatosi in loco fin dai primi secoli dell’era cristiana, per giudaizzazione dei berberi, si devono comprendere gli ebrei delle grandi cittŕ discendenti dalle comunitŕ ebraiche espulse dalla Spagna fra il 15° e il 17° secolo, e quelli delle tribů montane discendenti dagli antichi immigrati della Palestina e della Cirenaica.

Storicamente, dinastie regnanti berbere e arabe si sono alternate alla guida del Marocco, la cui influenza e prosperitŕ č testimoniata dalle antiche cittŕ imperiali (Fez, Marrakesh, Rabat). In epoca coloniale il Marocco fu oggetto e teatro di contese fra Spagna e Francia. Nel 1912 il Marocco diviene protettorato francese, ma al Sovrano, appartenente alla dinastia Filali (dinastia ancor oggi regnante dal 1654, che vanta una discendenza dal Profeta),  venne  concesso di mantenere la sua carica, sia pure con funzioni puramente rappresentative. Negli anni venti, tuttavia,  si rafforza il sentimento nazionalista marocchino, che sfocia in una ribellione berbera, repressa nel 1926 dai francesi. Nascono quindi i primi movimenti nazionalisti, che danno vita all’Istiqlal (partito dell’Indipendenza), cui diede voce il sovrano Mohammed V. Dopo un lungo periodo di instabilitŕ e un fallito tentativo francese di esiliare il sovrano, nel 1956 venne proclamata l’indipendenza e Mohammed V assunse il titolo di re del Marocco nel 1956. Alla sua morte, nel 1962, salě al trono il figlio Hassam II, che indisse le prime elezioni democratiche nel paese nel 1963. Tuttavia il lungo regno di Hassam II si caratterizzň in termini autoritari: sospesa la costituzione nel 1965, ebbe inizio un periodo di dura repressione di tutte le opposizioni interne. Al principio degli anni settanta, dopo due falliti colpi di stato militari, ebbe luogo, con la “marcia verde”, l’occupazione militare dei 2/3 del territorio del Sahara occidentale (ex Sahara Spagnolo), nel frattempo abbandonato dagli spagnoli. Nel 1994, anche a seguito di pressioni internazionali, Hassan II aprě al multipartitismo. Nel 1997 l’Unione Socialista delle Forze popolari vinse le elezioni e per la prima volta assume la guida del governo.

Succeduto nel 1999 al padre Hassan II, l'attuale sovrano Mohammed VI ha promosso una stagione di riconciliazione e riforme; vengono inaugurati nel 2004 i lavori della Commissione per l’Equitŕ e la Riconciliazione incaricata di fare luce sulle violazioni dei diritti umani sotto il lungo regno di Hassan II. Nel 2011 viene approvata la riforma della Costituzione, di cui si dirŕ appresso.

Quadro istituzionale

In base alla Costituzione del 1962, il Marocco č una monarchia costituzionale. Dal 1999 a capo dello Stato č Re Mohammed VI, alauita, che vanta lo status di sharif, ossia la discendenza dalla famiglia del Profeta. Tale prerogativa conferisce al sovrano i titoli di "difensore della fede" e "comandante dei fedeli", aggiungendo alla funzione politica quella di guida religiosa. Il sovrano detiene poteri politici molto ampi: nomina il Primo Ministro e gli altri ministri "di sovranitŕ" (Esteri, Interno, Giustizia e Affari islamici), comanda le forze armate (essendo il Paese privo di un Ministero della difesa). L'attuale Primo Ministro č Abdelillah Benkirane, Segretario generale del partito islamico moderato "Giustizia e Sviluppo", che nel novembre 2011 ha vinto le elezioni.

Il potere legislativo č affidato a un parlamento bicamerale formato dalla Camera dei Rappresentanti (Majlis al-Nuwab), composta da 325 deputati eletti a suffragio universale diretto per un mandato quinquennale, e dalla Camera dei Consiglieri (Majlis al-Mustasharin), composta da 270 consiglieri che vengono rinnovati per un terzo ogni tre anni attraverso elezioni indirette. La Costituzione del 1962 č stata emendata nel 1996 con l'introduzione del bicameralismo e, infine, nel 2011.

 

Primavera araba e nuova Costituzione

Alla primavera araba, che in Marocco ha avuto consistenza piů contenuta e pacifica che in altri paesi del Nord Africa, il Re Mohammed VI ha risposto con un programma di riforme e una nuova Costituzione - approvata il 1° luglio 2011 e confermata con referendum popolare - cui hanno fatto seguito elezioni anticipate. Il nuovo assetto costituzionale introduce elementi di riequilibrio tra i poteri del monarca e quelli del Primo Ministro e l'apertura a diversi diritti civili.

La nuova Costituzione prevede: il riconoscimento del berbero quale lingua ufficiale – accanto all’arabo; l’inviolabilitŕ - e non piů sacralitŕ - della persona del Re; la costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo e dei meccanismi di tutela; il potenziamento del potere esecutivo e della figura del Primo Ministro (designato dal Re all’interno del partito di maggioranza relativa alla Camera dei Rappresentanti, egli ha il potere di proporre i membri del suo Governo e di revocarne il mandato); il ruolo centrale del Parlamento (il Governo č responsabile esclusivamente nei confronti della Camera dei Rappresentanti e non piů anche nei confronti del Re); il rafforzamento dell’indipendenza del potere giudiziario; un piů marcato decentramento regionale (le regioni avranno per la prima volta organismi eletti a suffragio diretto); nuovi meccanismi di governance, con l’elevazione a rango costituzionale di una serie di organismi di controllo. Particolare attenzione č dedicata allo sviluppo sociale, anche nell'ottica della lotta al fondamentalismo.

Politica interna

Il Marocco continua ad avere una solida stabilitŕ politica. Il Re Maometto VI č la figura politica dominante e la guida spirituale del popolo (Amir Al-Muminim o Comandante della Fede). Sebbene i ruoli del Primo Ministro e del Parlamento siano stati rafforzati dalla nuova Costituzione del 2011, l'agenda politica continua a essere in larga misura condizionata dal sovrano e dai suoi consiglieri piů vicini. Il complesso sistema elettorale di tipo proporzionale tende a frammentare il quadro politico: attualmente in Parlamento sono rappresentati 18 partiti e il partito di governo "Partito della giustizia e dello sviluppo" (PJD) controlla solo 107 dei 395 seggi, una situazione che rende difficile portare a termine delle riforme.

Attualmente il PJD governa con una coalizione formata anche dai liberali e dal partito pro-monarchia Rassemblement national des indépendants.

Un’intensa stagione elettorale, a livello locale e nazionale, si č aperta per il Marocco con le elezioni dei rappresentanti a livello comunale e regionale, il 4 settembre 2015, e con quelle per le prefetture e province il 17 settembre 2015: in quest’ultimo caso, gli elettori sono i rappresentanti dei consigli comunali e regionali. Il 2 ottobre si voterŕ per la Camera dei Consiglieri (camera alta): i membri sono eletti con un suffragio indiretto e a votare saranno i consigli comunali, regionali e prefettizi e i rappresentanti di categoria (camere di commercio, sindacati). Si tratta delle prime consultazioni elettorali dall’entrata in vigore della nuova Costituzione e per la prima volta l’elezione dei Presidenti delle Regioni avverrŕ a suffragio diretto.

Il PJD ha vinto il 25,7% dei 678 seggi nei consigli regionali, un netto miglioramento rispetto al 5,5% dei seggi che deteneva in precedenza. Nei consigli municipali il Partito liberale Autenticitŕ e modernitŕ (PAM), uno dei principali rivali del PJD, con il 21,1% dei voti č risultato il primo partito, seguito dal Partito dell'IStqlal (16,2%) e dal PJD (15,9%).

La vittoria delle elezioni regionali rafforza il mandato del PJD in vista delle prossime elezioni della Camera bassa previste per il 2016, ma resta improbabile che il PJD possa avere da solo i voti necessari a governare.

Il PJD conserva un forte radicamento e la sua agenda sociale e conservatrice attira una consistente porzione dell'elettorato. Tuttavia, gli sforzi del Governo e dei partiti politici per incrementare la base elettorale non hanno ancora raggiunto i risultati sperati. Infatti, in base all’art. 4 della Legge 57/2011, i cittadini aventi diritto al voto sono tenuti a iscriversi nelle liste elettorali generali ma, secondo l’ultimo aggiornamento della lista generale (31 marzo 2014), il numero degli iscritti (oltre 13 milioni) č ancora al di sotto di quello effettivo degli aventi diritto al voto. Questo dato č sintomatico di un contesto caratterizzato da un diffusa sfiducia nei confronti di partiti politici, associazioni e sindacati da parte della popolazione: basti pensare che, secondo un recente sondaggio, circa l’80% dei marocchini ignora l’identitŕ dei propri rappresentanti locali. Negli ultimi anni il Marocco ha compiuto passi in avanti in materia di diritti civili e umani, anche se permangono alcune criticitŕ nella regione del Sahara Occidentale.

Il 6 febbraio 2015 il Consiglio dei Ministri ha approvato un progetto di decreto che dovrŕ essere esaminato dal Parlamento: si tratta di una Legge organica che doterebbe le regioni (il cui numero passerŕ dalle attuali 16 a 12) di maggiore autonomia e poteri. La portata di questo decreto dovrŕ essere inquadrata anche con riferimento alla questione del Sahara Occidentale e, in particolare, alla proposta marocchina di un piano di ampia autonomia per le regioni del Sud.

Sul piano della sicurezza il Paese si trova a fronteggiare, come gli altri Stati della regione, la crescente minaccia dell’estremismo, associata all’aumento dell’instabilitŕ nella fascia saheliana. Č in aumento la capacitŕ dei movimenti radicali di ramificarsi nella societŕ marocchina, anche attraverso le comunitŕ residenti all’estero. La politica proattiva adottata dal Regno negli ultimi mesi in questo settore ha consentito di smantellare diverse cellule di jihadisti create per il reclutamento di terroristi da impiegare nell’organizzazione dello “Stato Islamico” in Siria ed in Iraq.

 

Politica estera

Il Regno del Marocco ricopre da sempre un ruolo strategico nei traffici commerciali in entrata e in uscita dallo stretto di Gibilterra. Č in questo senso significativo che il Marocco abbia stipulato negli anni importanti partnership commerciali e oltre 50 accordi bilaterali di libero scambio, tanto con i paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, e in primis con l’Unione Europea, quanto con Stati Uniti, Turchia, altri paesi mediterranei come Tunisia, Egitto e Giordania, e piů di recente anche con Cina, Giappone e diverse altre economie latinoamericane, africane e dell’Europa dell’Est. Nella proiezione estera del paese convivono dunque sia la vocazione "europea" e la collaborazione con l'UE, sia la vocazione "africana, araba e mediterranea". Nella strategia africana del Marocco ha un ruolo centrale la dimensione economica e commerciale, con un’attenzione particolare alla penetrazione delle imprese marocchine in questi Paesi, mobilitando ingenti risorse anche grazie alla forte direzione statale nelle principali aziende del Regno. Questa azione viene accompagnata da una buona dose di retorica e definita come cooperazione “fraterna” e “solidale”, ma l’impatto che ha sulle societŕ degli stati africani interessati č limitato se si guarda agli ambiti della riduzione della povertŕ, dell’istruzione e della sanitŕ.

Le relazioni con l'Unione europea, che per il Marocco sono il principale mercato per il commercio, gli investimenti e il turismo, saranno rafforzate nel medio termine dalla firma di un Accordo globale di libero scambio. Non ci sono tempi precisi per la sua sottoscrizione definitiva, anche a causa di frizioni e rallentamenti legati a temi sensibili come migrazioni, sicurezza e diritti umani.

I paesi occidentali sostengono il Marocco come paese strategico nella lotta regionale al terrorismo e come porta di accesso all'Africa Subsahariana. Il Marocco sta assumendo un ruolo sempre piů marcato nella sicurezza regionale, per esempio contribuendo alla missione, a guida saudita, nello Yemen e ospitando i colloqui di pace sulla Libia, in uno sforzo di prevenzione dei fattori di instabilitŕ. D'altra parte questa sua crescente esposizione sulle questioni di sicurezza potrebbe anche attrarre gli attacchi dei gruppi estremisti. Il Marocco č uno dei principali fornitori di truppe per alcune missioni di peacekeeping ONU nel continente (MONUC e UNOCI). Rabat partecipa altresě a missioni di peacekeeping ONU in altre aree geografiche (Kosovo, Bosnia-Erzegovina) e, dal 2011, all’operazione NATO anti-terrorismo Active Endeavour.

Per quanto riguarda la situazione libica, la posizione di equidistanza dalle parti ha consentito a Rabat di guadagnare la fiducia di tutte le fazioni e di poter cosě ospitare i round negoziali a Shkirat nei pressi di Rabat. La costante presenza istituzionale alle varie sessioni che si sono succedute č testimonianza del costante impegno e della grande attenzione con cui le autoritŕ marocchine hanno seguito i negoziati. E' stato di recente anche ribadito l’impegno marocchino nel quadro della coalizione anti-Daesh. Il Marocco puň vantare una lunga esperienza di contrasto a movimenti di matrice qaedista e non sembra al momento direttamente esposto al pericolo dell’avanzata del Daesh. Tuttavia, tra i 1.500 ed i 2.000 c.d. foreign fighters di cittadinanza marocchina si troverebbero in Siria ed in Iraq per combattere tra le fila del movimento.

Uno strumento utilizzato dal Marocco nel contrasto al terrorismo č proprio quello legato all’ambito religioso e alla sua separazione dalle logiche terroriste. Il Regno ha messo in campo un’attivitŕ di aggiornamento e formazione degli Imam, volta a far sě che nelle moschee venga diffuso un messaggio dell’Islam quanto piů lontano dalla retorica degli integralisti. Tale attivitŕ viene veicolata attraverso l’istituto di formazione degli Imam Mohamed VI che accoglie anche Imam provenienti dall’estero.

Recentemente si segnala la creazione della Fondazione degli oulema africani, che ha l’obiettivo di coordinare le attivitŕ degli intellettuali di religione islamica e la promozione di un islam tollerante e moderato, in complementarietŕ con l’Istituto di formazione degli Imam.

Il Marocco vive i rapporti piů controversi dal punto di vista politico con alcuni dei suoi vicini, soprattutto con l’Algeria. I due paesi sono infatti divisi da una rivalitŕ storica, che nei decenni ha mantenuto lo stato delle relazioni bilaterali costantemente in tensione. Su queste pesano in maniera determinante tanto il sostegno algerino al Fronte Polisario (si veda paragrafo), quanto i contenziosi legati alla definizione territoriale del confine comune (chiuso dal 1994) e alla gestione dei flussi di immigrazione clandestina. Le tensioni tra i due stati hanno inoltre pregiudicato finora il coordinamento a livello regionale nell’attivitŕ antiterroristica, che sarebbe particolarmente necessaria in considerazione del carattere transfrontaliero del raggio di azione delle organizzazioni terroristiche attive nei territori marocchino e algerino, come quella di al-Qaida nel Maghreb (Aqim).

Sempre a livello regionale si registra qualche tensione con l’Egitto, a causa della salita al potere di Sisi e dell’estromissione dalla vita politica dei Fratelli Mussulmani, che non č stata accolta  favorevolmente dagli islamisti marocchini. Da ultimo la dura reazione del Parti Justice et Développement di fronte alla condanna a morte dell’ex Presidente Morsi ed esponenti dei Fratelli Mussulmani in Egitto.

 

Sahara occidentale e questione Sahrawi

Il Sahara occidentale č una regione che costeggia l’Oceano Atlantico, stretta tra il Marocco e la Mauritania, e abitata in prevalenza dal popolo Sahrawi. Dal 1976 la regione č contesa tra il Fronte Polisario (movimento rappresentante l’etnia saharawi, che ne rivendica l’indipendenza) e il Marocco, che lo controlla per l’80% della sua estensione. Il governo di Rabat considera il territorio come una propria regione, anche se ufficialmente nessun Paese ha riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco.

Dopo i violenti scontri tra le due parti, nel 1991 le Nazioni Unite hanno avviato la missione di pace, la MINURSO, il cui mandato viene rinnovato annualmente, con l’incarico di organizzare un referendum con cui far scegliere al popolo saharawi tra l’indipendenza o l’autonomia all’interno dello stato marocchino. Ad oggi il referendum non si č mai tenuto.

L’Inviato Personale per il Sahara Occidentale del Segretario Generale dell’ONU, l’Ambasciatore statunitense Ross, ha cercato fin dal gennaio 2009 di far ripartire il dialogo tra Marocco e Fronte Polisario attraverso colloqui informali, propedeutici alla convocazione di un vero e proprio round negoziale volto a definire il futuro status della regione. Gli incontri non hanno prodotto particolari risultati. Nel 2011 le Parti hanno analizzato per la prima volta assieme ai Paesi osservatori (Algeria e Mauritania), le rispettive proposte di soluzione del contenzioso (autonomia sotto sovranitŕ marocchina per Rabat; referendum con opzione dell’indipendenza per il Polisario). Ciň non ha tuttavia condotto all’avvio di una discussione “effettiva”.

I negoziati tra le parti sono ripresi recentemente, dopo un’interruzione di oltre 9 mesi a causa del rifiuto marocchino di consentire l’ingresso nel proprio territorio dell’Inviato personale del SG ONU Amb. Ross e dello SRSG e capo della MINURSO Kim Bolduc. Tale irrigidimento era seguito al rapporto MINURSO dell’aprile 2014 e al tentativo di allargare il mandato della Missione anche al monitoraggio dei diritti umani. L’impasse nell’interazione tra ONU e Marocco č stata sbloccata grazie ad un intervento del SG ONU direttamente su Re Mohammed VI, a fine gennaio. Il mandato della Missione MINURSO č stato rinnovato da ultimo, senza modifiche significative, il 28 aprile 2015 per un altro anno. Le autoritŕ marocchine hanno manifestato la loro soddisfazione sottolineando come la risoluzione rappresenti un risultato prezioso per il Regno, poiché definisce in modo chiaro le regole del processo politico e negoziale sul Sahara, riconoscendo al contempo gli sforzi del Marocco come “seri e credibili”.

L’Italia ha sempre mantenuto una posizione di equidistanza, ribadendo che solo il dialogo diretto tra Marocco e Fronte Polisario, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, puň definire una soluzione giusta e duratura che garantisca il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi. Nell’assenza di una posizione comune europea su questo dossier, il nostro Paese ha, a piů riprese, invitato Marocco e Polisario a mantenere un dialogo franco, aperto e senza precondizioni. Tenuto conto che la situazione umanitaria dei rifugiati saharawi č da molti anni oggetto di forte attenzione da parte della nostra opinione pubblica, il Governo italiano si č impegnato a mantenere il proprio sostegno annuale ai programmi dedicati alla realizzazione di scambi di visite tra familiari saharawi residenti nel Sahara Occidentale e nei campi profughi di Tindouf, in Algeria (dove si stima risiedano circa 120.000 rifugiati), separati da oltre 35 anni a causa del protrarsi del contenzioso.

Altrettanto rilevante č l’assistenza offerta con l’invio di beni alimentari e la realizzazione di programmi di emergenza e riabilitazione, per garantire migliori condizioni igienico-sanitarie nei campi saharawi e prevenire l’insorgere di malattie. L’Italia ha pertanto accordando annualmente un contributo complessivo pari a un milione di Euro, veicolato tramite le agenzie onusiane che ospitano le popolazioni nei campi di Tindouf. Contributo che č stato accordato anche per l’anno 2015.

Le agenzie onusiane hanno peraltro lanciato a piů riprese un allarme in merito alla situazione umanitaria nei campi, informando come ad oggi gli aiuti umanitari stanziati per il 2015 non permetteranno di assicurare forniture alimentari di base per i rifugiati sahrawi, a partire dal prossimo mese di settembre (c.d. breakdown umanitario). Ciň mentre aumentano le preoccupazioni sul fronte della sicurezza, a causa del deteriorarsi della situazione nel Sahel, in particolare nei pressi dei campi di Tindouf, sottoposti a una rafforzata sorveglianza da parte di miliziani saharawi ed esercito algerino. Dopo l’intervento militare internazionale in Mali, numerose sono state le segnalazioni di sconfinamenti di gruppi armati in fuga dal Paese saheliano in direzione dei campi saharawi dove, nell’ottobre 2011, venne sequestrata assieme a due colleghi spagnoli la cooperante italiana Rossella Urru.

Economia

Il quadro macroeconomico del Marocco č caratterizzato da rilevanti squilibri strutturali, dovuti sia all’eccessiva dipendenza dai mercati esteri (soprattutto per le risorse energetiche), che alla debolezza del settore primario (agricoltura e allevamento), alla scarsa diversificazione dell’industria nazionale (secondario) e alla insufficiente competitivitŕ del settore terziario (servizi).

Il Marocco soffre di una carenza di infrastrutture adeguate allo sviluppo del paese e i progetti di nuove opere sono rallentati da una burocrazia inefficiente, dal nepotismo e dalla corruzione. Gli investimenti restano vulnerabili ai tagli, data la continua esposizione del Marocco a fattori esterni quali il turismo e il prezzo delle materie prime. Altri fattori di debolezza dell'economia, secondo l'Economist Intelligence Unit, sono la burocrazia, la scarsa competitivitŕ della forza lavoro e la concentrazione del potere economico in poche mani.

Nonostante la lenta e fragile ripresa del continente europeo, che č il principale partner economico del Marocco, č atteso per il 2015 un tasso di crescita del 4,8%, il doppio rispetto al 2,4% del 2014. La crescita piů sostenuta del 2015 riflette l'aumento della produzione agricola, che ha avuto effetto sui consumi privati, e della produzione industriale. I forti legami con i paesi del Medio oriente e dell'Africa Subsahariana e la ripresa dell'Euro zona dovrebbero consentire tassi di crescita sostenuti anche negli anni prossimi. Rimane tuttavia la necessitŕ di realizzare riforme economiche che sviluppino l'occupazione e gli investimenti e aumentino la competitivitŕ del paese.

 

Rapporti bilaterali.

L’Italia ritiene di prioritaria importanza assicurare un adeguato sostegno alla stabilitŕ, al progressivo sviluppo e alla modernizzazione del Marocco, partner d’interesse strategico per la stabilitŕ e sicurezza nel Mediterraneo e nell’azione di contrasto al terrorismo internazionale, la criminalitŕ organizzata e l’immigrazione clandestina.

Il quadro di riferimento del rapporto bilaterale č il Protocollo sulle consultazioni politiche rafforzate firmato nel 2000, che prevede lo svolgimento di riunioni politiche a cadenza annuale, a livello di Ministri e/o Sottosegretari degli Affari Esteri dei due Paesi, alternativamente a Roma e a Rabat, sui principali temi bilaterali e di politica internazionale. Da ultimo, il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini si č recato in visita in Marocco dal 4 al 6 luglio, accompagnata da una delegazione di rappresentanti di otto universitŕ e centri di ricerca. Oltre agli incontri con il Ministro per l’insegnamento superiore, Daoudi, e il Ministro dell’Educazione Nazionale, Belmokhtar, č stata firmata una Dichiarazione Congiunta che individua otto assi prioritari di collaborazione con il mondo universitario e della ricerca marocchino.

L'interscambio commerciale Italia - Marocco si č attestato a fine 2014 alla cifra di 2,12 miliardi di euro, registrando una flessione del 3% rispetto al 2013, quando la somma dei flussi di merci tra i due Paesi era pari ad oltre 2,18 miliardi. In particolare, le esportazioni italiane verso il Paese nordafricano sono calate del 7,5 %, passando da 1,53 miliardi di euro del 2013 a 1,41 miliardi nel 2014. Le esportazioni marocchine verso l'Italia, invece, sono aumentate con una dinamica quasi speculare (+ 7,3 %), crescendo da 656 a 704 milioni di euro. Il saldo commerciale rimane quindi in favore dell'Italia (+ 710 milioni), pur registrando una diminuzione di 163 milioni rispetto al saldo 2013 (pari a 873 milioni).

In ambito UE siamo i terzi esportatori dopo Francia e Spagna, e i terzi importatori dopo Spagna e Francia. Su scala globale, invece, nel 2013 siamo stati il settimo fornitore (con una quota di mercato del 5,17%) e il sesto cliente del Marocco (con una quota del 5,1%). In questa fase storica di marcate difficoltŕ dei rapporti franco-marocchini, incrinatisi negli ultimi mesi a causa di reciproche incomprensioni soprattutto per questioni legate alla cooperazione giudiziaria fra i due Paesi, si potrebbero aprire per l’Italia nuove opportunitŕ, soprattutto sul fronte economico.

Particolarmente importante nei rapporti bilaterali la questione migratoria. La comunitŕ marocchina legalmente residente in Italia č la prima extra-UE in termini numerici, e la seconda in termini assoluti (580.000 unitŕ a fine 2014).  Si tratta di una comunitŕ caratterizzata da una forte componente di minori (poco meno di un terzo del totale), gran parte dei quali nati in Italia. Pur diffusa su tutto il territorio, la comunitŕ marocchina si concentra nelle aree industriali del Nord Italia (Lombardia in testa, cui fanno seguito l’Emilia Romagna, il Piemonte e il Veneto). Secondo rilevamenti dell’ICE, la comunitŕ imprenditoriale marocchina č la piů numerosa tra quelle straniere in Italia con oltre 57.000 aziende private, seguita da quella cinese e romena. Il Marocco figura al primo posto per numero di detenuti in Italia (circa il 20% del totale dei detenuti stranieri nel nostro Paese).

 

 


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Tunisia
(a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)
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Dati

 

Superficie:  163.610 kmq

Italia: 301.340 kmq

Popolazione: 11.037.225  (stima luglio 2015)

Italia: 61.855.120 (stima luglio 2015)

Capitale: Tunisi

 

Forma di governo: repubblica semipresidenziale

 

Capo dello Stato: Presidente Beji CAID ESSEBSI (dal 31 dicembre 2014)

 

Capo del Governo: Primo Ministro Habib ESSID (dal 6 febbraio 2015)

 

Tasso di crescita: 2,8% (2014); 2,3% (2013)

Italia: -0,2% (2014); - 1,9% (2013)

Pil pro capite: US$ 11.400 (2014); 11.200 (2013)

Italia: US$ 34.500 (2014); 34.700 (2013)

Disoccupazione: 15.2% (2014); 15,8% (2013)

Italia: 12,5 (2014); 12,2% (2013)

 

Cenni storici

La Tunisia ottenne l'indipendenza nel 1956, alla fine dell'occupazione francese (1881-1956). Nel luglio del 1957 fu instaurata la repubblica, a capo della quale fu eletto Habib Bourguiba. Da allora la vita politica tunisina fu di fatto monopolizzata da quest’ultimo (rieletto nel 1964, nel 1974 e nel 1975 confermato presidente a vita) e dal suo partito (il Neo Destur, denominato dal 1964 Partito socialista desturiano), che garantirono stabilitŕ al paese, ma con profonde contraddizioni. A misure di tipo liberale, quali il riconoscimento delle libertŕ fondamentali del cittadino (sancite dalla Costituzione del giugno 1959), si oppose la realtŕ di un regime a partito unico e l’intolleranza verso qualsiasi forma di dissenso, nonché il consolidarsi di una prassi clientelare e di forme di nepotismo. La seconda metŕ degli anni 1970 fu segnata dall’emergere di gravi difficoltŕ economiche, con una lunga fase di aspre tensioni sociali e la costituzione di due formazioni di orientamento progressista, il Movimento per l’unitŕ popolare (MUP) e il Movimento dei democratici socialisti (MDS), che affiancarono il Partito comunista tunisino (PCT) nell’opposizione clandestina al regime.

In politica estera Bourguiba stabilě buoni rapporti con i paesi occidentali (ottenendo notevoli finanziamenti dagli USA) e, dalla metŕ degli anni Sessanta, anche con la Francia. Con i paesi arabi (la Tunisia era entrata a far parte della Lega araba nel 1958) i rapporti furono difficili negli anni Sessanta, a causa di un atteggiamento ritenuto troppo accondiscendente verso Israele, ma si fecero poi piů distesi. Negli anni Settanta vennero rinsaldati i rapporti con Algeria, Arabia Saudita e gli stati dell’Africa francofona.

Alla fine degli anni Settanta divennero evidenti i sintomi di un profondo malessere sociale, in parte alimentato dal fondamentalismo islamico. Scioperi e insurrezioni – la piů grave delle quali fu la rivolta del pane, degenerata in una vera e propria guerra civile nel 1984 – si moltiplicarono, provocando dure repressioni da parte del regime. Nel 1986 Bourguiba nominň il Generale Ben Ali ministro degli Interni per arginare la deriva fondamentalista del Mouvement de la tendance islamique (MTI) e l'anno successivo fu da lui destituito. Divenuto Primo Ministro, Ben Ali pose fine alle repressioni, introducendo il multipartitismo ed abolendo la Presidenza a vita. Nel 1989 Ben Ali divenne per la prima volta Presidente della Repubblica. Anche le presidenziali del marzo 1994 videro una vittoria plebiscitaria (99,9% dei voti) di Ben Ali. Malgrado la volontŕ di democratizzazione del Paese, il nuovo governo, bloccato dalle contraddizioni della societŕ tunisina, manifestň comunque un autoritarismo non molto dissimile da quello del precedente regime, fino a varare nel 1992 una legge assai restrittiva sui diritti d'associazione. Nel frattempo i rapporti internazionali videro un andamento alterno delle relazioni con gli Stati Uniti (peggiorate durante la guerra del Golfo) e il miglioramento di quelle con i Paesi vicini. Le elezioni dell'ottobre 1999, le prime multipartitiche, riconfermarono, con larghissimo consenso, il presidente Ben Ali per un terzo mandato. Nonostante la Costituzione limitasse la presidenza a tre mandati di governo di cinque anni ciascuno, nel settembre del 2001 Ben Ali veniva scelto come candidato alla presidenza e, attraverso l'approvazione di un referendum costituzionale che portava il limite dei mandati presidenziali da tre a cinque (2002), veniva riconfermato con una larghissima maggioranza nelle elezioni del 2004 e del 2009. Il regime assoluto del presidente Ben Ali doveva, perň, fare i conti con un malcontento sociale sempre piů crescente, culminato nelle rivolte di piazza della fine del 2010 e l'inizio del 2011 (la cosiddetta "Rivoluzione dei gelsomini"). L’inizio della rivolta viene simbolicamente fatto coincidere con il gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante che il 17 dicembre 2010 si č dato fuoco per protesta nella cittadina di Sidi Bouzid. La rivolta tunisina č stata all'origine di un'ondata di proteste che ha investito nel corso del 2011 numerosi paesi arabi (c.d. "Primavera araba").

A fronte della continuazione delle proteste e della decisione da parte dell’esercito di schierarsi dalla parte dei manifestanti, Ben Alě lasciň infine il potere nelle mani di un governo provvisorio composto perlopiů da esponenti dell’ex regime e guidato da Mohamed Ghannouchi. A causa delle contestazioni, quest’ultimo fu perň costretto a dimettersi; la carica di primo ministro del governo provvisorio passň quindi a Beji Caid Essebsi, che sciolse la polizia segreta e guidň il paese nei suoi primi passi verso la transizione democratica. In ottobre si svolsero le elezioni per l'Assemblea costituente, vinte dal partito islamista Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi. I partiti della coalizione di governo nominavano capo dello stato Moncef Marzouki e primo ministro Hamadi Jebali. Dimissionario dopo appena un anno, Jebali fu sostituito nel marzo 2013 dal compagno di partito Ali Larayedh. La crisi politica del 2013, aggravata dagli attacchi alle ambasciate francese e Usa e dagli scontri fra le forze dell'ordine e i salafiti, fu superata con l'approvazione quasi unanime di una nuova Costituzione (26 gennaio 2014) e la formazione di un nuovo governo tecnico guidato da Mehdi Jomaa. La nuova Costituzione č il frutto di un non facile compromesso tra le forze politiche rappresentate nell'Assemblea costituente e ha impresso un senso di svolta alla societŕ tunisina che si apre alle sfide della democrazia dopo decenni di autoritarismo. Sulla scia di tali cambiamenti il 1° dicembre 2014 Beji Caid Essebsi č diventato il primo presidente della Tunisia eletto democraticamente nella storia del paese.

 

Popolazione e societŕ

La Tunisia, con i suoi 10 milioni di abitanti, č il paese piů piccolo di tutta l’area maghrebina e il meno popoloso dopo la Libia. A differenza di quest’ultima, perň, la Tunisia risulta etnicamente molto omogenea, presentando scarse divisioni dal punto di vista tribale e religioso, elemento che ne rafforza la coesione interna. Circa il 98% della popolazione, č araba, mentre la minoranza berbera e quella ebrea rappresentano ciascuna l’1%. La composizione etnica si riflette a livello religioso: il 98% della popolazione professa la religione musulmana sunnita, mentre vi sono piccole minoranze cristiane e afferenti alla religione ebraica. Il tasso di crescita della popolazione risulta essere il piů basso di tutta l’area medio-oriente/nordafrica (MENA), come effetto di un tasso di feconditŕ minore rispetto agli altri paesi dell’area. La Tunisia ha anche una delle popolazioni piů urbanizzate di tutta la regione ed č interessata, sia in misura diretta che indiretta, dal fenomeno dell’emigrazione: migliaia di persone partono da qui per raggiungere l’Europa, di solito attraverso l’Italia. La Tunisia vanta livelli di istruzione elevati e un sistema educativo tra i piů efficienti della regione. Il tasso di alfabetizzazione č superiore a quello di molti altri paesi maghrebini e mediorientali, specie per quanto riguarda le fasce giovanili, e sono molti i tunisini che studiano in universitŕ estere. La spesa per l’istruzione della Tunisia, d’altra parte, č la piů alta di tutta la regione e una delle piů alte al mondo (oltre il 6,2% del PIL nel 2009; Italia 4,7% nello stesso anno). A differenza di molti altri paesi dell’area MENA, la Tunisia non ha nel proprio territorio una rilevante disponibilitŕ di risorse naturali. Il paese produce gran parte dell’energia consumata, ma le risorse da esportare sono esigue. Tale condizione ha fatto sě che, rispetto ad altri attori regionali, il sistema economico tunisino divenisse piů orientato al manifatturiero e al terziario e all'interscambio con i paesi europei.

 

Quadro istituzionale

Prima della Rivoluzione, la Tunisia era una repubblica presidenziale, con un parlamento bicamerale, con la Camera alta (dei consiglieri) a composizione mista, elettiva e di nomina presidenziale. A seguito della "Rivoluzione dei gelsomini" l'Assemblea Costituente, insediata nel 2011, ha approvato in via definitiva, il 26 gennaio 2014 la nuova Costituzione tunisina, che ha introdotto un modello semipresidenzialista corretto e un Parlamento monocamerale. Il Presidente č eletto a suffragio universale diretto a maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio; il mandato presidenziale č quinquennale e rinnovabile una sola volta. L'Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (ARP) si compone di 217 membri eletti a suffragio universale diretto con metodo proporzionale per un mandato quinquennale.

L'importanza della nuova Costituzione ha travalicato la dimensione nazionale tunisina e si č posta, in modo naturale, come esito e modello di una rivoluzione democratica condotta con metodo inclusivo in un paese arabo mediterraneo. All'atto della sua adozione, le scelte da essa compiute sono apparse un possibile laboratorio per il futuro dei paesi arabi. Da qui, forse, l'acutizzarsi della minaccia terroristica jihadista, che vede nel modello tunisino un elemento fortemente dissonante rispetto ai propri obiettivi strategici.

La condizione femminile era stata la prima vittima del conflitto in atto nel mondo arabo fra riformatori laici e estremisti islamici. In Tunisia invece, per la prima volta, la Costituzione di un paese arabo ha proclamato solennemente la paritŕ di diritti fra uomini e donne ("tutti i cittadini e le cittadine hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Sono uguali davanti alla legge senza alcuna discriminazione"). La formulazione ha dato ragione alle associazioni femministe tunisine che il 13 agosto 2012 erano scese in piazza per denunciare il tentativo messo in atto da Ennahda di introdurre nella Costituzione il concetto di "complementarietŕ" della donna rispetto all'uomo, anziché paritŕ.

La Sharia (la legge islamica) non č richiamata dalla Costituzione come fonte del diritto, e anche se l'Islam č riconosciuto come religione nazionale viene preservato il carattere laico dello Stato; infatti contemporaneamente la Costituzione tutela la libertŕ di religione e di culto. Il capitolo "Diritti e Libertŕ" afferma i principi della libertŕ di opinione, di espressione, di informazione, di creazione artistica, di associazione partitica, le libertŕ sindacali, l'accesso ai social network, il diritto alla riservatezza della corrispondenza e il diritto di essere immediatamente informati sui motivi della limitazione delle libertŕ personali.

L'assetto costituzionale dei poteri delinea un modello di semipresidenzialismo corretto a favore del premier; la preoccupazione maggiore, per evitare il ripetersi in futuro di derive autoritarie, č stata quella di un accurato bilanciamento dei poteri fra il capo del Governo (che detiene la sostanza del potere esecutivo) e il Presidente della Repubblica, che condivide con il capo del governo le prerogative in materia di Esteri e Difesa e svolge un importante ruolo di controbilanciamento dell'esecutivo. Al riguardo: č introdotto il meccanismo della sfiducia costruttiva, ma il Presidente della Repubblica puň sollecitare un voto di sfiducia svincolato dall'indicazione di un nuovo Premier; in caso di impedimento permanente del Capo del Governo, il successore viene indicato nuovamente dal partito/raggruppamento vincitore alle precedenti elezioni, ma il Capo dello Stato puň procedere motu proprio in caso di dimissioni o se č stata approvata la sfiducia da lui promossa (č significativa inoltre la previsione che il Presidente stesso decada qualora la sfiducia venisse respinta per due volte); č il Capo del Governo a subentrare ad interim al Presidente della Repubblica in caso di impedimento temporaneo, ma passati 60 giorni o in caso di impedimento permanente č il Presidente del Parlamento ad assumere la piů alta carica dello Stato ed a convocare nuove elezioni presidenziali. Inoltre, nonostante "la determinazione della politica generale dello Stato" sia riconosciuta al Capo del Governo, questi condivide con il Presidente della Repubblica le prerogative su Esteri e Difesa, il che rafforza l'interdipendenza fra le due cariche.

In tale esercizio di ricerca di un costante equilibrio tra Poteri, l'Assemblea dei Rappresentanti del popolo (ARP, il parlamento) e la magistratura hanno un ruolo non di secondo piano. Se infatti il Presidente della Repubblica puň prendere, in consultazione con altre Istituzioni, misure eccezionali "in caso di pericolo imminente per la Nazione o per la sicurezza", queste non possono prevedere lo scioglimento dell'ARP, la quale dopo trenta giorni puň chiedere alla Corte Costituzionale di verificare il permanere delle dette circostanze. Tali misure eccezionali presentano peraltro qualche margine di incertezza e si prestano a piů di un dubbio interpretativo; la formulazione del relativo articolato rappresenta perciň una zona grigia che occorrerŕ approfondire.

Qualche approssimazione č presente anche nel capitolo dedicato alle Istanze Costituzionali, cinque organi indipendenti (tra essi l'Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni, ISIE) chiamati ad operare per il "rafforzamento della democrazia".

Il diritto alla vita č definito "sacro". Come noto, infatti, il relativo articolo prevede limitazioni "in casi estremi previsti della legge", formulazione che conferma nei fatti la permanenza nell'ordinamento tunisino della pena di morte; 102 i deputati contrari all'emendamento che ne prevedeva l'abolizione (sui 167 presenti al voto). Peraltro la Tunisia aveva votato nel 2012 la Risoluzione ONU sulla moratoria.

 

Politica interna

Le piů recenti elezioni legislative e presidenziali, le prime dall'adozione della nuova Costituzione, hanno avuto luogo rispettivamente a ottobre e a novembre/dicembre del 2014. Le elezioni legislative sono state vinte dai laici di Nidaa Tounes (NT), che hanno ottenuto la maggioranza relativa con il 39% dei suffragi e 86 seggi all'ARP; la formazione islamica moderata Ennahda, che aveva vinto le elezioni per l'Assemblea costituente nel 2011, ha subito un significativo arretramento, ottenendo comunque il 32% dei suffragi e 69 seggi. Il partito di maggioranza, dunque, nonostante l'appoggio di altre due formazioni laiche minori, si č trovato a dover concludere un accordo informale con Ennahda per la formazione del nuovo Governo, insediatosi il 5 febbraio scorso e guidato da Habib Essid. Tra i ministri del nuovo esecutivo sette sono personalitŕ indipendenti. All'ordine del giorno dell'Assemblea figura l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura e della Corte Costituzionale. Le elezioni presidenziali sono state vinte da Béji Caďd Essebsi, leader di NT, dopo il ballottaggio con il Presidente ad interim Marzouki.

Fra i temi all'ordine del giorno si segnala un disegno di legge, fortemente voluto dal Presidente Essesbi, sulla riconciliazione nazionale in campo economico e finanziario che porrebbe fine ai procedimenti penali contro uomini d'affari accusati o condannati per corruzione. Il disegno di legge, fortemente avversato dalle opposizioni e dalla societŕ civile, che vi ravvisano un tradimento dello spirito della rivoluzione del 2011, č sostenuto dall'esecutivo in ragione dell'opportunitŕ di recuperare in tal modo ingenti risorse economiche in un periodo di crisi.

La vita politica della giovane e ancora fragile democrazia tunisina č peraltro tuttora dominata dalla crisi di sicurezza seguita ai gravi attacchi terroristici che hanno colpito il paese a marzo e giugno di quest'anno. Se dopo l'attentato al museo del Bardo, in cui hanno perso la vita 24 persone, l'orgogliosa reazione del paese aveva trovato espressione in una grande marcia internazionale contro il terrorismo, alla quale avevano preso parte , in segno di solidarietŕ, numerosi capi di Stato e di governo stranieri, all'indomani dell'attentato di Sousse, che ha colpito una delle piů popolari mete turistiche del paese e si č concluso con la morte di 38 persone, il Presidente Essesbi ha ammesso che la Tunisia non č in grado di farcela da sola, senza l'aiuto dei paesi amici. Una serie di misure urgenti sono state prese per fronteggiare la minaccia terroristica: la chiamata di circa 1000 riservisti, la chiusura di 80 moschee abusive, l'adozione di una nuova legge antiterrorismo che contiene la contestata previsione della pena di morte per i terroristi, e la dichiarazione dello stato di emergenza per tutto il paese, proclamato dal Presidente Essesbi il 5 luglio scorso e successivamente rinnovato fino alla fine di settembre. Al terrorismo si aggiunge il fenomeno dei foreign fighters tunisini, che si stima siano circa 3000 fra Siria e Iraq, di cui circa cinquecento sarebbero di recente rientrati nel Paese.

 

Particolare rilevanza riveste la nuova legge sul terrorismo presentata dal Governo il 26 marzo scorso e adottata dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo il 24 luglio, essendo l’iter di adozione stato rallentato dalle polemiche suscitate dalla previsione della pena di morte per crimini di terrorismo. Essa sostituisce la precedente legge del 2003,  specificando meglio la natura di atto terroristico e individuando nuovi profili di responsabilitŕ anche per chi sostiene i movimenti estremisti. Essa prevede la creazione di un nuovo quadro giuridico per l'utilizzo di "mezzi speciali di investigazione" (intercettazioni, infiltrazioni, ecc), nonché l’istituzione di una nuova specialitŕ giuridica dedicata al terrorismo e una commissione nazionale per la lotta al terrorismo, incaricata di controllare l’applicazione delle norme internazionali e proporre misure da adottare.

 

Sostegno UE e bilaterale nel contrasto al terrorismo

In occasione della visita a Bruxelles del PM tunisino Essid, il 27-28 maggio, il SEAE ha consegnato alle autoritŕ tunisine un Memorandum che delinea una serie di azioni urgenti da intraprendere nel campo del contrasto al terrorismo. Esso si struttura in due parti, la prima riguardante un rafforzamento della cooperazione tra UE e Tunisia in questo campo, attraverso riunioni periodiche ad alta frequenza e scambio di informazioni, la seconda focalizzata su nuovi progetti concreti per rafforzare le strutture tunisine di contrasto al terrorismo. Si tratterebbe in un primo tempo della messa a disposizione di esperti europei che potrebbero formare e affiancare i funzionari tunisini. Gli aspetti operativi delle proposte saranno curati dall’esperto sicurezza (francese) assegnato alla Delegazione a Tunisi.

Il sopracitato Memorandun si č andato ad aggiungere a un vasto programma, cui L’UE stava giŕ lavorando, di “security sector reform” da 23 milioni di euro (fondi ENI) la cui finalizzazione č stata accelerata dopo l’attentato di Sousse. Il programma si articola su tre componenti: rafforzamento delle strutture del Ministero dell’Interno, sicurezza delle frontiere (in cui l’Italia potrebbe avere un ruolo di primo piano) e assistenza tecnica ai servizi di intelligence in funzione di lotta al terrorismo.

Il Consiglio Affari Esteri del 20 luglio ha approvato delle Conclusioni sulla Tunisia,. Il testo rinnova la solidarietŕ dell’UE nei confronti della Tunisia a seguito degli eventi di Sousse e fa appello a un approfondimento del partenariato privilegiato tra l’Unione e la Tunisia. Il CAE sostiene l’iniziativa, proposta dall’Italia, di una conferenza internazionale sugli investimenti in Tunisia e sottolinea l’importanza dell’adesione tunisina al programma Horizon 2020 sulla ricerca. Nell'ambito del sostegno alla Tunisia per il CT e la sicurezza, il Consiglio sottolinea la risposta positiva delle Autoritŕ tunisine alle proposte contenute nel Memorandum UE su specifici progetti di CT trasmesso a fine maggio.

L’assistenza italiana in materia di contrasto al terrorismo emana in particolare dal processo verbale sottoscritto dai due Ministri dell’Interno nel 2011, in base al quale l’Italia ha realizzato un oneroso programma di assistenza tecnica, per un valore di oltre 138 milioni di euro. Esso ha comportato la cessione di 16 imbarcazioni (4 classe 700, 6 pattugliatori da 34 metri, 6 pattugliatori da 27 metri) per il potenziamento delle capacitŕ operative di pattugliamento marittimo delle competenti autoritŕ tunisine. Da ultimo sono stati forniti strumenti di visione notturna per il personale impiegato nelle aree montagnose prossime all’Algeria, nonché giubbotti antiproiettile.

 

Politica estera

Il governo insediatosi a febbraio ha assunto, in politica estera, un approccio maggiormente pragmatico del suo predecessore: se il governo guidato da Ennahda aveva assunto posizioni allineate con Ankara e Doha, e aveva interrotto dal 2011 le relazioni con la Siria di Assad, il nuovo governo ha invece comunicato di recente la volontŕ di ristabilire le relazioni diplomatiche con la Siria e con la Libia (dove in aggiunta alle relazioni con il governo di Tobruk, č stato aperto un consolato a Tripoli), con lo scopo tra l'altro di studiare le dinamiche di reclutamento di combattenti jihadisti in tali paesi. Per contro, le relazioni con la Turchia sono attualmente tese, anche a seguito delle dichiarazioni del ministro degli esteri tunisino che ha esortato Ankara ad assumere un atteggiamento di maggior rigore contro i flussi di jihadisti tunisini verso la Siria. Solida la cooperazione con Algeri nella lotta al terrorismo, avviata a partire dal 2013.

Il 10 luglio gli USA hanno annunciato l'attribuzione alla Tunisia dello status di major non-NATO ally, che comporta l'accesso privilegiato a programmi di formazione, forniture e finanziamenti.

Le relazioni tra la Tunisia e l'Unione europea sono articolate su diversi piani. In primo luogo, nell'ambito della Politica Europea di Vicinato (PEV), l'UE riconosce lo straordinario sforzo riformistico della Tunisia, che testimonia la validitŕ, almeno per il caso tunisino, dell'approccio del "more for more". A fronte di ciň, la Commissione ha assicurato che l'allocazione di fondi ENI (European Neighborhood Instrument) per il 2015 sarŕ almeno pari a quella del 2014 (200 milioni di euro), di cui 70 milioni sono giŕ stati sbloccati a fine maggio. In merito al rinnovamento della PEV, la Tunisia auspica una maggiore differenziazione dell'offerta europea basata sulle necessitŕ di ciascun partner del Vicinato. In secondo luogo, quanto alla cooperazione in materia migratoria, il Partenariato di Mobilitŕ concluso nel 2014 prevede quattro assi di cooperazione: migrazione legale, contrasto alla migrazione illegale, approfondimento del nesso migrazione/sviluppo e protezione internazionale. La Tunisia č parte dei processi di Rabat e di Khartoum, quadri di dialogo migratorio tra l'Ue e i paesi dell'area mediterranea e del Corno d'Africa.

 

Economia

Diversificata, orientata al mercato: l'economia della Tunisia č stata a lungo citata come una storia di successo in Africa e nel Medio Oriente, ma deve affrontare una serie di sfide in seguito alla rivoluzione del 2011. Dopo il fallimento delle politiche economiche di stampo socialista adottate negli anni '60, la Tunisia ha intrapreso una strategia incentrata sulle esportazioni, rafforzando gli investimenti esteri e il turismo, che sono diventati centrali per l'economia del paese. Esportazioni chiave includono attualmente tessile e abbigliamento, prodotti alimentari, prodotti petroliferi, prodotti chimici, e fosfati, con circa l'80% delle esportazioni destinate al principale partner economico di Tunisi, l'Unione europea. La strategia liberista della Tunisia, insieme agli investimenti in istruzione e infrastrutture, hanno consentito decenni di crescita ai ritmi del 4-5% annuo del PIL e un considerevole miglioramento del tenore di vita. L'ex presidente (1987-2011) Zine El Abidine Ben Ali ha continuato a perseguire queste politiche, ma il sistema clientelare e la diffusa corruzione hanno ostacolato le performance economiche e la disoccupazione č aumentata a spese soprattutto della crescente schiera di giovani laureati. Il disagio sociale ha contribuito al rovesciamento di Ben Ali nel 2011, che ha mandato in tilt l'economia tunisina a causa della drastica diminuzione degli introiti da turismo e investimenti. Il tasso di crescita ha toccato nel 2011 il -1,6%, per poi riprendere a salire negli anni successivi ma sempre a tassi che non hanno consentito al Paese di ridurre il tasso di disoccupazione, che continua a superare il 15%. La ripresa dell'economia, peraltro, č giudicata dagli osservatori fondamentale per il successo del nuovo corso politico. A tal fine il governo sta predisponendo un piano di risanamento economico e sociale teso al rilancio di progetti di investimento finora sospesi, specialmente nel settore delle infrastrutture. La ripresa del turismo, che rappresenta il 7% del PIL tunisino, non si presenta di facile realizzazione a seguito dei recenti attentati del Bardo e di Sousse.

Il governo ha recentemente annunciato le linee del suo piano di sviluppo 2016-20. Gli obiettivi principali del piano quinquennale sono: la diversificazione dell'economia, fondata su industrie e servizi ad alto valore aggiunto, innovativi e tecnologicamente avanzati; la promozione di una maggiore inclusione sociale attraverso il miglioramento dei servizi educativi e sanitari, il rafforzamento dei diritti delle donne e la riduzione della povertŕ; la riduzione delle disparitŕ regionali; e il miglioramento della protezione dell'ambiente e il taglio consumo energetico. Il piano fissa il target di crescita media annua al 5% per il periodo 2016-20.

Il Piano di Sviluppo sembra riflettere la volontŕ di mantenere i finanziamenti del FMI, della Banca mondiale e di altri donatori. Il FMI ha di recente affermato che le riforme poste in essere finora sono state lente ma "soddisfacenti", date gli eventi che il paese si č trovato a fronteggiare, ed č probabile che accolga con favore l'ulteriore impegno per le riforme strutturali contenuto nel Piano 2016-20. Il direttore generale del FMI Christine Lagarde ha promesso ulteriore sostegno al paese nel corso di una visita a Tunisi a metŕ settembre e il capo della Banca Centrale di Tunisia, Chedly Ayari, ha annunciato che la Tunisia a breve avvierŕ colloqui con il FMI per un nuovo stand-by agreement del valore di circa 1,7 miliardi di dollari.

 

Rapporti bilaterali

I rapporti politici bilaterali fra Italia e Tunisia sono amichevoli e intensi: prossimitŕ geografica, comune appartenenza mediterranea e il continuo contatto tra le societŕ civili contribuiscono al loro sviluppo. Comuni le sensibilitŕ su numerose tematiche di rilievo internazionale. L’ampio partenariato investe settori come la lotta al terrorismo internazionale e il contrasto all’immigrazione clandestina. Nel maggio 2012 i due paesi hanno istituito un Partenariato Strategico Rafforzato, in attesa di riattivazione sul piano dei vertici periodici.

Numerosi gli scambi di visite ai massimi livelli. Si ricorda da ultimo l'incontro del Ministro Gentiloni con il suo omologo Baccouche lo scorso 24 agosto a Rimini, dedicato ai temi della sicurezza e del sostegno economico, e la visita del Presidente Mattarella a Tunisi, il 18 maggio 2015, in occasione della quale č stato firmato il Memorandum di Cooperazione italo-tunisino 2014-2016 per la programmazione delle attivitŕ di cooperazione.

In campo economico, l'Italia č il secondo partner commerciale della Tunisia, con un trend positivo; settore d'elezione della presenza di imprese italiane in Tunisia č il tessile/abbigliamento, ma sono anche rilevanti il settore turistico (circa 500.000 presenze italiane annue prima della crisi) ed energetico (transita in Tunisia un importante tratto del gasdotto TTPC, che collega Italia e Algeria). Č da menzionare l'azione di sostegno all'economia tunisina da parte dell'Italia, che si č espressa da ultimo nella lettera, firmata dal ministro Gentiloni e dall'omologo francese Fabius, indirizzata alle istituzioni europee per promuovere il sostegno internazionale alla Tunisia e per proporre l'organizzazione di una Conferenza internazionale per gli investimenti da tenere in Tunisia nella seconda metŕ del 2015. Sul piano bilaterale, avrŕ luogo a Tunisi il prossimo ottobre un Forum economico Italia - Tunisia.

In tema di cooperazione allo sviluppo, si segnala il giŕ menzionato Memorandum di cooperazione italo-tunisino 2014-2016, che prevede un pacchetto di iniziative a dono per 11,6 milioni di euro e un intervento a credito di aiuto del valore di 50 milioni, nonché l'attuazione di un'operazione di conversione del debito di 25 milioni di euro per realizzare progetti sociali nelle aree svantaggiate del Paese.

La collaborazione bilaterale nel settore migratorio si basa su uno scambio di note del 1998 sull'ingresso e il soggiorno sul territorio dei due paesi dei rispettivi cittadini e su un accordo in materia di lotta alla criminalitŕ del 2003. Nel 2011, in conseguenza dell'eccezionale flusso migratorio irregolare seguito alla rivoluzione dei gelsomini, č stato concluso un Processo verbale tra i rispettivi ministri dell'interno che prevedeva procedure semplificate di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari e ha consentito di ridurre notevolmente i flussi negli anni successivi. Questo regime, basato su presupposti emergenziali, dovrebbe ora lasciare il posto a un accordo complessivo sulle migrazioni, in fase di negoziato. Il principale nodo da sciogliere resta quello delle disposizioni in materia di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari.

Nel 1991, Italia e Tunisia hanno firmato una Convenzione di Cooperazione nel campo militare, con incontri periodici della Commissione Militare Mista italo-tunisina.

L'assistenza italiana in materia di contrasto al terrorismo si basa anch'essa sul giŕ citato Processo verbale del 2011, in base al quale l'Italia ha realizzato un oneroso programma di assistenza tecnica del valore di oltre 138 milioni di euro.

 

 


(…)

 


Profili biografici

 


Amm. Enrico Credendino -
Comandante della missione EU NAVFOR MED

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L’Amm. Enrico Credendino č nato a Torino il 21 gennaio 1963.

Il 18 maggio 2015 č stato designato dal Consiglio degli Esteri e della Difesa dell'Unione Europea comandante della missione EU NAVFOR MED contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. La missione durerŕ tre mesi, dal 27 giugno al 30 settembre 2015.

Credendino e’ entrato in Accademia Navale nel 1980 terminando il Corso Normale nel 1984 con il grado di Guardiamarina. Ha una laurea in scienze marittime dall’Universitŕ di Pisa e una in Scienze politiche dall’Universitŕ di Trieste.  Č stato imbarcato sull’incrociatore Vittorio Veneto, sull’incrociatore Andrea Doria e sul caccia lanciamissili Ardito, con gli incarichi di Ufficiale Addetto alle artiglierie, ai sistemi missilistici, di 1° Direttore del Tiro e di Capo Reparto Operazioni.

Ha comandato il pattugliatore Spica, la fregata Maestrale, la 1^ Squadriglia Pattugliatori – disimpegnando anche l’incarico di Ufficiale Relatore della Scuola di Comando Navale – e il caccia lanciamissili Francesco Mimbelli.

Le destinazioni a terra includono incarichi quali: Comandante della prima e seconda classe degli Allievi dei Ruoli Normali dell’Accademia Navale di Livorno; Ufficiale Addetto al Reparto Panificazione Generale dello Stato Maggiore Marina; Direttore dei Corsi Allievi dell’Accademia Navale di Livorno; Capo dell’Ufficio Politica delle Alleanze dello Stato Maggiore della Difesa e Vice Capo del Reparto Panificazione Generale dello Stato Maggiore Marina.

Promosso Contrammiraglio il 1 luglio 2011, ha assunto – sino all’agosto 2013 – gli incarichi di Vice Comandante delle Forze d’Altura e Deputy Commander of the Italian Maritime Forces, di Comandante della Forza Anfibia Italo–Spagnola e di Comandante del Gruppo Navale Italiano.

Tra agosto e dicembre 2012 č stato al comando della Forza Navale europea EU NAVFOR impegnata nell’operazione “Atalanta” contro la pirateria nelle acque del Corno d’Africa.

Da agosto 2013 č Capo del 3 Reparto Pianificazione Generale dello Stato Maggiore della Marina. Dal 2014 č ammiraglio di divisione.

Č sposato ed ha una figlia.


Hanna Hopko
Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino

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Hanna Hopko č nata il 4 marzo 1982 ad Hanachivka. Nel 2004 ha conseguito un Master in Giornalismo internazionale all’Universitŕ di Leopoli. Ha studiato alla Bloomberg School of Public Health dell’Universitŕ Johns Hopkins e nel 2009 ha ottenuto un PhD all’Universitŕ statale Taras Shevchenko di Kiev. Ha seguito corsi di perfezionamento alla Scuola di Studi politici ucraina.

Dal 27 novembre 2014 ricopre la carica di Presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino.

Č componente del Comitato esecutivo per le riforme del Consiglio nazionale per le riforme e del Centro d’azione per la lotta alla corruzione.

Dal 2005 al 2007 ha lavorato come manager per la comunicazione per l’Ukraine Citizen Action Network. Ha tenuto corsi di giornalismo in materia ambientale.

Nel 2009 ha co-fondato il "Life" Regional Advocacy Center, principale partner in Ucraina della Bloomberg Initiative per la riduzione dell’uso del tabacco, di cui č stata Vice Direttore fino all’aprile 2012. Nel 2009, ha ricoperto la carica di coordinatore della Coalizione nazionale delle ONG ed Iniziative per un’Ucraina libera dal fumo; in tale qualitŕ ha patrocinato con successo 5 leggi per il controllo dell’uso del tabacco.

Nel gennaio 2012, č entrata far parte del Consiglio di Amministrazione dell’ospedale pediatrico Ohkmatdyt.

Dal 2010 al 2012, Hanna Hopko č stata consulente del Gruppo parlamentare Moralitŕ, Spiritualitŕ e Salute pubblica.

Dal gennaio 2011 al settembre 2014 ha lavorato come esperta all’Istituto per l’Educazione politica e al National Democracy Institute (NDI). Da febbraio a settembre 2014 ha lavorato come coordinatrice dell’Iniziativa Reanimation Package of Reforms, che riunisce attivisti, esperti e giornalisti per promuovere e accelerare le riforme nel Paese. Ha fatto parte di un gruppo parlamentare Platform of the Reforms.

Nel 2014 č stata eletta al Parlamento ucraino nelle fila di Self Reliance, un partito politico fondato dal sindaco di Leopoli che si ispira ai principi della moralitŕ cristiana e del buon senso. Il 31 agosto č stata espulsa dal Partito per aver sostenuto gli emendamenti alla Costituzione ucraina che prevedevano la decentralizzazione e maggiori poteri per le aree sotto l’influenza dei separatisti russofoni.

Č sposata ed ha un figlio.

 


Gen. Luciano Portolano
Comandante della missione
UNIFIL in Libano

 

http://unifil.unmissions.org/Portals/UNIFIL/Images/FC%20Portolano-Portrait.jpg

Il gen. Luciano Portolano č nato ad Agrigento il 18 settembre 1960.

Dal luglio 2014 č Comandante della missione UNIFIL in Libano.

Ha iniziato la carriera militare frequentando l'Accademia Militare di Modena prima e la Scuola di applicazione di Torino poi, conseguendo la Laurea in Scienze Strategiche. Successivamente ha conseguito i Master in "Gestione Integrata e Sviluppo delle Risorse Umane" e in "Scienze Strategiche".

Ha operato in molte missioni/operazioni militari al di fuori del territorio italiano:

Dal 2007 al 2010 ha prestato servizio come addetto militare presso l'ambasciata italiana a Londra. Dal 2010 al 2012 č stato il Comandante della Brigata Sassari.

Successivamente č stato impiegato presso il COI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



[1]https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/7891Transforming%20Our%20World.pdf

[2]Traduzione da: UN (2015), Statement by the Secretary-General following agreement on the Outcome Document of the Post-2015 Development Agenda, New York, 2 August 2015, http://www.un.org.

[3] M. Zupi (2013),” L’agenda di sviluppo post-2015”, CeSPI, Osservatorio di Politica Internazionale, N. 79, Roma.

[4] https://sustainabledevelopment.un.org/sdgsproposal

[5] http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/69/315&Lang=E.

[6] https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/4673techreport.pdf.

[7] http://www.un.org/en/ga/president/68/pdf/stocktaking/PGA%20Stocktaking%20Event%20-%20Summary.pdf.

[8]https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/8932013-05%20-%20HLP%20Report%20-%20A%20New%20Global%20Partnership.pdf.

[9] http://unsdsn.org/wp-content/uploads/2013/06/140505-An-Action-Agenda-for-Sustainable-Development.pdf.

[10] http://www.un.org/disabilities/documents/reports/SG_Synthesis_Report_Road_to_Dignity_by_2030.pdf.

[11] http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/70/75&referer=/english/&Lang=E.

[12]Beyond 2015 (2015), New Global Sustainable Development Goals demand bold implementation commitments by Governments, Brussels (and globally), August 5, http://www.beyond2015.org.

[13]Donne, bambini e giovani, popolazioni indigene, ONG, autoritŕ locali, lavoratori e sindacati, mondo del business e aziende, comunitŕ scientifico-tecnologica, contadini.

[14]Redazione (2015), “The 169 commandments. The proposed sustainable development goals would be worse than useless”, e “Global economic development. Unsustainable goals: 2015 will be a big year for global governance. Perhaps too big”, The Economist, 28 marzo.

[15] M. F. Bellemare (2015), “Development Bloat. How Mission Creep Harms the Poor”, Foreign Affairs, 5 gennaio.

[16] Il Gruppo dei 77 č la maggiore organizzazione intergovernativa dei paesi in via di sviluppo in seno alle Nazioni Unite, ed ha lo scopo di fornire ai paesi del Sud i mezzi per articolare e promuovere i propri interessi economici collettivi e aumentare la loro capacitŕ negoziale comune su tutte le principali questioni economiche internazionali. Il G77 promuove inoltre la cooperazione Sud-Sud per lo sviluppo. <http://www.g77.org/> (N.d.R.)

[17] http://www.theguardian.com/global-development/2014/sep/24/un-begins-talks-sdgs-battle-looms-over-goals.

[18] Leo Williams (2015), Beyond 2015 and ‘Transforming Our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development’

Submitted on Tue, 08/11/2015 - 11:04, http://www.beyond2015.org.

[19]DeenT. (2015), U.N. Targets Trillions of Dollars to Implement Sustainable Development Agenda, Inter Press Service, http://www.ipsnews.net/

[20] ODI, ECDPM, GDI, Universitŕ di Atene, Southern Voice Network (2015), 2015 European Report on Development: Combining finance and policies to implement a transformative post-2015 development agenda, Commissione Europea, Bruxelles.

[21]Anyangwe E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception, The Guardian, http://www.theguardian.com.

[22]UNDESA (2015), Financing sustainable development and developing sustainable finance. A DESA Briefing Note On The Addis Ababa Action Agenda, New York.

[23]Termine coniato nel 2008 da JP Morgan e Rockefeller Foundation per definire una nuova classe di investimenti in grado di generare impatto come parte intrinseca dell’investimento, misurare le ricadute in termini di esternalitŕ sulla comunitŕ di riferimento e valorizzare il ritorno economico almeno pari al capitale investito. Si tratta, cioč, di investimenti che generano nuovo valore per le comunitŕ territoriali, producendo alto impatto sociale, ambientale e occupazionale. Come esempi pratici, si citano gli Smart system (cioč progetti che consentono di rendere intelligente il funzionamento degli edifici pubblici), lo sviluppo di nuove strumentazioni tecnologiche, sistemi di filtraggio e conservazione dell’acqua, sistemi di riciclo e trasformazione dei rifiuti, sviluppo e conservazione delle energie rinnovabili,sistemi di formazione a distanza. Oggetto di particolare attenzione e discussione in proposito č la definizione di metodi di misurazione dell’impatto degli investimenti: un esempio concreto č rappresentato dal catalogo IRIS gestito dal Global Impact Investing Network, o GIIN (si veda: https://iris.thegiin.org/).

[24]Anyangwe E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception, Thursday 16 July 2015 13.25; Ní Chonghaile C. (2015), Addis Ababa outcome: milestone or millstone for the world's poor?, Thursday 16 July 2015 11.19, http://www.theguardian.com.

[25]Adams B., Luchsinger G. (2015), An Action Plan Without Much Action, Global Policy Watch, www.globalpolicywatch.org.

[26] Addis Ababa CSO FfD Forum (2015), Third FfD Failing to Finance Development. Civil Society Response to the Addis Ababa Action Agenda on Financing for Development, Addis Ababa, 16 July 2015, https://csoforffd.wordpress.com.

[27]Inman P. (2015), Rich countries accused of foiling effort to give poorer nations a voice on tax, http://www.theguardian.com.

[28]Government of Netherland (2015), Government stepping up support to developing countries on tax issues, News item 22-06-2015, http://www.government.nl.

[29] The Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation (2015), Declaration, www.icrict.org.

[30]Adams B., Luchsinger G. (2015).

[31]Eurodad (2015), Press Statement on the Addis Ababa FfD outcome, www.eurodad.org; Terlecki S. (2015), Addis Ababa: 'New Flower' of an Ambitious and Comprehensive Financing Framework?, 17 July 2015, CONCORD, www.concord.org.

[32] Romero M.J. (2015), What lies beneath? A critical assessment of PPPs and their impact on sustainable development, Eurodad, www.eurodad.org; Buckley J. Sekidde S. (2015), Understanding private health care in Somalia, Oxford Policy Management, http://www.opml.co.uk.

[33]   Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due risoluzioni contenenti, rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per attuare la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di Azione.

 

[34]   Dal 1948 ad oggi sono 71 le operazioni di peace-keeping (Fonte: http://www.un.org/en/peacekeeping/resources/statistics/factsheet.shtml) vedi anche: http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/operationslist.pdf

[35]   Boutros Boutros Ghali, An Agenda for Peace - Preventive Diplomacy, peacemaking and peacekeeping, in http://www.unrol.org/files/A_47_277.pdf

 

[36]   Brahimi Lakhdar, Report of the Panel on United Nations Peace Operations, in

http://www.unrol.org/files/brahimi%20report%20peacekeeping.pdf

[37]   Official Records of the General Assembly, Sixty-fifth Session, Supplement No. 19 (A/65/19).

[38] http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/61/858  "Secretary General Comprehensive report on  strengthening the capacity of the United Nations to manage and sustain peace operations".

[39]   Per approfondimenti sul tema vedi: il dossier della serie "Documentazione e Ricerche" del novembre 2011, predisposto dai Servizi Studi della Camera dei deputati (n. 296) e del Senato della Repubblica (n. 318) "Incontro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera e del Senato con il Capo del Dipartimento per il sostegno logistico alle operazioni di pace delle Nazioni Unite" (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00737585.pdf)

[40]   Vd il sito internet della 'Conduct and discipline Unit" http://cdu.unlb.org/ 

[41]    http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=51855

[42]   Per l'elenco delle 16 operazioni in corso e per la speciale missione politica in Afghanistan vedi: http://www.un.org/en/peacekeeping/operations/current.shtml

[43]   http://www.un.org/en/peacekeeping/about/              

[44]   http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/dpkodfs_org_chart.pdf

[45] Barbara Miller, Milad Pournik, and Aisling Swaine, Women in Peace and Security through United Nations Security Resolution 1325: Literature Review, Content Analysis of National Action Plans, and Implementation, The George Washington University  Institute for Global and International Studies , 2014.

[46] Aggiornamenti a cura del Servizio Studi della Camera

[47] Triton č stata potenziata a seguito del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015 che ne ha triplicato la dotazione finanziaria e ne ha esteso l'area operativa e ha potenziato i mezzi a sua disposizione che giungeranno, in estate, a contare 3 aerei, 6 navi da pattugliamento offshore, 12 barche da pattugliamento, 2 elicotteri, 9 squadre di debriefing e 6 di monitoraggio.

 

[48] Aggiornamento: 22 settembre 2015.

 

[49]   Recante Proroga missioni internazionali e contrasto al terrorismo.

[50] Lanciata il 16 agosto 2014, l’Operazione Oceano Indiano č guidata dal governo federale somalo, con l’assistenza di AMISOM e delle Forze Armate statunitensi e mira ad eliminare le residue sacche di resistenza nei territori controllati prevalentemente dalle autoritŕ di Mogadiscio. Washinton contribuisce con una componete di velivoli a pilotaggio remoto, sia armati che per ricognizione ed intelligence, operanti dalle vicine basi di Djibouti e Arba Minch in Etiopia, e con piccoli team di9 Forze Speciali.

 

[51] Soprattutto di provenienza yemenita, sudanese, eritrea a anglo-americana. L’ingresso di combattenti stranieri č una misura indispensabile per la sopravvivenza del gruppo, gravato dall’altissimo numero di defezioni di miliziani somali a causa della brutalitŕ di al-Shabaab nei confronti della popolazione civile.

[52] Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani

[53]   Aggiornamento: settembre 2015Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit. Aggiornamento: settembre 2015

[54] Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI; Cia World Factbook; Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani; notizie di stampa