Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | Partecipazione alla LXX Sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (New York, 28 settembre ' 2 ottobre 2015) | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 190 | ||
Data: | 25/09/2015 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Partecipazione alla LXX Sessione dell’Assemblea generale |
(New York, 28 settembre – 2 ottobre 2015) |
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n. 190 |
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25 settembre 2015 |
Servizio Affari
Internazionali
Tel. 06 6706-2180 – segreteriaAAII@senato.it @SR_Affariinternazionali
Elementi di documentazione n. 4
CAMERA
DEI DEPUTATI:
Servizio Studi –
Dipartimento Affari esteri
Tel. 06
6760-4172 - st_affari_esteri@camera.it - CD_affari_esteri
Documentazione e ricerche n. 190
Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti
uffici:
Segreteria Generale – Ufficio
Rapporti con l’Unione europea
( 066760-2145 – * cdrue@camera.it
Servizio Rapporti
Internazionali
( 066760-3948– / 066760-9515 – * cdrin1@camera.it
La
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d’epoca |
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INDICE
L’agenda di sviluppo per il
post-2015 (a cura del Centro Studi
Politica internazionale - CeSPI)
La Missione EUNAVFOR Med (a cura del Servizio Affari internazionali
del Senato)
La Missione delle Nazioni Unite in
Libano (UNIFIL) (a cura del Servizio Studi della Camera)
La Libia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali -
CeSI)
Siria: i piů recenti sviluppi (a cura del Servizio Affari Internazionali
del Senato)
Somalia: punto di situazione (a cura del Centro Studi Internazionali -
CESI)
Algeria (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)
Marocco (a cura del Servizio Affari internazionali del Senato)
Tunisia (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)
Amm. Enrico Credendino - Comandante della missione EU NAVFOR MED
Hanna Hopko Presidente della
Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino
Gen. Luciano Portolano Comandante
della missione UNIFIL in Libano
1. I nuovi Obiettivi di Sviluppo
Sostenibile 2015-2030: storia di un processo lungo e
tortuoso
Il processo con cui i paesi membri delle Nazioni Unite definiscono
i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile - che rinnovano ed espandono l’agenda
fissata nel 2000 con gli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals, MDG) si
avvicina alla sua conclusione.
A fine settembre 2015, in occasione dello specifico summit
(25-27 settembre) che riunirŕ i Capi di Stato e di Governo nell’ambito
dell’apertura della 70a sessione dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, sarŕ formalmente approvata la nuova agenda che la comunitŕ degli
Stati membri dovrŕ far propria per impostare il lavoro successivo (28
settembre-6 ottobre), perché poi possa entrare in vigore a partire dal primo
gennaio 2016. In preparazione di tale evento, l’attuale Presidente della 69a
sessione dell’Assemblea Generale, l’ugandese Sam Kutesa, ha incaricato Macharia
Kamau (ambasciatore del Kenya) e David Donoghue (ambasciatore dell’Irlanda) di
svolgere il ruolo di co-facilitatori delle consultazioni informali
preparatorie. L’11 agosto 2015 i due co-facilitatori hanno trasmesso al
Presidente dell’Assemblea Generale la bozza del testo finale approvato per
consenso dagli Stati membri il 2 agosto.
La bozza del testo da approvare, intitolato Transforming our World: The 2030 Agenda for
Sustainable Development[1],
presenta la nuova agenda per il quindicennio 2015-2030 e riassume in 29 pagine
i risultati di oltre due anni di dibattito. Nelle parole del Segretario
Generale Ban Ki-moon, si tratta di “un’agenda
universale, trasformativa e integrata che preannunzia una svolta epocale per il
nostro mondo: č l’agenda delle persone, un piano d’azione per eliminare la
povertŕ in tutte le sue dimensioni, in modo irreversibile, dovunque, non
lasciando indietro nessuno”[2].
Sempre secondo il Segretario Generale, l’agenda “traccerŕ la rotta di una nuova era di
sviluppo sostenibile in cui la povertŕ sarŕ sradicata, la prosperitŕ sarŕ condivisa
e i fattori chiave che determinano i cambiamenti climatici saranno
opportunamente affrontati.”
Un’agenda, quindi, molto (forse troppo) ambiziosa, che conclude
un iter negoziale estremamente complesso, che ha sperimentato un elevato livello
di partecipazione da parte della societŕ civile internazionale, dei diversi governi
e del sistema ONU. Oltre due anni di negoziati intensi, alla ricerca di una
formula inedita in grado di assicurare una vasta partecipazione, cioč cercando
di assegnare un ruolo maggiore alla base della gerarchia organizzativa nel
prendere decisioni e determinare le responsabilitŕ, in nome di un approccio bottom-up che era mancato in occasione
degli MDG. Un iter complesso e non lineare, in cui si č assistito ad una
proliferazione di proposte e documenti paralleli, non sempre allineati, piů che
a un ordinata sequenza di testi di progressivo avvicinamento al documento
finale.
Si č trattato di un iter scomponibile in quattro fasi: (1)
l’impostazione del processo, (2) la definizione dei contenuti, (3) negoziati e
dibattito, (4) l’accordo.
Per quanto detto, tuttavia, le quattro fasi non sono state
rigidamente sequenziali e, in particolare, la definizione dei contenuti ha
accompagnato negoziati e dibattito piů che precederli.
Gli input sono venuti da fonti intergovernative e non solo.
Fig. 1. Il percorso del
processo preparatorio e dei negoziati ufficiali relativi all’agenda post-2015
Fonte: aggiornamento della figura in M. Zupi (2013)
Anzitutto, nel 2012 č stato concretamente avviato il
processo per la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG)
emersi dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20)
del giugno dello stesso anno, processo parallelo e complementare all'agenda
post-MDG e che fa riferimento alle tre dimensioni (economica, sociale e
ambientale) dello sviluppo sostenibile. Il documento conclusivo di Rio+20, The Future We Want, adottato con la risoluzione
dell’Assemblea generale n. 66/288 e ratificato nel settembre 2012, riconosce
come sfida centrale l'eliminazione della povertŕ, identifica la Green economy
come un importante strumento per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile e
indica alcune caratteristiche di base degli SDG: orientati all'azione, concisi,
facilmente comunicabili, di numero limitato, di natura globale e universalmente
applicabili a tutti i paesi, pur tenendo conto delle differenti realtŕ
nazionali. Il documento indica inoltre che gli SDG dovranno essere valutati
alla luce di specifici indicatori e traguardi[3].
L’High-level Political
Forum (HLPF) on sustainable development,
istituito dalla conferenza Rio+20 in sostituzione della UN Commission on Sustainable Development (CSD, a sua volta insediata a
seguito della Conferenza di Rio nel 1992), č stato il principale organismo creato
dalle Nazioni Unite sul tema. L’HLPF č stato, infatti, incaricato di guidare i
lavori per lo sviluppo del processo affrontando le sfide emergenti, promuovendo
il dialogo fra politica e scienza e rafforzando l’integrazione fra dimensioni
economica e sociale dello sviluppo.
L’Open Working Group
(OWG) sugli SDG, istituito dall’Assemblea Generale il 22 gennaio 2013 con la
partecipazione di 70 paesi, raggruppati nelle cosiddette 30 constituency, ha sviluppato nel corso di
13 incontri un rapporto che l’Assemblea Generale, con la risoluzione del 10
settembre 2014, ha elevato a base principale della nuova impostazione[4]. Al
lavoro dell’OWG č stato affiancato il 21 giugno 2013 quello dell’Intergovernmental Committee of Experts on
Sustainable Development Financing (ICESDF), formato da 30 membri, secondo
quanto stabilito durante la conferenza di Rio+20, e supportato dal Working Group on Financing for Sustainable
Development, integrato nell’UN System
Task Team on the Post-2015 Development Agenda (istituito nel 2012 e composto
da rappresentanti di oltre 60 organizzazioni internazionali ed enti delle
Nazioni Unite). La discussione interna all’OWG č stata alimentata anche dai
risultati di una serie di global
consultation che hanno incluso 83 consultazioni nazionali e 11
consultazioni tematiche. Sono stati organizzati sondaggi diretti dell’opinione
pubblica e una consultazione online denominata My world che ha raggiunto oltre 7 milioni di risposte. Gli esperti,
nominati su base regionale paritaria, hanno prodotto un rapporto finale
adottato nell’agosto 2014 e contenente indicazioni per la mobilitazione di
risorse per lo sviluppo sostenibile[5].
In tema di trasferimento tecnologico, la specifica sessione
dedicata durante Rio+20 ha prodotto una richiesta alle agenzie delle Nazioni
Unite di identificare meccanismi di facilitazione per lo sviluppo,
trasferimento e disseminazione di efficienti tecnologie pulite. A questo scopo
il Presidente dell’Assemblea Generale, sulla base della Risoluzione 67/203 del
21 dicembre 2012, ha convocato quattro workshop
sul tema sfociati in quattro giorni di dialogo strutturato presso la stessa
Assemblea che hanno prodotto una serie di raccomandazioni[6].
Il Presidente dell’Assemblea Generale ha inoltre convocato
nel primo semestre 2014 sei High-level events
and thematic dialogues, focalizzati su trattamento delle acque ed energia
sostenibile; contributo delle donne, dei giovani e della societŕ civile; ruolo
del partenariato; garanzia di societŕ stabili e pacifiche; cooperazione
triangolare Nord Sud e Sud Sud e ICT per lo sviluppo; diritti umani e stato di
diritto. Nel settembre 2013, un High-level
stocktaking event ha portato a sintesi il lavoro sviluppato durante i sei
eventi[7].
Un sostanziale apporto č stato, indubbiamente, fornito dai
due principali organismi non intergovernativi coinvolti. L’High-Level Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda
(HLP), istituito dal Segretario Generale nel luglio 2012, č stato co-presieduto
dai Presidenti di Indonesia (Susilo Bambang Yudhoyono) e Liberia (Ellen Johnson
Sirleaf) e dal Primo Ministro del Regno Unito (David Cameron), e ha riunito
rappresentanti della societŕ civile, del mondo della ricerca, del settore
privato, di amministrazioni locali e nazionali. Il Panel ha pubblicato nel
maggio 2013 il rapporto A New Global
Partnership[8] centrato
su cinque indicazioni principali che includono la lotta alla povertŕ estrema e
alle disuguaglianze, l’inserimento dello sviluppo sostenibile al centro
dell’agenda post 2015, la trasformazione dell’economia facendo leva
sull’importanza dell’occupazione piena e a condizioni dignitose e sull’inclusione,
la promozione della pace e di istituzioni aperte e accountable per tutta la popolazione, la creazione di un nuovo partenariato
globale.
Il secondo organismo non governativo č il Sustainable Development Solutions Network
(SDSN), una rete globale indipendente di centri di ricerca, universitŕ e
istituzioni tecniche che lavorano con diversi stakeholder, fra cui il settore privato, la societŕ civile, agenzie
delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. Nel 2013, l’SDSN ha
trasmesso al Segretario Generale il rapporto An Action Agenda for Sustainable Development[9] in cui
propone dieci obiettivi per la promozione dello sviluppo sostenibile e una
bozza di rapporto sulla questione della predisposizione di indicatori e di un
sistema di monitoraggio per la valutazione dell’attuazione dell’Agenda.
Il 4 dicembre 2014, il Segretario Generale ha presentato
all’Assemblea Generale il suo rapporto di sintesi per orientare i negoziati nel
2015, intitolato The Road to Dignity by
2030: Ending Poverty, Transforming All Lives and Protecting the Planet[10]. Il
documento di sintesi evidenzia la continuitŕ diretta tra MDG e SDG, parlando
esplicitamente della necessitŕ di “completare
il lavoro” avviato con gli MDG ma anche dell’opportunitŕ di andare oltre,
dinanzi all’opportunitŕ che il 2015 diventi l’anno piů importante in materia di
sviluppo dal momento dell’istituzione delle Nazioni Unite. Il rapporto di
sintesi riafferma la necessitŕ di un’agenda universale e di trasformazione, che
metta al centro le persone e il pianeta, fondata sui diritti umani e sostenuta
da un partenariato globale. Inoltre, il Segretario Generale riconosce nei 17
Obiettivi e nei 169 target di sviluppo sostenibile proposti dall’OWG la base di
partenza per il negoziato tra le parti, le cui discussioni dovranno
necessariamente affrontare il correlato tema dei mezzi di realizzazione, cioč
della finanza per lo sviluppo, oggetto dell’apposita conferenza di luglio 2015
ad Addis Abeba. Un’agenda fondata sull’interazione tra le tre dimensioni
centrali dello sviluppo (economica, sociale e ambientale), il che implica una
rivisitazione anche del modo di pensare e agire del sistema delle Nazioni
Unite, come lo stesso Segretario Generale torna a sottolineare in un suo
rapporto di fine marzo 2015 per il Consiglio Economico e Sociale intitolato Mainstreaming of the three dimensions of
sustainable development throughout the United Nations system[11].
La partecipazione della societŕ civile č stata uno dei
pilastri dell’elaborazione dell’Agenda. Ne sono prova tangibile il lavoro della
Campagna Beyond 2015, che riunisce
oltre 1.300 organizzazioni di tutto il mondo, oppure - per quanto riguarda il mondo
della ricerca, dei think-tank e delle universitŕ - quello della rete leader in
Europa EADI che riunisce oltre 150
istituzioni universitarie e think tank di 28 paesi europei. Questo processo
lungo, elaborato e reso molto complesso dalla scelta di fondarlo su un’ampia
partecipazione e sulla volontŕ di allargare i temi sul tappeto, č considerato
dalla societŕ civile coinvolta un elemento di grande forza per il rilancio
dell’azione internazionale[12]. Come
stabilito nella A/69/L.46 – Draft decision
- modalities for the process of intergovernmental negotiations on the post-2015
development agenda, i co-facilitatori hanno assicurato il coinvolgimento
degli stakeholder, che includono i
Major Groups che dal primo Earth Summit del 1992 partecipano alle attivitŕ
delle Nazioni Unite in tema di sviluppo sostenibile, la societŕ civile[13], i
parlamenti, le autoritŕ locali e il settore privato, sulla base della pratica
dell’OWG e della Risoluzione 69/244.
La versione finale della bozza di agenda di sviluppo per il
post-2015 č stata approvata a conclusione di un incontro plenario informale
dopo due settimane di negoziati intergovernativi. La sessione finale,
particolarmente laboriosa, ha visto le ultime modifiche che hanno interessato
dettagli di questioni relative ai paragrafi sul clima, diritti dei migranti,
popolazioni di territori sotto occupazione coloniale e straniera, condivisione
dei benefici delle risorse genetiche, sostenibilitŕ del debito, risorse per le
diverse categorie di paesi maggiormente svantaggiati.
Come ha riportato l’Ambasciatore Donoghue con soddisfazione,
un accordo č stato trovato anche sulle questioni piů spinose, fra cui la
modalitŕ con cui presentare la relazione fra l’Agenda post-2015 e l’Addis Ababa
Action Agenda, le Responsabilitŕ Comuni ma Differenziate (Common But Differentiated Responsibilities, CBDR) e la forma di
Preambolo e Dichiarazione nella loro funzione di sintesi.
Fig. 2. La struttura
della bozza del testo finale e la nuvola delle parole contenute
· Preamble
– pp. 2
· DECLARATION - pp. 3-10
Introduction (parr. 1-6)
Our vision (parr. 7-9)
Our shared principles and commitments (parr. 10-13)
Our world today (parr. 14-17)
The new Agenda (parr. 18-38)
Means of Implementation (parr. 39-46)
Follow-up and review (parr. 47-48)
A call for action to change our world (parr. 49-53)
· Sustainable Development Goals and targets - pp. 11-23 (parr. 54-59)
· Means of implementation and the Global
Partnership- pp. 24-26 (parr. 60-71)
· Follow-up and review- pp. 27-29 (parr. 72-91)
Il testo finale contiene cinque parti che includono i 17 Sustainable Development Goals e i 169 target proposti dall’OWG nel 2014, solo parzialmente
modificati.
La descrizione di Obiettivi e target č preceduta da un Preambolo, centrato su cinque parole
chiave (le cinque P), che introduce un piano di azione per le persone, il
pianeta e la prosperitŕ (“for People, Planet and Prosperity”) e sottolinea il
rafforzamento della pace universale (Peace) in “larger freedom” e riconosce lo
sradicamento della povertŕ in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la
povertŕ estrema, quale la piů grande sfida globale e la premessa fondamentale
per lo sviluppo sostenibile. Il Preambolo indica la natura universale e
cooperativa dell’Agenda (Partnership) e l’impegno perché nessuno sia lasciato
indietro.
Il Preambolo č seguito da una Dichiarazione in 53 paragrafi
divisi in 8 sezioni: anzitutto un’introduzione generale e la vision alla base dell’Agenda, riassunta
in tre paragrafi che riaffermano la volontŕ di costruire un mondo inclusivo,
equo, liberato dalla povertŕ e che dia benessere e opportunitŕ di sviluppo a
tutti gli esseri umani nel rispetto dell’ambiente e in armonia con la natura.
La Dichiarazione riafferma poi, nella sezione successiva, una serie di principi
condivisi dai paesi membri come base del rinnovato impegno, fra cui la
Dichiarazione di Rio+20 e il principio delle responsabilitŕ comuni ma
differenziate. Un richiamo agli MDG, alle sfide ancora aperte e alla necessitŕ
di operare per completare il lavoro fin qui realizzato precede il corpo della
Dichiarazione, rappresentato dall’Agenda che costituisce la sezione con piů
paragrafi (21 paragrafi: dal 18 al 38) e declina gli impegni sanciti dagli Obiettivi
e target, richiamando alcuni elementi
chiave dell’impostazione, fra cui il riconoscimento dell’importanza
dell’attenzione alla sostenibilitŕ e del ruolo di alcuni attori come le donne e
i migranti. La sezione seguente della Dichiarazione sottolinea la necessitŕ di
costruire un nuovo partenariato e di rivitalizzare i Means of Implementation (MoI), di cui viene esplicitamente
ricordata l’importanza e che vengono richiamati sia nel 17° Goal, dedicato
all’argomento, che in diversi target riferiti
ai vari Goal tematici.
Il testo fa riferimento ai risultati della Terza Conferenza
Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo conclusasi ad Addis Abeba il 16
luglio 2015, ribadendo il ruolo dell’aiuto pubblico allo sviluppo quale
catalizzatore per la mobilitazione di risorse, non solo finanziarie, da altre
fonti fra cui il settore privato (dalle piccole imprese alle multinazionali),
la societŕ civile e le organizzazioni filantropiche. Nella penultima sezione si
assegna all’High-level Political Forum on Sustainable Development il ruolo
centrale a livello globale per la gestione del follow-up dell’adozione dell’Agenda, con i Governi come primi
responsabili. A questo scopo, devono essere rafforzate le capacitŕ delle
istituzioni statistiche, soprattutto nei paesi africani, per poter garantire un
adeguato e affidabile flusso di dati relativi agli indicatori. Si fa anche un
esplicito riferimento all’impegno comune per sviluppare indicatori
complementari al PIL per la misura del progresso. L’ultima sezione chiama all’azione
i diversi attori comprendendo nell’appello - oltre ai governi e alle
istituzioni internazionali - anche i parlamenti, le autoritŕ locali, le
popolazioni indigene, la societŕ civile, le imprese e il settore privato in
generale, la comunitŕ scientifica e l’intera popolazione.
Alla Dichiarazione segue la parte centrale del documento,
intitolata Sustainable Development Goals
and targets, con la lista degli 17 Obiettivi e 169 target che ricalca con alcune modifiche la proposta presentata
dall’OWG nel luglio 2014. Si tratta principalmente di revisioni tecniche
individuabili negli Obiettivi 2 (nutrizione), 3 (sanitŕ), 4 (istruzione), 6
(risorse idriche), 7 (energia), 8 (crescita economica ed occupazione), 9
(infrastrutture), 11 (urbanizzazione), 14 (oceani e mari), 15 (ecosistemi
territoriali) e 17 (MoI).
Il documento riserva una parte specifica a quest’ultimo
tema, precisando la relazione fra la Addis
Ababa Action Agenda (AAAA: si veda capitolo piů avanti) e l’Agenda di
sviluppo post-2015. Come giŕ in parte indicato nella Dichiarazione, il documento
ribadisce che l’Agenda post 2015 e gli SDG possono essere realizzati solo nel
contesto di un partenariato globale rivitalizzato, sostenuto dalle politiche e
dalle azioni concrete delineate nella AAAA.
Inoltre, si stabilisce che la AAAA "č a sostegno, complemento e contribuisce a contestualizzare i MoI
e i target dell’Agenda 2030” (par. 62), mentre viene riprodotto il
paragrafo 123 della stessa AAAA che istituisce il Technology Facilitation Mechanism (TFM) a sostegno del
raggiungimento degli obiettivi sulla base della cooperazione multistakeholder fra stati membri,
comunitŕ scientifica, settore privato e societŕ civile, che si concretizzerŕ in
un team di lavoro interagenzie, in un forum su tecnologia e innovazione e in
una piattaforma di collaborazione fra i diversi attori.
Il TFM rappresenta un tema spinoso la cui istituzione era
giŕ prevista nel documento finale di Rio+20 e che ha a lungo contrapposto Nord
e Sud del Mondo. Come č emerso nel seminario di New York dell’aprile 2015,
nell’ambito della sessione di lavoro congiunta tra processo post-2015 e
processo sulla finanza per lo sviluppo, per molti paesi del Sud del mondo
l’accesso alla tecnologia piů avanzata, attraverso meccanismi di trasferimento,
č la via principale allo sviluppo; mentre paesi del Nord come gli Stati Uniti e
le imprese multinazionali temono che tramite questi meccanismi si riduca di
fatto la tutela dei diritti di proprietŕ intellettuale (Intellectual property rights, IPR), ed č proprio questa la ragione
per cui i paesi del Nord hanno opposto resistenza durante l’intero negoziato
per l’agenda di sviluppo post-2015 ad una menzione esplicita del tema degli IPR.
L’ultima parte del documento, infine, definisce il quadro per il “follow-up and review” ai livelli
nazionale, regionale e globale. Gli indicatori per gli SDG saranno sviluppati
entro marzo 2016 dall’Inter-agency and
Expert Group on SDG Indicators (IAEG-SDGs) in accordo con la UN Statistical Commission. Successivamente,
verranno adottati dall’ECOSOC e dall’Assemblea Generale e saranno completati
dagli indicatori per i livelli nazionali e regionali che saranno sviluppati,
invece, dagli stati membri.
Un impegno specifico viene stabilito per il sostegno ai PVS
e in particolare ai paesi africani, a quelli a basso reddito, a quelli insulari
e senza sbocco al mare, per rafforzare le capacitŕ degli uffici statistici
nazionali e dei sistemi di raccolta e analisi dati. A livello globale, l’HLPF riceverŕ
dal Segretario Generale l’annuale SDG
Progress Report basato sulle statistiche nazionali e regionali, nonché il Global Sustainable Development Report,
che avrŕ fra l’altro la funzione di rafforzare il dialogo fra scienza e
politica.
I 17 SDG proposti, riprendendo il lavoro dell’OWG,
definiscono l’orizzonte di intervento per le politiche di sviluppo nei diversi
paesi e a livello mondiale. Essi sono:
1.
Eliminare la povertŕ in tutte le
sue forme e dovunque;
2.
Eliminare la fame, conseguire la
sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere l’agricoltura
sostenibile;
3.
Garantire salute e benessere per
tutti a qualsiasi etŕ;
4.
Garantire un’istruzione di qualitŕ inclusiva
ed equa e promuovere opportunitŕ di apprendimento permanente per tutti;
5.
Raggiungere l’uguaglianza di genere
e l’empowerment di tutte le donne e
ragazze;
6.
Assicurare a tutti disponibilitŕ e
gestione sostenibile dell’acqua, condizioni d’igiene e smaltimento dei rifiuti;
7.
Assicurare a tutti accesso a
un’energia moderna, sostenibile e a prezzi equi;
8.
Promuovere una crescita economica
sostenuta, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un
lavoro a condizioni dignitose per tutti;
9.
Costruire infrastrutture resilienti,
promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire
l’innovazione;
10.
Ridurre le disuguaglianze tra i
paesi e all’interno dei paesi;
11.
Rendere le cittŕ e tutti gli
insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili;
12.
Garantire modelli di produzione e
consumo sostenibili;
13.
Adottare misure urgenti per
contrastare i cambiamenti climatici e gli impatti che ne derivano;
14.
Conservare e usare in modo
sostenibile oceani, mari e risorse marine per lo sviluppo sostenibile;
15.
Proteggere, ripristinare e
promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo
sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare e invertire
il processo di degrado della terra e la perdita di biodiversitŕ;
16.
Promuovere societŕ pacifiche e
inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire accesso alla giustizia per
tutti e costruire istituzioni efficaci, trasparenti e inclusive a tutti i
livelli;
17.
Rafforzare i mezzi e le risorse
finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile (MoI) e rilanciare il
partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.
Scorrendo la lista e confrontandola con quella degli MDG, č
evidente lo sforzo di promuovere un impegno in piena continuitŕ con gli
Obiettivi del 2000, ripresi e rafforzati (uno su tutti: si passa dal dimezzare
la povertŕ assoluta - MDG1 – alla sua eliminazione totale – SDG1). Si tratta
perň anche di un allargamento dell’agenda, fondata sui tre pilastri (sociale,
economico e ambientale), e non piů solo su quello sociale come nel caso degli
MDG, il che spiega il numero piů che raddoppiato degli obiettivi.
Quello che č meno evidente č il tentativo, solo molto
parzialmente riuscito, di evitare una logica settoriale (il cosiddetto silo approach) che si limiti ad
affiancare, sommandoli uno all’altro, una lista di obiettivi distinti e
numerosi, collegati alcuni alla dimensione sociale dello sviluppo, altri a
quella economica e altri ancora a quella ambientale. Nelle intenzioni, la
logica da adottare dovrebbe essere quella dell’approccio integrato delle tre
dimensioni (o nested approach), che
coglie la complessitŕ del reale in cui esse convivono. Il riscontro di questo
tentativo lo si dovrebbe trovare scorrendo la lista dei target: nel caso degli
MDG erano inizialmente 18 e divennero poi 21 nel 2006, nel caso degli SDG sono
addirittura 169, cioč oltre otto volte piů numerosi.
Tra i numerosi target che definiscono l’agenda SDG esistono
legami stretti riconducibili al tema di riferimento, pur essendo associati a
goal diversi: per esempio, il tema della salute č esplicitamente indicato nel
goal 3 (Garantire salute e benessere per
tutti a qualsiasi etŕ) che, a sua volta, ricomprende 13 target; tuttavia,
ci sono altri 8 target – associati ai goal 2, 6, 11 e 12 – che si riferiscono
esplicitamente alla salute. In questo senso, si puň parlare - come fa il
Segretario generale delle Nazioni Unite - di un raggruppamento allargato di
target tematici, che vanno al di lŕ di quelli associati in senso stretto ad un
goal specifico. Anche nel caso del goal 2 (Eliminare
la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere
l’agricoltura sostenibile) – che č una delle aree prioritarie della
politica italiana di cooperazione allo sviluppo - la correlazione tra ambiti
distinti come la gestione del territorio, i metodi di produzione agricola, gli
ecosistemi, la nutrizione e la sicurezza alimentare č esplicitata, diversamente
dal passato. Piů in generale, molti target sono di fatto correlati a due o tre
obiettivi di sviluppo. Ciň rende piů complesso il lavoro di analisi, ma anche
quello operativo delle organizzazioni che si occupano di politiche di sviluppo
e di cooperazione internazionale allo sviluppo, chiamate a superare l’approccio
settoriale che caratterizza tradizionalmente il loro operato, alla ricerca di
maggiore coordinamento e coerenza tra le parti.
Una particolaritŕ che, invece, caratterizza i target
dell’agenda post-2015 relativa agli SDG, distinguendoli da quelli degli MDG, č
la connessione diretta col tema dei MoI (Means
of Implementation). Nel quadro degli MDG, infatti, l’Obiettivo 8
(Sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo), si articolava in 6 target
(e 16 indicatori) relativi al tema dei MoI, esaurendoli. Nel caso degli SDG,
l’ultimo Obiettivo, il 17, č relativo ai MoI (Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo
sostenibile e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile)
e prevede ben 19 target relativi a finanza, tecnologia, Capacity-building, commercio e temi sistemici come coerenza delle
politiche, partenariato multi-stakeholder e monitoraggio; tuttavia, scorrendo
gli altri 16 SDG si scopre che i target correlati sono distinti in due
categorie: da una parte, indicati coi numeri in ordine crescente, si tratta di
target specifici; da un’altra parte, classificati con lettere in ordine
crescente, ci sono target in termini di MoI. Complessivamente, ci sono 107
target di tipo tradizionale e 62 target afferenti al campo dei MoI, non
riconducibili unicamente all’ultimo Obiettivo, ma esplicitamente ancorati ai
diversi Obiettivi.
Provando a schematizzare le differenze in termini di numeri
tra target dell’agenda MDG e quella SDG, si ottiene una tabella che restituisce
immediatamente la sistematicitŕ del maggiore numero di informazioni esibite nel
caso degli SDG e, di converso, la tendenza alla sintesi comunicativa degli MDG
che offrivano un livello di dettaglio relativamente maggiore solo in materia di
salute (il focus degli MDG) e di sostenibilitŕ ambientale (un’area su cui – si
diceva giŕ negli anni Novanta -occorreva investire maggiormente).
Tab. 1. Confronto tra MDG*
e SDG in termini di target
|
SDG |
MDG |
||
goal |
N. target |
N. target relativi a MoI |
N. target |
N.
indicatori |
1 |
5 |
2 |
1 |
3 |
2 |
5 |
3 |
1 |
2 |
3 |
9 |
4 |
6 |
19 |
4 |
7 |
3 |
1 |
3 |
5 |
6 |
3 |
1 |
3 |
6 |
6 |
2 |
|
|
7 |
3 |
2 |
|
|
8 |
10 |
2 |
1 |
4 |
9 |
5 |
3 |
|
|
10 |
7 |
3 |
|
|
11 |
7 |
3 |
|
|
12 |
8 |
3 |
|
|
13 |
3 |
2 |
|
|
14 |
7 |
3 |
4 |
10 |
15 |
9 |
3 |
|
|
16 |
10 |
2 |
|
|
17 |
|
19 |
6 |
16 |
Tot. |
107 |
62 |
21 |
60 |
|
169 |
|
|
* - Nel caso degli MDG, gli Obiettivi 1, 2 e 8 sono in
realtŕ tutti accorpati nell’Obiettivo 1, mentre i target associati
all’Obiettivo 3 sono suddivisi in tre Obiettivi separati (ob. 4 sulla mortalitŕ
infantile, ob. 5 sulla salute materna e ob. 6 su AIDS; malaria ed altre
malattie).
Rispetto al quadro degli MDG, negli SDG i target sono molto
piů numerosi e si tratta di un numero molto alto anche in termini assoluti, il
che renderŕ inevitabilmente piů complicato il monitoraggio futuro e meno
immediata e comunicabile al pubblico la restituzione dei risultati; ma
soprattutto si dovrŕ fare i conti con la difficoltŕ di rilevazione e
affidabilitŕ delle informazioni disponibili in molti paesi.
In concreto, ciň porrŕ dei problemi nel corso del 2016,
quando si tratterŕ di mettere a punto e verificare il lavoro operativo sul
fronte degli indicatori da monitorare: nel caso degli MDG, gli indicatori
utilizzati sono passati da 48 (nel 2000) a 60 (nel 2006), cioč oltre tre volte
il numero dei target, il cui stato di avanzamento si misura proprio attraverso
uno o piů indicatori. I 60 indicatori relativi agli MDG hanno evidenziato negli
anni gravi problemi di disponibilitŕ e affidabilitŕ dei dati in molti PVS; ed č
lecito a maggior ragione attendersi simili difficoltŕ nel caso dei piů numerosi
e dettagliati indicatori relativi ai 169 target degli SDG, a meno di un
investimento massiccio proprio sul fronte della cosiddetta “rivoluzione dei
dati”, che deve significare anche e soprattutto il rafforzamento delle capacitŕ
nazionali di raccogliere sistematicamente informazioni statistiche. Se si
dovesse mantenere la stressa proporzione tra target e indicatori registrata
negli MDG (1:3), per l’agenda degli SDG ciň vorrebbe dire monitorare lo stato
di avanzamento di oltre 500 indicatori, un numero davvero elevato e poco
gestibile. Soprattutto, č difficile immaginare che si possa disporre di una
batteria di indicatori cosě numerosa e identica in tutti i paesi: l’idea di
fondo che l’agenda degli SDG sia universale - cioč interessi indistintamente
tutti i paesi del mondo, al Sud come al Nord - ma al contempo debba essere
adattata alle specificitŕ del contesto nazionale, non puň prescindere
dall’adozione di indicatori standardizzati. Per questa ragione, la definizione
del minimo comune denominatore rappresentato da un numero limitato di
indicatori comuni a tutti i paesi sarŕ la principale sfida per la messa in
opera dell’agenda post-2015.
Infine, sempre confrontando l’agenda MDG e quella SDG, č
evidente come - oltre al passaggio da una visione unidimensionale (sviluppo
sociale) a una tridimensionale (sviluppo sociale, economico e ambientale) e ad
un raccordo tra tre ambiti solitamente distinti come ambito di lavoro (i
contenuti dello sviluppo, i MoI e l’agenda ambientale e dei cambiamenti
climatici: tre ambiti istituzionali chiamati a raccordarsi nel 2015 con gli
eventi rispettivamente di Addis Abeba, New York e Parigi) - ci sia l’emergere
oggettivo di temi nuovi nell’agenda. A livello di Obiettivi, ci sono due
Obiettivi indipendenti e che qualificano trasversalmente il modello di
sviluppo: si tratta della disuguaglianza (ob. 10: Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi) e il
modello di produzione e consumo (ob. 12: Garantire
modelli di produzione e consumo sostenibili), legato anche al sistema
energetico da promuovere, basato sulle fonti rinnovabili (ob. 7: Assicurare a tutti accesso a un’energia
moderna, sostenibile e a prezzi equi). Obiettivi indipendenti e trasversali
in grado di imprimere, se fossero presi alla lettera, una svolta profonda al
paradigma del modello di sviluppo, in termini di una reale trasformazione di
sistema. A livello di target, invece, si affermano molti temi, tra cui vale la
pena di menzionare quello delle migrazioni, altro nodo di particolare interesse
per l’Italia: si tratta di un termine che appare ben 15 volte nel testo, con
riferimento alle fasce vulnerabili delle persone che devono essere empowered, ma anche in relazione al
ruolo di protagonisti dello sviluppo che i migranti svolgono e possono svolgere
in futuro (in particolare il paragrafo 29 del testo č molto netto in
proposito). In termini di target, sono menzionati con riferimento all’Obiettivo
8 relativo all’occupazione (target 8.8), all’Obiettivo 10 relativo alle
disuguaglianze (target 10.7 e 10.c) e all’Obiettivo 17 relativo ai MoI (target
17.18).
Il testo approvato il 2 agosto č stato reso pubblico il 12
agosto. Nelle settimane successive sono arrivati i primi commenti. I principali
mezzi di informazione, in realtŕ, non hanno dato risalto immediato al
documento, probabilmente per il concorso di ferragosto e di un contenuto che in
sostanza riprende pedissequamente la lista degli SDG proposti dal documento
dell’OWG.
L’impianto degli SDG era stato in precedenza ampiamente
criticato, anche in modo radicale: ad esempio il settimanale The Economist a fine marzo, palesemente
ancorato ad una visione degli SDG come obiettivi per aiutare i paesi piů poveri,
li aveva definiti un esercizio visionario e destinato a fallire, prolisso e
disordinato; non solo un’opportunitŕ sprecata, ma un vero e proprio tradimento
perpetrato ai danni dei piů poveri, un pasticcio per il numero troppo elevato
di obiettivi e target che finiscono con l’imporre nessuna prioritŕ e che sono
irrealistici per il semplice fatto che richiederebbero finanziamenti
dell’ordine di 2-3 mila miliardi di dollari l’anno (qualcosa come il 15% dei
risparmi mondiali o il 4% del PIL mondiale), cioč un ordine di grandezza decine
di volte superiore a quanto č lecito attendersi. Gli MDG non erano solo pochi e
semplici, ma anche abbastanza vaghi da permettere una declinazione in chiave
nazionale, mentre 169 target sono troppi, confusi e cosě vincolanti da non
adattarsi alle specificitŕ dei diversi contesti; insomma, si tratta di
obiettivi “stupidi”, perché non si focalizzano solo sul goal 1 (che
richiederebbe 65 miliardi di dollari l’anno per essere raggiunto), magari
aggiungendo quelli relativi all’istruzione delle bambine o della salute materna
e infantile (un MDG che non č stato raggiunto affatto), finendo con incorporare
tutto ciň che chiedevano le numerose e disparate lobby presenti a New York[14]. Una
critica che, in modo piů diplomatico, non era stata risparmiata neanche da un
articolo dell’economista Marc F. Bellemare su Foreign Affairs, quando citando il noto saggio di Gilbert Rist, History of Development, ricordava che lo
sviluppo, un tempo considerato un fenomeno complesso ma relativamente coerente,
si stava polverizzando in un pulviscolo di obiettivi i cui collegamenti
reciproci non era piů dato conoscere[15].
In relazione, invece, al documento pubblicato ad agosto, i
commenti sono stati anzitutto quelli ufficiali. Ban Ki-moon lo ha salutato
definendolo “l’Agenda di tutti, un piano
d’azione per eliminare la povertŕ in tutte le sue dimensioni, irreversibilmente,
dovunque, senza lasciare nessuno indietro. Un’agenda che si propone di
assicurare la pace e la prosperitŕ, di consolidare un partenariato che metta le
persone e il pianeta al centro. I 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile sono integrati,
interconnessi e indivisibili, sono gli obiettivi di tutti e dimostrano la grandezza,
l’universalitŕ e l’ambizione di questa nuova Agenda.”
Non sono mancate altre letture positive seguite
all’accordo. In particolare, vengono evidenziati alcuni punti di forza fra cui,
in primo luogo, oltre all’ampiezza del meccanismo di consultazione adottato, il
rapporto con l’esperienza degli MDG e il carattere universalistico dell’impegno
cui la comunitŕ internazionale č chiamata a partecipare.
La generale valutazione positiva dello strumento degli MDG
mette in risalto la loro funzione di punto di riferimento per le politiche e i
programmi di lotta alla povertŕ di governi e istituzioni internazionali, nonché
per il loro monitoraggio da parte della societŕ civile. La scadenza
quindicennale ha rappresentato un’occasione per fondare una nuova fase di
impegno su alcuni degli elementi positivi dell’esperienza partita nel 2000, e
fra tutti la strutturazione in obiettivi precisi e definiti, che dovranno
essere dotati di indicatori per la misurazione degli impegni, dei progressi e
dei risultati. Allo stesso tempo, si č detto e scritto, il rinnovo
dell’iniziativa da parte della comunitŕ internazionale puň permettere di
affrontare oggi alcune delle debolezze affiorate nel corso degli ultimi anni.
In primo luogo, il dibattito preparatorio ha evidenziato
una generale volontŕ di espandere il profilo dell’agenda, superando la piů
volte richiamata eccessiva ristrettezza tematica degli MDG che mancavano di un
chiaro riferimento alle cause della povertŕ e alla natura multidimensionale
dello sviluppo. Ulteriori lacune, strettamente legate alle criticitŕ appena
citate, sono la marginalitŕ riservata alla questione della disuguaglianza di
genere, l’assenza di obiettivi riguardanti i diritti umani e la poca chiarezza
in materia di sviluppo economico, punti che insieme a molti altri hanno trovato
spazio nella molto piů ampia articolazione raggiunta con l’Agenda post-2015.
Altro tema di discussione č il tipo di coinvolgimento da
parte dei paesi membri. Sebbene gli MDG fossero validi in linea di principio
per tutti i paesi firmatari, erano normalmente trattati quali obiettivi da
raggiungere da parte dei PVS attraverso il finanziamento dei donatori. Gli SDG,
al contrario, grazie soprattutto alla forte espansione tematica e alla
centralitŕ della questione della sostenibilitŕ globale dello sviluppo,
coinvolgono in maniera paritaria e interdipendente l’intera comunitŕ
internazionale, mutando, almeno nelle intenzioni, il profilo dell’azione
internazionale per lo sviluppo che per oltre mezzo secolo ha seguito la logica
donatore-beneficiario, in modo da riflettere i nuovi equilibri mondiali.
Sempre in questa prospettiva, il partenariato globale
rilanciato dal processo post-2015 pone le basi per una integrazione effettiva
del concetto di interdipendenza nelle pratiche di cooperazione internazionale.
Allo stesso modo, il profilo multi-stakeholder
che ha improntato la fase preparatoria richiama la volontŕ di individuare
modalitŕ efficaci di mobilitare i diversi segmenti della societŕ internazionale
sugli obiettivi comuni, a cominciare dalla necessitŕ di un coinvolgimento
maggiore e diretto del settore privato nelle sfide dello sviluppo.
Un ulteriore elemento di forza degli SDG che viene
approfondito riguarda il monitoraggio del processo di realizzazione
dell’Agenda. Il riconoscimento della necessitŕ di elevare la qualitŕ del reporting č testimoniato dalla presenza
di una parte consistente del testo di accordo che tratta precisamente
dell’architettura della funzione di follow-up
and review.
Per quanto riguarda la struttura degli Obiettivi, l’allargamento
dell’orizzonte tematico soddisfa – secondo le dichiarazioni ufficiali di
governi e organizzazioni delle Nazioni Unite - molte delle specifiche esigenze
emerse durante la fase preparatoria, avendo fra i risultati anche l’inclusione
di molti elementi della riflessione sugli ostacoli allo sviluppo, fra cui la
disuguaglianza, i modelli insostenibili di produzione e consumo,
l’inadeguatezza delle infrastrutture e della circolazione dell’innovazione
tecnologica e la carenza di opportunitŕ di impiego pieno a condizioni dignitose.
La dimensione ambientale assume un ruolo decisivo grazie alla presenza, tra
l’altro, di specifici Obiettivi su cambiamento climatico, risorse oceaniche e
marine, ecosistemi e biodiversitŕ.
L’accoglienza al testo da parte degli stati membri riflette
le posizioni che sono andate via via delineandosi nel corso del negoziato (vedi
tabella in Appendice). Molte delle dichiarazioni (fra cui, nello specifico,
quelle di Stati Uniti, India e Svizzera) hanno sottolineato la grande rilevanza
del processo e dell’accordo raggiunto che rilancia l’azione multilaterale.
Uno dei gruppi piů importanti al tavolo č stato quello dei
cosiddetti G77[16] + Cina,
che č stato rappresentato nell’incontro finale dal Sudafrica. Nella
dichiarazione a commento del testo approvato, il delegato sudafricano ha
sottolineato l’importanza del riconoscimento dello sradicamento della povertŕ
in tutte le sue forme quale maggiore sfida e principale presupposto per lo
sviluppo sostenibile, concetto che č stato successivamente ribadito anche dal
rappresentante indiano.
A nome dei 48 paesi meno avanzati (the Least developed countries, LDC), il Benin ha espresso grande
soddisfazione per l’esito del negoziato auspicando il mantenimento della forma
definitiva del documento, mentre le Maldive, in rappresentanza di 39 paesi
insulari (Alliance of Small Island States,
AOSIS), ha subordinato l’approvazione ad un accordo su alcune modifiche al
testo relativo all’Obiettivo 13 sui cambiamenti climatici.
Dai paesi africani - sia come gruppo regionale sia a
livello di alcuni stati, come nel caso della Nigeria - sono venuti
apprezzamenti per il valore conferito all’ownership,
alle prioritŕ, alla legislazione e al contesto culturale nazionali. Dalla
Nigeria, affiancata dall’Iran, sono venute tuttavia anche puntualizzazioni
sull’importanza dell’attenzione ai valori religiosi nazionali e sui limiti del
mandato nell’Agenda relativo a orientamento sessuale, identitŕ di genere e
diritto all’aborto (l’ambito dei diritti umani, quello dei Sexual and reproductive health and rights o SRHR, su cui si sono
registrate maggiori contrapposizioni e resistenze in seno ai processi
negoziali).
Anche dall’America latina sono giunte note di apprezzamento,
in particolare da Messico e Colombia, che apprezzano il cambiamento di
paradigma dello sviluppo che si sposta dalla crescita delle imprese al benessere
sostenibile di tutti gli individui. Considerazioni puntuali sull’impegno a
fornire le risorse finanziarie necessarie all’azione sono state proposte
dall’UE, che ha raccolto numerose manifestazioni di consenso dalla platea in
diversi passaggi, fra cui la riaffermazione della volontŕ di fornire un
contributo rilevante. Il rappresentante indiano ha sottolineato la
soddisfazione per la riaffermazione delle Responsabilitŕ Comuni ma
Differenziate e il mantenimento dell’intero impianto di SDG sviluppato dall’OWG
nel 2014.
Nelle dichiarazioni sembra essere, quindi, superata la
posizione espressa soprattutto dal Regno Unito negli interventi del primo
ministro Cameron[17], circa
l’opportunitŕ di snellire il numero di Obiettivi per rendere l’intero impianto
piů incisivo dal punto di vista comunicativo.
Anche la societŕ civile internazionale sembra aver accolto
positivamente l’accordo. Nelle parole di Leo Williams, coordinatore della
Campagna Beyond 2015, l’investimento
notevole di risorse da parte della comunitŕ internazionale guidata dalle
strutture messe in campo dalle Nazioni Unite ha dato frutti importanti[18]. Viene
in questo caso salutato con favore l’elevato livello di ambizione e il chiaro
impegno verso l’approccio universalistico e integrato, i passi avanti per
realizzare inclusione e partecipazione senza esclusione alcuna anche nelle fasi
di realizzazione e follow-up, e il
deciso focus sul tema dell’uguaglianza di genere.
Anche l’accento sui temi ambientali presente nella
Dichiarazione č considerato un elemento positivo e viene accolto favorevolmente
il riferimento all’aumento della temperatura media globale di 2/1,5 °C quale
ostacolo allo sviluppo sostenibile nel paragrafo 31. La Campagna Beyond 2015 auspica, perň, l’inserimento
anche i riferimenti alla non discriminazione e alla necessitŕ di promuovere
politiche indirizzate alla redistribuzione. Si pone, inoltre, la scottante
questione della concretizzazione degli impegni, iniziando dalla richiesta
rivolta ai governi di fornire risposte a livello nazionale non oltre il 2018,
fissando baseline e benchmark per ognuno dei target. Gli stessi governi sono
incoraggiati a programmare valutazioni regolari dei progressi con cadenza
almeno quadriennale, includendo l’importante livello subnazionale nella
rilevazione e analisi dei dati.
Le dichiarazioni a caldo da parte di altri esponenti delle
maggiori organizzazioni della societŕ civile sono notevolmente allineate sui
principali punti menzionati[19]. Jens
Martens, direttore del Global Policy
Forum di Bonn, esprime soddisfazione con toni simili a quelli usati da Beyond 2015 per un’agenda ambiziosa, che
affronta le crescenti disuguaglianze fra paesi e comunitŕ e si propone di
eliminare la povertŕ in tutte le sue forme. Meno entusiasmo viene riservato
alla parte del testo finale che tratta dei MoI. Secondo la sua lettura, che
trova riscontro in altre dichiarazioni di esponenti della societŕ civile
internazionale, la realizzazione degli SDG avrŕ bisogno di cambiamenti
sostanziali che interessino le politiche fiscali e la governance finanziaria globale.
Parole simili sono contenute nel corposo European Development Report pubblicato a
maggio da alcuni think tank europei – l’inglese ODI (Overseas Development Institute), l’olandese ECDPM (European Centre for Development Policy
Management), il tedesco GDI (German
Development Institute), l’Universitŕ di Atene e il Southern Voice Network.
Il rapporto dichiarava esplicitamente che gli SDG richiederanno un incremento
significativo di risorse finanziarie, ben al di lŕ dell’Aiuto pubblico allo
sviluppo, e tali risorse aggiuntive a loro volta richiederanno quadri
istituzionali e di politiche ben diversi dal passato a livello locale,
nazionale e globale. Si sottolinea, perciň, il nesso che associa gli SDG ad una
diversa finanza e questa a nuove ed efficaci politiche, tre componenti che
insieme possono concorrere a realizzare un’agenda realmente universale e di
trasformazione profonda[20].
Bhumika Muchhala, del Third
World Network, definisce il testo, invece, vago e nota come non siano
presenti accenni a impegni precisi in termini di risorse aggiuntive
internazionali, mentre sembra si faccia molto affidamento sull’apporto del
settore privato e sulla mobilitazione delle risorse interne ai PVS. Anche
rispetto al preconizzato partenariato multi-stakeholder,
Muchhala sottolinea l’assenza di questioni quali quelle della trasparenza e
dell’accountability o delle
valutazioni e monitoraggi da parte di terze parti indipendenti.
Anche i numerosi passi avanti sui temi della disparitŕ di
genere hanno riscosso consensi da parte della societŕ civile. La International Women’s Health Coalition considera
la bozza un rilevante segnale dell’intenzione di operare un significativo
cambiamento e riafferma la necessitŕ di mantenere alta l’attenzione perché i
governi nazionali lavorino per mantenere gli impegni. Deon Nel, direttore
esecutivo per la Conservation del WWF,
ha usato parole del genere, esprimendo soddisfazione per la svolta
ambientalista che stabilisce un percorso comune per persone, pianeta e
prosperitŕ e sposta l’attenzione sul piano nazionale per il raggiungimento di
risultati concreti.
La concretizzazione degli impegni indicati dagli SDG poggia,
in primo luogo, sulla capacitŕ dei paesi e della comunitŕ internazionale di
attuare quella che viene giudicata la piů grande mobilitazione di risorse per
lo sviluppo. Due mesi prima del summit di New York, e in relazione diretta con
l’agenda degli SDG, si č tenuta ad Addis Abeba dal 13 al 16 luglio 2015 la
Terza Conferenza delle Nazioni Unite sulla Finanza per lo Sviluppo, che ha
affrontato il tema specifico e approvato la
Addis Ababa Action Agenda (AAAA), con risultati giudicati perň
insufficienti da molti stakeholder.
Il Segretario Generale Ban Ki-moon ha detto di considerare
l’Agenda di Addis Abeba un importante “passo avanti” per costruire un mondo di
prosperitŕ e dignitŕ per tutti: parole che sono state da molti interpretate
come il riconoscimento della necessitŕ di fare ulteriori progressi sulle
questioni rimaste irrisolte.Allo stesso modo, la sua Consulente Speciale per il
processo post 2015, Amina J. Mohammed, riconoscendo la delusione suscitata dal
documento finale, ha chiesto alla societŕ civile di mantenere la speranza
perché convinta che le strade su tutti i temi di interesse siano comunque state
aperte[21].
L’Action Agenda č un documento di 31 pagine articolato in
134 punti suddivisi in due parti principali. La prima parte stabilisce il
quadro globale per il finanziamento dello sviluppo post-2015, mentre la seconda
parte č dedicata alle Aree di Azione che comprendono le risorse pubbliche
nazionali, le imprese e il settore privato finanziario nazionale e
internazionale, la cooperazione internazionale allo sviluppo, il commercio
internazionale come motore dello sviluppo, la sostenibilitŕ del debito, le
questioni sistemiche, l’innovazione scientifica e tecnologica e del capacity building, la raccolta e il
monitoraggio dei dati e il follow-up.
L’accordo definisce il fabbisogno finanziario per
raggiungere gli Obiettivi della nuova agenda quantificandolo nell’ordine di
alcune migliaia di miliardi di dollari l’anno e indica la possibilitŕ concreta
di raggiungere tale somma in ragione del risparmio pubblico e privato, a
condizione che “le risorse finanziarie
siano investite e allineate conformemente alle aree prioritarie definite
dall’Agenda di sviluppo”. A questo scopo, l’Action Agenda predispone:
1. una cornice globale per il finanziamento dello sviluppo
sostenibile, che allinea tutti i flussi di risorse e le politiche, pubbliche e
private, nazionali e internazionali, con le prioritŕ economiche, sociali e
ambientali;
2. un set di politiche per gli stati membri, con un pacchetto
di oltre cento misure concrete per attingere alle possibili fonti di risorse
finanziarie, tecnologiche, per l’innovazione, il commercio e la rilevazione di
dati per sostenere la mobilitazione dei mezzi per una trasformazione globale
verso lo sviluppo sostenibile[22].
L’accordo indica gli impegni, gli strumenti e gli obiettivi
che incoraggiano i paesi a definire i propri target e le scadenze nazionali per accrescere le entrate,
utilizzare il sostegno internazionale, rafforzare la cooperazione fiscale
internazionale e la lotta ai flussi illeciti e velocizzare il rientro dei
capitali.
Inoltre, il testo impegna alla trasparenza e all’attenzione
alle questioni di genere nei bilanci e negli acquisti della Pubblica
Amministrazione (il cosiddetto public
procurement), all’uso razionale dei sussidi per i combustibili fossili e invita
le banche nazionali di sviluppo a intraprendere gli investimenti necessari per
lo sviluppo sostenibile.
Relativamente al settore privato, l’AAAA incoraggia un
modello di business che tenga conto degli impatti sociali, ambientali e sulla governance, che integri funzioni di reporting e favorisca l’impact investing[23]. I
partecipanti sono impegnati a sostenere lo sviluppo dei mercati locali di
capitali, a ridurre i costi dei trasferimenti di rimesse sotto il 3% e ad
assicurare che entro il 2030 non esistano corridoi di trasferimento con costi
superiori al 5%. Si sono inoltre impegnati a favorire l’inclusione finanziaria
come obiettivo di policy nella
legislazione, a sviluppare i quadri regolamentari per allineare gli incentivi
al settore privato con gli obiettivi pubblici. Le fondazioni private sono
incoraggiate a utilizzare attivamente i propri fondi per investimenti nello
sviluppo sostenibile.
Fra le principali nuove iniziative l’accordo prevede il Technology Facilitation Mechanism (di
cui si č giŕ detto) per incrementare la collaborazione fra
governi, comunitŕ scientifica, imprese e societŕ civile, un Global Infrastructure Forum per
identificare e affrontare le sfide del gap infrastrutturale ed evidenziare le
opportunitŕ di investimento e cooperazione, per assicurare che i progetti siano
sostenibili dal punto di vista economico, sociale e ambientale.
I paesi partecipanti hanno, inoltre, adottato un nuovo social compact in favore dei poveri e
dei gruppi vulnerabili che prevede la realizzazione di sistemi di protezione
sociale; hanno stabilito di considerare l’adozione di misure fiscali per
scoraggiare il consumo di sostanze nocive, fra cui in primo luogo il tabacco,
di promuovere l’accesso al credito per le piccole imprese, di sviluppare e
rendere operativa una strategia globale per l’occupazione giovanile, di
implementare l’International Labour
Organization Global Jobs Pact entro il 2020.
L’accordo rinnova l’impegno dei paesi sviluppati a destinare
lo 0.7% del Reddito nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo e una
quota fra lo 0,15% e lo 0,20% ai Paesi meno avanzati (PMA). Gli stessi paesi
hanno anche stabilito di rafforzare le misure per promuovere gli investimenti
nei paesi meno avanzati e di rendere operativa entro il 2017 la Technology Bank per i PMA. Per quanto
riguarda il cambiamento climatico, l’Action
Agenda chiama i paesi sviluppati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno
entro il 2020 da diverse fonti per affrontare i bisogni di risorse dei PVS.
Sul tema della cooperazione fiscale, l’AAAA prevede un
maggiore supporto all’UN Committee of
Experts on International Cooperation in Tax Matters per migliorarne la
capacitŕ operativa e l’efficacia; e verrŕ aumentato l’impegno dell’Economic and Social Council (ECOSOC)
attraverso gli Special Meeting on
International Cooperation on Tax Matters.
Come giŕ accennato, l’accordo č stato giudicato deludente
da molti stakeholder fra cui numerose
organizzazioni della societŕ civile. Nelle reazioni immediate, alcune ONG
internazionali hanno riconosciuto che l’AAAA rappresenta comunque un passo
avanti, mentre altre organizzazioni hanno criticato aspramente il documento
stigmatizzando la vaghezza di alcuni impegni e valutando negativamente alcuni
punti importanti[24].La
presenza nel testo di molti “incoraggiamenti” a realizzare le azioni viene
interpretata come mancanza di vera volontŕ di impegnarsi per il cambiamento,
evitando un intervento concreto e vincolante su tante questioni scottanti[25]. L’Addis Ababa CSO FfD Forum considera il
documento quasi completamente privo di actionable
deliverables e ritiene che mini gli accordi sottoscritti con il Monterrey Consensus e la Doha Declaration in occasione delle due
precedenti conferenze sul tema[26].
Il tema probabilmente piů scottante rimane quello della
cooperazione internazionale in materia fiscale e di contrasto ai flussi
illeciti di capitale. Il risultato finale č giudicato molto negativamente dalla
societŕ civile che ha piů volte accusato alcuni paesi avanzati, fra cui Stati
Uniti, Regno Unito e Giappone, di ostacolare la svolta necessaria in questo
campo, identificata nell’istituzione di un’agenzia internazionale dedicata[27]. L’idea
dell’istituzione di un nuovo organismo č stata fortemente perorata soprattutto
dalla societŕ civile e dai PVS, in primis il G77; si puntava a un’agenzia
intergovernativa, trasparente e sufficientemente dotata di risorse, sotto
l’egida delle Nazioni Unite e partecipata da tutti gli stati membri per guidare
le decisioni in tema di cooperazione fiscale internazionale. Alcuni paesi
avanzati, come ad esempio la Svezia e i Paesi Bassi[28], hanno
appoggiato la posizione favorevole alla riforma dei meccanismi attualmente
attivi, senza tuttavia arrivare ad avallare la richiesta di una nuova agenzia.
I fautori della proposta ricordano soprattutto le stime
sull’ammontare di risorse sottratte ai bilanci pubblici dei PVS, che sono
quantificate nell’ordine di mille miliardi di dollari l’anno, molto di piů di
quanto ricevano in aiuto pubblico. Il fatto che attualmente gli standard
inerenti la cooperazione internazionale sui temi fiscali siano stabiliti in
consessi - come l’OCSE - che escludono la gran parte dei paesi č ritenuto uno
degli ostacoli principali alla soluzione dei problemi dell’elusione fiscale
internazionale e del traffico illegale di capitali. A definire il quadro
complessivo di sistema, occorre aggiungere le valutazioni sulla portata degli
scambi intra-impresa che coinvolgono le aziende multinazionali e che si stima
coprano piů della metŕ dell’intero commercio globale[29].
Sul tappeto ci sono questioni fondamentali per la
mobilitazione delle risorse interne, su cui la stessa AAAA fa affidamento per
colmare il gap di fondi necessari a finanziare l’Agenda post-2015. Fra queste,
la possibilitŕ di obbligare le aziende multinazionali a dichiarare
pubblicamente l’ammontare e la destinazione delle tasse effettivamente pagate,
nonché la fissazione di regole per definire dove le stesse multinazionali siano
tenute a versare le imposte. Il regime attuale prevede sostanzialmente che ciň
accada nel paese dove ha sede il quartier generale dell’impresa, mentre i PVS
sono favorevoli a spostare il luogo di tassazione nei paesi dove si svolgono la
maggior parte delle attivitŕ.
Il fatto che la questione non venga affrontata in modo
decisivo viene considerato dai responsabili delle maggiori campagne sul tema
un’aperta violazione degli impegni presi a Monterrey, che stabilivano il
principio della ricerca della good governance
a tutti i livelli. Viene anche fatto notare come l’AAAA insista sulla necessitŕ
di modernizzare i sistemi fiscali nei PVS per la mobilitazione del risparmio
interno, con interventi nel campo della formalizzazione e dell’uscita
dall’illegalitŕ dei milioni di piccole e micro imprese che sostengono
l’economia sommersa delle fasce piů povere, senza perň una valutazione seria
della portata effettiva dei flussi finanziari ricavabili da questo tipo di
iniziative e della sproporzione rispetto alle somme che vengono sottratte a
molti paesi per effetto delle attuali regole che permettono l’elusione fiscale
e il traffico illegale di capitali verso i paradisi fiscali[30].
Un altro tema molto controverso rimane quello della
partecipazione dei privati, su cui si concentrano posizioni molto critiche[31] che
giudicano l’accordo incapace di assicurare l’accountability del settore privato sulla base degli accordi
internazionali sui diritti umani, sui diritti dei lavoratori e sugli standard
ambientali, anche in ragione dell’eliminazione della parte di bozza di accordo
che richiedeva alle imprese di garantire la trasparenza del proprio operato di
fronte all’autoritŕ pubblica e alle popolazioni. Il tema specifico delle Public Private Partnership(PPP) ha
sollevato il dibattito anche all’interno della societŕ civile[32].
Inoltre, rimane aperta la polemica sull’opportunitŕ di
aprire alle imprese anche multinazionali quali protagonisti dello sviluppo,
nella speranza di ottenere risposte positive agli “incoraggiamenti” perché le
allocazioni di investimenti si indirizzino verso progetti sostenibili. Le voci
critiche sottolineano come la l’AAAA chieda ai governi di allineare gli
incentivi alle imprese agli obiettivi di sostenibilitŕ, mentre tralasci la
necessitŕ di introdurre anche vincoli normativi alle imprese per orientarne
l’azione verso l’inclusione sociale, il rispetto dei diritti umani e delle risorse
ambientali. Anche la richiesta di maggiore trasparenza per le fondazioni
filantropiche č guardata con favore, ma viene notato come quelle fondazioni
siano spesso alimentate da imprese che fanno largo uso di sistemi di elusione
fiscale, sottraendo risorse alle finanze pubbliche che potrebbero essere usate
per lo sviluppo sostenibile, spesso in quantitŕ maggiore rispetto a quanto
investito dalle fondazioni.
Le puntualizzazioni negative espresse dalla societŕ civile
hanno toccato anche altri temi rilevanti dell’Agenda. In alcuni casi, la
critica si appunta sull’approccio stesso con cui l’AAAA affronta le singole
questioni. Č il caso, ad esempio, dell’uguaglianza di genere, il cui
inserimento nell’Agenda viene giudicato incapace di arrestare la strumentalizzazione
delle donne, visto che si stabilisce che il riconoscimento dei diritti possa
essere funzionale allo sviluppo, piuttosto che riconoscerne il valore in sé. Ma
la gran parte dei punti critici riguarda la scarsa incisivitŕ del testo su
questioni controverse, dove prevale la necessitŕ di un compromesso con gli
attori che frenano e, di fatto, lavorano per mantenere lo status quo.
Un altro elemento rimasto sul tappeto č quello del rilancio
dell’azione della cooperazione internazionale allo sviluppo, che soffre in
primo luogo della mancata attuazione da parte di donatori degli impegni presi
rispetto all’erogazione dei fondi. A fronte di un’evidente latitanza sulla
questione del raggiungimento della quota di 0,7% del Reddito nazionale lordo da
destinare all’aiuto, viene criticata la scelta di non ribadire in maniera
incisiva questo impegno, spostando tutta l’attenzione e le speranze di
concretizzare l’Agenda sulla mobilitazione di altri flussi come quelli dal
settore privato o quelli del risparmio pubblico e privato nei PVS.
Allo stesso modo, si rimprovera alla Conferenza di Addis
Abeba di non aver affrontato in maniera incisiva il tema della coerenza dei
regimi internazionali relativi al commercio con gli Obiettivi di sviluppo
sostenibile post-2015. Fra gli argomenti assenti nella AAAA e sollevati dalle
voci piů critiche: la necessitŕ di sottoporre gli accordi commerciali a
valutazioni di sostenibilitŕ e di rispetto dei diritti umani, di operare per
ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime e di eliminare le
clausole per la composizione dei contenziosi fra imprese internazionali e
governi, di rendere i regimi commerciali coerenti con la volontŕ piů volte
espressa di favorire modelli di industrializzazione inclusivi e basati sullo
sviluppo della piccola impresa.
In altri casi si propone di approfondire alcuni elementi
non sufficientemente sviluppati, come per quanto riguarda le misure di
riduzione del debito sovrano che non dovrebbero solo tener conto, secondo le indicazioni
sviluppate in ambito ONU, del principio di sostenibilitŕ finanziaria, ma essere
anche utilizzate come riconoscimento dell’impegno di un governo per la difesa
dei diritti umani. Nel caso dell’istituzione del Technology Facilitation Mechanism, si ricorda come la tecnologia
non sia neutrale e come nel trasferimento tecnologico sia pertanto importante
considerarne con attenzione il ruolo per sviluppare i potenziali specifici dei
PVS, con la partecipazione fattiva delle comunitŕ locali e di tutti gli attori,
fra cui in primo luogo le donne.
Anche dal punto di vista del richiamo alla trasparenza e
alla accountability nel follow-up dell’AAAA, che pure viene
giudicata positivamente, si nota la carenza di impegni altrettanto concreti per
i governi e gli altri attori che l’Agenda chiama ad essere protagonisti della
mobilitazione di risorse e che non sono sottoposti a nessuna richiesta di
rendere pubbliche e accessibili in tempi certi le informazioni sulla propria
partecipazione al finanziamento dello sviluppo sostenibile.
All'inizio della XVII legislatura č stato
costituito, in seno alla Commissione Affari esteri della Camera, il Comitato
Agenda post-2015, cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato,
presieduto dall'onorevole Maria Edera Spadoni.
Anche sulla base dell'esperienza maturata
dal Comitato per gli Obiettivi del Millennio costituito nella precedente
legislatura, il Comitato ha deciso un programma di lavoro comprendente lo
svolgimento di audizioni di rappresentanti del mondo del volontariato e delle
ONG, per acquisire elementi sul dibattito internazionale riguardante la costruzione
di un'agenda per lo sviluppo per gli anni successivi al 2015 (v. seduta del
23 luglio 2013).
Il lavoro del Comitato č stato inaugurato
dall'audizione del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli
(seduta del 1° agosto 2013)
che ha tra l'altro toccato il tema della riflessione che sta coinvolgendo la
comunitŕ internazionale a proposito della necessitŕ di far convergere i due
filoni che riconducono il tema dello sviluppo, rispettivamente, ai sustainable
development goals (SDGs, proposti nella Conferenza Rio+20) da un lato, e agli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio, dall'altro.
Nella seduta del 13 febbraio 2014)
il Comitato Agenda post-2015 ha esaminato la Relazione annuale al Parlamento
sull'attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo nel 2012 (Doc. LV)
e la Relazione predisposta dal Ministero dell'economia e delle finanze
sull'attivitŕ di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla
partecipazione italiana alle risorse di detti organismi per l'anno 2012
(Doc. LV, n.bis).
Il (17 ottobre 2013) č
stato sentito il Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo presso il
Ministero degli affari esteri, Giampaolo Cantini che ha innanzitutto
ricordato come il tema principale scelto dal Presidente dell'Assemblea generale
dell'Onu per la 68° sessione (inaugurata nel settembre 2013) fosse il
conseguimento degli obiettivi del millennio entro il 2015 e l'avvio del
processo negoziale per la definizione della nuova Agenda per lo sviluppo.
Cantini ha poi riferito del dibatto internazionale sull'Agenda post-2015, nel
quale emergeva l'esigenza di riprendere gli obiettivi attuali, ma anche di dare
un risalto adeguato alle condizioni di pace e sicurezza, ai temi della governance
e del rule of law come componenti fondamentali per le strategie di
sviluppo, nonché ai temi di gender. Riguardo la cooperazione allo sviluppo,
Cantini ha dato conto delle risorse disponibili) e delle numerose grandi
scadenze a livello internazionale nelle quali la cooperazione italiana č
impegnata, tra le quali l'Expo 2015 e la II Conferenza mondiale sulla
nutrizione del prossimo novembre.
Il 17 settembre 2014
il Comitato ha svolto l'audizione del viceministro degli Affari esteri e della
cooperazione internazionale, On. Lapo Pistelli, all'esito dell'approvazione
della nuova normativa sulla cooperazione italiana allo sviluppo,
approvata dal Parlamento con la legge 11 agosto 2014, n. 125: l'audizione del
viceministro Pistelli ha avuto l'obiettivo precipuo di focalizzare l'attenzione
sugli strumenti di attuazione della nuova normativa - si ricorda al proposito
che la precedente legge, la legge 49 del 1987, rimane in vigore fino a una data
collegata alla approvazione del regolamento attuativo della nuova
disciplina. Tre mesi dopo, il 17 dicembre 2014,
il Comitato ha nuovamente ascoltato il Direttore generale per la cooperazione
allo sviluppo del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione
internazionale, Ministro Giampaolo Cantini, anche in questo caso nel quadro
della nuova normativa nazionale incardinata con la citata legge 125 del 2014.
Nella seduta del 17 marzo 2015,
poi, il Comitato permanente ha proceduto all'audizione del funzionario
preposto all'Unitŕ tecnica centrale di supporto alla Direzione generale
cooperazione e sviluppo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione
internazionale, il Ministro plenipotenziario Francesco Paolo Venier, in ordine
alle attivitŕ dell'Unitŕ tecnica suddetta nel piů ampio quadro dell'attuazione
della legge che ha profondamente innovato la disciplina italiana sulla
cooperazione allo sviluppo, vale a dire la legge n. 125 del 2014.
Il Comitato ha inoltre svolto una serie di audizioni
informali. Sono stati finora ascoltati rappresentanti di Action
Aid, di Save the children Italia, della Fondazione Pangea e
dell'Iniziativa Ara Pacis (5 novembre 2013), il Presidente di Green Cross
Italia, Elio Pacilio (14 novembre 2013), il Presidente di Unicef Italia,
Giacomo Guerrera (19 novembre 2013), Padre Zanotelli, direttore di Nigrizia (17
dicembre 2013), il dottor Giovanni Putoto, responsabile per la programmazione
della ONG Medici per l'Africa-CUAMM (6 maggio 2014). Il 16 giugno 2015,
nell'ambito dell'esame dello schema di decreto ministeriale riguardante lo
"Statuto dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo"
(Atto n. 175) si č svolta l'audizione di rappresentanti di associazioni
di coordinamento di organizzazioni non governative operanti nel settore della
cooperazione allo sviluppo
XVII LEGISLATURA
Il 12 maggio 2009 l’Italia ha presentato la propria candidatura
al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio
2017-2018. Le elezioni si terranno nell'autunno 2016. Attualmente sono
candidati, per i due posti a disposizione del nostro gruppo regionale, anche Paesi
Bassi e Svezia. |
1. INCONTRI
In occasione della
quarta Conferenza mondiale dei Presidenti dell'Unione interparlamentare,
svoltasi a presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 31 agosto al 2
settembre 2015, la Presidente Boldrini ha incontrato con il Vice Segretario
generale delle Nazioni Unite Jan Kenneth
Eliasson.
Il 20 novembre 2014, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione in svolgimento
presso la FAO dal 19 al 21 novembre 2014.
Il 17 novembre 2014 la Vice Presidente
della Camera, Marina Sereni, ha incontrato presso la sede delle Nazioni Unite a
New York (a latere della seconda riunione del Comitato preparatorio
della IV Conferenza UIP dei Presidenti di Parlamento, cui ha partecipato in
rappresentanza della Presidente Laura Boldrini) il Sottosegretario Generale per le operazioni di mantenimento della pace,
Hervé Ladsous, e il 18 novembre il
Vice Segretario Generale per i diritti umani, Ivan Simonovic.
L’11 novembre 2014, la Presidente Boldrini ha partecipato con un
proprio intervento alla riunione del Consiglio
di Amministrazione Programma Alimentare Mondiale.
Il 9 ottobre 2014 la Presidente Boldrini č
intervenuta al Convegno "Le crisi a Gaza e in Siria: l'impatto umano. La
prospettiva dell'UNRWA (Agenzia dell'ONU per l'assistenza ai rifugiati
palestinesi) e degli operatori dell'informazione".
Il 29 settembre 2014, la Presidente
Boldrini ha incontrato il Direttore Esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake.
Il 22 settembre 2014, la Presidente Boldrini ha
incontrato il Relatore speciale
delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, sig.ra Sheila B. Keetharuth.
La
Presidente Boldrini, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti d'America dal 20
al 23 maggio 2014, si č recata in visita,
il 22 maggio, presso le Nazioni Unite, dove ha incontrato funzionari italiani consegnando due onorificenze OMRI.
Il 14 novembre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale dell'ONU sulla
violenza sessuale nei conflitti, Zeinab
Hawa Bangura.
Il 24 ottobre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini ha partecipato al Convegno "Un importante attore
per la stabilitŕ della regione", con il
Commissario generale dell'Agenzia ONU per l'assistenza ai rifugiati palestinesi
(UNRWA), Filippo Grandi.
Il 18 settembre 2013, la Presidente della
Camera, Laura Boldrini, ha incontrato la Relatrice speciale delle Nazioni Unite
sulla tratta, Joy Ngozi Ezeilo.
Ban Ki-moon. Il
Segretario generale ha voluto innanzitutto congratularsi con la Presidente
Boldrini, funzionaria di lungo corso delle Nazioni Unite fino alla sua recente
elezione alla Camera dei deputati. Il Segretario generale ha poi sottolineato
il ruolo fondamentale svolto, nei paesi democratici, dalle assemblee
parlamentari, espressione della volontŕ popolare. Tra i temi sollevati da Ban
Ki-moon, lo sviluppo sostenibile, il cambiamento climatico e gli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio. La Presidente Boldrini ed il Segretario generale hanno
poi discusso della crisi in Mali e del conflitto in Siria.
2. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE SESSIONI DELL’ASSEMBLEA
GENERALE DELLE NAZIONI UNITE (UNGA)
L'Assemblea generale delle Nazioni Unite č la principale
sede di decisione e l'organo piů rappresentativo, composto da rappresentanti di
tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale
ordinaria dell'Assemblea inizia il terzo martedě di settembre e prosegue di
regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate, in
qualitŕ di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.
Nelle precedenti legislature, una delegazione
parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si č recata a New
York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana
ministeriale
Nella XVII
legislatura la Camera dei deputati ha partecipato con una propria
delegazione alle seguenti sessioni:
·
69ma
sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 26 settembre 2014): la delegazione
era composta dai deputati Fabrizio
Cicchitto (NCD-UDC) Presidente della Commissione Affari esteri, Alessandro Di Battista (M5S), Vice
Presidente della Commissione Esteri e
Andrea Manciulli (PD) Vice
Presidente della Commissione Esteri e Presidente della Delegazione italiana
all’Assemblea parlamentare della NATO.
·
68ma
sessione dell’Assemblea Generale ONU (New York, 22 – 27 settembre 2013): la delegazione
era composta dai deputati Deborah
Bergamini (PdL) Presidente del Comitato permanente sulla politica estera ed
i rapporti con l’Unione europea, Andrea
Manciulli (PD) Vice Presidente della Commissione Esteri, e Mario Marazziti (SCPI), Presidente del
Comitato permanente per i diritti umani.
3. LA PARTECIPAZIONE PARLAMENTARE ALLE
CONFERENZE IN AMBITO ONU
La partecipazione parlamentare alle principali Conferenze ONU
Sotto l’egida
dell'ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a
migliorare le legislazioni mondiali, tramite l'adozione di Convenzioni, e a
sensibilizzare l'opinione pubblica sulle questioni piů delicate che l'ONU ha in
agenda. La frequenza e l'importanza di tali appuntamenti sono tali da
coinvolgere l'attenzione e le attese, non solo dei Governi di tutto il mondo,
ma anche dei Parlamenti e della
societŕ civile, coinvolta in primo piano tramite le ONG e altre forme di
associazione. In proposito, si segnala il crescente ruolo dell'Unione
Interparlamentare, che si propone come versante parlamentare di tali
iniziative, organizzando e prendendo parte ai forum parlamentari a margine
delle Conferenze. La Camera partecipa
regolarmente alle riunioni annuali della Commissione delle Nazioni Unite
sullo status delle donne (CSW), alle Sessioni
annuali della Conferenza delle Parti (COP) e alle riunioni della Societŕ dell’informazione.
a)
La Commissione sullo status delle donne (CSW)
La Commissione sullo status delle donne (CSW) č stata istituita dal Consiglio
Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC)
con la risoluzione 11 del 21 giugno 1946,
come organismo parallelo alla Commissione sui Diritti Umani. Il compito
principale della Commissione, il cui mandato č stato esteso nel 1987
(risoluzione ECOSOC 1987/22), č quello di elaborare rapporti e fornire
raccomandazioni all’ECOSOC sulla promozione dei diritti delle donne in campo
politico, economico, sociale e dell’istruzione. La Commissione presenta,
inoltre, raccomandazioni e proposte d’azione al Consiglio su problemi urgenti
che richiedono l’immediata attenzione nel settore dei diritti umani.
La
Commissione sullo status delle donne ha ricevuto il compito dall’Assemblea
Generale ONU di integrare nel suo programma il follow-up della Quarta conferenza Mondiale sulle Donne.
A partire dal 1995, quindi, effettua la verifica
della attuazione degli obiettivi fissati nella Conferenza di Pechino; ha
quindi esaminato numerose delle aree critiche contenute nella Piattaforma
stessa, allo scopo di verificare i progressi compiuti e di avanzare le
raccomandazioni necessarie per accelerarne l'attuazione[33].
Ogni anno, i
rappresentanti degli Stati membri si riuniscono per fare il punto sui progressi
riguardanti la paritŕ di genere, per individuare le sfide future, per stabilire
gli standard globali e per formulare politiche concrete di promozione della
paritŕ di genere e dell’avanzamento delle donne in generale.
La Commissione si riunisce annualmente per un
periodo di dieci giorni di lavoro, alla
fine di febbraio – inizio marzo.
Nella XVII
legislatura, la Camera dei deputati ha partecipato alla 58ma Sessione della
Commissione sulla condizione femminile sulla condizione femminile delle Nazioni
Unite (CSW) svoltasi a New York, dal 10
al 14 marzo 2014. La Delegazione era composta dai deputati Valeria Valente (PD), Presidente del
Comitato per le pari opportunitŕ e Pia
Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli obiettivi del
Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione interparlamentare.
Alla 59ma Sessione svoltasi dal 9 al 20 marzo 2015 hanno partecipato le
deputate. Lorena Milanato (FI-PdL),
componente del Comitato per le pari opportunitŕ e Pia Locatelli (Misto, PSI-PLI), componente del Comitato sugli
obiettivi del Millennio, in rappresentanza del Gruppo italiano all'Unione
interparlamentare.
b) La Conferenza delle
Parti (COP) sui cambiamenti climatici
La Convenzione
Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC),
adottata nel 1992 al Vertice di Rio de Janeiro, stabilisce impegni di
stabilizzazione a livelli non pericolosi per gli equilibri climatici della
concentrazione in atmosfera dell'anidride carbonica. Piů recentemente, nel 1997, č stato
approvato un Accordo aggiuntivo importante al Trattato: il Protocollo di Kyoto.
Esso č significativo perché prescrive dei parametri fisici e delle specifiche
procedure per ridurre le emissioni di gas serra, le quali sono giuridicamente
vincolanti per i paesi che hanno proceduto alla sua ratifica. Il Protocollo di Kyoto
stabilisce quindi degli obiettivi di riduzione delle emissioni di sei gas serra
(anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi,
perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).
Annualmente si svolgono Conferenze - dette Conferenze delle Parti (COP)
- alle quali sono invitate a partecipare delegazioni parlamentari, ed in cui i Paesi firmatari del Protocollo
si riuniscono per monitorare
i progressi e valutare il percorso da seguire per l'attuazione
della Convenzione. Il Segretariato dell'UNFCCC supporta tutte le istituzioni
coinvolte nel processo di cambiamento climatico, in particolare il COP, gli
organi sussidiari e i loro Uffici di presidenza. L'Italia ha ratificato il Protocollo
con legge 1° giugno 2002, n. 120. Il Protocollo di Kyoto č entrato in vigore il
16 febbraio 2005.
Nella XVII
legislatura si č tenuta a Varsavia
dal 18 al 23 novembre 2013 la XIX
Sessione della Conferenza delle Parti (COP19)
relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici
(UNFCCC), cui hanno partecipato per la Camera dei deputati, in qualitŕ di
osservatori, il vicepresidente della Commissione Ambiente, Massimo De Rosa
(M5S), e l’onorevole Mariastella Bianchi (PD), componente della medesima
Commissione, mentre per il Senato vi hanno preso parte i senatori Gianpiero
Dalla Zuanna (SCpI) e Carlo Martelli (M5S), componenti della Commissione
Ambiente.
L'ultima Conferenza (COP20)
si č tenuta a Lima, dal
6 al 12 dicembre 2014 e vi hanno preso parte i deputati Mirko Busto (M5S) e Mariastella
Bianchi (PD), entrambi componenti della Commissione Ambiente.
La prossima Conferenza (COP21) avrŕ luogo a Parigi
dal 30 novembre all’11 dicembre 2015.
c) Societŕ
dell’informazione (World Summit on the Information Society – WSIS)
Il Vertice Mondiale sulla societŕ
dell’informazione, organizzato dalle Nazioni Unite fra il 2003 e il 2005 ha
avuto un grande effetto di traino su tutte le iniziative in corso a livello
mondiale mirate a favorire uno sviluppo piů equo ed inclusivo delle tecnologie
informatiche.
La prima
sessione del World Summit si č svolta a Ginevra dal 10 al 12 dicembre
2003, mentre la seconda ha avuto luogo a Tunisi dal 16 al 18 novembre
2005. In ambedue le fasi era presente una delegazione della Camera dei
deputati. L’Unione interparlamentare ha organizzato una riunione-dibattito sui
temi oggetto del Vertice.
A seguito dei Vertici di Ginevra, a Tunisi le
Nazioni Unite si sono fatte promotrici di una iniziativa volta, tra l’altro, a
promuovere una “Carta dei diritti della rete Internet”. Tale iniziativa,
denominata Internet Governance Forum, ha tenuto le seguenti riunioni: la
prima ad Atene (30 ottobre-2 novembre 2006), la seconda a Rio de Janeiro,
in Brasile, dal 12 al 15 novembre 2007 e la terza a Hyderabad, dal 3 al 6 dicembre 2008. La quarta riunione ha avuto
luogo a Sharm El Sheikh, in Egitto,
dal 15 al 18 novembre 2009 e la quinta
a Vilnius, in Lituania, dal 14 al 17 settembre 2010. La sesta
riunione si č tenuta a Nairobi dal 27 al 30 settembre 2011, mentre la settima si č svolta a Baku dal 6 al 9
novembre 2012.
A questi eventi non č stato designato a partecipare
alcun deputato.
Prioritŕ
dell’UE in vista della settantesima
assemblea generale delle nazioni unite
(a cura dell’Ufficio
Rapporti per l’Unione europea della Camera)
Il Consiglio
dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le prioritŕ dell’UE in
vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si
svolgerŕ a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015.
Le
prioritŕ definite del Consiglio sono cosě articolate:
Riesame
delle operazioni di pace delle Nazioni Unite
Le operazioni
di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari,
coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti
umani.
L’UE
considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per
conseguire una stabilitŕ duratura e sostenibile.
Il
riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre piů
importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi
internazionali per la pace e la sicurezza.
Le operazioni
di pace non possono perň sostituirsi ai processi politici. Sono necessari
sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un
conflitto.
L’Ue
considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le
donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i
paesi terzi. Č necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in
tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la
sicurezza.
Non
proliferazione e disarmo
L’UE
ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire
agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare,
costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori.
L’UE
si adopererŕ per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirŕ attivamente al suo
riesame globale, che deve essere completato nel 2016.
L’UE
continuerŕ a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi
nucleari (TNP) e considera una prioritŕ assoluta l’entrata in vigore del trattato
sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).
L’UE
č, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul
commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione
sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine,
intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta
internazionale per le attivitŕ nello spazio extraatmosferico.
Lotta
contro il terrorismo
L’UE
sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione
multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle
Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che
devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela
dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che
favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti
e marginalizzazione sociale, economica e politica.
L’UE
ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma
ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere
condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature
nelle regioni interessate.
Agenda
globale post 2015
L’UE č
fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione
della povertŕ e lo sviluppo sostenibile con societŕ pacifiche e stabili e
includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, paritŕ di
genere e sostenibilitŕ ambientale.
I
risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York
(vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in
evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertŕ
e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici.
L’ UE
ritiene che il principale campo d’azione sarŕ la definizione e l’attuazione di
un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilitŕ e valutazione, che
dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015.
Tra le
tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda
post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere
gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire
la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei
migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una
maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della
politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.
Cambiamenti climatici
L’UE
punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a
tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare
la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente,
che tenga conto delle esigenze dei piů vulnerabili.
L’UE
resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti
per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine
di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi
sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno
di dollari attingendo ad un ampia varietŕ di fonti pubbliche e private,
bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento.
Nel
contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei
e marittimi internazionali.
Diritti
umani e diritto internazionale
L’UE
si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in
tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e
sicurezza.
L’UE
sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si
debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle
relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite. Benché la responsabilitŕ primaria di consegnare gli autori di
reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la
sua giurisdizione qualora le autoritŕ nazionali non siano in grado o non siano
disposte a perseguire veramente i crimini piů gravi motivo di allarme per la
comunitŕ internazionale.
L’UE,
in tale ambito, intende:
· sostenere
la libertŕ di opinione e di espressione online e offline quale diritto
umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace;
· continuare
a propugnare la libertŕ di religione o credo e chiederŕ maggiori sforzi
volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose.
· proseguire
gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di
trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;
· a
promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la
tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione
della pena di morte in tutto il mondo.
· continuare
a promuovere i diritti dei minori;
· continuare
ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale,
xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.
Protezione dello spazio umanitario
L’UE
continuerŕ a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel
coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale
nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario
internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati.
Le
discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del
processo piů ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema
umanitario.
Questioni di genere
L’UE
sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto
di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta
della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD
(Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra
assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste.
L’emancipazione
e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della
discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro
donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.
Ciberspazio
L’Unione
europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale
vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto
internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio
e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e
sicurezza internazionali nel ciberspazio.
In
tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti
online e offline. Č inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio
multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance
di internet. L’Unione europea resterŕ ferma sul principio che a nessuna
singola entitŕ, societŕ, organizzazione o governo si debba consentire il
controllo di internet.
L’Unione
europea riconosce la necessitŕ costante di lavorare attivamente in tale ambito
alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla
riservatezza e alla libertŕ di espressione.
Riforma e maggiore efficienza delle
Nazioni Unite
Sfide
emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro
volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalitŕ
di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e
del personale delle Nazioni Unite continuerŕ ad essere una prioritŕ dell’UE. La
riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma
generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio
dell’attivitŕ dell’Assemblea generale.
Rafforzamento dei partenariati
multilaterali
L’Ue
ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in
particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori
regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale č
il mezzo per sostenere la pace e la prosperitŕ in tutto il mondo e superare i
conflitti tra le nazioni.
L’UE
accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni
Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del
"mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale
di sicurezza.
Occorre
fare piů affidamento su azioni a piů livelli e multiformi in tutte le diverse
fasi dei conflitti e in tutte le fasi č necessaria una cooperazione piů
stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia
le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto.
L’UE
ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza
di una stretta cooperazione trilaterale.
Il DPKO (Department of Peace-keeping Operations) č l’ufficio delle Nazioni Unite, collocato
all’interno del Segretariato Generale, con la funzione di assistere gli Stati
membri dell’ONU e il Segretario generale all’espletamento del compito del
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il DPKO vede al
proprio vertice un Segretario generale aggiunto, sotto le dipendenze dirette
del Segretario generale dell’ONU.
Da tale Segretario
generale aggiunto, capo del Dipartimento, dipendono quattro uffici: per le
operazioni; per gli affari militari; per gli affari giuridici e la sicurezza;
infine la divisione per l’addestramento, la valutazione e la politica.
Il Budget annuale
delle Nazioni Unite prevede una specifica voce di finanziamento dedicata al
DPKO, cui tutti gli Stati membri devono contribuire, o in termini monetari o di
uomini e mezzi.
Il Segretario
generale aggiunto per il DPKO č Hervé
Ladsous, che ha assunto formalmente l’incarico nell’ottobre 2011. Il suo
predecessore era Alain Le Roy.
La missione principale del DPKO consiste
nel pianificare, preparare, gestire e dirigere le operazioni di mantenimento
della pace patrocinate dalle Nazioni Unite, al fine di assicurare l’esercizio
del mandato sotto l’autoritŕ del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea
generale, nonché sotto la direzione generale attribuita al Segretario generale,
come espressamente previsto dalla risoluzione di autorizzazione delle stesse
missioni.
Il DPKO provvede a
fornire le indicazioni di tipo politico
e tecnico per la realizzazione delle missioni di pace delle Nazioni Unite
nonché a mantenere un canale costante di
dialogo con il Consiglio di Sicurezza, con i Paesi membri che forniscono le
truppe e gli equipaggiamenti per le missioni, nonché con le parti del
conflitto, perché questi possano realizzare gli obiettivi per il mantenimento
della pace stabiliti dalla risoluzione di autorizzazione della missione del
Consiglio di Sicurezza.
Il DPKO, quindi,
funge non solo da centro di comando e
controllo delle missioni di pace, ma anche di coordinamento tra i diversi
attori che in esse sono interessati, come organizzazioni
non governative (ONG), autoritŕ
governative e non a livello locale, nonché forze di polizia e militari impegnati sul campo. Al DPKO, inoltre, č
attribuita la responsabilitŕ del coordinamento di tutti gli aspetti concernenti
le missioni di pace ONU, dalle problematiche militari, di polizia, politiche ed
economiche.
___________
Le operazioni di peace-keeping[34] istituite dalle Nazioni Unite sono comunemente
oggetto di sistemazione dottrinaria che le distingue in operazioni di prima,
seconda e terza generazione. Tale distinzione concerne non soltanto il periodo
storico in cui queste sono state istituite, ma anche i compiti cui esse sono
state votate e la natura stessa della missione cui erano chiamate a rispondere.
Appartengono alle
c.d. operazioni di prima generazione
(o di peace-keeping puro) quelle
istituite tra il 1948 e il 1987. Caratteristiche di tali operazioni erano: la
necessitŕ di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizzante
la missione; il consenso dello Stato in cui veniva effettuata l’operazione; il
ricorso all’uso della forza armata da parte del personale militare impiegato
nella missione nel solo caso di legittima difesa, nonché nei soli casi di
conflitti internazionali.
Con la fine della
Guerra fredda, si assiste al sorgere delle operazioni di pace c.d. di seconda
generazione, che si ispirano al documento An
Agenda for Peace[35] pubblicato nel 1992 dall’allora Segretario
generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali. In tale documento strategico,
Boutros-Ghali sottolineava come il numero di missioni istituite tra il 1948 e
il 1987 (13 missioni di peacekeeping)
uguagliava quello delle missioni comprese tra il 1987 e il 1992, evidenziando
la necessitŕ di un ripensamento globale del ruolo delle Nazioni Unite e delle
missioni da esse istituite alla luce del cambiamento dello scenario globale.
Le operazioni di seconda generazione,
definite anche di peacemaking e/o peacebuilding, implicano il maggiore
rilievo attribuito alla ‘componente civile’ delle operazioni, cioč la
collaborazione con le forze appartenenti ad organizzazioni regionali,
l’amministrazione del territorio, il monitoraggio elettorale, l’assistenza
umanitaria, la ricostruzione economica e finanziaria, nonché la protezione dei
diritti umani. Allo scopo di supportare il processo di decisione e il
coordinamento tra civili, militari e forze di polizia attraverso uno scambio di
informazioni a livello strategico č stato istituito nell’aprile 1993 il Situation Centre of the Department of
Peacekeeping Operations, che rappresenta uno strumento di cruciale
importanza per collegare i centri decisionali, in particolare lo staff del
Segretariato con le unitŕ operative sul campo.
Eventi quali il
genocidio in Ruanda nel 1994 e il massacro di Srebrenica nel 1995
spinsero molti tra i paesi membri delle Nazioni Unite a chiedere
all’Organizzazione di rivedere la
propria politica di peacekeeping e
contribuirono al superamento delle operazioni di cosiddetta seconda generazione.
Il terzo punto di svolta č rappresentato
dal c.d. Brahimi Report pubblicato nel 2001, ovvero il documento finale
del Panel on United Nations Peace Operations[36] istituito per volontŕ dell’allora Segretario
generale Kofi Annan, allo scopo di rivedere il sistema di funzionamento e il
quadro giuridico delle missioni di pace ONU.
Le operazioni piů
recenti, quelle che si dicono "di
terza generazione", si
collocano nella categoria del c.d. peace enforcing e peace support operations, categorie ibride rispetto al passato,
la cui base giuridica non trova riferimento nella Carta dell’ONU ma negli
sviluppi del processo di riforma e crescita di questo importante settore delle
attivitŕ dell’ONU.
Il citato Brahimi Report analizzava le diverse
operazioni per la pace poste in essere dalle Nazioni Unite, evidenziando allo
stesso tempo le difficoltŕ che il personale, civile e militare, ha incontrato e
che hanno determinato l’insuccesso delle medesime. I suggerimenti che il Report
forniva erano in particolare due: dare al mandato delle Nazioni Unite maggiore
chiarezza, credibilitŕ e realizzabilitŕ, nonché l’importanza di migliorare la
cooperazione ed il dialogo con i paesi che contribuiscono alle peacekeeping operations attraverso
l’invio di truppe. Altro nodo cruciale č rappresentato dalla c.d. Responsibility to Protect, principio
derivante dalle lessons learned rappresentate
dalle missioni in Rwanda e in Bosnia negli anni Novanta.
Con il documento
conclusivo del World Summit 2005, e
soprattutto con la Risoluzione A/RES/60/1, le Nazioni Unite si sono dotate di un documento
strategico fondato su un approccio multidimensionale alla pace e sicurezza
mondiale, in cui due paragrafi sono dedicati rispettivamente al peacekeeping e al peacebuilding. In esso viene sottolineata l’importanza della
cooperazione civile e militare nei teatri operativi, cosě come l’apporto
fornito, in accordo al Capitolo VIII della Carta, da parte delle organizzazioni
regionali per la sicurezza (soprattutto con riferimento all’Unione Europea e
l’Unione Africana). Per ciň che concerne il peacebuilding,
č di rilievo l’auspicio della creazione di un Fondo dedicato integralmente al peacebuilding, con pianificazione
pluriennale, nonché l’auspicio della creazione di una commissione a
composizione mista dedicata integralmente a tali tipi di operazioni.
Nel corso della
stessa Sessione dell’Assemblea Generale, nell’ambito del World Summit 2005, č
stata istituita una apposita Commissione
per le missioni di peace-building con
la risoluzione 30 Dicembre 2005, A/RES/60/180. Scopo di tale Commissione č quello di proporre strategie integrate post-conflict, sostenere i finanziamenti
per la realizzazione delle missioni, fornire alle missioni stesse una
prospettiva di medio e lungo periodo, nonché sviluppare le c.d. best practices.
La Commissione ha
una composizione mista, presentando al proprio interno 7 membri del Consiglio
di Sicurezza, 7 dell’ECOSOC (Comitato Economico e sociale), rappresentanti di 5
Paesi tra i 10 che piů contribuiscono al budget dell’ONU, dei 5 tra i 10 che
forniscono piů truppe, ed infine 7 membri a rotazione. Alla Commissione viene
attribuito un ruolo di indirizzo strategico, e non operativo, come invece č
quello attribuito al DPKO. L’importanza della Commissione risiede nella redazione
di un Annual Report[37] indirizzato all’Assemblea generale, nel quale
viene fotografato lo status quo delle missioni di peacebuilding in corso, nonché indirizzi strategici per il futuro.
Nel corso del
decennio 2000 - 2010 il processo di riforma e di aggiornamento della struttura
preposta alle operazioni di peacekeeping č continuato. Nel 2009 il Dipartimento
ha pubblicato il documento New Parthership Agenda: Charting a new Horizon for
UN Peacekeeping, nel quale vengono fissati nuovi, aggiornati
termini di impegno delle Nazioni Unite di fronte alle sfide del mondo attuale.
Si tratta, in pratica, di chiarire e razionalizzare i rapporti tra i
protagonisti delle operazioni, l’ONU, gli Stati membri e gli Stati teatro di
intervento; di assicurare un chiaro e definito coordinamento politico ed una
strategia unitaria che rendano attuabili missioni coerenti ed efficaci, di
garantire un rapido dispiegamento delle forze internazionali ed una efficiente
gestione delle crisi. Il documento mira a rinvigorire il dialogo tra gli Stati
membri e altri Partners coinvolti nelle operazioni allo scopo di migliorare
l’efficacia delle operazioni stesse e di far fronte alle necessitŕ che via via
si presentano.
Una fase rilevante
del processo di riforma dell’architettura di peacekeeping si é registrata nel
giugno 2007, quando il Segretario generale, allo scopo di rafforzare la
capacitŕ dell’ONU di gestire e sostenere nuove operazioni ha promosso una
ristrutturazione del Dipartimento[38] sostanzialmente dividendolo in due con la
creazione di un separato Dipartimento per il sostegno logistico (Department of Field Support), sostenendo l’iniziativa di assegnare nuovi compiti al DPKO, incrementando le
risorse finanziarie assegnate ai due Dipartimenti e agli altri uffici del
Segretariato generale coinvolti nelle attivitŕ di peacekeeping e peacebuilding.
Il Department of Field Support
fornisce sostegno alle missioni per la promozione della pace e della sicurezza
relativamente alle aree del finanziamento, della logistica, dell’informazione,
comunicazione e tecnologia, delle risorse umane e dell’amministrazione generale[39].
Le missioni che
vengono istituite in seno alle Nazioni Unite, e di cui risponde il DPKO, devono
conformarsi ad un ventaglio di princěpi,
espressamente richiamati in specifici documenti strategici delle Nazioni Unite,
quali, come detto prima, An Agenda for Peace del 1992, il Final
Report del Panel on United
Nations Peace Operations del 2000, il documento Peace Operations
2010 presentato all’interno del Report dell’Assemblea generale del 24 febbraio 2006 e la New Horizon initiative
for UN Peacekeeping del 2009.
In generale, si
puň affermare che le missioni di pace dell’ONU debbano tendere ad alleviare le
sofferenze umane e soprattutto creare un ambiente favorevole per istituzioni
responsabili, affinché le condizioni di pace e sicurezza siano durature nel
tempo.
Un importante
filone di riforma delle strutture di peacekeeping ha riguardato le norme di
comportamento e la disciplina del personale. A seguito di scandali riguardanti
il comportamento di peacekeepers,
tanto civili quanto militari, il DPKO si č dotato di un Codice di Condotta e
delle c.d. 10 regole del Peacekeeper, cui ciascun individuo impiegato in missioni di
pace sotto l’egida ONU deve attenersi[40].
L’11 settembre
2015 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha presentato il
rapporto "Il futuro delle operazioni di pace delle Nazioni Unite" che
individua tre cambiamenti, definiti "fondamentali"[41], che si richiedono per adattare le operazioni alle
nuove realtŕ. Il primo riguarda la necessitŕ di rendere prioritaria la
prevenzione e la mediazione, in modo da evitare risposte tardive e costose alle
crisi; il secondo cambiamento riguarda la pianificazione e lo svolgimento delle
operazioni, che devono essere piů rapidi, rispondenti alle necessitŕ e
responsabili nei confronti dei paesi e popoli in conflitto; il terzo
cambiamento, infine, consiste nel porre in essere un quadro globale-regionale
per affrontare le sfide attuali alla pace ed alla sicurezza, a partire da una
partnership rafforzata con l’Unione Africana. Il rapporto, che contiene anche
alcune misure per sradicare il fenomeno degli abusi sessuali compiuti dai
caschi blu, fa seguito alle raccomandazioni del High-Level Independent Panel istituito nell’ottobre 2014 allo scopo
di studiare la riforma del sistema del peacekeeping alla luce dell’attuale
diffusione e intensificazione dei conflitti.
Secondo gli ultimi
dati delle Nazioni Unite aggiornati al 30 giugno 2015, le operazioni attualmente in corso e sotto la responsabilitŕ del
DPKO sono 16[42] e coinvolgono[43]:
92.299 unitŕ
militari, compresi gli osservatori;
13.095 personale
di polizia;
5.315 personale civile internazionale;
11.476 personale
civile reclutato localmente;
1.760 volontari delle Nazioni Unite.
Primo contributore
di Caschi Blu tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia partecipa attualmente a
due missioni di pace ONU: con circa 1.100 unitŕ alla missione UNIFIL in Libano
(il cui comandante č, dal luglio 2014, il Generale Luciano Portolano) e con 2
unitŕ alla missione Mali-MINUSMA.
Organigramma del Dipartimento[44]
Il conflitto siriano, che giŕ si presentava
dopo il primo anno come una situazione di stallo suscettibile di condurre alla
distruzione del tessuto economico, sociale e civile del paese, č stato lo
scenario principale per l’avvio di una serie di proposte di riforma del funzionamento Consiglio di sicurezza
dell’ONU - stante il pluriennale ristagno delle proposte di modifica dei
meccanismi di funzionamento del CdS tramite emendamento della Carta delle
Nazioni Unite.
Alla fine di marzo 2012, infatti, per
iniziativa della Svizzera, insieme
ad altri quattro Stati del cosiddetto gruppo Small Five (Costa Rica,
Giordania, Liechtenstein e Singapore), veniva presentato all’Assemblea generale
delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione con una serie di proposte, la
piů rilevante delle quali appariva l’autolimitazione, da parte dei cinque membri
permanenti, della prerogativa del
diritto di veto quando il Consiglio sia chiamato a discutere di questioni che
coinvolgono la piů generale responsabilitŕ di protezione dei civili nei
conflitti armati – emersa come preciso dovere della Comunitŕ internazionale
dai lavori del World Summit ONU del 2005 -, e segnatamente in relazione a
situazioni che presentino chiari profili di crimini contro l’umanitŕ e atrocitŕ
di massa, come anche azioni di carattere genocidario. In sostanza nella
proposta di Small Five si configurava
la necessitŕ, da parte dei Big Five,
di astenersi dal ricorso al diritto di veto per bloccare decisioni del
Consiglio chiaramente volte a prevenire o porre fine a quel tipo di situazioni.
Didier Burkhalter, tuttora ministro
degli esteri del Governo federale elvetico, riconosceva implicitamente il
legame delle proposte formulate da Berna con il conflitto siriano in corso
Anche se in via indiretta, la proposta del
gruppo Small Five era corroborata il
3 agosto 2012, quando l’Assemblea
generale dell’ONU stigmatizzava la paralisi del Consiglio di sicurezza,
rivelatosi incapace di ogni azione decisa per porre un argine al dilagare
sempre piů grave dei combattimenti in territorio siriano: la risoluzione era
approvata da un’ampia maggioranza di 133 paesi, e gli schieramenti
internazionali mostravano un forte isolamento della Russia della Cina,
tradizionalmente contrarie ad ogni intervento della Comunitŕ internazionale
negli affari interni dei vari Stati. La proposta del gruppo Small Five, tuttavia, era in seguito
ritirata per motivi di equilibri diplomatici (probabili pressioni ricevute dai
cinque paesi).
La
questione era rilanciata nel settembre 2013, in occasione dell’apertura della
Sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU,
proprio dal capo di uno dei cinque Stati membri del Consiglio di sicurezza, il
Presidente francese François Hollande
- che dava peraltro seguito alla posizione francese del novembre 2012,
formulata in appoggio alle proposte nella stessa direzione di sette Stati
partecipanti a una riunione sui metodi di lavoro del Consiglio di sicurezza -,
il quale, nel suo intervento in Assemblea generale, sosteneva esservi
situazioni in cui un’azione collettiva della Comunitŕ internazionale č
assolutamente necessaria, e pertanto il
diritto di veto avrebbe dovuto cedere alla necessitŕ di contrastare e porre
fine a crimini di guerra e azioni di genocidio.
Alla presa di posizione della Francia si
univano il Costa Rica ed il Cile. Il Ministro degli esteri francese
Laurent Fabius precisava i contorni
della proposta del proprio paese nei termini di un codice di astensione dal
ricorso al diritto di veto su base volontaria e collettiva da parte dei Cinque Grandi: la specifica decisione
sui caratteri di uno scenario suscettibili di produrre quella astensione
sarebbe stata adottata dal Segretario generale delle Nazioni Unite su richiesta di almeno 50 Stati membri.
La proposta francese era temperata dalla esclusione dei casi nei quali fossero
in gioco vitali interessi nazionali di uno Stato membro permanente del
Consiglio di sicurezza.
A margine della Sessione inaugurale dei
lavori dell’Assemblea generale del settembre
2014 la Francia rilanciava la
propria proposta, presiedendo unitamente al Messico una riunione ministeriale
sull’argomento, e il vicesegretario delle Nazioni Unite Jan Eliasson invitava
gli Stati membri a considerare seriamente la proposta della Francia. Per quanto
concerne l’Italia, poche settimane dopo il rappresentante del nostro paese,
Inigo Lambertini, intervenendo in un dibattito aperto in seno al Consiglio di
sicurezza sui metodi di lavoro del Consiglio stesso, si univa alle proposte
capitanate dalla Francia, sottolineando i profili di responsabilitŕ che la
prerogativa del diritto di veto comporta per i cinque membri permanenti.
Da ultimo, il Rappresentante francese alle
Nazioni Unite François Delattre,
intervenendo in un dibattito in Assemblea
generale l’8 settembre 2015 sul piů generale tema della responsabilitŕ di
protezione dei civili nei conflitti armati, ha ribadito i contorni della
proposta francese, inquadrandoli proprio nel piů ampio filone emerso dal World Summit del 2005.
La Risoluzione
1325 “Donne, pace e sicurezza”, adottata all’unanimitŕ il 31 ottobre 2000 dal
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, č la prima Risoluzione di
questo organismo che esplicitamente menziona sia l’impatto della guerra sulle
donne, sia il contributo delle donne per la soluzione dei conflitti e per una
pace durevole. La risoluzione riconosce e valorizza il contributo delle donne nella
prevenzione e risoluzione dei conflitti, nel peacekeeping e nel peace-building.
La Risoluzione 1325 costituisce un importante documento politico ed uno
strumento giuridico fondamentale sia per la promozione della partecipazione
delle donne a livello decisionale, sia per la tutela delle donne e delle
ragazze nei conflitti, per la prevenzione della violenza contro le donne
attraverso la promozione dei diritti, la responsabilitŕ, l’applicazione delle
leggi e l’inclusione della prospettiva di genere nelle operazioni di pace nelle
zone in conflitto o in post-conflitto.
Sul tema Women
Peace and Security-WPS il Consiglio di Sicurezza ha adottato nel tempo sette risoluzioni, di cui la 1325 del
2000 č la capostipite, che nel loro complesso costituiscono il quadro di definizione, attuazione e
monitoraggio di una nutrita Agenda di settore - da osservarsi sia a livello
internazionale sia regionale, nazionale e locale -, guida e parametro di riferimento per le azioni degli organi e degli
Stati membri delle Nazioni Unite in materia. Si tratta delle risoluzioni 1820 (2008)
in materia di violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1888 e 1889 (2009)
sulla violenza sessuale in situazioni di conflitto armato; 1960 (2010) sullo sviluppo di un
sistema di accountability, con cui si
č prevista, tra l’altro, la pubblicazione delle liste degli autori di reato; 2106 (2013) che chiarisce e rafforza il
ruolo del sistema onusiano nel prevenire e rispondere alla violenza sessuale
nei conflitti armati.
L’ultima delle risoluzioni tematiche č la 2122 (2013) del 18 ottobre 2013 che,
sulla base dei contenuti del Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite
(S/2013/525), rafforza le misure che
consentono alle donne di partecipare alle
varie fasi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, nonché della ripresa del
paese in questione, ponendo agli Stati membri, alle organizzazioni
regionali e alle Nazioni Unite stesse, l’obbligo di riservare seggi alle donne
nei tavoli di pace, La risoluzione 2122, inoltre, riconosce la necessitŕ di una
tempestiva informazione ed analisi dell’impatto dei conflitti armati su donne e
ragazze; chiede ai leader delle missioni di peacekeeping
delle Nazioni Unite di effettuare valutazioni sulle violazioni dei diritti
umani e degli abusi di donne nei conflitti armati e nelle situazioni di post
conflitto e chiede alle missioni di peacekeeping
di dare risposta alle minacce della sicurezza
delle donne in situazioni di
conflitto e post conflitto; incoraggia i paesi che contribuiscono alle missioni
ad aumentare la percentuale di donne nelle forze armate e nelle forze di
polizia in esse impiegate; sottolinea la necessitŕ di continuare gli sforzi per
eliminare gli ostacoli che impediscono l’accesso
delle donne alla giustizia in situazioni di conflitto o post
conflitto.
Il metodo di maggiore efficacia per la reale
attuazione del complesso delle disposizioni contenute nelle Risoluzioni onusiane
in tema di Donne, Pace e Sicurezza č stato individuato nei Piani d’azione nazionali (NAP), la cui adozione č stata prevista,
per la prima volta, dal Consiglio di sicurezza nel Presidential Statement del 28 ottobre 2004. Il documento invitava
gli Stati membri delle Nazioni Unite a proseguire sulla strada dell’attuazione
della Risoluzione 1325, “including
through the development of national action plans”. I NAP consentono ai
singoli governi di articolare le prioritŕ e di coordinare i diversi organismi competenti
per la sicurezza, la politica estera, lo sviluppo e le questioni di genere ai
fini dell’implementazione della 1325 e delle successive Risoluzioni.
Secondo i dati disponibili ed aggiornati al
2013[45], una quarantina di Paesi ha adottato un Piano d’azione nazionale. Di
seguito si ricostruisce il timeline
di adozione dei Piani:
2005:
Danimarca
2006:
Regno Unito, Svezia, Norvegia
2007:
Svizzera, Spagna, Olanda, Costa d’Avorio, Austria
2008:
Uganda, Islanda, Finlandia
2009:
Liberia, Portogallo, Belgio, Guinea, Cile
2010:
Sierra Leone, Rwanda, Filippine, Italia,
Francia, Estonia, Repubblica
Democratica del Congo, Canada, Bosnia Erzegovina
2011:
Nepal, Lituania, Georgia, Guinea-Bissau, Irlanda, Serbia, Burundi,
Slovenia, Croazia, Senegal, Stati Uniti
2012:
Germania, Ghana, Australia
2013:
Nigeria, Macedonia, Kyrgyzstan.
Si segnala, inoltre, che tra il 2008 e il
2013, nove Paesi del continente europeo - Danimarca, Svezia, Svizzera, Paesi
Bassi, Norvegia, Regno Unito, Finlandia, Austria e Islanda - hanno sottoposto
il proprio Piano nazionale a revisione.
Del resto l’Europa, con 22 NAP - di cui 15 predisposti in Paesi UE -,
rappresenta oltre il 50% del totale dei Piani d’Azione Nazionali;
l’Africa conta 13 Paesi, Stati Uniti e Cile rappresentano l’America, Nepal,
Kyrgyzstan e Filippine l’Asia e la sola Australia l’Oceania.
Il
secondo Piano d’azione nazionale italiano “Donne,
Pace e Sicurezza” č stato presentato in occasione della
Tavola rotonda “Donne, pace e sicurezza - Standard minimi, linee guida
armonizzate e politiche comuni per l'Agenda Europea”. L’evento, realizzato dal
Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, si č svolto presso il Ministero
degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale il 26 novembre 2014,
nell’ambito delle manifestazioni celebrative della “Giornata Internazionale per
l’eliminazione della violenza sulle donne”.
E’ previsto, inoltre, che il Piano sia oggetto
di un monitoraggio costante, effettuato
attraverso incontri annuali specifici di alto livello ed un reporting progressivo, che si avvarrŕ
anche del contributo della societŕ civile, al fine di renderlo sempre piů
operativo, aggiornato e sinergico. Il Governo, pertanto, - si legge
nell’introduzione al Piano - si impegna a presentare un rapporto di aggiornamento e revisione alla fine del primo anno,
cosě da poter individuare le aree da rafforzare, anche alla luce delle consultazioni che si terranno, come
accennato, sia con la societŕ civile,
sia con il Parlamento.
Tutto ciň anche alla luce della Revisione di Alto Livello della UNSCR 1325
prevista per ottobre 2015. Il
Consiglio di sicurezza, infatti, ha evidenziato che, pur essendo il quadro
senz’altro migliorato nei 14 anni di vigenza della Risoluzione 1325 e
nonostante le successive Risoluzioni tematiche, senza un cambiamento significativo nelle modalitŕ di implementazione della
Risoluzione-madre le prospettive delle
donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nella protezione e
promozione della pace sono destinate a
permanere sottorappresentate. Il Segretario Generale, pertanto, ha invitato
gli Stati membri, le organizzazioni regionali e gli enti delle Nazioni Unite a
rivedere i Piani di attuazione vigenti e gli obiettivi in vista di una Revisione di Alto Livello della Risoluzione
1325, commissionando anche uno studio
globale sulla sua implementazione, che confluirŕ nella sua relazione
annuale 2015 al Consiglio di sicurezza. Lo studio, coordinato da Radhika Coomaraswamy, giŕ Special Representative of the
Secretary-General on Children and Armed Conflict e giŕ Special Rapporteur on Violence against Women, evidenzierŕ esempi di buone pratiche, lacune di attuazione, sfide e
prioritŕ per l'azione.
Il Piano di azione nazionale italiano
2014-2016 (articolato sulle c.d. 3P prevention, protection, participation, and relief, and recovery) č volto innanzitutto
a rafforzare le iniziative di settore che l’Italia giŕ sostiene od attua per
ridurre l’impatto che le situazioni di conflitto e post-conflitto determinano
con riguardo alle donne e ai fanciulli, promuovendone al contempo, la
partecipazione nella risoluzione e prevenzione dei conflitti in quanto “agenti
per il cambiamento” (agents of change).
Nell’elaborare il nuovo Piano 2014-2016, che
a differenza del precedente (2010-2013) a suo tempo sviluppato alla luce delle
prime cinque Risoluzioni onusiane sopra ricordate deve tenere conto
dell’articolazione del quadro di riferimento, ora comprensivo anche delle piů
recenti Risoluzioni (n. 2106 e 2122 del 2013), si č tenuta in considerazione e
valorizzata la crescente incidenza che
la tematica in questione sta assumendo in ambito sia internazionale, sia
domestico e regionale. Pertanto, sono stati potenziati ed evidenziati gli
sforzi e le azioni promosse da tutte le Autoritŕ coinvolte nell’attuazione del
Piano medesimo, č stato ampliato l’ambito degli attori coinvolti ed č stata
promossa la sistematizzazione e l’integrazione delle azioni esistenti.
Il Piano italiano č stato elaborato nel
rispetto del “Comprehensive EU approach
to the implementation of Security Council Resolutions 1325 and 1820 on Women,
Peace and Security” ed in considerazione anche, tra gli altri, delle
indicazioni provenienti dalla societŕ civile, in particolare dal gruppo di
lavoro Gender Peace and Security
dello European Peacebuilding Liaison
Office, nonché nel rispetto della “Cornice Strategica e del Piano
comunitario in materia di diritti umani e democrazia” adottato nel giugno 2012.
Ribadito che gli obiettivi della Risoluzione 1325 consistono:
1.
nella
prevenzione della violenza contro le donne ed i fanciulli e protezione
dei diritti umani di donne e fanciulli, durante e dopo i conflitti armati;
2.
nella
maggiore partecipazione delle donne nella promozione della pace;
3.
nell’applicazione
dell’approccio di genere in tutti i progetti ed i programmi di promozione della
pace,
il Gruppo di lavoro interministeriale ha
individuato, ai fini del loro conseguimento una serie di sotto-obiettivi, di ciascuno dei quali viene riportato, nel Piano
in esame, lo stato di attuazione e gli ulteriori
impegni (commitments) che l’Italia
intende assumere, a livello sia nazionale, sia internazionale.
Tali sotto-obiettivi
consistono nel:
1)
valorizzare
la presenza delle donne nelle Forze Armate nazionali e negli organi di polizia
statale, rafforzandone il ruolo negli organi decisionali delle missioni di pace;
2) promuovere l’inclusione della prospettiva di
genere nelle Peace-Support Operations;
3)
assicurare
training specifico, in particolare per il personale partecipante alle missioni
di pace, sui differenti aspetti della Risoluzione 1325;
4)
proteggere
i diritti umani delle donne, dei fanciulli e delle fasce piů deboli della
popolazione, in fuga dai teatri di guerra e/o presenti nelle aree di
post-conflitto;
5)
rafforzare
il ruolo delle donne nei processi di pace ed in tutti i processi decisionali;
6)
rafforzare
la partecipazione della societŕ civile nell’attuazione della Risoluzione 1325;
7) effettuare attivitŕ di monitoraggio e follow-up.
Completano il Piano 5 Allegati (annex), riguardanti: la raccolta di
indicatori rilevanti che saranno desunti dalle informazioni fornite dalle
amministrazioni coinvolte; l’elenco esperti e delle Associazioni di settore che
hanno partecipato alla consultazione e fornito indicazioni utili alla redazione
del Piano; esempi di progetti (buone pratiche) sviluppati, anche con il
sostegno della DGCS, da parte dell’Associazionismo di settore in aree di
conflitto, post-conflitto ed in Paesi fragili; esempi di moduli didattici di
settore e il riferimento (link) al documento Ue Concept on Strengthening EU Mediation and Dialogue Capacities
adottato dagli Stati membri nel 2009
che č alla base del Mediation Support
Team (MST) il quale č attivo in numerose aree, dove opera come strumento
complementare dell’Azione esterna dell’Unione Europea.
Il Consiglio
dell’UE ha adottato, il 22 giugno 2015, le prioritŕ dell’UE in
vista della settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si
svolgerŕ a New York dal 28 settembre al 3 ottobre 2015.
Le
prioritŕ definite del Consiglio sono cosě articolate:
Riesame
delle operazioni di pace delle Nazioni Unite
Le operazioni
di pace delle Nazioni Unite devono essere dotate di mandati chiari,
coerenti, concisi e realizzabili, e includere una componente sui diritti
umani.
L’UE
considera cruciale il nesso sicurezza-sviluppo-diritti umani per
conseguire una stabilitŕ duratura e sostenibile.
Il
riesame dovrebbe rivolgere particolare attenzione al ruolo sempre piů
importante svolto dalle organizzazioni regionali negli interventi
internazionali per la pace e la sicurezza.
Le operazioni
di pace non possono perň sostituirsi ai processi politici. Sono necessari
sforzi di prevenzione correttamente avviati nella fase iniziale di un
conflitto.
L’Ue
considera prioritario assicurare la promozione dell’agenda riguardante le
donne, la pace e la sicurezza, sia internamente sis nelle relazioni con i
paesi terzi. Č necessario integrare strutturalmente la prospettiva di genere in
tutte le fasi e tra gli elementi e strumenti dell’agenda per la pace e la
sicurezza.
Non
proliferazione e disarmo
L’UE
ritiene opportuno sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite volti a impedire
agli attori non statali e ai gruppi terroristici di sviluppare, acquistare,
costruire, detenere o trasportare tali armi e relativi vettori.
L’UE
si adopererŕ per una migliore attuazione della risoluzione 1540 del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e contribuirŕ attivamente al suo
riesame globale, che deve essere completato nel 2016.
L’UE
continuerŕ a promuovere il trattato di non proliferazione delle armi
nucleari (TNP) e considera una prioritŕ assoluta l’entrata in vigore del trattato
sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).
L’UE
č, inoltre, impegnata a promuovere la piena attuazione de: il trattato sul
commercio delle armi; la convenzione sulle armi chimiche (CWC); la convenzione
sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche (BTWC). L’UE, infine,
intende promuovere negoziati multilaterali su un codice di condotta
internazionale per le attivitŕ nello spazio extraatmosferico.
Lotta
contro il terrorismo
L’UE
sostiene il ruolo chiave delle Nazioni Unite nella cooperazione
multilaterale nella lotta contro il terrorismo. La strategia globale delle
Nazioni Unite contro il terrorismo contiene una serie completa di misure che
devono essere attuate integralmente, ma anche misure volte a garantire la tutela
dei diritti umani e ad affrontare le condizioni di fondo che
favoriscono la diffusione del terrorismo, quali conflitti prolungati irrisolti
e marginalizzazione sociale, economica e politica.
L’UE
ribadisce il suo sostegno alle iniziative volte a sradicare Da’esh, ma
ritiene che la lotta contro Da’esh e altri gruppi terroristici deve essere
condotta parallelamente alla ricerca di soluzioni politiche durature
nelle regioni interessate.
Agenda
globale post 2015
L’UE č
fortemente impegnata a conseguire un nuovo quadro che integri l’eliminazione
della povertŕ e lo sviluppo sostenibile con societŕ pacifiche e stabili e
includa anche diritti umani, stato di diritto, buon governo, paritŕ di
genere e sostenibilitŕ ambientale.
I
risultati degli eventi di Addis Abeba (finanziamento dello sviluppo), New York
(vertice post 2015) e Parigi (UNFCCC COP 21) dovrebbero rafforzare e porre in
evidenza i benefici collaterali e le sinergie tra l’eliminazione della povertŕ
e lo sviluppo sostenibile, compresi i cambiamenti climatici.
L’ UE
ritiene che il principale campo d’azione sarŕ la definizione e l’attuazione di
un forte quadro di monitoraggio, rendicontabilitŕ e valutazione, che
dovrebbe essere parte integrante dell’agenda post 2015.
Tra le
tendenze globali che avranno ripercussioni complesse e su larga scala sull’agenda
post 2015, la migrazione offre un esempio di questione che deve essere
gestita in modo globale. Occorre a tal fine potenziare gli sforzi per prevenire
la migrazione irregolare, inclusa la lotta contro la tratta e il traffico dei
migranti, in particolare con azioni di contrasto alle reti criminali e una
maggiore coerenza e coordinamento tra le dimensioni esterna e interna della
politica di migrazione e le agende in tema di sviluppo e affari esteri.
Cambiamenti climatici
L’UE
punta a un accordo equo, ambizioso e giuridicamente vincolante, applicabile a
tutti, che copra sia la mitigazione che l’adattamento, che dovrebbe agevolare
la transizione verso un’economia a bassa emissione di CO2 e resiliente,
che tenga conto delle esigenze dei piů vulnerabili.
L’UE
resta impegnata ad aumentare gradualmente la mobilitazione dei finanziamenti
per il clima nel contesto di azioni significative di mitigazione, al fine
di apportare il proprio giusto contributo all’obiettivo dei paesi
sviluppati di mobilitare congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi all’anno
di dollari attingendo ad un ampia varietŕ di fonti pubbliche e private,
bilaterali e multilaterali, incluse le fonti alternative di finanziamento.
Nel
contempo l’UE ricorda l’importanza, in termini di clima, dei trasporti aerei
e marittimi internazionali.
Diritti
umani e diritto internazionale
L’UE
si impegna a sostenere ogni sforzo volto a integrare i diritti umani in
tutti i lavori delle Nazioni Unite, anche in materia di sviluppo e pace e
sicurezza.
L’UE
sostiene con forza la Corte penale internazionale (CPI) e ritiene che si
debba prestare maggiore attenzione al rafforzamento e all’ampliamento delle
relazioni tra CPI e ONU, in particolare il Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite. Benché la responsabilitŕ primaria di consegnare gli autori di
reati alla giustizia spetti agli stessi Stati, la CPI dovrebbe esercitare la
sua giurisdizione qualora le autoritŕ nazionali non siano in grado o non siano
disposte a perseguire veramente i crimini piů gravi motivo di allarme per la
comunitŕ internazionale.
L’UE,
in tale ambito, intende:
· sostenere
la libertŕ di opinione e di espressione online e offline quale diritto
umano fondamentale e pietra angolare della democrazia e della pace;
· continuare
a propugnare la libertŕ di religione o credo e chiederŕ maggiori sforzi
volti a proteggere i diritti delle persone appartenenti a minoranze religiose.
· proseguire
gli sforzi volti a porre fine alla tortura e ad altre forme di
trattamenti e pene crudeli, disumani o degradanti;
· a
promuovere la cooperazione internazionale per affrontare la lotta contro la
tratta di esseri umani, sostenere il lavoro delle Nazioni Unite verso l’abolizione
della pena di morte in tutto il mondo.
· continuare
a promuovere i diritti dei minori;
· continuare
ad operare contro tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale,
xenofobia e relativa intolleranza, compreso l’antisemitismo.
Protezione dello spazio umanitario
L’UE
continuerŕ a sostenere il ruolo guida delle Nazioni Unite nel
coordinamento e nella prestazione di assistenza umanitaria internazionale
nonché a propugnare il rispetto dei principi umanitari, del diritto umanitario
internazionale, del diritto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati.
Le
discussioni sul finanziamento umanitario devono essere parte integrante del
processo piů ampio del rafforzamento delle Nazioni Unite e del sistema
umanitario.
Questioni di genere
L’UE
sostiene l’impegno a favore della promozione, della protezione e del rispetto
di tutti i diritti umani nonché a favore dell’attuazione integrale e concreta
della piattaforma d’azione di Pechino e del programma d’azione dell’ICPD
(Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) e ritiene occorra
assicurare un’attuazione piena e rapida delle azioni e misure previste.
L’emancipazione
e i diritti umani delle donne e delle ragazze e la fine sia della
discriminazione in tutte le sue forme sia di tutte le forme di violenza contro
donne e ragazze devono essere al centro dell’agenda post 2015.
Ciberspazio
L’Unione
europea ribadisce la sua posizione secondo cui il diritto internazionale
vigente, in particolare la Carta delle Nazioni Unite e il diritto
internazionale umanitario e dei diritti umani, si applica al ciberspazio
e sostiene il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e
sicurezza internazionali nel ciberspazio.
In
tale settore occorre che i diritti fondamentali siano promossi e protetti
online e offline. Č inoltre importante che salvaguardiamo l’approccio
multipartecipativo, flessibile e favorevole all’innovazione, alla governance
di internet. L’Unione europea resterŕ ferma sul principio che a nessuna
singola entitŕ, societŕ, organizzazione o governo si debba consentire il
controllo di internet.
L’Unione
europea riconosce la necessitŕ costante di lavorare attivamente in tale ambito
alla promozione e protezione dei diritti umani, compreso il diritto alla
riservatezza e alla libertŕ di espressione.
Riforma e maggiore efficienza delle
Nazioni Unite
Sfide
emergenti costringono le Nazioni Unite ad assumere nuove funzioni, che a loro
volta richiederanno un ripensamento della governance e delle modalitŕ
di finanziamento. Assicurare la sana gestione delle risorse finanziarie e
del personale delle Nazioni Unite continuerŕ ad essere una prioritŕ dell’UE. La
riforma del sistema delle Nazioni Unite dovrebbe comprendere la riforma
generale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il rilancio
dell’attivitŕ dell’Assemblea generale.
Rafforzamento dei partenariati
multilaterali
L’Ue
ricorda il suo impegno a favore dei partenariati regionali, in
particolare la Lega araba, l’OSCE, l’Unione africana e gli interlocutori
regionali in America latina, nei Caraibi e in Asia. L’integrazione regionale č
il mezzo per sostenere la pace e la prosperitŕ in tutto il mondo e superare i
conflitti tra le nazioni.
L’UE
accoglie con favore la recente relazione del Segretario generale delle Nazioni
Unite sulla costruzione di partenariati per la pace e il nuovo paradigma del
"mantenimento della pace in partenariato" nell’architettura globale
di sicurezza.
Occorre
fare piů affidamento su azioni a piů livelli e multiformi in tutte le diverse
fasi dei conflitti e in tutte le fasi č necessaria una cooperazione piů
stretta con e tra le organizzazioni regionali. A tal fine, l’UE incoraggia
le Nazioni Unite a sviluppare ulteriormente il concetto.
L’UE
ricorda il valore aggiunto degli approcci comuni tra UE, ONU e UA in Africa e l’importanza
di una stretta cooperazione trilaterale.
L’11 maggio 2015 l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari
esteri e la politica di sicurezza (AR), Federica Mogherini, ha illustrato al
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite le misure che l’Unione europea era
in procinto di adottare per far fronte all’emergenza delle tragedie nel
Mediterraneo, dando conto a un tempo della nuova agenda europea sulle migrazioni,
che la Commissione avrebbe presentato due giorni dopo, e dell’operazione navale
militare PSDC dell’Unione europea nel Mediterraneo centro-meridionale (EUNAVFOR MED), successivamente
istituita dalla decisione (PESC) 2015/778 del 18 maggio 2015, evidenziando la
necessitŕ che l’Unione operi con il sostegno esplicito del Consiglio di
sicurezza, espresso tramite una risoluzione mirata.
L’intervento dell’AR ha costituito la prima applicazione dell’articolo 34,
comma 2, ultimo alinea del
Trattato sull’Unione europea (TUE), che recita: "Allorché l’Unione ha
definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri che
vi partecipano chiedono che l’Alto rappresentante sia invitato a presentare
la posizione dell’Unione".
Si ricorda che il mandato di EUNAVFOR MED, come definito dall’articolo 2
della citata decisione, prevede le seguenti fasi operative:
·
individuazione e monitoraggio delle reti di migrazione
attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento in alto mare;
·
fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto
mare di imbarcazioni sospette;
·
fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto
mare o nelle acque territoriali e interne di uno Stato costiero, di
imbarcazioni sospette, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero
interessato;
·
adozione di tutte le misure necessarie nei confronti
delle imbarcazioni sospette, ivi compresa la possibilitŕ di metterle fuori uso
o renderle inutilizzabili, nel territorio dello stato costiero interessato,
conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato.
Mentre le misure di cui ai primi due punti sono attuabili, nel rispetto del
diritto internazionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del
Mare (UNCLOS), prescindendo da una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza e dal consenso dello Stato costiero
interessato, le misure di cui agli ultimi due punti sono subordinate
all’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza od all’ottenimento
del consenso dello Stato interessato.
Č da notare che la formulazione del punto c): "anche mettendoli fuori
uso o rendendoli inutilizzabili" č frutto di un compromesso teso a rendere
accettabile la formulazione, ai fini dei negoziati in corso alle Nazioni Unite,
anche da parte della Russia, che non
accetterebbe la possibilitŕ di "distruggere" tout court le
imbarcazioni sospettate di traffico. La Russia resta peraltro contraria alla
possibilitŕ di agire sul territorio libico.
Č rimessa al Consiglio dell’UE la valutazione delle condizioni per il
passaggio dalla prima fase alle successive, tenendo conto delle risoluzioni ONU
intercorse e del consenso dello Stato costiero.
Mentre per le azioni di cui alla seconda e terza a fase dell’operazione
sarebbe pertanto sufficiente una risoluzione del Consiglio di sicurezza o il
consenso dello Stato costiero, in base al paragrafo 3 dell’art. 2 della decisione
PESC sopra menzionata, per decidere il passaggio dalla prima alla seconda e
terza fase č invece necessaria la compresenza di una risoluzione e del
consenso: un aggravio della procedura che ha consentito l’approvazione della
decisione (per la quale č prevista l’unanimitŕ in Consiglio).
Parallelamente all’iniziativa dell’Alto Rappresentante dell’UE presso il
Palazzo di Vetro, le diplomazie europee si sono messe al lavoro per ottenere un
mandato da parte dell’ONU.
La bozza di risoluzione in
discussione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul contrasto al business
dei trafficanti di uomini in Libia - che dovrebbe costituire la cornice
giuridica per le successive fasi di EUNAVFOR MED - č stata inizialmente
elaborata dall’Italia e presentata dal Regno Unito in quanto il nostro Paese
non č attualmente rappresentato in Consiglio di Sicurezza, mentre il Regno
Unito č membro permanente (pen holder);
č appoggiata dai quattro membri europei del Consiglio di Sicurezza: i due
membri permanenti, Regno Unito e Francia, piů Spagna e Lituania. L’adozione
della risoluzione dipende perň dall’atteggiamento cauto della Russia e della
Cina (che solitamente sulle questioni mediterranee tende ad allinearsi a
Mosca), preoccupate di evitare il ripetersi di quanto avvenuto nel 2011, con
l’adozione della Risoluzione 1973, che diede il via all’intervento che portň
alla caduta del regime di Gheddafi.
Il testo inizialmente
elaborato dall’Italia prende a modello la Risoluzione n. 1851(2008) sulla lotta alla pirateria
al largo della Somalia, ponendosi sotto il capitolo VII della Carta delle
Nazioni Unite , che autorizza l’uso della forza di fronte a minacce alla pace,
a rotture della pace e ad atti di aggressione. Com’č noto, tale Risoluzione ha
consentito interventi di contrasto alla pirateria al largo delle coste della
Somalia ma anche land-based operations,
autorizzando gli Stati o le organizzazioni regionali notificate dal governo
federale di transizione della Somalia a prendere all necessary measures appropriate in Somalia per impedire a coloro
che usano il territorio somalo di pianificare, facilitare, intraprendere atti
di pirateria; ha autorizzato Stati ed organizzazioni regionali a cooperare nel
contrasto alla pirateria dispiegando navi ed aerei militari, sequestrando e
disponendo di barche ed armi, facendo seguito alla lettera del governo federale
di transizione della Somalia che chiedeva assistenza internazionale per
contrastare la recrudescenza della pirateria.
Seguendo tale schema, la bozza di risoluzione sulla Libia prevedrebbe la
possibilitŕ di ricognizioni non solo navali ma anche aeree. Mentre la decisione
PESC non fa riferimento esplicito a ricognizioni aeree, vi sono mezzi aerei che
giŕ operano al largo delle coste libiche nell’ambito della missione Triton[47] di FRONTEX.
La bozza proposta dall’Italia conterrebbe anche il riferimento ad una
"lettera" delle autoritŕ libiche alle Nazioni Unite volta a chiedere
un’operazione di assistenza che metta in sicurezza le acque territoriali dello
Stato e il suo stesso territorio, lettera che dovrebbe indicare gli Stati e le
organizzazioni regionali che coopererebbero a tale scopo. Il consenso libico
rappresenta un aspetto di preminente importanza per Stati Uniti, Russia, Cina e
Venezuela.
La bozza farebbe poi riferimento anche alla messa in salvo delle persone
che possano trovarsi a bordo delle imbarcazioni, in accordo con le regole del
diritto internazionale, dei diritti umani e delle norme internazionali sui
rifugiati. Un aspetto sensibile del negoziato sul testo riguarderebbe proprio gli
aspetti umanitari dell’emergenza migratoria.
Il nodo principale da sciogliere riguarda l’ambito di applicazione della
risoluzione ONU, che alcuni, tra cui la Russia, vorrebbero limitato all’alto
mare, mentre gli europei vorrebbero estendere alle acque territoriali libiche o
al territorio libico (incursioni mirate sulla costa).
Dall’ambito di applicazione dipende non solo il teatro delle operazioni
possibili, ma anche la loro complessitŕ.
Alcuni membri del Consiglio, infine, richiamano alla prudenza riguardo a
formulazioni che possano prefigurare interventi di portata piů ampia come
l’autorizzazione di "all necessary measures".
Secondo notizie di stampa, la
risoluzione potrebbe essere adottata alla fine del mese, nel corso della
riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Quanto a un possibile contributo della NATO all’operazione navale, il Segretario generale Stoltenberg il 18
maggio, mostrando apprezzamento per gli sforzi dell’UE per l’elaborazione di
una risposta more comprehensive all’emergenza migratoria e per l’istituzione di
un’operazione navale per smantellare le reti criminali di trafficanti d’uomini
nel Mediterraneo, ha dichiarato che finora non č stata rivolta una richiesta
alla NATO che tuttavia resta pronta in caso di richieste di aiuto.
Il Consiglio dell’UE con decisione PESC 2015/972 del 22 giugno 2015 ha
approvato il lancio dell’operazione EUNAVFOR MED. L’operazione č posta sotto il
comando del Contrammiraglio Credendino
e con comando operativo basato a Roma. Il
Comando del dispositivo aerovanale (Force Commander) č stato affidato
al Contrammiraglio Andrea Gueglio che opera dalla portaerei Cavour.
Oltre alla portaerei italiana - nave ammiraglia dell’operazione navale
EUNAVFOR MED (v. infra) - nella prima
fase dell’operazione, verranno dispiegate: 8 unitŕ navali di superficie e
sottomarine e 12 assetti aerei. Tra gli Stati contributori figurano attualmente
14 Stati membri (Belgio, Germania,
Grecia, Estonia, Finlandia, Francia, Ungheria, Italia, Lituania, Lussemburgo,
Olanda, Svezia, Slovenia, Regno Unito).
Assetti militari e personale militare saranno forniti dagli Stati
contributori. Il budget per i costi comuni č di 11,82 milioni di euro per un
periodo di 12 mesi da quando verrŕ raggiunta la piena capacitŕ operativa.
L’operazione EUNAVFOR MED intende contribuire al contrasto al business dei
trafficanti di uomini nel Mediterraneo nel quadro di un comprehensive approach
dell’UE che include, sul fronte dell’azione esterna, le seguenti azioni:
·
Rafforzamento della partnership con l’Unione Africana (in vista del summit di Malta in
autunno) e con le organizzazioni regionali africane, con i Paesi di origine e
di transito dei flussi migratori, con l’Organizzazione internazionale per le
Migrazioni e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite;
·
Sostegno dell’UE ai processi di Rabat e Khartoum;
·
Accresciuta presenza dell’UE nel Mediterraneo, tramite
le operazioni Triton e Poseidon di FRONTEX nel Mediterraneo;
·
Accresciuto sostegno alla gestione dei confini nella
regione, anche attraverso missioni PSDC, in particolare rafforzando EUCAP SAHEL
Niger ;
·
Affrontare le cause remote (povertŕ, crisi e
conflitti) anche tramite il miglioramento delle situazioni della sicurezza,
umanitarie e dei diritti umani e delle condizioni socio-economiche nei Paesi di
origine;
·
Cooperazione con i Paesi di transito per il controllo
dei flussi e per un contrasto efficace dei trafficanti;
·
Costruzione di capacitŕ nei Paesi di origine e di
transito che consentano alle autoritŕ locali di affrontare la questione in
maniera piů efficace.
Il decreto-legge
8 luglio 2015, n. 99, convertito dalla legge 4 agosto 2015, n. 117, ha
autorizzato la partecipazione del personale militare italiano ad EUNAVFOR MED, relativamente al periodo 27 giugno-30 settembre 2015 (allineando cosě il termine a quello
dell’ultimo decreto di proroga missioni, D.L. n. 7/2015).
Nello specifico il provvedimento ha autorizzato la
spesa di 26 milioni di euro (reperiti a valere sul fondo missioni per 19
milioni e sui rimborsi ONU per 7 milioni) per la partecipazione di 1.020 unitŕ di personale militare e per
l’impiego di mezzi navali (la portaerei Cavour e un sommergibile di classe
Todaro) e mezzi aeromobili. Il decreto ha regolato, poi, la disciplina applicabile alla missione con particolare riferimento
alle disposizioni di carattere penale (codice penale militare di pace) e quelle
sul personale e di natura contabile, richiamando a tal fine le consuete
disposizioni contenute nei periodici provvedimenti di proroga missioni.
L’Italia contribuisce complessivamente
all’operazione mettendo a disposizione:
Il 14
settembre scorso il Consiglio Affari Generali ha avallato l’avvio della nuova fase dell’operazione navale, dal momento che la
prima fase dedicata all’ “intelligence,
raccolta e analisi delle informazioni ha raggiunto tutti gli obiettivi
militari prefissati”, cui si aggiunge il
salvataggio di 1500 migranti.
L’esito positivo della
valutazione della proposta, passata al vaglio dei ministri degli Affari esteri
degli Stati UE senza discussione, come “punto A”, permetterŕ ai mezzi di
Eunavfor MED di effettuare “abbordaggi,
perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare”, prosegue la nota, di
quelle imbarcazioni “sospettate di venir
utilizzate per il traffico di esseri umani nell’ambito delle legislazioni
internazionali”, in particolare l’UNCLOS e le risoluzioni del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite.
Arresti saranno quindi
possibili, ma solo al di fuori delle acque territoriali libiche. I migranti e i
sospetti catturati in acque internazionali saranno portati in Italia. Questo fa
sě che per la seconda fase non sia
necessaria una specifica e ulteriore risoluzione delle Nazioni Unite.
In termini di mezzi, la
fase 2 prevede, oltre alle unitŕ giŕ presenti (portaerei Cavour, una fregata e
un sottomarino italiani, una fregata e una nave rifornimento tedesche e
un’unitŕ ausiliaria britannica), il dispiegamento
di 7 fregate supplementari, numerosi elicotteri, sottomarini e droni.
La ripartizione dei
contributi in uomini e mezzi di ciascuno stato membro verrŕ definito dagli
stati maggiori dei paesi membri nel corso della conferenza tecnica sulla costituzione
della forza, prevista per mercoledě. Successivamente gli ambasciatori europei
presso la UE decideranno, nell’ambito del Comitato di Politica e Sicurezza,
quando lanciare ufficialmente il secondo passaggio.
La decisione del Consiglio
risponde a un’esigenza espressa nelle scorse settimane da piů parti. A fine
agosto aveva fatto dichiarazioni in tal senso – in relazione al passaggio alla
fase due – l’ammiraglio italiano Enrico
Credendino, comandante della Eunavfor Med, seguito dall’Alta rappresentante
Federica Mogherini che, a margine
del vertice dei ministri della difesa dell’Unione a Lussemburgo aveva
dichiarato che “il passaggio alla fase
due dell’operazione navale nel Mediterraneo per contrastare i trafficanti di
esseri umani” aveva ricevuto un “ampio consenso”. Tale consenso era giŕ
stato espresso a livello di ambasciatori la settimana precedente.
Il 24
settembre, l’Alta Rappresentante, in visita al quartier generale
dell'operazione a Roma, ha precisato che la
seconda fase partirŕ il 7 ottobre:
l’iniziativa si chiamerŕ – ha aggiunto Federica Mogherini – “Operazione Sofia”, dal nome
di una bambina, figlia di una donna migrante, nata a bordo di una delle unitŕ
navali che hanno preso parte alla prima fase dell'operazione. Denominare
l’operazione con il nome della bambina nata a bordo di una delle navi - ha
spiegato - serve a “dare un segnale di speranza alle persone che stiamo salvando”.
L’Italia č inserita
nella forza multinazionale denominata United
Nations Interim Force in Lebanon UNIFIL che dal 1978 opera lungo la linea “armistiziale” Blue Line tra il Libano ed Israele.
Prima della crisi del luglio/agosto 2006 la forza multinazionale di UNIFIL
aveva il compito di verificare il ritiro delle truppe israeliane dal confine
meridionale del Libano e assistere lo stesso governo a ristabilire la propria
autoritŕ nell’area. Dopo la crisi del luglio/agosto 2006, ai precedenti
compiti, si sono aggiunti il sostegno alle forze armate libanesi nel
dispiegamento nel sud del paese, l’assistenza umanitaria alla popolazione
civile e il monitoraggio della cessazione delle ostilitŕ nell’area compresa tra
la “Blue Line” ed il fiume Litani.
Con lo scoppio della
crisi siriana l'azione dell'UNIIFIL č divenuta ancora piů importante, in quanto
il Libano svolge un ruolo cruciale per la stabilitŕ di tutta la regione. Il
contributo italiano alla missione si estende anche alla componente navale
dell'UNIFIL (Maritime Task
Force), per il controllo delle acque prospicienti il territorio
libanese richiesto dal Department
of Peacekeeping Operations delle Nazioni Unite.
Su decisione delle
Nazioni Unite, dal 28 gennaio 2012, l’Italia ha assunto il comando della
missione UNIFIL: a partire dal 24 luglio
2014 il generale di brigata Luciano
Portolano č succeduto al suo collega Paolo Serra alla guida della missione
UNIFIL.
Alla missione UNIFIL partecipano oltre 10.000 soldati
provenienti dai seguenti Paesi: Armenia, Austria, Bangladesh, Bielorussia, Belgio,
Brasile, Brunei, Cambogia, Cina, Croazia, Cipro, El Salvador, Francia,
Finlandia, Repubblica di Macedonia, Germania, Ghana, Grecia, Guatemala,
Ungheria, India, Indonesia, Italia, Irlanda, Kenia, Malesia, Nepal, Nigeria,
Qatar, Korea, Serbia, Sierra Leone, Slovenia, Spagna, Sri Lanka, Tanzania e
Turchia.
Il comando della
forza nazionale č stanziato presso la base "Millevoi" in Shama (sede
del Comando del Settore Ovest di UNIFIL), mentre l’unitŕ di manovra ed i
supporti sono dislocati tra le basi di Al Mansouri, Shama e le basi operative
avanzate lungo la “Blue Line”.
Attualmente la Joint Task Force – Lebanon consta di
1100 uomini e donne, principalmente composta da militari della Brigata
Aeromobile “Friuli”, di stanza a Bologna.
All’Italia č
altresě affidato il comando del Sector
West di UNIFIL che, dal 13 aprile 2015, č al comando del Generale di
Brigata Salvatore Cuoci, giŕ Comandante della Brigata Aeromobile “Friuli”. In
tale ambito opera la Task Force italiana in Libano che gestisce le unitŕ di
manovra e di supporto fornite da altre nazioni quali: Armenia, Brunei, Estonia,
Finlandia, Ghana, Irlanda, Malesia, Repubblica di Corea, Slovenia e Tanzania e
Serbia.
Con il decreto legge n. 7 del 2015 (articolo
12 comma 4), convertito dalla legge n. 43 del 2015, č stata autorizzata fino al
30 settembre 2015, la spesa di euro di euro 19.477.897 per la proroga della
partecipazione del contingente militare italiano alla missione delle Nazioni
Unite in Libano, denominata United
Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL), compreso l'impiego di
unitŕ navali nella UNIFIL.
L'autorizzazione di spesa č estesa, altresě, alla
proroga dell'impiego di personale militare in attivitŕ di addestramento delle
forze armate libanesi, quale contributo
italiano nell'ambito dell’International
Support Group for Lebanon (ISG), inaugurato a New York il 25
settembre 2013 alla presenza del Segretario generale delle Nazioni Unite. La
costituzione dell'ISG consegue a un appello del Consiglio di sicurezza per un
forte e coordinato sostegno internazionale inteso ad assistere il Libano nei
settori in cui esso č piů colpito dalla crisi siriana, compresi l'assistenza ai
rifugiati e alle comunitŕ ospitanti, il sostegno strutturale e finanziario al
Governo nonché il rafforzamento delle capacitŕ delle forze armate libanesi,
chiamate a sostenere uno sforzo senza precedenti per mantenere la sicurezza e
la stabilitŕ, sia all'interno del territorio sia lungo il confine siriano e la Blue Line.
· L'11 luglio 2015 viene firmato a Skhirat (Marocco)
l'accordo politico quadro da parte di 18 su 22 partecipanti al Dialogo
politico libico mediato dal Rappresentante Speciale dell'ONU, Leon. A luglio il Congresso Nazionale di Tripoli
(GNC) non firma e chiede di rivederne
alcune parti. Leon cerca dunque di circoscrivere la posizione del GNC, che appare
determinata anche da tattiche dilatorie, attraverso l’apposizione negli allegati al testo di accordo politico
di clausole interpretative e riserve.
· L’11 e 12 agosto 2015, anche a seguito della forte pressione
internazionale, una delegazione di Tripoli ha partecipato, pur senza essere
autorizzata ad assumere impegni specifici, alla sessione di dialogo che si
svolge a Ginevra in cui Leon presenta i primi
due allegati (prioritŕ del nuovo
Esecutivo e politica fiscale) all’accordo politico, di cui saranno parte
integrante.
· In parallelo, prende il via in seno alla Camera dei Rappresentanti (HoR)
la discussione per la definizione della rosa di personalitŕ da indicare a UNSMIL per i vertici del futuro Governo.
· Il 18 agosto 2015, nella riunione della Lega Araba, quest'ultima esprime sostegno verso il Governo libico
di Tobruk e sottolinea la necessitŕ di contrastare DAESH, anche attraverso lo
sviluppo di una “strategia araba” per garantire alla Libia l’assistenza
necessaria. Al contempo, l’organizzazione rinnoval’appello alle parti per
portare a compimento il processo di dialogo sotto l’egida delle Nazioni Unite.
· Il 17 agosto 2015, in una
dichiarazione congiunta i governi di Francia, Germania, Italia Regno Unito,
Spagna e Stati Uniti esprimono forte condanna delle barbariche azioni di Daesh
a Sirte e lanciano un deciso appello all’unitŕ delle fazioni libiche nella
lotta contro DAESH e alla rapida positiva conclusione dell’accordo politico
intra-libico.
· Il 2 settembre 2015 Leon
incontrando ad Istanbul una delegazione del Congresso
Nazionale di Tripoli chiarisce che sebbene un progetto di accordo sia stato parafato da
alcune parti il 12 luglio, un accordo sarŕ veramente raggiunto quando un
pacchetto finale abbia un senso per ciascuno e sia firmato da ciascuno.
· Il 12 settembre 2015
Leon riesce a convocare una nuova sessione di dialogo, a Skhirat, per presentare i testi
degli allegati mancanti (sulla composizione del Consiglio di Stato, sugli
emendamenti costituzionali e sulle cariche di Primo Ministro e di Vice).
· Leon appare deciso a mantenere la
porta aperta al Congresso evitando di conferirgli un potere di veto, nella
consapevolezza che un accordo senza Tripoli costituirebbe un’importante ipoteca
sulla stabilizzazione della Libia.
· Nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2015 a
Skhirat le delegazioni dei 2 governi libici rivali raggiungono un accordo su
elementi centrali di compromesso finalizzato al raggiungimento dell'accordo di
pace, che dovranno
essere approvati dai rispettivi parlamenti.
· Il 18 settembre 2015, in una
dichiarazione congiunta, i Governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito,
Spagna e Stati Uniti, accogliendo con favore la tornata negoziale del dialogo
politico guidato dalle Nazioni Unite in corso a Skhirat, in Marocco, e
ribadendo pieno sostegno agli sforzi di León, esortano con forza tutte le parti
del dialogo a continuare a partecipare ai colloqui in questa fase cruciale dei
negoziati, al fine di raggiungere un accordo
definitivo su un pacchetto che comprenda la nomina dei candidati per il Governo
di Concordia Nazionale prima del 20 settembre, che sia avallato dalle parti
prima della fine di settembre, affinché
questi possano insediarsi quanto prima (e comunque non oltre il 21 ottobre),
secondo le aspettative di tutti i libici. Ribadiscono, inoltre, che, in
considerazione delle prossime festivitŕ
dell’Eid, si ritiene cruciale che tutte le parti nel processo approvino un
accordo definitivo e gli esponenti del nuovo Governo di Concordia Nazionale
prima della fine di settembre. Infine, riaffermano il proprio sostegno in
favore di una Libia unita, sovrana e indipendente. Sottolineano che la comunitŕ
internazionale č pronta a fornire una significativa assistenza umanitaria,
economica e di sicurezza ad una Libia unita non appena il nuovo governo sarŕ
stato formato.
· Nella tarda notte del 21
settembre 2015, Leon annuncia che č
pronto il testo finale dell'accordo politico libico, che deve essere
confermato nei prossimi giorni da tutte
le parti e che tutte sono pronte a
discutere i nomi del governo di concordia nazionale (che figureranno
nell'allegato 1), immediatamente dopo le festivitŕ di Eid. Leon esprime
l'auspicio che la sessione finale del dialogo politico possa tenersi durante la
settimana dell'Assemblea Generale dell'ONU e che nei giorni immediatamente
futuri possa essere parafato l'accordo presumibilmente a Skhirat e che la
conclusione avvenga in Libia entro il 20 ottobre 2015, per evitare il vuoto
politico in Libia e avere una quadro legale certo. Sollecitato sulle scadenze,
il Rappresentante speciale auspica che l'adozione del testo possa avvenire
entro il 1°ottobre 2015 a New York da tutte le parti libiche, in modo che la
parafatura possa avvenire quanto prima e la conclusione entro il 20 ottobre
2015.
(…)
di Stefania
Azzolina
SETTEMBRE 2015
Mappa della Libia. Elaborazione Ce.S.I.
I negoziati di pace
guidati dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Bernardino Leon tra i due
parlamenti avversari di Tripoli e Tobruk sembrano essere giunti nuovamente ad
una fase di stallo. Infatti, la scadenza ultima prevista per il 20 settembre
non ha visto il raggiungimento di un accordo per la formazione di un governo di
Unitŕ Nazionale tra Camera dei Rappresentanti (House of Representatives – HoR)
di Tobruk, di orientamento laico ed unica autoritŕ libica riconosciuta a
livello internazionale, e il Congresso Generale Nazionale (General National
Council - GNC) di Tripoli, di orientamento islamista. Nonostante pochi giorni
prima fossero circolate delle voci su una possibile convergenza, le trattative
si sono bloccate a causa dell’abbandono del tavolo negoziale dei delegati di
Tobruk il 15 settembre scorso. L’HoR, infatti, si č opposto ad una serie di
emendamenti al testo di accordo votato a fine agosto, ritenuti eccessivamente
favorevoli alle richieste avanzate dai delegati del GNC. Piů in generale, la difficoltŕ
di trovare un compromesso continua a risentire della presenza, all’interno
delle singole rappresentanze, di varie fazioni pro e anti-negoziato.
Sebbene non si riscontrino ancora i
presupposti per il raggiungimento di una sintesi tra le parti, complessivamente
l’andamento dei negoziati ha registrato una graduale serie di piccoli passi in
avanti. Dopo l’accordo-quadro firmato l’11 luglio tra l’HoR, le milizie di
Misurata e diversi leader di tribů locali e regionali, i nuovi negoziati di
agosto, prima a Ginevra e poi a Skhirat, in Marrocco, hanno visto la
partecipazione di entrambi i governi. In questo senso, l’apertura di una
embrionale forma di dialogo tra i due schieramenti rappresenta giŕ di per sé un
notevole risultato politico dopo mesi di opposizione frontale e costituisce un
punto di partenza importante per la futura costruzione di un esecutivo unitario
nel Paese. Tuttavia, i contenuti e tempistiche di un eventuale accordo sembrano
essere poco chiare e di difficile definizione.
Le difficoltŕ incontrate
sul piano diplomatico e l’andamento degli scontri sul campo, che attualmente
non vedono il prevalere né delle forze del Generale Khalifa Haftar né di quelle
islamiste di Alba Libica, paiono escludere una soluzione politica a breve
termine, sebbene Leon abbia fissato un’ulteriore scadenza per sottoscrivere un
nuovo testo entro il 20 ottobre prossimo.
Al di lŕ della dicotomia
Tripoli - Tobruk, la situazione attuale sul campo vede il territorio libico
ancora conteso tra numerose milizie locali e tribali che sovente non
partecipano né sono rappresentate durante i negoziati. La scarsa
rappresentativitŕ dei governi di Tripoli e Tobruk e l’estrema frammentazione
dello scenario politico e militare della Libia, che rende quasi impossibile la
partecipazione di tutte le realtŕ miliziane e tribali al meccanismo negoziale,
potrebbe rischiare di mettere a serio repentaglio l’implementazione di un
eventuale accordo tra HoR e GNC, qualora i diversi potentati locali vi si
opponessero. Quindi, l’effettivitŕ di qualsiasi sintesi politica non potrŕ
prescindere dalla rappresentativitŕ di tutti gli attori presenti nelle diverse
realtŕ territoriali libiche, spesso legate tra loro da alleanze contingenti
basate su accordi estremamente variabili e flessibili.
Se da una parte i tempi
per la formazione di un governo di unitŕ nazionale non sembrano ancora essere
maturi, dall’altra l’esigenza di trovare un accordo si fa sempre piů pressante
di fronte agli effetti che il perdurare del vuoto di potere determina sul
Paese. L’assenza di un’autoritŕ politica centrale, la mancanza di forze di
sicurezza in grado di garantire il controllo dei confini nazionali, la
distruzione di tutte le istituzioni preesistenti e la progressiva segmentazione
della guerra civile su molteplici fronti sono tutti chiari sintomi di uno Stato
ormai al collasso.
In un simile contesto
cosě fortemente instabile, la propaganda jihadista ha visto crescere la sua
capacitŕ di azione e proselitismo nel Paese. In modo particolare, nell’ultimo
anno si č assistito ad un rafforzamento della presenza dello Stato Islamico
(IS), o di gruppi a esso affiliati, lungo la zona costiera del Paese. A partire
dalla proclamazione del Califfato di Bayda a Derna nel novembre del 2014, l’IS
ha preso progressivamente il controllo di diverse cittŕ portuali come Sirte e
Bengasi, quest’ultima teatro di recenti scontri con le forze di “Operazione
Dignitŕ”, il conglomerato di milizie guidato dal Generale Haftar.
La penetrazione dell’IS
lungo le coste libiche non solo rappresenta l’introduzione di un ulteriore
elemento di criticitŕ nel giŕ complesso panorama nazionale, ma costituisce
anche un fattore di grande apprensione per la Comunitŕ Internazionale, in modo
particolare per le cancellerie europee. Infatti, il timore č che l’IS, scendendo
a patti con le reti criminali locali, posa iniziare a compartecipare al
controllo dello sfruttamento dei flussi migratori che vedono nella Libia uno
dei suoi snodi piů importanti. Non č da escludere, inoltre, l’ipotesi in cui,
di fronte al perdurare della precarietŕ dell’ordine politico, sociale ed
economico del Paese, la propaganda dell’IS, soprattutto nella sua declinazione
di modello para-statale, possa risultare attraente agli occhi delle classi
sociali meno abbienti.
Di fronte a tali
minacce, da diversi mesi la Comunitŕ Internazione discute l’ipotesi di una
possibile missione di stabilizzazione in Libia. La maggiore difficoltŕ
consiste, attualmente, nell’assenza dei presupposti politici interni al Paese
affinché si possa intervenire in un quadro di legalitŕ e legittimitŕ
internazionale, ovvero in seguito alla richiesta di intervento da parte di uno
attore statuale unico.
In un simile contesto,
appare doveroso sottolineare il ruolo nella diplomazia italiana, che potrebbe
avere la forza di coinvolgere in un eventuale processo diplomatico Paesi oggi
agli antipodi come il Qatar, che supporta con fermezza le realtŕ islamiste
libiche, e gli Emirati e l’Egitto, che, al contrario, appoggiano le forze
laiche.
Lo sviluppo di un’agenda
comune dovrebbe essere perseguito anche attraverso un’opera di pressione e
lobby all’interno delle Nazioni Unite, l’unica istituzione internazionale in
grado di elargire la legittimitŕ politica e giuridica necessaria per
intraprendere un’azione piů incisiva in Libia. Tuttavia, occorre sottolineare i
rischi operativi di una eventuale missione militare. Infatti, le milizie dello
Stato Islamico, pesantemente armate grazie ai canali del mercato nero e al
saccheggio degli arsenali gheddafiani, sono pronte ad affrontare l’arrivo di un
dispositivo militare convenzionale, rispetto al quale potrebbero essere in
grado di massimizzare le loro tecniche asimmetriche (attentati, esplosivi
improvvisati, guerriglia, imboscate). Dunque, qualsiasi ipotetico impegno
militare dovrŕ necessariamente mettere in conto possibili pesanti costi umani,
economici e politici.
Naturalmente, come
accennato in precedenza, non č possibile immaginare alcuna iniziativa che
preveda l’uso della forza senza avere una precisa strategia politica e una road
map per il dialogo nazionale. Nonostante le mal celate simpatie di una parte
della Comunitŕ Internazionale e di molte Cancellerie europee per il Generale
Haftar e per il governo di Tobrouk, non č possibile pensare ad un qualsivoglia
processo di dialogo politico libico internazionalmente riconosciuto che, oltre
alle realtŕ sinora citate, non includa i
leader tribali del sud del Paese, soprattutto quelli appartenenti ai gruppi
Tuareg e Toubou, indispensabili per la pacificazione dei territori centrali e
meridionali libici. In questo senso, il coinvolgimento delle tribů e dei poteri
locali appare imprescindibile, poiché avrebbe l’obbiettivo di privare il
network jihadista legato allo Stato Islamico di quel supporto sociale
indispensabile per la conduzione delle proprie operazioni. In questo senso, la
Comunitŕ Internazionale potrebbe ispirarsi alla strategia della formazione dei
Consigli del Risveglio in Iraq nel 2005. In quell’occasione, con una felice
intuizione, il Generale Petraeus, Comandante della coalizione multinazionale in
Iraq, favorě la formazione di una rete di milizie sunnite, alleate alle forze
occidentali, in opposizione ad al-Qaeda in Iraq. Roma potrebbe essere la sede
ideale per un primo, eventuale, conferenza internazionale che dia voce alle
tribů libiche.
Sulla base delle
dinamiche fin qui esposte, l’andamento dei negoziati a Shkirat, la
destrutturazione del sistema statale e la progressiva proliferazione sul
territorio da parte dei diversi gruppi jihadisti, sembrerebbero suggerire la
necessitŕ di politiche di lungo periodo per una reale stabilizzazione del
Paese.
La
situazione sul terreno registra la
prosecuzione del trend, iniziato la
scorsa primavera, di progressivo arretramento delle forze leali al regime
Assad, con conseguenti perdite di terreno (da gennaio 2015 il regime avrebbe
ceduto circa il 20% del Paese) sia a favore dell’ISIS/DAESH - che in
particolare controlla ormai buona parte del Nord-est del Paese con
le sue risorse petrolifere, al punto da aver stabilito nella cittŕ siriana di
Raqqa, e non in Iraq, la propria "capitale" - sia, soprattutto, a favore
delle altre forze ribelli nel Nord-ovest della Siria, nello specifico nella
zona di Idlib e della pianura di Ghab.
Sul
variegato fronte dell’opposizione,
si segnala che alcune milizie ribelli nei mesi scorsi si sono riunite in
un’alleanza di fazioni, il cosiddetto Esercito della Conquista (Jaish al-Fateh), che includono
formazioni riconducibili al Free Syrian
Army tendenzialmente vicino alla Fratellanza Musulmana, gruppi radicali
salafiti come Ahrar al-Sham ed i
qaedisti di Jabhat al-Nusra, gruppo
che, di fatto, guida l’alleanza. Tale coalizione sarebbe stata sostenuta da
Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, al di lŕ delle divergenze, sarebbero
animate da preoccupazioni condivise quali il coinvolgimento dell’Iran nel
conflitto e la minaccia del “Califfato” (inaccettabile soprattutto per i Saud
che non tollerano che altri si proclamino califfi).
Sempre maggiori sono le
perplessitŕ sulla coesione e sulle capacitŕ offensive del Free Syrian Army, accentuate dalle notizie
relative ai risultati deludenti ottenuti dal costosissimo programma di
addestramento di militari siriani condotto dagli americani e dai loro alleati.
Per quanto riguarda DAESH, sul terreno - in conflitto aperto con i tre maggiori attori
della crisi siriana cioč forze governative, opposizione, milizie curde, nonché
sottoposto ai bombardamenti aerei della Coalizione anti-DAESH - l’avanzamento č
controverso: nei mesi estivi si č avuto da una parte un importante arretramento di DAESH nel
Nord-Ovest, su pressione dell’opposizione, e nel Nord, su pressione delle
milizie curde, sostenute dai bombardamenti della Coalizione anti-DAESH;
dall’altro, un’avanzata dal Deserto centrale in direzione di Homs, resa
possibile dall’indebolimento delle forze governative, che ha consentito la
conquista di Palmira in maggio e in agosto della cittadina assira di Al
Qaryatain (Homs), situata ad appena 30 km dal confine libanese, da Homs e da
Damasco.
Sul
piano della risonanza mediatica, l’escalation
dei crimini di DAESH, come la barbara
esecuzione dell’ex capo archeologo di
Palmira e la distruzione del millenario monastero cattolico di Mar Elian ad Al
Qaryatain, appare come un tentativo di DAESH di rivendicare la propria
vitalitŕ.
Situazione umanitaria. Secondo dati ONU del luglio
2015, vi sono circa 12,2 milioni di siriani hanno attualmente bisogno di
assistenza umanitaria e si stima che 220.000 persone sono state uccise dall’inizio
del conflitto nel 2011. Soltanto nel 2015, oltre un milione di persone hanno
lasciato le loro case, aggiungendosi ai 7,6 milioni di sfollati interni giŕ
presenti nel paese. Quanto ai rifugiati nei paesi limitrofi (Turchia, Libano,
Giordania, Iraq), il numero ha ormai superato i 4 milioni (di questi circa il
2-3% cerca rifugio in Europa), facendo registrare la piů grande popolazione di
rifugiati a causa di un unico conflitto da piů di 25 anni (Ruanda).
Riguardo al coinvolgimento degli attori internazionali
sul piano politico e militare, nelle ultime settimane sembrano profilarsi
elementi di novitŕ.
Da un lato, č maturata
la proposta francese di effettuare
bombardamenti contro le forze jihadiste di DAESH non solo in Iraq ma anche in
Siria, accolta con favore anche dal Regno
Unito.
Dall’altro lato, si č
profilato un maggiore attivismo russo, sia sul terreno (tramite la creazione
attorno a Tartus di una base avanzata a Jableh, nei pressi di Latakia), in funzione pro-Assad, sia a livello diplomatico. Non sembra
implausibile che la Russia abbia deciso di aprire all’Arabia Saudita, con il
comune obiettivo di combattere DAESH e che il Presidente della Federazione
russa Putin intenda lanciare un "dialogo a quattro" con Stati Uniti,
Arabia Saudita ed Iran e, forse, portare una proposta in tal senso
all’Assemblea Generale dell’ONU.
Inoltre, il Presidente
Putin sembra deciso a sfruttare i nuovi spazi negoziali aperti dall’attestarsi
delle posizioni occidentali sull’accettazione che l’allontanamento di Assad sia
l’esito di un processo di transizione e non la pre-condizione per avviare il
processo, come avrebbero preteso fino a uno o due anni fa.
Giŕ nelle ultime
settimane, anche in considerazione dell’avanzata di ISIS e di al-Nusra
(affiliato ad al-Qaeda), si č registrato un rinnovato slancio dello sforzo
negoziale tra Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran, Turchia e Inviato
Speciale dell’ONU in Siria (Staffan de
Mistura, giŕ vice ministro degli esteri italiano) per trovare un’intesa su un eventuale governo di transizione, in
base all’accordo di Ginevra del 2012, dal momento che l’indebolimento di Assad
faceva sembrare Mosca propensa a immaginarne un’uscita di scena.
Tuttavia, per il
momento, l’intenso lavoro diplomatico si
č nuovamente arenato sul dibattito ‘ruolo/non ruolo’ che Assad avrebbe
potuto esercitare in questa ipotetica transizione. Staffan de Mistura da parte
sua ha presentato a fine luglio 2015 un nuovo approccio al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU che prevede che le consultazioni tra le Parti siriane si
focalizzino maggiormente lungo 4 aree tematiche: protezione per tutti;
questioni politiche e legali; questioni militari, di sicurezza e
contro-terrorismo; continuitŕ dei servizi pubblici, ricostruzione sviluppo.
Sostenendo tale approccio, a metŕ agosto il Consiglio di Sicurezza ha fatto
appello a tutte le Parti perché si impegnino in buona fede a sostenere gli
sforzi dell’Inviato Speciale per una soluzione politica.
Comincia a prendere
campo tra gli osservatori la tesi
secondo cui, visto che al momento il Califfato sembra essere l’unica forza
ritenuta nemica da tutti (dall’Occidente, cosě come dalla Russia - che vede
con terrore l’ISIS anche per le ripercussioni che il messaggio jihadista puň
innescare nelle enclave musulmane
russe nel Caucaso - e dall’Iran che, tramite le sue milizie sciite, sta
combattendo sul campo l’IS; contrastata - secondo alcuni analisti - anche da
Arabia Saudita, EAU e Turchia), una soluzione percorribile sembrerebbe quella
di unire gli sforzi per eliminare sul campo DAESH (in grado di recare minacce
anche al di fuori della Siria e del Vicino Oriente), lavorando parallelamente a
un processo politico per la formazione di un nuovo governo.
Sarebbe interesse degli occidentali favorire la formazione di un
governo che non sia solo espressione del campo sunnita, rassicurando cosě Russia e Iran, possibilmente allontanando
definitivamente Assad e il suo entourage
dal Paese, come auspicato anche dalla Turchia. Ciň avrebbe un duplice effetto
positivo: allentare un fronte di tensione tra NATO e Russia ed indebolire il
fronte jihadista.
D’altronde, la Russia pur accrescendo il suo sostegno
ad Assad con rinforzi sul campo e forniture di armi - conscia del fatto che gli
occidentali sono restii ad un intervento militare diretto di regime change anche per via
dell’esperienza libica, né sono in grado di contare sulla capacitŕ offensiva
dell’opposizione siriana moderata - intende far leva sul fatto che la minaccia
dell’ISIS e di al-Qaeda costituisce per gli Occidentali una prioritŕ di livello
superiore a quella attribuita ad Assad (seppure preferiscano insistere sulla
tesi del ‘non ruolo’ di Assad in
un’ipotetica transizione).
La Russia dunque
starebbe rafforzando ulteriormente il proprio sostegno militare ad Assad per
soccorrere l’alleato in crescente difficoltŕ – nonché per salvare i propri
interessi nazionali nell’area – anche nella prospettiva di poter tornare al
tavolo negoziale da una posizione di maggior forza. La strategia della Russia
sarebbe dunque quella di contrastare l’ISIS ma anche consolidare il suo ruolo
in Medio Oriente e mantenere i suoi punti di forza in Siria, attraverso un
negoziato in cui il regime di Assad sia parte preminente (se non perfino Assad
stesso) e possibilmente di imprimere un’accelerazione al processo negoziale
prima che si verifichi sul terreno la temuta "battaglia di Damasco".
Da ultimo giungono
dall’Iran, altro alleato degli
Assad, dichiarazioni che segnalano una disponibilitŕ di collaborazione verso
“chiunque” si adoperi per la soluzione del conflitto. Un’apertura,
verosimilmente, al principale antagonista in area, l’Arabia Saudita.
Facendo leva sull’interesse comune di contrastare
l’ISIS, la diplomazia potrebbe ritrovare slancio, riprendendo lo schema di
lavoro elaborato da Kofi Annan a Ginevra nel giugno 2012, sostanzialmente
ancora percorribile - anche
parallelamente ad iniziative militari di contrasto all’ISIS.
Com’č noto, sotto impulso di Kofi Annan, i 5 membri
del Consiglio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU convocati a
Ginevra il 30 giugno 2012 (Conferenza di Ginevra I) raggiunsero un accordo sull’obiettivo prioritario da
perseguire in vista di una soluzione della crisi siriana ovvero una transizione
politica ad un governo di intesa nazionale senza Assad. Venne
pertanto convenuta una roadmap, in vista:
della creazione di un governo transitorio ampiamente inclusivo, dotato di tutti
i poteri; dell’avvio di un processo di dialogo nazionale inclusivo e
costituente, sotto l’egida dell’ONU; dell’avvio di una revisione della
Costituzione da sottoporre a referendum, dell’indizione di elezioni pluraliste.
Tale metodo garantirebbe la continuitŕ delle istituzioni statali ed il
perseguimento dei criminali (principio di accountability).
Contrasto a DAESH (ISIS): ruolo della
Coalizione internazionale
Il Vertice NATO di Newport (4-5 settembre 2014) registrava una notevole
compattezza rispetto alla minaccia mediorientale rappresentata dall’espansione
dell’ISIS in Iraq e Siria e condannava il ricorso alla violenza e i barbarici
attacchi contro le popolazioni civili e le comunitŕ religiose. Minacciava il
ricorso alla difesa collettiva se fosse minacciata la sicurezza di un alleato.
Ribadiva il sostegno al processo politico iracheno.
Tuttavia, la formazione di una coalizione
guidata dagli Stati Uniti e con la presenza di Regno Unito, Francia, Italia e
di altri paesi, per giungere all’obiettivo di contrastare l’ISIS senza tuttavia
l’utilizzazione di truppe di terra, coinvolgendo altresě i vari attori
regionali, in primis la Turchia, č stata decisa a margine del vertice di
Newport. Si č infatti tenuta una riunione ministeriale specifica per il
contrasto a DAESH che ha coinvolto i Ministri
degli esteri e della difesa di dieci Paesi tra cui anche l’Italia, il cui senso
era quello di creare una rete di Paesi piů ampia anche al di fuori
dell’Alleanza atlantica, a partire dai Paesi arabi e islamici, con una
pluralitŕ di strumenti, non solo sul piano militare, ma anche sul versante
dell’aiuto umanitario, del controllo dei flussi economici e finanziari, nella
cornice delle Nazioni Unite.
Perseguendo un approccio
multidimensionale, le principali
linee di azione nelle quali si articola lo sforzo collettivo sono state meglio
individuate successivamente, il 3 dicembre 2014, nel
corso della riunione della coalizione
anti-DAESH (composta da 61 Paesi), a margine della riunione ministeriale
NATO; esse consistono in: contributo militare, contrasto al flusso dei foreign fighters, confronto sul terreno
della narrativa jihadista, lotta alle fonti di finanziamento e assistenza
umanitaria, rinnovo dell’impegno per l’Iraq.
L’ulteriore ministeriale
di Londra del 22 gennaio 2015 ha formalizzato la nascita di un gruppo
ristretto della coalizione, cosiddetto Small Group, composto da 21 Paesi,
tra cui l’Italia, sugli oltre sessanta che partecipano alla coalizione. Allo
tale formazione ristretta, che si riunirŕ con regolaritŕ a livello tecnico e
ministeriale, spetterŕ il compito di supervisione
politica della strategia collettiva.
La seconda riunione ministeriale
dello Small Group, svoltasi il 2 giugno 2015 a
Parigi, ha confermato il sostegno al Primo Ministro iracheno al-Abadi, a cui č
stato dato mandato di rafforzare gli sforzi a favore della riconciliazione
nazionale; ha introdotto un approccio piů flessibile nell’utilizzo delle
risorse e dei meccanismi della Coalizione per fronteggiare la crescente
minaccia posta da gruppi affiliati a DAESH in altre aree come la Libia; ha
adottato un documento di sintesi strategica della Coalizione, la Core Vision, che ne definisce le
finalitŕ, la struttura e l’organizzazione.
Una
successiva riunione (a livello Direttori Politici) dello Small Group, tenutasi a Québec City il 30 luglio 2015, ha
consentito di affinare ulteriormente gli aspetti strategici e operativi legati
alle linee d’azione lungo le quali si esplica la strategia comune.
Un
appuntamento cruciale per la Coalizione č costituito dalla riunione a livello di Capi
di Stato e di Governo (“Leaders’ Summit
on Countering ISIL and Violent Extremism"), che si svolgerŕ il 29 settembre 2015 a margine dell’UNGA, su invito del Presidente
Obama, con l’obiettivo di focalizzare le prioritŕ della comunitŕ internazionale
nella lotta al terrorismo ed alla radicalizzazione.
Impegno italiano nella Coalizione
anti-DAESH
L’Italia, che partecipa attivamente ai
cinque gruppi di lavoro della Coalizione, articola i propri sforzi secondo le 5
linee d’azione concordate insieme agli altri partner:
1.
stabilizzazione: leadership nel coordinamento dell’addestramento delle forze di
polizia irachene (ad opera dell’Arma dei Carabinieri) da dispiegare per la
stabilizzazione nelle aree liberate dalla presenza di DAESH (con prioritŕ,
nell’attuale fase, alla provincia dell’Anbar). Il primo contingente, composto
di 10 unitŕ ha giŕ attivato il primo ciclo formativo a Baghdad. A regime (in
autunno) saranno circa 110. Inoltre, la Cooperazione Italiana č operativa con
progetti a favore dei gruppi maggiormente vulnerabili, nel settore sanitario, e
nella tutela del patrimonio culturale. E’ stato creato un apposti Fondo
dell’UNDP (Funding Facility for Immediate
Stabilization), per mobilitare rapidamente risorse nelle aree liberate, cui
l’Italia ha comunicato la sua intenzione di contribuire.
2.
contrasto
al finanziamento del terrorismo: l’Italia co-presiede il relativo
gruppo di lavoro. Durante la riunione inaugurale di Roma (19-20 marzo) sono
stati delineati i settori principali di contrasto: sistema finanziario
internazionale, sfruttamento delle risorse economiche; le risorse provenienti
dall’esterno; flussi finanziari tra DAESH e suoi affiliati. Sono stati
costituiti altresě sotto-gruppi con specifici compiti. Tra essi, quelli sul
contrabbando di beni culturali ed archeologici, sui flussi finanziari tra DAESH
e i suoi affiliati esterni e sul contrabbando di petrolio. L’Italia ha ottenuto la presidenza del sotto-gruppo sul commercio
illegale di opere d’arte;
3.
impegno
Militare:
fornitura di armi e munizioni alle forze curde irachene; dispiegamento di
assetti aerei; contingente di 280 addestratori, a regime, con ruolo di Lead Nation nell’addestramento ad Erbil
da giugno 2015 a dicembre 2015 (al momento oltre 1200 peshmerga sono stati
formati dal nostro contingente);
4.
contrasto
ai foreign fighters: con l’ampio pacchetto di misure
adottato dal Governo italiano (D.L. 7/2015)[49] nel campo della repressione,
della prevenzione del reclutamento e del contrasto alla propaganda online.
5.
comunicazione
strategica:
azioni di outreach verso le
organizzazioni islamiche italiane per un loro coinvolgimento nell’azione di
contrasto ideologico a DAESH ad opera del Ministero dell’Interno ed una intensa
attivitŕ diplomatica con le leadership
dei Paesi arabi moderati.
di Marco Di Liddo
SETTEMBRE 2015
Mappa della Tunisia. Elaborazione Ce.S.I.
La spinta ottimistica che, a cavallo tra la fine del 2012 e il 2014,
aveva lasciato ben sperare per il futuro del Paese sembra essersi
inevitabilmente esaurita, trascinando nuovamente il Governo Federale
nell’incertezza politica e nell’instabilitŕ securitaria.
Infatti, nel periodo in questione, l’elezione del Presidente Hassan
Sheikh Mohamud, la prima democratica dall’inizio della guerra civile nel 1992,
e le vittorie di AMISOM (African Union Mission in Somalia) a Kisimayo, Baidoa,
Marca e in altri importanti centri urbani delle regioni centrali e meridionali
del Paese, avevano costretto al-Shabaab (Ḥarakat ash-Shabāb
al-Mujāhidīn, Movimento dei Giovani Combattenti) ad una precipitosa
ritirata e all’abbandono di una consistente porzione dei territori sotto il
loro controllo. La rotta del gruppo jihadista, alimentata da crescenti tensioni
interne e dall’abbandono di alcuni leader di lunga militanza quali Hassan Dahir
Aweys, Hassan Abdullah Hersi al-Turki e Sheikh Atom, era stata cosě improvvisa
e vasta da lasciar erroneamente presagire una imminente estinzione
dell’insorgenza di matrice salafita. Probabilmente, il momento piů difficile
per al-Shabaab č corrisposto all’uccisione sia del suo emiro Ahmed Abdi Godane
(Mukhtar Abu Zubair), il comandante che aveva significativamente rafforzato i
legami internazionali del gruppo, eliminato da un raid statunitense il 1
settembre 2014, che del comandante del dipartimento intelligence e sicurezza
del movimento, l’influente Yusuf Dheeq, eliminato nel gennaio successivo.
Tuttavia, ai successi militari, resi possibili soprattutto grazie al
contributo delle truppe ugandesi, etiopi e keniote, nonché al crescente
coinvolgimento di Washington nell’Operazione “Oceano Indiano”[50], non č seguita una
adeguata strategia di riconciliazione tra le istituzioni e la popolazione. Le
problematiche nel ricostruire il tessuto politico e sociale somalo č dovuta a
due ordini di fattori.
Il primo, di natura sistemica, č legato alla tradizionale rivalitŕ e
difficoltŕ di dialogo tra i diversi clan e sub-clan del Paese, che continuano
ad obbedire a logiche familistiche e tribali piuttosto che a logiche politiche
di respiro nazionale. Tale approccio rende estremamente influenti i consigli di
villaggio, i potentati locali, le milizie e i loro comandanti, poco disposti a
subordinarsi al Parlamento e al Governo di Mogadiscio. La frattura tra centro e
periferia č ulteriormente acuita dall’origine stessa dell’attuale classe
dirigente somala, perlopiů espressione della diaspora all’estero e, dunque,
poco rappresentativa e legittimata dalla popolazione nazionale. Inoltre,
occorre sottolineare come a contribuire alla scarsa governance e alla conflittualitŕ interna del Paese sono alcuni
Stati della regione che, pur contribuendo ad AMISOM nel tentativo di
stabilizzare la Somalia e neutralizzare la minaccia jihadista, perseguono i
propri obbiettivi di politica estera. Nella fattispecie, Kenya ed Etiopia
continuano a sostenere milizie, clan e signori della guerra con il fine ultimo
di aumentare la propria influenza nel Paese.
In dettaglio, l’Etiopia punta, nel breve periodo alla costruzione di un
cordone di sicurezza occidentale che renda quanto piů impermeabile possibile il
confine al passaggio di miliziani di al-Shabaab e nel lungo periodo all’ascesa
di un governo che garantisca l’accesso al mare alle imprese nazionali. Da par
suo, il Kenya vorrebbe continuare a sostenere il progetto di rafforzamento
dello Stato Federale dello Jubbaland, una regione che include le province
meridionali somali e che, nel disegno di Nairobi, dovrebbe fungere sia da
zona-cuscinetto per filtrare le incursioni di al-Shabaab sia da autentico
protettorato keniota in Somalia. Infine, nella categoria delle problematiche
sistemiche, bisogna ricordare l’estrema povertŕ in cui vessa il popolo somalo.
Condizione, quest’ultima, che lo rende vulnerabile alla propaganda jihadista e
che alimenta un profondo malcontento che, spesso, si manifesta in una profonda
critica verso le istituzioni centrali.
Come se non bastasse, l’indigenza della popolazione potrebbe rappresentare,
nel breve termine, la condizione di base per la resurrezione del fenomeno della
pirateria nel Golfo di Aden. Infatti, gli elementi che avevano contribuito, a
partire dal 2012, ad abbattere il numero di attacchi erano stati l’efficacia
delle due missioni internazionali anti-pirateria, Ocean Shield della NATO e Atalanta
dell’UE, e la decisione, da parte dei pirati, di investire e “godersi” gli
altissimi proventi dei riscatti ricevuti nel corso degli anni. Tuttavia,
l’esaurimento dei fondi e la difficoltŕ delle attivitŕ ittiche a causa del
perdurare della pesca illegale a largo della Somalia potrebbero spingere le
bande di pirati a riprendere gli attacchi su larga scala.
Oltre ai fattori sistemici, il percorso di stabilizzazione somalo č reso
impervio da fattori contingenti, quale il comportamento talvolta poco
professionale dei militari di AMISOM, accusati di maltrattamenti e abusi verso
la popolazione civile e percepiti, in alcune occasioni, come forze occupanti
piuttosto che liberatrici.
Le criticitŕ del governo e la fase di stallo in cui č entrata AMISOM,
penalizzata dal basso livello addestrativo del contingente e dalla mancanza di
adeguati assetti di supporto aerei, hanno permesso ad al-Shabaab di
riorganizzare i propri ranghi e riprendere una offensiva militare di ampio
respiro. Le nuove manovre da parte del movimento jihadista si sono
concretizzate attraverso due tradizionali direttrici operative: da una parte,
l’utilizzo di attentati suicidi e assalti “mordi e fuggi” nelle cittŕ controllate
dal Governo Federale e dalle sue Forze Armate; dall’altra, attacchi
strutturati, effettuati da gruppi di fuoco numerosi, contro basi di AMISOM e
villaggi contesi o scarsamente protetti. Nel primo caso, appare particolarmente
indicativa la campagna di attentati che ha insanguinato Mogadiscio per tutto il
2015 e che ha avuto il suo apice nell’attacco dello scorso 21 settembre contro
il Palazzo Presidenziale (4 morti e decine di feriti). Tuttavia, č nella
seconda fattispecie che al-Shabaab ha fatto registrare un significativo
incremento nelle attivitŕ. Tra queste, occorre ricordare l’attacco contro la
base AMISOM di Janale (80 km a sud di Mogadiscio), avvenuto lo scorso 3
settembre, che ha causato la morte di 50 soldati ugandesi e la razzia di un
ingente quantitativo di armi e munizioni. Inoltre, appaiono degne di nota le
conquiste dei villaggi di el-Saliindi e Kuntuwarey, situati sulla strada tra la
capitale e il porto di Barawe, ultimo rilevante avamposto costiero controllato
da al-Shabaab. Tali acquisizioni territoriali hanno consolidato il controllo
che il gruppo jihadista ancora ha su una larga porzione delle regioni centrali
e meridionali della Somalia.
In ogni caso, oltre a favorevoli condizioni politico-militari, la
ripresa dell’insurrezione jihadista risponde a logiche di equilibri interni.
Infatti, dopo la morte dell’emiro Godane, il gruppo č stato attraversato da
gravi contrasti tra fazioni per la sua successione. A prevalere č stata la
fazione espressione del clan Diir, lo stesso dell’emiro uscente, fautrice della
prosecuzione del legame con al-Qaeda, dell’afflusso di un notevole numero di foreign fighters[51] e dell’isolamento
della vecchia ala pan-somala del movimento. Tale fazione, che predilige la
centralitŕ della guida politica (Shura) rispetto a quella militare, ha permesso
l’ascesa all’emirato del cugino di Godane, Ahmed Omar. La seconda fazione,
riunita attorno all’Amniyaat (il reparto intelligence e “operazioni speciali”
di al-Shabaab), guidata dal suo capo Mahad Karatey, intende aumentare il peso
dell’ala militare del gruppo e riducendo al minimo l’influenza della Shura.
Inoltre, Karatey vorrebbe denunciare l’alleanza con al-Qaeda e pronunciare il bayat (giuramento di fedeltŕ) nei
confronti dello Stato Islamico, ritenuto un brand piů attraente e necessario
per il definitivo rilancio del movimento jihadista africano orientale. In ogni
caso, entrambe le fazioni concordano sulla natura maturamente transnazionale
ormai assunta da al-Shabaab e sulla portata regionale della sua agenda. In
questo senso, la Somalia continua ad essere uno dei fronti piů caldi per
l’insurrezione jihadista, ma non il solo. Infatti, in prospettiva, il movimento
terroristico sembra essere orientato all’espansione delle proprie attivitŕ in
Kenya e nella regione dei Laghi.
Dunque, alla luce della rivalitŕ tra Ahmed Omar e Mahad Karatey, la
recente ondata di attentati e attacchi potrebbe essere interpretata come il
tentativo della fazione oggi al potere di dimostrare la vitalitŕ e la
pericolositŕ del gruppo nonostante le defezioni e l’uccisione di suoi membri di
spicco, tenendo cosě a freno le correnti di opposizione.
In conclusione, la Somalia appare ben lungi da una situazione di
stabilitŕ tale da permetterle di tornare a pieno titolo nei consessi
internazionali che le competono. Infatti, al momento il Governo di Mogadiscio
risulta ancora troppo debole per pretendere di imporre la propria autoritŕ su
tutto il territorio. Inoltre, senza il contributo dell’Unione Africana, delle
Nazioni Unite e dei partner occidentali, il Paese non sarebbe in grado di
sopravvivere e tornerebbe in balia dell’insorgenza jihadista, con l’inevitabile
compromissione dei timidi risultati sinora raggiunti.
Algeria
(a cura del Servizio Affari internazionali
del Senato)[52]
Dati |
|
Superficie: 2.381.741 Kmq |
Italia: 301.340 kmq |
Popolazione: 39.542.166 (stima luglio 2015) |
Italia: 61.680.122 (stima
luglio 2014) |
Capitale: Algeri |
|
Forma di governo: Repubblica semipresidenziale |
|
Capo di Stato: Abdelaziz Bouteflika (dal 28
aprile 1999) |
|
Capo del Governo: Primo Ministro Abdelmalek
Sellal (dal 28 aprile 2014) |
|
Tasso di crescita: 4% (2014); 2,8% (2013) |
Italia: -0,2% |
Pil pro capite: 14.300
$ (2014); 14.000 (2013) |
Italia: US$ 34.500 (2014) |
Disoccupazione: 9,7% (2014); 9,8% (2013) |
Italia: 12,5% (2014) |
Debito pubblico: 7,5% del Pil (2014) |
Italia: 134,1% (2014) |
Cenni storici
L’Algeria fonda le
proprie basi istituzionali sull’Accordo di Evian, che nel 1962 pose fine alla
guerra d’indipendenza contro la Francia, iniziata nel 1954. Il conflitto
provocň piů di 250.000 vittime e rappresentň anche il tramonto dell’esperienza
coloniale di Parigi, all’epoca giŕ segnata dalle sconfitte nei territori
dell’Indocina. La guerra d’indipendenza ha profondamente segnato la storia del
paese non solo dal punto di vista dell’identitŕ nazionale, ma anche da quello
istituzionale: da allora l’esercito formato dai ranghi del Front de Libération
Nationale (Fln) ha acquisito un ruolo centrale nella vita come garante delle
istituzioni repubblicane.
In questo
contesto, negli anni Novanta l’Algeria č stata nuovamente teatro di violenze,
scoppiate tra i movimenti di ispirazione islamica e l’esercito. Il tentativo di
avviare un processo di democratizzazione si era arenato allorché il partito
islamico del Front Islamique du Salut (Fis) vinse il primo turno delle elezioni
politiche nel dicembre 1991, ponendo le basi per una vittoria al secondo turno.
Di fronte a tale scenario, i militari misero in atto un colpo di stato,
innescando una guerra civile che
si protrasse per tutto il decennio e che causň quasi 200.000 vittime. Da allora
il paese, con l’attuale presidente Bouteflika, ha intrapreso il cammino verso
la normalizzazione, anche se gli strascichi del conflitto restano evidenti, e
ha cercato di consolidare i rapporti con la comunitŕ internazionale.
A livello
regionale sussistono numerosi fattori di instabilitŕ. Su tutti, i rapporti con
il Marocco: le frontiere tra i due paesi sono chiuse dal 1994 e gli scambi diplomatici,
in questi ultimi anni, non hanno prodotto alcun accordo circa il contenzioso
sull’indipendenza dei Sahrawi, nonostante vi siano stati negli ultimi anni dei
tentativi di riavvicinamento tra i due paesi. Il motivo del contenzioso č il
sostegno dell’Algeria al popolo del Sahara occidentale, rappresentato dal
Fronte Polisario (dall’abbreviazione spagnola di Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro).
Quadro istituzionale
La Repubblica
Democratica Popolare di Algeria č una repubblica semipresidenziale. Il
Presidente viene eletto a suffragio universale diretto ogni cinque anni a
maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio. Una modifica costituzionale
del 2008 ha abolito il limite di mandati presidenziali. Il Presidente nomina il
primo ministro che deve avere la fiducia del Parlamento. L'Algeria ha una
struttura parlamentare bicamerale asimmetrica. L'Assemblea popolare, Camera
bassa, č composta di 462 membri eletti a suffragio universale diretto per un
mandato di cinque anni. La camera alta, denominata Consiglio delle Nazioni (Majlis al-Oumma) č invece formata da 144
seggi, un terzo dei quali viene designato dal Presidente della Repubblica e i
rimanenti due terzi vengono eletti con un procedimento indiretto, per un
mandato di sei anni. Il Consiglio delle Nazioni viene rinnovato per metŕ ogni
tre anni.
Politica interna
Le recenti voci sulle
cattive condizioni di salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, eletto per il suo quarto mandato consecutivo nel
2014, hanno riacceso il dibattito sulla successione all'anziano leader, anche
se non si avverte un consenso diffuso attorno al nome di un possibile
successore. Il leader del partito di governo č Ahmed Ouyahia, capo dello staff
del presidente, il quale ha ammesso che Bouteflika č malato ma ha affermato che
č ancora in grado di svolgere le sue funzioni presidenziali. Egli risponde cosě
alle pressioni esercitate dalle opposizioni che vorrebbero una transizione
controllata.
Un gruppo di forze di opposizione guidato dall'ex primo ministro e
candidato presidente Ali Benflis ha formato la campagna per il Coordinamento
nazionale per le libertŕ e la transizione democratica, mentre il Fronte delle
forze socialiste, un'altra forza di opposizione, ha convocato una Conferenza
per costruire un consenso attorno al tema del cambiamento di regime. Il quadro
dell'opposizione appare perň diviso e non in grado attualmente di determinare
un cambiamento di regime, mentre il regime gestisce dall'interno i possibili
cambiamenti.
Si respira dunque un clima di incertezza attorno al futuro del paese e al
dopo Bouteflika. Recentemente č stata avanzata la candidatura come possibile
successore di Bouteflika anche del fratello Said, professore universitario e
consigliere del presidente, ma la scelta non appare sostenuta dal consenso
popolare. Dopo 16 anni consecutivi al potere, molti algerini sembrano stanchi
del regime di Bouteflika e se suo fratello prendesse le redini del potere si
rafforzerebbe questo sentimento di malcontento.
Con l'elezione a
leader del partito Rassemblement
National Populaire (RNP), Ouyahia sembra aver costruito le condizioni per
essere candidato alle elezioni presidenziali. Dopo avere perso la posizione di
primo ministro nel 2012 la sua figura č riemersa al centro del panorama
politico con la nomina a capo dello staff del presidente nel 2014. Negli ultimi
mesi Ouyahia č stato molto visibile sulla scena pubblica, richiamando all'unitŕ
il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), il partito di governo, nei confronti
delle richieste di cambiamento delle opposizioni. Ha anche difeso il capo
dell'esercito Gaid Salah che aveva ricevuto delle critiche per aver interferito
nella vita dei partiti politici. In vista di una candidatura presidenziale,
Ouyahia potrebbe scontare nei confronti dell'opinione pubblica la sua lunga
permanenza al potere, essendo stato Primo Ministro 3 volte dal 1995. Inoltre
sta emergendo una contrapposizione con il Segretario generale del FLN Amar
Saadani che ha criticato l'idea del fronte unico a sostegno di Bouteflika.
Lo stesso Saadani
potrebbe essere un candidato alla presidenza anche se la sua figura appare
divisiva. Anche l'attuale Primo Ministro Abdelmalek Sellal č stato considerato
come possibile candidato presidenziale e, dopo avere avuto un profilo
indipendente, negli ultimi tempi si č avvicinato al FLN e alle elite del
partito. Un altro possibile successore č Lakhdar Brahimi, che č stato inviato
dell'Onu e della Lega Araba in Siria fino al 2014, anche se l'etŕ, 81 anni (3
anni piů anziano di Bouteflika), non gioca a suo favore. Altro candidato
possibile, ma con minori possibilitŕ di riuscita, č Liamine Zeroual, giŕ
presidente negli anni 90'. Tra gli oppositori si sono intensificate le critiche
al regime di Ali Benfils, che ha corso per le presidenziali nel 2004 e nel 2014.
In generale si
assiste a una situazione politica di incertezza riguardo alla transizione del
paese, dovuta anche all'assenza del presidente dalla vita pubblica, che non
consente ai cittadini e al mondo economico e sociale di avere indicazioni
chiare sul futuro del paese. Questo impedisce anche di attirare investimenti
stranieri. Il malcontento popolare si nota soprattutto tra le giovani
generazioni che appaiono disilluse verso un sistema politico percepito come
sclerotico e incapace di rispondere alla domanda di lavoro e di piů alti
livelli di vita. Secondo gli osservatori questi fattori, uniti alle divisioni
che emergono all'interno del regime, potrebbero portare a una destabilizzazione
dell'Algeria. All'inizio di agosto, Bouteflika ha proceduto a un rimpasto
governativo, il secondo dall'inizio dell'anno e il terzo da maggio 2014. Si č
trattato di un rimpasto tutto interno al sistema ed ha interessato i ministeri
del commercio, dell'agricoltura e della gioventů e lo sport: il mutamento
operato non sembra destinato a cambiare significativamente la politica del
governo, né d'altra parte č tale da mutare la percezione dell’esecutivo da
parte della popolazione algerina.
In ambito regionale,
gli eventi in corso nei Paesi confinanti hanno riacutizzato in Algeria il
timore per il deteriorarsi della sicurezza, a causa delle pressioni esterne
provenienti dalla Libia, dai Paesi saheliani e in parte anche dalla Tunisia
(soprattutto nelle zone di confine con Algeria e Libia). Le cellule
terroristiche presenti nel Paese continuano ad attaccare i militari con
preoccupante continuitŕ. L’ultimo episodio risale al 18 luglio 2015, durante le
festivitŕ dell’Eid: 9 militari sarebbero caduti nella regione di Ain Delfa.
Sullo sfondo, i
problemi socio-economici che l’Algeria affronta da tempo: inflazione;
disoccupazione giovanile (superiore al 28%); scarsa diversificazione
dell’economia e forte dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, il cui
prezzo continua a calare. Le misure economiche cui tradizionalmente il governo
ha ricorso – sussidi, finanziamenti a fondo perduto, assunzione nelle pubbliche
imprese o amministrazioni – potrebbero dimostrarsi insostenibili nel medio e
lungo periodo. Inoltre, all’inizio del 2015 si sono registrate una serie di démarches avanzate dalle forze di
opposizione, come quella improvvisata ad Algeri del 14 febbraio, guidata dal
coordinamento che raggruppa la maggioranza delle opposizioni, la CNLTD
(Coordination Nationale pour les libertés et la transition démocratique). La
marcia č stata organizzata a seguito del rifiuto delle Autoritŕ di autorizzare
lo svolgimento di una conferenza sulle “condizioni per la trasparenza delle
elezioni”, preparata dalla stessa CNLTD.
Politica estera
Prioritŕ della
politica estera algerina č il mantenimento di relazioni costruttive con
l'Unione europea, regione che č la principale destinazione del gas esportato
dal paese. Sono cordiali le relazioni con gli Stati Uniti che si basano
soprattutto sulla lotta all'estremismo islamico e sulla tutela degli interessi
americani nei settori del petrolio e del gas.
Il timore che un nuovo fronte di radicalismo islamico, rinfocolato dalla
crisi libica, dalla disfatta dei fratelli musulmani in Egitto e dall'avanzata
di Daesh in Siria e Iraq, possa diffondersi anche nel Nord Africa determina una
concentrazione della politica estera algerina sul contrasto al jihadismo che
rischia di destabilizzare il paese. Ciň sta determinando una tendenza al
rafforzamento della cooperazione regionale e all'aumento delle spese per la
sicurezza.
L’Algeria, che
aveva mostrato scarse affinitŕ politiche con le nuove leadership emerse dalla
Primavera Araba, si confronta adesso con le evoluzioni in corso in Egitto e
Tunisia. Rispetto all’Egitto, le reazioni ufficiali del Governo di Algeri alla
caduta di Morsi sono state improntate alla cautela e al consueto principio di
non ingerenza. Piů veementi i commenti di alcuni partiti di opposizione, che
hanno accusato le forze armate dei paesi arabi di complicitŕ con le “élites
laiche estremiste”. Gran parte dell’opinione pubblica ha accolto con sollievo
l’intervento dell’esercito egiziano, considerandolo necessario per arginare un
Islam politico percepito come aggressivo e inconciliabile con le istanze di
moderazione.
Sicurezza,
controllo delle frontiere e contrasto al terrorismo sono al centro di
un’intensa cooperazione con la Tunisia, soprattutto dopo il gravissimo attacco
terroristico sferrato al confine tra i due paesi il 17 luglio 2014 dalla
brigata Okba Ibn Nafaa, legata ad Ansar Al Sharia, in cui sono morti 14 militari
tunisini e feriti altri 23.
Dopo una ripresa
dei contatti col Marocco e l’avvio di cooperazioni settoriali nel 2012, sono
riemerse le incomprensioni di fondo che ostacolano il processo di
normalizzazione bilaterale, la riapertura della frontiera comune (chiusa dal
1994) e l’integrazione regionale in ambito UMA (Unione del Maghreb arabo, tra
Libia, Tunisia, Algeria,Marocco e Mauritania). La posizione di Algeri sulla
questione del Sahara Occidentale – che continua a rappresentare un elemento di
grande frizione tra i due Paesi – č immutata: l’Algeria non si considera parte
in causa nella questione del Sahara Occidentale, ultimo caso di
decolonizzazione dell’Africa, la cui soluzione deve rinvenirsi nel quadro
negoziale ONU, attraverso il principio dell’autodeterminazione per i saharawi, da esercitarsi attraverso un
referendum che includa l’opzione dell’indipendenza. Ma per Algeri le difficoltŕ
nel rapporto con Rabat sono piů ampie, con rivalitŕ risalenti al periodo
coloniale e che oggi investono anche l’asserita scarsa diligenza della
dirigenza marocchina nel controllare i flussi di traffici illegali (persone,
droga e armi) in direzione dell’Algeria (ciň che motiverebbe la chiusura della
frontiera terrestre).
La situazione in Libia č fonte di estrema preoccupazione per Algeri,
soprattutto in termini di ricadute sulla stabilitŕ e sicurezza interna e
dell’intera regione. Nella convinzione che debba essere perseguita solo la via
di una soluzione negoziale, l’Algeria guarda con preoccupazione al sostegno
(incoraggiamento politico verso posizioni oltranziste, rifornimenti di armi e,
a fortiori, raid o interventi militari) offerto o promesso da alcuni partner
regionali a questa o quella parte libica. Con l’obiettivo di facilitare il
dialogo, l’Algeria ha pertanto avviato consultazioni con esponenti di entrambi
gli schieramenti.
Sul dossier
siriano, la linea seguita da Algeri č stata di favorire una soluzione pacifica
e consensuale che ponesse fine allo spargimento di sangue e rispondesse alle
legittime aspirazioni di libertŕ, democrazia e buon governo, preservando
l’unitŕ, la stabilitŕ e la sovranitŕ della Siria da ogni ingerenza esterna. I
piů recenti e drammatici sviluppi legati all’avanzata dell’ISIS preoccupano
ovviamente Algeri, anche per la possibile presenza di combattenti algerini in
Siria e Iraq.
Sulla questione
palestinese l’Algeria, pur non riuscendo a recuperare il ruolo politico di
riferimento svolto negli anni ‘70, mantiene una posizione radicale nei
confronti di Israele, con cui rifiuta di stabilire relazioni diplomatiche. Crescente
č l’intesa, sui piani sia economico che politico e militare, col Sud Africa. La
visita dello scorso aprile del Presidente Zuma ha confermato la convergenza tra
due Stati che, per il loro potenziale economico, diplomatico e militare,
ambiscono ad un ruolo di leader regionali, espandendo la loro influenza sui due
poli opposti del continente africano.
Bouteflika ha
mantenuto un rapporto di consonanza politica con Cuba, Venezuela e Cina e
impresso nuovo slancio alle relazioni con Teheran, considerata un partner
strategico a livello regionale. Algeri manifesta simpatia per le posizioni
iraniane sul nucleare e sul principio del diritto allo sviluppo di programmi
nazionali di nucleare civile; ha interesse all’avvio di collaborazioni nei
settori spaziale, petrolchimico, ambientale e industriale.
I rapporti
UE-Algeria sono disciplinati dall’Accordo
di Associazione, in vigore dal 2005, che prevede sia una collaborazione
nei settori economico (inclusa l’istituzione di un’area di libero scambio),
sociale, scientifico, culturale e migratorio, sia un dialogo politico in tema
di democrazia, diritti umani, sicurezza e lotta al terrorismo. Per l’UE
l’Algeria dovrebbe essere un mercato di sbocco, un fornitore affidabile di
energia e un garante della sicurezza delle frontiere. Dopo una fase di
freddezza e di frizioni commerciali - seguita alla decisione, presa da Algeri
nel 2010, di sospendere unilateralmente il programma di smantellamento
tariffario previsto dall’Accordo di Associazione - si sta ora registrando un
complessivo rilancio delle relazioni bilaterali.
Economia
La forte
dipendenza che l'economia algerina ha dal settore degli idrocarburi pone serie
sfide a medio e lungo termine, anche a causa della volatilitŕ del prezzo del
petrolio. Il governo intende promuovere gradualmente la diversificazione
dell'economia, favorendo settori produttivi quali il farmaceutico,
l'automobilistico e l'acciaio. Il settore privato č ancora ridotto e lo stato
continua a supportare l'industria per assicurare livelli congrui di lavoro e
produzione.
Il piano di
diversificazione dell'economia nazionale avviato dal Presidente nel 2011
promuove la riduzione dell'import di materie prime quali il cemento, il ferro e
l'acciaio. A tal fine, il governo ha annunciato un progetto di espansione della
produzione siderurgica che dovrebbe risultare nella creazione di un hub
mediterraneo dell'acciaio per tutta l'Africa.
La costruzione di
strade, ferrovie e infrastrutture energetiche, necessaria per promuovere la
diversificazione, č un obiettivo del governo anche se č rallentata dai vincoli
finanziari e amministrativi. Assicurare il fabbisogno energetico č un'altra
prioritŕ, al fine bilanciare l'alto livello di esportazione con la crescente
domanda interna di energia.
La riduzione del
prezzo del petrolio ha determinato una diminuzione della crescita economica che
nel 2015 č prevista attestarsi attorno al 2,6%. Negli anni successivi la
crescita dovrebbe tornare a crescere attorno a una media del 3,4%, un livello
ritenuto ancora troppo basso in relazione alla grande ricchezza naturale e di
materie prime del paese.
La politica
fiscale resta espansiva, con investimenti pubblici, aumenti salariali per i
dipendenti statali e misure di sostegno ai consumi; quella monetaria č mirata
al controllo dell’eccesso di liquiditŕ e dei rischi inflazionistici (insiti
anche negli aumenti salariali). L’inflazione č scesa dall’8,9% del 2012 al 4,5%
del 2013.
Le
privatizzazioni, timidamente avviate nei primi anni 2000, sono state sospese a
partire dal 2008. L’imprenditoria privata, con rare eccezioni, si presenta
polverizzata. Il suo sviluppo č frenato dalla difficoltŕ di accesso al credito,
dall’incertezza del quadro normativo e dalle lentezze burocratiche: aspetti che
si riflettono nel basso posizionamento dell’Algeria nelle classifiche della
Banca Mondiale per “Doing business” (153° posto su 189 paesi, classifica 2013)
e “libertŕ economica” (164° su 189).
La debolezza del
sistema produttivo rende la popolazione dipendente dalle importazioni anche per
il soddisfacimento dei bisogni alimentari. La scarsa produttivitŕ determina
salari bassi e tensioni sociali, aggravate a loro volta dall’elevata
disoccupazione, soprattutto giovanile, in un Paese in cui il 45% degli abitanti
ha meno di 24 anni.
Rapporti bilaterali
Per l’Italia č di
prioritaria importanza assicurare un sostegno adeguato alla stabilitŕ
dell’Algeria, contribuendo anche sul piano economico al progressivo sviluppo e
alla liberalizzazione e modernizzazione del Paese. La convergenza di vedute sulle
principali tematiche di politica internazionale, cosě come nel contrasto al
terrorismo e all’immigrazione illegale, sono state sancite dalla firma nel 2003
del Trattato di Amicizia, Cooperazione
e Buon Vicinato, che prevede la realizzazione di consultazioni annuali,
alternativamente in Italia e Algeria, al piů alto livello politico ed
istituzionale. Nel quadro delle previsioni del Trattato, si sono svolti tre Vertici bilaterali: il 14 novembre
2007 ad Alghero, il 14 novembre 2012 ad Algeri e il 27 maggio 2015 a Roma.
In particolare
l’ultimo vertice bilaterale ha contribuito a un ulteriore rafforzamento dei
legami tra i due Paesi, grazie alla presenza di una qualificata delegazione
algerina (Primo Ministro, Ministro degli Affari Maghrebini, Ministro dell’Industria,
Ministro dell’Energia), accolta dal Presidente del Consiglio, dal Ministro
degli Esteri, dal Ministro dei Trasporti e dal Ministro dello Sviluppo
Economico. Il vertice č stato anche l’occasione per l’adozione di una
Dichiarazione finale e per la firma di 10 tra accordi e intese, nei campi piů
diversificati.
Secondo i dati
ISTAT, nel 2014 l’interscambio commerciale tra Italia e Algeria č ammontato a
8,149 miliardi di euro, con una contrazione annua del 22,7%. Le esportazioni
italiane sono state pari a 4,316 miliardi di euro (+1,2%), le importazioni a
3,833 miliardi di euro (-38,9%): il saldo positivo per la nostra bilancia
commerciale č stato di 483 milioni di euro (nel 2013 la nostra bilancia aveva
registrato un deficit di 2,007 miliardi di euro). L’anno scorso, i macchinari
hanno costituito il 26,6% delle esportazioni italiane, seguiti da “ghisa, ferro
e acciaio” (18,1%) e dai combustibili (9,2%). Nel 2014, i carburanti hanno
rappresentato il 96,9% delle importazioni italiane dall’Algeria.
Dati |
|
Superficie: 446.550 kmq |
Italia: 301.340 kmq |
Popolazione: 32.987.206 (luglio 2014) |
Italia:
61.680.122 (stima luglio 2014) |
Capitale: Rabat |
|
Forma di Governo: Monarchia costituzionale |
|
Capo dello Stato: Re Mohammed VI (dal 30 luglio 1999) |
|
Capo del governo: Abdelillah Benkirane (dal 29 novembre 2011) |
|
Tasso di crescita: 3,5% (2014); 4,4% (2013) |
Italia: -0,2% (2014) |
Pil pro capite: 7.700 US$
(2014); 7.500 US$ (2013) |
Italia:
US$ 34.500 (2014) |
Disoccupazione: 9,6% (2014); 9,2% (2013) |
Italia:
12,5% (2014) |
Debito pubblico (% del PIL): 76,6% (2014) |
Italia: 134,1% (2014) |
Cenni storici
Paese di antichissimo insediamento
(testimoniato da importanti reperti del paleolitico e neolitico) il Marocco
venne successivamente a contatto con Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali,
Bizantini, Arabi, Turchi, Francesi e Spagnoli, e altri popoli ancora. L’invasione
o il contatto con questi popoli non ha perň turbato le caratteristiche proprie
della preesistente etnia berbera, la cui origine risalirebbe alla civiltŕ
caspiana: di esse sopravvivono tuttora la lingua, articolata in numerosi
dialetti, la tradizione, i costumi, le superstizioni, un’arte che si estrinseca
nella decorazione geometrica dei tappeti, del vasellame e della manifattura di
oggetti in argento. E’ tuttavia incontestabile che l’occupazione araba abbia
profondamente influenzato la societŕ berbera che, dopo molte resistenze,
sanguinose rivolte e apostasie, ha
finito con l’accettare l’Islam. Veicolo della religione musulmana fu, nei
secoli, la lingua araba che, a spese delle
lingue berbere, si diffuse dalle pianure alle montagne, dove le popolazioni
sono diventate bilingui. Una ulteriore metamorfosi della realtŕ berbera si ebbe
durante il periodo coloniale, con l’arabizzazione dei montanari scesi verso le
pianure, valorizzate dall’agricoltura europea, e verso le cittŕ, in cerca di
lavoro. Il diretto contatto con francesi e spagnoli ha profondamente
influenzato le popolazioni marocchine, specie quelle urbane. Infine non bisogna
dimenticare l’apporto dell’elemento israelita: oltre al nucleo formatosi in
loco fin dai primi secoli dell’era cristiana, per giudaizzazione dei berberi,
si devono comprendere gli ebrei delle grandi cittŕ discendenti dalle comunitŕ
ebraiche espulse dalla Spagna fra il 15° e il 17° secolo, e quelli delle tribů
montane discendenti dagli antichi immigrati della Palestina e della Cirenaica.
Storicamente,
dinastie regnanti berbere e arabe si sono alternate alla guida del Marocco, la
cui influenza e prosperitŕ č testimoniata dalle antiche cittŕ imperiali (Fez,
Marrakesh, Rabat). In epoca coloniale il Marocco fu oggetto e teatro di contese
fra Spagna e Francia. Nel 1912 il Marocco diviene protettorato francese, ma al
Sovrano, appartenente alla dinastia Filali (dinastia ancor oggi regnante dal
1654, che vanta una discendenza dal Profeta),
venne concesso di mantenere la
sua carica, sia pure con funzioni puramente rappresentative. Negli anni venti,
tuttavia, si rafforza il sentimento nazionalista
marocchino, che sfocia in una ribellione berbera, repressa nel 1926 dai
francesi. Nascono quindi i primi movimenti nazionalisti, che danno vita all’Istiqlal
(partito dell’Indipendenza), cui diede voce il sovrano Mohammed V. Dopo un
lungo periodo di instabilitŕ e un fallito tentativo francese di esiliare il
sovrano, nel 1956 venne proclamata l’indipendenza e Mohammed V assunse il
titolo di re del Marocco nel 1956. Alla sua morte, nel 1962, salě al trono il
figlio Hassam II, che indisse le prime elezioni democratiche nel paese nel
1963. Tuttavia il lungo regno di Hassam II si caratterizzň in termini
autoritari: sospesa la costituzione nel 1965, ebbe inizio un periodo di dura
repressione di tutte le opposizioni interne. Al principio degli anni settanta,
dopo due falliti colpi di stato militari, ebbe luogo, con la “marcia verde”,
l’occupazione militare dei 2/3 del territorio del Sahara occidentale (ex Sahara
Spagnolo), nel frattempo abbandonato dagli spagnoli. Nel 1994, anche a seguito
di pressioni internazionali, Hassan II aprě al multipartitismo. Nel 1997
l’Unione Socialista delle Forze popolari vinse le elezioni e per la prima volta
assume la guida del governo.
Succeduto
nel 1999 al padre Hassan II, l'attuale sovrano Mohammed VI ha promosso una
stagione di riconciliazione e riforme; vengono inaugurati nel 2004 i lavori
della Commissione per l’Equitŕ e la Riconciliazione incaricata di fare luce
sulle violazioni dei diritti umani sotto il lungo regno di Hassan II. Nel 2011
viene approvata la riforma della Costituzione, di cui si dirŕ appresso.
Quadro istituzionale
In
base alla Costituzione del 1962, il Marocco č una monarchia costituzionale. Dal
1999 a capo dello Stato č Re Mohammed VI, alauita, che vanta lo status di sharif, ossia la discendenza dalla
famiglia del Profeta. Tale prerogativa conferisce al sovrano i titoli di
"difensore della fede" e "comandante dei fedeli",
aggiungendo alla funzione politica quella di guida religiosa. Il sovrano
detiene poteri politici molto ampi: nomina il Primo Ministro e gli altri
ministri "di sovranitŕ" (Esteri, Interno, Giustizia e Affari
islamici), comanda le forze armate (essendo il Paese privo di un Ministero
della difesa). L'attuale Primo Ministro č Abdelillah Benkirane, Segretario
generale del partito islamico moderato "Giustizia e Sviluppo", che
nel novembre 2011 ha vinto le elezioni.
Il potere legislativo č affidato a un
parlamento bicamerale formato dalla Camera dei Rappresentanti (Majlis
al-Nuwab), composta da 325
deputati eletti a suffragio universale diretto per un mandato quinquennale, e
dalla Camera dei Consiglieri (Majlis al-Mustasharin), composta da 270
consiglieri che vengono rinnovati per un terzo ogni tre anni attraverso
elezioni indirette. La Costituzione del 1962 č stata emendata nel 1996 con
l'introduzione del bicameralismo e, infine, nel 2011.
Primavera araba e nuova Costituzione
Alla primavera
araba, che in Marocco ha avuto consistenza piů contenuta e pacifica che in
altri paesi del Nord Africa, il Re Mohammed VI ha risposto con un programma di
riforme e una nuova Costituzione - approvata il 1° luglio 2011 e confermata con
referendum popolare - cui hanno fatto seguito elezioni anticipate. Il
nuovo assetto costituzionale introduce elementi di riequilibrio tra i poteri
del monarca e quelli del Primo Ministro e l'apertura a diversi diritti civili.
La nuova
Costituzione prevede: il riconoscimento del berbero quale lingua ufficiale –
accanto all’arabo; l’inviolabilitŕ - e non piů sacralitŕ - della persona del
Re; la costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo e dei meccanismi di tutela;
il potenziamento del potere esecutivo e della figura del Primo Ministro
(designato dal Re all’interno del partito di maggioranza relativa alla Camera
dei Rappresentanti, egli ha il potere di proporre i membri del suo Governo e di
revocarne il mandato); il ruolo centrale del Parlamento (il Governo č
responsabile esclusivamente nei confronti della Camera dei Rappresentanti e non
piů anche nei confronti del Re); il rafforzamento dell’indipendenza del potere
giudiziario; un piů marcato decentramento regionale (le regioni avranno per la
prima volta organismi eletti a suffragio diretto); nuovi meccanismi di
governance, con l’elevazione a rango costituzionale di una serie di organismi
di controllo. Particolare attenzione č dedicata allo sviluppo sociale, anche
nell'ottica della lotta al fondamentalismo.
Politica interna
Il Marocco continua ad avere una solida
stabilitŕ politica. Il Re Maometto VI č la figura politica dominante e la guida
spirituale del popolo (Amir Al-Muminim o Comandante della Fede). Sebbene i
ruoli del Primo Ministro e del Parlamento siano stati rafforzati dalla nuova
Costituzione del 2011, l'agenda politica continua a essere in larga misura
condizionata dal sovrano e dai suoi consiglieri piů vicini. Il complesso
sistema elettorale di tipo proporzionale tende a frammentare il quadro
politico: attualmente in Parlamento sono rappresentati 18 partiti e il partito
di governo "Partito della giustizia e dello sviluppo" (PJD) controlla
solo 107 dei 395 seggi, una situazione che rende difficile portare a termine
delle riforme.
Attualmente il PJD governa con una
coalizione formata anche dai liberali e dal partito pro-monarchia Rassemblement national des indépendants.
Un’intensa stagione elettorale, a livello
locale e nazionale, si č aperta per il Marocco con le elezioni dei
rappresentanti a livello comunale e regionale, il 4 settembre 2015, e con
quelle per le prefetture e province il 17 settembre 2015: in quest’ultimo caso,
gli elettori sono i rappresentanti dei consigli comunali e regionali. Il 2
ottobre si voterŕ per la Camera dei Consiglieri (camera alta): i membri sono
eletti con un suffragio indiretto e a votare saranno i consigli comunali,
regionali e prefettizi e i rappresentanti di categoria (camere di commercio,
sindacati). Si tratta delle prime consultazioni elettorali dall’entrata in
vigore della nuova Costituzione e per la prima volta l’elezione dei Presidenti
delle Regioni avverrŕ a suffragio diretto.
Il PJD ha vinto il 25,7% dei 678 seggi nei
consigli regionali, un netto miglioramento rispetto al 5,5% dei seggi che
deteneva in precedenza. Nei consigli municipali il Partito liberale Autenticitŕ
e modernitŕ (PAM), uno dei principali rivali del PJD, con il 21,1% dei voti č
risultato il primo partito, seguito dal Partito dell'IStqlal (16,2%) e dal PJD
(15,9%).
La vittoria delle elezioni regionali
rafforza il mandato del PJD in vista delle prossime elezioni della Camera bassa
previste per il 2016, ma resta improbabile che il PJD possa avere da solo i
voti necessari a governare.
Il PJD conserva un forte radicamento e la
sua agenda sociale e conservatrice attira una consistente porzione
dell'elettorato. Tuttavia, gli sforzi del Governo e dei partiti politici per
incrementare la base elettorale non hanno ancora raggiunto i risultati sperati.
Infatti, in base all’art. 4 della Legge 57/2011, i cittadini aventi diritto al
voto sono tenuti a iscriversi nelle liste elettorali generali ma, secondo
l’ultimo aggiornamento della lista generale (31 marzo 2014), il numero degli
iscritti (oltre 13 milioni) č ancora al di sotto di quello effettivo degli
aventi diritto al voto. Questo dato č sintomatico di un contesto caratterizzato
da un diffusa sfiducia nei confronti di partiti politici, associazioni e
sindacati da parte della popolazione: basti pensare che, secondo un recente
sondaggio, circa l’80% dei marocchini ignora l’identitŕ dei propri
rappresentanti locali. Negli ultimi anni il Marocco ha compiuto passi in avanti
in materia di diritti civili e umani, anche se permangono alcune criticitŕ
nella regione del Sahara Occidentale.
Il 6 febbraio 2015 il Consiglio dei Ministri
ha approvato un progetto di decreto che dovrŕ essere esaminato dal Parlamento:
si tratta di una Legge organica che doterebbe le regioni (il cui numero passerŕ
dalle attuali 16 a 12) di maggiore autonomia e poteri. La portata di questo
decreto dovrŕ essere inquadrata anche con riferimento alla questione del Sahara
Occidentale e, in particolare, alla proposta marocchina di un piano di ampia
autonomia per le regioni del Sud.
Sul piano della sicurezza il Paese si trova
a fronteggiare, come gli altri Stati della regione, la crescente minaccia
dell’estremismo, associata all’aumento dell’instabilitŕ nella fascia saheliana.
Č in aumento la capacitŕ dei movimenti radicali di ramificarsi nella societŕ
marocchina, anche attraverso le comunitŕ residenti all’estero. La politica
proattiva adottata dal Regno negli ultimi mesi in questo settore ha consentito
di smantellare diverse cellule di jihadisti create per il reclutamento di
terroristi da impiegare nell’organizzazione dello “Stato Islamico” in Siria ed
in Iraq.
Politica
estera
Il Regno del Marocco ricopre da sempre un
ruolo strategico nei traffici commerciali in entrata e in uscita dallo stretto
di Gibilterra. Č in questo senso significativo che il Marocco abbia stipulato
negli anni importanti partnership commerciali e oltre 50 accordi
bilaterali di libero scambio, tanto con i paesi della sponda settentrionale del
Mediterraneo, e in primis con l’Unione Europea, quanto con Stati Uniti,
Turchia, altri paesi mediterranei come Tunisia, Egitto e Giordania, e piů di
recente anche con Cina, Giappone e diverse altre economie latinoamericane,
africane e dell’Europa dell’Est. Nella proiezione estera del paese convivono
dunque sia la vocazione "europea" e la collaborazione con l'UE, sia
la vocazione "africana, araba e mediterranea". Nella strategia
africana del Marocco ha un ruolo centrale la dimensione economica e
commerciale, con un’attenzione particolare alla penetrazione delle imprese
marocchine in questi Paesi, mobilitando ingenti risorse anche grazie alla forte
direzione statale nelle principali aziende del Regno. Questa azione viene accompagnata
da una buona dose di retorica e definita come cooperazione “fraterna” e
“solidale”, ma l’impatto che ha sulle societŕ degli stati africani interessati
č limitato se si guarda agli ambiti della riduzione della povertŕ,
dell’istruzione e della sanitŕ.
Le relazioni con l'Unione europea, che per
il Marocco sono il principale mercato per il commercio, gli investimenti e il
turismo, saranno rafforzate nel medio termine dalla firma di un Accordo globale
di libero scambio. Non ci sono tempi precisi per la sua sottoscrizione
definitiva, anche a causa di frizioni e rallentamenti legati a temi sensibili
come migrazioni, sicurezza e diritti umani.
I paesi occidentali sostengono il Marocco
come paese strategico nella lotta regionale al terrorismo e come porta di
accesso all'Africa Subsahariana. Il Marocco sta assumendo un ruolo sempre piů
marcato nella sicurezza regionale, per esempio contribuendo alla missione, a
guida saudita, nello Yemen e ospitando i colloqui di pace sulla Libia, in uno
sforzo di prevenzione dei fattori di instabilitŕ. D'altra parte questa sua
crescente esposizione sulle questioni di sicurezza potrebbe anche attrarre gli
attacchi dei gruppi estremisti. Il Marocco č uno dei principali fornitori di
truppe per alcune missioni di peacekeeping ONU nel continente (MONUC e UNOCI).
Rabat partecipa altresě a missioni di peacekeeping ONU in altre aree
geografiche (Kosovo, Bosnia-Erzegovina) e, dal 2011, all’operazione NATO
anti-terrorismo Active Endeavour.
Per quanto riguarda la situazione libica, la
posizione di equidistanza dalle parti ha consentito a Rabat di guadagnare la
fiducia di tutte le fazioni e di poter cosě ospitare i round negoziali a
Shkirat nei pressi di Rabat. La costante presenza istituzionale alle varie
sessioni che si sono succedute č testimonianza del costante impegno e della
grande attenzione con cui le autoritŕ marocchine hanno seguito i negoziati. E'
stato di recente anche ribadito l’impegno marocchino nel quadro della
coalizione anti-Daesh. Il Marocco puň vantare una lunga esperienza di contrasto
a movimenti di matrice qaedista e non sembra al momento direttamente esposto al
pericolo dell’avanzata del Daesh. Tuttavia, tra i 1.500 ed i 2.000 c.d. foreign fighters di cittadinanza
marocchina si troverebbero in Siria ed in Iraq per combattere tra le fila del
movimento.
Uno
strumento utilizzato dal Marocco nel contrasto al terrorismo č proprio quello
legato all’ambito religioso e alla sua separazione dalle logiche terroriste. Il
Regno ha messo in campo un’attivitŕ di aggiornamento e formazione degli Imam,
volta a far sě che nelle moschee venga diffuso un messaggio dell’Islam quanto
piů lontano dalla retorica degli integralisti. Tale attivitŕ viene veicolata
attraverso l’istituto di formazione degli Imam Mohamed VI che accoglie anche Imam
provenienti dall’estero.
Recentemente
si segnala la creazione della Fondazione degli oulema africani, che ha
l’obiettivo di coordinare le attivitŕ degli intellettuali di religione islamica
e la promozione di un islam tollerante e moderato, in complementarietŕ con
l’Istituto di formazione degli Imam.
Il Marocco vive i rapporti piů controversi
dal punto di vista politico con alcuni dei suoi vicini, soprattutto con
l’Algeria. I due paesi sono infatti divisi da una rivalitŕ storica, che nei
decenni ha mantenuto lo stato delle relazioni bilaterali costantemente in
tensione. Su queste pesano in maniera determinante tanto il sostegno algerino
al Fronte Polisario (si veda paragrafo),
quanto i contenziosi legati alla definizione territoriale del confine comune (chiuso
dal 1994) e alla gestione dei flussi di immigrazione clandestina. Le tensioni
tra i due stati hanno inoltre pregiudicato finora il coordinamento a livello
regionale nell’attivitŕ antiterroristica, che sarebbe particolarmente
necessaria in considerazione del carattere transfrontaliero del raggio di
azione delle organizzazioni terroristiche attive nei territori marocchino e
algerino, come quella di al-Qaida nel Maghreb (Aqim).
Sempre a livello regionale si registra
qualche tensione con l’Egitto, a causa della salita al potere di Sisi e
dell’estromissione dalla vita politica dei Fratelli Mussulmani, che non č stata
accolta favorevolmente dagli islamisti
marocchini. Da ultimo la dura reazione del Parti Justice et Développement di
fronte alla condanna a morte dell’ex Presidente Morsi ed esponenti dei Fratelli
Mussulmani in Egitto.
Sahara
occidentale e questione Sahrawi
Il Sahara occidentale č una regione che
costeggia l’Oceano Atlantico, stretta tra il Marocco e la Mauritania, e abitata
in prevalenza dal popolo Sahrawi. Dal 1976 la regione č contesa tra il Fronte
Polisario (movimento rappresentante l’etnia saharawi, che ne rivendica
l’indipendenza) e il Marocco, che lo controlla per l’80% della sua estensione.
Il governo di Rabat considera il territorio come una propria regione, anche se
ufficialmente nessun Paese ha riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale
da parte del Marocco.
Dopo i violenti scontri tra le due parti,
nel 1991 le Nazioni Unite hanno avviato la missione di pace, la MINURSO, il cui
mandato viene rinnovato annualmente, con l’incarico di organizzare un
referendum con cui far scegliere al popolo saharawi tra l’indipendenza o
l’autonomia all’interno dello stato marocchino. Ad oggi il referendum non si č
mai tenuto.
L’Inviato Personale per il Sahara
Occidentale del Segretario Generale dell’ONU, l’Ambasciatore statunitense Ross,
ha cercato fin dal gennaio 2009 di far ripartire il dialogo tra Marocco e
Fronte Polisario attraverso colloqui informali, propedeutici alla convocazione
di un vero e proprio round negoziale volto a definire il futuro status della
regione. Gli incontri non hanno prodotto particolari risultati. Nel 2011 le
Parti hanno analizzato per la prima volta assieme ai Paesi osservatori (Algeria
e Mauritania), le rispettive proposte di soluzione del contenzioso (autonomia
sotto sovranitŕ marocchina per Rabat; referendum con opzione dell’indipendenza
per il Polisario). Ciň non ha tuttavia condotto all’avvio di una discussione
“effettiva”.
I negoziati tra le parti sono ripresi recentemente,
dopo un’interruzione di oltre 9 mesi a causa del rifiuto marocchino di
consentire l’ingresso nel proprio territorio dell’Inviato personale del SG ONU
Amb. Ross e dello SRSG e capo della MINURSO Kim Bolduc. Tale irrigidimento era
seguito al rapporto MINURSO dell’aprile 2014 e al tentativo di allargare il
mandato della Missione anche al monitoraggio dei diritti umani. L’impasse
nell’interazione tra ONU e Marocco č stata sbloccata grazie ad un intervento
del SG ONU direttamente su Re Mohammed VI, a fine gennaio. Il mandato della
Missione MINURSO č stato rinnovato da ultimo, senza modifiche significative, il
28 aprile 2015 per un altro anno. Le autoritŕ marocchine hanno manifestato la
loro soddisfazione sottolineando come la risoluzione rappresenti un risultato
prezioso per il Regno, poiché definisce in modo chiaro le regole del processo
politico e negoziale sul Sahara, riconoscendo al contempo gli sforzi del
Marocco come “seri e credibili”.
L’Italia ha sempre mantenuto una posizione
di equidistanza, ribadendo che solo il dialogo diretto tra Marocco e Fronte
Polisario, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, puň definire una soluzione
giusta e duratura che garantisca il diritto all’autodeterminazione del popolo
saharawi. Nell’assenza di una posizione comune europea su questo dossier, il
nostro Paese ha, a piů riprese, invitato Marocco e Polisario a mantenere un
dialogo franco, aperto e senza precondizioni. Tenuto conto che la situazione
umanitaria dei rifugiati saharawi č da molti anni oggetto di forte attenzione
da parte della nostra opinione pubblica, il Governo italiano si č impegnato a
mantenere il proprio sostegno annuale ai programmi dedicati alla realizzazione
di scambi di visite tra familiari saharawi residenti nel Sahara Occidentale e
nei campi profughi di Tindouf, in Algeria (dove si stima risiedano circa
120.000 rifugiati), separati da oltre 35 anni a causa del protrarsi del
contenzioso.
Altrettanto rilevante č l’assistenza offerta
con l’invio di beni alimentari e la realizzazione di programmi di emergenza e
riabilitazione, per garantire migliori condizioni igienico-sanitarie nei campi
saharawi e prevenire l’insorgere di malattie. L’Italia ha pertanto accordando
annualmente un contributo complessivo pari a un milione di Euro, veicolato
tramite le agenzie onusiane che ospitano le popolazioni nei campi di Tindouf.
Contributo che č stato accordato anche per l’anno 2015.
Le agenzie onusiane hanno peraltro lanciato
a piů riprese un allarme in merito alla situazione umanitaria nei campi,
informando come ad oggi gli aiuti umanitari stanziati per il 2015 non
permetteranno di assicurare forniture alimentari di base per i rifugiati
sahrawi, a partire dal prossimo mese di settembre (c.d. breakdown umanitario).
Ciň mentre aumentano le preoccupazioni sul fronte della sicurezza, a causa del
deteriorarsi della situazione nel Sahel, in particolare nei pressi dei campi di
Tindouf, sottoposti a una rafforzata sorveglianza da parte di miliziani
saharawi ed esercito algerino. Dopo l’intervento militare internazionale in
Mali, numerose sono state le segnalazioni di sconfinamenti di gruppi armati in
fuga dal Paese saheliano in direzione dei campi saharawi dove, nell’ottobre
2011, venne sequestrata assieme a due colleghi spagnoli la cooperante italiana
Rossella Urru.
Economia
Il quadro macroeconomico del Marocco č
caratterizzato da rilevanti squilibri strutturali, dovuti sia all’eccessiva
dipendenza dai mercati esteri (soprattutto per le risorse energetiche), che
alla debolezza del settore primario (agricoltura e allevamento), alla scarsa
diversificazione dell’industria nazionale (secondario) e alla insufficiente
competitivitŕ del settore terziario (servizi).
Il Marocco soffre di una carenza di
infrastrutture adeguate allo sviluppo del paese e i progetti di nuove opere
sono rallentati da una burocrazia inefficiente, dal nepotismo e dalla
corruzione. Gli investimenti restano vulnerabili ai tagli, data la continua
esposizione del Marocco a fattori esterni quali il turismo e il prezzo delle
materie prime. Altri fattori di debolezza dell'economia, secondo l'Economist
Intelligence Unit, sono la burocrazia, la scarsa competitivitŕ della forza
lavoro e la concentrazione del potere economico in poche mani.
Nonostante la lenta e fragile ripresa del
continente europeo, che č il principale partner economico del Marocco, č atteso
per il 2015 un tasso di crescita del 4,8%, il doppio rispetto al 2,4% del 2014.
La crescita piů sostenuta del 2015 riflette l'aumento della produzione
agricola, che ha avuto effetto sui consumi privati, e della produzione
industriale. I forti legami con i paesi del Medio oriente e dell'Africa
Subsahariana e la ripresa dell'Euro zona dovrebbero consentire tassi di
crescita sostenuti anche negli anni prossimi. Rimane tuttavia la necessitŕ di
realizzare riforme economiche che sviluppino l'occupazione e gli investimenti e
aumentino la competitivitŕ del paese.
Rapporti
bilaterali.
L’Italia ritiene di prioritaria importanza
assicurare un adeguato sostegno alla stabilitŕ, al progressivo sviluppo e alla
modernizzazione del Marocco, partner d’interesse strategico per la stabilitŕ e
sicurezza nel Mediterraneo e nell’azione di contrasto al terrorismo
internazionale, la criminalitŕ organizzata e l’immigrazione clandestina.
Il quadro di riferimento del rapporto
bilaterale č il Protocollo sulle consultazioni politiche rafforzate firmato nel
2000, che prevede lo svolgimento di riunioni politiche a cadenza annuale, a
livello di Ministri e/o Sottosegretari degli Affari Esteri dei due Paesi,
alternativamente a Roma e a Rabat, sui principali temi bilaterali e di politica
internazionale. Da ultimo, il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini
si č recato in visita in Marocco dal 4 al 6 luglio, accompagnata da una
delegazione di rappresentanti di otto universitŕ e centri di ricerca. Oltre
agli incontri con il Ministro per l’insegnamento superiore, Daoudi, e il
Ministro dell’Educazione Nazionale, Belmokhtar, č stata firmata una
Dichiarazione Congiunta che individua otto assi prioritari di collaborazione
con il mondo universitario e della ricerca marocchino.
L'interscambio commerciale Italia - Marocco
si č attestato a fine 2014 alla cifra di 2,12 miliardi di euro, registrando una
flessione del 3% rispetto al 2013, quando la somma dei flussi di merci tra i
due Paesi era pari ad oltre 2,18 miliardi. In particolare, le esportazioni
italiane verso il Paese nordafricano sono calate del 7,5 %, passando da 1,53
miliardi di euro del 2013 a 1,41 miliardi nel 2014. Le esportazioni marocchine
verso l'Italia, invece, sono aumentate con una dinamica quasi speculare (+ 7,3
%), crescendo da 656 a 704 milioni di euro. Il saldo commerciale rimane quindi
in favore dell'Italia (+ 710 milioni), pur registrando una diminuzione di 163
milioni rispetto al saldo 2013 (pari a 873 milioni).
In ambito UE siamo i terzi esportatori dopo
Francia e Spagna, e i terzi importatori dopo Spagna e Francia. Su scala
globale, invece, nel 2013 siamo stati il settimo fornitore (con una quota di
mercato del 5,17%) e il sesto cliente del Marocco (con una quota del 5,1%). In
questa fase storica di marcate difficoltŕ dei rapporti franco-marocchini,
incrinatisi negli ultimi mesi a causa di reciproche incomprensioni soprattutto
per questioni legate alla cooperazione giudiziaria fra i due Paesi, si
potrebbero aprire per l’Italia nuove opportunitŕ, soprattutto sul fronte
economico.
Particolarmente importante nei rapporti bilaterali la questione
migratoria. La comunitŕ marocchina legalmente residente
in Italia č la prima extra-UE in termini numerici, e la seconda in termini
assoluti (580.000 unitŕ a fine 2014). Si
tratta di una comunitŕ caratterizzata da una forte componente di minori (poco
meno di un terzo del totale), gran parte dei quali nati in Italia. Pur diffusa
su tutto il territorio, la comunitŕ marocchina si concentra nelle aree industriali
del Nord Italia (Lombardia in testa, cui fanno seguito l’Emilia Romagna, il
Piemonte e il Veneto). Secondo rilevamenti dell’ICE, la comunitŕ
imprenditoriale marocchina č la piů numerosa tra quelle straniere in Italia con
oltre 57.000 aziende private, seguita da quella cinese e romena. Il Marocco
figura al primo posto per numero di detenuti in Italia (circa il 20% del totale
dei detenuti stranieri nel nostro Paese).
(…)
Dati |
|
Superficie: 163.610 kmq |
Italia: 301.340 kmq |
Popolazione:
11.037.225 (stima luglio 2015) |
Italia: 61.855.120 (stima
luglio 2015) |
Capitale: Tunisi |
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Forma di governo:
repubblica semipresidenziale |
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Capo dello Stato:
Presidente Beji CAID ESSEBSI (dal 31 dicembre 2014) |
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Capo del Governo: Primo
Ministro Habib ESSID (dal 6 febbraio 2015) |
|
Tasso di crescita: 2,8%
(2014); 2,3% (2013) |
Italia: -0,2% (2014); - 1,9%
(2013) |
Pil pro capite: US$ 11.400 (2014); 11.200
(2013) |
Italia: US$ 34.500 (2014);
34.700 (2013) |
Disoccupazione: 15.2%
(2014); 15,8% (2013) |
Italia: 12,5 (2014); 12,2%
(2013) |
Cenni storici
La Tunisia ottenne
l'indipendenza nel 1956, alla fine dell'occupazione francese (1881-1956). Nel
luglio del 1957 fu instaurata la repubblica, a capo della quale fu eletto Habib Bourguiba. Da allora la vita
politica tunisina fu di fatto monopolizzata da quest’ultimo (rieletto nel 1964,
nel 1974 e nel 1975 confermato presidente a vita) e dal suo partito (il Neo
Destur, denominato dal 1964 Partito socialista desturiano), che garantirono
stabilitŕ al paese, ma con profonde contraddizioni. A misure di tipo liberale,
quali il riconoscimento delle libertŕ fondamentali del cittadino (sancite dalla
Costituzione del giugno 1959), si oppose la realtŕ di un regime a partito unico
e l’intolleranza verso qualsiasi forma di dissenso, nonché il consolidarsi di
una prassi clientelare e di forme di nepotismo. La seconda metŕ degli anni 1970
fu segnata dall’emergere di gravi difficoltŕ economiche, con una lunga fase di
aspre tensioni sociali e la costituzione di due formazioni di orientamento
progressista, il Movimento per l’unitŕ popolare (MUP) e il Movimento dei
democratici socialisti (MDS), che affiancarono il Partito comunista tunisino
(PCT) nell’opposizione clandestina al regime.
In politica estera
Bourguiba stabilě buoni rapporti con i paesi occidentali (ottenendo notevoli
finanziamenti dagli USA) e, dalla metŕ degli anni Sessanta, anche con la
Francia. Con i paesi arabi (la Tunisia era entrata a far parte della Lega araba
nel 1958) i rapporti furono difficili negli anni Sessanta, a causa di un
atteggiamento ritenuto troppo accondiscendente verso Israele, ma si fecero poi
piů distesi. Negli anni Settanta vennero rinsaldati i rapporti con Algeria,
Arabia Saudita e gli stati dell’Africa francofona.
Alla fine degli
anni Settanta divennero evidenti i sintomi di un profondo malessere sociale, in
parte alimentato dal fondamentalismo islamico. Scioperi e insurrezioni – la piů
grave delle quali fu la rivolta del pane, degenerata in una vera e propria
guerra civile nel 1984 – si moltiplicarono, provocando dure repressioni da
parte del regime. Nel 1986 Bourguiba nominň il Generale Ben Ali ministro degli Interni per arginare la deriva
fondamentalista del Mouvement de la
tendance islamique (MTI) e l'anno successivo fu da lui destituito. Divenuto
Primo Ministro, Ben Ali pose fine alle repressioni, introducendo il
multipartitismo ed abolendo la Presidenza a vita. Nel 1989 Ben Ali divenne per
la prima volta Presidente della Repubblica. Anche le presidenziali del marzo
1994 videro una vittoria plebiscitaria (99,9% dei voti) di Ben Ali. Malgrado la
volontŕ di democratizzazione del Paese, il nuovo governo, bloccato dalle
contraddizioni della societŕ tunisina, manifestň comunque un autoritarismo non
molto dissimile da quello del precedente regime, fino a varare nel 1992 una
legge assai restrittiva sui diritti d'associazione. Nel frattempo i rapporti
internazionali videro un andamento alterno delle relazioni con gli Stati Uniti
(peggiorate durante la guerra del Golfo) e il miglioramento di quelle con i
Paesi vicini. Le elezioni dell'ottobre 1999, le prime multipartitiche,
riconfermarono, con larghissimo consenso, il presidente Ben Ali per un terzo
mandato. Nonostante la Costituzione limitasse la presidenza a tre mandati di
governo di cinque anni ciascuno, nel settembre del 2001 Ben Ali veniva scelto
come candidato alla presidenza e, attraverso l'approvazione di un referendum
costituzionale che portava il limite dei mandati presidenziali da tre a cinque
(2002), veniva riconfermato con una larghissima maggioranza nelle elezioni del
2004 e del 2009. Il regime assoluto del presidente Ben Ali doveva, perň, fare i
conti con un malcontento sociale sempre piů crescente, culminato nelle rivolte
di piazza della fine del 2010 e l'inizio del 2011 (la cosiddetta
"Rivoluzione dei gelsomini"). L’inizio della rivolta viene
simbolicamente fatto coincidere con il gesto di protesta di Mohamed Bouazizi,
un giovane venditore ambulante che il 17 dicembre 2010 si č dato fuoco per
protesta nella cittadina di Sidi Bouzid. La rivolta tunisina č stata
all'origine di un'ondata di proteste che ha investito nel corso del 2011
numerosi paesi arabi (c.d. "Primavera araba").
A fronte della
continuazione delle proteste e della decisione da parte dell’esercito di
schierarsi dalla parte dei manifestanti, Ben Alě lasciň infine il potere nelle
mani di un governo provvisorio composto perlopiů da esponenti dell’ex regime e
guidato da Mohamed Ghannouchi. A causa delle contestazioni, quest’ultimo fu
perň costretto a dimettersi; la carica di primo ministro del governo
provvisorio passň quindi a Beji Caid Essebsi, che sciolse la polizia segreta e
guidň il paese nei suoi primi passi verso la transizione democratica. In
ottobre si svolsero le elezioni per l'Assemblea costituente, vinte dal partito
islamista Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi. I partiti della coalizione di
governo nominavano capo dello stato Moncef Marzouki e primo ministro Hamadi
Jebali. Dimissionario dopo appena un anno, Jebali fu sostituito nel marzo 2013
dal compagno di partito Ali Larayedh. La crisi politica del 2013, aggravata dagli attacchi alle ambasciate francese e Usa e dagli scontri
fra le forze dell'ordine e i salafiti, fu superata con l'approvazione quasi
unanime di una nuova Costituzione (26 gennaio 2014) e la formazione di un nuovo governo tecnico
guidato da Mehdi Jomaa. La nuova Costituzione č il frutto di un non facile
compromesso tra le forze politiche rappresentate nell'Assemblea costituente e
ha impresso un senso di svolta alla societŕ tunisina che si apre alle sfide
della democrazia dopo decenni di autoritarismo. Sulla scia di tali cambiamenti
il 1° dicembre 2014 Beji Caid Essebsi č diventato il primo
presidente della Tunisia eletto democraticamente nella storia del paese.
Popolazione e societŕ
La Tunisia, con i
suoi 10 milioni di abitanti, č il paese piů piccolo di tutta l’area maghrebina
e il meno popoloso dopo la Libia. A differenza di quest’ultima, perň, la
Tunisia risulta etnicamente molto omogenea, presentando scarse divisioni dal
punto di vista tribale e religioso, elemento che ne rafforza la coesione
interna. Circa il 98% della popolazione, č araba, mentre la minoranza berbera e
quella ebrea rappresentano ciascuna l’1%. La composizione etnica si riflette a
livello religioso: il 98% della popolazione professa la religione musulmana
sunnita, mentre vi sono piccole minoranze cristiane e afferenti alla religione
ebraica. Il tasso di
crescita della popolazione risulta essere il piů basso di tutta
l’area medio-oriente/nordafrica (MENA), come effetto di un tasso di feconditŕ
minore rispetto agli altri paesi dell’area. La Tunisia ha anche una delle
popolazioni piů urbanizzate di tutta la regione ed č interessata, sia in misura
diretta che indiretta, dal fenomeno dell’emigrazione: migliaia di persone
partono da qui per raggiungere l’Europa, di solito attraverso l’Italia. La
Tunisia vanta livelli di istruzione elevati e un sistema educativo tra i piů
efficienti della regione. Il tasso di alfabetizzazione č superiore a quello di
molti altri paesi maghrebini e mediorientali, specie per quanto riguarda le
fasce giovanili, e sono molti i tunisini che studiano in universitŕ estere. La spesa per l’istruzione
della Tunisia, d’altra parte, č la piů alta di tutta la regione e una delle piů
alte al mondo (oltre il 6,2% del PIL nel 2009; Italia 4,7% nello stesso anno).
A differenza di molti altri paesi dell’area MENA, la
Tunisia non ha nel proprio territorio una rilevante disponibilitŕ di risorse
naturali. Il paese produce gran parte dell’energia consumata, ma le risorse da
esportare sono esigue. Tale condizione ha fatto sě che, rispetto ad altri
attori regionali, il sistema economico tunisino divenisse piů orientato al
manifatturiero e al terziario e all'interscambio con i paesi europei.
Quadro
istituzionale
Prima della
Rivoluzione, la Tunisia era una repubblica presidenziale, con un parlamento
bicamerale, con la Camera alta (dei consiglieri) a composizione mista, elettiva
e di nomina presidenziale. A seguito della "Rivoluzione dei
gelsomini" l'Assemblea Costituente, insediata nel 2011, ha approvato in
via definitiva, il 26 gennaio 2014 la nuova Costituzione tunisina, che ha
introdotto un modello semipresidenzialista corretto e un Parlamento
monocamerale. Il Presidente č eletto a suffragio universale diretto a
maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio; il mandato presidenziale č
quinquennale e rinnovabile una sola volta. L'Assemblea dei Rappresentanti del
Popolo (ARP) si compone di 217 membri eletti a suffragio universale diretto con
metodo proporzionale per un mandato quinquennale.
L'importanza
della nuova Costituzione ha travalicato la dimensione nazionale tunisina e si č
posta, in modo naturale, come esito e modello di una rivoluzione democratica
condotta con metodo inclusivo in un paese arabo mediterraneo. All'atto della
sua adozione, le scelte da essa compiute sono apparse un possibile laboratorio
per il futuro dei paesi arabi. Da qui, forse, l'acutizzarsi della minaccia
terroristica jihadista, che vede nel modello tunisino un elemento fortemente
dissonante rispetto ai propri obiettivi strategici.
La condizione femminile era stata la
prima vittima del conflitto in atto nel mondo arabo fra riformatori laici e
estremisti islamici. In Tunisia invece, per la prima volta, la Costituzione di
un paese arabo ha proclamato solennemente la paritŕ di diritti fra uomini e donne ("tutti i cittadini e le cittadine hanno gli stessi diritti e gli
stessi doveri. Sono uguali davanti alla legge senza alcuna discriminazione").
La formulazione ha dato ragione alle associazioni femministe tunisine che il 13
agosto 2012 erano scese in piazza per denunciare il tentativo messo in atto da
Ennahda di introdurre nella Costituzione il concetto di
"complementarietŕ" della donna rispetto all'uomo, anziché paritŕ.
La Sharia (la legge islamica) non č
richiamata dalla Costituzione come fonte del diritto, e anche se l'Islam č
riconosciuto come religione nazionale viene preservato il carattere laico dello
Stato; infatti contemporaneamente la Costituzione tutela la libertŕ di
religione e di culto. Il capitolo "Diritti e Libertŕ" afferma i
principi della libertŕ di opinione, di espressione, di informazione, di
creazione artistica, di associazione partitica, le libertŕ sindacali, l'accesso
ai social network, il diritto alla riservatezza della corrispondenza e il
diritto di essere immediatamente informati sui motivi della limitazione delle
libertŕ personali.
L'assetto costituzionale dei poteri
delinea un modello di semipresidenzialismo
corretto a favore del premier; la preoccupazione maggiore, per evitare il
ripetersi in futuro di derive autoritarie, č stata quella di un accurato
bilanciamento dei poteri fra il capo del Governo (che detiene la sostanza del
potere esecutivo) e il Presidente della Repubblica, che condivide con il capo
del governo le prerogative in materia di Esteri e Difesa e svolge un importante
ruolo di controbilanciamento dell'esecutivo. Al riguardo: č introdotto il meccanismo della
sfiducia costruttiva, ma il Presidente della Repubblica puň sollecitare un voto
di sfiducia svincolato dall'indicazione di un nuovo Premier; in caso di
impedimento permanente del Capo del Governo, il successore viene indicato
nuovamente dal partito/raggruppamento vincitore alle precedenti elezioni, ma il
Capo dello Stato puň procedere motu proprio in caso di dimissioni o se č stata
approvata la sfiducia da lui promossa (č significativa inoltre la previsione
che il Presidente stesso decada qualora la sfiducia venisse respinta per due
volte); č il Capo del Governo a subentrare ad interim al Presidente della
Repubblica in caso di impedimento temporaneo, ma passati 60 giorni o in caso di
impedimento permanente č il Presidente del Parlamento ad assumere la piů alta
carica dello Stato ed a convocare nuove elezioni presidenziali. Inoltre,
nonostante "la determinazione della politica generale dello Stato"
sia riconosciuta al Capo del Governo, questi condivide con il Presidente della
Repubblica le prerogative su Esteri
e Difesa, il che rafforza l'interdipendenza fra le due cariche.
In tale esercizio
di ricerca di un costante equilibrio tra Poteri, l'Assemblea dei Rappresentanti
del popolo (ARP, il parlamento) e la magistratura hanno un ruolo non di secondo
piano. Se infatti il Presidente della Repubblica puň prendere, in consultazione
con altre Istituzioni, misure eccezionali "in caso di pericolo imminente
per la Nazione o per la sicurezza", queste non possono prevedere lo
scioglimento dell'ARP, la quale dopo trenta giorni puň chiedere alla Corte
Costituzionale di verificare il permanere delle dette circostanze. Tali misure
eccezionali presentano peraltro qualche margine di incertezza e si prestano a
piů di un dubbio interpretativo; la formulazione del relativo articolato
rappresenta perciň una zona grigia che occorrerŕ approfondire.
Qualche
approssimazione č presente anche nel capitolo dedicato alle Istanze
Costituzionali, cinque organi indipendenti (tra essi l'Istanza Superiore
Indipendente per le Elezioni, ISIE) chiamati ad operare per il
"rafforzamento della democrazia".
Il diritto alla
vita č definito "sacro". Come noto, infatti, il relativo articolo
prevede limitazioni "in casi estremi previsti della legge",
formulazione che conferma nei fatti la permanenza nell'ordinamento tunisino
della pena di morte; 102 i deputati contrari all'emendamento che ne prevedeva
l'abolizione (sui 167 presenti al voto). Peraltro la Tunisia aveva votato nel
2012 la Risoluzione ONU sulla moratoria.
Politica interna
Le piů recenti elezioni legislative e
presidenziali, le prime dall'adozione della nuova Costituzione, hanno avuto
luogo rispettivamente a ottobre e a novembre/dicembre del 2014. Le elezioni
legislative sono state vinte dai laici di Nidaa Tounes (NT), che hanno ottenuto
la maggioranza relativa con il 39% dei suffragi e 86 seggi all'ARP; la
formazione islamica moderata Ennahda, che aveva vinto le elezioni per
l'Assemblea costituente nel 2011, ha subito un significativo arretramento,
ottenendo comunque il 32% dei suffragi e 69 seggi. Il partito di maggioranza,
dunque, nonostante l'appoggio di altre due formazioni laiche minori, si č
trovato a dover concludere un accordo informale con Ennahda per la formazione
del nuovo Governo, insediatosi il 5 febbraio scorso e guidato da Habib Essid.
Tra i ministri del nuovo esecutivo sette sono personalitŕ indipendenti.
All'ordine del giorno dell'Assemblea figura l'istituzione del Consiglio
superiore della magistratura e della Corte Costituzionale. Le elezioni
presidenziali sono state vinte da Béji Caďd Essebsi, leader di NT, dopo il
ballottaggio con il Presidente ad interim Marzouki.
Fra i temi all'ordine del giorno si segnala un
disegno di legge, fortemente voluto dal Presidente Essesbi, sulla
riconciliazione nazionale in campo economico e finanziario che porrebbe fine ai
procedimenti penali contro uomini d'affari accusati o condannati per
corruzione. Il disegno di legge, fortemente avversato dalle opposizioni e dalla
societŕ civile, che vi ravvisano un tradimento dello spirito della rivoluzione
del 2011, č sostenuto dall'esecutivo in ragione dell'opportunitŕ di recuperare
in tal modo ingenti risorse economiche in un periodo di crisi.
La vita politica
della giovane e ancora fragile democrazia tunisina č peraltro tuttora dominata
dalla crisi di sicurezza seguita ai gravi attacchi terroristici che hanno
colpito il paese a marzo e giugno di quest'anno. Se dopo l'attentato al museo del Bardo, in cui
hanno perso la vita 24 persone, l'orgogliosa reazione del paese aveva trovato
espressione in una grande marcia internazionale contro il terrorismo, alla
quale avevano preso parte , in segno di solidarietŕ, numerosi capi di Stato e
di governo stranieri, all'indomani dell'attentato di Sousse, che ha colpito una
delle piů popolari mete turistiche del paese e si č concluso con la morte di 38
persone, il Presidente Essesbi ha ammesso che la Tunisia non č in grado di
farcela da sola, senza l'aiuto dei paesi amici. Una serie di misure urgenti
sono state prese per fronteggiare la minaccia terroristica: la chiamata di
circa 1000 riservisti, la chiusura di 80 moschee abusive, l'adozione di una
nuova legge antiterrorismo che contiene la contestata previsione della pena di
morte per i terroristi, e la dichiarazione dello stato di emergenza per tutto
il paese, proclamato dal Presidente Essesbi il 5 luglio scorso e
successivamente rinnovato fino alla fine di settembre. Al terrorismo si
aggiunge il fenomeno dei foreign fighters
tunisini, che si stima siano circa 3000 fra Siria e Iraq, di cui circa
cinquecento sarebbero di recente rientrati nel Paese.
Particolare
rilevanza riveste la nuova legge sul
terrorismo presentata dal Governo il 26 marzo scorso e adottata dall’Assemblea
dei Rappresentanti del Popolo il 24 luglio, essendo l’iter di adozione
stato rallentato dalle polemiche suscitate dalla previsione della pena di morte
per crimini di terrorismo. Essa sostituisce la precedente legge del 2003, specificando meglio la natura di atto
terroristico e individuando nuovi profili di responsabilitŕ anche per chi sostiene
i movimenti estremisti. Essa prevede la creazione di un nuovo quadro giuridico
per l'utilizzo di "mezzi speciali di investigazione"
(intercettazioni, infiltrazioni, ecc), nonché l’istituzione di una nuova
specialitŕ giuridica dedicata al terrorismo e una commissione nazionale per la
lotta al terrorismo, incaricata di controllare l’applicazione delle norme
internazionali e proporre misure da adottare.
Sostegno UE e
bilaterale nel contrasto al terrorismo
In occasione della
visita a Bruxelles del PM tunisino Essid, il 27-28 maggio, il SEAE ha
consegnato alle autoritŕ tunisine un Memorandum che delinea una serie di azioni
urgenti da intraprendere nel campo del contrasto al terrorismo. Esso si
struttura in due parti, la prima riguardante un rafforzamento della
cooperazione tra UE e Tunisia in questo campo, attraverso riunioni periodiche
ad alta frequenza e scambio di informazioni, la seconda focalizzata su nuovi
progetti concreti per rafforzare le strutture tunisine di contrasto al
terrorismo. Si tratterebbe in un primo tempo della messa a disposizione di
esperti europei che potrebbero formare e affiancare i funzionari tunisini. Gli
aspetti operativi delle proposte saranno curati dall’esperto sicurezza
(francese) assegnato alla Delegazione a Tunisi.
Il sopracitato
Memorandun si č andato ad aggiungere a un vasto programma, cui L’UE stava giŕ
lavorando, di “security sector reform” da 23 milioni di euro (fondi ENI) la cui
finalizzazione č stata accelerata dopo l’attentato di Sousse. Il programma si
articola su tre componenti: rafforzamento delle strutture del Ministero
dell’Interno, sicurezza delle frontiere (in cui l’Italia potrebbe avere un
ruolo di primo piano) e assistenza tecnica ai servizi di intelligence in
funzione di lotta al terrorismo.
Il Consiglio Affari
Esteri del 20 luglio ha approvato delle Conclusioni sulla Tunisia,. Il testo
rinnova la solidarietŕ dell’UE nei confronti della Tunisia a seguito degli
eventi di Sousse e fa appello a un approfondimento del partenariato
privilegiato tra l’Unione e la Tunisia. Il CAE sostiene l’iniziativa, proposta
dall’Italia, di una conferenza internazionale sugli investimenti in Tunisia e
sottolinea l’importanza dell’adesione tunisina al programma Horizon 2020 sulla
ricerca. Nell'ambito del sostegno alla Tunisia per il CT e la sicurezza, il
Consiglio sottolinea la risposta positiva delle Autoritŕ tunisine alle proposte
contenute nel Memorandum UE su specifici progetti di CT trasmesso a fine
maggio.
L’assistenza italiana in materia di
contrasto al terrorismo emana in particolare dal processo verbale sottoscritto
dai due Ministri dell’Interno nel 2011, in base al quale l’Italia ha realizzato
un oneroso programma di assistenza tecnica, per un valore di oltre 138 milioni
di euro. Esso ha comportato la cessione di 16 imbarcazioni (4 classe 700, 6
pattugliatori da 34 metri, 6 pattugliatori da 27 metri) per il potenziamento
delle capacitŕ operative di pattugliamento marittimo delle competenti autoritŕ
tunisine. Da ultimo sono stati forniti strumenti di visione notturna per il personale
impiegato nelle aree montagnose prossime all’Algeria, nonché giubbotti
antiproiettile.
Politica estera
Il governo insediatosi a febbraio ha assunto, in
politica estera, un approccio maggiormente pragmatico del suo predecessore: se
il governo guidato da Ennahda aveva assunto posizioni allineate con Ankara e
Doha, e aveva interrotto dal 2011 le relazioni con la Siria di Assad, il nuovo
governo ha invece comunicato di recente la volontŕ di ristabilire le relazioni
diplomatiche con la Siria e con la Libia (dove in aggiunta alle relazioni con
il governo di Tobruk, č stato aperto un consolato a Tripoli), con lo scopo tra
l'altro di studiare le dinamiche di reclutamento di combattenti jihadisti in
tali paesi. Per contro, le relazioni con la Turchia sono attualmente tese,
anche a seguito delle dichiarazioni del ministro degli esteri tunisino che ha
esortato Ankara ad assumere un atteggiamento di maggior rigore contro i flussi
di jihadisti tunisini verso la Siria. Solida la cooperazione con Algeri nella
lotta al terrorismo, avviata a partire dal 2013.
Il 10 luglio gli USA hanno annunciato
l'attribuzione alla Tunisia dello status di major
non-NATO ally, che comporta l'accesso privilegiato a programmi di
formazione, forniture e finanziamenti.
Le relazioni tra la Tunisia e l'Unione europea sono
articolate su diversi piani. In primo luogo, nell'ambito della Politica Europea
di Vicinato (PEV), l'UE riconosce lo straordinario sforzo riformistico della
Tunisia, che testimonia la validitŕ, almeno per il caso tunisino,
dell'approccio del "more for more". A fronte di ciň, la Commissione
ha assicurato che l'allocazione di fondi ENI (European Neighborhood Instrument)
per il 2015 sarŕ almeno pari a quella del 2014 (200 milioni di euro), di cui 70
milioni sono giŕ stati sbloccati a fine maggio. In merito al rinnovamento della
PEV, la Tunisia auspica una maggiore differenziazione dell'offerta europea
basata sulle necessitŕ di ciascun partner del Vicinato. In secondo luogo,
quanto alla cooperazione in materia migratoria, il Partenariato di Mobilitŕ
concluso nel 2014 prevede quattro assi di cooperazione: migrazione legale,
contrasto alla migrazione illegale, approfondimento del nesso
migrazione/sviluppo e protezione internazionale. La Tunisia č parte dei
processi di Rabat e di Khartoum, quadri di dialogo migratorio tra l'Ue e i
paesi dell'area mediterranea e del Corno d'Africa.
Economia
Diversificata, orientata al mercato: l'economia
della Tunisia č stata a lungo citata come una storia di successo in Africa e
nel Medio Oriente, ma deve affrontare una serie di sfide in seguito alla
rivoluzione del 2011. Dopo il fallimento delle politiche economiche di stampo
socialista adottate negli anni '60, la Tunisia ha intrapreso una strategia
incentrata sulle esportazioni, rafforzando gli investimenti esteri e il
turismo, che sono diventati centrali per l'economia del paese. Esportazioni
chiave includono attualmente tessile e abbigliamento, prodotti alimentari,
prodotti petroliferi, prodotti chimici, e fosfati, con circa l'80% delle
esportazioni destinate al principale partner economico di Tunisi, l'Unione
europea. La strategia liberista della Tunisia, insieme agli investimenti in
istruzione e infrastrutture, hanno consentito decenni di crescita ai ritmi del
4-5% annuo del PIL e un considerevole miglioramento del tenore di vita. L'ex
presidente (1987-2011) Zine El Abidine Ben Ali ha continuato a perseguire
queste politiche, ma il sistema clientelare e la diffusa corruzione hanno
ostacolato le performance economiche e la disoccupazione č aumentata a spese
soprattutto della crescente schiera di giovani laureati. Il disagio sociale ha
contribuito al rovesciamento di Ben Ali nel 2011, che ha mandato in tilt
l'economia tunisina a causa della drastica diminuzione degli introiti da
turismo e investimenti. Il tasso di crescita ha toccato nel 2011 il -1,6%, per
poi riprendere a salire negli anni successivi ma sempre a tassi che non hanno
consentito al Paese di ridurre il tasso di disoccupazione, che continua a
superare il 15%. La ripresa dell'economia, peraltro, č giudicata dagli
osservatori fondamentale per il successo del nuovo corso politico. A tal fine
il governo sta predisponendo un piano di risanamento economico e sociale teso
al rilancio di progetti di investimento finora sospesi, specialmente nel settore
delle infrastrutture. La ripresa del turismo, che rappresenta il 7% del PIL
tunisino, non si presenta di facile realizzazione a seguito dei recenti
attentati del Bardo e di Sousse.
Il governo ha recentemente annunciato le linee del
suo piano di sviluppo 2016-20. Gli obiettivi principali del piano quinquennale
sono: la diversificazione dell'economia, fondata su industrie e servizi ad alto
valore aggiunto, innovativi e tecnologicamente avanzati; la promozione di una
maggiore inclusione sociale attraverso il miglioramento dei servizi educativi e
sanitari, il rafforzamento dei diritti delle donne e la riduzione della
povertŕ; la riduzione delle disparitŕ regionali; e il miglioramento della
protezione dell'ambiente e il taglio consumo energetico. Il piano fissa il
target di crescita media annua al 5% per il periodo 2016-20.
Il Piano di Sviluppo sembra riflettere la volontŕ
di mantenere i finanziamenti del FMI, della Banca mondiale e di altri donatori.
Il FMI ha di recente affermato che le riforme poste in essere finora sono state
lente ma "soddisfacenti", date gli eventi che il paese si č trovato a
fronteggiare, ed č probabile che accolga con favore l'ulteriore impegno per le
riforme strutturali contenuto nel Piano 2016-20. Il direttore generale del FMI
Christine Lagarde ha promesso ulteriore sostegno al paese nel corso di una
visita a Tunisi a metŕ settembre e il capo della Banca Centrale di Tunisia,
Chedly Ayari, ha annunciato che la Tunisia a breve avvierŕ colloqui con il FMI
per un nuovo stand-by agreement del
valore di circa 1,7 miliardi di dollari.
Rapporti
bilaterali
I rapporti politici bilaterali fra Italia e Tunisia
sono amichevoli e intensi: prossimitŕ geografica, comune appartenenza
mediterranea e il continuo contatto tra le societŕ civili contribuiscono al
loro sviluppo. Comuni le sensibilitŕ
su numerose tematiche di rilievo internazionale. L’ampio partenariato investe
settori come la lotta al terrorismo internazionale e il contrasto
all’immigrazione clandestina. Nel maggio 2012 i due
paesi hanno istituito un Partenariato Strategico Rafforzato, in attesa di riattivazione sul
piano dei vertici periodici.
Numerosi gli scambi di visite ai
massimi livelli. Si ricorda da ultimo l'incontro del Ministro Gentiloni con il
suo omologo Baccouche lo scorso 24 agosto a Rimini, dedicato ai temi della
sicurezza e del sostegno economico, e la visita del Presidente Mattarella a
Tunisi, il 18 maggio 2015, in occasione della quale č stato firmato il
Memorandum di Cooperazione italo-tunisino 2014-2016 per la programmazione delle
attivitŕ di cooperazione.
In campo economico, l'Italia č il secondo partner commerciale della
Tunisia, con un trend positivo; settore d'elezione della presenza di imprese
italiane in Tunisia č il tessile/abbigliamento, ma sono anche rilevanti il
settore turistico (circa 500.000 presenze italiane annue prima della crisi) ed
energetico (transita in Tunisia un importante tratto del gasdotto TTPC, che
collega Italia e Algeria). Č da menzionare l'azione di sostegno all'economia
tunisina da parte dell'Italia, che si č espressa da ultimo nella lettera,
firmata dal ministro Gentiloni e dall'omologo francese Fabius, indirizzata alle
istituzioni europee per promuovere il sostegno internazionale alla Tunisia e
per proporre l'organizzazione di una Conferenza internazionale per gli
investimenti da tenere in Tunisia nella seconda metŕ del 2015. Sul piano
bilaterale, avrŕ luogo a Tunisi il prossimo ottobre un Forum economico Italia -
Tunisia.
In tema di cooperazione allo sviluppo, si segnala il giŕ menzionato Memorandum
di cooperazione italo-tunisino 2014-2016, che prevede un pacchetto di
iniziative a dono per 11,6 milioni di euro e un intervento a credito di aiuto
del valore di 50 milioni, nonché l'attuazione di un'operazione di conversione
del debito di 25 milioni di euro per realizzare progetti sociali nelle aree
svantaggiate del Paese.
La collaborazione bilaterale nel settore migratorio
si basa su uno scambio di note del 1998 sull'ingresso e il soggiorno sul
territorio dei due paesi dei rispettivi cittadini e su un accordo in materia di
lotta alla criminalitŕ del 2003. Nel 2011, in conseguenza dell'eccezionale
flusso migratorio irregolare seguito alla rivoluzione dei gelsomini, č stato
concluso un Processo verbale tra i rispettivi ministri dell'interno che prevedeva
procedure semplificate di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari e
ha consentito di ridurre notevolmente i flussi negli anni successivi. Questo
regime, basato su presupposti emergenziali, dovrebbe ora lasciare il posto a un
accordo complessivo sulle migrazioni, in fase di negoziato. Il principale nodo
da sciogliere resta quello delle disposizioni in materia di identificazione e
rimpatrio dei migranti irregolari.
Nel 1991, Italia e Tunisia hanno firmato una Convenzione di Cooperazione
nel campo militare, con incontri periodici della Commissione Militare Mista
italo-tunisina.
L'assistenza
italiana in materia di contrasto al terrorismo si basa anch'essa sul giŕ citato
Processo verbale del 2011, in base al quale l'Italia ha realizzato un oneroso
programma di assistenza tecnica del valore di oltre 138 milioni di euro.
(…)
L’Amm. Enrico Credendino č nato a Torino il
21 gennaio 1963.
Il 18 maggio 2015 č stato designato dal Consiglio degli Esteri e della
Difesa dell'Unione Europea comandante della missione EU NAVFOR MED
contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. La missione durerŕ tre
mesi, dal 27 giugno al 30 settembre 2015.
Credendino e’ entrato in Accademia Navale
nel 1980 terminando il Corso Normale nel 1984 con il grado di Guardiamarina. Ha
una laurea in scienze marittime dall’Universitŕ di Pisa e una in Scienze
politiche dall’Universitŕ di Trieste. Č stato imbarcato
sull’incrociatore Vittorio Veneto, sull’incrociatore Andrea Doria e sul caccia
lanciamissili Ardito, con gli incarichi di Ufficiale Addetto alle artiglierie,
ai sistemi missilistici, di 1° Direttore del Tiro e di Capo Reparto Operazioni.
Ha comandato il pattugliatore Spica, la
fregata Maestrale, la 1^ Squadriglia Pattugliatori – disimpegnando anche
l’incarico di Ufficiale Relatore della Scuola di Comando Navale – e il caccia
lanciamissili Francesco Mimbelli.
Le destinazioni a terra includono incarichi
quali: Comandante della prima e seconda classe degli Allievi dei Ruoli Normali
dell’Accademia Navale di Livorno; Ufficiale Addetto al Reparto Panificazione
Generale dello Stato Maggiore Marina; Direttore dei Corsi Allievi
dell’Accademia Navale di Livorno; Capo dell’Ufficio Politica delle Alleanze
dello Stato Maggiore della Difesa e Vice Capo del Reparto Panificazione
Generale dello Stato Maggiore Marina.
Promosso Contrammiraglio il 1 luglio 2011,
ha assunto – sino all’agosto 2013 – gli incarichi di Vice Comandante delle
Forze d’Altura e Deputy Commander of the Italian Maritime Forces, di Comandante
della Forza Anfibia Italo–Spagnola e di Comandante del Gruppo Navale Italiano.
Tra agosto e dicembre 2012 č stato al
comando della Forza Navale europea EU NAVFOR impegnata nell’operazione
“Atalanta” contro la pirateria nelle acque del Corno d’Africa.
Da agosto 2013 č Capo del 3 Reparto Pianificazione Generale dello Stato
Maggiore della Marina. Dal 2014 č ammiraglio di divisione.
Č sposato ed ha una figlia.
Hanna Hopko č nata
il 4 marzo 1982 ad Hanachivka. Nel 2004 ha conseguito un Master in Giornalismo internazionale all’Universitŕ di Leopoli. Ha
studiato alla Bloomberg School of Public Health dell’Universitŕ Johns Hopkins e
nel 2009 ha ottenuto un PhD
all’Universitŕ statale Taras Shevchenko di Kiev. Ha seguito corsi di
perfezionamento alla Scuola di Studi politici ucraina.
Dal 27 novembre
2014 ricopre la carica di Presidente
della Commissione Affari esteri del Parlamento ucraino.
Č componente del
Comitato esecutivo per le riforme del Consiglio nazionale per le riforme e del
Centro d’azione per la lotta alla corruzione.
Dal 2005 al 2007 ha lavorato come manager per la comunicazione per
l’Ukraine Citizen Action Network. Ha tenuto
corsi di giornalismo in materia ambientale.
Nel 2009 ha
co-fondato il "Life" Regional Advocacy Center, principale partner in
Ucraina della Bloomberg Initiative per la riduzione dell’uso del tabacco, di
cui č stata Vice Direttore fino all’aprile 2012. Nel 2009, ha ricoperto la
carica di coordinatore della Coalizione nazionale delle ONG ed Iniziative per
un’Ucraina libera dal fumo; in tale qualitŕ ha patrocinato con successo 5 leggi
per il controllo dell’uso del tabacco.
Nel gennaio 2012, č entrata far parte del
Consiglio di Amministrazione dell’ospedale pediatrico Ohkmatdyt.
Dal 2010 al 2012, Hanna Hopko č stata
consulente del Gruppo parlamentare Moralitŕ, Spiritualitŕ e Salute pubblica.
Dal gennaio 2011 al settembre 2014 ha
lavorato come esperta all’Istituto per l’Educazione politica e al National
Democracy Institute (NDI). Da febbraio a settembre 2014 ha lavorato come
coordinatrice dell’Iniziativa Reanimation Package of Reforms, che riunisce
attivisti, esperti e giornalisti per promuovere e accelerare le riforme nel
Paese. Ha fatto parte di un gruppo parlamentare Platform of the Reforms.
Nel 2014 č stata eletta al Parlamento
ucraino nelle fila di Self Reliance, un partito politico fondato dal sindaco di
Leopoli che si ispira ai principi della moralitŕ cristiana e del buon senso. Il
31 agosto č stata espulsa dal Partito per aver sostenuto gli emendamenti alla
Costituzione ucraina che prevedevano la decentralizzazione e maggiori poteri
per le aree sotto l’influenza dei separatisti russofoni.
Č sposata ed ha un
figlio.
Il gen. Luciano Portolano č nato ad Agrigento il 18 settembre 1960.
Dal luglio 2014 č
Comandante della missione UNIFIL in Libano.
Ha iniziato la
carriera militare frequentando l'Accademia Militare di Modena prima e la Scuola di applicazione di Torino poi, conseguendo la Laurea in Scienze
Strategiche. Successivamente ha conseguito i Master in "Gestione Integrata
e Sviluppo delle Risorse Umane" e in "Scienze Strategiche".
Ha operato in
molte missioni/operazioni militari al di fuori del territorio italiano:
Dal 2007 al 2010 ha prestato servizio come addetto militare presso
l'ambasciata italiana a Londra. Dal 2010 al 2012 č stato il Comandante della Brigata Sassari.
Successivamente č
stato impiegato presso il COI.
[1]https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/7891Transforming%20Our%20World.pdf
[2]Traduzione
da: UN (2015), Statement by the Secretary-General following agreement on the
Outcome Document of the Post-2015 Development Agenda, New York, 2 August 2015,
http://www.un.org.
[3] M. Zupi (2013),” L’agenda di
sviluppo post-2015”, CeSPI, Osservatorio
di Politica Internazionale, N. 79, Roma.
[4]
https://sustainabledevelopment.un.org/sdgsproposal
[5]
http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/69/315&Lang=E.
[6]
https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/4673techreport.pdf.
[7]
http://www.un.org/en/ga/president/68/pdf/stocktaking/PGA%20Stocktaking%20Event%20-%20Summary.pdf.
[8]https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/8932013-05%20-%20HLP%20Report%20-%20A%20New%20Global%20Partnership.pdf.
[9] http://unsdsn.org/wp-content/uploads/2013/06/140505-An-Action-Agenda-for-Sustainable-Development.pdf.
[10]
http://www.un.org/disabilities/documents/reports/SG_Synthesis_Report_Road_to_Dignity_by_2030.pdf.
[11]
http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/70/75&referer=/english/&Lang=E.
[12]Beyond
2015 (2015), New Global Sustainable Development Goals demand bold
implementation commitments by Governments, Brussels (and globally), August 5,
http://www.beyond2015.org.
[13]Donne, bambini e giovani,
popolazioni indigene, ONG, autoritŕ locali, lavoratori e sindacati, mondo del
business e aziende, comunitŕ scientifico-tecnologica, contadini.
[14]Redazione
(2015), “The 169 commandments. The proposed sustainable development goals would
be worse than useless”, e “Global economic development. Unsustainable goals:
2015 will be a big year for global governance. Perhaps too big”, The Economist, 28 marzo.
[15]
M. F. Bellemare (2015), “Development Bloat. How Mission Creep Harms the Poor”, Foreign Affairs, 5 gennaio.
[16]
Il Gruppo dei 77 č la
maggiore organizzazione intergovernativa dei paesi in via di sviluppo in seno
alle Nazioni Unite, ed ha lo scopo di fornire ai paesi del Sud i mezzi per
articolare e promuovere i propri interessi economici collettivi e aumentare la
loro capacitŕ negoziale comune su tutte le principali questioni economiche
internazionali. Il G77 promuove inoltre la cooperazione Sud-Sud per lo
sviluppo. <http://www.g77.org/> (N.d.R.)
[17]
http://www.theguardian.com/global-development/2014/sep/24/un-begins-talks-sdgs-battle-looms-over-goals.
[18]
Leo Williams (2015), Beyond 2015 and ‘Transforming Our World: The 2030 Agenda
for Sustainable Development’
Submitted on Tue, 08/11/2015 - 11:04,
http://www.beyond2015.org.
[19]DeenT.
(2015), U.N. Targets Trillions of Dollars to Implement Sustainable Development
Agenda, Inter Press Service, http://www.ipsnews.net/
[20]
ODI, ECDPM, GDI, Universitŕ di Atene, Southern Voice Network (2015), 2015 European Report on Development:
Combining finance and policies to implement a transformative post-2015
development agenda, Commissione Europea, Bruxelles.
[21]Anyangwe
E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed
reception, The Guardian, http://www.theguardian.com.
[22]UNDESA
(2015), Financing sustainable development and developing sustainable finance. A
DESA Briefing Note On The Addis Ababa Action Agenda, New York.
[23]Termine coniato nel 2008 da JP
Morgan e Rockefeller Foundation per definire una nuova classe di investimenti
in grado di generare impatto come parte intrinseca dell’investimento, misurare
le ricadute in termini di esternalitŕ sulla comunitŕ di riferimento e
valorizzare il ritorno economico almeno pari al capitale investito. Si tratta,
cioč, di investimenti che generano nuovo valore per le comunitŕ territoriali,
producendo alto impatto sociale, ambientale e occupazionale. Come esempi
pratici, si citano gli Smart system (cioč progetti che consentono di rendere
intelligente il funzionamento degli edifici pubblici), lo sviluppo di nuove
strumentazioni tecnologiche, sistemi di filtraggio e conservazione dell’acqua,
sistemi di riciclo e trasformazione dei rifiuti, sviluppo e conservazione delle
energie rinnovabili,sistemi di formazione a distanza. Oggetto di particolare
attenzione e discussione in proposito č la definizione di metodi di misurazione
dell’impatto degli investimenti: un esempio concreto č rappresentato dal
catalogo IRIS gestito dal Global Impact
Investing Network, o GIIN (si veda: https://iris.thegiin.org/).
[24]Anyangwe
E. (2015), Glee, relief and regret: Addis Ababa outcome receives mixed reception,
Thursday 16 July 2015 13.25; Ní Chonghaile C. (2015), Addis Ababa outcome:
milestone or millstone for the world's poor?, Thursday 16 July 2015 11.19,
http://www.theguardian.com.
[25]Adams
B., Luchsinger G. (2015), An Action Plan Without Much Action, Global Policy
Watch, www.globalpolicywatch.org.
[26]
Addis Ababa CSO FfD Forum (2015), Third FfD Failing to Finance Development.
Civil Society Response to the Addis Ababa Action Agenda on Financing for
Development, Addis Ababa, 16 July 2015, https://csoforffd.wordpress.com.
[27]Inman
P. (2015), Rich countries accused of foiling effort to give poorer nations a
voice on tax, http://www.theguardian.com.
[28]Government
of Netherland (2015), Government stepping up support to developing countries on
tax issues, News item 22-06-2015, http://www.government.nl.
[29]
The Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation
(2015), Declaration, www.icrict.org.
[30]Adams
B., Luchsinger G. (2015).
[31]Eurodad
(2015), Press Statement on the Addis Ababa FfD outcome, www.eurodad.org; Terlecki S. (2015), Addis Ababa: 'New Flower' of an
Ambitious and Comprehensive Financing Framework?, 17 July 2015, CONCORD, www.concord.org.
[32]
Romero M.J. (2015), What lies beneath? A critical assessment of PPPs and their
impact on sustainable development, Eurodad, www.eurodad.org; Buckley J. Sekidde
S. (2015), Understanding private health care in Somalia, Oxford Policy
Management, http://www.opml.co.uk.
[33] Nel 2000, l’Assemblea Generale – nel corso della 23a sessione speciale “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo
e pace per il 21° secolo” - ha riesaminato i progressi compiuti
nell’attuazione degli obiettivi contenuti nella Platform for Action e ha adottato due risoluzioni contenenti,
rispettivamente una Dichiarazione politica e Ulteriori Azioni e Iniziative per
attuare la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di Azione.
[34] Dal 1948 ad oggi sono 71 le operazioni di peace-keeping (Fonte: http://www.un.org/en/peacekeeping/resources/statistics/factsheet.shtml) vedi anche: http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/operationslist.pdf
[35] Boutros
Boutros Ghali, An Agenda for Peace - Preventive Diplomacy, peacemaking and
peacekeeping, in http://www.unrol.org/files/A_47_277.pdf
[36] Brahimi Lakhdar, Report of the
Panel on United Nations Peace Operations, in
http://www.unrol.org/files/brahimi%20report%20peacekeeping.pdf
[37] Official Records of the General Assembly, Sixty-fifth Session, Supplement No. 19
(A/65/19).
[38] http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/61/858 "Secretary General Comprehensive report
on strengthening the capacity of the
United Nations to manage and sustain peace operations".
[39] Per approfondimenti sul tema vedi: il dossier
della serie "Documentazione e Ricerche" del novembre 2011,
predisposto dai Servizi Studi della Camera dei deputati (n. 296) e del Senato
della Repubblica (n. 318) "Incontro delle Commissioni Affari Esteri e
Difesa della Camera e del Senato con il Capo del Dipartimento per il sostegno
logistico alle operazioni di pace delle Nazioni Unite" (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00737585.pdf)
[40] Vd il sito internet della 'Conduct and discipline Unit" http://cdu.unlb.org/
[42] Per l'elenco delle 16 operazioni in corso e
per la speciale missione politica in Afghanistan vedi: http://www.un.org/en/peacekeeping/operations/current.shtml
[45] Barbara Miller, Milad Pournik, and Aisling Swaine, Women in Peace and Security through United
Nations Security Resolution 1325: Literature Review, Content Analysis of
National Action Plans, and Implementation, The George Washington University Institute
for Global and International Studies , 2014.
[46] Aggiornamenti a
cura del Servizio Studi della Camera
[47] Triton č stata potenziata a seguito del Consiglio europeo
straordinario del 23 aprile 2015 che ne ha triplicato la dotazione finanziaria
e ne ha esteso l'area operativa e ha potenziato i mezzi a sua disposizione che
giungeranno, in estate, a contare 3 aerei, 6 navi da pattugliamento offshore,
12 barche da pattugliamento, 2 elicotteri, 9 squadre di debriefing e 6 di monitoraggio.
[48] Aggiornamento: 22 settembre 2015.
[49]
Recante Proroga missioni internazionali e contrasto al terrorismo.
[50]
Lanciata il 16 agosto 2014, l’Operazione Oceano Indiano č guidata dal governo
federale somalo, con l’assistenza di AMISOM e delle Forze Armate statunitensi e
mira ad eliminare le residue sacche di resistenza nei territori controllati
prevalentemente dalle autoritŕ di Mogadiscio. Washinton contribuisce con una
componete di velivoli a pilotaggio remoto, sia armati che per ricognizione ed
intelligence, operanti dalle vicine basi di Djibouti e Arba Minch in Etiopia, e
con piccoli team di9 Forze Speciali.
[51]
Soprattutto di provenienza yemenita, sudanese, eritrea a anglo-americana.
L’ingresso di combattenti stranieri č una misura indispensabile per la
sopravvivenza del gruppo, gravato dall’altissimo numero di defezioni di
miliziani somali a causa della brutalitŕ di al-Shabaab nei confronti della
popolazione civile.
[52] Aggiornamento: settembre 2015. Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani
[53] Aggiornamento: settembre 2015Fonti: MAECI, Economist Intelligence Unit.
Aggiornamento: settembre 2015
[54] Aggiornamento:
settembre 2015. Fonti: MAECI; Cia
World Factbook; Economist
Intelligence Unit; Atlante geopolitico Treccani; notizie di stampa