Le elezioni legislative in Turchia, svoltesi il 7 giugno 2015, hanno segnato una netta battuta d'arresto della presa sulla società del partito islamista AKP del Capo dello Stato Erdogan: sin dal 2002 questo partito, cavalcando un decennio contrassegnato tra l'altro da una notevole crescita economica, con tassi del 4-5% all'anno, aveva costantemente aumentato i propri consensi. Le recenti elezioni politiche hanno visto però, confermando, ma solo in parte le previsioni dei sondaggisti, un calo del 9% dei voti (pari a circa tre milioni) per l'AKP, con conseguente perdita di 71 seggi rispetto alla precedente composizione della Grande Assemblea Nazionale turca, seggi scesi pertanto a 258. In tal modo l'AKP ha perso la maggioranza assoluta che aveva avuto per più di un decennio, che avrebbe richiesto un minimo di 276 seggi. Alla luce di questo risultato ancor più clamorosa appare la smentita dell'elettorato rispetto ai progetti di revisione costituzionale radicale del Capo dello Stato Erdogan, il quale - impegnatosi attivamente nella campagna elettorale destando numerose critiche per la travalicazione del ruolo super partes che l'attuale Costituzione turca prevede per il presidente - aveva caldeggiato per l'AKP una maggioranza tale da consentirgli di procedere risolutamente verso la riforma in senso presidenzialista della Costituzione turca: ciò avrebbe comportato per l'AKP di ottenere almeno 330 seggi, e proprio alla luce di questo obiettivo fallito appare più bruciante la sconfitta del partito di Erdogan.
Ad avvantaggiarsi in modo abbastanza clamoroso della perdita di consensi dell'AKP è stato soprattutto il partito HDP (Partito democratico del popolo), di matrice curda ma largamente aperto a istanze "nazionali" di modernizzazione e ai diritti di altre minoranze, territoriali e non, presenti in Turchia. L'HDP, sotto la leadership congiunta di Sehalattin Demirtas e di Figen Yuksekdag (socialista e storica attivista per i diritti delle donne), ha fatto proprie istanze tipiche delle società più avanzate d'Europa, quali quelle dei diritti degli omosessuali e delle minoranze LGBT, e non a caso, oltre alla valanga di consensi ottenuta nella Turchia sud-orientale a prevalenza curda, il partito ha ricevuto notevoli consensi anche a Istanbul e sulla costa egea più europeizzata. Andando oltre le più rosee previsioni l'HDP ha conquistato il 13% dei voti, ottenendo in parlamento 80 seggi, 30 dei quali sono andati a candidate donne, per non parlare dei deputati appartenenti a comunità minoritarie come quelle alawita, armena, azera, siriaca. Anche le istanze ambientaliste sembrano aver trovato larga eco nel programma elettorale dell'HDP.
Peraltro il risultato dell'HDP nella Turchia occidentale ha certamente sottratto voti a quello che tuttora risulta essere il secondo partito turco, ovvero il Partito kemalista e orientato a sinistra CHP (Partito popolare repubblicano), guidato da Kemal Kilicdaroglu, che ha sostanzialmente tenuto le posizioni precedenti conquistando il 25% dei voti e 132 seggi nella Grande Assemblea Nazionale turca.
In ascesa invece è il partito nazionalista e conservatore capeggiato da Devlet Bahceli, l'MHP (Partito di azione nazionale), che ha conquistato 80 seggi a fronte del 16,3% dei voti.
Quasi superfluo constatare come i risultati delle elezioni turche abbiano suscitato una relativa sorpresa, mettendo in moto da parte dei commentatori una serie di considerazioni volte a fornire una qualche spiegazione soprattutto della notevole battuta d'arresto dell'AKP e dei progetti di Erdogan, e in secondo luogo anche del non meno notevole successo del partito HDP.
Alla base dei fattori che hanno determinato la sconfitta dell'AKP - che, tuttavia, rimane di gran lunga il primo partito e il perno della politica turca - sembra debbano porsi diverse matrici, a partire dal notevole rallentamento della crescita economica, attualmente di poco inferiore al 3%, e senza prospettive immediate di accelerazione – il che si riflette su un tasso di disoccupazione che ha raggiunto l'11%. Come già accennato, la crescita economica dell'era di Erdogan al governo nella Turchia è stata senz'altro cemento fondamentale dell'aggregarsi del consenso attorno all'AKP, partito che aveva esordito sullo scenario politico turco con una certa rottura rispetto all'islamismo nazionale precedente, sposando decisamente la democrazia, l'economia di mercato e l'integrazione europea del paese. Va infatti ricordato che con l'esplodere delle cosiddette Primavere Arabe all'inizio del 2011 quello turco veniva ancora da più parti indicato come un possibile modello evolutivo capace di coniugare l'ispirazione fondamentalmente islamica della cultura e del diritto con processi democratici di stampo moderno. In realtà già dal 2007 era scoppiato un grave conflitto con gli ambienti militari e laici del paese innescato dalla elezione di Abdullah Gul – anch'egli esponente di primo piano dell'AKP - alla presidenza della Repubblica, culminato nello scontro con gli stessi militari e anche con le supreme magistrature del paese, che Erdogan vinceva ricorrendo ad elezioni anticipate nettamente vinte. Emergevano parallelamente nuovi orientamenti di politica estera per una maggiore autonomia di scelta del paese, che privilegiavano i rapporti con i vicini mediorientali, e ciò soprattutto dal 2009, quando al ministero degli esteri turco giungeva Ahmet Davutoglu – attuale premier uscente -, e si iniziava a parlare di neo-ottomanesimo turco, al quale proprio l'inizio delle Primavere Arabe già ricordato sembrava offrire una ghiotta occasione di riconquista almeno parziale del ruolo egemone che la Turchia aveva avuto nel mondo arabo ai tempi dell'Impero ottomano. Proprio dunque quando negli ambienti occidentali si perorava la causa del modello turco, questo modello aveva cambiato sostanzialmente la propria natura, come si evinceva dalla pressione accentuata in Turchia per riaprire spazi di manifestazione del culto islamico e di sua diffusione culturale (istruzione e media) prima radicalmente vietati dopo la svolta kemalista e laica del paese succeduta alla Prima Guerra Mondiale. La parabola ideologica dell'AKP, quindi, sembra essersi risolta nel lento ritorno a quelle posizioni islamiste tradizionali rispetto alle quali l'esordio del partito aveva invece segnato una netta cesura. Con tutto ciò, le ripetute vittorie elettorali legislative e presidenziali dell'AKP sembravano mostrare un sostanziale consenso di larga parte dell'elettorato, soprattutto di quello più conservatore dell'area anatolica – e, si badi bene, di buona parte di quello delle regioni curde sud-orientali, stanco dell'annoso conflitto delle istanze curde con il rigido centralismo statale e fiducioso nelle aperture verso i curdi che a più riprese erano venute da Erdogan. La perdita di consensi dell'AKP a favore dell'HDP nelle recenti elezioni sembra mostrare un riorientamento di queste fasce di popolazione curda contro Erdogan, il che ci conduce ad un altro fattore, forse ancor più determinante, della battuta d'arresto dell'AKP, ovvero quello della difficile situazione regionale e internazionale in cui la Turchia sembra essersi collocata con la politica neo-ottomana.
Va al proposito ricordato che la Turchia era stata per decenni un baluardo essenziale dell'architettura della NATO per impedire all'Unione sovietica un facile sbocco nel Mediterraneo e nell'intera regione mediorientale - in cui pure la diplomazia di Mosca aveva segnato numerosi successi. Il progressivo venir meno dello scenario della Guerra Fredda dopo il 1989 poneva oggettivamente la necessità di una riconsiderazione del ruolo comunque geostrategicamente vitale del paese, al tempo stesso importantissimo per contribuire a far fronte ai conflitti numerosi nell'area mediorientale, e ad essi vulnerabile proprio in ragione della sua collocazione geografica. Nel processo di progressiva riconsiderazione delle radici islamiche del paese intrapreso già con l'affacciarsi sulla scena politica dell'AKP, e poi soprattutto con la forte contrapposizione del partito alle istanze tradizionali della Turchia laica, l'idea di riaffermare in maniera più autonoma il ruolo turco emergeva progressivamente e, come già detto, trovava il proprio mentore in Davutoglu a partire dal 2009: va qui ricordato ad esempio il netto peggioramento delle relazioni con Israele, tradizionalmente assai strette, plasticamente rappresentato dal grave episodio dell'abbordaggio di truppe speciali israeliane della nave Mavi Marmara, che faceva parte di una flottiglia umanitaria in direzione di Gaza. E' tuttavia a partire dal 2011 che si assiste a cambiamenti tali della politica estera turca da sconcertare a più riprese i tradizionali alleati occidentali. Risulta infatti assai singolare che un paese organicamente inserito nell'Alleanza atlantica abbia iniziato a sostenere attivamente in tutti gli scenari delle Primavere Arabe correnti jihadiste in contrapposizione con il potere esistente – anche se non va sottaciuto l'iniziale sbandamento della stessa diplomazia USA, troppo fiduciosa negli sviluppi delle manifestazioni di piazza -: questa mossa, evidentemente volta ad influenzare a favore della Turchia il nuovo corso politico in vari paesi si è risolta di fatto nel costante sostegno a correnti islamiste radicali in seno alle quali è poi nato un fenomeno grave e preoccupante come il terrorismo con ambizioni statuali dell'ISIS. In modo particolare lo scenario siriano, rispetto al quale Ankara, forse immaginando ottimisticamente una rapida caduta del regime di Bashar al Assad, non ha fatto mistero del proprio sostegno ad elementi jihadisti che hanno rappresentato, dopo i primi mesi in cui la rivolta sembrava effettivamente avere i contorni di una protesta spontanea della popolazione contro il regime, il nucleo vero della lotta armata - non a caso queste correnti non sono mai state armate dagli Stati Uniti, pur fortemente orientati contro Assad, proprio per i timori dell'intelligence sulla natura e le possibilità di una loro trasformazione in senso radicale e antioccidentale. Tutto ciò ha assunto contorni tragicamente concreti in occasione dell'assedio della città curdo-siriana di Kobane, situata a pochi chilometri dal confine turco, da parte dell'ISIS: lungi dall'immaginare un proprio intervento, la Turchia ha a lungo esitato persino in ordine alla possibilità di far affluire combattenti curdi a difesa della città dal proprio territorio, e consentendo a fatica solo l'afflusso dei Peshmerga provenienti dal Kurdistan iracheno (territorio che, soprattutto per motivi di forniture energetiche, ha stretti rapporti con la Turchia). La posizione turca sarebbe poi assai più grave se rispondessero al vero le notizie - da ultimo quelle pubblicate ( e corredate di video e foto) dal giornalista Can Dundar sul quotidiano Cumhuriyet (Repubblica), per il quale il presidente ha invocato una condanna per violazione di segreti di Stato – stando alle quali i servizi segreti turchi avrebbero fornito armi tanto ai ribelli siriani quanto ad elementi dell'ISIS. Questo atteggiamento della Turchia è probabilmente costato caro in termini elettorali all'AKP, alienando i consensi faticosamente conquistati anche nell'area sudorientale del paese con l'apertura di spazi alla minoranza curda e con la prospettiva di un accordo complessivo per la soluzione del problema.
Ancora in tema di politica estera va ricordato che la postura della Turchia nei confronti dello scenario siriano ha contribuito a peggiorare i rapporti con un altro attore essenziale in Medio Oriente, l'Iran, che al contrario appoggia il regime di Assad servendosi soprattutto dell'alleato libanese Hezbollah, impegnato in duri combattimenti sul terreno contro le milizie jihadiste sunnite. Nei confronti dell'Arabia Saudita, invece, l'atteggiamento turco verso il conflitto siriano non ha rappresentato motivo di particolare contrasto, proprio in ragione dell'avversione di Riad verso Assad: è invece rispetto all'Egitto che la Turchia ha visto accentuarsi il proprio isolamento, poiché qui l'appoggio saudita è andato interamente all'intervento con cui i militari hanno destituito Mohammed Morsi dalla presidenza, dandosi poi a perseguire in tutti i modi i Fratelli Musulmani. Si tratta in particolare del conflitto intra-sunnita emerso dopo le Primavere Arabe, conflitto in cui le monarchie del Golfo con le loro ingenti risorse sono costantemente schierate contro le istanze di islam sociale rappresentante dalle varie declinazioni della Fratellanza musulmana, laddove la Turchia ha fatto del sostegno a queste la bussola costante della propria aazione. Ricapitolando dunque gli effetti delle scelte turche di politica estera negli ultimi anni, si può facilmente constatare come esse abbiano portato ad un progressivo isolamento del paese confronti dell'Iran, dell'Iraq – la maggioranza sciita di Baghdad non può certo vedere con favore il sostegno turco alla resistenza della minoranza sunnita -, della Siria, dell'Egitto, delle monarchie del Golfo - con la parziale eccezione, forse, del Qatar, anch'esso fomentatore di correnti jihadiste radicali in molteplici scenari. Inoltre Ankara, nonostante le notizie di appoggi diretti all'ISIS, ha probabilmente più subito che sfruttato la nascita e l'espansione dell'ISIS, per combattere il quale vi è stata una oggettiva rivalutazione del ruolo dell'Iran, della Siria e dei curdi – tutti protagonisti in qualche modo sgraditi o non fidati per la Turchia.
La vicinanza del conflitto siriano proprio alla regione a grande presenza curda della Turchia e l'atteggiamento delle autorità centrali di Ankara hanno certamente accresciuto l'allarme nella popolazione curdo-turca, oltretutto impotente di fronte al massiccio afflusso di profughi siriani - e quindi di etnia araba -, con il difficile impatto sull'economia e sulla convivenza nella regione. Più in generale, inoltre, l'evidente scacco della politica estera turca ha probabilmente messo in moto preoccupazioni prima sopite in una popolazione turca che costantemente rivela nei sondaggi di opinione orientamenti pacifisti e contrari anche al coinvolgimento del paese in conflitti stranieri – si immagini quanto le notizie di forniture belliche alle fazioni jihadiste siriane e all'ISIS possano aver scosso l'opinione pubblica proprio nell'imminenza delle elezioni.
L'isolamento regionale turco risulta tanto più grave se coniugato al crescere della distanza rispetto all'Unione europea e più in generale ai paesi occidentali, come si è già ricordato ripetutamente spiazzati dalla sviluppi della politica interna ed estera della Turchia.
Ciò offre l'occasione proprio di parlare di un terzo fattore che può aver determinato l'arretramento elettorale dell'AKP, ovvero la strisciante deriva autoritaria della Turchia, in contemporanea con il rafforzamento del potere del presidente Erdogan. Infatti, dopo le battaglie contro le roccaforti tradizionali della Turchia laica, e segnatamente gli ambienti militari, la politica turca ha assistito a un crescente conflitto nei confronti della magistratura ordinaria, contemporaneamente all'emergere di malversazioni che sono giunte ripetutamente a sfiorare la stessa famiglia del presidente. In questo contesto, ancora una volta nello sconcerto occidentale, si è assistito ad iniziative contro la stampa e i social media, alcuni dei quali sono stati addirittura temporaneamente chiusi, parallelamente al rilancio di tradizioni considerate autenticamente turche, in forte critica contro l'occidentalizzazione di alcuni settori della società. L'agglomerarsi dello scontento per questo andamento della politica nazionale, unitamente alla protesta per alcune iniziative imprenditoriali edilizie giudicate di carattere speculativo, avevano condotto alla metà del 2013 alle imponenti proteste di piazza Taksim a Istanbul, per la difesa del polmone verde del Gezi Park. Se quel movimento era stato fronteggiato con relativa facilità, ma con una dura repressione, dal governo, le molteplici istanze in esso confluite hanno continuato probabilmente a cercare nello scenario politico turco uno sbocco, e questo sembra essere stato offerto dal nuovo approccio del partito di ispirazione curda HDP, di segno nettamente aperturista verso la democratizzazione delle pratiche politiche. Nel contempo, quello stesso elettorato può aver trovato nel voto per l'HDP l'occasione per porre un freno alle ambizioni del presidente Erdogan, impedendogli di procedere nella revisione presidenzialista della Costituzione, e, come risulta dal voto, persino di dar vita a un governo monocolore.
Si avanzano conclusivamente alcune considerazioni che con la dovuta cautela vanno fatte in ordine agli scenari immediati che si presentano per la Turchia.
Per ciò che concerne la politica estera, quanto in precedenza ricordato dovrebbe preludere a qualche ripensamento da parte della dirigenza politica dell'AKP e di Erdogan, anche a prescindere dagli sviluppi della politica interna. Infatti risulta davvero improbabile che proprio un paese come la Turchia, il cui ruolo strategico si caratterizza per una centralità difficilmente riscontrabile in altre aree del mondo, e tanto più importante perché situata nel Medio Oriente, possa insistere in un approccio che minaccia di tagliarla fuori dalle principali questioni e dalla auspicata risoluzione dei principali conflitti in corso nella regione. Va inoltre considerato che a favore di un riposizionamento turco, almeno parziale, nell'ambito delle alleanze occidentali gioca anche il rinnovato clima di tensione tra l'Occidente e la Russia, che se non configura certo una nuova Guerra Fredda ripropone però la necessità di alcune scelte di campo fondamentali anche per paesi come la Turchia. L'emergere dell'ISIS, inoltre, rappresenta come già ricordato un fattore certo non preventivato come tale dalla politica neo-ottomana di Davutoglu, e suscettibile di porre in grande imbarazzo la Turchia per il sostegno fornito costantemente alle correnti jihadiste. Anche rispetto allo scenario siriano la resilienza del regime di Assad, coniugata con l'importanza dei rapporti commerciali ed energetici della Turchia con l'Iran, dovrebbe suggerire un graduale mutamento nell'approccio turco.
In relazione invece agli sviluppi di politica interna, atteso che l'AKP non è più in grado di dar vita autonomamente ad un proprio governo, risulta assai problematico formulare previsioni: anzitutto, i tre principali altri partiti avevano escluso nella campagna elettorale ogni possibile alleanza con il partito al governo. Inoltre le loro reciproche differenze rendono difficilmente pensabile anche una coalizione tra di essi in caso di fallimento del primo tentativo di dar vita al nuovo governo, che necessariamente sarà appannaggio dell'AKP. Si può rilevare come sussista una possibilità di riavvicinamento tra le posizioni dei nazional-conservatori del MHP e il partito di Erdogan: ciò tuttavia significherebbe la fine di ogni prospettiva di soluzione del problema curdo, che soprattutto dopo i primi anni di governo l'AKP aveva efficacemente agitato per controbilanciare le reazioni alle campagne politiche e giudiziarie contro i militari, guardiani della Turchia laica kemalista.
Vi è poi l'incognita forse ancor più grande dell'HDP, che secondo alcuni osservatori avrebbe beneficiato di numerosi voti per così dire in libera uscita sia dall'AKP che dal partito kemalista di sinistra: dopo il giustificabile entusiasmo per la notevole affermazione del 7 giugno, la matrice comunque curda dell'HDP potrebbe tornare in qualche modo a scoraggiare l'ampio fronte ora aggregato attorno a Demirtas e Yuksekdag, con il partito che potrebbe essere ricacciato nei limiti relativamente più angusti di una politica a base etnica e regionale.
In questo contesto il presidente Erdogan, dopo quattro giorni di assoluto silenzio succeduti ai risultati elettorali, ha esortato le forze politiche al dovere del dialogo per dar vita a un nuovo governo, la cui composizione è tuttora impossibile da prevedere: stante il fatto emarginare nuovamente la popolazione curdo-turca appare, in ragione della sua collocazione geografica, oltremodo rischioso anche per la politica estera turca, perfino l'ipotesi di una collaborazione a qualche titolo tra AKP e HDP, magari con la mediazione nascosta del PKK di Abdullah Ocalan, non appare impossibile. L'ipotesi più probabile sembra tuttavia quella di un governo minoritario dell'AKP che cerchi in parlamento la propria maggioranza, o, in alternativa, dello stallo negoziale per la formazione del nuovo esecutivo, che entro 45 giorni dalle elezioni renderebbe possibile lo scioglimento del parlamento e una nuova consultazione elettorale, rispetto alla quale il presidente Erdogan potrebbe scommettere sulla paura del paese per l'instabilità politica in circostanze economiche e regionali tanto delicate. | |