Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | Partecipazione alla 69a Assemblea Generale dell'ONU (New York, 22-26 settembre 2014) (Volume primo) | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 135 Progressivo: 1 | ||
Data: | 22/09/2014 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||
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I princcosti
XVII legislatura Partecipazione alla 69a Assemblea Generale dell'ONU (New York, 22-26 settembre 2014)
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Servizi responsabili:
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estera e
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XVII
legislatura
Partecipazione
alla 69a
Assemblea
Generale dell'ONU
(New York, 22-26 settembre 2014)
settembre 2014 Senato della Repubblica n. 166/I |
Camera dei deputati n. 135/I |
Classificazione Teseo:
Organizzazioni internazionali. Stati esteri.
Il processo
di riforma delle Nazioni Unite (a cura del Servizio studi della Camera)
I più recenti sviluppi della crisi siriana (a cura del Servizio
Studi della Camera)
Iran: recenti sviluppi del quadro politico (a cura del Servizio
Studi della Camera)
L'evoluzione della crisi in Somalia (a cura del Servizio
Studi del Senato)
L'evoluzione della crisi in Libia (a cura del Servizio Studi del Senato)
Organi e
Agenzie delle Nazioni Unite
UNDP (a cura del Servizio Studi del Senato)
UNDESA (a cura del Servizio Studi del Senato)
Il Department of Political Affairs (DPA) (a cura del Servizio
Studi della Camera)
Il Department for peacekeeping operations
(DPKO) (a cura del Servizio Studi della Camera)
Volume II
Schede Paese del MAE
per incontri bilaterali
Scheda paese
politico-istituzionale sull'Egitto (a
cura del MAE)... 143
Scheda paese
politico-istituzionale sul Giappone (a
cura del MAE) 177
Scheda paese
politico-istituzionale sull'India (a
cura del MAE)..... 189
Scheda Paese
politico-istituzionale sul Pakistan (a cura del MAE) 211
Scheda paese
politico-istituzionale sulla Russia (a
cura del MAE). 235
Scheda paese
politico-istituzionale sulla Tunisia (a
cura del MAE) 245....................................................................................................................
Scheda paese
politico-istituzionale sull'Iran (a
cura del MAE)....... 257....................................................................................................................
Negli ultimi anni le Nazioni Unite,
considerate come sistema che comprende programmi, agenzie specializzate e
fondi, hanno avviato un processo di
riforma, finalizzato a rafforzare
l'efficacia dell'organizzazione e renderla più vicina alle sfide del
presente ed alle richieste dei suoi membri.
Tale processo di riforma è stato intrapreso a
più livelli ed in diverse sedi. Tra di esse il World
Summit, che si è svolto nel settembre 2005 a margine della 60a
sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel cui documento finale
(Outcome Document) viene dichiarato l’obiettivo di rafforzare l’autorità e l’efficienza
dell’Onu, ossia di riformare
l’Organizzazione affinché possa effettivamente affrontare le sfide attuali
(capitolo quinto).
In relazione ai due principali organi delle Nazioni Unite (l’Assemblea generale ed il
Consiglio di sicurezza), tuttavia, l’Outcome Document si limita a
fornire alcune indicazioni di carattere generale.
Dell’Assemblea
generale si afferma la posizione centrale quale principale organo
deliberativo, politico e rappresentativo dell’Organizzazione. Si esprime
consenso con le misure adottate, volte a rafforzare il ruolo e l’autorità del
Presidente dell’Assemblea e si auspica un’intensificazione delle relazioni
dell’Assemblea con gli altri organi delle Nazioni Unite al fine di garantire un
coordinamento sulle questioni che richiedono un intervento concertato (par. 149-151).
A seguito delle indicazioni emerse nel World Summit, è stato istituito,
nella 61a Sessione, un Gruppo
di lavoro ad hoc per
la rivitalizzazione dell’Assemblea generale, ricostituito poi in tutte le
Sessioni successive. Il Gruppo di lavoro operante nel corso della 66a
Sessione (copresieduto da Georgia e Gambia), ha
approfondito una serie di temi, tra i quali, ancora
una volta, quelli riguardanti il ruolo dell’Assemblea e le sue relazioni con
gli altri organismi delle Nazioni Unite (in particolare con il Consiglio di
Sicurezza); il ruolo e la responsabilità dell’Assemblea generale nel
procedimento di nomina ed elezione del suo Segretario generale; il
rafforzamento della “memoria istituzionale” dell’ufficio del Presidente
dell’Assemblea.
Il
dibattito sulla riforma del Consiglio di sicurezza.
Nel citato Outcome Document del World Summit 2005, si riconosce al CdS la primaria responsabilità nel mantenimento della pace
e della sicurezza, e si sostiene l’opportunità di una riforma complessiva che
lo renda maggiormente rappresentativo, più efficiente e più trasparente. Si
raccomanda inoltre l’adozione di metodi di lavoro che consentano di coinvolgere gli Stati non membri del Consiglio (par.
152-154).
Il dibattito sulla riforma del Consiglio di
sicurezza impegna le Nazioni Unite sin da prima della loro costituzione:
infatti, già alla conferenza di San Francisco nel 1945, che ha adottato la
Carta delle Nazioni Unite, la composizione e, in particolare, la questione del
potere di veto dei futuri membri furono oggetto di
svariate critiche. Gli argomenti principali avanzati per sostenere
l’opportunità di un maggior numero di membri non permanenti riguardarono la
rappresentatività, l’inclusività, e la democrazia.
Tuttavia gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica insistettero
sulla necessità di mantenere ridotte dimensioni del Consiglio, di modo che
potesse affrontare le crisi in modo efficace e tempestivo.
Finora, l'unico
tentativo riuscito di riformare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
si è avuto nel 1965, con l’aumento del numero dei componenti
elettivi da 6 a 10, sulla scia della decolonizzazione e del conseguente
numero sempre crescente dei nuovi Stati membri dell’ONU. Nel 1956, alcuni paesi
latinoamericani avevano suggerito per primi un ampliamento del numero di membri
non permanenti, e già nel 1960 un certo numero di paesi dell'Europa occidentale
avevano aderito a questa campagna. Nel 1963, il
movimento dei “Non Allineati” presentò un progetto di risoluzione che mirava ad
aumentare il numero dei seggi elettivi nel Consiglio di sicurezza: i quattro
seggi supplementari avrebbero dovuto essere appannaggio dei paesi asiatici e
africani. La proposta incontrò il favore della maggioranza dell’Assemblea
Generale, ma solo della Repubblica di Cina (Taiwan) tra i membri permanenti,
mentre soprattutto l’Unione Sovietica e la Francia erano fortemente
contrarie. Eppure, di fronte ad una
maggioranza divenuta schiacciante in seno all’Assemblea Generale, alla fine
tutti i membri permanenti decisero di accettare la riforma, entrata in vigore
il 31 agosto 1965.
Gli
unici cambiamenti nella composizione del Consiglio di
Sicurezza, con riferimento ai membri
permanenti, sono stati conseguenti a mutamenti negli equilibri di potere a
livello internazionale: nel 1971, la Repubblica popolare cinese ha sostituito
la Repubblica di Cina in Taiwan come unico rappresentante della Cina. Questa avvicendamento si basa su una risoluzione
dell'Assemblea Generale; singolarmente, dalla votazione di una questione di
credenziali, piuttosto che di appartenenza (che formalmente è rimasta
invariata), l'Assemblea è stata in grado di influire sul Consiglio di
sicurezza. Nel 1991, poi, con il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha
ereditato il seggio come Stato legittimamente successore.
Nel dicembre 1974 le Nazioni Unite
istituirono una Commissione ad hoc
sulla Carta delle Nazioni Unite, con particolare accento sulla riforma dei
meccanismi di composizione e di voto nel Consiglio di sicurezza: una serie di
progetti di risoluzione che prevedevano l’aumento del numero dei membri non
permanenti non ebbe seguito. Infatti, oltre alla forte contrarietà dei membri
permanenti – eccezion fatta per la Cina -, anche in Assemblea Generale vi
furono posizioni assai diversificate. Anche se
formalmente la questione rimase all'ordine del giorno dell'Assemblea Generale, iniziò sulla questione una lunga impasse.
Dopo la fine della Guerra Fredda, la spinta per la riforma del Consiglio di Sicurezza sembrò
riacquistare slancio: nel 1992, l'Assemblea Generale decise di istituire un
Gruppo di lavoro ad hoc, in seno al
quale ben presto, dopo una fase iniziale in cui l’istanza fondamentale sembrava
quella dell’aggiunta ai membri permanenti di Germania e Giappone, emerse
l’orientamento per un più corposo allargamento del Consiglio. In particolare,
il Regno Unito, gli USA e la Russia concordarono su un allargamento secondo la
formula 2+3 (due membri permanenti e tre elettivi), rigettando d’altronde ogni
ipotesi di un Consiglio di sicurezza con più di 21
membri. Il dibattito culminò nella proposta del presidente dell'Assemblea
generale e presidente del Gruppo di lavoro, il
diplomatico malaysiano Razali Ismael, di un
allargamento a quattro nuovi Stati membri, con un contestuale aumento a dieci
dei membri permanenti. La proposta provocò tuttavia una grave divisione tra gli
Stati membri: in particolare, il cosiddetto Coffee Club - una coalizione
di paesi guidati da Italia e Pakistan – si oppose a qualsiasi riforma che
migliorasse a loro danno lo status di
rivali regionali come Germania, India o Brasile, a loro stesso danno. Vi fu
anche una notevole contrarietà dei membri permanenti, salvo la Francia. Ancora
una volta, il processo di riforma del Consiglio di
sicurezza era in stallo.
Nel settembre 2003, l’allora Segretario
Generale ha affrontato nuovamente la questione, questa volta nel
contesto di uno sforzo di riforma globale delle Nazioni Unite. Il Segretario Generale Kofi Annan istituì
il "Gruppo ad alto livello sulla minacce, sfide e
cambiamento", che nel suo rapporto finale presentò due modelli
alternativi per l’allargamento del Consiglio di sicurezza. Kofi Annan adottò
quelle proposte, senza indicare alcuna preferenza tra i due modelli. Nel
frattempo, Brasile, Germania, India e
Giappone avevano formato il "G4" per promuovere le loro ambizioni
comuni di seggi permanenti e diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza. Anche
in questo caso, tuttavia, vi fu una forte opposizione da parte degli Stati
partecipanti al precedente Coffee Club, ricostituitosi
con la denominazione Uniting for Consensus;
inoltre, il gruppo dei paesi africani premeva a sua volta per una maggiore sua rappresentanza in seno al Consiglio. Il
risultato fu anche stavolta l’impossibilità di ogni progresso sull'allargamento
del Consiglio di Sicurezza impossibile.
Nel gennaio 2007 il presidente della 61a
Assemblea generale ha dato mandato a cinque moderatori di individuare linee di
possibile consenso su cinque questioni che riguardano il futuro del Consiglio
di Sicurezza, e cioè le categorie di appartenenza, il diritto di veto, la
rappresentanza regionale, le dimensioni e metodi di lavoro, le relazioni tra il Consiglio di
Sicurezza e l’Assemblea Generale. Anche in questo caso, però, il dibattito si è
rapidamente impantanato lungo linee familiari, e nessuno dei vari modelli
presentati ha raggiunto sufficiente sostegno tra gli Stati membri. Tuttavia,
l’Assemblea Generale decideva di traslare la
discussione sulle cinque questioni dal livello di gruppo di lavoro a quello di
negoziati formali all'interno dell’A.G. medesima. Nei negoziati sono state
affrontate alcune questioni fondamentali, quali la natura della membership
(membri permanenti e membri a rotazione), il diritto di veto, i rapporti tra il
Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale, le dimensioni del CdS, i suoi metodi di lavoro. In tali negoziati, però, i
vecchi problemi e le rivalità regionali sono stati tutti confermati.
In ogni modo, mentre i cambiamenti nella
composizione e nel potere di veto dei membri permanenti sono stati finora
impossibili da realizzare, vi sono stati considerevoli progressi nel rafforzamento della trasparenza e inclusività
del processo decisionale nel Consiglio di Sicurezza, compresi i cinque
membri permanenti, con
particolare riferimento al flusso di informazioni e alla consultazione dei
membri permanenti con gli altri Stati, come anche con attori non statali.
Il processo negoziale intergovernativo,
lanciato nel 2009, è il foro ufficiale attraverso il quale gli Stati membri
discutono sulla riforma del Consiglio di sicurezza. A partire
dal 2010, la discussione è basata su un testo che include le proposte
dei vari gruppi di interesse e dei singoli Stati membri. A questi si è aggiunto
un Non-Paper del Presidente
dell’Assemblea generale prodotto da un Advisory Group[1] nel corso della 68a sessione. Il Non-Paper fornisce una chiara panoramica
delle posizioni degli Stati Membri su ciascuno dei
cinque temi chiave della riforma delineati nella decisione dell’Assemblea
generale 62/557 dell’ottobre 2008: 1) le categorie di membership;
2) la questione del veto; 3) la rappresentanza regionale; 4) l’allargamento del
CdS e i suoi metodi di lavoro; 5) i rapporti tra CdS e Assemblea generale.
Durante la 68a Sessione
dell’Assemblea generale si sono svolti 6 incontri
tematici, nel quadro del 10° round negoziale per la riforma del Consiglio di
sicurezza, ciascuno finalizzato alla discussione di uno dei cinque temi
individuati come prioritari, mentre il sesto incontro è stato dedicato ai temi
trasversali quali alcuni emendamenti alla Carta necessari ai fini della
riforma. Gli Stati membri non hanno ritenuto di utilizzare il Non-Paper come
unico testo base per la discussione nei negoziati intergovernativi.
Tutte le delegazioni hanno convenuto sulla
necessità di pervenire al più presto ad una svolta del
processo negoziale, auspicando che esso possa terminare, o quantomeno condurre
a significativi risultati entro la fine del 2015.
I
maggiori gruppi di interesse
continuano a portare avanti le rispettive proposte in sede di negoziazione,
anche in presenza di divisioni, talvolta anche significative, all’interno di
ciascuno di essi.
Il Gruppo
G4 (Brasile, Germania, India e Giappone), come è
noto, insiste sull’ampliamento del numero dei seggi (6 permanenti e 4 non
permanenti, che porterebbe il totale dei componenti a 25) che verrebbero
assegnati in base ad elezioni nel rispetto di una precisa rappresentanza
regionale. Secondo questa proposta, il diritto di veto non verrebbe
esteso ai nuovi membri permanenti. Nel decidere quali paesi dovrebbero essere
prescelti, i membri del G4 suggeriscono che sia valutato il contributo
finanziario e militare al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale nonché tenuto conto della distribuzione
geografica e di opportunità politiche.
La proposta
di Uniting for Consensus (una
quarantina di paesi tra i quali Italia,
Pakistan, Colombia, Argentina), invece, mira ad
innalzare il numero dei membri non permanenti a venti stabilendo la durata del
mandato in due anni; i membri non permanenti verrebbero eletti, a ciascun
gruppo regionale verrebbe assegnato un numero predefinito di seggi; ai Paesi
dell’Europa occidentale verrebbero attribuiti tre seggi.
Nel 10° round negoziale l’Ambasciatore
italiano Cardi[2] ha esortato tutti gli Stati membri ad adottare la flessibilità
necessaria per far avanzare processo di riforma, ricordando che l’UfC è l'unico gruppo ad essersi spostato
dalla sua posizione originale presentando due proposte concrete per la Riforma
del Consiglio di Sicurezza, nel 2005 e nel 2009. Cardi ha
auspicato una soluzione, in grado di raccogliere il più vasto consenso politico
possibile, che si collochi a metà strada tra la posizione di coloro che
appoggiano un incremento dei singoli seggi permanenti e quella di coloro che -
come l'UfC - preferiscono l’istituzione di seggi non
permanenti.
Si ricorda che la posizione di UfC del 2009, promossa da Italia e Colombia per offrire un
compromesso - e che è stata nuovamente riproposta come
testo base dei negoziati - affronta tutti gli aspetti della riforma, dal numero
dei membri ai metodi di lavoro (Uniting for Consensus Platform on Security Council
reform) e, rispetto alla proposta presentata da UfC nel 2005, presenta alcune novità.
I tre punti principali sui quali poggia la
proposta italo-colombiana sono i seguenti:
a) sono necessarie elezioni regolari per
assicurare un Consiglio responsabile e accessibile, la partecipazione al quale è considerata una responsabilità privilegiata, e
non sia elargita come un diritto arbitrario a singoli paesi in base ai loro
interessi nazionali;
b) il processo elettorale deve garantire
flessibilità al Consiglio, per potersi adattare ai continui cambiamenti dello
scenario economico e politico mondiale;
c) il sistema elettivo serve per rendere il
Consiglio più rappresentativo, cosa non possibile se i seggi non sono
sottoposti alla periodica approvazione di una più vasta membership.
Riguardo la
composizione del CdS, la piattaforma ribadisce
l’assoluta contrarietà ad un aumento del numero dei seggi permanenti, prendendo
unicamente in considerazione la questione dei seggi addizionali. La novità più
rilevante riguarda la rappresentanza
regionale, in considerazione del fatto che, per assicurare la stabilità politica
internazionale i soli attori nazionali non sono più sufficienti. La piattaforma
propone che i seggi destinati alle organizzazioni regionali abbiano una durata
più lunga rispetto agli attuali due anni: dai tre ai cinque anni o, in
alternativa, di 2 anni secondo un meccanismo di
rieleggibilità che non potrebbe comunque superare un limite massimo di sei anni
consecutivi. I seggi a lungo termine dovrebbero essere assegnati a rotazione ai
vari gruppi regionali (Africa, Asia, America Latina e Caraibi, Europa
occidentale e Europa Orientale) mentre nuovi seggi
regolari non permanenti per un periodo di 2 anni sarebbero destinati agli Small
States, Medium Size States, Africa, Asia, America Latina e Caraibi, e gruppo
dell'Europa orientale, senza possibilità di rielezione immediata.
Anche il gruppo
L69[3] guidato dall’India - formato da Paesi
africani, dell’America latina, dell’Asia e del Pacifico, in tutto 41, - è a
favore dell’allargamento delle due categorie di membri del CdS,
per il quale chiede anche un ampio cambiamento della composizione per tenere
conto della nuova realtà globale. L’allargamento richiesto porterebbe il
Consiglio a 25/26 seggi: i membri permanenti conserverebbero gli stessi poteri
degli attuali, incluso il diritto di veto.
Nel 2012, il gruppo ha fatto circolare una
bozza di risoluzione che aveva, tra l’altro, lo scopo di avvicinare a sé il
gruppo dei paesi africani. La proposta prevedeva, oltre al potere di veto per
i nuovi membri permanenti, che i seggi aggiuntivi sarebbero stati assegnati
dall’AG secondo i seguenti criteri:
a) Due seggi permanenti e due non permanenti agli Stati africani, assegnando al gruppo
africano la responsabilità di designare i rappresentanti;
b) Due seggi permanenti e due non permanenti ai paesi asiatici;
c) Un seggio non permanente a paesi dell’Europa
orientale;
d) Un seggio permanente e uno non permanente ai paesi latinoamericani.
e) Un seggio permanente per i
paesi dell’Europa occidentale e altri stati.
Il Gruppo
S5 (Small Five
Group)[4] ritiene fondamentale lavorare sulla riforma
dei metodi di lavoro del CdS, che si trovi o meno un
accordo sull’ampliamento del numero dei suoi membri. Nel mese di maggio 2012,
il gruppo ha presentato una bozza di risoluzione su tale questione (L.42
Rev.2), ritirata a seguito delle pressioni di alcuni stati, in particolare dei
membri permanenti del CdS. Facendo seguito a tale proposta, ad un anno di distanza,
il 2 maggio 2013, un nuovo gruppo denominato ACT (Accountability,
Coherence, and Transparency)
– di cui fanno parte 21 Stati membri – ha lanciato ufficialmente un’iniziativa
per migliorare i metodi di lavoro del Consiglio di Sicurezza.
I Paesi africani, rappresentati dal Gruppo C-10, continuano a chiedere due
seggi permanenti con gli stessi poteri degli attuali, in nome della necessità
di compensare alcune storiche ingiustizie: l’Africa è l’unico continente a non
avere alcun seggio permanente. La posizione comune del gruppo africano è
cambiata solo leggermente nel corso degli anni. L’attuale è definita dal
cosiddetto Ezulvini Consensus
che, differisce dalla posizione precedente (Harare Declaration)
in quanto quella prevedeva che i due seggi permanenti
sarebbero stati assegnati a rotazione a due paesi africani.
Verso
la quinta moratoria
La centralità del tema della moratoria sulla pena di
morte, sul quale il nostro Paese detiene una
leadership riconosciuta a livello internazionale, è stata ribadita dal Ministro
degli Affari esteri e della cooperazione internazionale nel corso della prima riunione
- svoltasi alla Farnesina il 1° luglio 2014 - della 'task force' istituita per coordinare l’azione italiana in vista
della votazione all’Onu su una nuova risoluzione (la quinta) in materia.
Tale impegno è presente anche nel programma della
Presidenza italiana del Consiglio dell’UE per il periodo 1° luglio - 31
dicembre 2014, dove si esplicita che, in vista della
69a Sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite, l’Italia
sosterrà l’UE nella sua posizione in merito alla quinta risoluzione per una
moratoria sulle pene capitali, con l’obiettivo di rafforzare l’orientamento
internazionale a favore dell’abolizione della pena di morte incrementando
ulteriormente il numero dei voti favorevoli.
Il testo della risoluzione è attualmente
in corso di negoziazione a New York da parte di un panel di stakeholders
(i co-sponsors sono 91) insieme all’Unione Europea;
il rilascio del documento è atteso per l’inizio di ottobre.
Come è noto, nel dicembre 2007 venne adottata, in
particolare grazie agli sforzi italiani, la risoluzione dell’Assemblea Generale
sulla moratoria nell’uso della pena di morte, con il voto favorevole di 104
Stati membri delle Nazioni Unite, 59 contrari e 29 astenuti.
Le due successive risoluzioni (l’iniziativa ha
cadenza biennale) hanno visto crescere il livello dei consensi: in particolare,
nel 2008, 106 Paesi e nel 2010, 109 Stati membri hanno
votato a favore della moratoria, evidenziando un forte orientamento
abolizionista rilevato anche nel report del Segretario Generale Ban Ki-moon dove si osservava che
“circa 150 dei 193 Stati membri delle
Nazioni Unite hanno abolito la pena capitale o introdotto una moratoria, de jure o de facto, nella sua applicazione”.
La quarta risoluzione, presentata nel 2012
nell’ambito della 67a Sessione dell’Assemblea Generale
ha visto salire a 111 il totale dei voti favorevoli alla moratoria; tale
successo è stato preceduto da un ulteriore allargamento del gruppo dei paesi
co-sponsors, propiziato dall’impegno italiano insieme
ai partners dell’Unione Europea ed al gruppo
inter-regionale di Paesi che da anni sostengono l’iniziativa; tale impegno è
finalizzato sia ad ampliare la platea dei sostenitori e dei co-patrocinatori
della risoluzione, sia a rafforzarne i contenuti. In tal senso viene in rilievo
il progresso registrato nell’evoluzione del testo, che per la prima volta ha
ricordato l’obbligo di non applicare la pena capitale nei confronti di
minorenni e donne in gravidanza, ed introdotto un
appello alla ratifica del Secondo Protocollo opzionale (che prevede l’abolizione
della pena di morte) al Patto Internazionale sui diritti civili e politici. Si
segnala che le sei ratifiche intervenute successivamente
al 2012 – da parte di Polonia, Lettonia, Guinea-Bissau, Gabon, El Salvador, Bolivia – hanno portato ad 81 il numero
complessivo dei Paesi membri delle Nazioni Unite che hanno ratificato il
Secondo Protocollo (l’Italia ha ratificato l’atto pattizio il 14 febbraio
1995).
All’incontro della task force, finalizzato
proprio al rilancio, nel semestre di presidenza del Consiglio dell'Ue,
dell'impegno contro le esecuzioni capitali e nell’individuazione di strategie
idonee ad accrescere il consenso sulla risoluzione dell’Assemblea Generale che
sarà votata a New York a dicembre, hanno preso parte rappresentanti delle organizzazioni
italiane tradizionalmente più attive sul tema della pena di morte: Comunità
di Sant’Egidio, Amnesty International
e “Nessuno tocchi Caino”.
In quella sede è stata ribadita
la necessità di un’azione sinergica di governo, parlamento e società civile per
la valorizzazione delle buone prassi sinora maturate e l’incremento del
consenso attorno alla necessità di una moratoria.
Al contributo della “diplomazia parlamentare” nel
conseguimento dell’obiettivo di consolidare - e possibilmente migliorare - il
risultato record di 111 voti favorevoli alla moratoria ottenuti nel 2012 ha
esplicitamente fatto riferimento il Ministro degli esteri e della cooperazione
internazionale, in occasione dell’audizione presso le Commissioni riunite
esteri di Camera e Senato incentrata sugli ultimi sviluppi di politica estera in relazione al semestre di presidenza italiana dell'Unione
europea (3 luglio 2014).
La Rappresentanza permanente italiana presso le
Nazioni Unite ha promosso, il 2 luglio a New York, un panel focalizzato sugli obiettivi di consolidamento ed ampliamento dei voti favorevoli alla risoluzione.
La riunione ha rappresentato l’occasione per ribadire la posizione italiana nella battaglia per la
moratoria, che il nostro Paese considera un obiettivo prioritario da
conseguire, nel rispetto nell’andatura scelta da ciascun Paese, all’interno di
un processo globale che, auspicabilmente, potrebbe coinvolgere un giorno ogni
nazione nel mondo. Nel corso dell’incontro il Segretario Generale Ban Ki moon
ha auspicato un appoggio pieno alla risoluzione da parte di tutti i paesi
dell’Onu ed ha rivolto un forte appello per il sì alla
moratoria, affermando che la pratica crudele ed inumana della pena
capitale “non ha posto nel 21° secolo”.
In quella sede è stata stabilita la data di una
nuova discussione, a livello di Capi di Stato e di Governo, sulla moratoria
della pena di morte, che avrà luogo il 25 settembre ai margini dell’Assemblea
Generale; coinvolti nel meeting un limitato numero di Paesi appartenenti a
diverse aree geografiche tra i quali l’Italia, leader
storico riconosciuto nella battaglia contro la pena capitale.
Recenti iniziative dell’UE in merito all’abolizione della pena di morte
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione
Europea)
L'UE mantiene
una posizione ferma e di principio contro la pena di morte e svolge un ruolo
fondamentale nella lotta contro la pena di morte nel mondo. Nel 2014 l'UE ha ribadito nuovamente la sua opposizione alla pena di morte,
ed ha usato tutti i suoi strumenti diplomatici per far progredire la causa
della sua abolizione in tutto il mondo. Il movimento a favore dell'abolizione
della pena di morte è una delle priorità del quadro
strategico e piano d'azione dell'UE sui diritti umani e la democrazia.
Il Consiglio
Affari esteri dell’UE, nella riunione del 22 e 23 aprile 2013, ha adottato gli
orientamenti dell'UE sulla pena di morte rivisti ed
aggiornati. (http://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=IT&f=ST%208416%202013%20INIT)
Gli
orientamenti dell’UE sulla pena di morte sono stati inizialmente adottati nel
1998 e poi rivisti nel 2001 e 2008.
Il nuovo testo è un consolidamento
dell'esperienza dell'UE nel suo ruolo guida a livello mondiale nella promozione dell'abolizione della pena di morte e fornisce la
base per l'azione dell'Unione in questo campo.
La versione
riveduta conferisce un ruolo preminente alla posizione dell'UE sull'abolizione
della pena di morte ed aggiunge terminologia
pertinente tratta dal quadro strategico e piano d'azione dell'UE sui diritti
umani e la democrazia, adottato nel giugno 2012. Aggiunge riferimenti a tutte
le recenti risoluzioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite su una
moratoria sulle esecuzioni, compresa la risoluzione 67,
adottata il 21 dicembre 2012. Il nuovo testo incarica i capimissione dell'UE di
riferire periodicamente sull'applicazione della pena
di morte nei paesi terzi e aggiornare di conseguenza le strategie nazionali in
materia di diritti umani. Infine, aggiorna le norme minime alla luce delle più
recenti risoluzioni, relazioni e pareri dell'ONU.
L’Unione
europea dovrebbe farsi promotrice di una nuova risoluzione sulla
abolizione della pena di morte in occasione della 69a riunione
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si svolgerà a dicembre 2014.
Le iniziative internazionali
Amnesty International, che annovera la lotta alla pena di morte tra i
temi principali della propria attività in difesa dei diritti umani, oltre a
mantenere accesi appelli ed azioni urgenti legati alla
campagna abolizionista, pubblica annualmente un rapporto sulla pena di morte
nel mondo.
Il report 2013 indica in 58
i paesi che mantengono in vigore la pena capitale, pur rilevando che il
numero di quelli dove le condanne a morte sono effettivamente eseguite è molto
più basso. Il rapporto sottolinea che nonostante l’aumento continuo del novero dei
paesi abolizionisti (che il sito web di Amnesty quota a 140), il numero delle
esecuzioni nel 2013 è aumentato del 15 per cento rispetto all’anno precedente:
in particolare, nel 2013 sono state eseguite 778 sentenze in 22 paesi
(Afghanistan, Arabia Saudita, Autorità Palestinese, Bangladesh, Botswana, Cina,
Corea del Nord, Giappone, India, Indonesia, Iran, Iraq, Kuwait, Malesia, Nigeria,
Somalia, Stati Uniti d’America, Sudan, Sud Sudan, Taiwan, Vietnam, Yemen). L’80
per cento delle esecuzioni si però concentrata in tre
soli paesi: Arabia Saudita, Iran e Iraq, mentre Indonesia, Kuwait, Nigeria e
Vietnam hanno ripristinato la pena di morte nel 2013. Giappone e Stati Uniti
d’America sono gli unici paesi del G8 che hanno
eseguito condanne a morte mentre, per la prima volta dal 2009, nessuna condanna
è stata eseguita in Europa e Asia Centrale.
L’aumento del numero totale delle esecuzioni (778
contro le 682 del 2012) è da imputarsi essenzialmente ad
Iran (almeno 369) e Iraq (169).
Il rapporto non riferisce dati relativi
alla Cina, per l’impossibilità di ottenere informazioni, ed è privo di
conferme sulle esecuzioni nei paesi in conflitto, come la Siria, e di dati
certi sull’Egitto.
Amnesty International è membro fondatore della Coalizione
mondiale contro la pena di morte, network internazionale abolizionista
sorto all’inizio del Duemila con l’obiettivo prioritario di lanciare una Giornata
mondiale contro la pena di morte, celebrata ogni 10 ottobre con lo
svolgimento di iniziative ed azioni di mobilitazione contro la pena
capitale.
La Comunità di Sant’Egidio presenta sul
proprio sito web http://www.santegidio.org/it/pdm/app+ades.htm un appello, già firmato da 5 milioni di
persone e finalizzato a raddoppiare le adesioni, per una moratoria
internazionale della pena di morte. L’appello, presente in otto lingue
oltre all’italiano ed al quale è possibile aderire
direttamente dalla pagina del sito, si rivolge ai Governi “ovunque nel mondo”,
cui è chiesto di osservare una moratoria internazionale della pena di morte
ritenuta
·
negazione del diritto alla vita riconosciuto universalmente;
·
pena finale, crudele, disumana e degradante, non meno abominevole della
tortura;
·
mezzo inadatto a combattere la violenza e in realtà legittimazione della
violenza;
·
azione disumanizzante.
Il documento invita anche quanti sostengono l'uso
della pena di morte a riflettere sulla necessità di
una sospensione delle esecuzioni alla luce, tra il resto, dell’indimostrabilità
del suo potere di deterrenza, dell’esistenza di metodi alternativi di
protezione sociale anche a fronte dei crimini più orribili e della percepita
arcaicità della logica “vita per vita”.
“Nessuno
tocchi Caino”, lega internazionale di
cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo,
fondata a Bruxelles nel 1993, che cura una banca dati sulla pena di morte nel
mondo (http://www.nessunotocchicaino.it/bancadati/mondo.php) è promotore di un appello alle Nazioni Unite
per la moratoria delle esecuzioni capitali e la fine dei “Segreti di Stato”
sulla pena di morte. L’appello chiede al Segretario Generale di istituire un
Inviato Speciale incaricato non solo di monitorare la situazione in ogni Paese esigendo che siano aboliti tutti i “segreti
di Stato” sulla pena di morte che sono la causa prima di un maggior numero di
esecuzioni nel mondo, ma anche di continuare a persuadere chi ancora la pratica
ad adottare la linea stabilita dalle Nazioni Unite: “moratoria
delle esecuzioni, in vista dell’abolizione definitiva della pena di morte.”
Si rammenta, infine, che nel giugno 2013 si è svolta
a Madrid la quinta edizione del Congresso mondiale contro la
pena di morte
organizzato, ogni tre anni, dall’associazione francese “Ensemble contre la
peine de mort -ECPM”,
con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte. Per l’Italia vi hanno preso
parte gli onorevoli
Marazziti e Di Stefano. Alla vigilia dell’evento, il 5 giugno 2013, la
Commissione Affari esteri aveva approvato
all’unanimità la risoluzione n.7-00016.
La risoluzione impegna il Governo a rafforzare a
livello centrale e periferico tutte le iniziative utili a monitorare la salvaguardia dei diritti fondamentali anche dei condannati a
morte in Paesi che mantengono la pena capitale, e a cooperare per umanizzare il
sistema carcerario; a continuare a rafforzare l'impegno internazionale per
accompagnare con azioni culturali, normative e politiche Governi e società in
transizione, anche sul terreno del rispetto dei diritti umani e dell'abbandono
della pena capitale; ad intensificare le azioni di cooperazione a sostegno del
processo abolizionista mondiale, a cominciare proprio dal Congresso di Madrid.
Nel dare conto alla Commissione sugli esiti della
missione (seduta del 26 giugno 2013) gli onorevoli hanno evidenziato l'ampio
consenso all'azione italiana di diplomazia umanitaria ed
al ruolo proattivo dell'Italia nel consesso europeo e internazionale, che rende
in nostro Paese un attore capace di dialogare con governi, opinion leader,
organizzazioni non governative e società civile, sia in ambito bilaterale, sia
all'interno delle istituzioni internazionali. E' stato sottolineato,
altresì, il ruolo chiave dell’Italia nell'ultimo ventennio nella battaglia
contro la pena di morte, attraverso l’innalzamento a livello planetario della
caratteristica azione di impegno «multistrato» che vede coinvolte le
istituzioni e la società civile. Il Congresso di Madrid ha valorizzato una
prassi orientata a realizzare «contaminazioni» tra opinion leader, figure
istituzionali e società civile dei paesi abolizionisti e retenzionisti,
nonché l'efficacia di un'azione a sostegno dei
movimenti dal basso. Il Congresso ha auspicato un'azione europea per favorire
il contrasto alla pena di morte dei paesi retenzionisti,
ed ha sottolineato la necessità di un rafforzamento
delle minoranze abolizioniste presenti nei parlamenti di tali paesi, anche
attraverso l'organizzazione di missioni bilaterali o di visite alle carceri per
sensibilizzare sul tema della umanizzazione delle condizioni carcerarie dei
condannati alla pena di morte.
Gli ultimi sviluppi e la nuova guerra di Gaza.
Il 15 maggio l’annuale celebrazione della Naqba - la “Catastrofe” che per i palestinesi
rappresenta la nascita dello Stato d’Israele e la dispersione di centinaia di
migliaia di essi - era segnata dall’uccisione di due giovani palestinesi nei pressi di
Ramallah durante violenti scontri con l’esercito
israeliano, a seguito dei quali vi sarebbero stati anche tre feriti tra i
manifestanti. La giornata della Naqba ha registrato
numerose manifestazioni in tutta la Cisgiordania e nella Striscia di Gaza:
proprio a Ramallah hanno avuto luogo le
commemorazioni ufficiali con esponenti di tutte le fazioni dell’Autorità
nazionale palestinese, e anche in altre località si sono verificati scontri tra
manifestanti ed esercito israeliano.
Nei
giorni successivi i fatti del 15 maggio
mettevano in serio imbarazzo il governo israeliano poiché un video ripreso
da una telecamera di sorveglianza in possesso dell’organizzazione non
governativa DCI-Palestine mostrava sostanzialmente l’uccisione a freddo dei due
giovanissimi palestinesi. L’esercito israeliano veniva
pertanto accusato di aver utilizzato in modo sproporzionato proiettili veri
contro i manifestanti, contrariamente a quanto assicurato dagli ambienti
militari - i quali peraltro non sembravano attribuire veridicità al filmato
divulgato, contrariamente però a un’altra organizzazione non governativa, B’tselem, pacifista e israeliana. L’imbarazzo israeliano
era accresciuto dalla richiesta degli Stati Uniti e dell’ONU di accertare
pienamente le circostanze, mentre l’Unione europea esprimeva dal canto suo
preoccupazione per l’accaduto.
Inoltre,
nell’imminenza della visita del Papa in Terrasanta, destava preoccupazione anche l’onda montante
degli atti vandalici e blasfemi perpetrati da estremisti ebrei contro musulmani
e cristiani, tanto che l’esecutivo israeliano, allertato dai servizi
segreti, prospettava la possibilità di un’ampia utilizzazione della detenzione
amministrativa per bloccare sul nascere le iniziative dei coloni estremisti.
Il 25 maggio, dopo la visita in Giordania del giorno
precedente – nella quale in primo piano erano stati i ripetuti appelli alla
pace nella regione mediorientale e all’aiuto umanitario -, aveva luogo la giornata più importante del viaggio del
Papa in Terrasanta, nel corso del quale
il Pontefice, constatando il grave stallo del
dialogo tra israeliani e palestinesi, esortava
le parti a rinnovati sforzi per giungere
a un’intesa sulla base della soluzione dei due Stati.
Con
un’iniziativa che sembrava riscuotere ampio consenso
anche da parte degli osservatori internazionali il Papa invitava il presidente israeliano Shimon Peres e il suo omologo
palestinese Abu Mazen a un incontro di preghiera in Vaticano a favore del
processo di pace - incontro successivamente fissato per l’8 giugno. Inoltre
il Papa, nel viaggio mattutino a Betlemme per celebrare una messa sulla Piazza
della Mangiatoia, compiva un gesto di raccoglimento e preghiera proprio a
ridosso del muro di separazione tra Betlemme il territorio israeliano, destando
in questo caso approvazione solo da parte palestinese.
Il 29 maggio il premier in carica dell’Autorità nazionale palestinese Rami Hamdallah ha ricevuto dal presidente Abu Mazen l’incarico
ufficiale per formare il governo di unità nazionale previsto dopo la riconciliazione del 23
aprile tra al-Fatah e Hamas.
Il mandato di Hamdallah riguarda la formazione di un esecutivo di transizione con il
compito principale di organizzare le elezioni generali palestinesi entro la
fine del 2014: il nuovo governo dovrebbe essere composto da
una quindicina di ministri scelti tra personalità indipendenti.
Il 2 giugno giurava il nuovo esecutivo
palestinese derivato dall’accordo di riconciliazione, composto da tecnici ma con l’appoggio esterno di al Fatah e di Hamas. Il giorno
successivo il nuovo esecutivo palestinese riceveva vasto appoggio
internazionale, a
cominciare da quello statunitense - per la verità manifestato già nella serata
del 2 giugno -, cui si accompagnavano sollecitamente i consensi delle Nazioni
Unite e dell’Unione europea, come anche di Cina, India e Russia.
Tra i
paesi europei si distinguevano in particolare la Francia e la Gran Bretagna:
per quanto concerne l’Italia il Ministro degli esteri Mogherini assicurava l’appoggio del nostro paese al nuovo
governo palestinese in base alle garanzie fornite dal presidente Abu Mazen in
ordine al rifiuto del terrorismo, al riconoscimento di Israele, al mantenimento
degli accordi internazionali e della disponibilità al negoziato. L’isolamento
in cui governo israeliano sembrava trovarsi provocava la reazione dura di Netanyahu, che si diceva profondamente turbato
dall’atteggiamento della Comunità internazionale, e preannunciava
che Israele avrebbe impedito il libero transito dei nuovi ministri tra la
Cisgiordania e la Striscia di Gaza, oltre a bloccare il trasferimento ai
palestinesi delle tasse per loro conto raccolte dall’amministrazione israeliana.
Nei giorni successivi la reazione israeliana
si concretizzava nell’annuncio del via libera a
progetti per 2900 nuove costruzioni a favore dei coloni in Cisgiordania e 400
nuove abitazioni a Gerusalemme est: queste decisioni, oltre a provocare il preannuncio
palestinese di un ricorso formale alle Nazioni Unite contro di esse, destavano
malumore anche nella parte centrista del governo israeliano, in particolare da
parte del ministro della giustizia Tzipi Livni, che parlava di una mossa capace solo di accrescere
l’isolamento di Israele sulla scena internazionale.
L’8
giugno, mentre il governo israeliano ignorava sostanzialmente la partecipazione
del presidente Peres all’incontro di preghiera in Vaticano, anche il leader
centrista Yair Lapid, ministro delle finanze, si
dissociava dalla rigida linea dell’esecutivo nei confronti dei palestinesi.
Cionondimeno, Netanyahu decideva di autorizzare la presentazione al parlamento
di un emendamento volto a restringere la possibilità di concessione della
grazia presidenziale a detenuti riconosciuti colpevoli di gravi fatti di sangue
- una mossa evidentemente volta a contrastare la recente prassi della
liberazione di prigionieri in cambio di israeliani
rapiti dalle milizie palestinesi. Va segnalato che il presidente Shimon Peres
coglieva l’occasione di trovarsi a Roma per consegnare personalmente la Medaglia d’onorificenza presidenziale al
Capo dello Stato Giorgio Napolitano, quale figura guida in Europa nella
lotta al negazionismo e all’antisemitismo, e personalità sempre attenta alle
ragioni e all’esistenza dello Stato di Israele. Dal canto suo il presidente
Napolitano rinnovava un forte appello a chiudere il sanguinoso conflitto
israelo-palestinese incontrando al quirinale Abu Mazen e lo stesso Peres,
idealmente rafforzando la portata del momento di preghiera consumato in
Vaticano il giorno precedente.
Il 10 giugno Netanyahu poteva esultare per il
compattamento di tutta la destra parlamentare a favore di Reuven Rivlin, eletto alla Presidenza della
Repubblica proprio in sostituzione dell’uscente Peres - va tuttavia
ricordato che Rivlin era stato lungo osteggiato
proprio da diversi esponenti della destra, incluso lo stesso Netanyahu, nei
confronti del quale aveva avuto espressioni di asprezza dopo la sua mancata
rielezione a presidente della Knesset all’inizio del 2013.
Il 12
giugno il quotidiano Haaretz riferiva di una parziale marcia indietro del governo
israeliano sui progetti di nuove costruzioni in Cisgiordania, che sarebbe
stata da correlare alle pressioni esercitate da diversi ambasciatori di paesi
europei, inclusa l’Italia, nei confronti delle autorità di Tel
Aviv. Ciò non serviva però a stemperare le tensioni,
che il giorno dopo venivano drammaticamente riaccese dalla notizia della scomparsa di tre giovani appartenenti ai
gruppi di coloni ebrei nella Cisgiordania meridionale, nei pressi di Hebron:
i tre, studenti sedicenni di un collegio rabbinico, erano scomparsi nella notte
precedente mentre facevano l’autostop sulla strada di collegamento tra
Gerusalemme e Hebron. Immediatamente veniva formulata
l’ipotesi di un loro rapimento ad opera
di un commando palestinese, ed
effettivamente vi erano diverse manifestazioni di entusiasmo da parte di
ambienti legati a Hamas - mentre la fazione
palestinese, peraltro, si diceva estranea all’accaduto.
Le
forze di sicurezza israeliane facevano scattare una vasta operazione di blocco attorno a Hebron e a Gaza, per
impedire il trasferimento dei tre giovani da parte dei loro presunti rapitori. Il governo israeliano intanto addossava
apertamente a Hamas la responsabilità del rapimento,
e disponeva il richiamo di un numero limitato di riservisti. L’attribuzione a Hamas della scomparsa dei tre studenti rabbinici veniva corroborata anche dal segretario di Stato americano
John Kerry. Il blocco di Hebron e delle zone circostanti della Cisgiordania era
accompagnato da vaste retate che
portavano all’arresto nei giorni successivi di centinaia di militanti di Hamas, tra cui molti
dirigenti e lo stesso presidente del Parlamento palestinese Aziz Dweik.
Il
portavoce del nuovo esecutivo di unità palestinese nazionale palestinese a Ramallah rifiutava peraltro la responsabilità della
scomparsa dei tre studenti, in quanto la zona ove era
avvenuta non sarebbe stata soggetta al controllo di forze palestinesi, e nel
contempo condannava quella che definiva
una punizione collettiva dei palestinesi attuata con il blocco e le retate in
Cisgiordania. La crescente tensione tra
le forze israeliane e gli abitanti della Cisgiordania iniziava a dare luogo
a gravi incidenti: in uno di questi perdeva la vita il 16 giugno un giovane
palestinese di 19 anni. Il giorno successivo l’Unione
europea, pur in contrasto con la politica israeliana degli insediamenti,
esprimeva tramite l’ambasciatore in loco
Andersen il sostegno al popolo israeliano e la richiesta di una liberazione
senza condizioni dei tre giovani rapiti.
Il 18
giugno, di fronte all’aggravarsi della pressione israeliana sulla Cisgiordania
e della tensione tra i palestinesi il presidente dell’ANP Abu Mazen invocava il rilascio dei tre studenti, definendo interesse
dei palestinesi la cooperazione di sicurezza con Israele. A questa presa di
posizione replicava con durezza Hamas, un cui
esponente la definiva contraria allo spirito della recente riconciliazione tra
i palestinesi.
Il 20
giugno si apprendeva dell’uccisione la notte precedente di altri due
palestinesi, tra i quali un ragazzo di appena 14 anni.
Anche in Cisgiordania, intanto, la disponibilità di Abu Mazen a collaborare con
Israele provocava forti accuse e anche manifestazioni di derisione del
presidente dell’ANP, mentre saliva progressivamente la resistenza dei
palestinesi ai controlli sempre più serrati dell’esercito israeliano – il 22
giugno si aveva notizia di altri due morti palestinesi nella notte precedente,
uno a Nablus e l’altro a Ramallah, dove la notizia
della morte dell’attivista della Jihad islamica Mahmud
Tarifi, di trent’anni, provocava nuovi tumulti, durante i quali i manifestanti si scontravano anche con
forze di sicurezza della stessa Autorità nazionale palestinese.
In
questa situazione Abu Mazen, recependo lo scontento palestinese, definiva ingiustificata
la grande operazione messa in piedi per ritrovare i tre ragazzi israeliani,
asserendo anche non esservi alcuna informazione attendibile sulla
responsabilità di Hamas per il rapimento-su questo
punto il premier israeliano Netanyahu ribadiva tuttavia con forza di essere in
possesso di prove incontrovertibili. Inoltre Netanyahu, sfruttando le oggettive
nuove difficoltà nei rapporti tra al-Fatah e Hamas, provocava Abu Mazen a trarre le conclusioni
dall’atteggiamento di Hamas.
Mentre
iniziavano a circolare voci sull’identificazione di
due membri di Hamas ben conosciuti a Hebron, resisi
entrambi irreperibili dal giorno della scomparsa dei tre studenti rabbinici
israeliani; il 30 giugno i corpi dei tre
giovani venivano ritrovati nelle vicinanze di Hebron. Le prime indagini
rivelavano che i tre giovani sarebbero stati uccisi subito dopo il sequestro.
Il ritrovamento dei corpi dei tre giovani era stato preceduto già nella notte
da una nuova impennata di violenze tra
il territorio meridionale di Israele e la Striscia di Gaza, da cui
partivano una ventina di razzi, con la risposta dell’artiglieria israeliana che
provocava tra l’altro la morte di un miliziano di Hamas
- i combattenti della fazione islamica avevano infatti
proprio in questo frangente ripreso a partecipare ai combattimenti e ai lanci
di razzi contro Israele.
L’inizio di luglio confermava la progressiva crescita della tensione tra
coloni e palestinesi, mentre il governo israeliano registrava notevoli
divisioni al proprio interno sul tipo di risposta da
dare al rapimento e assassinio dei tre giovani studenti del collegio rabbinico:
il premier Netanyahu cercava comunque di tener ferma la barra sull’obiettivo di
una dura punizione di Hamas, ritenuta colpevole del
triplice omicidio. Nella notte fra 30 giugno e 1° luglio un ragazzo palestinese
veniva ucciso a Jenin dai militari israeliani, secondo
i quali era stato colpito dal fuoco di reazione mentre lanciava un ordigno
esplosivo.
Il 2 luglio un nuovo grave fatto di sangue
moltiplicava le tensioni: veniva infatti rapito e ucciso a Gerusalemme est un
giovane arabo di 17 anni, Mohammed Khdeir, e i
palestinesi interpretavano logicamente l’accaduto come vendetta da parte dei
coloni. Netanyahu definiva l’uccisione del giovane palestinese
un crimine abominevole, disponendo tramite il ministro dell’interno
un’immediata inchiesta, mentre a Gerusalemme est si verificavano lunghi scontri
tra la popolazione e l’esercito di Tel Aviv. Secondo
i palestinesi già nella serata del 1° luglio, dopo i funerali dei tre studenti
rabbinici, centinaia di coloni avevano dato luogo a manifestazioni di
aggressività e intolleranza antiaraba, e avrebbero inoltre tentato di rapire un
bambino nelle vicinanze del campo di Shufat, dove poi
sarebbe stato sequestrato il giovane diciassettenne successivamente
assassinato. In questo difficile contesto continuavano
i colpi di mortaio e i lanci di razzi dal territorio di Gaza verso Israele.
Nei due giorni successivi continuavano
gli scontri a Gerusalemme est, che si estendevano anche a Ramallah,
mentre il territorio israeliano continuava ad essere bersagliato da razzi
provenienti dalla Striscia di Gaza, dove
l’aviazione di Tel Aviv iniziava a colpire i primi
obiettivi.
Quando il 5 luglio il procuratore generale
palestinese rendeva noto che le prime risultanze
dell’autopsia sul giovane Mohammed Khdeir indicavano
che sarebbe stato bruciato vivo, i lanci di razzi e gli scontri con le forze di
sicurezza israeliane crescevano ulteriormente: tuttavia nella mattinata del 6 luglio venivano tratti in arresto sei giovani
estremisti ebrei, anch’essi come i tre rapiti e uccisi in giugno
appartenenti agli ambienti dei collegi rabbinici, ritenuti responsabili dell’assassinio di Mohammed Khdeir–
e probabilmente del fallito sequestro del bambino presso Shufat.
Il 7 luglio arrivavano le prime
confessioni, che implicavano la formulazione delle accuse più gravi per tre
degli arrestati, mentre gli altri sarebbero stati perseguiti principalmente per
complicità. Dagli ambienti rabbinici e
dei coloni giungevano durissime parole di condanna verso gli arrestati.
Ma proprio il 7 luglio si verificava una escalation
nei lanci di razzi, sia per il numero che per il raggio d’azione, che
raggiungeva la zona centrale di Israele: la rivendicazione era stavolta aperta,
da parte del braccio militare di Hamas. Il governo israeliano disponeva un limitato richiamo di riservisti e
un progressivo incremento dei raid
aerei su Gaza, ma i disaccordi interni portavano alla rottura dell’alleanza elettorale tra il ministro degli esteri Lieberman
e il premier Netanyahu – Lieberman restava comunque nell’esecutivo, pur
criticando aspramente la linea da lui giudicata troppo debole del governo (su
posizioni analoghe si schierava anche il ministro dell’economia Naftali Bennett, vicino ai coloni). L’Egitto, pur mantenendo cautela, condannava gli attacchi aerei su
Gaza e quella che definiva – in accordo con quanto sostenuto nei giorni
precedenti dalla leadership palestinese – una punizione collettiva.
Nella notte tra 7 e 8 luglio
Israele lanciava l’operazione “Margine Protettivo”, dando il via a decine di raid aerei su Gaza in
risposta al continuo lancio di razzi dalla Striscia contro il territorio
israeliano. 40.000 riservisti venivano inoltre
richiamati dal governo di Tel Aviv in vista di una
possibile offensiva di terra. Cautelativamente, a Tel
Aviv e Gerusalemme venivano aperti decine di rifugi
pubblici per proteggere la popolazione dai razzi provenienti da Gaza, mentre le
rotte dei voli in arrivo e in partenza da Tel Aviv
venivano fatte spostare più a nord. Il premier israeliano Netanyahu affermava
inoltre di ritenere Hamas responsabile per le vittime
collaterali dei raid aerei sulla Striscia di Gaza, poiché deliberatamente
dissemina armamenti e rampe di lancio in mezzo alla popolazione civile,
trattata alla stregua di scudi umani. La reazione dell’Autorità nazionale
palestinese era immediata: il presidente Abu Mazen chiedeva a Israele di porre
fine immediatamente alla nuova operazione militare, mentre la Lega Araba
richiedeva una urgente riunione delle Nazioni Unite.
Il 9 luglio i lanci di razzi da
Gaza raggiungevano in pratica tutto il territorio israeliano, minacciando Tel Aviv, Gerusalemme e persino
Haifa, posta nell’estremo Nord: venivano infatti
impiegati missili a più lunga gittata, gli M302, secondo Israele forniti a Hamas dall’Iran. Mentre il sistema antimissile Iron Dome intercettava i razzi diretti in zone più
densamente abitate, due di questi puntavano alla centrale nucleare di Dimona, ma venivano ugualmente
distrutti in volo. Il presidente Abu
Mazen accusava Israele di vero e proprio genocidio, mentre il segretario
generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon
richiamava Tel Aviv alla moderazione nella reazione.
D’altra parte lo stesso presidente uscente di Israele, Shimon Peres,
notoriamente moderato, ammoniva Hamas a porre fine ai
lanci di razzi, pena l’invasione di terra della Striscia. Vi erano intanto i
primi contatti delle diplomazie occidentali con le parti in conflitto per
giungere a una tregua, mentre l’Egitto si manteneva ancora cauto, pur
richiamando Israele alla moderazione e condannando i raid su Gaza. La Lega
Araba, peraltro, si spingeva a chiedere agli USA di costringere Israele a porre
fine agli attacchi aerei.
Lo stesso Ban Ki-moon il 10 luglio,
aprendo la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’ONU, chiedeva
l’immediato cessate il fuoco, riscontrando peraltro un
diniego da parte di Netanyahu. Il
bilancio delle vittime superava a Gaza il numero di 90,
mentre più di 800 raid erano stati ormai compiuti sulla Striscia dall’aviazione
israeliana e circa 500 razzi avevano
raggiunto il territorio israeliano, senza peraltro provocare vittime, anche
per l’intercettazione di quelli più pericolosi da parte del sistema
antimissilistico Iron Dome. Dopo giorni di diniego, l’Egitto apriva finalmente il valico di
Rafah per consentire l’afflusso di palestinesi feriti e bisognosi di cure
in territorio egiziano. Si moltiplicavano gli appelli per una tregua immediata:
in particolare, gli USA chiedevano a Israele di non invadere la Striscia,
mentre Ban Ki-moon definiva
non tollerabile un eccessivo uso della forza da parte israeliana.
L’11 luglio i morti a Gaza
superavano il centinaio, con più di 500 feriti. Ciononostante Hamas annunciava di voler continuare i lanci di razzi e avvertiva le compagnie aeree straniere di sospendere i voli da e per
Tel Aviv. Ulteriori 210 raid
aerei punteggiavano la giornata, a fronte di quasi duecento nuovi razzi
palestinesi lanciati da Gaza. Due razzi lanciati dal Libano meridionale
cadevano in territorio israeliano a nord della città di Kiryat
Shmona: il responsabile, membro di un gruppo
estremista, rimaneva ferito nel tentativo di lanciare un terzo razzo e veniva prontamente arrestato dalle autorità libanesi. Ciò
consentiva a Hezbollah di dissociarsi apertamente dall’accaduto, richiamando
indirettamente sui pericoli rappresentati dal jihadismo sunnita, pur ribadendo il proprio sostegno
politico e morale alla resistenza palestinese.
Il 12 luglio la prosecuzione dei combattimenti faceva salire a 150 il numero delle
vittime a Gaza, e a più di mille i feriti: nelle stesse ore oltre 60 razzi colpivano il territorio centrale meridionale di
Israele senza provocare vittime, e alcuni di essi raggiungevano anche zone
fortunatamente disabitate della Cisgiordania palestinese, nei pressi di Hebron
e di Betlemme. La rappresentanza
palestinese all’ONU denunciava che quattro quinti delle vittime di Gaza erano
civili. In questo contesto si moltiplicavano
affannosamente gli sforzi diplomatici, e il
Consiglio di sicurezza dell’ONU approvava all’unanimità una dichiarazione
per un rientro progressivo della situazione alla normalità, citando in
particolare la ripresa del cessate il fuoco che aveva posto fine nel novembre
2012 alla Seconda guerra di Gaza. L’appello del Consiglio di sicurezza
esprimeva profonda preoccupazione per la crisi in corso a Gaza e per i civili
di entrambe le parti, richiamando al rispetto del diritto umanitario
internazionale - con particolare riguardo alle norme per la protezione dei
civili -, nonché il sostegno per la ripresa di
negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Cresceva intanto il ruolo di mediazione dell’Egitto, che si faceva
attore della presentazione alle parti di una bozza di
documento per il raggiungimento di una tregua. Sul terreno tuttavia assumeva
sempre maggiore probabilità l’ipotesi di un imminente ingresso delle truppe di
terra israeliane nella Striscia, che veniva progressivamente
accerchiata: ripetuti messaggi venivano indirizzati dalle forze armate
israeliane alla popolazione di Beit Lahya, nella parte settentrionale di Gaza, ad abbandonare
rapidamente le proprie case, che in breve si sarebbero trovate in zona di
combattimento.
Il giorno successivo, 13 luglio, la popolazione palestinese - nonostante i contrordini di
Hamas - sembrava dare credito agli avvertimenti
israeliani, sgomberando in massa Beit Lahya. Frattanto a Vienna i rappresentanti di Francia,
Germania, Regno Unito e Stati Uniti si riunivano per discutere del conflitto in
atto, e in serata il
segretario di Stato americano John Kerry, in una conversazione telefonica
con il premier israeliano Netanyahu, offriva la disponibilità degli USA ad
un’azione di facilitazione del cessate il fuoco, per il ripristino dell’accordo
del 2012, agendo nel contempo per arrestare i lanci di razzi contro Israele. I
combattimenti intanto portavano il totale delle vittime palestinesi a quasi
170, mentre Israele nella sola giornata del 13 luglio riceveva oltre 70 razzi sul proprio territorio, ancora una volta senza
vittime né feriti: il totale dei raid aerei superava la cifra di 1300. In
questo contesto il
presidente palestinese Abu Mazen chiedeva alle Nazioni Unite di porre la
Palestina sotto protezione internazionale nei confronti dell’azione
militare israeliana su Gaza, giudicata di portata eccessiva.
La gravità del conflitto in atto emergeva in
tutta la sua drammaticità il 14 luglio,
quando il numero delle vittime a Gaza
superava quello della crisi del 2012, con più di 180 morti e oltre 1.100
feriti. Nella stessa giornata un
centinaio di razzi raggiungevano da Gaza lo spazio
aereo israeliano, accompagnati anche da colpi di mortaio diretti
soprattutto nel sud del paese – nel Negev una bambina veniva ferita in modo
grave. Dal territorio siriano inoltre
alcuni razzi raggiungevano la zona delle alture del Golan occupata da
Israele, e dal Libano un altro razzo cadeva nel Nord di Israele, nei pressi
della cittadina di Nahariya. Una novità era
rappresentata da alcuni droni di Hamas che sorvolavano il territorio israeliano, uno dei quali veniva abbattuto sui cieli di Ashdod.
D’altra parte proseguivano incessanti i raid aerei dell’aviazione israeliana
sulla Striscia.
Sul fronte diplomatico l’Egitto lanciava una proposta di tregua, dicendosi disposto ad
accogliere dopo l’eventuale stipula di essa
delegazioni delle parti in lotta ad alto livello per un’apertura di negoziato.
Nella mattinata del 15 luglio Israele sospendeva gli attacchi aerei su Gaza in risposta alla proposta egiziana di tregua: tuttavia,
dopo circa cinque ore gli attacchi riprendevano, dopo la constatazione della non adesione di Hamas
alla tregua, con il proseguire incessante dei lanci di razzi sul territorio
israeliano. Nell’esecutivo di Tel Aviv, peraltro,
anche la sospensione degli attacchi aveva incontrato la consueta opposizione di
Lieberman e Naftali Bennett. La giornata registrava
poi la prima vittima israeliana, un civile ucciso da colpi di mortaiosparati in prossimità del valico di
Erez tra Israele e Gaza. Complessivamente le vittime
nella Striscia toccavano ormai quasi il numero di 200, e i feriti quello di
1.400.
In serata il ministro degli esteri
italiano Federica Mogherini, in visita in
Israele, si incontrava con il presidente dell’ANP Abu Mazen, esprimendo apprezzamento
per il supporto del presidente palestinese alla proposta egiziana di tregua. In
precedenza la Mogherini, accompagnata nel sud
d’Israele, aveva espresso con chiarezza la posizione italiana favorevole alla
cessazione immediata delle ostilità anche al ministro degli esteri israeliano
Lieberman.
Intanto, dopo che nella notte tra 14 e 15
luglio altri razzi avevano raggiunto il territorio israeliano dal Sinai e dal
Libano - provocando le consuete risposte dell’artiglieria israeliana -,
all’alba un attacco aereo israeliano sul
Golan siriano provocava nei pressi di Quneitra
quattro vittime, in risposta ai razzi che il giorno
precedente avevano raggiunto la porzione del Golan occupata dalle truppe
israeliane.
Il 16
luglio la recrudescenza dei combattimenti portava il numero delle vittime a
Gaza a più di 220: particolarmente tragica appariva la morte di sei bambini,
quattro dei quali colpiti da aerei israeliani mentre si davano alla fuga su una
spiaggia per quello che successivamente Israele
definiva un errore di identificazione, sul quale era disposta un’inchiesta. La
situazione veniva fotografata dal capo negoziatore
israeliano Tzipi Livni
incontrando il ministro degli esteri italiano Mogherini:
la Livni affermava che in mancanza dell’accettazione,
da parte di Hamas, della tregua promossa dall’Egitto,
Israele sarebbe stato costretto a una risposta ancora più forte -alla quale
sembrava alludere il richiamo di ulteriori 8.000 riservisti nelle forze armate,
probabile preludio di un massiccio ingresso di forze di terra nella Striscia.
La determinazione di Israele veniva ribadita al
ministro Mogherini anche dal premier Netanyahu, in un
incontro di un’ora e mezza.
Nella giornata un altro centinaio di razzi venivano diretti verso il territorio israeliano, compresi i cieli
di Tel Aviv. La situazione umanitaria nella Striscia
si aggravava progressivamente, anche in ragione dello sgombero almeno parziale di interi quartieri nelle cittadine settentrionali di Gaza
dopo avvisi israeliani di imminenti bombardamenti per la presenza in quei rioni
di massicci arsenali di armi.
Il 17
luglio al Cairo i mediatori egiziani incontravano separatamente esponenti
israeliani e palestinesi - incluso Hamas - ma, dopo
uno spiraglio positivo, proprio dal movimento islamico egemone a Gaza arrivava
un nuovo stop, con la motivazione di apportare ulteriori
modifiche al piano di pace egiziano.
In serata, dopo una nuova serie di raid aerei e colpi di artiglieria, si
verificava un massiccio ingresso di
forze di terra israeliane nella Striscia di Gaza, appoggiate da pezzi
d’artiglieria e mezzi corazzati, mentre in parallelo sbarcavano truppe anfibie
sulla costa di Gaza. L’obiettivo dichiarato di Israele erano le installazioni
da cui venivano lanciati i razzi e soprattutto, in un
primo tempo, la distruzione dei tunnel nei quali Hamas
aveva occultato ingenti armamenti e che tra l’altro consentivano ai terroristi
di infiltrarsi persino in territorio israeliano - come avvenuto all’alba,
quando un commando palestinese era riuscito a sbucare oltre le linee israeliane,
a circa un chilometro da un kibbutz di frontiera, ma era stato neutralizzato
dalle forze di sicurezza israeliane.
Intanto il bilancio delle vittime a Gaza toccava la cifra di 240.
Il 18
luglio il pur limitato ingresso nel territorio di Gaza provocava ulteriori vittime, portando il totale ormai a quasi
trecento, e 2.200 feriti. Perdeva la vita anche il
primo soldato israeliano, probabilmente vittima di fuoco amico. Di fronte a
questa tragica situazione il segreto generale dell’ONU richiamava Israele a una
maggiore attenzione nei confronti di civili, con una pronta protesta del
premier Netanyahu. Su iniziativa turca
il Consiglio di sicurezza era convocato con urgenza nella serata del 18 luglio.
Anche il Papa telefonava ai due protagonisti dell’incontro di preghiera
tenutosi a Roma all’inizio di giugno, Shimon Peres e Abu Mazen, esternando le
sue gravissime preoccupazioni sugli sviluppi del conflitto.
L’ingresso di truppe di terra israeliane a
Gaza accresceva il panico della popolazione in cerca di scampo, che andava ad
affollare oltremisura le strutture umanitarie dell’ONU presenti a Gaza.
Peraltro ben lungi dall’esaurirsi sembravano i lanci di razzi sul territorio
israeliano, che mantenevano un numero costante.
Sul piano degli sforzi diplomatici per giungere
a un cessate il fuoco non giovava certo la dura
polemica turca nei confronti dell’Egitto, accusato di fare sostanzialmente
il gioco di Israele, e anzi addirittura di agire d’intesa con Tel Aviv, come dimostrerebbe il fatto che
Israele aveva prontamente accettato la proposta di tregua egiziana. Nelle ore
precedenti, del resto, il ministro degli esteri egiziano Shoukri
aveva dal canto suo accusato Turchia e Qatar di sabotaggio deliberato degli
sforzi di mediazione egiziani, ai quali del resto non
sembrava giovare la posizione abbastanza defilata degli Stati Uniti nei
confronti delle autorità egiziane.
L’Egitto, preso atto dei contrasti di
notevole portata con la Turchia e il Qatar, provava a sorpresa a rilanciare il
piano negoziale, richiedendo il sostegno di Teheran durante un colloquio
telefonico tra il ministro degli esteri egiziano e l’omologo iraniano Zarif. Nell’iniziativa egiziana non va dimenticato il
recente processo di riavvicinamento tra Hamas e
l’Iran, i cui legami si erano invece allentati temporaneamente nel periodo in
cui l’Egitto aveva visto la presidenza di Morsi, esponente di primo piano della
Fratellanza musulmana: probabilmente la richiesta di sostegno all’Iran potrebbe
produrre secondo il Cairo opportune pressioni su Hamas
per un via libera al piano di pace egiziano. A riprova della volontà di premere
su Hamas va ricordato anche l’invito al capo politico
in esilio del movimento islamico Meshaal a recarsi in
Egitto per negoziati diretti sul cessate il fuoco.
La posizione cruciale dell’Egitto negli
sforzi diplomatici internazionali restava comunque forte in ragione di vasti
appoggi, a partire dalla Lega araba e dal presidente dell’ANP Abu Mazen. Il sostegno
italiano è stato ribadito al ministro degli esteri
egiziano nell’incontro del 19 luglio al Cairo con l’omologo italiano Mogherini, nonché dal collega francese Fabius.
Il 19
luglio proseguiva l’offensiva di terra israeliana, sempre diretta
prevalentemente contro i tunnel sotterranei di Hamas:
dei 34 scoperti, cinque erano finalizzati proprio a
raggiungere il territorio israeliano- e proprio contrastando uno di questi
tentativi perdevano la vita due soldati israeliani, oltre a un civile colpito
da un razzo nella parte meridionale di Israele. Proseguivano intanto anche i
raid aerei sulla Striscia e i lanci di razzi da Gaza, uno dei quali feriva un
soldato egiziano distanza nel Sinai. Il bilancio delle vittime a Gaza superava
intanto la cifra di 340, con quasi 3.300 feriti, mentre il numero degli
sfollati era salito a 55.000, e nuovi flussi di profughi si annunciavano in
seguito all’ordine dell’esercito israeliano di sgomberare diversi campi
profughi del territorio di Gaza, prossime zone di combattimento.
Frattanto in Europa la
situazione di Gaza cominciava a provocare manifestazioni di piazza, la principale delle quali si svolgeva
pacificamente a Londra, in analogia a quanto avvenuto anche a Bruxelles. Più
problematica la situazione francese, dove un corteo vietato per i rischi di
attacchi contro istituzioni ebraiche nella capitale si svolgeva ugualmente con
la partecipazione di centinaia di manifestanti, che si scontravano con le forze
dell’ordine, con un bilancio di diversi feriti e una trentina di arresti. Il
giorno successivo, 20 luglio, nuovi incidenti si registravano nella periferia settentrionale
di Parigi, fortemente caratterizzata dalla presenza
ebraica, mentre altre manifestazioni pacifiche si svolgevano ad Amsterdam e a
Vienna. In Marocco la protesta si allineava alla presa di posizione delle
autorità che già avevano condannato l’escalation militare israeliana contro
Gaza, destinando alla popolazione palestinese urgenti
aiuti umanitari: a Rabat un corteo unitario si è diretto pacificamente verso il
Parlamento.
Il 20
luglio la situazione faceva registrare nuove gravi tragedie, con le vittime
di Gaza che superavano il numero di 430, con oltre 3.000 feriti. Nel solo rione di Sajaya,
limitrofo di Gaza City, perdevano la vita sotto i bombardamenti più di 60 persone, la metà delle quali donne e bambini. I fatti
di Sajaya provocavano unanime condanna del mondo
arabo: dalla capitale del Qatar Abu Mazen, impegnato in sforzi diplomatici,
sollecitava una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’ONU, mentre il segretario generale della Lega Araba el-Araby definiva barbari i bombardamenti israeliani,
qualificati altresì come crimine di guerra contro i civili.
L’aggravarsi dei combattimenti veniva testimoniato anche dalla parte israeliana, con la
perdita nella sola giornata del 20 luglio di 13 soldati, e con il giallo legato
alla scomparsa di un carrista del quale Hamas
rivendicava la cattura, rinnovando i fantasmi della vicenda di Gilad Shalit del 2006. Rispetto
ai fatti di Sajaya Israele reiterava l’accusa a Hamas usare i civili come scudi umani, poiché dal rione bombardato sarebbero partiti dall’inizio del conflitto ben
140 razzi verso il territorio israeliano, e comunque gli abitanti erano stati
più volte avvisati dell’imminente bombardamento. Sempre difficile la posizione
statunitense che, a fronte dell’appoggio al diritto di Israele all’autodifesa, prospettavano al premier Netanyahu la necessità immediata di
un cessate il fuoco sulla base della tregua mediata nel 2012 con un ruolo
determinante dell’Egitto.
Sul piano umanitario si presentava sempre più
grave la situazione dei profughi civili, che secondo alcune fonti potevano aver
raggiunto ormai la cifra di 80.000, stipati in edifici dell’Agenzia umanitaria
delle Nazioni Unite in Palestina. In questo contesto l’Egitto procedeva a riaprire il valico di
Rafah come segno di solidarietà verso la popolazione di Gaza.
Infine l’asilo-mensa
e ambulatorio pediatrico della cooperazione italiana “Terra dei bimbi”,
secondo l’Organizzazione non governativa incaricata della gestione
di esso, “Vento di terra”,
veniva raso al suolo da bulldozer dell’esercito israeliano nel quadro di altre
demolizioni programmate: la distruzione dell’asilo sarebbe stata completamente
priva di motivazione, e veniva chiesto un passo deciso dei principali
finanziatori del progetto umanitario (il Ministero italiano degli esteri,
l’Unione europea e la CEI) nei confronti del governo israeliano.
Il 21
luglio il conflitto assumeva forme sempre più ravvicinate fra le parti in
lotta: colpi di artiglieria israeliani centravano un ospedale nella parte
centrale della Striscia e un grattacielo a Gaza City, in entrambi i casi con
vittime civili. D’altra parte nella mattinata un tentativo di
infiltrazione nel Negev attraverso un tunnel portava allo scontro ravvicinato tra forze di
sicurezza israeliane e commando palestinesi, con la morte di 10 miliziani e
quattro soldati israeliani. Altri tre soldati perdevano la vita a Gaza
proseguendo nella caccia ai tunnel nascosti. Saliva così a 25 il numero dei militari israeliani morti dall’inizio dell’operazione di
terra a Gaza, a fronte di circa 150
miliziani palestinesi.
Nelle città arabe in territorio israeliano
l’Alto comitato di controllo arabo indiceva uno sciopero in varie forme contro
l’azione militare israeliana a Gaza: in Cisgiordania, come anche a Nazaret e altre piccole città vi erano proteste, venivano sospese attività e chiusi negozi: a Nazaret si svolgeva anche una manifestazione con incidenti
che portavano all’arresto di 10 persone.
Il 22 luglio le vittime a Gaza
superavano la cifra di 600, mentre continuava un imponente sfollamento dal nord
della Striscia per sfuggire all’artiglieria israeliana: le
forze di sicurezza di Israele registravano altre tre vittime, oltre a non avere
ancora notizie del carrista scomparso il 20 luglio. Proseguiva intanto il
collasso umanitario, con ormai oltre
130.000 sfollati che le strutture dell’ONU a Gaza non riuscivano più a
contenere, e che quindi si sparpagliavano anche per le strade e nei
giardini pubblici. Un discorso a parte merita la situazione dei bambini: oltre alle 121 vittime denunciate
dall’Unicef, la più giovane delle quali aveva
appena cinque mesi, e 80 meno di 12 anni, oltre
900 bambini palestinesi erano stati feriti dall’inizio della nuova guerra
di Gaza, e decine di migliaia di essi risultavano traumatizzati dalle tragiche
vicende che stavano vivendo. Più in generale, sulla popolazione pesavano carenze di
prestazioni ospedaliere e di medicinali, mentre problematico per oltre un
milione di persone era ormai l’accesso all’acqua, con gravi conseguenze sul
piano igienico-sanitario.
Peraltro Israele registrava un successo
quando il segretario generale delle
Nazioni Unite pronunciava una condanna verso Hamas
per l’utilizzazione di siti civili a scopi militari, con il coinvolgimento
nei combattimenti di scuole, ospedali e moschee: in tal modo Ban Ki-moon dava ragione alle
ripetute accuse del governo israeliano verso Hamas di
usare civili come scudi umani, per comprovare le quali il 21 luglio erano state
anche pubblicate fotografie aeree nelle quali si vedevano lanci di razzi dalle
immediate vicinanze di moschee, ospedali, cimiteri e anche campi giochi per
bambini.
Il 23
luglio, nel protrarsi del conflitto di Gaza frammezzo alla sostanziale
sterilità degli sforzi diplomatici internazionali, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite approvava una
risoluzione che dispone per un’indagine su presunti crimini di guerra e
contro l’umanità commessi a Gaza: nella risoluzione si condanna la vasta,
sistematica violazione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali derivante dall’operazione militare israeliana nei territori
palestinesi occupati dal 13 giugno. Il documento è stato approvato da 29 dei 47 membri del Consiglio ONU per i diritti umani,
mentre ha ricevuto il voto contrario degli Stati Uniti e 17 astensioni, tra le
quali quella del nostro Paese. Al documento replicava seccamente il premier
israeliano Netanyahu, definendolo una parodia da rigettare, e invitando
polemicamente piuttosto a
indagare sulle violazioni commesse da Hamas
sia con i lanci di razzi verso Israele che con l’occultamento di armamenti in
luoghi abitati da civili.
Mentre sul fronte palestinese sembrava che il
leader palestinese Abu Mazen si avvicinasse alle richieste di Hamas per una tregua - al proposito il leader in esilio di Hamas Meshaal poneva come
condizione preliminare la rimozione del blocco israeliano sulla Striscia -, la
tragicità dello scontro a Gaza non accennava a diminuire: era
infatti bombardato l’ospedale al-Wafa, nelle vicinanze di Sajaya,
con la motivazione che da tale sito sarebbero partiti colpi di artiglieria
palestinesi contro i soldati israeliani.
Hamas poteva invece salutare come vittoria la moratoria di fatto dei voli
internazionali sull’aeroporto principale di Israele, lo scalo ben Gurion di Tel Aviv, dopo che le
compagnie aeree europee e americane avevano confermato per ulteriori 24 ore la sospensione dei voli da e per l’aeroporto di Tel Aviv.
Il 24 luglio i combattimenti
raggiungevano anche una scuola dell’Agenzia umanitaria delle Nazioni Unite a
Gaza, nella quale si trovavano numerosissimi
profughi palestinesi, con un bilancio di 17 morti e un
centinaio di feriti, tra i quali alcuni membri dello staff dell’ONU. Il
bilancio delle vittime superava ormai nella Striscia la cifra di 760, con più
di 4.000 feriti e una situazione umanitaria sempre più grave. Dall’altro lato i
soldati israeliani morti salivano a 32, mentre
proseguiva, anche se attenuata, la pioggia di razzi su Israele. Un parziale
successo per Tel Aviv era la riapertura dei voli
sull’aeroporto Ben Gurion. In serata si verificavano violenti scontri tra forze di sicurezza
israeliane e i palestinesi anche a Gerusalemme est e nella località cisgiordana
di Qalandia, dove perdeva la vita un manifestante.
Il giorno successivo, 25 luglio, la tensione saliva ulteriormente, e cinque palestinesi venivano uccisi in
Cisgiordania durante manifestazioni di solidarietà con la popolazione di Gaza degenerate
in violenti scontri con le forze di sicurezza israeliane. La tensione si
manteneva alta anche nella Città vecchia di Gerusalemme, dove i fedeli musulmani
giungevano a forzare il blocco di polizia che impediva l’ingresso ai più
giovani di cinquant’anni nella Spianata delle moschee,
al fine di prevenire incidenti.
Intanto Israele dichiarava ufficialmente
ucciso in combattimento il soldato di cui si era temuto il 20 luglio il
rapimento - che Hamas aveva
effettivamente rivendicato -, senza peraltro comunicarne il luogo di
sepoltura.
Sul piano diplomatico si registrava il
dissenso di Israele sulla proposta del segretario di Stato americano per un
cessate il fuoco a Gaza, ritenuta insufficiente da Netanyahu soprattutto perché
le truppe israeliane non erano disposte a lasciare il territorio di Gaza, ove intendevano continuare la distruzione dei tunnel scavati da Hamas a scopi militari. Ciò che era effettivamente
accettato era una tregua umanitaria di 12 ore, dalle 7 alle 19 il 26 luglio, e su questa
proposta Hamas dava parere favorevole.
In Europa il protrarsi del conflitto tra Israele e Gaza provocava il 25 luglio nuove manifestazioni di protesta contro
l’occupazione israeliana di territori palestinesi:
queste si svolgevano pacificamente in Germania - dove invece nei giorni
precedenti si erano verificati alcuni episodi di stampo antisemita, messi in
atto però soprattutto da dimostranti immigrati di religione islamica. Il giorno
successivo, tuttavia, nel tardo pomeriggio nuovi scontri
si verificavano a Parigi in occasione di un altro corteo, vietato dalle
autorità, indetto per protestare contro l’operazione militare israeliana a
Gaza. Senza incidenti invece altre manifestazioni a Lione, Marsiglia, Lilla e
Tolosa. Una nuova manifestazione aveva luogo il 26 luglio anche a Londra, ove diecimila persone sfilavano
pacificamente.
A Parigi poche ore prima dei nuovi incidenti
si era svolto un vertice guidato dal
ministro degli esteri francese con gli omologhi di altri paesi, tra i quali
John Kerry e Federica Mogherini, dal quale usciva un
appello per un prolungamento di 24 ore della tregua
del 26 luglio, eventualmente rinnovabile. Alla proposta però replicava Hamas lanciando alcuni razzi su Israele nella serata, e in
tal modo facendo cadere il prolungamento alla mezzanotte che Tel Aviv sembrava aver accettato. Frattanto il numero delle vittime a Gaza superava il migliaio, e gli
sfollati raggiungevano la cifra di circa 165.000. Israele vedeva salire il
numero dei militari morti a 40 e quello dei feriti a
138.
Il 27 luglio, nel proseguire dei combattimenti a minore intensità, emergeva più
marcato il contrasto tra le proposte
dell’Amministrazione americana e la risposta di Israele, che aveva per
l’ennesima volta rifiutato quanto prospettato dal segretario di Stato John
Kerry, definendo la mediazione egiziana l’unica
possibile e accettabile: Israele infatti non vedeva adeguatamente considerate
le sue ragioni rispetto alla sicurezza del proprio territorio, e vedeva inoltre
gli Stati Uniti sbilanciati verso la mediazione prevalente di Turchia e Qatar,
apertamente schierati con Hamas, mentre avrebbero
trascurato il ruolo dell’Egitto e dell’ala palestinese moderata incarnata da
Abu Mazen. A queste posizioni di Israele reagiva il presidente Barack Obama, chiedendo con nettezza al premier
israeliano, in una conversazione telefonica, un cessate il fuoco umanitario
immediato e incondizionato, accennando tuttavia anche la necessità della
smilitarizzazione di Gaza e del disarmo dei gruppi terroristici che nella
Striscia erano attivi.
Nella notte tra 27 e 28 luglio
il Consiglio di sicurezza dell'ONU adottava una Dichiarazione unanime per chiedere un "cessate
il fuoco umanitario immediato e senza condizioni" a
Gaza. Nella Dichiarazione si invitano Israele e Hamas a una piena applicazione della tregua per tutta la
durata della festa musulmana dell'Eid al Fitr (la fine del Ramadan) ed oltre. Si richiede inoltre il
"pieno rispetto del diritto umanitario internazionale, in particolare per
quanto riguarda la protezione dei civili", nonché
la protezione delle strutture civili e umanitarie, comprese quelle delle
Nazioni unite. Il CdS esortava a rinnovati sforzi per
"la messa in pratica di un cessate il fuoco duraturo e pienamente
rispettato, basato sulla proposta egiziana" di mediazione.
Tuttavia la giornata del 28 luglio registrava il riaccendersi dei lanci di razzi
su Israele e dei raid israeliani su Gaza, dove la fine del Ramadan dava ben
poche occasioni per festeggiare: otto
bambini erano uccisi da un razzo in un parco giochi a Shati,
mentre esplodeva anche l’ambulatorio in disuso nei pressi dell’ospedale più
grande della Striscia, quello di Shifa. In entrambi i
casi Israele però accusava Hamas,
dai cui razzi sarebbero stati colpiti i due siti - il portavoce militare di Tel Aviv segnalava come dall’inizio delle ostilità di
questa tornata a Gaza circa 200 razzi lanciati dalla Striscia sarebbero caduti
all’interno del territorio di essa. Nel frattempo un commando di Hamas, infiltratosi nel Negev da un tunnel sotterraneo veniva neutralizzato, con la morte di cinque
palestinesi.
La difficoltà nei rapporti tra
Israele e gli Stati Uniti emergeva ulteriormente dalle parole di Netanyahu, per il quale il paese doveva
prepararsi a una lunga operazione fino alla neutralizzazione a Gaza di
tutti tunnel e dei siti per i lanci di razzi, in forte contrasto
all’esortazione del presidente Obama, e in polemica con le proposte avanzate da
John Kerry, che secondo Tel Aviv
erano inaccettabili poiché ponevano sullo stesso piano Israele e Hamas - lo stesso Kerry in effetti sembrava aver avuto un
momento di ripensamento sottolineando la necessità del disarmo di Hamas contestuale al cessate il fuoco, e rimettendo sul
tappeto un riferimento al piano egiziano per la tregua, che Israele aveva
accettato.
Il 29 luglio, le voci di una possibile tregua lasciavano ancora il
posto al prevalere dei combattimenti: dopo che nella giornata precedente
numerosi razzi avevano nuovamente attinto lo spazio aereo e il territorio
israeliani, Gaza veniva sottoposta a un forte
bombardamento che provocava un centinaio di morti, portando il totale a quasi
1.200, e tra questi 230 bambini. Tra gli obiettivi dei bombardamenti l’unica
centrale elettrica ancora attiva a Gaza, la cui disattivazione sicuramente contribuiva a
ulteriori disagi per la popolazione civile, all’interno della quale erano ormai
quasi 300.000 gli sfollati – non a caso iniziavano a verificarsi episodi di
disperazione come l’assalto ad alcuni forni. Dal canto suo l’esercito
israeliano arrivava
a contare 53 soldati vittime del conflitto. Un nuovo tentativo di infiltrazione da un tunnel nel Nord della Striscia veniva
sventato con l’uccisione di cinque palestinesi.
Sul fronte internazionale, oltre
all’incessante proseguire del lavorio diplomatico soprattutto al Cairo, va
segnalata la presa di posizione delle
massime autorità iraniane, con la guida suprema Ali Khamenei che attaccava
Israele, qualificato alla stregua di cane rabbioso che attacca persone innocenti e bambini, e che avrebbe perpetrato un
vero e proprio genocidio a Gaza. Khamenei esortava il mondo musulmano a
compiere ogni sforzo per armare il popolo palestinese, il quale costituiva un
esempio per tutti nella sua disperata resistenza nella ridotta di Gaza ormai in
gran parte priva di acqua e di elettricità. Dal canto suo il presidente
iraniano Rohani non era da meno, spingendosi a
paragonare lo Stato ebraico a un tumore infetto, da combattere con lo stesso
vigore con il quale Rohani chiamava alla
mobilitazione contro l’Isis, impegnato a stabilire il
califfato nei territori a cavallo tra Iraq e Siria, e che nel frattempo
massacra musulmani in nome dell’Islam.
Il 30 luglio si verificava un nuovo gravissimo episodio che coinvolgeva i
civili di Gaza: un colpo di artiglieria
israeliano centrava una scuola dell’Agenzia umanitaria dell’ONU per i rifugiati
a Jabaliya, provocando 23 morti e decine di feriti: l’episodio provocava
una dura reazione del segretario generale dell’ONU, che definiva l’attacco
ingiustificabile e vergognoso. Con toni più morbidi anche gli Stati Uniti
condannavano l’attacco contro civili innocenti. Inoltre nel mercato di Sajaya, località già duramente colpita nei giorni
precedenti, fonti palestinesi riferivano esservi stati altri 17
morti e 160 feriti. Il totale delle
vittime a Gaza dall’inizio del conflitto superava le 1.300 vittime e il numero
dei feriti la cifra di 7.000. Frattanto nella
giornata del 30 luglio l’esercito israeliano perdeva altri tre soldati
nell’esplosione di un tunnel nella parte meridionale della Striscia, con un
totale di 56: negli ospedali israeliani risultavano
ricoverati oltre 100 feriti per i lanci di razzi da Gaza, che erano proseguiti
sul territorio israeliano.
A fronte dell’apparente volontà del governo di Tel Aviv di proseguire nell’azione militare a Gaza faceva
spicco l’avviso contrario dell’ex presidente Shimon Peres, per il quale la soluzione del conflitto doveva
tornare alla diplomazia, in quanto l’opzione militare
aveva esaurito la propria funzione: secondo Peres l’obiettivo doveva essere
quello di ricondurre la leadership della Striscia di Gaza all’ala moderata dei
palestinesi guidata da Abu Mazen.
Frattanto la
situazione umanitaria a Gaza si avvicinava a quella che sembrava davvero una
catastrofe, con circa 400.000 sfollati:
l’Ufficio ONU per gli affari umanitari rendeva noto
che i civili palestinesi a Gaza affollavano le strutture dell’Agenzia delle
Nazioni Unite in misura quadrupla rispetto alla precedente crisi del novembre
2012.
In questo difficile contesto anche la diplomazia vaticana sembrava dare
segnali di preoccupazione, con l’invio di una Nota verbale della Segreteria
di Stato alle ambasciate accreditate presso la Santa sede, per richiamare gli
appelli sul Medio Oriente che negli ultimi tempi il Papa aveva rivolto a più
riprese.
Il 31 luglio
Israele procedeva al richiamo di altri 16.000 riservisti, segnale indiretto di una non imminente cessazione
dell’operazione a Gaza, dove intanto il precipitare della situazione umanitaria
induceva il presidente palestinese Abu Mazen a dichiarare Gaza area disastrata, per la quale veniva
richiesta la protezione dell’ONU.
Su un altro versante, l’Alto commissario ONU per i diritti
umani Navi Pillay tornava ad accusare Israele che deliberatamente
avrebbe violato il diritto internazionale, e per di più sarebbe stato
fortemente appoggiato dagli Stati Uniti con forniture di artiglieria pesante.
Secondo l’Alto commissario peraltro anche Hamas
avrebbe commesso gravi violazioni dei diritti umani, fino a sfiorare (come
Israele) i crimini contro l’umanità. La responsabile per gli affari umanitari
delle Nazioni Unite Valerie Amos, dal canto suo, richiamava le parti in
conflitto agli obblighi derivanti dal diritto internazionale umanitario, in margine
ad un’ennesima riunione di emergenza del
Consiglio di sicurezza. Mentre Israele per bocca
del proprio rappresentante all’ONU respingeva vibratamente le accuse, il portavoce della Casa Bianca Earnest rincarava la dose sulla condanna del giorno
precedente, definendo il bombardamento di edifici dell’ONU stipati di civili inaccettabile e indifendibile. Il primo ministro turco Erdogan si spingeva a paragonare l’operazione
militare israeliana a quelle dei nazisti.
Solo sullo sfondo si manteneva intanto la diplomazia, al
centro dei cui sforzi sembrava rimasta
solo la proposta di mediazione egiziana, che il Presidente del consiglio Matteo
Renzi, in procinto di recarsi in visita al Cairo,
definiva l’unica carta da giocare nello scenario in corso. Nella notte fra 31 luglio e 1° agosto il segretario di Stato USA Kerry
e il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon concordavano con le parti in lotta una tregua di 72 ore, a partire dalle h. 8 del mattino successivo: la
tregua veniva però violata quasi subito da miliziani palestinesi che,
infiltratisi attraverso un tunnel in territorio israeliano provocavano la morte
di due soldati e ne rapivano un terzo – secondo l’ipotesi formulata dalle forze
di sicurezza israeliane e nonostante la veemente reazione di queste.
Le delegazioni israeliana e palestinese al Cairo riuscivano comunque ad accordarsi per una tregua di tre giorni a partire dal 5 agosto,
mentre da parte israeliana si erano già registrati segni di un diminuzione
della frequenza dei bombardamenti. Tuttavia, esattamente allo scadere della
tregua, alle otto del mattino dell’8 agosto partivano nuovi attacchi da Gaza
sul sud d’Israele, con il lancio di numerosi razzi, suscitando l’immediata
reazione dell’artiglieria e dell’aviazione israeliane. Una nuova tregua veniva concordata per 72 ore,
includendo i giorni dall’11 al 13 agosto: tuttavia proprio il 13 agosto,
mentre riprendeva le operazioni di disinnesco di un ordigno israeliano
inesploso a Gaza da parte di artificieri palestinesi, veniva coinvolto dalla
deflagrazione della bomba e perdeva la
vita il videoreporter italiano Simone Camilli, di
35 anni, che si trovava a Gaza per conto dell’agenzia statunitense Associated Press.
Intanto però una nuova tregua di cinque giorni dava l’impressione di un’imminenza
dell’accordo per un cessate il fuoco finalmente durevole: tuttavia il 19 agosto i combattimenti riprendevano
con asprezza da entrambe le parti, e i razzi di Hamas
solcavano i cieli di Tel Aviv e Gerusalemme mentre la
delegazione di negoziatori israeliani lasciava Il Cairo. Lo scontro armato
proseguiva senza sostanziali novità fino al 26 agosto, quando si annunciava il raggiungimento di un accordo per una
tregua più duratura, in vista di un accordo politico più comprensivo da
raggiungere con negoziati a partire dalla fine di
settembre – purché naturalmente la tregua non fosse stata nel frattempo
infranta. Per l’intanto comunque l’accordo raggiunto ha previsto anche la
riapertura dei valichi di accesso alla Striscia dal territorio israeliano e da
quello egiziano, per render possibile un massiccio afflusso di aiuti umanitari
di emergenza e di materiali per avviare la ricostruzione a Gaza. La Striscia ha
ottenuto inoltre l’ampliamento da tre a sei miglia marine del braccio di mare
ove poter esercitare la pesca. L'intesa per la fine delle ostilità ha segnato
un successo diplomatico per l'Egitto del presidente al-Sisi,
la cui mediazione ha posto fine al più lungo intervento militare israeliano a
Gaza, durato 50 giorni con un bilancio di oltre 2.100 vittime palestinesi, mentre da parte
israeliana hanno perso la vita 64 soldati e 5 civili: nel conflitto il
territorio israeliano sarebbe stato raggiunto da oltre 4.500 tra razzi e colpi
di mortaio, mentre l'aviazione di Tel Aviv avrebbe
colpito oltre 5.200 obiettivi nella Striscia.
Nei primi giorni successivi all’accordo del
26 agosto emergevano alcuni distinguo,
suscettibili di sviluppi, tra l’Autorità nazionale palestinese e Hamas - che prima dell’inizio della nuova guerra di
Gaza, si ricorda, erano in procinto di varare un governo di unità nazionale
palestinese: in particolare, il presidente dell’ANP Abu Mazen si spingeva a
criticare i festeggiamenti in atto nella Striscia dopo il raggiungimento della
tregua, accusando i loro protagonisti di dimenticarsi delle migliaia di vittime
e delle immani distruzioni, che, sembrava suggerire Abu Mazen, si sarebbero
potute evitare accettando assai prima la tregua cui invece si accedeva solo il
26 agosto.
Qualche giorno prima il Rappresentante
palestinese alla Commissione diritti umani dell’ONU aveva definito
esplicitamente i razzi lanciati da Hamas contro
Israele alla stregua di crimini contro l’umanità, poiché diretti contro civili.
Queste schermaglie intrapalestinesi proseguivano ai
primi di settembre con la diffusione di
un piano di pace predisposto dal presidente palestinese Abu Mazen,
anticipato da un suo collaboratore ad un importante
quotidiano della Giordania: secondo il piano andrebbe lanciata al più presto
una sessione negoziale di tre mesi per definire i futuri confini della
Palestina in un contesto di congelamento della colonizzazione da parte di
Israele e di liberazione di molti detenuti palestinesi. Successivamente
si dovrebbero affrontare i nodi più difficili del negoziato, dando poi ad
Israele un periodo triennale per il completamento della ridislocazione
di forze militari e cittadini in base alle intese eventualmente raggiunte. A
fronte di questo rilancio di iniziativa da parte di
Abu Mazen, sondaggi condotti tra i
palestinesi sembravano dimostrare al contrario una grande popolarità del leader
di Hamas Ismail Haniyeh,
dato addirittura per vincente in un’elezione generale palestinese - ovvero non
solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania -; gli stessi curatori del sondaggio
rilevavano tuttavia come esso fosse stato condotto forse troppo a ridosso della
conclusione della crisi di Gaza, che da molti palestinesi è stata considerata
alla stregua di una vittoria.
Anche il governo di Israele peraltro riceveva
nuove forti critiche da Nazioni Unite, Stati Uniti e Unione europea in relazione alla volontà di trasformare in terra demaniale
400 ettari nella periferia sud-occidentale di Betlemme per edificarvi una
cittadina coloniale dedicata alla memoria dei tre ragazzi ebrei uccisi in
giugno in Cisgiordania.
Assai più promettente era invece quanto
trapelato il 7 settembre, ovvero la possibilità di un’apertura israeliana
all’ipotesi di una forza internazionale di pace da dislocare a ridosso
della striscia di Gaza dalla parte del valico di Rafah, lungo i 14 km che
separano Gaza dal Sinai: la proposta, già avanzata ufficiosamente dal Ministero
degli esteri israeliano al Gabinetto di sicurezza il 21 agosto, sembra
propendere per una composizione europea della forza multinazionale,
probabilmente proprio perché europea era l’idea originale formulata già durante
il conflitto che divampava a Gaza - i maggiori paesi della UE avevano infatti
caldeggiato un ampliamento della missione europea EUBAM a presidio del valico
di Rafah.
La proposta israeliana proseguiva
articolatamente, prevedendo preliminarmente al dispiegamento della forza
multinazionale una risoluzione apposita del Consiglio
di sicurezza dell’ONU dopo un’intesa tra Israele, Autorità nazionale
palestinese, Egitto, Stati Uniti e Unione europea. L’assenza di Hamas fa comprendere agevolmente come lo scopo principale
della proposta israeliana risieda proprio nel desiderio di aumentare le
garanzie contro un riarmo delle fazioni palestinesi più radicali. Intanto Abu Mazen, forte del sostegno del
presidente egiziano al-Sisi, alzava i toni contro Hamas, di cui diceva di non poter ulteriormente
accettare il potere esercitato a Gaza in presenza del
governo di unità nazionale palestinese in carica già da alcuni mesi.
Il 16 settembre, nonostante l’apprensione
destata da un isolato colpo di mortaio sparato da Gaza verso la zona
meridionale Israele - che rinnovava le preoccupazioni nelle comunità israeliane
più vicine al territorio della striscia, ma rispetto
al quale Hamas si dichiarava estraneo, confermando
l’impegno a rispettare la tregua – le Nazioni Unite annunciavano il
raggiungimento di un accordo tra Israele
e l’Autorità nazionale palestinese per la ricostruzione di Gaza sotto
monitoraggio ONU e con la guida dell’ANP, quale rassicurazione nei confronti di
Israele di un utilizzo dei materiali per la ricostruzione non diretto a scopi
di riallestimento della rete di tunnel e dell’infrastruttura militare
utilizzabile dai miliziani delle varie fazioni di Gaza.
Il 27 settembre 2013 giungeva l'approvazione,
all'unanimità, della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU basata sull'accordo
russo-americano del 14 settembre, volta a definire le procedure per lo
smantellamento entro la prima metà del 2014 dell'arsenale chimico siriano. In
omaggio alla maggiore preoccupazione della Russia il testo della risoluzione
non richiama il capitolo VII della Carta dell'ONU, e in caso di
inadempienza siriana si sarebbe dovuto ricorrere necessariamente per
misure costrittive militari a una nuova risoluzione. Fulcro della risoluzione è
l'attività dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC),
il rispetto delle cui indicazioni sarebbe stato monitorato con cadenza mensile.
Il 1° ottobre gli ispettori dell’OPAC
entravano in Siria e cominciavano le visite ai 20
centri di stoccaggio delle armi chimiche.
Alla metà del mese vi era il clamoroso
rifiuto dell'Arabia Saudita, eletta per la prima volta, a ricoprire il seggio
di membro non permanente in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Il regno wahabita dimostrava così il proprio totale disappunto per la soluzione
raggiunta sulla questione della armi chimiche siriane,
che costituiva secondo i sauditi una piena rilegittimazione del regime di Assad a detrimento delle frange della ribellione
generosamente sostenute da Riad. Proprio da queste frange venivano i maggiori
problemi in vista della conferenza di pace sulla Siria (cosiddetta Ginevra 2),
il cui svolgimento era considerato un corollario degli accordi sul disarmo
chimico siriano: in sintonia con la posizione saudita, l'opposizione che
combatte sul terreno il regime di Assad minacciava di
boicottare la conferenza se fosse emerso il progetto di garantire un futuro
politico al presidente siriano.
Il 31 ottobre l’OPAC comunicava di aver
completato, in perfetto accordo con i tempi previsti, l'ispezione dei 23 siti di stoccaggio delle armi chimiche siriane indicati
dal governo di Damasco, tutti sigillati e resi indisponibili al regime di Assad - per la verità due di questi siti risultavano vuoti,
il che faceva sorgere interrogativi su chi eventualmente fosse entrato in
possesso degli armamenti ivi custoditi. Alla metà del mese, come previsto, il
Consiglio esecutivo dell'OPAC adottava una nuova decisione sui piani di
distruzione delle armi chimiche - la terza fase dell'operazione -, che secondo
ogni logica avrebbe dovuto verificarsi al di fuori del territorio siriano.
Il 25 novembre, dopo una riunione tra Nazioni
Unite, Russia e Stati Uniti a Ginevra il Segretario generale dell'ONU annunciava la convocazione della conferenza di Ginevra 2
per il 22 gennaio 2014. L'obiettivo primario della conferenza doveva essere
la creazione in Siria di un organo governativo di transizione con pieni poteri,
ma la questione dell'accesso umanitario al teatro di guerra siriano era
divenuta ormai centrale nelle preoccupazioni della Comunità internazionale,
come emerso nella riunione del 26 novembre a Ginevra
del Gruppo di contatto a sostegno dell'azione in Siria dell'Ufficio di
coordinamento degli affari umanitari (OCHA), dipendente dal Segretario generale
dell'ONU. Va però ricordato che il 20 gennaio 2014, dopo che l’Iran aveva
dichiarato di non sostenere il piano per la transizione politica in Siria, e
dando seguito alle proteste degli oppositori del regime siriano, il Segretario
generale dell’ONU ritirava a Teheran l’invito a partecipare a Ginevra 2.
L’11 dicembre USA e Regno Unito decidevano di
sospendere la fornitura di aiuti militari di carattere non letale ai ribelli
impegnati nel nord della Siria, una spia delle crescenti e giustificate
preoccupazioni delle due potenze per l’arrivo degli aiuti nelle mani di gruppi
jihadisti e terroristi. Proprio nell’imminenza dell’appuntamento di Ginevra i
curdi siriani annunciavano intanto la formazione di un governo regionale
autonomo e lo svolgimento di elezioni a breve termine,
accentuando in tal modo la frammentazione di fatto della Siria.
La Conferenza si apriva nella città elvetica
il 25 gennaio, per chiudersi il 31, ma senza alcun
risultato di rilievo. In compenso durante i lavori il conflitto in Siria subiva
addirittura una recrudescenza, con la quasi completa riconquista di Homs da parte delle forze del
regime, e una cinquantina di morti per il bombardamento di Aleppo con barili
esplosivi lanciati da elicotteri (1° febbraio). Tutto ciò non faceva che
aggravare la disastrosa situazione umanitaria del popolo siriano, come rilevato
con veemenza dal ministro degli Esteri Emma Bonino nel corso della riunione di 19 paesi a Roma, convocata dall’ONU nell’ambito del Gruppo
di alto livello sulle sfide umanitarie in Siria, e dalla quale usciva la
richiesta pressante di consentire l’afflusso di cibo e medicine a milioni di
siriani ridotti allo stremo, a prescindere dagli ancora deludenti sviluppi del
dialogo tra le parti in conflitto.
La ripresa (10 febbraio) della conferenza di
Ginevra 2 non approdava ad alcun risultato, mentre
anche in sede ONU si registrava una ‘impasse’. Il 21 febbraio il Consiglio
esecutivo dell’OPAC (l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche,
incaricata di attuare l’accordo del settembre 2013 per la distruzione delle
armi chimiche siriane) constatava il notevole ritardo
sui tempi di consegna delle sostanze chimiche, la cui distruzione doveva essere
completata entro il 30 giugno. Per tutta risposta il 26 febbraio il regime
siriano proponeva di posporre il termine per la consegna delle armi chimiche al
27 aprile, poiché la difficile situazione della sicurezza nel paese ne
ostacolava il trasporto. Il 22 febbraio
intanto il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva approvato all’unanimità una
risoluzione per ottenere la fine degli assedi cui contemporaneamente erano
sottoposte diverse città siriane, con terribili conseguenze sulle
condizioni dei civili. La risoluzione non sembrava tuttavia prevedere contro la
Siria sanzioni in caso di inadempienza – del resto
forse proprio perciò la Russia aveva rinunciato a porre il veto
sull’approvazione del documento.
All’inizio di marzo, mentre sembrava
progredire da parte siriana la consegna di sostanze chimiche da distruggere,
che raggiungeva la quota di un quarto del totale; proseguivano gli scontri sul
terreno tra forze lealiste e ribelli, con un bilancio che secondo
l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria toccava ormai la cifra
spaventosa di non meno di 140.000 vittime. In particolare, nella regione
montuosa tra Siria e Libano si sviluppava un’offensiva governativa per cercare
di interrompere i rifornimenti di armi ai ribelli da parte di forze sunnite
libanesi.
Tuttavia le forze ribelli si dimostravano
tutt’altro che demoralizzate, poiché già il 21 marzo spostavano i loro attacchi
nella zona settentrionale della provincia costiera di Latakia,
vera roccaforte del regime alawita di Assad: il punto dell’attacco, mirante a impadronirsi del
valico strategico di Kasab, si trova vicino al
confine turco. In questo contesto avveniva il 23 marzo
l’abbattimento di un jet siriano da parte turca, che riaccendeva
pericolosamente la tensione tra i due paesi.
L’inizio di aprile registrava, il giorno 4 il riaccendersi dei combattimenti intorno alla capitale e
dei bombardamenti governativi su alcuni quartieri di Aleppo, cui i ribelli
rispondevano con numerosi colpi di mortaio. Contemporaneamente, tuttavia, la
Siria sembrava mostrare buona volontà, riprendendo a Latakia
l’invio di materiali da portare fuori dal paese nel quadro
dell’accordo di settembre sulla distruzione delle armi chimiche.
Emergevano intanto segnali di tensione
interni all’Amministrazione USA in relazione alla
sostanziale impotenza di fronte al perdurare del conflitto in Siria, con il
segretario di Stato Kerry, a differenza del Pentagono, desideroso di un
maggiore impegno degli Stati Uniti a favore della ribellione al regime.
Il 9 aprile a Homs
due autobomba colpivano un quartiere lealista,
provocando 25 morti e un centinaio di feriti, mentre 35 persone perdevano la
vita in varie città siriane in seguito a bombardamenti delle forze del regime.
La cittadina di Rankus, strategica per i collegamenti
tra Damasco e Homs, veniva
frattanto conquistata dalle forze lealiste, con il decisivo contributo degli hizbollah libanesi.
Alla metà di aprile due tragiche giornate di
combattimenti, pur toccando di meno i civili, facevano registrare più di
cinquecento vittime (secondo stime dell’Osservatorio siriano per i diritti
umani). La scadenza del 27 aprile, concessa dall’OPAC quale proroga per la
consegna definitiva delle sostanze chimiche in possesso della Siria nel quadro dell’accordo del settembre 2013, giungeva senza
che Damasco – che pure aveva notevolmente accelerato le relative procedure –
avesse completato l’adempimento dei propri impegni: infatti al 27 aprile
restava da consegnare l’8 per cento del totale delle sostanze dichiarate dalla
Siria, la quale oltretutto dichiarava di voler adibire a scopi civili i 7
hangar corazzati e i 5 tunnel – dove le armi chimiche erano state prodotte e
stoccate – che invece si era impegnata a distruggere.
La fine di aprile faceva registrare nuove
stragi, con un centinaio di morti il giorno 29 causati
da due autobomba a Homs e dal bombardamento con
mortai di un istituto religioso nella capitale – attribuiti ai ribelli -,
nonché da attacchi aerei lealisti contro diverse zone della Siria solidali con
la ribellione. Il 30 aprile forze aeree lealiste colpivano una scuola di
Aleppo, con un bilancio di venti vittime, tra cui diversi bambini. Riprendeva
intanto vigore, soprattutto per la denuncia del quotidiano britannico Daily Telegraph, la questione
dell’utilizzo di agenti chimici in recenti attacchi del regime nel mese di
aprile: la Siria peraltro accettava di ricevere una missione OPAC incaricata di
indagare su queste nuove accuse, rigettandole però con forza.
Il 7 maggio, comunque, il regime segnava un
altro successo, con l’accordo per l’evacuazione dalla Città Vecchia di Homs del migliaio di miliziani ivi asserragliati da circa
due anni, garantita ed effettuata da veicoli e forze
delle Nazioni Unite. In tal modo, solo nei sobborghi della città restava un
nucleo di ribelli, in una situazione estremamente
precaria per la presenza di migliaia di profughi. Mentre il capo
dell’opposizione siriana in esilio, recatosi a Washington, tornava a richiedere
la fornitura ai ribelli di armi più efficaci, nella regione del paese al
confine con l’Iraq si dispiegava una vasta offensiva contro i ribelli, per
opera dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del
Levante), una milizia integralista di matrice qaidista,
ma dal 2005 in rotta con i vertici di al Qaida, a
differenza dell’altra milizia qaidista di Jabat al-Nusra. Proprio il ruolo dell’Isis costituiva un parametro efficace del caos nel
quale va inquadrato il conflitto siriano.
Alla metà di maggio veniva
reso noto che anche il mediatore delle Nazioni Unite e della Lega araba per la
Siria Lakhdar Brahimi
avrebbe lasciato il proprio incarico con effetto dalla fine del mese,
sopraffatto dalla difficoltà di venire a capo del terribile conflitto siriano.
Nell’agosto 2012 Brahimi era succeduto nell’incarico
all’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan, a sua volta frustrato nei
propri tentativi di risolvere il conflitto.
Emergeva intanto il tentativo della Francia,
con il convinto sostegno del nostro Paese, di far approvare dal Consiglio di
sicurezza dell’ONU una risoluzione per sottoporre alla Corte penale
internazionale i crimini commessi nel conflitto siriano da entrambe le parti:
il 22 maggio tuttavia la bozza di risoluzione presentata dalla Francia veniva bocciata in Consiglio di sicurezza per il veto
congiunto di Russia e Cina, che respingevano le forti critiche di parte
occidentale con l’argomentazione che il deferimento della situazione siriana
alla Corte penale internazionale sarebbe stato suscettibile di pregiudicare le
già scarse possibilità di un rilancio dei colloqui di pace tra le parti.
Il 14 maggio si verificava
un clamoroso attentato dei ribelli contro una base militare governativa a Idlib, colpita mediante lo scavo di un lunghissimo tunnel
di oltre 800 metri imbottito con 60 tonnellate di esplosivo: decine di soldati
siriani sarebbero morti, molti altri feriti. Nella stessa provincia di Idlib nei giorni precedenti un posto di blocco era stato
attaccato con la stessa tecnica, con il risultato della morte di 30 militari: altre 14 vittime tra i filogovernativi si erano
registrate l’8 maggio con l’esplosione dell’Hotel Carlton di Aleppo.
Frattanto in un rapporto dell’Osservatorio
nazionale per i diritti umani in Siria si sosteneva che nel solo 2014 nelle carceri
siriane circa 850 persone avrebbero perso la vita in seguito a torture,
esecuzioni sommarie o per gli stenti patiti in seguito alle pessime condizioni
igieniche e sanitarie. Complessivamente le carceri siriane sarebbero popolate
da circa 18.000 detenuti per motivi politici, di molti dei quali non risulta più alcuna traccia.
Il 15 maggio nel nord-ovest della Siria, al
valico frontaliero con la Turchia di Bab as Salam, un’autobomba uccideva una trentina di persone in
transito al valico, quasi certamente profughi siriani.
Una delle poche note positive dallo scenario
siriano si aveva il 26 maggio, quando si spargeva la notizia della liberazione
del cooperante italiano Federico Motka, che era stato
rapito in Siria nel marzo 2013 mentre si trovava nel paese per coordinare
interventi umanitari per conto della Ong francese Acted.
Nel tragico scenario siriano si svolgevano il 3 giugno le elezioni
presidenziali, con la scontata vittoria
plebiscitaria di Bashar al-Assad,
che otteneva l’88% dei consensi: Assad
prestava giuramento per il suo terzo mandato presidenziale il 16 luglio.
Intanto il 9 luglio Staffan de Mistura, già vice
ministro degli esteri italiano e con una lunga carriera quale rappresentante
delle Nazioni Unite in situazioni di conflitto, era stato nominato quale
successore di Lakhdar Brahimi
alla carica di inviato speciale dell’ONU in Siria. Il
nostro Paese si manteneva protagonista nei confronti della tragedia siriana
anche alla fine di luglio, quando veniva inaugurata a
Palazzo Venezia a Roma una mostra che contestualmente illustrava i tesori del
patrimonio culturale siriano e i terribili danni e ulteriori rischi cui è
esposto in seguito al all’interminabile conflitto che scuote il paese.
La
Siria era direttamente coinvolta anche nella situazione irachena, dove dall’inizio di giugno lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante
- che alla fine del mese proclamava un califfato a cavallo dei territori
settentrionali iracheno e siriano - dilagava nel nord dell’Iraq, minacciando
direttamente anche il territorio autonomo del Kurdistan iracheno, e provocando
l’intervento dell’aviazione statunitense: l’avanzata dell’Isis
era resa possibile dalle forti posizioni già conquistate in territorio siriano,
e per di più con il controllo di una regione in cui si concentrano le scarse
risorse petrolifere di Damasco, di tal che l’Isis poteva già permettersi di
esportare petrolio in Iraq per un valore di un milione di dollari al giorno. È
evidente che la proclamazione del califfato costituiva di
fatto una ridefinizione dei confini fissati un secolo prima dalle ex
potenze coloniali, inclusi i confini della Siria.
Il 6 agosto la Farnesina confermava la
notizia della scomparsa di due giovani cooperanti italiane, che dalla fine di
giugno si trovavano nella zona di Aleppo nel quadro di
progetti umanitari a favore della popolazione siriana nei settori sanitario e
idrico: secondo ogni evidenza le due volontarie erano state rapite il 28 luglio
proprio nei pressi della seconda città siriana.
Alla fine di agosto progressivamente la Casa
Bianca si spingeva a valutare la possibilità di effettuare
raid aerei contro l’Isis anche nella parte siriana del territorio controllato
dall’organizzazione jihadista: il regime
di Assad coglieva prontamente l’occasione di una
collaborazione con Washington, assolutamente impensabile fino a quel momento,
ma poneva alcune condizioni per bocca del ministro degli esteri Muallim, ovvero di poter coordinare le proprie operazioni
militari con quelle americane e di ottenere una legittimazione piena del regime
di Assad, che rivendica una posizione centrale nella
lotta internazionalmente condivisa contro l’Isis. Pur nella gravità della
situazione - l’Isis aveva conquistato appena da poche
ore una delle più grandi basi aeree siriane - gli Stati Uniti si mostravano del
tutto riluttanti alle profferte di Damasco.
Tuttavia restava il nodo, per gli USA, della scarsa affidabilità della
variegata galassia di forze in lotta contro il regime siriano, che all’inizio
di settembre si presentavano frammentate e
complessivamente indebolite dai segnali di riscossa militare delle truppe
governative. Pertanto, Washington tentava di avviare una collaborazione con i
propri alleati tradizionali per dar vita a un fronte
comune finalizzato ad attacchi contro le basi dell’Isis anche in territorio
siriano.
Frattanto l’offensiva jihadista in Siria si
avvicinava anche alle posizioni israeliane sul Golan, con un attacco imputato
al Fronte Jabat al-Nusra – in effetti acerrimo rivale dell’Isis - sulla parte delle
alture controllata dall’esercito siriano, che registrava la perdita di 20
soldati. A seguito dell’attacco i miliziani si
impossessavano del valico di Quneitra, proprio sul
confine con Israele. La gravità della minaccia in corso anche per la Siria era
efficacemente delineata anche da un rapporto reso noto a Ginevra il 27 agosto
dalla Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria, dal quale
emergeva che in tutto il territorio controllato dall’Isis si dava luogo a
esecuzioni, amputazioni e flagellazioni pubbliche, e inoltre all’arruolamento
persino di bambini di 10 anni. Chiunque poteva essere vittima di tali punizioni
alla minima violazione della rigida interpretazione della legge islamica
imposta dall’Isis. Dal rapporto emergeva inoltre come
il regime di Damasco abbia continuato nell’utilizzazione seppur limitata di
agenti chimici nei combattimenti contro le forze dei ribelli e contro i civili
siriani - nel solo mese di aprile ciò sarebbe avvenuto otto volte. Proseguiva intanto l’offensiva jihadista in
territorio siriano sul versante del Golan - la cui criticità, per la
prossimità delle forze armate israeliane, non può sfuggire a nessuno -: il 28 agosto qaedisti
probabilmente appartenenti al Fronte Jabat al-Nusra si spingevano a catturare 44
caschi blu della missione ONU UNDOF, all’interno della quale operano truppe
inviate da sei paesi per il controllo degli accordi di disimpegno militare tra
Siria e Israele sottoscritti dopo la fine della guerra del Kippur del 1973.
Oltre ai 44 catturati, un’ottantina di osservatori
dell’ONU restavano intrappolati nella zona.
Anche all’inizio di settembre si accanivano i
combattimenti sulla parte siriana delle alture del Golan, stavolta però con
l’artiglieria e l’aviazione di Damasco impegnate nel tentativo di riprendere il
controllo del valico di Quneitra. Frattanto Jabat al-Nusra, responsabile del
rapimento dei caschi blu nell’area del Golan,
negoziava con inviati delle Nazioni Unite per la loro liberazione, ponendo
quale condizione principale l’esclusione del movimento qaidista
dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche redatta dall’ONU.
Combattimenti infuriavano frattanto anche nella parte nord della capitale
siriana, dove l’aviazione poneva in atto una ventina di attacchi sul quartiere
di Jawbar, roccaforte dei ribelli ormai da oltre due
anni. Nei giorni successivi le forze aeree del regime siriano riprendevano
pesanti bombardamenti contro le postazioni dell’Isis
nel territorio a nord-est controllato dalle forze del “califfato”, coinvolgendo
tuttavia pesantemente anche i civili.
Il 18 dicembre 2011
l'ultimo contingente militare americano varcava il confine con il Kuwait: soltanto due giorni dopo i contrasti tra
sciiti e sunniti riesplodevano al massimo livello, in conseguenza
dell'emissione del mandato di cattura nei confronti del vicepresidente sunnita Tareq al-Hashemi in
relazione ad attività terroristiche, mentre il premier al-Maliki chiedeva al Parlamento di ritirare la fiducia al suo
vice sunnita al-Mutlaq – ottenendo peraltro il
risultato del ritiro dello schieramento laico-sunnita Iraqiya
dai lavori parlamentari dalle riunioni dell'esecutivo. Il 22 dicembre Baghdad era scossa da una terribile ondata di 14 attentati, sia in quartieri sciiti che sunniti,
che provocavano la morte di oltre sessanta persone e quasi duecento feriti. Il
25 dicembre un attentato suicida colpiva nella capitale la sede del ministero
dell'interno, provocando la morte di sei guardie e il ferimento di una trentina
di persone. Una nuova raffica di attentati colpiva, stavolta selettivamente, il
5 gennaio 2012, quando a Baghdad e nel sud dell'Iraq pellegrini sciiti
erano bersaglio di numerose esplosioni, che uccidevano più di 70 persone, ferendone almeno altrettante. Il 24 gennaio
quattro attentati nei quartieri sciiti di Baghdad provocavano
non meno di 14 vittime, oltre a una cinquantina di feriti. La spirale
terroristica, che aveva già provocato l'interruzione della collaborazione nel
governo di unità nazionale, per le accuse di coinvolgimento rivolte al
vicepresidente sunnita al Hashemi;
aveva riflessi anche nei rapporti tra Iraq e Turchia, dopo che Ankara aveva
difeso al Hashemi, e successivamente accusato il
governo di al Maliki di alimentare lo scontro
settario in Iraq. Il governo di Baghdad reagiva a quelle che giudicava indebite
interferenze e addirittura provocazioni da parte del premier turco Erdogan. In questo difficile contesto
anche al-Qaida tornava a minacciare "gli
occupanti iraniani dell'Iraq", nel tentativo di inserirsi nei
rinnovati scontri interreligiosi. L'unica nota positiva, dopo che il 27 gennaio
l'ennesimo attentato suicida aveva ucciso almeno 32
persone a sud della capitale, era l'annuncio (29 gennaio) del ritorno del
blocco laico e sunnita di al Iraqiya ai lavori
parlamentari.
Il 23 febbraio 2012 vi erano
una ventina di attacchi terroristici – attribuiti
dal governo ad al-Qaida - perpetrati in vario modo
nella capitale e in altre sei province irachene: il bilancio era di 67 morti e
più di 400 feriti. Nell'imminenza del primo vertice della Lega araba in terra
irachena da 22 anni, previsto per il 29 marzo, il
paese veniva scosso il 20 marzo da un'altra ondata di attentati, che colpivano
Baghdad e altre sette province, provocando circa 50 morti e 200 feriti.
Il 19 aprile un'altra serie coordinata di
attacchi nella capitale, nonché nelle province di
Kirkuk, Anbar e Diyala,
provocava la morte di almeno 37 persone e il ferimento di oltre cento, per
mezzo di autobomba o ordigni comandati a distanza. Il 31 maggio altri quattro
attentati a Baghdad uccidevano 23 persone, con decine
di feriti. Il 4 giugno un kamikaze provocava la morte di 26
persone e il ferimento di più di cento in un attentato contro la sede di una
fondazione religiosa sciita incaricata della gestione di alcune moschee.
L'offensiva contro gli sciiti continuava il 13 giugno, quando 70 persone morivano e decine di altre erano ferite in
un'ondata di attentati in tutto l'Iraq, sostanziatisi nell'esplosione di 12
autobomba e altri 30 ordigni. Tutti questi atti terroristici venivano
attribuiti prevalentemente ad al-Qaida, o comunque a
elementi sunniti desiderosi di soffiare sul fuoco dei contrasti religiosi ed
etnici riemersi nel dopo Saddam, senza che le autorità apparentemente
riuscissero a porre argine al terrorismo. A riprova di ciò, il 3 luglio
perdevano la vita oltre 50 persone in una serie di
attentati diretti ancora una volta prevalentemente contro gli sciiti. Il 22
luglio l'inizio del Ramadan coincideva con una serie di attentati nella zona
della capitale, ma era il giorno successivo a far segnare una vera strage, con 18 città colpite da attentati terroristici nei dintorni di
Baghdad e nel nord del paese: il bilancio tragico era di 111 morti e oltre 230
feriti. Ancora una volta, bersagli prevalenti erano le comunità sciite e agenti
delle forze di sicurezza irachene.
Il 9 settembre 2012 si rivelava giorno
cruciale, in quanto veniva
pronunciata in contumacia la condanna a morte del vicepresidente sunnita al Hashemi, mentre un'ondata di attentati in tutto il paese
provocava un centinaio di morti. Gli attentati venivano
rivendicati il giorno seguente da al-Qaida. In effetti il mese di settembre del 2012 registrava il
peggior bilancio degli ultimi due anni in riferimento alla sicurezza, con
la morte di 365 persone, che confermava da un lato la forza di al-Qaida in Iraq e dall'altro manteneva alto il livello delle
tensioni tra sciiti e sunniti. In questo senso l'ictus che il 17 dicembre
colpiva il presidente iracheno Talabani segnava un ulteriore punto a sfavore della sicurezza, poiché Talabani si era sempre rivelato abile mediatore, attento a
impedire il precipitare delle tensioni nel paese, suscettibili di porre in
discussione anche l'autogoverno del Kurdistan iracheno dal quale Talabani proviene. Per di più, la sua malattia giungeva in
un momento di particolare frizione tra il governo centrale e le autorità della
regione autonoma del Kurdistan.
Nella seconda metà di gennaio del 2013
un micidiale mix di attentati con autobomba e di attacchi terroristici
provocava in Iraq quasi duecento morti. Non meglio andavano le cose in
febbraio: il giorno 3 una trentina di persone
venivano uccise in un attacco terroristico contro il quartier generale della
polizia di Kirkuk. Pochi giorni dopo nuovi attentati colpivano la comunità
sciita provocando 40 morti, mentre manifestazioni di
sunniti contestavano la politica del primo ministro al Maliki,
giudicata discriminatoria nei loro confronti.
Il mese di marzo 2013, nel decennale
dell'invasione americana del 2003, registrava nuove
violenze – tra l'altro con attacchi alla zona dei ministeri della capitale -,
con un bilancio di un'ottantina di morti; il 4 marzo, peraltro, nove soldati
iracheni perdevano la vita in un attacco contro il loro convoglio, mentre
riaccompagnavano una cinquantina di soldati siriani sconfinati durante i
combattimenti in corso nel loro paese. Intanto il segretario di Stato USA John
Kerry si recava a Baghdad per tentare di arginare il flusso di armi dall'Iraq
al regime siriano. L'escalation di violenze si accentuava nell'aprile 2013
– che risultava il mese più sanguinoso dalla
metà del 2008, con oltre settecento morti e più di 1.600 feriti -: tra
l'altro le elezioni locali del 20 aprile venivano precedute da attentati a
raffica, anche se poi potevano svolgersi con una relativa calma.
Nel maggio 2013 nuove raffiche di
attentati colpivano sia il campo sciita che quello
sunnita: in particolare, dopo che tra 20 e 21 maggio erano morte 130 persone,
dieci autobomba colpivano la capitale alla fine del mese, mentre il riesplodere
delle violenze provocava attriti tra il presidente sunnita del Parlamento e il
premier sciita. Il bilancio del mese toccava i mille
morti. In giugno le violenze diminuivano, ma in luglio nuovamente continui attacchi con
autobomba funestavano la capitale e il paese, mentre anche un carcere veniva
assaltato, con la fuga di 500 detenuti, tra i quali alcuni membri di al-Qaida. Tra agosto e settembre proseguiva la scia di sangue,
nella quale venivano coinvolti anche gli oppositori
iraniani residenti nel campo iracheno di al-Ashraf e da tempo invisi alle
autorità sciite di Baghdad, tra le cui file si registravano una cinquantina di
morti.
Il 5 ottobre perdevano
la vita in due diversi attentati a Baghdad una sessantina di sciiti, per lo più
pellegrini che si recavano in massa al cosiddetto santuario del Nono Imam. Il
giorno successivo un camion-bomba veniva fatto
esplodere nel cortile di una scuola elementare della zona occidentale del
paese, in prossimità del confine siriano, provocando numerose vittime tra i
bambini del villaggio turkmeno di Qabak. Il 27
ottobre una raffica di attentati colpiva a Baghdad quartieri sciiti, nonché, nel nord dell'Iraq, militari in coda per ritirare lo
stipendio, con un bilancio complessivo di una cinquantina di morti. Anche
celebrando la ricorrenza dell'Ashura il 14 novembre gli sciiti iracheni dovevano versare un nuovo
tributo di sangue, con una quarantina di morti. Nuove stragi colpivano la
capitale ed altri luoghi del paese l'8 dicembre, con
più di trenta vittime, poco dopo che le autorità irachene, pur vicine all'Iran,
avevano chiesto agli Stati Uniti un sostegno per far fronte all'incessante
ondata di attacchi terroristici. La recrudescenza di attacchi qaidisti si spiega in parte anche con il vicino conflitto
che dilania la Siria, e nel quale l'Iraq appariva sempre più schierato con
l'asse sciita a difesa del regime di Assad. Il giorno
di Natale era la minoranza cristiana a fare le spese di un triplice attacco
dinamitardo, con un bilancio di oltre trenta morti.
I giorni tra 2013 e 2014 – nell'approssimarsi
ormai delle elezioni legislative previste per il 30 aprile, a seguito delle
quali sarebbe stato eletto dal Parlamento anche il nuovo Presidente della
Repubblica - registravano ulteriori tragici sviluppi: infatti, nelle regioni
occidentali irachene influenzate dal conflitto siriano
si verificava negli ultimi giorni del 2013 una dura repressione delle truppe governative
contro manifestanti sunniti in rotta con il governo di Baghdad. La reazione
scatenava delle vere e proprie battaglie tra miliziani qaidisti
e forze governative a Falluja e Ramadi: Falluja veniva
occupata il 4 gennaio da combattenti appartenenti alla milizia Isis (Stato
islamico dell'Iraq e del Levante). La settimana successiva vedeva violentissimi
combattimenti tra qaidisti e lealisti, con un
bilancio di quasi quattrocento vittime e la fuga in massa di decine di
migliaia di persone dalle loro abitazioni.
Il 15 gennaio una settantina di persone perdevano la vita per una serie
di attentati a Baghdad e in altre regioni dell'Iraq. Alla fine di gennaio il
bilancio delle vittime del 2014 nel paese superava la
cifra di 900. In febbraio le cose non si presentavano migliori, con gli
attentati che colpivano nel cuore della capitale - uno degli obiettivi era
addirittura il ministero degli esteri – con un bilancio di più di trenta morti.
La decisiva influenza iraniana sul governo sciita iracheno sembrava essere
rafforzata dal ritiro improvviso (a metà febbraio) di Moqtada Sadr dalla scena politica
e parlamentare: Sadr, già combattente del radicalismo
sciita contro l'occupazione americana, era stato a lungo anche un critico del
premier al Maliki, cui imputava soprattutto la
diffusione di pratiche corruttive, ma su indicazione di Teheran aveva dovuto
contenere la propria opposizione entro limiti definiti, particolarmente nei
momenti elettorali. Il ritiro di Moqtada Sadr è avvenuto, anche stavolta non a caso, a poche
settimane dalle elezioni legislative irachene.
L'8 marzo il premier al-Maliki lanciava durissime accuse a Qatar e Arabia Saudita per il sostegno che accorderebbero a gruppi
jihadisti sunniti responsabili di attacchi terroristici che, partendo dal
territorio siriano, colpiscono gli sciiti in Iraq: al-Maliki
dichiarava che ciò equivarrebbe a una dichiarazione di guerra all'Iraq. Il
giorno successivo una quarantina di persone, tra cui cinque bambini, perdevano
la vita in un attentato con un minibus esplosivo messo in atto da un kamikaze
nella località di Hilla, a sud della capitale: nella stessa giornata venivano uccisi cinque poliziotti e quattro militari nei
dintorni di Baghdad.
Le elezioni legislative del 2014 e
l’improvvisa avanzata dell’Isis
Le violenze si riaccendevano - come
prevedibile - nell'imminenza delle elezioni politiche del 30 aprile 2014. In particolare, il 28 aprile vi era nella mattinata una serie di
attentati suicidi contro seggi elettorali aperti per il voto anticipato a
favore dei membri delle forze di sicurezza del paese.
Gli agenti di sicurezza venivano colpiti in modo particolarmente
grave a Baghdad e a Kirkuk. In serata non meno di 30
persone perdevano la vita a Khanaqin, nella provincia
di Diyala. Subito dopo, nella notte, venivano uccisi cinque membri delle milizie create per
combattere al-Qaida, in un attacco armato ad un loro
posto di blocco a sud della capitale Baghdad. In ogni modo, nella giornata del
28 aprile, oltre il 90% degli aventi diritto aveva effettivamente votato, e
oltre alle forze di sicurezza le votazioni anticipate hanno riguardato detenuti
e guardie carcerarie, nonché malati ricoverati in
ospedale e il relativo personale sanitario.
La giornata pre-elettorale del 29 aprile
registrava un doppio attentato dinamitardo in un mercato a nord-est della
capitale, con 15 morti e 45 feriti, mentre altre due
vittime si registravano a Falluja a seguito di un bombardamento governativo
contro gli insorti sunniti occupanti la città.
Il 30 aprile si aprivano le urne per
l'elezione di 328 deputati del nuovo parlamento, il primo dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq. Anche
questa giornata, tuttavia, faceva registrare attentati in varie città, con
vittime civili prevalentemente nei dintorni settentrionali di Baghdad e a
Kirkuk, dove perdevano la vita due membri della commissione elettorale.
I primi risultati elettorali, eccettuata l'affermazione
dell'Alleanza per lo Stato di diritto facente capo al premier al-Maliki, che si aggiudicava 93
seggi, facevano registrare un'accresciuta frammentazione del panorama
politico iracheno: infatti i movimenti sciiti guidati da al-Sadr e al-Hakim si aggiudicavano
rispettivamente 29 e 28 seggi, mentre anche il voto sunnita si ripartiva in tre
gruppi, con 23 seggi al blocco guidato dal presidente del parlamento al-Nujaifi, 21 seggi alla lista facente capo all'ex primo
ministro ad interim Allawi e 10 seggi al partito del vice primo ministro al-Mutlaq. Perfino il voto curdo si è suddiviso tra i 25 seggi a favore del Partito democratico del Kurdistan di Massud Barzani – capo della
regione autonoma curda - e i 21 seggi conquistati dall'Unione patriottica del
Kurdistan, avente come proprio riferimento il presidente Jalal
Talabani - una terza forza politica curda, il
movimento Gorran, ha conquistato 9 seggi.
Le prospettive di poter dar
vita a un nuovo governo si mostravano subito difficili poiché, se al-Maliki indubitabilmente
necessitava dell'appoggio dei sunniti e dei curdi, la frammentazione
complessiva del sistema politico sembrava rendere ancor più difficile che in
passato la formazione di una nuova stabile compagine governativa. Queste
difficoltà erano solo accresciute dalla posizione dei sunniti, annunciata già
prima delle elezioni, di non voler entrare in coalizione
con gli sciiti, e dal proposito dei tre partiti sunniti di costituire un unico
blocco nelle votazioni parlamentari, naturalmente contro al-Maliki.
Per quanto concerne i curdi, va ricordato che i loro rapporti con al-Maliki e la maggioranza sciita del paese erano al momento
forse al punto più basso dopo la caduta di Saddam.
Il 5 giugno la formazione jihadista dello
Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis), appartenente ad al-Qaida, ma in polemica con la direzione del movimento,
forniva una prima assoluta dimostrazione di forza sullo scenario iracheno - già
da tempo l'Isis si era invece affermato nella caotica
situazione dei combattimenti in territorio siriano - con l'occupazione per
alcune ore di diversi quartieri di una delle città simbolo degli sciiti
iracheni, Samarra, che i miliziani dell'Isis abbandonavano solo dopo molte ore
di scontri con le forze di sicurezza irachene, coadiuvate anche da elicotteri.
Intanto a Falluja, da gennaio nelle mani dell'Isis,
oltre alle centinaia di vittime dei bombardamenti governativi che inutilmente
hanno tentato di riprendere la città, la situazione umanitaria della
popolazione si rivelava agli occhi di una delegazione del Comitato
internazionale della Croce Rossa assolutamente disastrosa, con grave penuria di
cibo, acqua e materiale sanitario, e con l'unico ospedale gravemente
danneggiato.
Il 7 giugno una serie di attentati per mezzo di
autobomba devastava alcuni quartieri periferici sciiti di Baghdad, provocando
almeno 60 morti, nelle stesse ore in cui nel campus
universitario di Ramadi, ad appena 100 km dalla capitale, i miliziani jihadisti
prendevano in ostaggio studenti e impiegati. Intanto a Mosul una sessantina di
morti erano il risultato di scontri tra forze di sicurezza e miliziani qaidisti, dopo che già il giorno precedente vi erano state
oltre 30 vittime. Le azioni dell'Isis
cominciavano a mostrare un'ampiezza allarmante, ben al di fuori della provincia
di al-Anbar.
Il 10 giugno questi timori erano pienamente confermati, con la caduta in mano all'Isis di gran parte della provincia settentrionale di Ninive, e soprattutto della sua capitale Mosul, seconda
città del paese, posta al centro della regione petrolifera del nord dell'Iraq.
Nella circostanza erano confermate le paure sulla tenuta dell'esercito
iracheno, che perlopiù si limitava a ripiegare dalle proprie posizioni,
mentre i miliziani jihadisti dilagavano anche in parte
nelle due province limitrofe di Kirkuk e Salahuddin –
in quei giorni centinaia di soldati iracheni venivano decapitati dai jihadisti,
spargendo il terrore nelle popolazioni limitrofe e provocando sdegno in tutto
il mondo. Nei giorni successivi emergeva come le divisioni tra sciiti e sunniti
avessero minato le forze armate di Baghdad, oltretutto non addestrate ad azioni
antiguerriglia, nonostante gli ingenti acquisti di armamenti sofisticati
degli ultimi anni. A fronte di questi sviluppi il governo di Baghdad reagiva
con un appello per distribuire armi ed equipaggiamenti militari ai volontari
intenzionati a combattere contro i miliziani dell'Isis
e contro il loro capo al-Baghdadi, conosciuto
anche come Abu Dua, dal 2011 al vertice
dell'organizzazione, con l'obiettivo di dar vita a un califfato che raggruppi
le regioni settentrionali dell'Iraq e della Siria, cancellando gli ormai
secolari confini tracciati dalle potenze coloniali europee.
L'11 giugno l'avanzata dell'Isis
appariva inarrestabile, con la conquista di Tikrit, ex roccaforte di Saddam Hussein e principale citta'
della provincia di Salahuddin. La strategia dell'Isis cominciava a delinearsi, con il chiaro obiettivo
di un controllo delle risorse petrolifere dell'Iraq settentrionale, da
conseguire con l'accerchiamento della città di Kirkuk, avendo conseguito nel
frattempo il controllo della più grande raffineria di petrolio dell'Iraq e di
una centrale elettrica di grande importanza regionale - le mosse dell'Isis
sullo scenario iracheno vanno collegate a quanto già conseguito in territorio
siriano, dove le zone conquistate sono anch'esse le sole ricche di petrolio del
paese. L'avanzata dell'Isis, tuttavia, era
destinata fatalmente a scontrarsi con le ambizioni dei curdo-iracheni, che,
nonostante forti contrasti con Baghdad, già da tempo avevano iniziato ad
esportare autonomamente il petrolio del nord, e vedevano ora in pericolo la
posizione di forza conquistata dopo la caduta di Saddam Hussein. In effetti il 12 giugno le truppe curde dei peshmerga assumevano il controllo di Kirkuk, dopo
lunghi giorni in cui erano rimaste attestate sulle proprie posizioni,
attendendo un'intesa con il governo di Baghdad.
Al quadro complessivo va aggiunta anche la catastrofe
umanitaria, con oltre mezzo milione di iracheni
costretti ad abbandonare le proprie case - da sommare ai quasi 300.000
rifugiati in Iraq in fuga dalla guerra civile siriana-, di fronte alla violenza
fanatica dell'Isis, che dava inizio alla distruzione e all'incendio di
chiese e conventi cristiani. Anche la Turchia si trovava involontariamente
coinvolta, quando una cinquantina di propri diplomatici venivano
presi in ostaggio dall'Isis, circostanza particolarmente imbarazzante per
Ankara, visto lo scoperto appoggio prestato agli elementi jihadisti siriani in
lotta contro il regime di Assad, ma che non aveva
potuto prevedere l'apparire sulla scena di un elemento come l'Isis,
relativamente tollerato dal regime di Assad in quanto
già da tempo impegnato in una dura lotta contro gli elementi jihadisti più
legati ad al-Qaida.
Il precipitare della situazione induceva il
13 giugno, nel corso delle consuete preghiere del venerdì, il Grande Ayatollah
dell'Iraq al-Sistani a richiamare i fedeli alla
difesa della capitale contro l'avanzata dei jihadisti
sunniti, nelle stesse ore in cui si aveva notizia dell'ingresso in Iraq di
alcune centinaia di volontari provenienti dalle file dei pasdaran iraniani. La
gravità della situazione induceva anche il presidente degli Stati Uniti
Obama ad una presa di posizione in diretta
televisiva, durante la quale prometteva una decisione nel giro di pochi giorni
sugli aiuti al governo iracheno per respingere l'Isis: il presidente Obama
precisava anche che gli USA non si sarebbero fatti coinvolgere nel nuovo dramma
iracheno senza un piano di cooperazione tra le diverse parti del paese, e in
ogni caso Obama escludeva categoricamente l'invio di truppe di terra.
Le preoccupazioni di Teheran per lo sviluppo degli eventi sullo scenario iracheno erano
testimoniate il 14 giugno dalle dichiarazioni del presidente Rohani, che si diceva pronto a intervenire, mentre cresceva
l'avanguardia di pasdaran iraniani dislocati in territorio iracheno. Rohani si spingeva a immaginare una possibile
collaborazione contro l'Isis tra Iran e Stati Uniti,
ma solo dopo aver constatato l'effettivo impegno di Washington sulla questione
– Washington che dal canto suo rendeva noto di aver disposto lo spostamento
nel Golfo Persico di una squadra navale comprendente la portaerei HW Bush.
Nei giorni successivi la battaglia nel nord
dell'Iraq si concentrava prevalentemente intorno alle infrastrutture
energetiche, tanto che diverse compagnie straniere del
petrolio preparavano l'evacuazione del proprio personale: i combattimenti si
accanivano particolarmente attorno alla più grande raffineria del paese, che
ciascuna delle parti rivendicava di aver posto sotto il proprio controllo.
Frattanto il governo iracheno, per bocca del ministro degli esteri Zebari, rendeva noto di
aver richiesto ufficialmente l'intervento aereo americano contro i miliziani
dell'Isis, che intanto procedevano al rapimento di 40 operai indiani impiegati
nella zona. Il presidente iraniano Rohani tornava a
far sentire la propria voce a difesa dei luoghi sacri degli imam sciiti in
territorio iracheno, che l'Iran sarebbe disposto a proteggere in tutti i modi,
anche con l'invio di numerosi volontari già pronti a recarsi in Iraq.
Gli Stati Uniti precisavano i contorni del
proprio impegno dicendosi pronti a inviare a Baghdad fino a
300 consiglieri militari e a compiere azioni mirate contro i miliziani dell'Isis, pur continuando ad escludere in ogni modo l'invio
di truppe di terra. Più rilevante della prospettiva di impegno
militare appariva nel contempo lo sforzo politico della Casa Bianca, che
faceva sempre meno per nascondere l'ostilità alla formazione di un governo
nuovamente presieduto da Nuri al-Maliki
- ormai percepito come troppo scopertamente legato all'Iran e agli
interessi confessionali sciiti, e inviso in particolar modo all'Arabia Saudita
e alla Turchia, sul cui impegno invece gli Stati Uniti contano in modo
particolare per una soluzione della complessa questione posta dall'Isis. Tra
l'altro, proprio nel maturare dell'ostilità contro al-Maliki
si infrangevano le possibilità di un'effettiva collaborazione di Washington con
Teheran, come evidenziato da un aspro intervento della Guida Suprema iraniana
Ali Khamenei – non seguita peraltro su questo terreno dal Grande Ayatollah
iracheno al-Sistani, che il 20 giugno lanciava un
appello per cacciare i ribelli e formare un governo efficace che evitasse gli
errori del passato, con un'implicita ma pesantissima critica all'operato di al-Maliki. In questo
difficile contesto il segretario di Stato americano John
Kerry il 23 giugno si recava a Baghdad per far presente la posizione americana,
favorevole alla formazione di un governo in cui tutte le componenti del paese
fossero rappresentate: frattanto le truppe dell'Isis assumevano il controllo
del confine iracheno con la Giordania.
Il 28 giugno i combattimenti proseguivano in
direzioni opposte: mentre infatti le truppe fedeli ad
al-Maliki erano impegnate in una controffensiva per
la riconquista di Tikrit, i miliziani dell'Isis si
spingevano fino all'estrema periferia di Baghdad, e nei combattimenti sarebbero
morti una ventina di soldati governativi. Il luogo dello scontro, a una
cinquantina di km da Baghdad, dista solo 20 km dalla città santa di Karbala,
residenza della maggiore autorità religiosa sciita del Medio Oriente, ovvero il Grande Ayatollah al-Sistani.
Il 29 giugno si aveva da parte dell'Isis la proclamazione della nascita di un califfato
nei territori conquistati in Iraq e in Siria: l'Isis annunciava altresì di
aver cambiato il proprio nome semplicemente in quello di Stato islamico (Isis).
Il gruppo innalzava il proprio leader Abu Bakr al-Baghdadi al rango di califfo, e quindi di capo dei
musulmani in tutto il mondo. Naturalmente all'atto di nascita del califfato non
era attribuita alcuna rilevanza diplomatica, per quanto si tratti di un
territorio con una superficie pari a quella dell'Ungheria, attraversato dal più
grande fiume mediorientale, l'Eufrate, e con numerosi valichi frontalieri verso
la Turchia e la Giordania. Peraltro appare assai diverso l'assetto di governo
nei territori siriano e iracheno: mentre infatti in
Siria l'Isis è impegnato in combattimenti contro altri gruppi jihadisti, e
sembra imporre con la forza la propria supremazia alle popolazioni locali, in
Iraq il movimento jihadista appare sostenuto da ampi strati della popolazione
sunnita, in odio alla politica giudicata discriminatoria e filoiraniana del
premier di Baghdad al-Maliki.
L'aggravarsi della situazione di sicurezza
dell'Iraq induceva il 30 giugno la
Casa Bianca a inviare un ulteriore contingente di
duecento soldati equipaggiati per il combattimento a protezione dell'ambasciata
USA e dell'aeroporto di Baghdad. Sul fronte politico, intanto, nell'imminenza
della riunione del 1° luglio del nuovo parlamento uscito dalle elezioni del 30
aprile, aveva luogo una riunione dell'Alleanza nazionale, piattaforma che
riunisce le principali formazioni politiche sciite, completamente disertata da
curdi e sunniti, nonostante avesse in programma
colloqui per la designazione del premier.
Nuove notizie di atrocità compiute dai
miliziani dell'Isis venivano ridimensionate dal
patriarca caldeo di Baghdad, monsignor Sako,
evidentemente allo scopo di non esacerbare gli animi in una situazione
comunque assai difficile per la comunità cristiane da sempre residenti nei
luoghi caduti sotto il controllo del "califfato".
Un elemento rivelatore importante delle
preoccupazioni sulla sicurezza del paese era stata
intanto fornita dalla decisione delle autorità di Baghdad di oscurare i
principali social network in territorio iracheno per tre settimane, decisione
annullata proprio il 30 giugno.
Il mese di luglio si apriva con la richiesta,
da parte del presidente del Kurdistan iracheno Massoud
Barzani al parlamento della Regione Autonoma, di
tenere un referendum sull'indipendenza: la mossa di Barzani
va inquadrata nel nuovo scenario destabilizzato dell'Iraq, rispetto al quale
sembra mirare, più che ad una soluzione, ad assicurare
gli interessi della minoranza curda del paese, oltretutto in prima linea contro
l'assalto dell'Isis.
Alla metà di luglio a Mosul la stretta
imposta dall'Isis – in previsione della quale già all'arrivo delle milizie jihadiste
centinaia di migliaia di abitanti cristiani, curdi e turcomanni avevano
precipitosamente abbandonato la città – si rivelava pienamente, con
l'imposizione di rigidi precetti ispirati alla Shari'a,
e con l'avvio di una vera e propria furia iconoclasta diretta contro statue,
mausolei e immagini ritenuti offensivi dell'Islam, nonché contro moschee sciite
e chiese cristiane. Numerosi funzionari governativi a Mosul venivano
rapiti, mentre si accrescevano le pressioni nei confronti dei non sunniti.
Questa escalation culminava il 18 luglio,
quando migliaia di cristiani rimasti a Mosul ne
venivano cacciati a forza, e subivano rapine e ulteriori vessazioni mentre
precipitosamente tentavano di raggiungere le aree controllate dai curdi.
Con il passare dei giorni si chiariva il
principale criterio seguito dall'Isis nella
distruzione di antichi templi, ovvero il criterio di colpire maggiormente i
luoghi oggetto di culto da parte di diverse confessioni, come ad esempio
l'antica moschea di Giona, sita nei pressi delle rovine dell'antica città di Ninive, per tradizione il luogo di sepoltura del profeta
ebraico, visitato da cristiani, ebrei e musulmani, e che i jihadisti
procedevano il 25 luglio a distruggere con esplosivi, qualificandola quale
luogo di apostasia proprio perché oggetto di pellegrinaggi congiunti tra fedeli
di diverse religioni. Nella stessa giornata e per gli stessi motivi i miliziani
distruggevano la tomba di Seth, il figlio di Adamo ed Eva dal
quale secondo la Bibbia discenderebbe tutta l'umanità.
L'aggravarsi della pressione contro i
cristiani aveva provocato già nei giorni precedenti un'iniziativa del patriarca
caldeo di Baghdad Monsignor Sako, che in una lettera
al segretario generale dell'ONU aveva chiesto l'intervento del Consiglio di
sicurezza per porre fine alle atrocità perpetrate contro i cristiani. Monsignor
Sako riscontrava il 26 luglio la vicinanza e la
partecipazione del Papa in un colloquio telefonico, mentre il patriarca della
Chiesa siro-ortodossa preannunciava la richiesta delle
Chiese d'Oriente alle più alte autorità religiose musulmane di una condanna dei
crimini compiuti contro i cristiani dai miliziani dell'Isis. Effettivamente il
9 agosto, in un colloquio a Najaf con Monsignor Sako,
al-Sistani avrebbe condannato gli attacchi alle
minoranze religiose.
L'inizio di agosto vedeva un'ulteriore forte
accelerazione nell'espansione dell'Isis, e un rapido
cedimento dei peshmerga, che erano costretti
ad abbandonare le proprie posizioni e a ripiegare in montagna: tra il 2 e il 3 agosto cadevano in mano ai jihadisti dell'Isis le
città di Zumar e Sinjar, nonché i campi petroliferi
di Ain Zalah e Batma. La città di Sinjar aveva
già accolto decine di migliaia di profughi messi in fuga dall'avanzata dell'Isis delle passate settimane, e all'interno di essa
rendeva tutto ancor più tragico la presenza della minoranza degli Yazidi, parlanti una lingua curda e seguaci di una
religione antichissima ispirata allo zoroastrismo persiano, che gli islamisti
radicali considerano una religione adoratrice del diavolo. Conseguenza
immediata dell'avvicinamento dell'Isis a Sinjar era la fuga di migliaia di essi sulle montagne, in
una condizione di totale precarietà e a rischio della vita. La gravità della
situazione induceva il 4 agosto il premier iracheno al Maliki a superare le diffidenze nei confronti dei curdi
iracheni, ordinando all'aviazione di Baghdad di operare in
appoggio ai peshmerga.
Il 5 agosto nel Parlamento di Baghdad una
deputata della comunità degli Yazidi riferiva che
500 uomini erano stati assassinati dai jihadisti e
centinaia di donne fatte prigioniere e trasferite. Nella stessa giornata il
Consiglio di sicurezza dell'ONU esprimeva condanna delle azioni dell'Isis, i cui attacchi sistematici contro i civili in
base alla loro origine etnica, la loro religione o le loro convinzioni
personali rientrano nella categoria dei crimini contro l'umanità, i cui autori
divengono responsabili e perseguibili. Tuttavia, più incisiva della
Dichiarazione del Consiglio di sicurezza appariva almeno potenzialmente il
patto di collaborazione tra i curdi dell'Iraq, della Turchia e della Siria, che
si dicevano pronti ad accantonare le annose divergenze per uno sforzo comune
contro l'avanzata dei jihadisti.
Sempre il 5 agosto il viceministro degli esteri
italiano Pistelli si recava a Baghdad, incontrando anche il presidente della
Repubblica da poco eletto, il curdo Fouad Masum: secondo Pistelli la minaccia dell'Isis
è tale da coinvolgere la stabilità dell'intero Medio Oriente, e non solo quella
dell'Iraq, e di fronte ad essa non è possibile restare inerti.
Dopo una notte di bombardamenti in ampie zone
della piana di Ninive, l'Isis
provocava un nuovo gigantesco esodo di cristiani da numerosi villaggi,
valutati in circa centomila, ancora una volta in fuga in condizioni disperate,
come efficacemente descritto nell'appello di Monsignor Sako
all'agenzia Asianews del 7 agosto - nel quale l'alto
prelato rilevava anche la scarsa cooperazione tra autorità curde e centrali del
paese, e quindi le poche speranze di fermare l'onda di piena dell'Isis in
assenza di un intervento della comunità internazionale. Non a caso nella stessa
giornata del 7 agosto il Papa lanciava un appello per porre fine al dramma
umanitario in atto e per assistere i numerosissimi sfollati.
Frattanto l'Isis si
impadroniva della più grande città cristiana in Iraq, Qaraqosh,
provocando decine di migliaia di altri profughi: nelle stesse ore cadeva nelle mani dei jihadisti anche la più
grande diga dell'Iraq, quella sul Tigri a nord di Mosul, dalla quale
dipendono le forniture idriche in gran parte del nord iracheno. Le truppe dei peshmerga non apparivano intanto in grado di opporsi
validamente all'avanzata dell'Isis, e in più il
Kurdistan iracheno risentiva della grande massa di centinaia di migliaia di
profughi ormai entrati in cerca di scampo nel suo territorio.
In questo clima il presidente degli Stati
Uniti Obama autorizzava attacchi aerei mirati a protezione dei civili – per
evitare un genocidio - e del personale americano nel nord dell'Iraq: i raid
iniziavano l'8 agosto, poco prima delle 13 ora
italiana, dopo il lancio di viveri e aiuti umanitari per i profughi nell'area
di Sinjar. L'iniziativa americana veniva
subito salutata con favore dalla Francia, pronta a prendervi parte. Anche dal
Regno Unito giungeva sostegno all'azione statunitense, senza peraltro prevedere
un proprio intervento militare, se non in termini di assistenza
tecnico-militare gli Stati Uniti e aiuto umanitario per gli sfollati. L'Italia,
per bocca del ministro degli esteri Federica Mogherini,
condivideva prontamente la scelta americana.
Le prime ondate di attacchi contro i
miliziani dell'Isis sembravano assai efficaci - come sottolineato dal presidente della regione autonoma del
Kurdistan barzani, che però chiedeva anche di ricevere
l'armamento necessario per proseguire l'offensiva sul terreno -, e consentivano
ai peshmerga il 10 agosto la riconquista di
due cittadine situate in posizione strategica, mentre circa la metà degli Yazidi intrappolati da giorni sulle montagne vicine a Sirjan, circa 20.000, riuscivano a porsi in salvo. Sul
fronte politico iracheno crescevano intanto le pressioni su al-Maliki per una sua rinuncia alla riconferma al la carica di premier - da ultimo il 10 agosto il ministro
degli esteri francese Fabius recatosi a Baghdad, che ribadiva la necessità di
un governo iracheno inclusivo di tutte le componenti del paese. Il presidente Masum, allo scopo di accelerare la formazione del nuovo
esecutivo, si spingeva a minacciare lo scioglimento del parlamento se non fosse
stato nominato in breve tempo un nuovo primo ministro.
Il giorno successivo, 11 agosto, il
presidente Masum incaricava di dar
vita al nuovo governo Haidar al-Abadi, anch'egli
sciita, su indicazione della riunione dei partiti sciiti (Alleanza nazionale): a
tale designazione reagiva con veemenza il premier uscente al-Maliki, definendola una violazione della Costituzione -
in quanto il suo partito, lo Stato del diritto, aveva riportato la maggioranza
relativa nelle elezioni del 30 aprile. Al-Maliki
mobilitava alcuni suoi sostenitori, dopo che nella notte tra 10 e 11 agosto
aveva esercitato forti pressioni con un ingente schieramento di esercito e
polizia nel centro di Baghdad. A tutto ciò aveva reagito l'inviato dell'ONU a
Baghdad Mladenov, che diffidava le forze di sicurezza
dal porre in atto interferenze del processo politico democratico, mentre gli
Stati Uniti confermavano i propri orientamenti dei giorni precedenti approvando
la novità politica rappresentata dall'incarico ad al-Abadi, proseguivano
i raid contro i miliziani dell'Isis e iniziavano la fornitura diretta di armi
ai miliziani curdi. Sul piano internazionale anche la Lega araba, per bocca del
suo segretario al-Arabi, condannava le violenze dell'Isis
come crimine contro l'umanità, mentre il portavoce dell'Alto rappresentante per
la politica estera europea appoggiava la formazione di un nuovo esecutivo
capace di affrontare la crisi in atto ripristinando l'unità nazionale.
Il 12 agosto si registravano segnali di movimento anche sul fronte dell'Unione
europea, dove il capo della diplomazia francese Fabius e il suo omologo italiano Federica Mogherini
richiedevano con urgenza la riunione straordinaria del Consiglio dei
ministri degli esteri per affrontare la situazione irachena. Intanto si
riuniva il Comitato politico straordinario con la partecipazione degli
ambasciatori a Bruxelles dei 28 Stati membri, e si
cominciava a intravedere la possibilità della fornitura di armi da parte degli
Stati membri ai peshmerga curdi: il Comitato
politico straordinario raggiungeva anche un'intesa sul rafforzamento del
coordinamento dell'aiuto umanitario, affidato alla Commissione europea in virtù
del meccanismo di protezione civile di cui essa dispone per accrescere
l'efficacia degli interventi in situazioni di crisi. Proprio dalla Commissione,
e in particolare dal Commissario agli aiuti umanitari Georgieva,
veniva poi l'annuncio dello stanziamento di ulteriori 5 milioni di euro per la situazione umanitaria nel nord dell'Iraq.
Il 13 agosto al-Maliki
proseguiva nella sua ostinata resistenza alla svolta politica rappresentata
dall'incarico per il nuovo governo ad al-Abadi, presentando ricorso alla Corte
federale: la sua posizione si faceva tuttavia sempre più isolata, stante l'assenso
alla designazione di al-Abadi proveniente dall'Organizzazione della conferenza
islamica e, soprattutto, dall'Iran e dalla Siria – ciò privava di colpo al-Maliki della sponda più importante su cui giocare. Intanto
la capitale Baghdad veniva colpita da quattro
autobomba, con la morte di una ventina di persone e il ferimento di una
cinquantina. Sul terreno dell'Iraq settentrionale un centinaio di marines e
forze speciali americani atterravano sul territorio
montuoso nei pressi di Sinjar per organizzare l'esodo
di circa 30.000 civili Yazidi ancora intrappolati sul
luogo: nel contempo Washington disponeva l'invio di altri 130 consiglieri
militari in Iraq. Anticipando gli sviluppi in sede europea, il presidente
francese Hollande stabiliva nella stessa giornata del
13 agosto di procedere senz'altro all'invio di armi ai peshmerga
curdi.
Il 14 agosto finalmente al-Maliki, dopo la notizia dell'invito a farsi da
parte già da tempo pervenutogli dalla guida suprema
degli sciiti iracheni,il Grande Ayatollah al-Sistani, annunciava le proprie dimissioni e l'appoggio
al nuovo premier incaricato al-Abadi. Sul terreno intanto secondo gli
americani diveniva meno urgente un'operazione per evacuare i profughi Yazidi dalle montagne intorno a Sinjar,
perché nel frattempo grazie ai raid aerei statunitensi era stato rotto
l'assedio di cui erano sottoposti da parte dell'Isis.
Il 15 agosto si svolgeva il Consiglio dei ministri degli affari esteri UE richiesto con
forza da Francia e Italia, nel corso del quale era espresso sostegno agli Stati
membri per la fornitura di armi ai peshmerga
curdi. Il Consiglio straordinario si occupava anche
dell'assistenza umanitaria alla popolazione colpita dall'Isis,
esprimendo apprezzamento per la rinuncia di al-Maliki,
con un invito al nuovo premier incaricato a dar vita a un governo di ampia
inclusione. I ministri degli esteri europei esprimevano inoltre una forte
volontà di facilitare una reazione politica regionale contro l'espansione dell'Isis. Nella stessa giornata il Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite approvava all'unanimità una risoluzione volta ad ostacolare i finanziamenti e le forniture di armi
all'Isis.
Il 16 agosto veniva
denunciato un nuovo crimine commesso dall'Isis nel villaggio di Kojo, vicino a Sinjar, con
l'uccisione di un'ottantina di uomini e quasi duecento donne rapite. Sul terreno dei combattimenti l'aviazione americana intensificava gli
attacchi aerei sulle postazioni dell'Isis a presidio
della diga di Mosul, precedendo un attacco di terra dei peshmerga
sullo stesso obiettivo. Intanto nella capitale del Kurdistan Erbil arrivava il primo dei sei voli umanitari predisposti
dal nostro paese.
Il 17 agosto l'intensificazione dei raid
aerei americani contro le milizie dell'Isis consentiva
ai peshmerga la riconquista della diga di
Mosul e di tre cittadine situate a est della
stessa. Questi sviluppi positivi potrebbero tuttavia avere il loro pendant
negativo, come sottolineato dal ministro degli esteri tedesco Steinmeier di ritorno da una missione il 16 agosto a
Baghdad e nel Kurdistan, preoccupato per la possibilità che i successi dei peshmerga curdi in una situazione di debolezza delle
forze armate federali irachene possano facilitare la formazione di uno Stato
curdo indipendente che sarebbe, secondo Steinmeier,
un fattore di ulteriore destabilizzazione regionale.
Si riaccendeva intanto il versante siriano dell'Isis,
dove l'aviazione di Damasco attaccava ripetutamente le postazioni jihadiste
nella provincia di Raqqa: secondo molti osservatori Assad cerca in questo modo di allinearsi alle iniziative
messe in campo dagli Stati Uniti contro l'Isis in territorio iracheno,
accreditandosi nel quadro di una più generale lotta contro tutti i
fondamentalisti.
Il 18 agosto le forze curde in
lotta contro l'Isis annunciavano la riconquista, dopo
la diga di Mosul, di altre località nel nord dell'Iraq, e di prepararsi a
riprendere la stessa Mosul ai miliziani jihadisti. Per la verità alcuni
combattimenti proseguivano anche nei pressi della diga, ma secondo il portavoce
del comando delle forze armate irachene si trattava solo di scontri limitati in
alcuni edifici prospicienti, mentre vi era la necessità dello sminamento di
altri fabbricati. Combattimenti tra le forze armate irachene e i miliziani dell'Isis erano in corso inoltre nella provincia di al-Anbar.
Rilevante la presa di posizione di papa
Francesco il quale, nel viaggio aereo di ritorno dalla Corea del sud, si
spingeva a criticare l'approccio unilaterale costituito dall'intervento
statunitense, a favore di un' azione della Comunità
internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite, che dovrebbe essere volta
esclusivamente a porre fine all'aggressione dell'Isis nel nord dell'Iraq, e non
a dar vita a una nuova guerra o nuovi bombardamenti. Il Papa si diceva inoltre
disposto a recarsi in Kurdistan, dove già nei giorni precedenti aveva inviato
il cardinale Fernando Filoni, già Nunzio apostolico a Baghdad. Il
cardinal Filoni, in una dichiarazione congiunta con il patriarca caldeo
monsignor Sako, chiedeva alla Comunità
internazionale un intervento volto non solo alla fornitura di aiuti umanitari,
ma anche alla liberazione dei luoghi occupati dall'Isis
con rapidità e in via definitiva.
Il
20 agosto registrava una duplice iniziativa del nostro Paese: la gravità degli sviluppi nel nord dell’Iraq induceva infatti il Governo ad un passaggio parlamentare
specificamente dedicato al paese mesopotamico, rendendo alle Commissioni congiunte esteri e Difesa di
Camera e Senato comunicazioni sui recenti sviluppi della situazione in Iraq
anche con riferimento agli esiti del Consiglio straordinario dei Ministri degli
esteri dell'Unione europea del 15 agosto 2014. La discussione sfociava nell’approvazione separata di risoluzioni da
parte delle due Commissioni della Camera e delle due omologhe del Senato, con
le quali il Governo otteneva il ricercato sostegno parlamentare anzitutto per
procedere alla fornitura di armi ai peshmerga curdi
impegnati sul terreno a contrastare l’avanzata delle milizie dell’Isis.
Dal canto suo il Presidente del
Consiglio Matteo Renzi si recava nella stessa
giornata in Iraq e, dopo la capitale Baghdad, visitava la capitale del
Kurdistan iracheno Erbil: in entrambi i luoghi il Presidente Renzi
affermava con forza la necessità di un impegno dell’Europa di fronte alle
gravissime violazioni dei diritti delle minoranze e ai massacri perpetrati
dall’Isis. Gli aspetti politici dell’Iraq dopo la formazione del nuovo governo
e le questioni delle relazioni economiche con l’Italia erano invece oggetto dei colloqui con il nuovo premier incaricato
al-Abadi.
Dopo qualche battuta d’arresto, all’inizio di settembre, grazie alla
copertura degli attacchi aerei americani sulle postazioni dell’Isis,
i peshmerga
curdi e i volontari sciiti proseguivano nella riconquista di territorio
nella parte settentrionale dell’Iraq: in particolare, il 1° settembre veniva
riconquistata la città di Suleiman Beg, nei pressi di Amerli, che le
milizie dell’Isis assediavano da più di due mesi, facendo temere un possibile
massacro della popolazione turcomanna sciita della città. Le Nazioni Unite
fornivano intanto un bilancio terribile
delle vittime provocate nel mese di agosto dall’avanzata dell’Isis,
ovvero più di 1.400 morti, in grande maggioranza civili, e circa 600.000
sfollati. Nella serata del 1° settembre il Consiglio ONU per i diritti umani
approvava all’unanimità l’invio in Iraq di una Commissione d’inchiesta sulle atrocità compiute dall’Isis.
Il 2 settembre, mentre i familiari di soldati
iracheni dispersi da giugno in seguito ai combattimenti contro l’Isis mettevano in atto una clamorosa protesta irrompendo
nell’aula del parlamento a Baghdad, lamentando la mancanza di notizie sulla
sorte dei loro congiunti; le forze governative, massicciamente coadiuvate dalle
milizie curde dei peshmerga riprendevano il controllo
di un ulteriore tratto dell’autostrada di collegamento di Baghdad con il
centro-nord del paese.
Il 3 settembre ministro della difesa Roberta
Pinotti, intervenendo innanzi alle Commissioni Esteri e Difesa congiunte dei
due rami del Parlamento in occasione delle periodiche comunicazioni sullo stato
della partecipazione italiana alle missioni internazionali, precisava in ordine agli armamenti la cui consegna alle autorità
irachene – e successivamente al governo regionale del Kurdistan - il Parlamento
aveva approvato già il 20 agosto. Il ministro riferiva trattarsi di 200
mitragliatrici corredate di 650.000 munizioni e 2.000 razzi anticarro rpg.
Il 4 settembre la riconquista di territorio
giungeva a lambire la città natale di Saddam Hussein, Tikrit,
dove però l’esercito e le milizie sciite incontravano un’accanita resistenza da
parte dei miliziani dell’Isis, favorita dall’ostilità
delle popolazioni sunnite locali contro gli sciiti. Queste rivalità
confessionali venivano senza dubbio rinfocolate quando il 9 settembre circolava
sul web un video che vedeva stavolta decapitati alcuni miliziani dell’Isis da parte di combattenti sciiti che li avevano
catturati durante la riconquista di Amerli, e che
ferocemente si accanivano anche sui macabri reperti.
La questione posta dall’improvviso affermarsi
del califfato dell’Isis riceveva una prima risposta
importante a livello internazionale con
il vertice NATO nel Galles meridionale del 4 e 5 settembre, alla fine del
quale gli Stati Uniti ottenevano largo
consenso per la creazione di una vasta coalizione internazionale contro i miliziani
qaedisti. Peraltro la difficile situazione dei
cristiani nei territori da questi dominati veniva una volta di più testimoniata
da un’intervista del patriarca caldeo monsignor Sako
a margine di un incontro ad Anversa promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, il
quale evocava con forza una visita del Papa in Iraq per recare la sua vicinanza
ai cristiani sofferenti. Peraltro monsignor Sako non
mancava di caldeggiare un intervento militare
internazionale, per lui prioritario rispetto ad ogni altro sforzo per la
protezione dei cristiani in Iraq. L’alto prelato constatava
con amarezza anche i forti appoggi di cui evidentemente i miliziani dell’Isis
godevano in termini di uomini, armamenti e finanziamenti.
Nella
notte tra 8 e 9 settembre il premier incaricato al Abadi
sembrava riuscire nel proprio tentativo, quando otteneva l’appoggio della
maggioranza parlamentare - senza peraltro poter nominare alcuni
ministri-chiave, come quelli della Difesa e dell’Interno, per il persistere di
veti e sospetti reciproci tra le diverse anime della sua coalizione. Tra
queste, poi, quella autonomista dei curdi concedeva al nuovo esecutivo soltanto
tre mesi di tempo, durante i quali risolvere i
molteplici contenziosi tra il governo centrale e quello della regione autonoma
curda. I combattimenti infuriavano intanto nella zona di Haditha, circa 200 km
a nord-ovest della capitale, dopo il respingimento del tentativo dell’Isis di impadronirsi di una importante diga sul fiume
Eufrate; ma anche più vicino a Baghdad, a Dhuluiya,
ad appena 90 km, dove pure era stato respinto un attacco dei miliziani qaedisti.
Le vicende della proliferazione nucleare
iraniana provocavano l’embargo petrolifero
europeo, a partire dal 1° luglio 2012. Per quanto
riguarda i negoziati sul nucleare tra l’Iran e il Gruppo 5+1, nonostante le
speranze alimentate dalla loro ripresa in aprile a Istanbul, e anche al secondo
round concluso il 24 maggio a Baghdad, l'approdo sostanziale, come si vedeva nel terzo round di Mosca il 18 e 19 giugno,
era poco più che nullo.
Dopo l'entrata in vigore dell’embargo
europeo, l'Iran oscillava tra una minimizzazione degli effetti
di esso e il ritorno alla minaccia di chiudere la navigazione nello
stretto di Hormuz, di fronte alla quale gli Stati Uniti procedevano a un deciso
rafforzamento della loro presenza militare nel Golfo Persico, sia con l'aumento
del numero dei dragamine che con l'avvio della costruzione in Qatar di un terzo
radar antimissile, il quale, unitamente a quelli già dislocati in Israele e in
Turchia, dovrebbe consentire di intercettare eventuali lanci da parte
dell'Iran. La Repubblica islamica, dal canto suo, il 3 e 4 luglio dava luogo ad una massiccia serie di test
missilistici a breve, medio, e corto raggio in uno dei deserti del paese.
L’Iran, attraverso il movimento sciita
libanese Hezbollah, che Teheran appoggia, tornava al centro delle
tensioni internazionali subito dopo l’attentato del 18 luglio che aveva colpito
un pullman di turisti israeliani in Bulgaria, e che Tel
Aviv aveva senz'altro attribuito a Hezbollah. Mentre sembrava che il regime
sanzionatorio nei confronti di Teheran avesse effetti non del tutto
trascurabili, l’Iran appariva sempre più coinvolto dagli effetti della tragica
crisi siriana: il 4 agosto una cinquantina di pellegrini sciiti iraniani venivano rapiti a Damasco da elementi sunniti della rivolta
contro Assad. Mentre l'Iran tornava ad appoggiare il
regime siriano, era dunque costretto a fare pressioni sulla Turchia per un
intervento sui rapitori a favore dei pellegrini, quella stessa Turchia,
tuttavia, alla quale l'Iran in ultima analisi rimprovera l'appoggio agli
oppositori del regime siriano.
Frattanto l’economia iraniana sotto embargo dava
segni di gravi difficoltà, con una svalutazione della moneta nazionale del 150
per cento sul dollaro negli ultimi nove mesi, nonché
una forte discesa dell’occupazione e dell’export petrolifero. Il 3 ottobre si verificavano a Teheran gravi scontri tra manifestanti e
forze di sicurezza, nel corso di tumulti di protesta per la situazione
economica.
Alla metà
di ottobre le sanzioni UE verso l’Iran venivano
comunque inasprite, con il
blocco di ogni trasferimento tra banche europee e iraniane, il congelamento di
attività finanziarie legate a qualsiasi titolo al regime di Teheran e il
divieto di importazione nel territorio comunitario esteso anche al gas
iraniano.
Il 9 aprile 2013, mentre l'ennesimo grave
terremoto colpiva il paese sfiorando anche pericolosamente l'unica centrale
nucleare civile in funzione, quella di Bushehr,
l’Iran inaugurava un nuovo impianto per la produzione di uranio concentrato (il
cosiddetto yellowcake) nella provincia
centrale di Yazd, unitamente a due miniere di uranio poco distanti. Il
concentrato di uranio viene utilizzato per produrre
energia atomica ad uso civile, ma può entrare anche nel processo di
arricchimento dell'uranio a scopi militari.
Alla metà di giugno 2013 vi era una relativa sorpresa, quando Hassan Rohani,
sostenuto dai riformisti, vinceva le elezioni presidenziali al primo turno,
con grave smacco degli ultraconservatori – pur ricordando come il fulcro del
potere in Iran sia nelle mani della Guida Suprema. Dopo un periodo iniziale, Rohani iniziava a manifestare aperture all’Occidente,
raccolte dal Presidente USA, che il 27 settembre si intratteneva a diretto
colloquio telefonico con Rohani – la prima volta per
i vertici dei due paesi dalla vittoria della rivoluzione khomeinista nel 1979.
Nel riavvicinamento sembra aver giocato un
ruolo decisivo anche la necessità americana di coinvolgere l’Iran nei tentativi
di soluzione del tragico conflitto siriano, che soprattutto dopo le accuse al
regime di aver utilizzato in agosto armi chimiche contro
ribelli e civili, aveva posto in grave imbarazzo l’Amministrazione USA,
oscillante tra la tentazione di un attacco alla Siria e le remore a farsi
coinvolgere in un nuovo conflitto dagli esiti imprevedibili. La stessa
situazione afghana, che mostra tutte le difficoltà del disimpegno occidentale
dal paese centroasiatico, spinge indirettamente a un miglioramento dei rapporti
con un vicino potente quale è l’Iran.
Sulla strada del miglioramento dei rapporti
americani con Teheran si profilava tuttavia ben presto il duplice ostacolo,
niente affatto trascurabile dall’Amministrazione USA, dell’opposizione di
Israele e delle monarchie sunnite del Golfo, in primis quella di Riad -
oltre a notevoli malumori nel Congresso -: in tal modo la ripresa in ottobre
dei colloqui a Ginevra non produceva nell’immediato risultati.
Tuttavia, dopo un rinvio al 20 novembre, finalmente la ripresa del negoziato
sfociava in un accordo intitolato “Piano
d’azione comune”, il quale
prevedeva che nei successivi sei mesi – dopo i quali si potrà
eventualmente procedere ad un'intesa in via definitiva – non sarebbero state
imposte ulteriori sanzioni contro l'Iran dalla Comunità internazionale, e anzi
sarebbe stato concesso al paese un alleggerimento dei regimi sanzionatori,
prevalentemente attraverso l'accesso ad oltre 4 miliardi di dollari di
pertinenza iraniana, ma congelati in varie banche asiatiche per effetto delle
sanzioni. Le casse dello Stato iraniano dovrebbero poi ricevere almeno 1,5
miliardi di dollari per effetto della sospensione di
alcune misure riguardanti il commercio di oro e preziosi, il settore
automobilistico e le esportazioni di prodotti petrolchimici. In cambio Teheran si impegnava ad adottare una serie di misure volte a
tranquillizzare la Comunità internazionale in ordine ad eventuali sbocchi
militari del programma nucleare che l'Iran persegue da anni. Più
specificamente, l'Iran si impegnava ad interrompere
l'arricchimento dell'uranio di sopra della soglia del 5% e a non costruire
nuove centrifughe, mentre dovrà procedere a neutralizzare le già esistenti riserve
di uranio arricchito in prossimità della soglia del 20%. Ugualmente, l’Iran
bloccherà la costruzione di impianti in grado di
estrarre plutonio dalle scorie del combustibile nucleare esaurito, inclusa la
costruzione (in corso) del reattore ad acqua pesante di Arak - dal quale
parimenti potrebbe prodursi plutonio utilizzabile anche a scopi bellici. Non meno importante eral'impegno iraniano
a consentire accesso quotidiano ai propri siti nucleari agli esperti inviati
dall'Agenzia internazionale dell'energia atomica.
L'accordo era naturalmente salutato con
estrema soddisfazione dalle parti in trattativa a Ginevra, ma destava forti
contrarietà, ad esempio, negli stessi Stati Uniti, dove esponenti del Congresso non solo repubblicani preannunciavano
iniziative per un inasprimento del regime sanzionatorio verso l'Iran, la cui
durezza avrebbe secondo loro costretto il regime di Teheran a scendere a patti
con la Comunità internazionale. D'altra parte, nello stesso Iran le frange
contrarie al presidente Rohani non perdevano
l'occasione per criticare aspramente l'intesa di Ginevra, e ciò tanto ad opera di membri del clero ultraconservatore quanto da
parte del ceto dell’élite militare dei pasdaran. La Guida Suprema Khamenei
sembrava tuttavia mantenere un atteggiamento intermedio tra i due opposti
schieramenti. Sul piano internazionale le maggiori obiezioni agli accordi di
Ginevra venivano da Israele, ma anche dall'Arabia Saudita, e sembravano
ispirate in entrambi i casi alla convinzione che l’accordo di Ginevra risulterà utile soltanto all'Iran, in funzione dilatoria
verso l'inevitabile sbocco della costruzione di ordigni nucleari.
L’Iran confermava il proprio impegno per
l’attuazione dell’accordo di Ginevra anche dopo che a metà dicembre gli USA
aggiungevano una decina di denominazioni alla lista nera di imprese
e individui colpiti per violazione dell’embargo all’Iran. Il ministro degli
Esteri Zarif metteva però in guardia contro il
possibile prevalere, in America e a Teheran, delle forze estremiste contrarie
per opposti motivi al nuovo clima delle relazioni tra Iran e paesi occidentali.
Nei giorni immediatamente precedenti il
Natale l’allora Ministro degli Esteri Emma Bonino si recava in visita a
Teheran, prima fra i capi delle diplomazie europee dopo l’elezione di Rohani, confermando il cauto interesse dell’Italia – con
importanti motivazioni anche economiche – per il nuovo corso politico iraniano.
All’inizio
del 2014 i negoziatori delle diverse parti in causa raggiungevano un’intesa
per l’effettiva applicazione dell’accordo di Ginevra a
partire dal 20 gennaio. Deluse erano invece le aspettative
di un contributo iraniano per risolvere la tragica situazione siriana: infatti
Teheran chiariva di voler partecipare alla conferenza “Ginevra 2” senza
esplicitamente accettare il piano formulato a Ginevra nel giugno 2012 per una
transizione politica a Damasco, e pertanto l’invito alla partecipazione veniva
ritirato a Teheran.
In vista del 18 febbraio, data dell’inizio di
una decisiva e lunga tornata negoziale sulla questione nucleare, mirata, in
base all’accordo del novembre 2013, a una soluzione stabile e duratura,
emergevano in Iran numerosi malumori: in particolare, la Guida Suprema Khamenei
dichiarava apertamente il proprio scetticismo sull’esito delle trattative, in
ciò proseguendo nell’atteggiamento di non aperta sconfessione di Rohani, pur rappresentando le cospicue forze conservatrici
contrarie all’apertura agli USA e al mondo occidentale.
Il 9 marzo, per la prima volta in sei anni
dopo la visita di Javier Solana, l’Alto rappresentante
per la politica estera dell’Unione europea Catherine Ashton si recava in Iran,
per colloqui sia sulla questione del nucleare che
sulle più ampie relazioni bilaterali tra l’Unione europea e Teheran.
L'8-9 aprile vi era la ripresa dei negoziati tra Teheran e il Gruppo 5+1,
per il penultimo round della fase decisiva dei colloqui: sul negoziato
pesava probabilmente anche il protrarsi del contrasto tra Iran e Stati Uniti
sulla nomina del nuovo ambasciatore iraniano presso le Nazioni Unite. Infatti gli Stati Uniti avevano opposto un netto rifiuto
alla concessione del visto di ingresso negli Stati Uniti per Hamid Abutalebi, designato dall'Iran a capo della propria
missione diplomatica presso l’ONU, in quanto questi avrebbe fatto parte del
gruppo dei cosiddetti studenti islamici che nel 1979 assaltarono l'ambasciata
statunitense a Teheran.
Il 13 maggio si registrava un’inedita apertura saudita all’Iran,
con l’invito al ministro degli esteri di Teheran Zarif
da parte dell’omologo saudita al-Faysal ad incontrarsi per negoziare e discutere sui rapporti
reciproci e sui problemi regionali – primo fra tutti il conflitto siriano.
L’apertura saudita coincideva con la visita ufficiale in Arabia Saudita del
segretario USA alla difesa Hagel. In realtà il
riavvicinamento tra Riad e Teheran era stato posto fra gli obiettivi del neopresidente iraniano Rohani
già all’indomani della sua elezione nel giugno 2013, come uno dei volani per
porre fine all’isolamento del periodo di Ahmadinejad,
e sembra che nei contatti con i sauditi abbia giocato un ruolo chiave il
pragmatico ex presidente Rafsanjani, assai vicino a Rohani. Il riavvicinamento tra i due paesi sarebbe inoltre
stato favorito dalla rimozione del principe Bandar
dal vertice dell’intelligence saudita, implicito segnale di un mutamento
di rotta nella politica di Riad verso il problema
siriano.
Un
riavvicinamento ben più rilevante sarebbe quello tra l’Iran e le potenze
occidentali, in primis gli USA, in relazione al
fenomeno dell’improvvisa avanzata dall’inizio di giugno nei territori di Iraq e
Siria dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), organizzazione
sunnita qaidista ma in polemica con la direzione del
movimento, capace di accaparrarsi una regione vasta come l’Ungheria e di
proclamarvi un califfato sotto il comando del leader dell’Isis al-Baghdadi. Segnali di un tale riavvicinamento non sono
mancati, ma altrettanto chiaramente deve apparire alle cancellerie occidentali
la problematicità di esso rispetto a tradizionali
alleati regionali come Israele e Arabia Saudita.
Anche sul fronte del negoziato nucleare la
situazione si manteneva fluida e le parti, constatando
l’impossibilità di un accordo definitivo, convenivano a metà luglio di
prorogare l’intesa in vigore tra Iran e Gruppo 5+1 fino al 24 novembre – l’originaria
scadenza era stata fissata al 20 luglio: il punto principale di disaccordo
riguarda sempre la questione centrale delle centrifughe per l’arricchimento
dell’uranio, che restano comunque utilizzabili anche per produrre materiale
fissile a scopi militari.
Cenni
storici e quadro istituzionale. Nata il 1°
luglio 1960 dall’unione tra la Somalia, ex colonia italiana sotto tutela per
conto delle Nazioni Unite, e il protettorato inglese del Somaliland,
la Repubblica di Somalia, che si distingueva come uno dei pochissimi stati africani
linguisticamente e culturalmente omogenei al momento dell’indipendenza, è
divenuta il caso esemplare di quello che i politologi chiamano ‘stato collassato’ o ‘fallito’[5]. La Repubblica Federale di Somalia si era spezzata in diversi tronconi
nazionali a seguito della guerra civile, culminata nella caduta del regime di
Mohammed Siad Barre nel 1991 e continuata fra il
crollo delle istituzioni statuali e la crescente
competizione tra partiti clanici militarizzati. Dopo un primo intervento
militare internazionale dal 1992 al 1995 (prima sotto il comando USA e poi
ONU), più di una dozzina di conferenze di pace e una
seconda missione internazionale (dal 2007) dell’Unione Africana (AMISOM), il conflitto, concentrato soprattutto nel sud del
paese, non ha ancora trovato una composizione definitiva. Hanno raggiunto
invece un diverso grado di stabilizzazione politica e ricomposizione sociale il
Somaliland
nel nord e il Puntland nel nord-ovest. L'insediamento delle attuali istituzioni somale
rappresenta il risultato di un lungo processo di mediazione politica e di
negoziazione fra clan iniziato con gli Accordi di Kampala del 2010 e culminato
con la sottoscrizione dei Principi di Garowe e della Road Map for the End
of Transition (2012). Il 1° agosto 2012 è stata
approvata una costituzione provvisoria, in base alla quale la Somalia è una
Repubblica federale parlamentare; il Capo dello Stato è il Presidente eletto
dal Parlamento; il Capo dell'esecutivo è il Primo Ministro, a capo di un
gabinetto nominato dal Presidente e che riceve la fiducia dal Parlamento. Tuttavia
la Camera del Popolo, composta da 275 membri, lungi
dall'essere eletta come previsto in Costituzione, è stata nominata dai clan: si
è osservata la cd. "regola del 4,5": i quattro clan maggiori hanno
avuto 61 seggi ciascuno e i restanti 31 sono espressione di una coalizione di
clan minori. La Camera alta, che avrebbe dovuto rappresentare le componenti federali, non si è costituita. Il 16 settembre
2013, in occasione della Conferenza dell’Unione Europea (UE) sulla Somalia, la
Comunità Internazionale, con il coinvolgimento delle Autorità somale, ha
approvato un’agenda politica che dovrebbe condurre il Paese, con il sostegno
dei donatori, a dotarsi di una Costituzione Federale entro il 2015 e ad organizzare elezioni generali entro il 2016.
Politica interna e quadro di
sicurezza. Permane in Somalia una situazione
caratterizzata da fragilità politica e precarie condizioni di sicurezza. Il
consolidamento dei rapporti tra il Governo Federale Somalo e le Regioni, nodo
irrisolto della crisi somala, è al centro dell’agenda del Presidente, Hassan Sheikh Mohamud,
e del nuovo Primo Ministro, Abdiweli
Sheikh Ahmed. Tuttavia, il dialogo
tra Mogadiscio e le realtà decentralizzate del Somaliland
e del Puntland, a Nord, e dell’Oltregiuba,
a Sud, resta difficile. La Somalia è un Paese caratterizzato da
dinamiche di ordine clanico e religioso che si intrecciano
alle problematiche legate alla gestione di potere e risorse tra centro e
periferia. Nel Paese operano le milizie Al-Shabaab, (Harakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn, Movimento dei giovani combattenti)
organizzazione terrorista locale -dal 2012 affiliata d al-Qaeda-
la cui propaganda attinge tanto alla retorica jihadista che al nazionalismo
somalo. L’organizzazione è stata negli ultimi tempi protagonista di attacchi
terroristici spettacolari contro istituzioni governative (l'ultimo a luglio
2014 contro il compound presidenziale) o legate alla presenza internazionale
nel Paese (ultimo dell'8 settembre contro un convoglio AMISOM alla periferia di
Mogadiscio). Contro Al-Shabaab è in corso
un’offensiva militare condotta da AMISOM, cui partecipano prevalentemente
contingenti provenienti da Uganda, Burundi,
Gibuti, Kenya, Etiopia e Sierra Leone. AMISOM ha già sottratto al controllo di
Al-Shabaab alcuni territori nella parte meridionale e
centrale del Paese nei quali occorrerà che il governo
somalo, con l’assistenza della Comunità Internazionale, favorisca la creazione
di strutture amministrative efficaci e rappresentative delle comunità locali.
La stabilizzazione della Somalia è necessaria non solo per preservare i
delicati equilibri del Corno d’Africa ma anche perché il Paese è inserito in
una fascia d’instabilità, dove hanno origine minacce trasversali come
terrorismo, pirateria (in forte diminuzione grazie all’efficace azione
internazionale) e traffici illeciti, i cui effetti si riverberano sul Sahel e
sul Mediterraneo.
Il Corno d'Africa rappresenta uno dei fronti più preoccupanti del jihad globale da quando al-Shabaab
ha gradualmente modificato la propria agenda politica, rendendola sempre più internazionale
e sempre più orientata verso il jihad, ampliando sistematicamente le proprie
attività a tutto il Corno d’Africa e non più alla sola Somalia. L’area di
operazioni di al-Shabaab si estende ormai dalle
foreste del Congo orientale sino alle coste dello Yemen
e ha nel sud della Somalia il proprio quartier generale. Le capacità militari e
politiche del gruppo si sono evolute a tal punto da rappresentare una minaccia
concreta non solo per la stabilità dei governi nazionali, ma anche per gli
interessi economici dei Paesi occidentali.
Inoltre, la progressiva qaedizzazione
dell’organizzazione e la ricerca di nuovi canali di finanziamento legati al
traffico delle terre rare le ha permesso di sviluppare
una densa rete di contatti in scenari geopolitici e in teatri precedentemente
inesplorati, come la Repubblica centrafricana e l’Uganda, dove essa si è
dimostrata capace di infiltrare le tradizionali tensioni etniche locali,
radicalizzando le comunità tribali e cercando di trasformare i conflitti
interni in nuovi fronti del jihad. Tuttavia, il dato più allarmante
riguarda le crescenti capacità di al-Shabaab di
infiltrare la diaspora somala in Europa e negli Stati Uniti, fattore che
potrebbe accrescere la possibilità di aumentare i proseliti islamici radicali
in queste comunità e, nella peggiore delle ipotesi, portare ad attacchi da
parte di home grown terrorist
(letteralmente “terroristi cresciuti in casa”).
Al-Shabaab, già indebolita sul piano tattico
ed economico dalla perdita di due roccaforti importanti come Mogadiscio nel
2011 ed il porto di
Chisimaio (hub fondamentale per
i suoi traffici) nel 2012, a causa dell'efficiente contrasto opposto dal
governo federale e da AMISOM, ha vissuto negli ultimi mesi un durissimo scontro
interno alla propria leadership, tra la fazione pan-somala, guidata da Sheikh Aweys, e la fazione qaedista, capeggiata da Godane,
in cui alla fine era prevalso Godane. Il 1° settembre
2014, il suo leader Godane è stato
ucciso in un raid aereo sferrato dagli USA.
L’organizzazione terroristica ha già nominato Ahmed Umar
come suo successore. Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha chiesto ai jihadisti di abbassare le armi, promettendo l’amnistia a chi
lascerà il gruppo nei 45 giorni successivi la dichiarazione. Tuttavia, è presto
per dire se la successione al comando dell’organizzazione ne accelererà la
frammentazione o invece determinerà un rafforzamento. Nonostante la perdita del
proprio leader e le difficoltà tattiche ed economiche, al
Shabaab tiene ancora il controllo di alcune aree
rurali del paese, da cui può condurre attacchi contro le forze governative e
AMISOM.
Numerose le spinte autonomiste
che il governo centrale si trova a fronteggiare. Il Somaliland,
nella parte nord-occidentale del paese, si è proclamato indipendente già nel
1991 e da allora, sebbene non abbia ottenuto il riconoscimento da alcun
governo, di fatto ha mantenuto una stabile esistenza. Il Puntland,
nella parte nord-orientale del Paese, gode di larga
autonomia dal 1998 ma non aspira all'indipendenza. Numerosi altri movimenti
indipendentisti proliferano nel Paese, variamente supportati dai Paesi
confinanti. Il governo centrale sta lentamente compiendo passi avanti
nell'instaurazione di tavoli negoziali con le periferie. Fra le cause che hanno
di fatto favorito il proliferare delle istanze
indipendentiste della periferia vi è anche la politica del doppio binario
adottata da molti attori internazionali, che è consistita nel trattare sia con
il governo centrale che con le entità substatuali in
base alle necessità del momento.
Politica estera. Complessi sono i rapporti della Somalia con
le potenze regionali, in specie Kenya ed Etiopia, particolarmente esposti tra
l'altro al terrorismo di Al-Shabaab. Il presidente Mahamud, in virtù della sua appartenenza al clan Hawiya delle regioni centrali, è in buoni rapporti con il
governo etiope e per la sua vicinanza alla sezione somala dei Fratelli
musulmani, ha ottime relazioni anche con il Qatar. L'appartenenza del Primo
Ministro al clan meridionale Darod, lo rende gradito al Kenya.
Fra i principali
donatori della Somalia figurano l'Italia, l'Unione europea, la Turchia e i
paesi del Golfo, gli Stati Uniti e il Regno Unito. Missioni di stabilizzazione
sono condotte sia dall'UE - di addestramento delle forze di
sicurezza con EUTM-Somalia e di capacity building
con EUCAP Nestor- che dalle Nazioni Unite tramite
UNSOM (United Nations Assistance Mission
in Somalia). La Somalia è anche membro di IGAD (Intergovernamental Authority for development) che riunisce i Paesi del Corno
d'Africa e si avvale del sostegno dei
donatori internazionali riuniti nell'IGAD
Partners Forum di cui l'Italia è co-presidente
insieme all'Etiopia. Nel settembre 2013, a margine della 68° UNGA, il ministro
Emma Bonino ha co-presieduto la Conferenza ministeriale dell’IGAD Partners Forum per la Somalia. IGAD Partners
Forum svolge un importante ruolo di dialogo politico ed è impegnato per
ricercare una soluzione della questione somala attraverso un forte impegno e
coinvolgimento di tutti gli attori regionali nella lotta al terrorismo e nel
rafforzamento della sicurezza in Somalia.
Economia. L'agricoltura e l'allevamento del bestiame
sono i settori principali dell'economia somala, seguita dal settore terziario,
mentre l'industria è poco sviluppata.
L’economia era e
rimane fortemente dipendente dagli aiuti internazionali, mentre le
rimesse della diaspora sono aumentate proporzionalmente all’aggravarsi del
conflitto, fino a diventare la prima voce in ordine di grandezza del PIL. La
guerra è diventata parte integrante del ciclo produttivo. In mancanza di un contesto istituzionale di riferimento, le relazioni
economiche si sono riorganizzate attraverso logiche informali, in alcuni casi
anche molto sofisticate, e in cui spesso prosperano sistemi
corruttivi: nella classifica di Transparency
International del dicembre 2013, la Somalia è percepita come il paese più
corrotto al mondo.
Ci si aspetta che
l'attuale fase di crescita dell'economia possa consolidarsi nel prossimo
biennio grazie all'espansione del controllo del territorio da parte del governo centrale e ai crescenti interessi internazionali
nello sfruttamento del potenziale energetico del paese. Lo scorso maggio è
stato approvato dal Parlamento il bilancio previsionale per il 2014 che
autorizza un forte incremento della spesa pubblica (91%) da ripartire nei
settori della sicurezza, giustizia, istruzione, salute e occupazione. L'aumento
del budget sarà finanziato da una riforma del sistema fiscale che ne allargherà
la base e, per il resto, dagli aiuti internazionali.
Relazioni
bilaterali. L’Italia, anche in virtù di forti legami
storici, è uno dei partner principali della Somalia, e l'ha sostenuta anche
negli anni più difficili. Il sostegno italiano alle Istituzioni somale si fonda
sulla promozione di uno Stato federale e unitario,
all’interno di frontiere internazionalmente riconosciute. L’Italia è impegnata a riaprire in tempi brevi
una sede diplomatica a Mogadiscio all’interno del perimetro aeroportuale per
motivi di sicurezza e analogamente all’orientamento dei principali Paesi
occidentali (è stato già identificato un terreno ed è iniziata la progettazione
del muro perimetrale della sede; a tal fine, il D.L. 1°agosto 2014 n. 109,
a seguito di emendamento, ha autorizzato
la spesa di 600.000 per la prima fase di realizzazione di tale sede). Di
recente è stato nominato un nuovo Ambasciatore d’Italia, Fabrizio Marcelli, che
nei prossimi mesi sostituirà l’attuale Rappresentante italiano e che, in
un’ottica di rafforzamento della presenza diplomatica italiana nel Paese,
disporrà, a differenza del suo predecessore, di formali credenziali del
Presidente della Repubblica. L’ottimo stato delle
relazioni bilaterali trova conferma nell’impegno del governo somalo a sostenere
la candidatura italiana al Consiglio di Sicurezza per il biennio 2017-18. Si
potrà auspicare che il sostegno somalo venga
confermato anche nel caso di un eventuale ballottaggio (secondo turno) tra
l’Italia e uno dei suoi concorrenti (Paesi Bassi e Svezia). Si attende la
partecipazione della Somalia ad EXPO 2015, il cui tema
centrale sarà "Nutrire il pianeta. Energia per la
vita".
L’Italia partecipa alla ricostruzione dello
Stato somalo in vari settori strategici, in particolare in quello della
sicurezza. A partire dallo scorso 15 febbraio, il
Generale Mingiardi è alla guida di EUTM Somalia,
l’unico Comando italiano di una missione PSDC. L’Arma dei Carabinieri è
impegnata a Gibuti in un programma di addestramento a favore di 200 operatori
di polizia somali, sulla base di quanto realizzato ad
inizio 2013.Il 17 settembre 2013 i Ministri della Difesa di Italia e Somalia
hanno firmato a Roma un accordo di cooperazione che farà da cornice a forme ulteriori di collaborazione. Dal 2009 al dicembre 2013
l’Italia ha finanziato, tramite l’Unione Africana, i salari di 3.274 soldati
delle Forze di Sicurezza somale. Rilevante è il nostro
contributo anche nel settore del capacity building,
a favore di Amministrazioni somale, tra cui il Ministero degli Esteri.
A luglio 2014 il viceministro degli Esteri
Pistelli ha effettuato una missione in Corno d'Africa
aperta dalla visita a Mogadiscio in occasione del 54° anniversario della fine
dell'amministrazione fiduciaria italiana per conto delle Nazioni Unite e alla
vigilia della festa dell'indipendenza nazionale. Alle autorità della Somalia
Pistelli ha ribadito che bisogna cogliere l'attuale
finestra di volontà politica, corrispondendo all'impegno dell'Italia nella
guida della missione di addestramento europeo, nel training della polizia
svolto dai carabinieri, con l'impegno di Mogadiscio a scrivere la nuova
Costituzione, a dialogare con le diverse regioni, a ricostruire le proprie
capacità, il che consentirebbe alla
Somalia di girare pagina, dopo 23 anni di ininterrotta guerra civile.
Mogadiscio ha dato infine la propria
disponibilità alla nuova iniziativa del governo
italiano sul Dialogo regionale sulle migrazioni, con l'obiettivo di contrastare
la tratta di esseri umani, garantire livelli adeguati di protezione ed
affrontare le cause del sottosviluppo. Tale proposta di Dialogo tra l'UE e l'Africa
orientale, allargato a Egitto e Libia, ha acquisito la luce verde dell'Unione
Africana in occasione del viaggio ad Addis Abeba del Viceministro degli Esteri Pistelli. Scopo dell'iniziativa, promossa
dall'Italia e sostenuta dalla Commissione Europea, è la gestione dei flussi
migratori con i Paesi di origine e transito dei flussi, tassello di una più
generale politica migratoria europea.
La Somalia è un paese prioritario per la
Cooperazione italiana, essenzialmente realizzata attraverso il canale
multilaterale e volta a sostenere la capacità del governo somalo di fornire
direttamente servizi essenziali alla popolazione. La strategia della
cooperazione italiana nei confronti della Somalia si è sinora basata su un
triplice approccio: di sostegno alla popolazione (attraverso programmi di
emergenza o comunque concentrati nei settori di maggiore impatto, a cominciare
dal sanitario); di supporto alle istituzioni federali governative con programmi
di capacity building e sostegno alla ricostruzione;
di advocacy e coinvolgimento della Comunità
Internazionale (sia a livello di singoli donatori che di UE e di organizzazioni
internazionali). Tale strategia, si prefigge di accompagnare in maniera
concreta il passaggio dagli interventi di emergenza a quelli di sviluppo di medio periodo. A valere sulle risorse stanziate dal
Decreto Missioni Internazionali nel 2012 sono stati
stanziati poco meno di sette milioni di euro in progetti di cooperazione allo
sviluppo, con priorità data all’assistenza degli sfollati, lo sminamento e la
lotta alla siccità, alla promozione della sicurezza alimentare[6], mentre nel 2013 sono stati finanziati interventi per quattro milioni
di euro attraverso il canale multilaterale; va inoltre ricordato il contributo
di all’UNICEF per un programma triennale di sostegno ai minori e un contributo
all’UNDP per un programma di sviluppo umano locale, oltre ad altri interventi
realizzati nel settore socio-sanitario e quello promossi dalle ONG.
Finora il principale canale di intervento è stato quello multilaterale. Significativa è stata l’intesa internazionale raggiunta con
la Conferenza dei donatori ”A new deal
for Somalia”, promossa dall'UE, che si è tenuta a Bruxelles nel settembre
2013, che ha portato all’adozione del Somali
compact, mettendo in modo un processo volto a determinare le priorità di
una programmazione comune per il triennio 2014-2016, nel rispetto dell’’ownership dei
paesi partner e in un contesto di multidonatori: in
tale contesto, sono stati enunciati i cinque Peace e Statebuilding Goals
(PSGs) - Politiche inclusive; Sicurezza; Giustizia;
Fondamenta economiche; Entrate e servizi- sulla base del New Deal Strategy for Engagement in Fragile States,
adottato a Busan nel novembre 2011, che promuove la riforma della strategia di
erogazione degli aiuti diretti ai cosiddetti ”Stati Fragili”; in tal sede è stato deliberato uno sforzo
finanziario pari a 1, 8 miliardi di euro cui l'Italia ha contribuito con un
impegno di 9 milioni per il 2013, con l'auspicio di attuare ulteriori interventi per 5
milioni di euro per il 2014 che vanno ad aggiungersi ad una consolidata
presenza della Cooperazione italiana nel Paese. Con i fondi stanziati dal
decreto missioni per il secondo semestre 2014 il
governo italiano intende proseguire le iniziative di sostegno alle capacità
delle autorità locali nel settore ittico e della gestione del bilancio ed
intervenire tramite organismi internazionali (presumibilmente UNICEF) nel
settore della salute materno-infantile a livello locale, nelle regioni in cui
le condizioni di sicurezza lo permettano. Parte delle risorse saranno destinate
al sostegno alla Scuola veterinaria di Sheikh,
struttura all'avanguardia nella regione, e gestita dall'IGAD, che ne ha più
volte auspicato un rafforzamento. Sul fronte degli interventi di emergenza, si interverrà tramite organismi internazionali in risposta
ad appelli umanitari delle Nazioni Unite e della Croce Rossa Internazionale,
anche in considerazione delle priorità di intervento identificate in loco.
La
Cooperazione italiana è presente in Somalia anche attraverso il sostegno alle
iniziative promosse dalle ONG, principalmente nei settori della sicurezza
alimentare e della fornitura dei servizi sanitari di
base. In Somalia, lavorano una dozzina di importanti
ONG italiane che gestiscono progetti finanziati da vari donatori per un totale
di circa 42 milioni di euro, impiegando quasi 2000 unità di personale somalo,
nei settori che vanno dalla prevenzione dei conflitti alla sicurezza
alimentare, dalla salute all'educazione.
Partecipazione
italiana a missioni internazionali di stabilizzazione e anti-pirateria
La proroga della partecipazione di personale
militare italiano alle operazioni militari al largo delle coste della Somalia, Atalanta dell'Unione Europea e Ocean
Shield della NATO, per il contrasto alla
pirateria è autorizzata dal DL 1°agosto 2014 n. 109 ( approvato con
modificazioni alla Camera ed attualmente all'esame del Senato per la conversione). Tuttavia, nel
corso dell’esame in sede referente presso la Camera, le Commissioni III e IV
hanno approvato una proposta emendativa, il cui testo è stato riformulato, che
prevede che conclusa la missione in corso alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, e comunque non oltre il 31 dicembre
2014, la partecipazione dell'Italia alle predette operazioni venga
valutata in relazione agli sviluppi della vicenda dei due fucilieri di Marina
del Battaglione San Marco attualmente trattenuti in India.
La missione Atalanta
è stata istituita con l'azione comune 2008/851/PESC del Consiglio dell'Unione
europea del 10 novembre 2008 -modificata da ultimo
dalla decisione 2012/174/PESC del Consiglio del 23 marzo 2012- allo scopo di
contribuire alla deterrenza e repressione degli atti di pirateria e rapina a
mano armata commessi a largo delle coste della Somalia. L’operazione militare è
condotta a sostegno delle risoluzioni 1814, 1816 e 1838 del 2008 del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite - richiamate da ultimo dalla risoluzione 2077(2012) del 21 novembre 2012- in modo conforme all'azione
autorizzata in caso di pirateria dagli articoli 100 e seguenti della
convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
Il mandato prevede:
a) la protezione delle navi del Programma alimentare
mondiale (PAM) che inoltrano aiuti umanitari alle popolazioni sfollate della Somalia e delle navi mercantili che navigano al largo
del territorio somalo;
b) la sorveglianza delle zone al largo della Somalia,
comprese le acque territoriali giudicate rischiose per le attività marittime;
c) l’uso della forza per la dissuasione, la
prevenzione e la repressione degli atti di pirateria;
d) la possibilità di arresto, fermo e trasferimento
delle persone che hanno commesso o che si sospetta abbiano commesso atti di
pirateria o rapine a mano armata e la possibilità di sequestrare le navi di
pirati o di rapinatori, le navi catturate a seguito di pirateria o rapina nonché di requisire i beni che si trovano a bordo di tali
navi.
Le forze schierate opereranno fino a cinquecento
miglia marine al largo della Somalia e dei paesi vicini.
L’operazione Atalanta, inizialmente posta
in essere per la durata di dodici mesi, a decorrere dalla dichiarazione
di capacità operativa iniziale, avvenuta il 13 dicembre 2008, si è vista
prorogato più volte il mandato.
Il 12 giugno 2009 i Ministri della difesa NATO hanno
approvato l'avvio di una nuova missione ''a lungo termine'' contro la pirateria
nel Golfo di Aden e al largo delle coste somale. La missione NATO, denominata Ocean Shield
(scudo oceanico), complementare a quella dell'UE, dispiegata nel luglio 2009,
prevede, laddove non sia disposta la contribuzione di assetti dedicati,
l'impiego delle Forze Standing NATO Maritime Group 1 e 2 (SNMG1 e 2) nella zona
del Corno d'Africa e del Golfo di Aden.
Il DL 1°agosto 2014 n.109 autorizza altresì
la proroga della partecipazione di personale militare alle missioni dell’Unione
europea denominate EUTM Somalia e EUCAP Nestor e alle ulteriori iniziative dell’Unione europea per
la Regional maritime capacity building nel Corno d’Africa e nell’Oceano
indiano occidentale, nonché per il funzionamento della base militare nazionale
nella Repubblica di Gibuti (inaugurata nell’ottobre 2013), e per la proroga
dell’impiego di personale militare in attività di addestramento delle forze di
polizia somale, già autorizzate dall'art. 1, comma 12
del D.L. n. 2 /2014.
La missione EUTM Somalia (European Unione Training mission Somalia), di cui
alla decisione 2010/96/PESC del Consiglio dell'Unione europea del 15 febbraio 2010, come modificata dalla decisione
201I/483/PESC del Consiglio del 28 luglio 2011, è volta a contribuire al
rafforzamento del governo federale di transizione somalo (GFT), affinché
diventi un governo funzionante al servizio dei cittadini somali. In
particolare, la missione si prefigge l'obiettivo di contribuire a una
prospettiva globale e sostenibile per lo sviluppo del settore della sicurezza
in Somalia, rafforzando le forze di sicurezza somale grazie all'offerta di una
formazione militare specifica, comprendente un'adeguata formazione
modulare e specialistica per ufficiali e sottufficiali, e al sostegno alla
formazione fornita dall'Uganda, destinata a duemila reclute somale addestrate
fino al livello di plotone incluso. La missione opera in stretta cooperazione e
in coordinamento con le Nazioni Unite e con la missione dell'Unione africana in
Somalia (AMISOM). Le attività di formazione si svolgono essenzialmente in Uganda.
Una componente di tale missione è inoltre insediata a
Nairobi.
La missione
EUCAP Nestor (European Union regional maritime Capacity Building), di cui alla decisione 2012/389/PESC
del Consiglio dell'Unione europea del 16 luglio 2012, modificata dalla
decisione 2013/367/PESC del 9 luglio 2013, ha l'obiettivo di assistere lo
sviluppo nel Corno d'Africa e negli Stati dell'Oceano
Indiano occidentale di una capacità autosufficiente per il costante
rafforzamento della loro sicurezza marittima, compresa la lotta alla pirateria,
e della governance
marittima. Si tratta di una missione civile, condotta nell'ambito della
Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), rafforzata con expertise militare ed è concepita
come complementare alle missioni EUNAVFOR Atalanta e alla EUTM Somalia. L'EUCAP
Nestor ha la focalizzazione geografica iniziale su
Gibuti, Kenya, Seychelles e Somalia ed è altresì dispiegata in Tanzania, su
invito delle relative autorità. Ai fini del raggiungimento dell'obiettivo l'EUCAP
Nestor svolgerà i seguenti compiti: aiutare le
autorità nella regione a conseguire l'efficiente organizzazione delle agenzie
per la sicurezza marittima che svolgono la funzione di guardia costiera;
fornire corsi di formazione e competenze di formazione per rafforzare le
capacità marittime degli Stati nella regione, inizialmente Gibuti, il Kenya e
le Seychelles, al fine di conseguire l'autosufficienza in materia di
formazione; aiutare la Somalia a sviluppare una propria capacità di polizia
costiera di terra sostenuta da un quadro giuridico e normativo completo;
individuare le principali carenze di capacità delle
attrezzature e fornire assistenza nell'affrontarle; fornire assistenza nel
rafforzare la legislazione nazionale e lo stato di diritto tramite un programma
di consulenza giuridica a livello regionale e consulenza giuridica per
sostenere la redazione della normativa sulla sicurezza marina e della
legislazione nazionale connessa; promuovere la cooperazione regionale fra le
autorità nazionali preposte alla sicurezza marina; rafforzare il coordinamento
regionale nel settore dello sviluppo delle capacità marittime; fornire
consulenza strategica tramite l'assegnazione di esperti a amministrazioni
chiave; attuare i progetti della missione e coordinare le donazioni; elaborare
e attuare una strategia di informazione e comunicazione a livello regionale.
Quadro politico e di sicurezza
In Libia il quadro politico e di sicurezza appare da ultimo in rapido
deterioramento, come testimoniato dal Rapporto del Segretario Generale dell'ONU
(S/2014/653) del 5 settembre 2014. Come ribadito dal
Ministro Pinotti nel corso dell'informativa del governo sullo stato delle
missioni internazionali il 3 settembre 2014, il conflitto ormai aperto fra le
differenti fazioni in lotta per il potere è stato recentemente acuito dalla
creazione di due realtà distinte, ognuna con un proprio Parlamento: da un lato
il Congresso Nazionale (a Tripoli) in contrapposizione al Consiglio dei
Rappresentanti (a Tobruk) democraticamente eletto il
25 giugno 2014, ma dichiarato illegittimo dagli islamisti. Questa situazione
rischia di determinare il completo sfaldamento dello Stato, con la perdita
totale del controllo del territorio da parte delle legittime Autorità, sempre
più esposte all’azione di gruppi armati con aspirazioni politiche, di matrice
fondamentalista, ovvero dediti alle attività illegali
come il traffico di esseri umani- rimasta l'unica attività fiorente in un contesto
in cui la produzione di petrolio e gas
resta su valori decisamente bassi [7].
Le elezioni del 25
giugno 2014 e l'entrata in funzione della nuova Camera dei Rappresentanti, al
posto del Congresso nazionale generale, avrebbe dovuto
dare uno sfogo istituzionale al dissidio fra islamisti e moderati. Nel febbraio
del 2014, il Congresso, in preda a contrasti inconciliabili e sotto il peso di
una diffusa sfiducia popolare, aveva raggiunto un compromesso per rinnovarsi
mediante elezioni. Nel maggio 2014, tuttavia, il generale Haftar
annunciava la sua “Operazione Dignità” contro islamisti e terroristi, ricevendo
un avallo da parte dei moderati dell'Alleanza delle forze
nazionali- partito di maggioranza relativa- e allontanando così una
soluzione politica. Islamisti e rivoluzionari radicali, pertanto hanno cominciato a prepararsi
allo scontro, al di là dell'esito del processo istituzionale. Le elezioni hanno
consegnato alla Camera dei Rappresentanti una maggioranza nettamente orientata
verso i moderati. Tuttavia, la bassa partecipazione al voto ha messo in
discussione la loro rappresentatività. Comunque, sono state interpretate da
islamisti e rivoluzionari radicali come ulteriore atto
della prevaricazione dei moderati nei loro confronti e di conseguenza sono iniziate
le operazioni delle loro forze militari coalizzate sotto il nome di “Operazione
Alba”.
Il 13 luglio le
forze di Alba[8] hanno attaccato
l’aeroporto internazionale di Tripoli, tenuto sin dalla rivoluzione dalle
brigate della città di Zintan, alleate dei moderati e
perno della loro influenza nella capitale. A Bengasi, il 29 luglio gli
islamisti di Ansar al-Sharia[9] hanno estromesso
le forze di “Dignità” dalla importante base di Buatni. Da allora, le forze cirenaiche continuano a premere
su quelle di Haftar che perdono posizioni.
L’aeroporto di Tripoli è caduto il 23 agosto.
Dopo gli attacchi
aerei delle forze di Zintan e Haftar
contro le postazioni militari islamiste - avvenuti il 17-18 e il 22-23 agosto - a fine agosto le
milizie di Misurata sono avanzate fin dentro l’aeroporto internazionale di
Tripoli, al centro degli obiettivi dell’Operazione Alba dal 13 luglio.
In un comunicato
congiunto le brigate zintaniane Qaqaa
e Sawaq hanno dichiarato di essersi ritirate, nel quadro di “una battaglia appena iniziata”, a scopi
tattici e strategici, per dimostrare agli abitanti di Tripoli e al mondo che il
vero obiettivo dell’Operazione Alba era ribaltare l’esito delle elezioni del 25
giugno.
Attualmente, le forze della coalizione Alba spadroneggiano nella capitale, da dove
i moderati si sono ritirati. Alba ha occupato le sedi governative (e la ex residenza dell’ambasciatore americano). Dal punto di
vista politico il Paese è sempre più spaccato: quel che resta dell’Esecutivo Al
Thinni (funzionari compresi) è fuggito dalla
capitale, abbandonata a se stessa ed ora sotto
controllo integrale delle milizie islamiste; la Camera dei Rappresentanti –che
pure ha ricevuto legittimità democratica alle elezioni del 25 giugno – rischia
di restare confinata a Tobruk sotto la protezione del
Gen. Haftar, il quale perde posizioni sul piano
militare e al quale essa viene completamente associata.
Si è dunque
innestata una dinamica distruttiva di delegittimazione reciproca tra i due
campi. Il Presidente del Parlamento uscente, Abu Sahmin,
ha disconosciuto la legittimità della Camera dei Rappresentanti, che avrebbe
“tradito il popolo” e la rivoluzione appellandosi all’intervento straniero,
consentendo i bombardamenti di Paesi terzi contro milizie islamiste e
scegliendo una sede legata al Generale Haftar.
Il 25 agosto si è
riunito a Tripoli il vecchio Congresso Nazionale Generale, il cui mandato è
scaduto, ma che si è autoproclamato l’unica
istituzione legittima che difende gli ideali della rivoluzione. Esso ha
proceduto a: dichiarare lo stato di emergenza; innalzare il “livello di allerta
al massimo grado per tutti gli apparati militari e di sicurezza dello Stato in prospettiva di eventuali minacce alla sicurezza e
stabilità del Paese”; invitare "tutti i cittadini a collaborare con le
istituzioni militari dello Stato per riportare la stabilità e la
sovranità”; ha inoltre rimosso il Primo Ministro in carica
Al Thinni e affidato ad Al Hasi
l’incarico di formare un “Governo di salvezza nazionale”.
Inoltre, il
portavoce del Congresso
– organo da considerare decaduto
a seguito delle elezioni democratiche del 25 giugno – ha annunciato che
esso riprenderà le sue sessioni per adottare le leggi necessarie per uscire
dalla crisi e ristabilire la “normalità”, fintantoché non avrà luogo un formale
passaggio di consegne al nuovo Parlamento a Bengasi (o altra sede scelta di
comune accordo).
Per parte sua, il
Parlamento di Tobruk ha provveduto
a definire ogni formazione che agisce sotto il capello della Coalizione
Alba quale gruppo terroristico (al pari di Ansar al-Sharia), incoraggiando per
tal via un ulteriore ricompattamento del fronte islamista; ha inoltre nominato il Gen. Nazouri, vicino ad Haftar, Capo
di Stato Maggiore (il precedente era islamista), ha destituito il Vice Ministro
della Difesa Sharif (anch’egli islamista) ed, infine, ha riconfermato l'incarco ad Al-Thinni per gli
affari correnti.
Risposta delle Organizzazioni multilaterali
I mutati equilibri
militari e il deterioramento del contesto politico non
devono far desistere la comunità internazionale dallo sforzo per un cessate il
fuoco. Dopo i tentativi di mediazione condotti da UNSMIL (United
Nations Support Mission for
Libya) dal 7 al 18 agosto
2014, sostenuti dall’Italia, un nuovo round
negoziale è guidato dal neo-nominato Rappresentante Speciale del Segretario
Generale dell'ONU (SRSG) Leon a partire dall'8
settembre. La mediazione internazionale, per quanto difficile, appare più che
mai urgente.
Come già
chiarito dall’uscente SRSG Tarek Mitri in uno degli
ultimi briefing al Consiglio di Sicurezza (dal 1° settembre è subentrato
nell’incarico lo spagnolo Bernardino Leon, già Inviato Speciale UE per la
Libia) deboli sono i presupposti per l’avvio di un processo politico inclusivo
e le Parti devono essere accompagnate su questo cammino, anche attraverso Confidence Building Measures,
con l’obiettivo ultimo di un Esecutivo di Unità Nazionale. Egli ha sottolineato l'importanza di: scoraggiare eventuali nuove
interferenze di player
internazionali; rendere l’embargo delle armi più efficiente (e la nuova
Risoluzione 2174 va in questo senso);
che i paesi confinanti concorrano al controllo dei confini libici, anche
in funzione di non proliferazione; ha inoltre riferito come sia difficile
ipotizzare una presenza militare internazionale, anche se composta da arabi o
musulmani (per le loro divisioni interne).
Il 27 agosto
è stata approvata all’unanimità la nuova Risoluzione n. 2174, presentata dalla
Presidenza britannica e co-sponsorizzata anche dall’Italia (assieme a USA,
Francia, Germania, Austria, Lussemburgo, Corea e Rwanda),volta a chiedere a tutte le Parti di acconsentire ad un
immediato cessate il fuoco e all'instaurazione di un dialogo politico inclusivo
e guidato dai Libici, nonché a rendere più efficace l’embargo sulle armi e
rafforzare il regime sanzionatorio contro nuove violenze o violazioni di
diritti umani.
Nel briefing di Leon al Consiglio di
Sicurezza dell'ONU del 12 settembre è stato ribadito
che la soluzione della crisi libica non può essere perseguita tramite mezzi
militari, ma attraverso un consenso politico basato su alcuni prinicipi chiave tra cui: il rispetto della Dichiarazione
Costituzionale, il processo democratico, le elezioni legislative del 25 giugno,
la cessazione dell'incitamento e la provocazione, il rigetto del terrorismo ed
un processo politico inclusivo. Tali principi dovranno sorreggere i lavori imminenti
della ministeriale del Dialogo per il Mediterraneo occidentale 5+5 di Madrid
del 17 settembre 2014 e dell'apertura della 69° Assemblea generale dell'ONU.
Si ricorda
che la missione ONU in Libia denominata UNSMIL (United Nations Support Mission
for Libya) è stata istituita con la risoluzione 2009 del 2011 avente per
oggetto il compito di assistere e sostenere gli sforzi nazionali libici nella
fase successiva al conflitto, e cooperare per il ripristino della sicurezza e
l’ordine pubblico attraverso l’affermazione dello stato di diritto, il dialogo
politico e la riconciliazione nazionale. La successiva risoluzione 2016 del
2011 ha fissato al 31 ottobre 2011 il termine di conclusione degli interventi
per la protezione dei civili e delle aree a
popolazione civile sotto la minaccia di un attacco e delle operazioni per il
rispetto del divieto di sorvolo nello spazio aereo della Libia, di cui alla
risoluzione 1973 (2011). Successivamente, la
risoluzione 2022 (2011) ha esteso il mandato della missione UNSMIL, prevedendo,
altresì, l’assistenza e il sostegno agli sforzi nazionali libici per affrontare
la minaccia di proliferazione delle armi e dei materiali collegati di qualsiasi
tipo, in particolare dei missili terra-aria trasportabili a spalla.
La risoluzione 2040
(2012) adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 12 marzo
2012, richiamata dalla risoluzione 2095 (2013) adottata dal Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite il 14 marzo 2013, ha modificato il mandato della
missione UNSMIL assegnandole il compito, nel pieno rispetto del principio di
responsabilizzazione a livello nazionale, di assistere e sostenere le autorità
libiche, offrendo consulenza strategica e tecnica per gestire il processo di transizione
democratica, promuovere lo Stato di diritto, ripristinare la sicurezza
pubblica, affrontare la minaccia di proliferazione delle armi e dei materiali
collegati di qualsiasi tipo, in particolare dei missili terra-aria
trasportabili a spalla.
Dal canto suo
l'UE, nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 30 agosto 2014, ha condannato
l'escalation degli scontri in Libia,
ha fatto appello a tutte le parti libiche ad accettare un cessate
il fuoco immediato e a impegnarsi in maniera costruttiva in un dialogo
politico inclusivo, ha incoraggiato i vicini regionali a sostenere l'immediata
cessazione delle ostilità e ad astenersi da azioni che possano esacerbare le
attuali divisioni e minare il processo di transizione democratica della Libia.
Infine ha fatto appello al governo libico ad
interim e alla Camera dei Rappresentanti perché istituiscano urgentemente
un governo autenticamente inclusivo, nonché
all'Assemblea costituente perché prosegua con urgenza nel suo lavoro.
La NATO,
nella dichiarazione finale del Vertice di Newport del 3-4 settembre 2014, ha ribadito l'appello a tutte le parti libiche ad accettare un
cessate il fuoco immediato e a impegnarsi in maniera costruttiva in un dialogo
politico inclusivo. Ha riconosciuto il ruolo centrale dell'ONU nel coordinamento
degli sforzi internazionali e ribadisce il sostegno ad
UNSMIL. La NATO ha ribadito
la sua disponibilità a sostenere la Libia nell'institution building in materia di sicurezza e difesa e a sviluppare una partnership di lungo periodo che possibilmente
conduca alla membership
della Libia nel Dialogo Mediterraneo.
Iniziative delle potenze regionali
Parallelamente,
si è andata intensificando l’azione diplomatica soprattutto dei Paesi vicini
alla Libia, in particolare nel formato Paesi Confinanti (Egitto, Algeria,
Tunisia, Sudan, Ciad e Niger, LAS e UA, oltre alla Libia stessa), riunitosi per
la quarta volta a livello di Ministri degli Esteri al Cairo il 25 agosto 2014.
Questi i punti essenziali delle proposte, su forte impulso dell’Egitto, delineati nella dichiarazione finale: invito ad un cessate
il fuoco immediato, come pre-condizione per l’avvio di un processo di
riconciliazione nazionale e per l’elaborazione del testo costituzionale;
impegno di tutti gli attori esterni per porre fine alla fornitura di armi alle
milizie (con l’unica eccezione dei rifornimenti allo Stato libico, in base alle
procedure ONU); offerta di assistenza per la sicurezza delle frontiere; lotta
al terrorismo e prosciugamento delle sue fonti di finanziamento; rafforzamento delle
istituzioni nazionali, in primis il
neoeletto Parlamento, l’esercito e la polizia (questi ultimi da “ricostruire e
abilitare”); istituzione di meccanismi punitivi per chi minasse la stabilità e
la transizione politica; massima inclusività del
dialogo nazionale, aperto a chiunque rinunci alla violenza; meccanismi di
monitoraggio dell’iniziativa a livello dei Ministeri degli Esteri degli Stati
confinanti, in cooperazione coi due emissari arabo e africano. Proseguono i
contatti con Nazioni Unite (Segretariato Generale e Presidenza del CdS), Lega Araba, Unione Africana e con il Governo spagnolo
-in vista della riunione ministeriale del Dialogo per il Mediterraneo
occidentale 5+5 di Madrid del 17 settembre 2014[10]. Sul piano bilaterale l’Egitto ha
annunciato un nuovo forte impegno nell'addestramento delle forze di polizia
libiche.
Bernardino
Leon confida che malgrado le differenze di accenti
(Tunisia ed Algeria più disponibili al dialogo, Egitto meno convinto), il mondo
arabo stia maturando la consapevolezza della gravità della crisi e della
necessità di cautela.
Ostacoli alla ripresa del processo
politico-istituzionale
Un ulteriore fattore di complessità per la ripresa del processo
politico-istituzionale libico è rappresentato dal fatto che esso si collega al
confronto fra le diverse potenze sunnite della regione e ne è inevitabilmente
influenzato. Nella battaglia di Tripoli gli Emirati Arabi Uniti sono stati
accusati di essere intervenuti con propri aerei, con l'appoggio logistico
dell’Egitto - finora gli EAU non hanno nè smentito né
confermato. Certo è che gli EAU riconoscono e sostengono il governo Al Thini a Tobruq che vedendosi attualmente precluso l'accesso alla Banca centrale a Tripoli
conta sugli EAU per un meccanismo di finanziamento alternativo nel breve
periodo, simile a quello con cui il Qatar aiutò il Consiglio Nazionale di
transizione nel 2011 quando controllava quella parte di territorio. Non è un
mistero che Qatar e Turchia appoggiano i Fratelli Mussulmani e le forze ad essi associate, mentre Arabia Saudita, EAU ed Egitto
sostengono un arco di moderati che va da Mahmoud Jibril a Khalifa Haftar. Non è chiaro se le forze jihadiste di Bengasi e
Derna abbiano sostenitori esterni, se Qatar e Turchia appoggino anche loro;
certamente ricevono appoggio dalle diverse associazioni e organizzazioni
caritatevoli del salafismo estremista del Golfo. Con
ancora maggiore certezza ricevono appoggi dai loro accoliti a
partire dai vari fronti mediorientali e africani del Jihad.
Le milizie jihadiste prevalgono in Cirenaica. Le due principali organizzazioni sono
Abu Salim Martyrs’ Brigade a Derna e Ansar al-Sharia a Bengasi. Se la loro
matrice è autoctona - essendo eredi della Libyan Muslim Brotherhood e del suo
braccio armato, il Libyan Islamic
Fighting Group (LIFG) –possono oggi contare su
cospicui finanziamenti internazionali (da alcuni paesi del Golfo) e sono
coinvolte in vario modo nel gioco della jihad globale (trasferimento di combattenti provenienti
dall’Europa occidentale e dal Maghreb verso la Siria, traffico di armi e
reclutamento interno per i vari fronti esterni).
Sulla strada
della ripresa del processo politico-istituzionale una possibile complicazione
del quadro potrebbe derivare dalla possibile contiguità e alleanza tra forze
islamiste moderate ed estremiste, tuttavia tale
eventualità è certamente complicata dalle pesanti interferenze esterne in
essere. Per questo i paesi occidentali e l’ONU hanno subito denunciato le
interferenze esterne e confermato l’obiettivo di ricreare le condizioni perché
il processo politico-istituzionale possa riprendere. L'Occidente e i governi
della regione debbono sostenere un dialogo
maggiormente inclusivo, invertendo la tendenza finora verificata per cui nel
processo politico tutti i democratici libici hanno puntato all’esclusione
dell’altro piuttosto che alla collaborazione, al contrario di quanto avvenuto
in Tunisia.
Ruolo dell'Italia nell'addestramento delle forze di scurezza libiche
La missione
EUBAM Libya, istituita con decisione 2013/233/PESC del Consiglio del 22 maggio
2013, ha il mandato di fornire alle autorità libiche sostegno per sviluppare – a breve termine – la capacità di accrescere la sicurezza
delle frontiere terrestri, marine e aeree libiche e per sviluppare – a più
lungo termine – una strategia più ampia di gestione integrata delle frontiere;
per conseguire tali obiettivi la missione svolge compiti di sostegno alle
autorità libiche per rafforzare sia i servizi di frontiera mediante attività di
formazione e accompagnamento (ciò in vista di una strategia nazionale libica di
gestione integrata delle frontiere), sia le capacità operative istituzionali
libiche.
Alla EUBAM Libya
l'Italia partecipa con personale militare, della Polizia di Stato, della
Guardia di Finanza e dal secondo semestre del 2014, a seguito di emendamento
approvato dalla Camera in sede referente dell'ultimo decreto di proroga (D.L.
n. 109/2014) potrà altresì prendervi parte personale del Corpo delle
Capitanerie di Porto. A seguito di emendamento
approvato dalla Camera durante l'esame in Assemblea, il Governo italiano -
perdurando la situazione di instabilità politica in Libia - deve riferire alla
Camere sull'eventuale sospensione totale o parziale della partecipazione alla
suddetta missione.
L’Italia,
oltre che partecipare alle attività dell’Unione europea, è impegnata
bilateralmente con la Libia dal 2011 nella ricostruzione delle Forze armate e
di sicurezza locali tramite l’Operazione “Cyrene”, riconfigurata il 1°ottobre 2013 in MIL, “Missione
militare italiana in Libia”, costituita da una componente interforze. La MIL ha
il compito di organizzare, coordinare e monitorare tutte le attività
addestrative, di assistenza e consulenza svolte in Libia nel settore della
Difesa.
Il personale
MIL ha già addestrato per la Libia 1.345 militari indicati a suo tempo dal
legittimo Governo, come concordato con le Autorità libiche e nel
quadro di più ampi accordi multinazionali sottoscritti nel contesto del
G-8 di Lough Erne.
Marco Zupi
Nel mese di settembre del 2014, la
69a sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite è l'occasione per
analizzare lo stato di avanzamento dei lavori preparatori per la messa a punto
dell'agenda di sviluppo per il post-2015.
Il primo dato
significativo è il ritardo con cui si sta procedendo
alla costruzione di un'agenda condivisa tra le parti. Il rapporto finale
consegnato a luglio dall'Open Workng Group sugli
obiettivi di sviluppo sostenibile è un indicatore concreto delle difficoltà
sinora incontrate nel ricucire posizioni ancora molto distanti, soprattutto tra
paesi emergenti e paesi OCSE.
L'altra
faccia delle difficoltà di sintesi negoziale è costituita dal lavoro
preparatorio sul fronte dei Means of Implementation e, in particolare, dell'agenda sulla finanza
per lo sviluppo. Il draft presentato ad agosto dall'Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable
Development Financing è ancora molto vago e incapace
di offrire una definizione condivisa del termine di "responsabilità comuni
e differenziate". Ciò rende molto incerto l'esito
della 3a Conferenza internazionale sulla finanza per lo sviluppo, che a giugno
del 2014 le Nazioni Unite hanno deciso di svolgere nel mese di luglio ad Addis
Abeba, così da soddisfare le richieste del Gruppo dei 77
e deludendo le richieste avanzate dai paesi OCSE di farla slittare al 2016.
Un'agenda che si intreccia
direttamente con quella degli obiettivi di sviluppo sostenibile e con la
correlata agenda sulla finanza per lo sviluppo è quella relativa ad un nuovo
accordo in materia di cambiamenti climatici,legata
alle Conferenze delle Parti. Il fatto che a pochi mesi dalla COP20 che si terrà
a Lima, molti parlino esclusivamente dell'importante e decisivo appuntamento
rappresentato dalla COP21 che si terrà a fine 2015 a Parigi è un indicatore
della fase di stallo in cui ci si trova ora, col rischio di agende molto poco ambiziose e trasformatrici del modello di
sviluppo prevalente e preoccupate soprattutto di arrivare a un minimo comune
denominatore.
Il ritardo della presentazione del rapporto di sintesi
del Segretario Generale delle Nazioni Unite, inizialmente atteso proprio in
occasione della la 69a sessione dell'Assemblea generale rende interlocutoria questa fase, proprio in coincidenza con il
semestre di Presidenza italiana di turno del Consiglio dell'Unione europea. In
questo semestre, a una posizione piuttosto defilata dell'Europa nel negoziato
presso le Nazioni Unite fa da contraltare la volontà del governo italiano di
qualificare con una propria vision, articolata in
alcuni temi prioritari, il contributo al dibattito. Questa vision
è anche l'occasione per presentare il posizionamento
strategico e i principali commenti in materia da parte di istanze non
governative.
1 Premessa ............................................................................................ 83
2. Il contributo in sede ONU dell'Open Working Group (OWG) sugli SDG
3. Il nodo della Finanza per lo Sviluppo e i Means of Implementation (MoI)
4. L'intreccio dell'agenda con la COP20 di Lima sui cambiamenti climatici
14 settembre 2014
L'autore ha potuto giovarsi di frequenti scambi di idee
sugli argomenti presentati in questo approfondimento con i referenti della
Direzione Generale per la Cooperazione allo sviluppo del Ministero Affari
Esteri (in particolare, i Vice-Direttori generali Min. Fabio Cassese e Min. Luca Maestripieri, il Min. Paolo Venier, il
Min. Roberto Spinelli, il Cons. Paolo Palminteri, le dott.sse Lodovica
Longinotti, Bianca Pomeranzi e Teresa Savanella), con il sostegno costante del Direttore generale
Giampaolo Cantini, come anche di occasioni seminariali che hanno coinvolto il
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (nella persona
del dott. Paolo Soprano, dirigente presso la DG Sviluppo Sostenibile, Clima e
Energia, e del suo ufficio) L'autore si è avvalso di discussioni e contributi
del team di lavoro del CeSPI sul post-2015, in
particolare di Sara Hassan, ma resta, ovviamente, il
solo responsabile dell'approfondimento, delle opinioni espresse e degli
eventuali errori.
A settembre del 2013, in
occasione della 68a sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (United Nations General
Assembly, UNGA), il Segretario Generale Ban Ki-moon aveva sancito l'avvio concreto del negoziato
intergovernativo sull'agenda di sviluppo per il post-2015.
Il processo preparatorio
era stato avviato formalmente sul finire del 2011, con un certo anticipo
rispetto alla scadenza del 2015 fissata nel 2000 per il raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals,
MDG).
A differenza di quello
che era stato il negoziato per la definizione dei MDG, il processo preparatorio
relativo all'agenda per il post-2015 si prefiggeva l'obiettivo di assicurare
un'ampia partecipazione di paesi e stakeholder,
così da caratterizzarsi come una strategia elaborata sulla
base di numerose consultazioni e processi paralleli promossi o perlomeno
seguiti con attenzione dal Segretario Generale delle Nazioni Unite (l’approccio
cosiddetto bottom-up, che assegna un
ruolo maggiore alla base della gerarchia organizzativa). Ciò giustificava ampiamente
la scelta di avviare con un certo anticipo il processo negoziale, almeno nella
sua preparazione.
In ambito Nazioni Unite
- un ambito tipicamente "sviluppista", cioè
in diretta continuità con le istanze e le competenze
che avevano dato vita all'agenda MDG - a inizio 2012 era stato istituito l’UN System Task Team, co-presieduto da
UNDESA e UNDP e composto da rappresentanti di oltre 60 organizzazioni
internazionali ed enti delle Nazioni Unite, con lo scopo di avviare un
confronto sulle priorità e sui temi del post-2015. Nella seconda metà del 2012
il Segretario Generale aveva poi nominato l'High-level Political Panel of Eminent Persons on the Post 2015
Agenda, un gruppo di 27 leader a livello mondiale
che a fine maggio del 2013 avrebbe poi presentato le proprie raccomandazioni
finali nel Rapporto A new global
partnership: eradicate poverty and transform economies through sustainable development.
Parallelamente, sempre
in ambito Nazioni Unite ma come emanazione del processo più
"ambientalista" collegato alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo
sviluppo sostenibile (Rio+20) del giugno 2012, era stato avviato il processo
negoziale per la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals,
SDG). Nel 2013 era stato istituito e reso operativo l’Open Working Group (OWG) sugli SDG, il
meccanismo intergovernativo composto da 30
raggruppamenti di paesi, con l'obiettivo di elaborare un rapporto di
raccomandazioni per l'Assemblea generale.
L’OWG segna, anzitutto
simbolicamente, una discontinuità con il processo MDG istituzionalizzando -
come dimostra la compresenza allo stesso tavolo di
rappresentanze dei Ministeri degli Affari Esteri e della cooperazione allo
sviluppo da un lato, e dei Ministeri dell'Ambiente dall'altro - la necessità di
coniugare in modo quanto più integrato possibile agende di sviluppo e
competenze solitamente separate, perché riferite alle tre diverse dimensioni
(economica, sociale e ambientale) dello sviluppo. L'OWG si è avvalso anche
delle elaborazioni del Sustainable Development Solutions Network (SDSN),
altro meccanismo predisposto dalla Segreteria delle Nazioni Unite per
alimentare il dibattito sull'agenda di sviluppo per il post-2015.
Consultazioni tematiche, a livello di paese e globali on-line, hanno
ulteriormente arricchito il processo promosso dalle Nazioni Unite.
Inoltre, a latere
rispetto ai percorsi ONU, contributi alla definizione dell'agenda di sviluppo
per il post-2014 sono venuti dall'OCSE, dall'Unione Europea e da raggruppamenti
di altri paesi (come il Gruppo dei 77, G-77), dalle Istituzioni finanziarie
internazionali (IFI), da organizzazioni della società civile, dal mondo
accademico e della ricerca, dal settore privato. Di tutto questo si è dato
conto in un precedente approfondimento preparato a settembre 2013[11].
A distanza di un anno esatto da quel settembre 2013, il processo negoziale
vero e proprio ha preso forma: in ambito Nazioni Unite, l'OWG ha completato il
suo lavoro con la consegna del rapporto finale, reso pubblico il 19 luglio
2014; subito dopo, l’8 agosto, l’Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable Development Financing
(ICE-SDF) ha presentato il proprio rapporto sulla definizione di un sistema di
finanza per lo sviluppo sostenibile, correlato alle strategie per il
raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
In questo contesto si è articolato anche un dibattito in seno
all'Unione Europea circa il posizionamento sul piano strategico in relazione ai
suddetti temi; dibattito che ha visto emergere posizioni diverse.
In Italia, anzitutto
come riflesso e reazione rispetto agli sviluppi in sede Nazioni Unite e UE, si
è sviluppata una crescente attenzione all'agenda relativa
alle politiche di sviluppo per il post-2015. A partire
dal luglio 2014, sia a seguito della pubblicazione dei rapporti dell'OWG
e dell'ICE-SDF, sia in concomitanza con il semestre di Presidenza italiana di
turno del Consiglio dell'Unione europea (luglio-dicembre 2014) e con l'entrata
in vigore della nuova Legge ”Disciplina Generale sulla cooperazione internazionale
per lo sviluppo” (L. 11 agosto 2014, n. 125), approvata in via definitiva dal
Senato il 1 agosto 2014, il contributo italiano al dibattito internazionale
appare oggi delinearsi con più chiarezza, soprattutto per quanto riguarda il
posizionamento del Ministero Affari Esteri (ora rinominato Ministro degli
Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, MAECI). Lo testimoniano le
diverse occasioni seminariali di discussione promosse da alcune espressioni
della società civile organizzata (nell'ambito del progetto di Educazione allo
Sviluppo di Concord Italia, More and better Europe, cofinanziato dalla Commissione Europea e
dal MAECI, in quello di Oxfam Italia, Slow Food, ARCS e CeSPI, Coltivare l’Economia, il Cibo, il Pianeta,
cofinanziato dal MAECI e nella serie di incontri di
discussione promossi dall’Alleanza delle cooperative italiane in collaborazione
con il MAECI) e da quelle di consultazione in seno al Gruppo tematico sul Contributo italiano all’agenda post 2015,
presieduto dal MAE e dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio
e del Mare (MATTM), del Tavolo inter-istituzionale per la cooperazione allo
sviluppo, istituito d’intesa con il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Questo Gruppo ha lo scopo di aggiornare i partecipanti sul dibattito in corso
sul post-2015 e sul processo degli SDG.
I tanti contributi
commissionati nella fase preparatoria del negoziato e i diversi processi
avviati in parallelo dovrebbero trovare poi una sintesi nel rapporto del
Segretario Generale delle Nazioni Unite sull'agenda dello sviluppo per il
post-2015. Tale rapporto ha il compito di chiudere il processo preparatorio e
avviare ufficialmente il negoziato finale tra i paesi membri chiamati, a
partire proprio dal rapporto del Segretario Generale, a definire e siglare
l'accordo finale, con l'identificazione di obiettivi, traguardi e indicatori relativi agli SDG (o post-MDG), parallelamente
all'assunzione di impegni precisi sul piano delle risorse a livello nazionale e
internazionale per la realizzazione degli obiettivi: i cosiddetti Means of Implementation,
MoI, combinazione di risorse finanziarie, sviluppo e
trasferimento tecnologico, capacity‐building, globalizzazione equa ed inclusiva,
commercio, integrazione regionale e creazione di ambienti nazionali favorevoli
alla realizzazione dell'agenda da sviluppare.
Fig. 1 - Il processo per la definizione dell'agenda dello
sviluppo per il post-2015
La tempistica immaginata
originariamente prevedeva che a settembre 2014 il Segretario Generale
presentasse pubblicamente il suo rapporto di sintesi, in concomitanza con la 69a
sessione dell'UNGA aperta il 16 settembre, dopodiché le parti avrebbero avuto
un anno intero per mettere a punto l'agenda e siglare
il nuovo accordo globale, il post-MDG, in occasione della 70a
sessione dell'UNGA aperta il 15 settembre 2015. Parallelamente, tutto lasciava
presagire che, immediatamente dopo la presentazione del nuovo contratto globale
sullo sviluppo - l'agenda post-2015, con il dettaglio degli SDG - si sarebbe
potuto discutere e mettere a punto gli impegni sul
fronte delle risorse finanziarie necessarie al raggiungimento degli SDG, con lo
svolgimento della 3a Conferenza internazionale sulla finanza per lo
sviluppo, successiva a quella di Monterrey (2002), complementare al Summit del
Millennio del 2000 che aveva assunto l'agenda degli MDG, e a quella di verifica
a metà percorso dei risultati conseguiti, svoltasi a Doha (2008).
A fronte di questo
rallentamento, nel giugno 2014 dopo una fase di oscillazioni è stata presa la
decisione di anticipare la 3a Conferenza Internazionale sulla Finanza per lo
Sviluppo al 2016, tenendola ad Addis Abeba il 13-16 luglio 2015.
Sollecitata dal G-77, questa
decisione di accelerare la definizione sugli impegni finanziari si lega in un
complicato intreccio agli sviluppi ancora incerti sul fronte della conferenza
ONU a livello ministeriale sui cambiamenti climatici, la COP (Conferenza delle
parti), che dovrebbe portare a un accordo globale da firmare nel 2015 a Parigi.
L’accordo dovrebbe diventare operativo nel 2020, impegnando gli Stati, dopo un
difficile processo ventennale di negoziati, a ridurre le emissioni di gas serra
fino a raggiungere l'obiettivo di limitare il riscaldamento a 2°C e ad
aumentare le risorse finanziarie per il clima (climate finance), attraverso investimenti in
iniziative, progetti, infrastrutture per la mitigazione dei cambiamenti
climatici e trasferimenti finanziari verso Paesi in via di sviluppo (PVS),
soprattutto per porre in essere misure di adattamento ai cambiamenti climatici.
La COP20 si terrà a Lima l'1-12 dicembre 2014, ma al momento è ben difficile
immaginare che si riescano a raggiungere risultati significativi
che non siano una preparazione del tavolo negoziale per un complicato accordo
che dovrà essere siglato un anno dopo, a Parigi.
Tutto ciò premesso, la
69a sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del
settembre 2014 si presenta come un momento interlocutorio
ma molto importante per saggiare la distanza delle posizioni in campo che
dovranno confrontarsi per la messa a punto dell'agenda di sviluppo per il
post-2015, che entrerà nella sua fase cruciale all'indomani della presentazione
del rapporto di sintesi del Segretario Generale. Questo
approfondimento mira a offrire un quadro di orientamento sugli sviluppi più
recenti.
2. Il contributo in
sede ONU dell'Open Working Group (OWG)
sugli SDG
Il complesso lavoro
svolto dall'OWG è forse il termometro migliore per misurare le difficoltà che
il negoziato internazionale sul post-2015 si trova ad affrontare.
Nel
quadro di un assetto
organizzativo particolare e insolito - basato su 30 piccoli raggruppamenti (le
cosiddette troike) molto poco
omogenei come constituency
al loro interno (l'Italia, ad esempio, costituiva un raggruppamento insieme a
Spagna e Turchia) - sono emerse le forti differenze di impostazione e visione
tra i principali raggruppamenti.
Da un lato si è coalizzato il gruppo dei PVS e dall'altro i paesi donatori
tradizionali (OCSE). In seno ai PVS e al raggruppamento ampio dei G77 – che ha
prodotto documenti unitari, esercitando il ruolo di prim'attore che continua a
svolgere in seno alle Nazioni Unite malgrado fosse stato creato cinquanta anni
fa con un orientamento legato unicamente all'agenda commerciale, molto distante
cioè dal focus ben più ampio della nuova agenda per il post-2015 - si sono poi
distinti i global players,
che hanno ridefinito negli ultimi anni gli equilibri
geo-politici ed economici mondiali, a cominciare dai cosiddetti BRICS. Questi
ultimi hanno cercato di orientare il negoziato sugli impegni a tutto campo,
articolando gli ambiti del finanziamento allo sviluppo come goal specifici[12] che dovrebbero essere assunti dai paesi
OCSE. Questi paesi hanno operato per controbilanciare tale linea, cercando di
costruire un'agenda anzitutto universale sulla base di
categorie d'azione ampie (aiuti, commercio, finanza) e superando la divisione
tra Nord e Sud, tra paesi sviluppati e in via di sviluppo, chiamando tutti i
paesi – a cominciare proprio dai BRICS - a maggiori responsabilità anche
finanziarie e a sottoscrivere un'ampia agenda di sviluppo sostenibile, capace
di integrare temi politicamente "sensibili" come la lotta alle
disuguaglianze interne ai paesi (e non solo quelle tra paesi, tema invece caro
ai PVS), politiche inclusive, democrazia e stato di diritto, diritti sessuali e
riproduttivi, pace, ruolo del settore privato, incentivi.
A ciò si aggiunge la
mancanza di una posizione negoziale forte e unitaria da parte dei paesi OCSE, a
cominciare dai paesi membri dell'UE. In sede europea è infatti prevalsa una linea attendista tra diversi Stati
membri, promossa per esempio da Regno Unito, Germania e Francia, che suggeriva
di non esporsi impegnandosi con un livello di dettaglio sui singoli temi in
discussione, in modo da poter avere successivamente mano libera per
posizionarsi e negoziare con più libertà. Questa posizione, che ha finito col
limitare molto la capacità europea di dettare l'agenda malgrado paesi come
l'Italia sostenessero un ruolo più incisivo
dell'Europa, ha consentito che in seno all’OWG si continuasse a discutere in
ordine sparso di temi ampi su cui le posizioni in campo restavano molto
distanti, con il risultato di non arrivare a un documento di sintesi efficace e
capace di orientare in modo selettivo il negoziato successivo.
La posizione attendista
che è prevalsa in Europa sarebbe stata giustificata dalla lezione appresa in
ambito COP, dove la presentazione con un certo anticipo da parte dell'UE di una
posizione comune avrebbe finito con irrigidirne la capacità negoziale e quindi
indebolirne il lavoro diplomatico, contribuendo all'esito non soddisfacente di
quel negoziato. Una lettura meno benevola suggerisce invece che l'attendismo e
il basso profilo europeo, che si traduce nell'assenza di una visione forte e
condivisa per il negoziato, ben si concilia con le spinte
alla rinazionalizzazione o bilateralizzazione
del dialogo politico con i PVS che molti Stati membri - a cominciare da quelli
con tradizioni coloniali - privilegiano, soprattutto in ambito Nazioni Unite.
All'irrigidirsi di
posizioni nette da parte del G-77 e alla posizione di diversi Stati membri
dell'UE volta ad abbassare il livello e la capacità di sintesi dell'OWG - in
ciò facilitati dal sistema di raggruppamenti per troike svincolate da appartenenze
regionali - ha contribuito anche la complicazione istituzionale che per la
prima volta ha visto riuniti allo stesso tavolo in modo permanente i Ministeri
degli Esteri e della Cooperazione Internazionale e quelli dell’Ambiente. Si
tratta di una novità importante, derivante dall'agenda sul post-2015, rispetto
alle agende separate degli MDG e dello sviluppo
sostenibile, animata dalla volontà di integrare le dimensioni dello sviluppo
economico, sociale ed ambientale; ed è apprezzabile in relazione all'obiettivo
della coerenza delle politiche, che proprio l'UE più di altri ha promosso come
orizzonte culturale cui tendere. Allo stesso tempo, in pratica ciò ha
comportato un faticoso sforzo per costruire un linguaggio comune tra
rappresentanti abituati a declinare il tema dello sviluppo secondo la propria
competenza settoriale (per silos, o
approccio a compartimenti stagni), il che ha finito per rendere inevitabile che
energie e sforzi andassero alla messa a punto e al rafforzamento di visioni
condivise anzitutto all'interno delle posizioni nazionali.
Probabilmente, in una
logica di visione integrata dello sviluppo sostenibile, la costruzione di un
linguaggio comune tra competenze diverse dell'amministrazione statale è un
prerequisito fondamentale, che diventa uno dei principali acquis che vanno riconosciuti
all'OWG. Allo stesso tempo, la natura inter-governativa dei negoziati presso le
Nazioni Unite e il tentativo di rafforzare pratiche di processi partecipativi ed inclusivi basati sul principio del consensus, rendono altamente
improbabile un risultato finale molto innovativo e di forte cambiamento, che
invece è stato ritualisticamente ribadito a ogni piè sospinto come tratto
distintivo dell'agenda per il post-2015.
Sul piano del processo
partecipativo ed inclusivo, al momento si può
lamentare proprio il rischio di deriva ritualistica della pratica bottom-up. Se infatti
è vero che, con tutte le difficoltà del caso, il dialogo stabile tra rami e constituency
ambientaliste e sviluppiste all'interno delle
amministrazioni pubbliche centrali è un risultato importante del processo - che
potrebbe peraltro essere esteso a una più stabile concertazione con le
amministrazioni competenti in materia finanziaria - allo stesso tempo colpisce
la marginalizzazione finora di importanti segmenti della società.
Parallelamente a un più
generale ampliarsi dell'area di deparlamentarizzazione dei processi decisionali
- vero in Italia come altrove e che tocca anche l'ambito dell'agenda dello
sviluppo - si assiste sia ad un maggiore grado di
libertà e azione da parte dei governi nazionali (e sovra-nazionali, come nel
caso dell'UE) sia ad un maggiore protagonismo di un numero più vasto di attori,
la cosiddetta multi-level
governance. In realtà, tuttavia, sul fronte dei
diversi attori in Italia come all'estero le espressioni del settore privato
sono risultate finora piuttosto assenti, mentre tra le
espressioni della società civile organizzata - di fatto cooptate nel processo
preparatorio dei negoziati - hanno prevalso soprattutto comportamenti reattivi
e di accettazione dell'impostazione vigente, che le hanno spinte in buona parte
a commentare gli sviluppi via via emersi, senza porsi invece l'obiettivo
ambizioso di esercitare un reale pungolo per un processo che porti alla
trasformazione strutturale del modello di sviluppo oggi prevalente.
Concretamente, nella
visione ed esperienza italiana ed europea un tema importante, forse il più importante (certamente per la Costituzione italiana),
collegato agli squilibri delle disuguaglianze, è quello dell'agenda di
politiche per un lavoro per tutti, pieno, produttivo e a condizioni dignitose
socialmente e rispettose dell'ambiente. L'agenda del lavoro, al pari di quella
dell'ambiente, dovrebbe interrogare sulle capacità di incidere profondamente
sulle cause strutturali delle trasformazioni. Sganciato dallo stato dell'arte
del dibattito negoziale in corso, lo slogan corrente spesso utilizzato parlando
di sostenibilità ("fare più con meno"), dovrebbe allora affiancarsi a
quello dell'equità socio-economica, il che significa
più lavoro produttivo (cioè, modificando lo slogan "fare meglio con più
[lavoratori produttivi e in condizioni dignitose]").
Il binomio sostenibilità
ambientale e lavoro dignitoso dovrebbe, insomma,
essere la sfida di fondo per un nuovo modello di sviluppo che dia risposta alle
tante vulnerabilità, e non concepito come un settore (l'approccio per silos, in certi casi residuali, come nel
caso della Green Finance), e lo
dovrebbe essere per qualsiasi politica di sviluppo e per la cooperazione allo
sviluppo. L'incapacità sin qui del sistema economico e politico a livello
locale, nazionale e internazionale, di dare risposte concrete a questa sfida è
preoccupante perché strutturale e rintracciabile anche nel campo carico di idealità della cooperazione allo sviluppo. In questo
senso, investe tutti senza distinzione, ovviamente ognuno con il proprio carico
di responsabilità, il settore pubblico, quello privato e non profit: per
incidere sulle determinanti dei cambiamenti
strutturali occorrerebbe chiedersi quanto le diverse strategie, politiche e
azioni specifiche (compresi i micro-progetti) contribuiscano a progressi duraturi
in termini di creazione netta di lavoro dignitoso. Secondo stime dell’ILO,
infatti, saranno necessari circa 670 milioni di posti di lavoro nei prossimi 15 anni per rispondere all’aumento della forza lavoro e
contenere la disoccupazione. Allo stesso modo, è oramai maturata a livello
internazionale la convinzione che occorra fare di più per misurare lo sviluppo,
andando oltre il PIL[13]. Probabilmente la società civile dovrebbe
spingersi oltre, svolgendo a pieno titolo quel ruolo di pungolo esterno al
processo decisionale in senso stretto, capace di sollecitare spinte
in avanti, piuttosto che ribadire la centralità del tema: per esempio,
chiedendo di spostare l'attenzione dalla misurazione del risultato (il PIL)
alla misurazione appropriata della qualità del processo di sviluppo (la
produttività)[14], in relazione proprio alla centralità del tipo
di lavoro su cui fare perno, tutti temi che invece appaiono, in molti documenti
della società civile organizzata, meno centrali rispetto all'adesione con
commenti critici puntuali agli sviluppi del negoziato.
Se queste sono
osservazioni generali riferite al processo negoziale, per quanto riguarda i
risultati contenuti nel rapporto finale reso pubblico dall'OWG il 19 luglio 2014 si possono schematicamente fare alcune considerazioni.
Anzitutto, una lista di 17
obiettivi e 169 target specifici pare una cosiddetta lista della spesa,
importante come esercizio di identificazione di temi scottanti, ma troppo
preliminare per figurare come risultato, e soprattutto povera in termini di
capacità di disegnare una visione integrata dello sviluppo. Prevale l'approccio
per silos e il numero elevato di
obiettivi e target diminuisce inevitabilmente l’efficacia comunicativa - che
invece era stata riconosciuta da tutti come un merito dell'agenda degli MDG, che si concentrava semplicemente su 8 obiettivi
-, ma anche la probabilità che questi siano tutti raggiunti; e indebolisce la
capacità di dare priorità alle tante sfide (169 target!), operando una scelta
coraggiosa di un minimo comune denominatore in cui tutti i paesi e i soggetti
si riconoscano. Un'agenda onnicomprensiva e al contempo vaga rischia di essere
poco innovativa nella sostanza e improduttiva, laddove impegna su troppe cose e
indistintamente.
Box. 1 - I 17 Obiettivi dell'OWG per il
post-2015
Obiettivo 1.
Porre fine alla povertà ovunque e in tutte le sue forme; Obiettivo 2.
Porre fine alla fame, garantire la sicurezza alimentare e
una migliore alimentazione e promuovere un’agricoltura sostenibile; Obiettivo 3.
Garantire la salute per tutti e a tutte le età; Obiettivo 4.
Garantire un’istruzione inclusiva e di qualità e promuovere opportunità di
apprendimento per tutti durante tutto l’arco della vita; Obiettivo 5.
Garantire l’eguaglianza di genere e l’empowerment
di tutte le donne e bambine; Obiettivo 6.
Garantire l’accesso e la gestione sostenibile dell’acqua potabile e dei
sistemi di smaltimento dei rifiuti; Obiettivo 7.
Garantire l’accesso a un’energia moderna, sostenibile, affidabile e a prezzi
equi per tutti; Obiettivo 8.
Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e
sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per
tutti; Obiettivo 9.
Costruire infrastrutture resilienti, promuovere
un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e rafforzare l’innovazione; Obiettivo 10.
Ridurre le disuguaglianze all’interno e tra i paesi; Obiettivo 11.
Rendere le città e tutti gli insediamenti umani inclusivi,
sicuri, resilienti e sostenibili; Obiettivo 12.
Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili; Obiettivo 13.
Adottare misure urgenti per contrastare il cambiamento climatico e il suo
impatto; Obiettivo 14.
Garantire la conservazione e l’uso sostenibile degli
oceani, dei mari e delle risorse marine per uno sviluppo sostenibile; Obiettivo 15.
Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi
terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, fermare e contrastare il degrado dei
suoli e porre fine alla perdita della biodiversità; Obiettivo 16.
Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile,
garantire accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni
efficienti, trasparenti e inclusive a tutti i livelli; Obiettivo 17.
Rafforzare gli strumenti di implementazione e
rilanciare la partnership globale per lo sviluppo sostenibile. |
Fonte: Outcome Document - OWG-SDG
(2014).
Peraltro, il dettaglio
dei target per un verso non è associato a un necessario esercizio complementare
di verifica della disponibilità di indicatori adeguati
- con il rischio che, alla prova dei fatti, diversi target non trovino il
corrispettivo strumento di monitoraggio sullo stato di avanzamento delle
politiche per il raggiungimento dei risultati; per altro verso, lo stesso
dettaglio appare prematuro rispetto alla mancata messa a fuoco dell'effettivo
impegno in materia di MoI e di Global Partnership in grado di dare attuazione all’agenda per il
post-2015, facendo qui riferimento non solo agli impegni che competono ai
diversi Stati - anzitutto al nuovo equilibrio tra paesi OCSE e paesi un tempo
emergenti e ora affermatisi come nuove potenze globali, sempre meno
assimilabili nel gruppo dei G77, di cui pure fanno parte - ma anche al settore
privato, che l'OWG tratta molto marginalmente, nonostante sia al centro degli
equilibri e squilibri economici mondiali.
Per queste ragioni, il
rapporto finale dell’OWG ha suscitato critiche e perplessità e molti, come
Simon Maxwell, già direttore dell'Overseas Development Institute (ODI) di Londra dal 1997 al 2009 e ora Senior
Research Associate presso il Centre for Aid and Public Expenditure,
lo definiscono oggi non un punto di arrivo, ma una
tappa, al pari di altri importanti input, del processo negoziale che dovrà
trovare uno snodo fondamentale nel rapporto di sintesi del Segretario Generale,
previsto tra fine ottobre e inizio dicembre, per poi concludersi a settembre
2015.
In pratica, il documento
finale dell'OWG è concepito come una sorta di utile compendio e promemoria,
innovativo rispetto all'agenda degli MDG nel combinare
obiettivi di sviluppo economici, sociali e ambientali, parlando di
disuguaglianze, citando espressamente la questione spinosa dei cambiamenti
climatici (che pure, come ricorda lo stesso documento dell'OWG, ha un suo
distinto forum negoziale), incorporando alcuni messaggi chiave contenuti nel
precedente rapporto dell’High Level Panel, come i due principi del “beyond GDP” e del “no one left behind”.
3. Il nodo della
Finanza per lo Sviluppo e i Means of Implementation (MoI)
Il tema della finanza
per lo sviluppo sostenibile è la questione spinosa di fondo
attorno cui rischiano di esplodere i conflitti maggiori tra paesi (soprattutto
tra blocco OCSE e PVS, in particolare i BRICS all'interno dell'eterogeneo
gruppo dei G77, cinque paesi che da soli rappresentano oggi il 25% del PIL
mondiale e il 40% della popolazione mondiale) e tra rami dell'amministrazione
(tra risorse che devono essere gestite dagli sviluppisti,
dagli ambientalisti e dai tesorieri delle finanze pubbliche, cioè tra MAECI e
nuova Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo, MATTM e MEF, nel caso
italiano), e in cui rischiano anche di affiorare rivendicazioni soprattutto
corporative da parte delle altre istanze sociali (mondo delle organizzazioni
della società civile, settore privato, amministrazioni sub-nazionali,
università), lasciando in secondo piano il tema delle idealità e della visione
d'insieme di uno sviluppo realmente innovativo.
Ad aprile del 2014, l'Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable
Development Financing ha aperto le discussioni
sul ruolo del settore privato e le opportunità di creare partenariati
innovativi in materia di finanza per lo sviluppo. L’8 agosto l'ICE-SDF ha
presentato il suo rapporto finale, nella versione draft, dedicato alla definizione
di una finanza per lo sviluppo sostenibile innovativa. Si tratta di un documento
su cui si riponevano molte aspettative, nella speranza
che fosse complementare al lavoro dell'OWG, soprattutto avanzando risolutamente
sul fronte della definizione di un quadro condiviso degli impegni da
predisporre.
Il documento di 48 pagine e 176 paragrafi è, tutto sommato, deludente, non
tanto perché interlocutorio, ma per la mancanza di idee innovative.
Molto interessante è la
prima parte, che si limita però ad analizzare i cambiamenti intercorsi
nell’ultimo decennio, con particolare riferimento ai flussi finanziari pubblici
e privati a livello mondiale.
Pochi dati sarebbero,
del resto, sufficienti a rappresentare la gravità e insostenibilità sociale
delle dinamiche finanziarie in corso: nel corso degli ultimi venti anni, la
popolazione più ricca al mondo - l'1% più ricco, con dati ancora più
impressionanti se fossero disponibili informazioni relative
allo 0,01% della popolazione - ha
visto aumentare il reddito reale di oltre il 60%, e tale dinamica non si è
interrotta negli ultimi tre anni; al contrario, il 5% più povero della
popolazione mondiale non ha visto aumentare i propri redditi.
Oppure, scorrendo i dati
UNCTAD e Banca Mondiale disponibili oggi, si scopre che lo stock di debito
estero dei 34 paesi oggi a basso reddito ha raggiunto
nel 2012 il livello (espresso in valore corrente) più alto di sempre, pari a
128 miliardi di dollari; anche nel caso dei 50 paesi a medio reddito si è
toccato il picco, raggiungendo 1.300 miliardi di dollari.
Alla luce del quadro
attuale - contrassegnato da preoccupanti processi nell'andamento dei flussi
finanziari e degli squilibri internazionali, a dispetto della gravità della
crisi finanziaria mondiale e degli sforzi profusi da molte amministrazioni
pubbliche per tamponare gli effetti drammatici determinati da politiche dei
privati, molto negative in una logica di sviluppo sostenibile inclusivo, con
conseguente aggravio dell'indebitamento pubblico - il rapporto dell'ICE-SDF
passa in rassegna piuttosto tradizionalmente i diversi comparti che compongono
l'agenda della finanza per lo sviluppo.
Ripercorrendo, infatti,
brevemente le tappe dell'agenda sulla finanza dello sviluppo, nel 1997 apparve
la prima bozza di risoluzione presentata proprio dal Gruppo dei 77 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul tema; dopodiché
nel 2001 fu presentato Rapporto Zedillo alle Nazioni Unite e nel marzo 2002 il
Consiglio Europeo di Barcellona prese l'impegno di raggiungere come UE-15
l'obiettivo dello 0,7 % APS/RNL entro il 2015 (lo 0,56 % entro 2010). Su queste
basi si svolse la prima Conferenza delle Nazioni Unite sulla Finanza per lo
sviluppo a Monterrey.
Il documento finale, il
cosiddetto Monterrey Consensus,
si articolava negli stessi capitoli che si ritrovano nell'impostazione del
documento dell'ICE-SDF:
(1) mobilitazione di risorse interne;
(2) Aiuti;
(3) Climate Finance;
(4) Nuovi strumenti;
(5) Rimesse;
(6)
Debito;
(7)
Regolamentazione fiscale.
Il Monterrey
Consensus adottava, inoltre, un approccio
innovativo rispetto alla tradizione delle Nazioni Unite: un approccio Multi-stake holders (cosiddetto beyond-UN), globale e relativo a tutti i meccanismi utili a fornire
risorse finanziarie per lo sviluppo, olistico in quanto teso a combinare
aspetti nazionali, internazionali e sistemici.
Il draft
finale dell’ICE-SDF sottolinea l’urgenza di costruire
un quadro di riferimento realmente trasformativo che, andando al di là della
semplice definizione e previsione di risorse addizionali rispetto agli aiuti e
alle altre tradizionali fonti di finanziamento, si sforzi di creare le
condizioni che rendano possibile al settore finanziario di diventare un motore
dello sviluppo sostenibile, mobilizzando risorse addizionali e coinvolgendo la
finanza e il commercio quali attori chiave a sostegno dello sviluppo
sostenibile, equo ed inclusivo.
Tuttavia, concretamente
il documento si muove molto timidamente sul terreno della mobilitazione delle
risorse nazionali. Indubbiamente, il tema delle politiche fiscali nazionali e
del principio di progressività è stato marginale sin dall’inizio in questa agenda, visto che non se ne parlava né a Monterrey
(2002) né nelle conclusioni della Conferenza sullo stato d'attuazione degli
impegni in materia di finanza per lo sviluppo a metà percorso, a Doha (2008).
Il contesto internazionale attuale, però, avrebbe
forse consigliato maggiore attenzione al tema spinoso della sotto-tassazione
delle top-class
e delle imprese trans-nazionali, come anche a quello dei paradisi fiscali,
dell'elusione ed evasione fiscale.
Ma
anche sugli altri capitoli il documento appare più una petizione di diversi
principi generali e generici che un avanzamento reale e innovativo sull'agenda. Il rapporto, ad esempio,
si propone di enfatizzare il ruolo futuro che la cooperazione Sud-Sud e la
cooperazione triangolare potranno giocare, in opposizione a una tradizionale
distinzione tra un Nord donatore e un Sud beneficiario, e di sostenere la
creazione di strumenti finanziari innovativi, con un’attenzione particolare
all’uso di risorse pubbliche quali catalizzatori della mobilizzazione di quelle
private, in stretto partenariato con la società civile e il settore privato, sottolineando l'importanza dei principi di accountability,
trasparenza e responsabilità.
Il documento, al pari
del rapporto finale dell'OWG, sottolinea il ruolo
fondamentale della finanza globale, del commercio e del quadro di
regolamentazione internazionale nell’influenzare i risultati a livello
nazionale; tuttavia finisce, come già il rapporto dell'OWG, col far prevalere
una sostanziale vaghezza di impegni, ignorando o comunque sottovalutando alcuni
temi fondamentali come la lotta al commercio internazionale di armi, il ruolo
del peace-making
e del peace-keeping,
la mancanza appunto di una normativa e coordinamento globale in materia fiscale
e di strumenti atti a limitare i danni derivanti da shock finanziari
internazionali.
In particolare, la
campagna globale Beyond 2015 sottolinea in maniera critica l’assenza di una visione
realmente innovativa invece necessaria: “troppi dei target di MoI proposti – relativi al commercio, alla finanza per lo
sviluppo e così via – sembrano tutt’altro che innovativi. Ad esempio, i target
che richiedono una cooperazione internazionale per cambiare le strutture
economiche globali che generano povertà, come i flussi finanziari illegali,
l’evasione fiscale e i debiti iniqui, sono di portata piuttosto limitata. E non
è chiaro che produrranno quel cambiamento profondo previsto ed espresso da
molti degli obiettivi: un approccio troppo legato allo status quo economico e
alla crescita rischia di compromettere la realizzazione di un’agenda
trasformativa”[15].
Inoltre, nel documento
manca una chiara attribuzione di responsabilità in relazione
a chi debba fare cosa, in modo da rendere possibile una valutazione
corretta dell’attuale divario tra i costi da sostenere e le risorse
disponibili.
Il tema delle
responsabilità comuni ma differenziate - mutuato
dall'agenda ambientale delle COP e fatto proprio nei diversi processi paralleli
del post-2015 - e dell’applicazione di tale concetto al reperimento delle risorse
necessarie al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile globale è un punto
critico, fonte di perplessità sia per numerose organizzazioni della società
civile, sia per molti dei PVS che hanno partecipato in ambito OWG.
In particolare, come sottolineato dal contributo diffuso dal Women Major Group, sono in molti gli attori della società civile che
vedono nel protagonismo assegnato al settore privato un rischio per l’equità e
la sostenibilità del processo: “la miriade di concessioni alla finanza del
settore privato e alla partnership con esso per lo sviluppo sostenibile, senza
realmente specificare requisiti in termini di valutazione, responsabilità,
trasparenza e governance complessiva, è fonte di
grave preoccupazione. Dopo lunghe discussioni, il documento finale sugli SDG
alla fine include un riferimento al ‘rafforzamento
della partnership globale per lo sviluppo sostenibile’ tra Stati, che viene
però indebolito immediatamente dopo, con il riferimento a partnership
volontarie, non trasparenti tra pubblico e privato. Dovrebbe esserci una
Partnership Rafforzata o Potenziata per lo Sviluppo fondata sulla cooperazione
internazionale su un’ampia varietà di nodi cruciali per lo sviluppo, e
soprattutto su una base Nord-Sud. La partnership dovrebbe essere costruita
principalmente tra governi dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo,
con i primi che si fanno carico di fornire risorse e gli strumenti di implementazione. È fondamentale restituire al termine il
suo significato originario e NON permettere che la partnership sia confinata al
rapporto con il settore privato”[16].
Si tratta di un tema che
si collega a quello di fondo dell'agenda per il
lavoro. Non a caso l’International Trade Unions Confederation
(ITUC) esprime preoccupazione per il rilievo attribuito al settore privato a
livello nazionale e internazionale dal quadro di riferimento proposto in sede
OWG, cui si aggiunge la vaghezza di impegni in ambito
di finanza per lo sviluppo sostenibile, con riferimento specifico al tema della
creazione di lavoro dignitoso grazie al potenziamento di servizi e
infrastrutture: “mentre esiste un ruolo e un ambito per il settore privato in
questa agenda e in questo orizzonte, un discorso che indebolisca il ruolo dello
Stato come promotore dello sviluppo e promuova la privatizzazione dei servizi
pubblici essenziali è inaccettabile. I crescenti profitti del capitale cui
corrisponde un calo dei profitti per il lavoro, implicano che i sindacati, i
servizi pubblici e le istituzioni del mercato del lavoro hanno un ruolo ancora
più importante da svolgere nella stabilizzazione sociale ed economica e per la
riduzione delle disuguaglianze”[17].
Inoltre, molte critiche
soprattutto da parte dei Paesi aderenti al gruppo dei G77 e della società
civile organizzata si sono soffermate sulla mancata o incompleta trattazione di
due temi fondamentali, indicati come tali anche all’interno del Rapporto del Segretario
Generale del 25 luglio su International
Financial System and Development: quello della necessaria riforma della governance
globale di economia e finanza nel senso di una maggiore partecipazione dei PVS
in seno alle IFI (in particolare, Banca Mondiale e Fondo Monetario
Internazionale)[18] e quello
dell’urgenza della ricerca di soluzioni al problema del debito estero di molti
di questi stessi PVS[19].
In generale, è diffuso
il senso di un fallimento rispetto alla necessità di riconoscere i differenti
bisogni finanziari dei differenti paesi - a cominciare
da quelli meno avanzati, categoria che andrebbe riconcettualizzata
per tener conto delle sfide e vulnerabilità attuali - e in particolare la
possibilità per i paesi donatori di concentrare il proprio aiuto canalizzandolo
verso i paesi più poveri, in nome di quella politica di differenziazione che
l’Unione Europea avrebbe auspicato.
Sono proprio i paesi
tradizionalmente donatori a sottolineare criticamente
come, accanto all’esplicito riferimento alla necessità che essi onorino
l’impegno a destinare lo 0,7% del PIL all’aiuto allo sviluppo, il documento
prodotto dall’OWG e l'ICE-SDF non contengano alcun impegno finanziario
internazionale altrettanto definito e specificamente riconducibile ai paesi
emergenti e agli altri donatori non tradizionali, con lo scopo di aumentare il
loro contributo allo sviluppo globale.
È poi significativo
come non si faccia riferimento in tale documento al tema della finanza
innovativa, non si chiarisca il ruolo specifico in tal senso del settore
privato né la necessità che l'azione del settore privato sia sempre orientata a
fini di sviluppo sostenibile, e non ci sia alcun esplicito riferimento alla
relazione della finanza per lo sviluppo sostenibile e le nuove fonti ivi
individuate con il finanziamento per le azioni di mitigazione e adattamento al
cambiamento climatico.
Molti attori
riconducibili all’ambito accademico e della ricerca hanno sottolineato
come nel documento manchi anche uno specifico richiamo ad altre importanti
agende che si occupano di finanziamento per lo sviluppo, come ad esempio quelle
del G8 e del G20, e ad altre importanti iniziative, quale quella sulla coerenza
delle politiche promossa dall’Unione Europea.
Lo spettro di soluzioni
adombrate dall’ICE-SDF contiene, comunque, elementi interessanti nell’ottica
europea, in particolare con l’inclusione di alcuni temi che rappresentano ad oggi una priorità in ambito UE e per l’Italia: ad esempio
la creazione di un ambiente favorevole alla promozione del blending di risorse pubbliche e
private destinate allo sviluppo sostenibile, un migliore allineamento degli
incentivi privati ad obiettivi di carattere pubblico e l’incoraggiamento di
investimenti in settori chiave per lo sviluppo da parte del settore profit. Si
tratta, ovviamente, di spunti iniziali che dovrebbero essere poi riempiti di
contenuti e proposte operative.
Nel corso di un
seminario di esperti tenutosi il 4 giugno, gli Stati membri dell’UE hanno
discusso un non-paper interno preparato dalla
Commissione, attraverso l'European External Action Service (EEAS), sulla questione dei MoI e della creazione di un partenariato globale quale
parte integrante del nuovo quadro di riferimento per il post-2015, in relazione
anche al lavoro condotto dall’OWG sul tema.
I principi proposti sono
quelli delle responsabilità condivise e della mutua accountability, da estendersi a
tutti i paesi, con il conseguente abbandono della visione dicotomica Nord- Sud
e la nuova centralità delle risorse domestiche, il principio dell'integrazione
delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, il pieno rispetto e promozione dei diritti umani e i principi della coerenza
delle politiche estese al campo finanziario (incluso il negoziato sui
cambiamenti climatici e quello sulla biodiversità).
Anche su questo tema,
tuttavia, la linea degli Stati membri risente degli effetti di una strategia
attendista, prevalente finora e orientata a un posizionamento
poco incisivo dell'UE. Dopo le Conclusioni del Consiglio del 2013, l'UE ha
prodotto il documento “Financing for Development
Post-2015: Improving the Contribution
of Private Finance”, commissionato dal Parlamento Europeo (aprile 2014); successivamente la Commissione Europea ha presentato il 2
giugno la Comunicazione intitolata “A decent life for
all: from vision to collective action”. Si tratta di
documenti di lavoro utili, sia in termini principi generali sia di obiettivi
specifici, per l'agenda sullo sviluppo relativa al
post-2015 e per lo specifico dei MoI. Tuttavia,
nonostante l'Italia eserciti il mandato di Presidenza di turno con l'intenzione
di sollecitare un maggiore protagonismo dell'UE nel
dibattito internazionale sul post-2015, finora continua a prevalere una
posizione di retroguardia, anche in ragione della congiuntura sfavorevole,
caratterizzata da una fisiologica transizione istituzionale in seno al
Parlamento e alla Commissione Europea.
Un banco di prova
importante per l'Europa sarà costituito dalle Conclusioni del Consiglio
Sviluppo del 12 dicembre 2014 a Bruxelles, in cui, all'indomani anche del
rapporto di sintesi del Segretario Generale delle Nazioni Unite, si potrà delineare - come auspica l'Italia, che a quel punto sarà
alla conclusione della Presidenza di turno -
una posizione comune europea in concomitanza con l'avvio sostanziale del
negoziato ufficiale alle Nazioni Unite sul post-2015. Sul tema specifico dei MoI, è prevedibile al momento anche la presentazione di una
nuova Comunicazione della Commissione Europea sulla Finanza per lo sviluppo.
Indubbiamente, il tempo
gioca a sfavore: da qui a dicembre occorre lavorare per influire e poi tenere
debitamente conto di quanto sarà contenuto nel rapporto di sintesi sull'agenda
per il post-2015 che il Segretario generale delle Nazioni Unite presenterà
entro i primi di novembre; al contempo qualsiasi documento pubblicato dall'UE
sul tema dovrà assicurare una buona azione di
coordinamento tra le competenze in materia di sviluppo e quelle in materia
ambientale.
In generale, soprattutto
se confrontato con eventi simili, desta preoccupazione il tempo a disposizione
per preparare adeguatamente la stessa 3a Conferenza internazionale
sulla Finanza per lo Sviluppo. In pratica, la sua preparazione - anche a
livello di incontri informali - comincia nel settembre
2014, essendo stata fissata la data a New York soltanto a giugno scorso. La
Risoluzione approvata alle Nazioni Unite ha indicato come necessario il
coordinamento del processo preparatorio della Conferenza con quello dell'agenda post-2015, così da evitare duplicazioni. Resta
però in sostanza aperta la questione di quanto circoscrivere - o all'opposto
dilatare (come chiedono i G77) - l'agenda della Conferenza. Gli input previsti
dalla conclusione dei lavori dell'OWG e dell'ICE-SDF sono risultati
purtroppo modesti.
Al momento, l'agenda
preparatoria prevede alcune consultazioni informali di tipo intergovernativo,
con tre sessioni a gennaio (3 giorni), aprile (5 giorni)
e giugno (5 giorni). Sono previste alcune consultazioni con esperti tematici, audizioni delle organizzazioni della società
civile e del settore privato. In pratica, il primo draft del documento della Conferenza dovrebbe essere presentato a
febbraio 2015 e a maggio 2015 dovrebbero già essere conclusi
i lavori sui contenuti della Conferenza di Addis Abeba.
Il rischio concreto,
visti i tempi stretti, è che tutto ciò porti a una Conferenza poco ambiziosa e
di scarso impatto innovativo sul piano dei contenuti e degli impegni, dovendo
fare i conti coi vincoli imposti dai tempi stretti: si
creerebbe cioè la giustificazione perché si perda di fatto l'opportunità di
incidere in modo profondo sui meccanismi che, a livello globale, hanno
determinato i gravi squilibri internazionali e all'interno dei paesi.
Anche solo in
un'accezione molto ristretta dell'agenda della finanza per lo sviluppo, del
resto, il rischio reale è che anche i temi più tradizionali già incorporati
nell'agenda della finanza per lo sviluppo trovino uno sbocco più a livello di
enunciati che di sostanziali cambiamenti concreti, nonostante possano essere una leva per orientare a fini di sviluppo
sostenibile l'intera finanza locale, nazionale e internazionale. Gli spazi
d'intervento e le diverse opzioni fra cui scegliere
potrebbero, infatti, essere interessanti anche solo con riferimento all'agenda
sui contributi finanziari innovativi, che oggi fa riferimento a (1) gestione
del debito con meccanismi di scambio o conversione (swap) di diverso tipo, (2) lotterie, (3) tasse (come quelle aeree),
(4) meccanismi di mercato (come l'advanced market commitment promosso in passato dall'Italia, ma anche le
rimesse), (5) forme di partenariato pubblico-privato, (6) garanzie, e (6)
coinvolgimento dei settori che hanno beneficiato della globalizzazione (come
turismo, trasporti, comunicazione e finanza, includendo anche le banche - che
hanno assai beneficiato dei programmi di salvataggio e anti-crisi finanziaria,
ma che sono escluse da questa agenda).
L'obiettivo dovrebbe
essere quello di mobilitare risorse (1) stabili e prevedibili, (2) aggiuntive
rispetto agli aiuti internazionali, (3) gestite multilateralmente
(complementari, possibilmente senza aggiungere nuovi meccanismi), (4) semplici
e sostenibili (legate all'agenda sull'efficacia e sull'integrazione delle tre
dimensioni dello sviluppo).
Guardando ai risultati,
però, c'è poco da essere fiduciosi: complessivamente
negli ultimi 10 anni i meccanismi innovativi hanno amministrato 5,8 miliardi di
dollari per la salute e 2,6 per i cambiamenti climatici, e meno di 1 miliardo è
risultato realmente aggiuntivo rispetto agli aiuti tradizionali. Si tratta di
un volume di risorse molto contenuto.
Occorrerebbe, invece, un
cambio di passo significativo rispetto al passato,
anche solo limitatamente all'agenda circoscritta degli strumenti finanziari
innovativi; ma al momento manca un accordo per il coordinamento che espliciti
quali fonti in particolare, quali meccanismi di intermediazione prediligere per
l'allocazione e la gestione delle risorse e quali priorità adottare in termini
di distribuzione tra beni pubblici globali, PVS e temi specifici.
Tutto questo giustifica un
certo scetticismo su quanto la Conferenza di Addis Abeba potrà essere
all'altezza delle aspettative tese a ricercare un
nuovo paradigma anche in termini di architettura finanziaria globale.
4. L'intreccio
dell'agenda con la COP20 di Lima sui cambiamenti climatici
La mancanza di una
visione condivisa sull'agenda dello sviluppo, pur limitata nella sua portata,
capace di tradursi poi in una serie ridotta di obiettivi prioritari, strategie
d'intervento, strumenti e azioni specifiche, sulla cui base poter predisporre
anche una griglia di indicatori e strumenti di
verifica a livello locale, nazionale e internazionale è ciò che spiega il
livello qualitativamente preliminare del rapporto finale dell'OWG e di quello
dell'ICE-SDF, ma anche il ritardo con cui il Segretario Generale sta preparando
il rapporto di sintesi per avviare formalmente il negoziato ufficiale tra i
paesi. Si tratta di una mancanza di visione condivisa che riflette le
difficoltà attuali a stabilire un sistema di governance globale che soddisfi
tutti i paesi e i principali attori in campo. Da un lato, manca la volontà politica di "imporre" un'agenda vincolante anche
al settore privato, in termini di obblighi ad adottare strategie orientate a
promuovere lo sviluppo umano sostenibile. Da un altro lato, si confrontano le
posizioni dei paesi OCSE che chiamano i paesi BRICS a una maggiore assunzione
di responsabilità (comuni ma differenziate) con quelle
degli stessi paesi BRICS interessati a vedere riconosciuto il proprio ruolo di leadership dei processi di
globalizzazione, senza con ciò rinunciare a che siano i paesi OCSE a farsi
carico dei principali costi per correggere gli squilibri internazionali.
Questa stessa
contrapposizione di modi di interpretare il principio delle responsabilità comuni
ma differenziate spiega la situazione di stallo che si
riscontra da tempo anche sul fronte dei negoziati per un futuro accordo
internazionale post-2020 sui cambiamenti climatici.
Del resto, il principio
numero 7 della Dichiarazione di Rio (1992) fornì la
prima formulazione del principio delle responsabilità comuni e differenziate,
riconoscendo il dovere degli Stati di condividere equamente l'onere della
protezione ambientale per le risorse globali comuni, i cosiddetti global commons.
Negli ultimi anni, il contrasto sulla ripartizione degli oneri per la
mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici e dei costi di copertura
dei danni ad essi connessi ha di fatto bloccato i
negoziati alla Conferenza delle Parti (COP), l’organismo cui spetta il compito
di assicurare la corretta implementazione della Convenzione Quadro sui
Cambiamenti Climatici, tramite la definizione di Protocolli o altri strumenti
legalmente vincolanti.
Il fallimento nel 2009
della Conferenza di Copenaghen e del tentativo di definire un accordo che prendesse il posto di quello di Kyoto, siglato nel 1997, in
materia di impegni vincolanti di riduzione delle emissioni in atmosfera dei gas
responsabili di interferenze con il clima, ha portato ad una soluzione di
ripiego temporaneo: si è deciso la definizione di un accordo per la messa a
punto, entro il 2015, di uno strumento legalmente vincolante con impegni a
partire dal 2020, prolungando di fatto il Protocollo di Kyoto fino al 2020.
L'ultima Conferenza
delle Parti, quella tenuta a Varsavia alla fine del 2013, ha assicurato passi
avanti impercettibili. Resta il fatto che il nuovo
accordo dovrà essere corredato da finanziamenti adeguati per le attività di
mitigazione, quelle di adattamento e di copertura dei danni causati dal
cambiamento climatico, e da un insieme di attività che mettano i Paesi più
poveri e vulnerabili in condizione di disporre delle tecnologie adeguate.
A pochi mesi dalla COP20
di Lima, in programma a dicembre 2014, tutto fa presagire che essa a fine anno lascerà probabilmente in eredità tutti i nodi da
sciogliere alla successiva Conferenza delle Parti di Parigi, prevista a
dicembre 2015, per poter siglare un accordo sulla finanza per il clima che sia
universale e vincolante.
In proposito, occorre
segnalare come diversi attori partano dalla considerazione che il tema dei
cambiamenti climatici, benché inserito all’interno del documento finale
dell’OWG con un obiettivo specifico e anche attraverso una serie di riferimenti
indiretti alla resilienza dei sistemi ambientali, costituisce in realtà un
binario a sé stante di negoziazione, che giungerà alla
fine quando il processo per la definizione dell'agenda di sviluppo post-2015 si
sarà già concluso.
Allo stesso tempo, è
opinione comune che tale distinto processo negoziale avrà un effetto significativo sull'effettiva realizzazione del framework
dell'agenda di sviluppo e sul raggiungimento di molti degli obiettivi e dei target previsti, se non altro in
considerazione del fatto che, in mancanza di una rapida ed efficace azione concordata,
il riscaldamento globale produrrà prevedibilmente nel prossimo futuro una
moltiplicazione dei rischi ambientali, con conseguente necessità di utilizzare
una parte significativa delle risorse finanziarie globali destinate allo
sviluppo in azioni di adattamento, mitigazione e soccorso alle popolazioni
colpite.
Beyond 2015 raccomanda di
conseguenza l’introduzione, all’interno dell'obiettivo sul cambiamento
climatico, di un target specifico che impegni gli Stati a mantenere l’aumento
della temperatura globale media al di sotto di 1.5C°.
L'intreccio tra l'agenda
di sviluppo per il post-2015, quella correlata della finanza per lo sviluppo
(sostenibile) e quella relativa all'accordo per il
post-Kyoto sui cambiamenti climatici è evidente e lo stallo dell'una influisce
irrimediabilmente sulle altre: lo sviluppo è oggi definito in termini integrati
di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, allo stesso tempo la
declinazione dello sviluppo sostenibile in termini di obiettivi deve essere
corredato da finanziamenti adeguati e il tema degli interventi legati ai
cambiamenti climatici è al centro delle interconnessioni tra le diverse
dimensioni dello sviluppo (il rapporto finale dell'OWG li include
esplicitamente come obiettivo 13).
Nell'agenda della finanza
per lo sviluppo, la componente della Climate Finance è stabilmente parte integrante
dell'articolazione degli ambiti di intervento. Di più, è probabilmente la voce
in grado di mobilitare la quantità maggiore di risorse finanziarie per lo
sviluppo nei prossimi anni, combinando fonti pubbliche e private. In
particolare, l'UE e gli altri paesi ad alto reddito dovrebbero definire dei
mezzi per aumentare i finanziamenti della lotta contro il cambiamento climatico
durante il periodo 2013-2020, a partire da fonti molto
diverse, pubbliche e private, a livello multilaterale e bilaterale, comprese
nuove fonti di finanziamento, al fine di poter raggiungere l'obiettivo a lungo
termine fissato a livello internazionale, consistente nel mobilitare
congiuntamente 100 miliardi di dollari all'anno entro il 2020 per il
finanziamento dell'adattamento al e mitigazione del cambiamento climatico. Sul
tema i paesi europei sottolineano che tale sforzo deve
essere equamente ripartito con le economie emergenti, conformemente alle loro
rispettive responsabilità e capacità.
Al momento, tuttavia, si
registra sia la sottoscrizione di impegni che non si
sono ancora tradotti nel versamento delle quote pattuite al Green Climate Fund[20], sia il sottofinanziamento
dell'Adaptation Fund[21] e del Least Developed Countries Fund[22]. Se, infatti, alla COP 16 di Cancún (2010),
i paesi industrializzati si erano impegnati a fornire 30
miliardi di dollari per il periodo 2010-2012 e, entro il 2020, 100 miliardi di
dollari di finanziamenti "nuovi e addizionali" ogni anno al fine di
rispondere alle necessità legate ai cambiamenti climatici nei PVS, garantendo
peraltro una ripartizione equilibrata tra l’adattamento e la mitigazione; tuttavia finora non si è arrivati a una
definizione concordata a livello internazionale dell’espressione "nuovi e
addizionali".
A ciò si lega il fatto che, in modo particolare in una congiuntura
come l'attuale di forte incertezze sul piano economico, l'auspicato rispetto
del principio di addizionalità
delle risorse destinate alla Climate Finance
rispetto a quelle per gli aiuti internazionali e l'adozione di meccanismi
rigorosi di monitoraggio di questo principio non è riscontrato nei fatti: solo
il 24-33% della cosiddetta Fast-Start
Finance[23] sono realmente risorse nuove e solo una piccola
parte (2,15 miliardi di dollari) sono stati effettivamente versati e solo il
21% della Fast-Start Finance è poi
andato concretamente a progetti per l'adattamento ai cambiamenti climatici.
In ogni caso, ove pure
fossero rese disponibili risorse molto maggiori delle attuali per onorare gli
impegni assunti in materia di Climate Finance
addizionale, dovrebbero comunque essere associate a
una maggiore capacità di governance
dei fondi stessi, deficit di cui si lamentano molti attori.
Per questa ragione non
deve sorprendere che, pur essendo ancora alla vigilia della COP 20 di Lima, a
fine agosto del 2014, il Ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, abbia
fatto una dichiarazione sull'importanza che avrà la successiva Conferenza delle
Parti di Parigi a fine 2015 (COP 21), su cui oggi si concentrano le aspettative circa l'adozione di un accordo vincolante, di
fatto saltando a piè pari l'appuntamento peruviano, come puramente
interlocutorio. È anche interessante come nel suo discorso fatto in
preparazione della partecipazione al Summit di New York sul clima (in programma
il 23 settembre 2014), il Ministro Fabius abbia esplicitamente richiamato
l'attenzione sulla necessità di introdurre meccanismi sanzionatori, dicendo che
l'inquinamento deve avere un costo se si vuole orientare davvero gli
investimenti verso l'energia pulita ed efficiente. Si tratta di un'affermazione
che potrebbe scoperchiare il vaso di Pandora del coinvolgimento del settore privato ai costi della trasformazione in chiave
sostenibile del modello di produzione e consumo oggi prevalente, al centro
della ridefinizione dell'agenda di sviluppo per il post-2015.
In questo terreno minato
del negoziato per l'agenda dello sviluppo per il post-2015, segnato oggi
dall'incertezza sui contenuti e sugli strumenti per la realizzazione degli
obiettivi, si colloca l'azione italiana, investita nel secondo semestre 2014
dell'importante ruolo di Presidenza di turno del
Consiglio dell'Unione Europea.
Sul fronte delle
consultazioni, il MAECI ha in agenda nel periodo settembre-dicembre numerosi e
qualificati appuntamenti per il confronto con diverse espressioni della società
civile (le Organizzazioni non governative, il mondo delle cooperative, le
organizzazioni internazionali del sistema delle Nazioni Unite e non solo, gli
altri Stati membri dell'UE e la Commissione Europea), mentre paiono finora meno
privilegiate le interlocuzioni con i paesi partner della cooperazione
internazionale.
In queste occasioni, il
governo italiano intende sottolineare l'importanza di
temi che qualificano la visione dell'UE sullo sviluppo - diritti umani, stato
di diritto, pace e sicurezza, good governance, inclusione sociale; ma soprattutto cerca di
promuovere una vision che, all'interno dell'approccio
europeo, qualifichi in maniera peculiare il sistema Italia.
Si tratta di una sfida
ambiziosa sul piano strategico, che attiene tanto al campo culturale e politico
della declinazione in forma concreta di una visione di sviluppo, quanto a
quello operativo, teso ad offrire gli elementi
essenziali per costruire una politica multilaterale e bilaterale di
cooperazione allo sviluppo coerente con questo disegno.
In termini di priorità e
vocazione culturale dell'Italia e dell'Europa, l'idea di
fondo della Presidenza di turno italiana è quella di coniugare questa
visione centrata sull'approccio integrato e olistico, l'empowerment e il protagonismo
delle fasce vulnerabili della popolazione, la lotta alle disuguaglianze,
attraverso un reale modello inclusivo di sviluppo, fondato sulla sostenibilità
ambientale, l'equità sociale e lo sviluppo economico, declinandolo a partire da
alcuni ambiti d'intervento.
In particolare, questo
discorso è un modo di guardare alla politica concreta volta ai gruppi
vulnerabili, siano essi i migranti, i contadini e gli agricoltori familiari, le
micro e piccole imprese e le cooperative e le donne, che può
determinare cambiamenti rilevanti nel modo di pensare e praticare interventi di
policy a livello nazionale e
internazionale, al Sud come al Nord.
In questa logica, il
MAECI individua la Mobilità umana e le migrazioni come un tema che ben
rappresenta la stretta interconnessione tra dimensione sociale, economica ed ambientale dello sviluppo e delle vulnerabilità, e allo
stesso tempo si configura come una sfida comune che i policy-maker devono affrontare a livello locale, nazionale e
internazionale per rafforzare le capacità di adattarsi e di esercitare scelte.
Nonostante l’ampio
consenso relativo all’integrazione della migrazione
all’interno dell’agenda in costruzione, e nonostante la formalizzazione di tale
principio nell’ambito dei due High Level Dialogue on International Migration and Development del
2013 e del 2014, il tema della mobilità umana non è stato sinora oggetto di
quell’attenzione specifica che in molti, a partire da alcune organizzazioni
internazionali (in particolare l’Organizzazione internazionale delle
migrazioni, OIM, e l’Organizzazione mondiale della salute, OMS), per arrivare
alla società civile globale e all’Unione Europea, avrebbero auspicato.
La complessità del
fenomeno e la necessità, affermata da molteplici attori, che il tema fosse
rappresentato nel nuovo quadro di riferimento in costruzione con la previsione
di un obiettivo specifico e di un mainstreaming all’interno degli altri obiettivi, non sono
state recepite dal rapporto dell’OWG.
Il MAECI dà una
particolare rilevanza al nesso positivo tra migrazioni e sviluppo, considerando
i migranti come un enabling factor
fondamentale dello sviluppo. E con particolare riferimento al panorama
italiano, anche la posizione della Coalizione Italiana
contro la povertà (GCAP Italia) afferma esplicitamente che “Le migrazioni e i
temi relativi alla mobilità umana non possono essere assenti dai quadri di
riferimento futuri. Siamo seriamente preoccupati per la scarsa attenzione che è
stata finora dedicata a questo punto, che – lo affermiamo con forza - non può
più essere ignorato”[24].
La stessa posizione
europea, deducibile dalla Comunicazione dalla commissione Maximising the Development Impact of Migration del maggio 2013 e dalla più
recente Comunicazione A decent Life for all: from vision to collective action diffusa nel giugno 2014, trova punti di
convergenza nella comune visione delle rimesse quale strumento fondamentale del
nuovo framework di finanza innovativa per lo
sviluppo, e nella conseguente necessità di ribadire
gli impegni esistenti e stabilirne di nuovi allo scopo di garantire che questa
importante risorsa possa sviluppare tutto il suo potenziale apporto al
raggiungimento dello sviluppo sostenibile globale. In una visione più integrata
dello sviluppo sostenibile, la posizione del MAECI inquadra il tema delle
rimesse all'interno di una prospettiva più ampia della valorizzazione
dell'apporto degli individui e le comunità migranti
all'interno dei sentieri di sviluppo dei paesi. In quest'ottica si inquadra la Conferenza del 2-3 ottobre a Roma, promossa
dal MAECI insieme all'OIM e intitolata "Integrating
Migration into Development".
In un’ottica di promozione della coesione sociale, è importante anche il
settore privato come attore protagonista quanto e più dei governi nazionali
dell'indirizzo della globalizzazione, delle sue opportunità ma anche dei rischi
di immiserimento di larghe fasce di popolazioni vulnerabili.
In particolare, le
piccole e medie imprese e le cooperative affrontano oggi alcune specifiche
dimensioni di vulnerabilità che impediscono loro di proporsi quali agenti
dell’auspicato cambiamento strutturale: in primo luogo, la difficoltà che
spesso queste imprese incontrano nella realizzazione di economie di scala e
nella necessaria specializzazione produttiva. In secondo luogo, è necessario
affrontare il tema delle interazioni e complementarità delle politiche
settoriali, incluse quelle relative al potenziamento
delle infrastrutture e alla previsione di servizi atti a rimuovere i numerosi
impedimenti allo sviluppo produttivo delle PMI. Si tratta di temi su cui il
MAECI organizza una serie di seminari insieme all'Alleanza Cooperative Italia.
Un terzo tema
prioritario per la Presidenza di turno italiana è l'agricoltura sostenibile, la
sicurezza alimentare e nutrizionale. Si tratta di un tema che combina le grandi
questioni della sostenibilità ambientale e dei sistemi alimentari, della
sicurezza umana e della vulnerabilità con le dimensioni locale, nazionale e
globale, la prospettiva territoriale, le questioni di genere, i rapporti tra
stato e mercato, tra aziende grandi, medie, piccole e micro, la questione del
lavoro e quella dei modi di produzione e consumo sostenibili,
il nodo della volatilità dei prezzi alimentari ed energetici, il rapporto tra
mondo rurale e processo di inurbamento le migrazioni di massa. C’è un vasto
consenso in Italia rispetto alla necessità di ripensare il mercato e i sistemi
alimentari a partire dal nuovo paradigma della small scale farming,
con riferimento non solo alla lotta all’insicurezza dei diritti di proprietà e
allo sfruttamento delle terra, che sono sicuramente un fattore di rischio ma
non l’unico da considerare se si guarda alle fasce marginali della popolazione
rurale. Soprattutto, è centrale favorire l’accesso dei piccoli produttori a
servizi finanziari innovativi che tengano conto delle specifiche necessità
della categoria a cui sono rivolti, prima fra tutte
quella di accedere ad un credito a basso tasso di interesse e a sistemi
assicurativi che permettano di ridurre la vulnerabilità dei piccoli agricoltori
agli shock ambientali e finanziari. Su questi stessi temi, il MAECI ha in
programma una serie di eventi, taluni inseriti direttamente nel percorso che
condurrà all'Expo di Milano del 2015 (1 maggio - 31 ottobre), incentrato sul
tema "Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita".
In
relazione a molti punti indicati,
si pone come prioritario anche il tema dello sviluppo locale e l'approccio
territoriale allo sviluppo, il rafforzamento del partenariato con il
coinvolgimento attivo del tessuto delle micro e piccole imprese, la
valorizzazione delle grandi opportunità di sviluppo legate alle migrazioni
internazionali e al ruolo attivo delle diaspore, il rafforzamento dei sistemi
alimentari nei diversi contesti come volano e terreno di sperimentazione di
queste stesse parole d'ordine per assicurare la sicurezza alimentare ma anche
prospettive di sviluppo umano sostenibile, tutelando l'ambiente e le tradizioni
locali. È questo il terreno prioritario su cui vorremmo costruire una nuova
visione e pratica coerente della politica di cooperazione internazionale allo
sviluppo. Coesione sociale e coesione territoriale al centro
delle politiche di sviluppo e cooperazione internazionale, dunque, per dare
protagonismo a gruppi strutturalmente vulnerabili, come i migranti, le
micro e piccole imprese, l'agricoltura familiare e di piccola scala, volano al
contempo di uno sviluppo inclusivo. Per questa ragione anche l'approccio territoriale
è un tema chiave per la Presidenza di turno italiano
e, per questo stesso motivo, l'Italia contribuisce e promuove l'evento finale
(che si terrà a Torino) delle numerose consultazioni nazionali che si sono
svolte negli ultimi mesi, sotto l'egida dell'UNDP sul tema del Localized development.
Se l'elemento che
accomuna questi ambiti prioritari scelti dall'Italia è il riconoscimento della
centralità dell’individuo e delle comunità e dei corrispondenti diritti
fondamentali, siano essi civili, politici, economici e sociali (il cosiddetto right-based approach), ne deriva naturalmente la particolare
attenzione dedicata alla questione di genere e la decisione di abbracciare una
prospettiva di genere nelle politiche di sviluppo.
Che il tema dei diritti
umani si presti a generiche affermazioni di principio è risultato
chiaro nel processo che ha portato alla stesura del rapporto dell'OWG.
Ai commenti puntuali di
alcuni Stati (Egitto, Marocco, Arabia Saudita, Tunisia, Sudan) rivolti
all’assenza nel documento dell'OWG di un target specificamente dedicato alla
questione dell’occupazione di un territorio da parte di forze armate estere
(con evidente riferimento all’attuale situazione israelo-palestinese), si
accompagnano riflessioni più ampie, come quella condotta dalla World Federation of UN Associations
(WFUNA), che sottolinea la natura prevalentemente
“negativa” della definizione di pace proposta dal documento (eliminare le armi
e la diffusa violenza di natura sessuale), incapace di affrontare le cause
strutturali che determinano tali manifestazioni di violenza e di proporre
strumenti atti a costruire una pace positiva al di là della mera assenza della
violenza stessa[25].
Anche il Women Major Group ha sottolineato
l’assenza di target volti a garantire la piena partecipazione delle donne ai
processi di peace-keeping
e ricostruzione, nonché la mancanza di attenzione specifica a quei gruppi
particolarmente vulnerabili in situazioni di conflitto e crisi rappresentati
dagli sfollati e dai rifugiati, da trattare secondo un’ottica di responsabilità
condivisa a livello internazionale e non, come invece suggerito dal rapporto
dell'OWG, secondo un'ottica prevalentemente nazionale.
È diffusa, soprattutto
all’interno della società civile, la critica relativa alla
incompleta trattazione dei diritti umani, sia all'interno del goal sia intendendo la tematica quale
tema trasversale da integrare nel framework. La
campagna Beyond 2015 sottolinea che: “Il goal attuale non è abbastanza efficace
nel garantire le libertà politiche e civili o assicurare la difesa dei diritti
umani. Sia la formulazione che i contenuti dovrebbero
essere migliorati in modo da concentrarsi sui risultati e le persone, invece
che sugli output e le capacità degli Stati, e garantire la tutela dei diritti
umani (compresi quelli dei gruppi vulnerabili colpiti da conflitti quali i
profughi e gli Internally Displaced Persons – IDPs) e di quanti
si battono per quei diritti. Sul tema specifico della pace, l’evidenza
suggerisce che la capacità della società di gestire pacificamente un conflitto
è di cruciale importanza per la pace, ma non vi sono
target che promuovano efficacemente questo punto. In termini più generali, la
pace può essere promossa agendo a tutto campo, attraverso i punti relativi all’occupazione, alla gestione delle risorse
naturali e alle disuguaglianze tra persone e gruppi sociali”[26].
L’UN Mining Working
Group rileva la non connessione tra il linguaggio incentrato sui diritti
umani che caratterizza il preambolo del documento finale dell’OWG e i successivi
obiettivi identificati; in particolare, l’assenza di un riferimento specifico
ai diritti umani all'interno del goal 6 (water
and sanitation) è visto
come un elemento che potrebbe compromettere significativamente il reale empowerment di
coloro che vivono direttamente le contraddizioni e le conseguenze negative
discendenti da un modello di sviluppo ancora incentrato sulla crescita
piuttosto che sulla tutela dell’individuo[27].
Un approccio integrato e
fondato sul riconoscimento e la tutela dei diritti umani
fondamentali è ciò che in sostanza manca nel rapporto dell'OWG per
assicurare la creazione di un framework di sviluppo che agisca efficacemente sulle cause
strutturali di povertà e disuguaglianza, grazie al pieno riconoscimento di
queste ultime quali conseguenze dirette della violazione di tali diritti,
perpetuata dal paradigma imperante di uno sviluppo guidato dal mercato. GCAP
Italia sottolinea queste debolezze all’interno del
documento: “La focalizzazione sui diritti umani, lo stato di diritto e la pace
non ha registrato un consenso all’interno dell’OWG. Tuttavia, questi elementi
devono decisamente fare parte dell’agenda per il framework
post-2015. I punti relativi alla pace e ai conflitti
andrebbero rafforzati in direzione di una più piena considerazione dell’intera
gamma di opportunità capaci di prevenire e trasformare un conflitto aperto e
violento, tra cui: la promozione di istanze e spazi politici di dialogo,
l’adozione di strumenti non violenti di risoluzione dei conflitti, il
monitoraggio e la riduzione delle spese militari e del commercio delle armi”[28].
Ovviamente, alla luce
anche di queste osservazioni critiche sul lavoro dell'OWG, una
concettualizzazione coerente da parte dell'Italia della definizione di priorità
e strategie di politiche nazionali e internazionali di sviluppo è una
precondizione necessaria, ma non sufficiente ad assicurare un impegno
effettivo, e quindi una credibilità reale, spendibile
in sede internazionale. Occorre, cioè, che ci sia poi e soprattutto
un'effettiva volontà di dare priorità e continuità nel tempo a questi
indirizzi, sostenendo tale volontà con un correlato impegno finanziario, su cui
poter esercitare azione di monitoraggio e valutazione. Laddove un paese come
l'Italia faccia spesso riferimento nei documenti al sistema paese nel suo
complesso, risulterà ancor più fondamentale la
capacità di costruire e cementare un sistema di attori che condividono tale
impianto. A ben vedere, quindi, l'interessante esercizio innovativo della
Presidenza italiana di voler contribuire attivamente all'agenda per il
post-2015, ritagliandosi un ambito particolare per declinare in modo specifico
e originale il quadro generale di riferimento dell'agenda di
sviluppo per il post-2015, deve diventare un'indicazione per l'azione operativa
futura, in sede multilaterale e bilaterale, così da poter rispondere della sua
effettiva valenza strategica.
Il Comitato permanente su Agenda post 2015,
cooperazione allo sviluppo e partenariato pubblico-privato è stato costituito in seno alla Commissione esteri il 16 luglio 2013.
Risulta così composto: per il gruppo del Partito democratico i deputati
Arlotti, Beni, Chaouki, Mogherini
e Sereni; per il gruppo Movimento 5 Stelle i deputati Sibilia
e Spadoni; per il gruppo del Popolo della Libertà i deputati Palmizio e
Valentini; per il gruppo Scelta civica il deputato Caruso; per il gruppo
Sinistra, ecologia e libertà il deputato Scotto; per il gruppo Lega Nord il
deputato Gianluca Pini; per il gruppo Fratelli d'Italia il deputato Cirielli e
per il gruppo Misto il deputato Locatelli.
Il Comitato è presieduto dall’on. Maria Edera
Spadoni, vicepresidente è l’on. Paolo Beni e segretario l’on. Mario Caruso.
Di seguito si fornisce l’elenco delle sedute
del Comitato.
23 luglio 2013 – Comunicazioni del Presidente.
Il Presidente Spadoni precisa di ritenere
importante, sul piano del metodo di lavoro, che le sedute del Comitato
avvengano con una certa periodicità, tendenzialmente ogni due settimane.
Ricorda l’approfondito lavoro svolto nella precedente legislatura dal Comitato
per gli Obiettivi del Millennio, obiettivi in scadenza alla fine del 2015. In
continuità con quel lavoro, ritiene di opportuno di avviare i lavori del nuovo
Comitato procedendo ad alcune audizioni, a cominciare da rappresentanti del
mondo del volontariato e delle ONG, per acquisire elementi sul dibattito relativo agli obiettivi post 2015 ed, eventualmente, allo
svolgimento di un'indagine conoscitiva sul tema. Il Presidente sollecita la
presentazione alle Camere della Relazione previsionale e programmatica
sull'attività di cooperazione allo sviluppo, predisposta dal Ministero degli
affari esteri, e la Relazione sull'attività di banche e fondi di sviluppo a
carattere multilaterale, redatta dal Ministero dell'economia e delle finanze e
manifesta la volontà di esaminare documenti europei sulla tematica
dello sviluppo.
1° agosto 2013 – Insieme al Comitato Africa e questioni globali. Audizione
del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli.
Il viceministro Pistelli inizia il suo
intervento partendo dall’Africa, con la precisazione che bisognerebbe in realtà
parlare di “Afriche” per le enormi diversità, interne ai singoli Stati e tra
Stati e regioni. Mette immediatamente in luce il dato demografico con l’enorme
crescita di popolazione (che, nel 2050, sarà il triplo di quella europea) e i
dati sulla crescita, rilevando che, negli ultimi dieci anni, tra le dieci
economie mondiali che hanno avuto il tasso di crescita più rapido, sei sono
africane: Angola, Ciad, Etiopia, Mozambico, Nigeria e Ruanda. Sottolinea che il nostro paese gode in quel continente, nel
complesso, di una buona immagine e passa ad una disamina della situazione nei
paesi della sponda sud del Mediterraneo, investiti dalle primavere arabe.
Riguardo la zona del Sahel, Pistelli ricorda che si tratta di una striscia di 5.000
chilometri che dall’Oceano Atlantico porta al Mar Rosso in cui negli anni si è
creata una situazione di assenza di controllo che permette il traffico di ostaggi, armi, droga, pezzi di
ricambio, materie prime, ed altro ancora. Il viceministro si è poi soffermato
sul Corno d’Africa, area nella quale l’Italia è particolarmente presente.
Pistelli descrive poi i rapporti
Italia-Africa, che si muovono su un piano bilaterale e all’interno del quadro
dell’UE. Ricorda che il nostro paese è presente in Africa attraverso strumenti
diversi. All’interno della partnership tra Unione europea e Unione Africana,
l’Italia ha messo a disposizione uno strumento multi-bilaterale, finanziato
esclusivamente dal nostro paese, l’Italian African Peace Facility,
con uno stanziamento iniziale di 20 milioni di euro, una parte delle quali utilizzata per l’intervento di peacekeeping in Somalia. L’Italia è poi
presente con la cooperazione allo sviluppo e il viceministro ricorda che molti
dei paesi prioritari sono proprio paesi dell’Africa
sub sahariana. Segnala infine la progressiva affermazione dello strumento del
training italiano sia nelle operazioni di peacekeeping
che nelle fasi ricostruttive post-conflitto.
Riguardo la
cooperazione allo sviluppo, il viceministro ricorda la necessità, a tutti
presente, di procedere rapidamente ad una riforma complessiva della normativa
vigente, ormai obsoleta[29].
5 agosto 2013 – Ufficio di presidenza.
26 settembre 2013 – Comunicazioni del Presidente sulla
missione svolta in Afghanistan dall'11 al 14 settembre
2013.
Il Presidente riferisce sulla missione svolta
da una delegazione parlamentare composta da tre
deputati e tre senatori per visitare le attività svolte dalla cooperazione
italiana in Afghanistan. La delegazione ha visitato l'ospedale Esteqlal di Kabul, ricostruito dalla cooperazione italiana,
e l’ospedale di Emergency.
La delegazione ha poi visitato il «Giardino
delle Donne», una struttura protetta dove le donne si
recano, in particolare il venerdì e i giorni di festa, per passare tempo in
libertà con amiche e figli. La Cooperazione Italiana ha aiutato il Ministero
degli Affari Femminili a realizzare all'interno del Giardino attività formative
per donne (taglio di pietre semipreziose, ai corsi di cucina per attività di
catering, corsi di alfabetizzazione di base, e altro ancora) generalmente
condotte da ONG locali.
I parlamentari italiani hanno
poi preso visione del progetto per la sistemazione della strada
Kabul – Maidan Shar – Bamyan, sul quale
sono state investite ingenti risorse.
La Presidente ha riferito anche, tra il
resto, dell’incontro con le parlamentari afgane, è stato segnalato che la legge
contro la violenza delle donne del 2009, presentata dal Presidente Karzai, non è stata sottoposta al vaglio del Parlamento per
evitare che le forze conservatrici, attraverso la proposizione di emendamenti,
potessero svuotarne il contenuto.
Evidenzia poi che la delegazione ha chiesto
al viceministro Pistelli di aggiornare il sito della Direzione Generale per la
Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri al fine di poter verificare il concreto stato di attuazione di tutti
i progetti in cui la nostra cooperazione è impegnata.
Ricorda infine che a visita è stata bruscamente interrotta a
causa di un attentato verificatosi alla sede diplomatica americana.
17
ottobre 2013 – Audizione del
Direttore generale per la Cooperazione allo Sviluppo presso il Ministero degli
Affari esteri, Giampaolo Cantini.
Cantini ha
innanzitutto ricordato l’appena trascorsa apertura dell'Assemblea generale
delle Nazioni Unite, nella quale il tema principe scelto dal suo Presidente per la sessione incipiente era
stato il conseguimento degli obiettivi del millennio entro il 2015 e l'avvio
del processo negoziale per la definizione della nuova Agenda per lo sviluppo.
Ha dato conto della grande partecipazione politica ai vari eventi sul tema e
della volontà di compiere uno sforzo importante per accelerare il conseguimento
dei principali obiettivi di sviluppo. Cantini ha poi
riferito del dibatto internazionale sull'Agenda post-2015, nel quale emergeva
l'esigenza di riprendere gli obiettivi attuali, ma anche di dare un risalto
adeguato alle condizioni di pace e sicurezza, ai temi della governance
e del rule of law come componenti
fondamentali per le strategie di sviluppo, nonché ai temi di gender. A
questo proposito, il DG riportava le due diverse posizioni riconducibili alla possibilità di
delineare specifici obiettivi, anche quantitativi, che riguardino l’empowerment femminile, o a quella di considerare
le problematiche di genere come
semplicemente trasversali (cross-cutting issues).
Riguardo lo scenario domestico, Cantini
ha riferito della missione della peer review del Comitato per lo sviluppo dell'OCSE, e delle
raccomandazioni allora espresse informalmente, ma ora contenute in un documento
pubblicato nei primi mesi del 2014. Ha poi dato conto delle risorse disponibili
per la cooperazione (argomento che tratterà ancora più diffusamente
nell’audizione del 30 aprile 2014) e delle numerose grandi scadenze a livello
internazionale nelle quali la cooperazione italiana è impegnata, tra le quali
l’Expo 2015 e la II Conferenza mondiale sulla nutrizione (Roma, novembre 2014).
5 novembre 2013 – Insieme al Comitato
Africa e questioni globali. Audizione informale di rappresentanti di Action Aid, di Save the children Italia, della Fondazione Pangea e dell'Iniziativa Ara Pacis.
14
novembre 2013 - Audizione
informale del Presidente di Green Cross Italia, Elio Pacilio.
19 novembre 2013 - Audizione informale del Presidente di UNICEF Italia, Giacomo Guerrera.
26 novembre 2013 - Audizione informale di una delegazione di donne parlamentari
afghane.
17 dicembre 2013 - Insieme al Comitato Africa e questioni globali. Audizione
informale di Padre Alessandro Zanotelli, direttore della rivista italiana dei
missionari comboniani dedicata al continente africano e agli africani
nel mondo, Nigrizia.
13
febbraio 2014 – Esame
istruttorio congiunto della Relazione annuale al Parlamento sull'attuazione
della politica di cooperazione allo sviluppo nel 2012 (Doc. LV) e della Relazione
predisposta dal Ministero dell'economia e delle finanze sull'attività di banche
e fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla partecipazione
italiana alle risorse di detti organismi riferita per l'anno 2012 (Doc. LV, n. 1-bis).
La Presidente Spadoni sottolinea
innanzitutto il ritardo con il quale la Commissione è chiamata ad esaminare la
Relazione 2012 sulla politica di cooperazione allo sviluppo promossa
dall'Italia. Prosegue con una analisi dettagliata sul
contenuto delle due Relazioni ricordando, tra l’altro, il forte impulso
impresso dalla Conferenza di Rio + 20 sullo sviluppo sostenibile del giugno
2012, e l’importanza del dibattito sull'efficacia degli aiuti. Ricorda inoltre
che, tal fine, alla fine del 2012 è stato predisposto
dal MAE il terzo Piano programmatico per l'efficacia degli aiuti. Riporta i
dati contenuti nelle Relazioni e l’osservazione secondo la quale le risorse
destinate alla cooperazione hanno subìto un'ulteriore
diminuzione a causa delle restrizioni di bilancio conseguenti alla perdurante
crisi finanziaria. Segnala i principali organismi internazionali che ricevono
finanziamenti periodici dall'Italia, a partire dalla
Banca mondiale, la cui nuova strategia, promossa dal presidente Jim Yong Kim, a capo
dell'istituzione dal 1o luglio 2012, prevede l'eliminazione della
povertà estrema, portando al di sotto del 3 per cento la percentuale di coloro
che vivono con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno entro il 2030.
30
aprile 2014 – Audizione del
Direttore generale per la Cooperazione allo Sviluppo presso il Ministero degli
Affari esteri, Giampaolo Cantini.
Nel corso della sua audizione, il min. plen.
Giampaolo Cantini ha illustrato le “Linee
guida per la cooperazione allo sviluppo nel triennio 2014-2016” il documento
predisposto annualmente dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo
(DGCS) del Ministero degli Affari esteri.
Il documento informa che continua la tendenza
a ridurre il numero dei paesi
prioritari che, da trentacinque
nel triennio 2010-2012, arriveranno a venti nel triennio
2014-2016. Tale riduzione risponde all’esigenza di evitare la
frammentazione delle risorse e di ottenere un maggiore impatto degli
interventi. La maggior parte dei paesi
prioritari si trova nell’Africa sub sahariana mentre gli altri si
trovano in Nord
Africa, Medio
oriente, in America latina e
in Asia. L’unico paese
prioritario dell’Europa è l’Albania.
I Paesi prioritari
saranno destinatari dell’APS che fa capo alla DGCS, sotto forma di crediti di aiuto e di doni. Riguardo la cooperazione
multilaterale, il documento afferma che, accanto ai contributi
obbligatori agli organismi internazionali (47,5 milioni di euro per il 2014) si
prevede l’erogazione di contributi volontari per circa 38,5 milioni di euro ad
un gruppo selezionato di organismi tra i quali compare l’UNDP.
Le linee guida 2014-2016 indicano il
proseguimento del sostegno agli interventi delle ONG, delle università e della
cooperazione decentrata.
Un ampio capitolo è dedicato alle risorse disponibili per la
cooperazione. Riguardo i fondi a dono, il documento sottolinea che il DEF approvato il 7
maggio 2013 ha ribadito l’impegno del governo ad un incremento delle risorse
del 10 per cento al fine di riallineare la cooperazione italiana ai fondi
internazionali.
6 maggio 2014 – Insieme al Comitato Africa e questioni globali. Audizione informale
del Responsabile per la programmazione della ONG
Medici con l'Africa – CUAMM, dottor Giovanni Putoto.
Lo UNDP è il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, varato
dall’Assemblea Generale dell'ONU nel 1965 e divenuto operativo all'inizio del
1966. Lo UNDP, che ha la sua sede centrale a New York,
una sede di riferimento a Ginevra ed è presente sul territorio di oltre 170
Paesi, funge innanzi tutto da agenzia centrale di finanziamento e coordinamento
delle attività di cooperazione allo sviluppo del sistema delle Nazioni Unite.
L’UNDP è articolato in due organi principali: il Consiglio d’amministrazione, formato
da membri provenienti da vari Stati, e l’Amministratore, organo individuale con
funzioni direttive ed esecutive, eletto dall’Assemblea generale dell’ONU. Le
funzioni di coordinamento del sistema sono esercitate per mezzo di una rete di
Rappresentanti Residenti UNDP.
Lo UNDP concentra il suo impegno in quattro direttrici: 1) la riduzione
della povertà ed il raggiungimento degli obbiettivi del Millennium Development Goals; 2) lo
sviluppo di istituzioni democratiche nei singoli Paesi; 3) la prevenzione delle
crisi più drammatiche e conflittuali nonché, quando la prevenzione è
impossibile, l'impostazione della successiva ripresa (a tale scopo, nel 2001 lo
UNDP ha creato al suo interno un apposito Bureau, che reca la sigla BPCR); 4)
le questioni ambientali ed energetiche ai fini della sostenibilità dello
sviluppo.
Accanto alle funzioni principali, UNDP è
andata assumendo anche compiti di analisi ed elaborazione di strategie operative;
al riguardo, occorre ricordare l'annuale elaborazione (a
partire dal 1990) dello Human
Development Report, una relazione ampia e documentata su un tema che cambia
di volta in volta la quale, immancabilmente, viene a costituire un testo di
riferimento per il dibattito in materia.
In
tutte le sue attività, lo UNDP incoraggia la
protezione dei diritti umani, l'emancipazione femminile, le condizioni delle
minoranze, dei meno abbienti e dei più deboli. Tra i positivi risultati
economico-sociali conseguiti nel 2013 dagli sforzi di UNDP, si registrano la creazione di 6,9 milioni di posti di lavoro
distribuiti in 109 Paesi e l'inclusione nei programmi di protezione sociale per
15 milioni di persone, in 72 Paesi.
UNDP è dotato di un proprio budget, che nel
2013 era di circa cinque miliardi di dollari, finanziato interamente da
contribuzioni volontarie da parte dei Paesi membri dell'ONU. Le risorse
dell'UNDP sono divise in due categorie: le risorse cosiddette generali (core)
per lo svolgimento dei compiti istituzionali dell’organismo, la cui allocazione
viene decisa sulla base di criteri definiti dal
Consiglio di Amministrazione, e le risorse aggiuntive (non core) per attività specifiche.
Inoltre, UNDP amministra il Capital Development Fund che
aiuta i Paesi in via di sviluppo a fare crescere i loro sistemi economici
attraverso integrazioni in forma di sovvenzioni, prestiti, microcredito.
UNDP gestisce pure gli UN Volunteers, vale a dire le oltre seimila persone che
lavorano in favore della pace e dello sviluppo in ogni angolo del mondo.
Da tempo, UNDP ha adottato avanzati metodi di contabilità ed un sistema di
gestione results based, con
l’obiettivo di migliorare la trasparenza e l’efficienza delle proprie attività.
L'importanza di UNDP in seno all'ONU è
attestata anche dal fatto che, nell'organigramma, la carica di UNDP Administrator è al terzo posto
(dopo quelle di Segretario Generale e di
Vice-Segretario Generale). L'Amministratore dell’UNDP è altresì Presidente dello United Nations Development Group (UNDG),
formato da rappresentanti dei Fondi, Programmi e Agenzie di tutto il sistema
ONU. Dal 2009, UNDP Administrator è
la neozelandese Helen Clark (già ex-Primo Ministro del suo Paese).
UNDESA è il Dipartimento ONU per gli affari
economici e sociali. Esso lavora a fianco dei governi e degli stakeholders di tutto il mondo per aiutarli a
centrare obbiettivi economici, sociali ed ambientali,
nel solco della United Nations development
agenda che si ispira a principi di eguaglianza, solidarietà, tolleranza,
rispetto della natura e mutual responsibility.
UNDESA facilita i negoziati degli Stati membri per raccogliere sfide globali ed assiste i Governi interessati consigliandoli nella
traduzione delle politiche elaborate nelle conferenze internazionali e nei
vertici in politiche locali.
L'azione di UNDESA si esplica
in tre fondamentali direzioni: indicazioni normative, analisi e capacity building (o capacity development), vale a dire la formazione
delle autorità e delle popolazioni locali al fine di favorire l'acquisizione da
parte loro delle abilità tecniche ed amministrative necessarie per lo sviluppo.
L'apertura verso la società civile e le organizzazioni non governative che caratterizza UNDESA ha indotto la creazione all'interno del
Dipartimento stesso della Integrated Civil Society Organization (ICSO), struttura la quale
sovrintende ai rapporti tra ONU e società civile, nonché all'attivazione di un
portale Web per diffondere informazioni in merito alle iniziative di potenziale
interesse intraprese dalle Nazioni Unite in questo campo.
Nel settore delle analisi, UNDESA compila, produce ed esamina un vasto complesso
di dati e informazioni di varia natura -economici,
sociali, ambientali, demografici- che mette a disposizione degli Stati membri
delle Nazioni Unite e consente ad essi di individuare problemi comuni e
prendere decisioni. In particolare, fornisce una base per le deliberazioni di
due organismi della massima importanza in seno alle Nazioni Unite, vale a dire
l'Assemblea Generale ed il Consiglio Economico Sociale
(ECOSOC) nonché le articolazioni di quest'ultimo. UNDESA stimola la discussione
su molte questioni economiche, sociali e ambientali connesse alla
United Nations development
agenda mediante i DESA Working Papers, documenti
preliminari che circolano in un numero limitato di copie, sui quali i destinatari
sono invitati ad esprimere opinioni e commenti.
Attualmente, la realizzazione dei Millennium
Development Goals (MDGs)
e l'individuazione delle priorità e dei temi dell'Agenda di sviluppo post-2015 costituiscono impegni prioritari di
UNDESA. Inoltre, nel quadro delle attività su scala
planetaria, UNDESA si occupa di promuovere politiche economiche ed ambientali
coerenti con le indicazioni venute dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo
Sviluppo Sostenibile svoltasi a Rio de Janeiro nel 2012 e di elaborare un
insieme di obbiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs). L'apposita Divisione
Sviluppo Sostenibile di UNDESA, inoltre, segue attentamente e coadiuva i
programmi di azione degli Stati di piccole isole in via di sviluppo, quali
Mauritius o Barbados.
UNDESA è presente e attiva anche in Italia. Gli
Uffici di UNDESA a Roma sono responsabili dell'implementazione di programmi e
iniziative volte allo sviluppo delle risorse umane ed
al capacity building sponsorizzati dal Ministero degli
Affari Esteri italiano; tra questi, il Programma Esperti Associati e Giovani
Funzionari delle Organizzazioni Internazionali ed il Programma Fellowships. In particolare, il Programma Esperti Associati
offre annualmente l’opportunità di compiere un’esperienza professionale di due
anni nelle organizzazioni internazionali a giovani laureati in possesso della
conoscenza di lingue straniere.
Da agosto 2012, alla guida di UNDESA è
preposto il cinese Mr. Wu Hongbo,
un diplomatico di carriera. Tra i suoi compiti, prestare
assistenza e consigli al Segretario Generale ONU in materia di questioni
sociali, economiche e di sostenibilità dello sviluppo, e controllare il Development Account of the United Nations, un programma di rafforzamento delle
capacità amministrative dei Paesi in via di sviluppo finanziato attraverso il regular budget del Segretariato Generale
ONU.
Il Department of Political Affairs (DPA) è la sezione del Segretariato
generale delle Nazioni Unite che ha il compito di monitorare e valutare gli
sviluppi politici globali, per assistere e consigliare il Segretario Generale e
i suoi delegati nelle attività di prevenzione e risoluzione dei conflitti delle
Nazioni Unite.
Il Dipartimento conduce missioni sul campo in
svariate aree geografiche, soprattutto in Africa, Asia centrale, Medio Oriente,
America latina. Negli anni più recenti ha sviluppato in modo particolare la
competenza nelle attività di mediazione e nella “diplomazia preventiva”. Infatti uno dei suoi compiti più delicati è quello di
individuare le potenziali aree di crisi e di prevenire lo scoppio di conflitti,
nonché di individuare le possibili risposte alle situazioni critiche per
minimizzarne le conseguenze. In tal senso coadiuva e coordina non solo le
operazioni direttamente dipendenti dal Segretariato generale, ma le attività di
tutte le missioni politico-diplomatiche delle Nazioni Unite dispiegate nelle
aree di crisi nel mondo.
Tra i compiti più significativi
volti a prevenire crisi politiche vi è l'attività di 'assistenza elettorale'
agli Stati membri dell'Organizzazione. Inoltre il Dipartimento per gli affari
politici svolge attività di segreteria per il Consiglio di Sicurezza e per le
due Commissioni - istituite dall'Assemblea generale - per i Diritti del popolo
Palestinese e per la Decolonizzazione. Lo staff del Dipartimento svolge un
intenso lavoro “dietro le quinte” in ogni occasione in
cui vengano richiesti i buoni uffici del Segretario generale per operare una
mediazione diplomatica tra le parti in conflitto.
Per lo svolgimento di compiti tanto delicati
una delle principali competenze richieste al Dipartimento è la capacità di operare
una efficace ed approfondita analisi delle
informazioni e avere il polso della situazione man mano che si sviluppa. A tale
scopo è necessario un intenso e continuo lavoro sul territorio, con scambio
continuo di informazioni e dati con le organizzazioni
regionali e le squadre dislocate localmente. Infatti
il Dipartimento dispone, oltre che di circa 250 membri dello staff con sede nel
quartier generale di New York, anche di circa 1700 unità di personale
distribuite nelle numerose aree operative. Gran parte di questo personale è costituito da funzionari internazionali, ma vi sono anche
molte unità messe a disposizione dai governi nazionali. La presenza sul campo
arricchisce le potenzialità analitiche dell'organo e ne facilita il lavoro, che
si svolge sempre in stretto contatto con le autorità governative locali.
Il DPA è finanziato[30] da trasferimenti regolari a carico del bilancio delle Nazioni Unite e
con versamenti volontari da parte di enti (Stati) contributori. Il meccanismo
utilizzato per raccogliere contributi volontari viene
chiamato "Multi-year
Appeal" e si basa su un documento di progetto che indica le priorità e
i risultati da raggiungere nel periodo biennale di riferimento. L’ultimo
Appello, che copre il periodo 2014-2015, chiede 50 milioni di dollari extrabilancio per far fronte alle seguenti priorità:
·
Attuazione
di meccanismi di risposta rapida tempestivi e affidabili ed efficace supporto
agli Special Envoys , alle missioni politiche e agli altri attori coinvolti
sul campo (13,4 milioni di dollari);
·
Risposta
coordinata alle richieste di assistenza elettorale (1 milione di dollari);
·
Sviluppo e sostegno di partnership con organizzazioni regionali,
organismi del sistema delle Nazioni Unite e altri attori per migliorare la prevenzione dei conflitti, la mediazione e il peacebuilding (4,8 milioni di
dollari);
·
Miglioramento di strumenti e meccanismi del DPA per assistere i
processi di prevenzione dei conflitti, di mediazione e di peacebuilding (5,3 milioni di dollari).
Le necessità finanziarie per lo svolgimento
delle attività del Dipartimento per il 2013 sono indicate nel Multi-year Appeal in 16 milioni di dollari.
Il bilancio complessivo del Dipartimento
proposto per il 2014-2015 è di 86,7 milioni di dollari, da impiegarsi per la
gestione corrente e per il sostegno a numerosi progetti specifici.
Il Capo del DPA è Jeffrey Feltman,
un diplomatico statunitense di esperienza trentennale, che è stato nominato a
questo incarico nel luglio del 2012. Il suo titolo è "Under-Secretary general for political affairs", ed è affiancato da due "Assistant Secretary general" che sono Tayé-Brook
Zerihoun (Etiopia) e Oscar Fernandez-Taranco
(Argentina).
Nell’accezione delle Nazioni Unite il peacekeeping è il processo che aiuta
i paesi lacerati da conflitti a creare le condizioni per una pace duratura
ed è considerato uno degli strumenti più efficaci a disposizione dell’Onu per
aiutare i paesi coinvolti nel difficile percorso dal conflitto alla pace.
Punti
di forza del peacekeeping sono legittimità, condivisione degli oneri
e capacità di dispiegare e sostenere militari e polizia di tutto il mondo,
integrandoli con peacekeeper
civili al fine di far progredire mandati multidimensionali.
Principi
guida del peacekeeping sono il consenso delle parti, l’imparzialità
e l’uso della forza esclusivamente a fini di autodifesa e difesa del
mandato.
Il Department of
Peacekeeping Operations – DPKO è incaricato della direzione politica
ed esecutiva delle operazioni ONU di mantenimento della pace dispiegate in
tutto il mondo, nonché di mantenere i contatti con il
Consiglio di Sicurezza, con contributori militari e finanziari e con le parti
in conflitto, al fine di attuare i mandati dello stesso Consiglio di sicurezza.
Il Dipartimento opera per l’integrazione degli
sforzi delle Nazioni Unite e degli enti governativi e non nel
contesto delle operazioni di peacekeeping.
Il DPKO fornisce anche orientamento e sostegno negli
ambiti militari, di polizia e con riferimento allo sminamento (mine action), nonché su altre questioni rilevanti, alle altre missioni
ONU, quelle di peacebuilding.
Sebbene le
origini del DPKO risalgano al 1948, contestualmente alle prime operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, la
strutturazione ufficiale del dipartimento è del 1992, quando l’incarico di
Segretario Generale fu assunto da Boutros Boutros – Ghali.
Muovendo dal presupposto che il peacekeeping opera all'interno di un
cambiamento che riguarda l'ambiente fisico, sociale, economico e politico
di ogni area interessata, il DPKO dispiega la propria attività negli ambiti militare,
di polizia, degli affari civili, dello stato di diritto, dell’assistenza ai
procedimenti elettorali, della riforma dei settori della
sicurezza, dello sminamento, delle problematiche di genere nel peacekeeping, del supporto sul campo,
della disciplina e condotta del proprio personale, della protezione dei civili,
della sostenibilità ambientale, del disarmo, smobilitazione e reintegro, della
protezione dei minori coinvolti nei conflitti e dei diritti umani.
Il DPKO, guidato dall’Under-Secretary-General (dall’ottobre 2011 il
diplomatico francese Hervé Ladsous),
si articola in quattro strutture principali:
1. Office of Operations, che indica le policies strategiche e le guide
operative a supporto delle missioni;
Attualmente il DPKO sta guidando 16 operazioni di peacekeeping (MINUSTAH Haiti, MINURSO Sahara Occidentale, UNMIL Liberia,
UNOCI Costa d’Avorio, MINUSMA Mali, MINUSCA Repubblica Centroafricana, MONUSCO
Repubblica Democratica del Congo, UNAMID Darfur,
UNISFA Abyei, UNMISS Sud Sudan, UNMIK Kosovo,
UNIFICYP Cipro, UNTSO Middle East, UNIFIL Libano, UNDOF Siria, UNMOGIP India e
Pakistan) ed una missione politica speciale (UNAMA-United Nations Assistance Mission in Afghanistan).
2. Office of the Rule of Law
and Security Institutions – OROLSI istituito nel 2007 al fine di rafforzare i
collegamenti e coordinare le attività del DPKO nelle aree di polizia,
giustizia, mine action,
disarmo, smobilitazione e reinserimento degli ex combattenti nonché
riforma del settore della sicurezza nei paesi usciti dai conflitti;
3. Office of Military Affairs –
OMA ha il compito di migliorare
la capacità militare, le prestazioni, l’efficienza e l’efficacia delle componenti militari nelle missioni di mantenimento della
pace delle Nazioni Unite.
4. Policy Evaluation and Training Division
- PET offre una capacità integrata
di sviluppo e diffusione di policy e dottrina, di fornitura, sviluppo e
coordinamento di forme di addestramento standardizzato, di valutazione dei
progressi nell’attuazione dei mandato della missione e
di sviluppo delle policies
e dei quadri operativi della cooperazione strategica con i partners
ONU ed esterni.
Al 31 luglio 2014, la consistenza
delle forze del DPKO, che non ha forze militari proprie
ma dipende dai 122 Paesi contributori, risulta la seguente:
83.327 unità di personale di truppa ed osservatori militari
11.420 unità di personale di polizia
5.323 unità di personale civile
internazionale (al 30 giugno 2014)
11.954 unità di personale civile locale (al
30 giugno 2014) ;
1.798 volontari delle Nazioni Unite.
Il 2 maggio del 2013 il Consiglio di
Sicurezza, approvando la Risoluzione 2102 (2013) ha istituito una Missione
speciale delle Nazioni unite in Somalia, nell'ambito della Direzione degli
Affari politici del Segretariato generale.
Questa Missione, denominata UNSOM (United Nations Assistance Mission
in Somalia) è guidata da uno Special Representative, un Rappresentante speciale del
Segretario generale. L'incarico è stato
affidato nel giugno 2013 a Nicholas Kay,
britannico. Al Capo missione sono stati affiancati due vice-rappresentanti, uno dei quali
con il ruolo di coordinatore permanente per gli aiuti umanitari (si tratta di Faitha Serour, algerina, e di
Philippe Lazzarini, svizzero).
Prima di questo incarico Nicholas Kay aveva ricoperto la carica di Direttore per l'Africa
presso il Foreign and Commonwealth Office. In
precedenza era stato Ambasciatore presso la Repubblica democratica del Congo
(2007 - 2010), e nel Sudan (2010 - 2012).
E' stato anche coordinatore regionale dell'Afghanistan meridionale per
il Regno Unito e capo del Reconstruction Team
della provincia di Helmand.
Dal punto di vista organizzativo la Missione
UNSOM si suddivide in varie sezioni che seguono temi distinti: Gruppo di
mediazione politica; Gruppo sulla legalità e la sicurezza; Diritti umani;
Comunicazione strategica e informazione; Coerenza ed efficacia dell'azione politica; Tutela delle donne e
protezione dell'infanzia.
Inizialmente la Risoluzione istitutiva
prevedeva per UNSOM un periodo di funzionamento di dodici mesi, con una
dotazione finanziaria di circa 48 milioni di dollari ed
uno staff di circa 90 persone. Nel maggio 2014, con la Risoluzione 2158, il
mandato è stato rinnovato per altri dodici mesi fino al 28 maggio 2015.
Il compito principale di questo
organismo, che rappresenta per mandato l'unico interlocutore politico del
Governo somalo per conto del Sistema delle Nazioni unite, è di svolgere i
'buoni uffici' della diplomazia ONU in Somalia, fornendo consulenza politica,
sostegno organizzativo, mediazione e coordinamento degli interventi umanitari.
UNSOM ha il ruolo importante di rafforzare il
Governo somalo fornendo consulenza strategica e politica nei processi di
pacificazione e riconciliazione, nella ricostruzione dello Stato attraverso la
creazione di un tessuto legislativo e istituzionale ispirato a democrazia e
libertà e alla revisione della Costituzione in senso
federale. Un
importante fase di questo processo di ricostruzione passerà dalle
elezioni previste per il 2016, per la cui preparazione la Missione delle
Nazioni unite svolgerà un ruolo importante.
Tra le molte voci che compongono il suo
mandato, UNSOM dovrà aiutare il Governo somalo a darsi gli strumenti utili per
la promozione dei diritti umani e l'emancipazione
femminile, la tutela dei diritti dell'infanzia, la prevenzione delle violenze
di genere e sessuali che si verificano nelle situazioni di conflitti armati, il
rafforzamento delle istituzioni giudiziarie e lo sviluppo di un sistema di
monitoraggio degli abusi e delle violazioni del diritto umanitario nel Paese.
Nel mandato affidato alla Missione e allo Special representative,
il Consiglio di Sicurezza ha sottolineato il rispetto
della sovranità delle istituzioni del Paese, pur nella necessità di coinvolgere
nel processo di State-building tutti
i partner internazionali, in particolare l'Unione Africana, l'IGAD (Inter governmental
authority for development,
che è un'organizzazione regionale politico-economica che unisce i paesi del
Corno d'Africa), l'Unione europea e altri partner regionali e multilaterali. A
tal fine UNSOM si adopera per guidare e favorire attraverso il dialogo l'azione politica di mediazione e di pacificazione
che spetta al Governo somalo da protagonista, soprattutto nelle aree del Paese
che sono state solo recentemente riportate sotto il controllo dello Stato. Infatti le operazioni congiunte dell'esercito regolare e
della missione dell'Unione Africana (AMISOM) hanno nel corso dell'anno
sottratto alcuni distretti al controllo di Al Shabaab.
Qui il Governo somalo ha bisogno del sostegno di UNSOM per affermare l'autorità
dello Stato e insediare stabili strutture di governo.
Come unico soggetto delle Nazioni Unite che
dialoga con il Governo somalo, la missione UNSOM ha tra i suoi molti compiti
anche quello di lavorare nel rafforzamento del settore della sicurezza, operando a fianco
delle strutture militari di AMISOM e alle forze di sicurezza governative per il
reclutamento e l'addestramento di uomini destinati a far parte della
Polizia. In collaborazione con alcuni
Paesi donatori (USA, Giappone, per esempio) la Missione delle Nazioni Unite ha
potuto ripristinare l'operatività di numerose stazioni di polizia a Mogadiscio,
fornendo anche mobili, computers, accessori.
Analogamente UNSOM sta collaborando a costruire un sistema carcerario più
moderno ed efficace, e a combattere il fenomeno della pirateria sulle coste
tramite l'istituzione di norme di contrasto e l'attivazione di sistemi per
metterle in pratica.
La UN Assistance
Mission in Afghanistan (UNAMA) è una Missione politica istituita nel
2002 e successivamente più volte ridefinita e rinnovata, fino all'ultima
risoluzione del 17 marzo 2014 (Ris. 2145) che ne ha prorogato il mandato al 17 marzo 2015.
La Missione UNAMA è guidata dal
Rappresentante speciale del Segretario generale per l'Afghanistan, incarico attualmente ricoperto da Jàn Kubiš, slovacco, nominato il 23 novembre 2011, affiancato
da due vice-rappresentanti incaricati l'uno del coordinamento delle
attività umanitarie e l'altro degli
affari politici (si tratta rispettivamente di Mark Bowden
e di Nicholas Haysom).
Prima dell'incarico come Special Representative in Afghanistan, Kubiš aveva ricoperto la carica di Vice-Segretario generale
con incarichi esecutivi presso la Commissione economica delle Nazioni Unite in Europa (UNECE). Mr. Kubiš è un diplomatico dalla lunga carriera: è stato
Ministro degli Affari esteri della Cecoslovacchia e successivamente
della Slovacchia, quindi Presidente del Comitato dei ministri nel Consiglio
d'Europa e Segretario generale dell'OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione in Europa). Nell'Asia
centrale ha svolto incarichi come Speciale rappresentante del Segretario
generale delle Nazioni Unite anche nel Tajikistan, dove era stato anche Capo
degli osservatori ONU.
La Missione UNAMA si svolge nell'ambito del UN Department of
Peacekeeping operations (DPKO) del Segretariato
Generale. Si tratta di una Missione
'storica' e molto importante, che tuttavia nell'ultimo anno ha subito un
ridimensionamento in termini di bilancio, con la conseguente chiusura di alcune
attività sul campo e la riduzione di personale. UNAMA infatti
ha uffici sparsi in tutto il territorio dello Stato afghano e rappresentanze
anche a Teheran e Islamabad. Nell'ultimo anno dieci di
tali sedi sono state chiuse, per una riduzione dei finanziamenti correnti di
circa cinque milioni di dollari che portano lo stanziamento complessivo per il
2014 a 191 milioni di dollari.
Comunque il Consiglio di Sicurezza ha
adottato all'unanimità la Risoluzione che ha rinnovato il mandato della
Missione e ha ribadito l'importanza del suo ruolo per
garantire un approccio comprensivo delle varie sfide che il Paese deve
affrontare dal punto di vista dell'economia, della sicurezza, della stabilità
istituzionale, dello sviluppo.
Attraverso la missione UNAMA le Nazioni Unite
svolgono un'attività di guida e di coordinamento di tutte le iniziative di natura
non militare che sono volte a garantire la pacificazione e la stabilizzazione
del Paese. La Risoluzione che definisce
il mandato della missione UNAMA infatti ribadisce che
il processo di transizione in Afghanistan non può dipendere da soluzioni
puramente militari, ma deve comprendere nel senso più ampio tutti gli aspetti
della vita economica, della società, delle strutture istituzionali, della
giustizia e dei diritti umani. Lo scopo
della missione è anche di attuare una partnership stabile e di lunga durata tra
il Governo afghano e la Comunità internazionale (il decennio 2105 - 2025 è
stato definito 'Transformation
Decade') consentendo da parte delle stesse istituzioni afghane l'assunzione
di responsabilità e il raggiungimento della piena sovranità sul
territorio.
Per richiesta delle stesse autorità afghane
la missione UNAMA ha tra i suoi compiti più rilevanti l'organizzazione delle
elezioni (le elezioni presidenziali si sono svolte tra maggio e luglio del
2014) e il
sostegno agli sforzi del Governo volti a garantire la sostenibilità, la
trasparenza e la inclusività del procedimento
elettorale - come concordato nelle Conferenze internazionali sull'Afghanistan
tenutesi nel corso degli anni passati - fornendo mezzi e assistenza alle
istituzioni afghane interessate.
Un altro compito della missione UNAMA, in
collaborazione con le autorità afghane, consiste nel fornire assistenza e
mediazione nei processi di pace e di riconciliazione. Questo, tra l'altro,
riguarda l'attuazione dell'Afghan Peace and reintegration Programme (un
programma lanciato dal Governo e dall'UNDP per stimolare le istituzioni tribali
e locali a impegnarsi nell'attuazione del processo di pacificazione interna e
nella smilitarizzazione di aree tribali) nonché lo
stimolo e il sostegno a misure volte a costruire fiducia e consenso nei
confronti delle istituzioni nazionali e della Costituzione.
Il mandato della missione UNAMA comprende
altresì l'intensificazione degli sforzi per accrescere il coordinamento e
quindi dare maggiore efficacia alle attività svolte dalle varie entità facenti
capo alle Nazioni Unite in Afghanistan: fondi, agenzie, programmi che sono
attivi nel Paese in numero rilevante. UNAMA ha la funzione di coordinare e
unificare tutte le attività, indicando le varie priorità sulla
base di programmi individuati dalle autorità afghane.
La NATO ha ancora in corso in Afghanistan la
missione ISAF che assiste le autorità nell'organizzazione e gestione della
sicurezza. La missione UNAMA coopera con ISAF e con il Senior civilian representative
della NATO per far si che si completi la transizione verso il pieno controllo
della sicurezza da parte delle istituzioni nazionali.
Un'area di intervento
prioritaria nel mandato UNAMA riguarda le attività relative all'assistenza
umanitaria, dove la missione opera coordinando gli interventi e curandone la logisitca. Per quanto attiene alla tutela dei diritti
umani, nel Paese è operante un ufficio dell'Alto Commissariato per i diritti
umani (UNHCHR), con cui UNAMA collabora, come pure collabora
con la Commissione afghana indipendente per i diritti umani e con le altre
organizzazioni, anche non governative, che si occupano di questo problema nel
Paese.
[1] Il gruppo consultivo era composto da cinque stati membri: Belgio, Liechtenstein, San Marino, Sierra Leone e Papua Nuova Guinea. San Marino si è dissociato dal testo del Non-Paper.
[2] Si veda in particolare il discorso dell’Amb. Cardi nella riunione dell’A.G. del 13 marzo 2014
[3] Dal nome della bozza di risoluzione A/61/L69, sponsorizzata dall’India nel corso del 2007 (61 Sessione) per sollecitare l’inizio dei negoziati intergovernativi.
[4] Svizzera, Costa Rica, Giordania, Liechtenstein, Singapore.
[5]
L’indice
del fallimento statuale (Failed
States Index, FSI) del Fund For Peace di Washington esamina annualemnte
il fenomeno concentrandosi su 6 indicatori socio-economici (pressione
demografica, rifugiati, sviluppo ineguale, rivendicazioni di gruppo, esodo di
persone e fuga di cervelli, povertà e declino economico) e 6indicatori politici
e militari (legittimità dello stato, servizi pubblici, diritti umani e stato di
diritto, apparati di sicurezza, élite divise e polarizzate, interventi
esterni). Ne ricava una graduatoria del fallimento statuale
che colloca alcuni paesi subsahariani ai primi cinque posti su 178 complessivi
(Somalia, Congo-Kinshasa, Sudan, Sud Sudan e Ciad). La Somalia nel 2014 figura
al secondo posto, dopo una permanenza di sei anni consecutivi in prima
posizione.
[6] Oltre un milione di persone sono soggette oggi a insicurezza alimentare acuta in Somalia, in aumento del 20 per cento rispetto a sei mesi fa,. Secondo quanto affermato dal coordinatore umanitario dell’ONUper la Somalia, Philippe Lazzarini il 1°settembre 2014.
[7] La produzione di petrolio è passata da1,4 milioni di barili al giorno nel 2012 a 0,37 nel primo quadrimestre del 2014, toccando successivamente anche quota 0,15 nei momenti più critici degli ultimi mesi.
[8] Si ricorda che i miliziani islamici in Libia sono stati e vengono tuttora percepiti come attori legittimi grazie al ruolo giocato nella rivoluzione. Sono stati, infatti, questi elementi, più delle élite politiche, a sostenere i sacrifici maggiori per abbattere il regime di Gheddafi. Ciò consente loro di godere di uno status speciale e avere grande autonomia. Queste milizie stanno avendo un ruolo rilevante anche nel controllo territoriale e nella gestione della sicurezza nel vuoto di potere derivante dal crollo del regime. Molte di queste sono state incluse nella struttura ufficiale di sicurezza dal governo, anche se agiscono e operano piuttosto indipendentemente.
[9] Ansar al-Sharia rappresenta probabilmente il movimento islamico radicale più importante in Cirenaica e in Libia. Inizialmente accusata di aver compiuto l’attentato ai danni dell’ambasciatore statunitense Chris Stevens e di altri 3 americani a Bengasi l’11 settembre 2012, il suo ruolo nella vicenda non è in realtà ancora chiaro.
[10] La cooperazione tra i Paesi delle due sponde del Mediterraneo occidentale nasce a livello governativo a Roma nell'ottobre 1990 e si è inizialmente definita ad Algeri nella forma del Dialogo 5+5 (ottobre 1991), con la partecipazione da un lato di Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Malta e dall'altro di Algeria, Tunisia, Marocco, Libia e Mauritania (i cinque Paesi appartenenti all'Unione del Maghreb Arabo - UMA).
[11] M. Zupi (2013), L'Agenda di sviluppo post 2015, CeSPI- Osservatorio di Politica Internazionale, Approfondimenti, n. 79, settembre.
[12] Inizialmente, la richiesta dei G77 era di includere i MoI sia come un obiettivo a sé degli SDG (cosiddetto stand-alone goal), sia come target per ciascun SDG. Successivamente, è prevalsa la scelta di farne target specifici per ciascun singolo SDG, di fatto rafforzando un approccio tradizionale di tipo settoriale, piuttosto che un reale approccio integrato tra le varie dimensioni dello sviluppo sostenibile.
[13] A tal riguardo, recentemente il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha nominato l'italiano Enrico Giovannini (già Presidente dell'ISTAT, oltre che Ministro del Lavoro, e da anni impegnato a livello internazionale proprio sul tema della misurazione del benessere) e il cinese Robin Li (imprenditore asiatico e co-fondatore del motore di ricerca più popolare in Cina, Baidu) co-presidenti dell’Independent Expert Advisory Group on the Data Revolution for Sustainable Development. Si tratta del gruppo consultivo di esperti che avranno il compito di aiutare le Nazioni Unite a mettere a punto l'agenda dello sviluppo post 2015, concentrandosi sul tema degli indicatori e sulla misura del benessere. Il riconoscimento del lavoro di Giovannini in materia è un asset per l'Italia che indubbiamente contribuisce al posizionamento specifico del paese sui temi dell'agenda globale.
[14] M. Zupi (2014),
"Beyond traditional measures of productivity. Defining,
Conceptualizing and Measuring Sustainable Productivity", IPE&DS WP No. 01/2014, International
University of Hanoi Bac-Ha, di prossima pubblicazione.
[15] Beyond 2015 (2014), Reaction to the Outcome Document of the Open Working Group on
Sustainable Development Goals.
Key comments, agosto.
[16] Women’s Major Group (2014), Women’s “8 Red Flags” following the conclusion of the Open Working
Group on Sustainable Development Goals (SDGs).
Final Statement, 21 luglio.
[17] International Trade Union Confederation
(2014), Reflections on the Open Working
Groups proposed Sustainable Development Goals, 31 luglio.
[18] “71. The global economic governance structures have to further evolve in
order to broaden and strengthen the participation of developing countries and
countries with economies in transition in the international economic
decision-making and norm-setting. The implementation of the 2010 IMF Quota and
Governance Reforms would represent an important step forward if the largest
shareholder of both the IMF and World Bank would adopt the necessary measures
in 2014 for its ratification.”
[19] “69. The persistent lack of a
timely, predictable and impartial solution to debt problems has increased the
cost of sovereign debt restructuring for the debtor and the creditor, and in
the case of systemically important countries, for global financial stability as
well. Going forward, a timely solution in cases of debt distress will
ultimately reduce costs for all stakeholders. The ongoing work to enhance
frameworks for addressing sovereign debt distress is an important step towards
strengthening this element of the international financial architecture.”
[20] Il Fondo Verde per il Clima è l’istituzione creata formalmente nel dicembre 2011 a Durban in occasione della COP17, dopo esser stata approvato al vertice di Cancun nel 2010, che ha per obiettivo quello di canalizzare i fondi resi disponibili da parte dei paesi sviluppati a favore dei PVS per aiutarli a rendere più sostenibile e meno impattante sul clima il modello di crescita economico.
[21] Il Fondo di adattamento, previsto dal Protocollo di Kyoto, è stato reso operativo alla Conferenza di Poznan nel dicembre 2008 con l'obiettivo di aiutare i Paesi più poveri a fronteggiare gli impatti del riscaldamento globale. Questo fondo è alimentato attraverso il Meccanismo di sviluppo pulito (Clean Development Mechanism, CDM) disciplinato dal Protocollo: su ogni progetto annunciato al CDM viene prelevata una tassa del 4%, di cui la metà è destinata al Fondo di adattamento. I PVS hanno però fortemente criticato i paesi OCSE perché Le somme disponibili sono rimaste molto esigue rispetto alle aspettative.
[22] Il Fondo per i 48 Paesi meno avanzati (PMA) è stato istituito nel 2001, amministrato dal GEF, ha l'obiettivo di appoggiare i paesi più vulnerabili alle ripercussioni del cambiamento climatico, finanziando l'elaborazione e attuazione di piani di adattamento nazionali.
[23] A Copenaghen le parti avevano accettato l'impegno a mettere a disposizione 30 miliardi di dollari nell'arco di tre anni in qualità di finanziamento rapido (fast-start finance), tuttavia da subito non vi furono certezze in merito all'entità dei finanziamenti per il clima resi disponibili a titolo di garanzia di affidabilità dell'impegno stesso.
[24]GCAP
Italy (2014) Raising The Level Of Ambition Justice, Democracy
And Diversity In The Post 2015 Framework A Position From The Italian Civil
Society. Our Recommendations On The Post 2015 Framework, settembre.
[25]WFUNA
(2014), Freedom from violence - peace,
security and conflict prevention in the development agenda. A WFUNA program, agosto.
[26] Beyond 2015 (2014), op. cit.
[27] UN Mining Working Group (2014), Essential Human Rights Mentioned, but Not
Elaborated, in United Natons’ Proposed Sustainable
Development Goals, agosto.
[28]GCAP Italy
(2014), op. cit.
[29] A circa un anno di distanza da questa audizione è stata approvata la legge 11 agosto 2014, n. 125, recante la Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo.