Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | Recenti sviluppi della situazione in Iraq | ||
Serie: | Note di politica internazionale Numero: 60 | ||
Data: | 19/08/2014 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: |
III-Affari esteri e comunitari
IV-Difesa |
Recenti sviluppi della situazione in Iraq
19 agosto 2014
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Indice |
Il peggioramento della situazione dell’Iraq dopo il ritiro americano|Le elezioni legislative e l’improvvisa avanzata dell’Isis|Gli ultimi avvenimenti| |
Il peggioramento della situazione dell’Iraq dopo il ritiro americanoIl 18 dicembre 2011 l'ultimo contingente militare americano varcava il confine con il Kuwait: soltanto due giorni dopo i contrasti tra sciiti e sunniti riesplodevano al massimo livello, in conseguenza dell'emissione del mandato di cattura nei confronti del vicepresidente sunnita Tareq al-Hashemi in relazione ad attività terroristiche, mentre il premier al-Maliki chiedeva al Parlamento di ritirare la fiducia al suo vice sunnita al-Mutlaq – ottenendo peraltro il risultato del ritiro dello schieramento laico-sunnita Iraqiya dai lavori parlamentari dalle riunioni dell'esecutivo. Il 22 dicembre Baghdad era scossa da una terribile ondata di 14 attentati, sia in quartieri sciiti che sunniti, che provocavano la morte di oltre sessanta persone e quasi duecento feriti. Il 25 dicembre un attentato suicida colpiva nella capitale la sede del ministero dell'interno, provocando la morte di sei guardie e il ferimento di una trentina di persone. Una nuova raffica di attentati colpiva, stavolta selettivamente, il 5 gennaio 2012, quando a Baghdad e nel sud dell'Iraq pellegrini sciiti erano bersaglio di numerose esplosioni, che uccidevano più di 70 persone, ferendone almeno altrettante. Il 24 gennaio quattro attentati nei quartieri sciiti di Baghdad provocavano non meno di 14 vittime, oltre a una cinquantina di feriti. La spirale terroristica, che aveva già provocato l'interruzione della collaborazione nel governo di unità nazionale, per le accuse di coinvolgimento rivolte al vicepresidente sunnita al Hashemi; aveva riflessi anche nei rapporti tra Iraq e Turchia, dopo che Ankara aveva difeso al Hashemi, e successivamente accusato il governo di al Maliki di alimentare lo scontro settario in Iraq. Il governo di Baghdad reagiva a quelle che giudicava indebite interferenze e addirittura provocazioni da parte del premier turco Erdogan. In questo difficile contesto anche al-Qaida tornava a minacciare "gli occupanti iraniani dell'Iraq", nel tentativo di inserirsi nei rinnovati scontri interreligiosi. L'unica nota positiva, dopo che il 27 gennaio l'ennesimo attentato suicida aveva ucciso almeno 32 persone a sud della capitale, era l'annuncio (29 gennaio) del ritorno del blocco laico e sunnita di al Iraqiya ai lavori parlamentari. Il 23 febbraio 2012 vi erano una ventina di attacchi terroristici – attribuiti dal governo ad al-Qaida - perpetrati in vario modo nella capitale e in altre sei province irachene: il bilancio era di 67 morti e più di 400 feriti. Nell'imminenza del primo vertice della Lega araba in terra irachena da 22 anni, previsto per il 29 marzo, il paese veniva scosso il 20 marzo da un'altra ondata di attentati, che colpivano Baghdad e altre sette province, provocando circa 50 morti e 200 feriti. Il 19 aprile un'altra serie coordinata di attacchi nella capitale, nonché nelle province di Kirkuk, Anbar e Diyala, provocava la morte di almeno 37 persone e il ferimento di oltre cento, per mezzo di autobomba o ordigni comandati a distanza. Il 31 maggio altri quattro attentati a Baghdad uccidevano 23 persone, con decine di feriti. Il 4 giugno un kamikaze provocava la morte di 26 persone e il ferimento di più di cento in un attentato contro la sede di una fondazione religiosa sciita incaricata della gestione di alcune moschee. L'offensiva contro gli sciiti continuava il 13 giugno, quando 70 persone morivano e decine di altre erano ferite in un'ondata di attentati in tutto l'Iraq, sostanziatisi nell'esplosione di 12 autobomba e altri 30 ordigni. Tutti questi atti terroristici venivano attribuiti prevalentemente ad al-Qaida, o comunque a elementi sunniti desiderosi di soffiare sul fuoco dei contrasti religiosi ed etnici riemersi nel dopo Saddam, senza che le autorità apparentemente riuscissero a porre argine al terrorismo. A riprova di ciò, il 3 luglio perdevano la vita oltre 50 persone in una serie di attentati diretti ancora una volta prevalentemente contro gli sciiti. Il 22 luglio l'inizio del Ramadan coincideva con una serie di attentati nella zona della capitale, ma era il giorno successivo a far segnare una vera strage, con 18 città colpite da attentati terroristici nei dintorni di Baghdad e nel nord del paese: il bilancio tragico era di 111 morti e oltre 230 feriti. Ancora una volta, bersagli prevalenti erano le comunità sciite e agenti delle forze di sicurezza irachene. Il 9 settembre 2012 si rivelava giorno cruciale, in quanto veniva pronunciata in contumacia la condanna a morte del vicepresidente sunnita al Hashemi, mentre un'ondata di attentati in tutto il paese provocava un centinaio di morti. Gli attentati venivano rivendicati il giorno seguente da al-Qaida. In effetti il mese di settembre del 2012 registrava il peggior bilancio degli ultimi due anni in riferimento alla sicurezza, con la morte di 365 persone, che confermava da un lato la forza di al-Qaida in Iraq e dall'altro manteneva alto il livello delle tensioni tra sciiti e sunniti. In questo senso l'ictus che il 17 dicembre colpiva il presidente iracheno Talabani segnava un ulteriore punto a sfavore della sicurezza, poiché Talabani si era sempre rivelato abile mediatore, attento a impedire il precipitare delle tensioni nel paese, suscettibili di porre in discussione anche l'autogoverno del Kurdistan iracheno dal quale Talabani proviene. Per di più, la sua malattia giungeva in un momento di particolare frizione tra il governo centrale e le autorità della regione autonoma del Kurdistan. Nella seconda metà di gennaio del 2013 un micidiale mix di attentati con autobomba e di attacchi terroristici provocava in Iraq quasi duecento morti. Non meglio andavano le cose in febbraio: il giorno 3 una trentina di persone venivano uccise in un attacco terroristico contro il quartier generale della polizia di Kirkuk. Pochi giorni dopo nuovi attentati colpivano la comunità sciita provocando 40 morti, mentre manifestazioni di sunniti contestavano la politica del primo ministro al Maliki, giudicata discriminatoria nei loro confronti. Il mese di marzo 2013, nel decennale dell'invasione americana del 2003, registrava nuove violenze – tra l'altro con attacchi alla zona dei ministeri della capitale -, con un bilancio di un'ottantina di morti; il 4 marzo, peraltro, nove soldati iracheni perdevano la vita in un attacco contro il loro convoglio, mentre riaccompagnavano una cinquantina di soldati siriani sconfinati durante i combattimenti in corso nel loro paese. Intanto il segretario di Stato USA John Kerry si recava a Baghdad per tentare di arginare il flusso di armi dall'Iraq al regime siriano. L'escalation di violenze si accentuava nell'aprile 2013 – che risultava il mese più sanguinoso dalla metà del 2008, con oltre settecento morti e più di 1.600 feriti -: tra l'altro le elezioni locali del 20 aprile venivano precedute da attentati a raffica, anche se poi potevano svolgersi con una relativa calma. In maggio nuove raffiche di attentati colpivano sia il campo sciita che quello sunnita: in particolare, dopo che tra 20 e 21 maggio erano morte 130 persone, dieci autobomba colpivano la capitale alla fine del mese, mentre il riesplodere delle violenze provocava attriti tra il presidente sunnita del Parlamento e il premier sciita. Il bilancio del mese toccava i mille morti. In giugno le violenze diminuivano, ma in luglio nuovamente continui attacchi con autobomba funestavano la capitale e il paese, mentre anche un carcere veniva assaltato, con la fuga di 500 detenuti, tra i quali alcuni membri di al-Qaida. Tra agosto e settembre proseguiva la scia di sangue, nella quale venivano coinvolti anche gli oppositori iraniani residenti nel campo iracheno di al-Ashraf e da tempo invisi alle autorità sciite di Baghdad, tra le cui file si registravano una cinquantina di morti. Il 5 ottobre perdevano la vita in due diversi attentati a Baghdad una sessantina di sciiti, per lo più pellegrini che si recavano in massa al cosiddetto santuario del Nono Imam. Il giorno successivo un camion-bomba veniva fatto esplodere nel cortile di una scuola elementare della zona occidentale del paese, in prossimità del confine siriano, provocando numerose vittime tra i bambini del villaggio turkmeno di Qabak. Il 27 ottobre una raffica di attentati colpiva a Baghdad quartieri sciiti, nonché, nel nord dell'Iraq, militari in coda per ritirare lo stipendio, con un bilancio complessivo di una cinquantina di morti. Anche celebrando la ricorrenza dell'Ashura il 14 novembre gli sciiti iracheni dovevano versare un nuovo tributo di sangue, con una quarantina di morti. Nuove stragi colpivano la capitale ed altri luoghi del paese l'8 dicembre, con più di trenta vittime, poco dopo che le autorità irachene, pur vicine all'Iran, avevano chiesto agli Stati Uniti un sostegno per far fronte all'incessante ondata di attacchi terroristici. La recrudescenza di attacchi qaidisti si spiega in parte anche con il vicino conflitto che dilania la Siria, e nel quale l'Iraq appariva sempre più schierato con l'asse sciita a difesa del regime di Assad. Il giorno di Natale era la minoranza cristiana a fare le spese di un triplice attacco dinamitardo, con un bilancio di oltre trenta morti. I giorni tra 2013 e 2014 – nell'approssimarsi ormai delle elezioni legislative previste per il 30 aprile, a seguito delle quali sarebbe stato eletto dal Parlamento anche il nuovo Presidente della Repubblica - registravano ulteriori tragici sviluppi: infatti, nelle regioni occidentali irachene influenzate dal conflitto siriano si verificava negli ultimi giorni del 2013 una dura repressione delle truppe governative contro manifestanti sunniti in rotta con il governo di Baghdad. La reazione scatenava delle vere e proprie battaglie tra miliziani qaidisti e forze governative a Falluja e Ramadi: Falluja veniva occupata il 4 gennaio da combattenti appartenenti alla milizia Isis (Stato islamico dell'Iraq e del Levante). La settimana successiva vedeva violentissimi combattimenti tra qaidisti e lealisti, con un bilancio di quasi quattrocento vittime e la fuga in massa di decine di migliaia di persone dalle loro abitazioni. Il 15 gennaio una settantina di persone perdevano la vita per una serie di attentati a Baghdad e in altre regioni dell'Iraq. Alla fine di gennaio il bilancio delle vittime del 2014 nel paese superava la cifra di 900. In febbraio le cose non si presentavano migliori, con gli attentati che colpivano nel cuore della capitale - uno degli obiettivi era addirittura il ministero degli esteri – con un bilancio di più di trenta morti. La decisiva influenza iraniana sul governo sciita iracheno sembrava essere rafforzata dal ritiro improvviso (a metà febbraio) di Moqtada Sadr dalla scena politica e parlamentare: Sadr, già combattente del radicalismo sciita contro l'occupazione americana, era stato a lungo anche un critico del premier al Maliki, cui imputava soprattutto la diffusione di pratiche corruttive, ma su indicazione di Teheran aveva dovuto contenere la propria opposizione entro limiti definiti, particolarmente nei momenti elettorali. Il ritiro di Moqtada Sadr è avvenuto, anche stavolta non a caso, a poche settimane dalle elezioni legislative irachene. L'8 marzo il premier al-Maliki lanciava durissime accuse a Qatar e Arabia Saudita per il sostegno che accorderebbero a gruppi jihadisti sunniti responsabili di attacchi terroristici che, partendo dal territorio siriano, colpiscono gli sciiti in Iraq: al-Maliki dichiarava che ciò equivarrebbe a una dichiarazione di guerra all'Iraq. Il giorno successivo una quarantina di persone, tra cui cinque bambini, perdevano la vita in un attentato con un minibus esplosivo messo in atto da un kamikaze nella località di Hilla, a sud della capitale: nella stessa giornata venivano uccisi cinque poliziotti e quattro militari nei dintorni di Baghdad. |
Le elezioni legislative e l’improvvisa avanzata dell’IsisLe violenze si riaccendevano come prevedibile nell'imminenza delle elezioni politiche del 30 aprile. In particolare, il 28 aprile vi era nella mattinata una serie di attentati suicidi contro seggi elettorali aperti per il voto anticipato a favore dei membri delle forze di sicurezza del paese. Gli agenti di sicurezza venivano colpiti in modo particolarmente grave a Baghdad e a Kirkuk. In serata non meno di 30 persone perdevano la vita a Khanaqin, nella provincia di Diyala. Subito dopo, nella notte, venivano uccisi cinque membri delle milizie create per combattere al-Qaida, in un attacco armato ad un loro posto di blocco a sud della capitale Baghdad. In ogni modo, nella giornata del 28 aprile, oltre il 90% degli aventi diritto aveva effettivamente votato, e oltre alle forze di sicurezza le votazioni anticipate hanno riguardato detenuti e guardie carcerarie, nonché malati ricoverati in ospedale e il relativo personale sanitario. La giornata pre-elettorale del 29 aprile registrava un doppio attentato dinamitardo in un mercato a nord-est della capitale, con 15 morti e 45 feriti, mentre altre due vittime si registravano a Falluja a seguito di un bombardamento governativo contro gli insorti sunniti occupanti la città. Il 30 aprile si aprivano le urne per l'elezione di 328 deputati del nuovo parlamento, il primo dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq. Anche questa giornata, tuttavia, faceva registrare attentati in varie città, con vittime civili prevalentemente nei dintorni settentrionali di Baghdad e a Kirkuk, dove perdevano la vita due membri della commissione elettorale. I primi risultati elettorali, eccettuata l'affermazione dell'Alleanza per lo Stato di diritto facente capo al premier al-Maliki, che si aggiudicava 93 seggi, facevano registrare un'accresciuta frammentazione del panorama politico iracheno: infatti i movimenti sciiti guidati da al-Sadr e al-Hakim si aggiudicavano rispettivamente 29 e 28 seggi, mentre anche il voto sunnita si ripartiva in tre gruppi, con 23 seggi al blocco guidato dal presidente del parlamento al-Nujaifi, 21 seggi alla lista facente capo all'ex primo ministro ad interim Allawi e 10 seggi al partito del vice primo ministro al-Mutlaq. Perfino il voto curdo si è suddiviso tra i 25 seggi a favore del Partito democratico del Kurdistan di Massud Barzani – capo della regione autonoma curda - e i 21 seggi conquistati dall'Unione patriottica del Kurdistan, avente come proprio riferimento il presidente Jalal Talabani - una terza forza politica curda, il movimento Gorran, ha conquistato 9 seggi. Le prospettive di poter dar vita a un nuovo governo si mostravano subito difficili poiché, se al-Maliki indubitabilmente necessitava dell'appoggio dei sunniti e dei curdi, la frammentazione complessiva del sistema politico sembrava rendere ancor più difficile che in passato la formazione di una nuova stabile compagine governativa. Queste difficoltà erano solo accresciute dalla posizione dei sunniti, annunciata già prima delle elezioni, di non voler entrare in coalizione con gli sciiti, e dal proposito dei tre partiti sunniti di costituire un unico blocco nelle votazioni parlamentari, naturalmente contro al-Maliki. Per quanto concerne i curdi, va ricordato che i loro rapporti con al-Maliki e la maggioranza sciita del paese erano al momento forse al punto più basso dopo la caduta di Saddam. Il 5 giugno la formazione jihadista dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis), appartenente ad al-Qaida, ma in polemica con la direzione del movimento, forniva una prima assoluta dimostrazione di forza sullo scenario iracheno - già da tempo l'Isis si era invece affermato nella caotica situazione dei combattimenti in territorio siriano - con l'occupazione per alcune ore di diversi quartieri di una delle città simbolo degli sciiti iracheni, Samarra, che i miliziani dell'Isis abbandonavano solo dopo molte ore di scontri con le forze di sicurezza irachene, coadiuvate anche da elicotteri. Intanto a Falluja, da gennaio nelle mani dell'Isis, oltre alle centinaia di vittime dei bombardamenti governativi che inutilmente hanno tentato di riprendere la città, la situazione umanitaria della popolazione si rivelava agli occhi di una delegazione del Comitato internazionale della Croce Rossa assolutamente disastrosa, con grave penuria di cibo, acqua e materiale sanitario, e con l'unico ospedale gravemente danneggiato. Il 7 giugno una serie di attentati per mezzo di autobomba devastava alcuni quartieri periferici sciiti di Baghdad, provocando almeno 60 morti, nelle stesse ore in cui nel campus universitario di Ramadi, ad appena 100 km dalla capitale, i miliziani jihadisti prendevano in ostaggio studenti e impiegati. Intanto a Mosul una sessantina di morti erano il risultato di scontri tra forze di sicurezza e miliziani qaidisti, dopo che già il giorno precedente vi erano state oltre 30 vittime. Le azioni dell'Isis cominciavano a mostrare un'ampiezza allarmante, ben al di fuori della provincia di al-Anbar. Il 10 giugno questi timori erano pienamente confermati, con la caduta in mano all'Isis di gran parte della provincia settentrionale di Ninive, e soprattutto della sua capitale Mosul, seconda città del paese, posta al centro della regione petrolifera del nord dell'Iraq. Nella circostanza erano confermate le paure sulla tenuta dell'esercito iracheno, che perlopiù si limitava a ripiegare dalle proprie posizioni, mentre i miliziani jihadisti dilagavano anche in parte nelle due province limitrofe di Kirkuk e Salahuddin – in quei giorni centinaia di soldati iracheni venivano decapitati dai jihadisti, spargendo il terrore nelle popolazioni limitrofe e provocando sdegno in tutto il mondo. Nei giorni successivi emergeva come le divisioni tra sciiti e sunniti avessero minato le forze armate di Baghdad, oltretutto non addestrate ad azioni antiguerriglia, nonostante gli ingenti acquisti di armamenti sofisticati degli ultimi anni. A fronte di questi sviluppi il governo di Baghdad reagiva con un appello per distribuire armi ed equipaggiamenti militari ai volontari intenzionati a combattere contro i miliziani dell'Isis e contro il loro capo al-Baghdadi, conosciuto anche come Abu Dua, dal 2011 al vertice dell'organizzazione, con l'obiettivo di dar vita a un califfato che raggruppi le regioni settentrionali dell'Iraq e della Siria, cancellando gli ormai secolari confini tracciati dalle potenze coloniali europee. L'11 giugno l'avanzata dell'Isis appariva inarrestabile, con la conquista di Tikrit, ex roccaforte di Saddam Hussein e principale citta' della provincia di Salahuddin. La strategia dell'Isis cominciava a delinearsi, con il chiaro obiettivo di un controllo delle risorse petrolifere dell'Iraq settentrionale, da conseguire con l'accerchiamento della città di Kirkuk, avendo conseguito nel frattempo il controllo della più grande raffineria di petrolio dell'Iraq e di una centrale elettrica di grande importanza regionale - le mosse dell'Isis sullo scenario iracheno vanno collegate a quanto già conseguito in territorio siriano, dove le zone conquistate sono anch'esse le sole ricche di petrolio del paese. L'avanzata dell'Isis, tuttavia, era destinata fatalmente a scontrarsi con le ambizioni dei curdo-iracheni, che, nonostante forti contrasti con Baghdad, già da tempo avevano iniziato ad esportare autonomamente il petrolio del nord, e vedevano ora in pericolo la posizione di forza conquistata dopo la caduta di Saddam Hussein. In effetti il 12 giugno le truppe curde dei peshmerga assumevano il controllo di Kirkuk, dopo lunghi giorni in cui erano rimaste attestate sulle proprie posizioni, attendendo un'intesa con il governo di Baghdad. Al quadro complessivo va aggiunta anche la catastrofe umanitaria, con oltre mezzo milione di iracheni costretti ad abbandonare le proprie case - da sommare ai quasi 300.000 rifugiati in Iraq in fuga dalla guerra civile siriana-, di fronte alla violenza fanatica dell'Isis, che dava inizio alla distruzione e all'incendio di chiese e conventi cristiani. Anche la Turchia si trovava involontariamente coinvolta, quando una cinquantina di propri diplomatici venivano presi in ostaggio dall'Isis, circostanza particolarmente imbarazzante per Ankara, visto lo scoperto appoggio prestato agli elementi jihadisti siriani in lotta contro il regime di Assad, ma che non aveva potuto prevedere l'apparire sulla scena di un elemento come l'Isis, relativamente tollerato dal regime di Assad in quanto già da tempo impegnato in una dura lotta contro gli elementi jihadisti più legati ad al-Qaida. Il precipitare della situazione induceva il 13 giugno, nel corso delle consuete preghiere del venerdì, il Grande Ayatollah dell'Iraq al-Sistani a richiamare i fedeli alla difesa della capitale contro l'avanzata dei jihadisti sunniti, nelle stesse ore in cui si aveva notizia dell'ingresso in Iraq di alcune centinaia di volontari provenienti dalle file dei pasdaran iraniani. La gravità della situazione induceva anche il presidente degli Stati Uniti Obama ad una presa di posizione in diretta televisiva, durante la quale prometteva una decisione nel giro di pochi giorni sugli aiuti al governo iracheno per respingere l'Isis: il presidente Obama precisava anche che gli USA non si sarebbero fatti coinvolgere nel nuovo dramma iracheno senza un piano di cooperazione tra le diverse parti del paese, e in ogni caso Obama escludeva categoricamente l'invio di truppe di terra. Le preoccupazioni di Teheran per lo sviluppo degli eventi sullo scenario iracheno erano testimoniate il 14 giugno dalle dichiarazioni del presidente Rohani, che si diceva pronto a intervenire, mentre cresceva l'avanguardia di pasdaran iraniani dislocati in territorio iracheno. Rohani si spingeva a immaginare una possibile collaborazione contro l'Isis tra Iran e Stati Uniti, ma solo dopo aver constatato l'effettivo impegno di Washington sulla questione – Washington che dal canto suo rendeva noto di aver disposto lo spostamento nel Golfo Persico di una squadra navale comprendente la portaerei HW Bush. Nei giorni successivi la battaglia nel nord dell'Iraq si concentrava prevalentemente intorno alle infrastrutture energetiche, tanto che diverse compagnie straniere del petrolio preparavano l'evacuazione del proprio personale: i combattimenti si accanivano particolarmente attorno alla più grande raffineria del paese, che ciascuna delle parti rivendicava di aver posto sotto il proprio controllo. Frattanto il governo iracheno, per bocca del ministro degli esteri Zebari, rendeva noto di aver richiesto ufficialmente l'intervento aereo americano contro i miliziani dell'Isis, che intanto procedevano al rapimento di 40 operai indiani impiegati nella zona. Il presidente iraniano Rohani tornava a far sentire la propria voce a difesa dei luoghi sacri degli imam sciiti in territorio iracheno, che l'Iran sarebbe disposto a proteggere in tutti i modi, anche con l'invio di numerosi volontari già pronti a recarsi in Iraq. Gli Stati Uniti precisavano i contorni del proprio impegno dicendosi pronti a inviare a Baghdad fino a 300 consiglieri militari e a compiere azioni mirate contro i miliziani dell'Isis, pur continuando ad escludere in ogni modo l'invio di truppe di terra. Più rilevante della prospettiva di impegno militare appariva nel contempo lo sforzo politico della Casa Bianca, che faceva sempre meno per nascondere l'ostilità alla formazione di un governo nuovamente presieduto da Nuri al-Maliki - ormai percepito come troppo scopertamente legato all'Iran e agli interessi confessionali sciiti, e inviso in particolar modo all'Arabia Saudita e alla Turchia, sul cui impegno invece gli Stati Uniti contano in modo particolare per una soluzione della complessa questione posta dall'Isis. Tra l'altro, proprio nel maturare dell'ostilità contro al-Maliki si infrangevano le possibilità di un'effettiva collaborazione di Washington con Teheran, come evidenziato da un aspro intervento della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei – non seguita peraltro su questo terreno dal Grande Ayatollah iracheno al-Sistani, che il 20 giugno lanciava un appello per cacciare i ribelli e formare un governo efficace che evitasse gli errori del passato, con un'implicita ma pesantissima critica all'operato di al-Maliki. In questo difficile contesto il segretario di Stato americano John Kerry il 23 giugno si recava a Baghdad per far presente la posizione americana, favorevole alla formazione di un governo in cui tutte le componenti del paese fossero rappresentate: frattanto le truppe dell'Isis assumevano il controllo del confine iracheno con la Giordania. Il 28 giugno i combattimenti proseguivano in direzioni opposte: mentre infatti le truppe fedeli ad al-Maliki erano impegnate in una controffensiva per la riconquista di Tikrit, i miliziani dell'Isis si spingevano fino all'estrema periferia di Baghdad, e nei combattimenti sarebbero morti una ventina di soldati governativi. Il luogo dello scontro, a una cinquantina di km da Baghdad, dista solo 20 km dalla città santa di Karbala, residenza della maggiore autorità religiosa sciita del Medio Oriente, ovvero il Grande Ayatollah al-Sistani. Il 29 giugno si aveva da parte dell'Isis la proclamazione della nascita di un califfato nei territori conquistati in Iraq e in Siria: l'Isis annunciava altresì di aver cambiato il proprio nome semplicemente in quello di Stato islamico (Isis). Il gruppo innalzava il proprio leader Abu Bakr al-Baghdadi al rango di califfo, e quindi di capo dei musulmani in tutto il mondo. Naturalmente all'atto di nascita del califfato non era attribuita alcuna rilevanza diplomatica, per quanto si tratti di un territorio con una superficie pari a quella dell'Ungheria, attraversato dal più grande fiume mediorientale, l'Eufrate, e con numerosi valichi frontalieri verso la Turchia e la Giordania. Peraltro appare assai diverso l'assetto di governo nei territori siriano e iracheno: mentre infatti in Siria l'Isis è impegnato in combattimenti contro altri gruppi jihadisti, e sembra imporre con la forza la propria supremazia alle popolazioni locali, in Iraq il movimento jihadista appare sostenuto da ampi strati della popolazione sunnita, in odio alla politica giudicata discriminatoria e filoiraniana del premier di Baghdad al-Maliki. L'aggravarsi della situazione di sicurezza dell'Iraq induceva il 30 giugno la Casa Bianca a inviare un ulteriore contingente di duecento soldati equipaggiati per il combattimento a protezione dell'ambasciata USA e dell'aeroporto di Baghdad. Sul fronte politico, intanto, nell'imminenza della riunione del 1° luglio del nuovo parlamento uscito dalle elezioni del 30 aprile, aveva luogo una riunione dell'Alleanza nazionale, piattaforma che riunisce le principali formazioni politiche sciite, completamente disertata da curdi e sunniti, nonostante avesse in programma colloqui per la designazione del premier. Nuove notizie di atrocità compiute dai miliziani dell'Isis venivano ridimensionate dal patriarca caldeo di Baghdad, monsignor Sako, evidentemente allo scopo di non esacerbare gli animi in una situazione comunque assai difficile per la comunità cristiane da sempre residenti nei luoghi caduti sotto il controllo del "califfato". Un elemento rivelatore importante delle preoccupazioni sulla sicurezza del paese era stata intanto fornita dalla decisione delle autorità di Baghdad di oscurare i principali social network in territorio iracheno per tre settimane, decisione annullata proprio il 30 giugno. Il mese di luglio si apriva con la richiesta, da parte del presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani al parlamento della Regione Autonoma, di tenere un referendum sull'indipendenza: la mossa di Barzani va inquadrata nel nuovo scenario destabilizzato dell'Iraq, rispetto al quale sembra mirare, più che ad una soluzione, ad assicurare gli interessi della minoranza curda del paese, oltretutto in prima linea contro l'assalto dell'Isis. Alla metà di luglio a Mosul la stretta imposta dall'Isis – in previsione della quale già all'arrivo delle milizie jihadiste centinaia di migliaia di abitanti cristiani, curdi e turcomanni avevano precipitosamente abbandonato la città – si rivelava pienamente, con l'imposizione di rigidi precetti ispirati alla Shari'a, e con l'avvio di una vera e propria furia iconoclasta diretta contro statue, mausolei e immagini ritenuti offensivi dell'Islam, nonché contro moschee sciite e chiese cristiane. Numerosi funzionari governativi a Mosul venivano rapiti, mentre si accrescevano le pressioni nei confronti dei non sunniti. Questa escalation culminava il 18 luglio, quando migliaia di cristiani rimasti a Mosul ne venivano cacciati a forza, e subivano rapine e ulteriori vessazioni mentre precipitosamente tentavano di raggiungere le aree controllate dai curdi. Con il passare dei giorni si chiariva il principale criterio seguito dall'Isis nella distruzione di antichi templi, ovvero il criterio di colpire maggiormente i luoghi oggetto di culto da parte di diverse confessioni, come ad esempio l'antica moschea di Giona, sita nei pressi delle rovine dell'antica città di Ninive, per tradizione il luogo di sepoltura del profeta ebraico, visitato da cristiani, ebrei e musulmani, e che i jihadisti procedevano il 25 luglio a distruggere con esplosivi, qualificandola quale luogo di apostasia proprio perché oggetto di pellegrinaggi congiunti tra fedeli di diverse religioni. Nella stessa giornata e per gli stessi motivi i miliziani distruggevano la tomba di Seth, il figlio di Adamo ed Eva dal quale secondo la Bibbia discenderebbe tutta l'umanità. L'aggravarsi della pressione contro i cristiani aveva provocato già nei giorni precedenti un'iniziativa del patriarca caldeo di Baghdad Monsignor Sako, che in una lettera al segretario generale dell'ONU aveva chiesto l'intervento del Consiglio di sicurezza per porre fine alle atrocità perpetrate contro i cristiani. Monsignor Sako riscontrava il 26 luglio la vicinanza e la partecipazione del Papa in un colloquio telefonico, mentre il patriarca della Chiesa siro-ortodossa preannunciava la richiesta delle Chiese d'Oriente alle più alte autorità religiose musulmane di una condanna dei crimini compiuti contro i cristiani dai miliziani dell'Isis. Effettivamente il 9 agosto, in un colloquio a Najaf con Monsignor Sako, al-Sistani avrebbe condannato gli attacchi alle minoranze religiose.
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Gli ultimi avvenimentiL'inizio di agosto vedeva un'ulteriore forte accelerazione nell'espansione dell'Isis, e un rapido cedimento dei peshmerga, che erano costretti ad abbandonare le proprie posizioni e a ripiegare in montagna: tra il 2 e il 3 agosto cadevano in mano ai jihadisti dell'Isis le città di Zumar e Sinjar, nonché i campi petroliferi di Ain Zalah e Batma. La città di Sinjar aveva già accolto decine di migliaia di profughi messi in fuga dall'avanzata dell'Isis delle passate settimane, e all'interno di essa rendeva tutto ancor più tragico la presenza della minoranza degli Yazidi, parlanti una lingua curda e seguaci di una religione antichissima ispirata allo zoroastrismo persiano, che gli islamisti radicali considerano una religione adoratrice del diavolo. Conseguenza immediata dell'avvicinamento dell'Isis a Sinjar era la fuga di migliaia di essi sulle montagne, in una condizione di totale precarietà e a rischio della vita. La gravità della situazione induceva il 4 agosto il premier iracheno al Maliki a superare le diffidenze nei confronti dei curdi iracheni, ordinando all'aviazione di Baghdad di operare in appoggio ai peshmerga. Il 5 agosto nel Parlamento di Baghdad una deputata della comunità degli Yazidi riferiva che 500 uomini erano stati assassinati dai jihadisti e centinaia di donne fatte prigioniere e trasferite. Nella stessa giornata il Consiglio di sicurezza dell'ONU esprimeva condanna delle azioni dell'Isis, i cui attacchi sistematici contro i civili in base alla loro origine etnica, la loro religione o le loro convinzioni personali rientrano nella categoria dei crimini contro l'umanità, i cui autori divengono responsabili e perseguibili. Tuttavia, più incisiva della Dichiarazione del Consiglio di sicurezza appariva almeno potenzialmente il patto di collaborazione tra i curdi dell'Iraq, della Turchia e della Siria, che si dicevano pronti ad accantonare le annose divergenze per uno sforzo comune contro l'avanzata dei jihadisti. Sempre il 5 agosto il viceministro degli esteri italiano Pistelli si recava a Baghdad, incontrando anche il presidente della Repubblica da poco eletto, il curdo Fouad Masum: secondo Pistelli la minaccia dell'Isis è tale da coinvolgere la stabilità dell'intero Medio Oriente, e non solo quella dell'Iraq, e di fronte ad essa non è possibile restare inerti. Dopo una notte di bombardamenti in ampie zone della piana di Ninive, l'Isis provocava un nuovo gigantesco esodo di cristiani da numerosi villaggi, valutati in circa centomila, ancora una volta in fuga in condizioni disperate, come efficacemente descritto nell'appello di Monsignor Sako all'agenzia Asianews del 7 agosto - nel quale l'alto prelato rilevava anche la scarsa cooperazione tra autorità curde e centrali del paese, e quindi le poche speranze di fermare l'onda di piena dell'Isis in assenza di un intervento della comunità internazionale. Non a caso nella stessa giornata del 7 agosto il Papa lanciava un appello per porre fine al dramma umanitario in atto e per assistere i numerosissimi sfollati. Frattanto l'Isis si impadroniva della più grande città cristiana in Iraq, Qaraqosh, provocando decine di migliaia di altri profughi: nelle stesse ore cadeva nelle mani dei jihadisti anche la più grande diga dell'Iraq, quella sul Tigri a nord di Mosul, dalla quale dipendono le forniture idriche in gran parte del nord iracheno. Le truppe dei peshmerga non apparivano intanto in grado di opporsi validamente all'avanzata dell'Isis, e in più il Kurdistan iracheno risentiva della grande massa di centinaia di migliaia di profughi ormai entrati in cerca di scampo nel suo territorio. In questo clima il presidente degli Stati Uniti Obama autorizzava attacchi aerei mirati a protezione dei civili – per evitare un genocidio - e del personale americano nel nord dell'Iraq: i raid iniziavano l'8 agosto, poco prima delle 13 ora italiana, dopo il lancio di viveri e aiuti umanitari per i profughi nell'area di Sinjar. L'iniziativa americana veniva subito salutata con favore dalla Francia, pronta a prendervi parte. Anche dal Regno Unito giungeva sostegno all'azione statunitense, senza peraltro prevedere un proprio intervento militare, se non in termini di assistenza tecnico-militare gli Stati Uniti e aiuto umanitario per gli sfollati. L'Italia, per bocca del ministro degli esteri Federica Mogherini, condivideva prontamente la scelta americana. Le prime ondate di attacchi contro i miliziani dell'Isis sembravano assai efficaci - come sottolineato dal presidente della regione autonoma del Kurdistan barzani, che però chiedeva anche di ricevere l'armamento necessario per proseguire l'offensiva sul terreno -, e consentivano ai peshmerga il 10 agosto la riconquista di due cittadine situate in posizione strategica, mentre circa la metà degli Yazidi intrappolati da giorni sulle montagne vicine a Sirjan, circa 20.000, riuscivano a porsi in salvo. Sul fronte politico iracheno crescevano intanto le pressioni su al-Maliki per una sua rinuncia alla riconferma al la carica di premier - da ultimo il 10 agosto il ministro degli esteri francese Fabius recatosi a Baghdad, che ribadiva la necessità di un governo iracheno inclusivo di tutte le componenti del paese. Il presidente Masum, allo scopo di accelerare la formazione del nuovo esecutivo, si spingeva a minacciare lo scioglimento del parlamento se non fosse stato nominato in breve tempo un nuovo primo ministro. Il giorno successivo, 11 agosto, il presidente Masum incaricava di dar vita al nuovo governo Haidar al-Abadi, anch'egli sciita, su indicazione della riunione dei partiti sciiti (Alleanza nazionale): a tale designazione reagiva con veemenza il premier uscente al-Maliki, definendola una violazione della Costituzione - in quanto il suo partito, lo Stato del diritto, aveva riportato la maggioranza relativa nelle elezioni del 30 aprile. Al-Maliki mobilitava alcuni suoi sostenitori, dopo che nella notte tra 10 e 11 agosto aveva esercitato forti pressioni con un ingente schieramento di esercito e polizia nel centro di Baghdad. A tutto ciò aveva reagito l'inviato dell'ONU a Baghdad Mladenov, che diffidava le forze di sicurezza dal porre in atto interferenze del processo politico democratico, mentre gli Stati Uniti confermavano i propri orientamenti dei giorni precedenti approvando la novità politica rappresentata dall'incarico ad al-Abadi, proseguivano i raid contro i miliziani dell'Isis e iniziavano la fornitura diretta di armi ai miliziani curdi. Sul piano internazionale anche la Lega araba, per bocca del suo segretario al-Arabi, condannava le violenze dell'Isis come crimine contro l'umanità, mentre il portavoce dell'Alto rappresentante per la politica estera europea appoggiava la formazione di un nuovo esecutivo capace di affrontare la crisi in atto ripristinando l'unità nazionale. Il 12 agosto si registravano segnali di movimento anche sul fronte dell'Unione europea, dove il capo della diplomazia francese Fabius e il suo omologo italiano Federica Mogherini richiedevano con urgenza la riunione straordinaria del Consiglio dei ministri degli esteri per affrontare la situazione irachena. Intanto si riuniva il Comitato politico straordinario con la partecipazione degli ambasciatori a Bruxelles dei 28 Stati membri, e si cominciava a intravedere la possibilità della fornitura di armi da parte degli Stati membri ai peshmerga curdi: il Comitato politico straordinario raggiungeva anche un'intesa sul rafforzamento del coordinamento dell'aiuto umanitario, affidato alla Commissione europea in virtù del meccanismo di protezione civile di cui essa dispone per accrescere l'efficacia degli interventi in situazioni di crisi. Proprio dalla Commissione, e in particolare dal Commissario agli aiuti umanitari Georgieva, veniva poi l'annuncio dello stanziamento di ulteriori 5 milioni di euro per la situazione umanitaria nel nord dell'Iraq. Il 13 agosto al-Maliki proseguiva nella sua ostinata resistenza alla svolta politica rappresentata dall'incarico per il nuovo governo ad al-Abadi, presentando ricorso alla Corte federale: la sua posizione si faceva tuttavia sempre più isolata, stante l'assenso alla designazione di al-Abadi proveniente dall'Organizzazione della conferenza islamica e, soprattutto, dall'Iran e dalla Siria – ciò privava di colpo al-Maliki della sponda più importante su cui giocare. Intanto la capitale Baghdad veniva colpita da quattro autobomba, con la morte di una ventina di persone e il ferimento di una cinquantina. Sul terreno dell'Iraq settentrionale un centinaio di marines e forze speciali americani atterravano sul territorio montuoso nei pressi di Sinjar per organizzare l'esodo di circa 30.000 civili Yazidi ancora intrappolati sul luogo: nel contempo Washington disponeva l'invio di altri 130 consiglieri militari in Iraq. Anticipando gli sviluppi in sede europea, il presidente francese Hollande stabiliva nella stessa giornata del 13 agosto di procedere senz'altro all'invio di armi ai peshmerga curdi. Il 14 agosto finalmente al-Maliki, dopo la notizia dell'invito a farsi da parte già da tempo pervenutogli dalla guida suprema degli sciiti iracheni,il Grande Ayatollah al-Sistani, annunciava le proprie dimissioni e l'appoggio al nuovo premier incaricato al-Abadi. Sul terreno intanto secondo gli americani diveniva meno urgente un'operazione per evacuare i profughi Yazidi dalle montagne intorno a Sinjar, perché nel frattempo grazie ai raid aerei statunitensi era stato rotto l'assedio di cui erano sottoposti da parte dell'Isis. Il 15 agosto si svolgeva il Consiglio dei ministri degli affari esteri UE richiesto con forza da Francia e Italia, nel corso del quale era espresso sostegno agli Stati membri per la fornitura di armi ai peshmerga curdi. Il Consiglio straordinario si occupava anche dell'assistenza umanitaria alla popolazione colpita dall'Isis, esprimendo apprezzamento per la rinuncia di al-Maliki, con un invito al nuovo premier incaricato a dar vita a un governo di ampia inclusione. I ministri degli esteri europei esprimevano inoltre una forte volontà di facilitare una reazione politica regionale contro l'espansione dell'Isis. Nella stessa giornata il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvava all'unanimità una risoluzione volta ad ostacolare i finanziamenti e le forniture di armi all'Isis. Il 16 agosto veniva denunciato un nuovo crimine commesso dall'Isis nel villaggio di Kojo, vicino a Sinjar, con l'uccisione di un'ottantina di uomini e quasi duecento donne rapite. Sul terreno dei combattimenti l'aviazione americana intensificava gli attacchi aerei sulle postazioni dell'Isis a presidio della diga di Mosul, precedendo un attacco di terra dei peshmerga sullo stesso obiettivo. Intanto nella capitale del Kurdistan Erbil arrivava il primo dei sei voli umanitari predisposti dal nostro paese. Il 17 agosto l'intensificazione dei raid aerei americani contro le milizie dell'Isis consentiva ai peshmerga la riconquista della diga di Mosul e di tre cittadine situate a est della stessa. Questi sviluppi positivi potrebbero tuttavia avere il loro pendant negativo, come sottolineato dal ministro degli esteri tedesco Steinmeier di ritorno da una missione il 16 agosto a Baghdad e nel Kurdistan, preoccupato per la possibilità che i successi dei peshmerga curdi in una situazione di debolezza delle forze armate federali irachene possano facilitare la formazione di uno Stato curdo indipendente che sarebbe, secondo Steinmeier, un fattore di ulteriore destabilizzazione regionale. Si riaccendeva intanto il versante siriano dell'Isis, dove l'aviazione di Damasco attaccava ripetutamente le postazioni jihadiste nella provincia di Raqqa: secondo molti osservatori Assad cerca in questo modo di allinearsi alle iniziative messe in campo dagli Stati Uniti contro l'Isis in territorio iracheno, accreditandosi nel quadro di una più generale lotta contro tutti i fondamentalisti. Il 18 agosto le forze curde in lotta contro l'Isis hanno annunciato la riconquista, dopo la diga di Mosul, di altre località nel nord dell'Iraq, e di prepararsi a riprendere la stessa Mosul ai miliziani jihadisti. Per la verità alcuni combattimenti proseguirebbero anche nei pressi della diga, ma secondo il portavoce del comando delle forze armate irachene si tratterebbe solo di scontri limitati in alcuni edifici prospicienti, mentre vi sarebbe la necessità dello sminamento di altri fabbricati. Combattimenti tra le forze armate irachene e i miliziani dell'Isis sarebbero in corso inoltre nella provincia di al-Anbar. Rilevante la presa di posizione di papa Francesco il quale, nel viaggio aereo di ritorno dalla Corea del sud, si è spinto a criticare l'approccio unilaterale costituito dall'intervento statunitense, a favore di un' azione della Comunità internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite, che dovrebbe essere volta esclusivamente a porre fine all'aggressione dell'Isis nel nord dell'Iraq, e non a dar vita a una nuova guerra o nuovi bombardamenti. Il Papa si è detto inoltre disposto a recarsi in Kurdistan, dove già nei giorni precedenti aveva inviato il cardinale Fernando Filoni, già Nunzio apostolico a Baghdad. Il cardinal Filoni, in un una dichiarazione congiunta con il patriarca caldeo monsignor Sako,ha chiesto alla Comunità internazionale un intervento volto non solo alla fornitura di aiuti umanitari, ma anche alla liberazione dei luoghi occupati dall'Isis con rapidità e in via definitiva. Lo stesso giorno, la Presidenza del Consiglio annunciava una visita lampo, il 19 agosto, di Matteo Renzi in Iraq nel corso della quale il Presidente del Consiglio avrà incontri a Bagdad con il premier incaricato al Abadi e con quello uscente al Maliki. Successivamente Renzi sarà a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove incontrerà il presidente del governo regionale Barzani e visiterà un campo profughi. |