Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento bilancio |
Titolo: | Aspetti di rilievo costituzionale del federalismo fiscale |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 290 |
Data: | 14/03/2017 |
Organi della Camera: | V-Bilancio, Tesoro e programmazione |
Aspetti di rilievo costituzionale del federalismo fiscale
marzo 2017
Servizio Studi
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Dossier n. 462
Servizio del Bilancio
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Elementi di documentazione n. 68
Servizio Studi
Dipartimento Bilancio
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Documentazione
e ricerche n. 290
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BI0404.docx
INDICE
1. La disciplina costituzionale del
“Federalismo Fiscale”
§ 1.1.
L'art. 119 della Costituzione
§ 1.2.
Le modifiche apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012
§ 1.3.
Le altre disposizioni costituzionali
§ 1.4.
L’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione e la grave crisi
economico-sociale
2.
Il pareggio di bilancio per regioni ed enti locali
3.
Autonomia finanziaria e vincoli di bilancio
§ 3.1
Finalità e limiti del coordinamento finanziario
§ 3.2
I controlli finanziari sugli enti territoriali
4.
Enti territoriali e manovra finanziaria
§ 4.1
Condizioni e limiti della spending review
§ 4.2
La spesa sanitaria tra Stato e Regioni
5.
La finanza delle autonomie speciali
§ 5.1
La clausola di specialità contenuta nell’articolo 27 della legge n. 42/2009
§ 5.2
Dalle clausole di specialità agli Accordi
§ 5.3
Pareggio di bilancio ed autonomie speciali
6.
Coordinamento del sistema tributario e riparto delle competenze
§ 6.1
Assetto delle competenze e questioni principali
§ 6.2
Giurisprudenza costituzionale
7.
Il nuovo assetto delle province e la questione delle risorse
§ 7.1
Il riordino delle province nella legge “Delrio” e la sentenza n. 50/2015
§ 7.2
La Corte costituzionale sul tema delle risorse
La disciplina costituzionale del "federalismo fiscale" si trova principalmente, ma non solo, nell'art. 119 della Costituzione. Altre disposizioni del testo della Carta Fondamentale rilevano indubitabilmente nell'ambito proprio di quelle previsioni, specialmente quelle relative al riparto di competenze di cui all'art. 117 della Costituzione.
Nelle pagine seguenti sono riportati i profili essenziali dell'ampia giurisprudenza costituzionale in materia, non prima di aver precisato che il numero pur cospicuo di sentenze citate non esaurisce certo quello delle pronunce pertinenti al tema, e che la sintesi che si offre non può sostituire la ricchezza argomentativa del loro testo integrale, cui si rinvia.
Infine, può osservarsi incidentalmente che l'espressione "federalismo fiscale" non è mai usata dalla Corte motu proprio, ma solo riportando altrui prospettazioni, o testi normativi, dove essa è usata.
L'articolo 119 Cost. stabilisce che l'autonomia
finanziaria degli enti territoriali è esercitata in armonia con la
Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario. Tale disposizione, letta in combinato con l’articolo 117, terzo comma, che
ricomprende tra le materie di legislazione concorrente il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario,
comporta anzitutto la potestà per ogni
regione di stabilire e applicare tributi – oltre che nel rispetto della
Costituzione, dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell’Unione europea e
dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma) – secondo i principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario
fissati dalla legislazione statale. Anche a
comuni, province e città metropolitane è riconosciuta autonomia di entrata
e il potere di stabilire ed applicare tributi ed entrate propri. Tuttavia,
sebbene l'articolo 119 ponga formalmente sullo stesso piano regioni ed enti
locali, la riserva di legge di cui all’articolo
23 della Costituzione - che sancisce che nessuna prestazione patrimoniale
può essere imposta se non in base alla legge - preclude a questi enti l’esercizio di una potestà impositiva diretta
analoga a quella delle regioni.
Un'autorevole sintesi delle disposizioni dell'art. 119 può essere ritenuta quella che proviene dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 423/2004):
..in base al testo dell’articolo 119, "le Regioni – come gli enti locali – sono dotate di «autonomia finanziaria di entrata e di spesa» (primo comma) e godono di «risorse autonome» rappresentate da tributi ed entrate propri, nonché dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio (secondo comma). E per i territori con minore capacità fiscale per abitante, la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo «senza vincoli di destinazione» (terzo comma). Nel loro complesso tali risorse devono consentire alle Regioni ed agli altri enti locali «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (quarto comma). Non di meno, al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, di rimuovere gli squilibri economici e sociali, di favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona o di provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato può destinare «risorse aggiuntive» ed effettuare «interventi speciali» in favore «di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni» (quinto comma)".
L'articolo 119 della Costituzione è stato oggetto di modifica con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 ("Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale").
In primo luogo, con riguardo al pareggio di bilancio, si tratta, com'è noto, del principio introdotto da tale legge costituzionale che, riformulando l'articolo 81 della Costituzione (nonché modificandone gli articoli 97, 117 e 119), introduce il principio dell'equilibrio tra entrate e spese del bilancio dello Stato, al netto degli effetti del ciclo economico e salvo eventi eccezionali, correlandolo a un vincolo di sostenibilità del debito di tutte le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle regole in materia economico-finanziaria derivanti dall'ordinamento europeo.
Con specifico riguardo all’art. 119, la riforma del 2012 ha condizionato al primo comma l’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali al rispetto dell’equilibrio dei rispettivi bilanci e ha previsto che tali enti debbano concorrere all’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea. Inoltre, al sesto comma ha ulteriormente limitato le possibilità di indebitamento degli enti territoriali, aggiungendo un ulteriore requisito a quelli esistenti (finanziamento di spese di investimento e contestuale definizione di piani di ammortamento): per il complesso degli enti di ciascuna Regione deve essere rispettato l’equilibrio di bilancio.
A sua volta, la legge costituzionale del 2012 rinvia a una legge rinforzata (“legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera”) per la individuazione di una serie di elementi, tra cui le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni. I principi cui deve ispirarsi la legge rinforzata sono elencati in una lunga lista dalla stessa legge costituzionale, all’art. 5: la legge rinforzata deve tra l’altro stabilire le modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali, anche in deroga all'articolo 119 della Costituzione, concorre ad assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali. La medesima legge deve disciplinare la facoltà dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano di ricorrere all'indebitamento, ai sensi dell'articolo 119, sesto comma, secondo periodo, della Costituzione, e le modalità attraverso le quali i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano concorrono alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni.
Alla nuova disciplina è stato dato seguito mediante la legge "rinforzata" 24 dicembre 2013, n. 243, la quale ha disciplinato l'applicazione del principio dell'equilibrio tra entrate e spese nei confronti delle regioni e degli enti locali (articoli da 9 a 12).
La legge 164/2016 ha poi modificato la legge 243/2012, con l’obiettivo di dare risposta alle criticità emerse nel primo periodo. In particolare, ha sostituito i quattro saldi di riferimento ai fini dell'equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali ivi previsti con un unico saldo non negativo (sia in fase di previsione che di rendiconto), in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali (una sostituzione, già anticipata in via transitoria per il 2016 dalla legge di stabilità per lo stesso anno).
Inoltre, la legge 164/2016 modifica la disciplina del ricorso all’indebitamento, nella parte relativa alla procedura dell'intesa a livello regionale.
Quanto al concorso finanziario dello Stato nelle fasi avverse del ciclo economico, la legge 164 modifica le modalità del concorso dello Stato al finanziamento dei livelli essenziali e delle funzioni fondamentali nelle fasi avverse del ciclo o al verificarsi di eventi eccezionali: è soppresso il Fondo straordinario e sono rimesse alla legge dello Stato, nel rispetto dei principi stabiliti dalla medesima legge n. 243 del 2012, le modalità del concorso statale, in ragione dell'andamento del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali.
La legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, inoltre, ha novellato l’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione prevedendo che la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici” rientri negli ambiti di competenza legislativa esclusiva statale e non più - come nel riparto previgente – nelle materie di competenza concorrente tra lo Stato e le regioni (terzo comma dell’articolo 117 Cost.).
La legge costituzionale n. 1 del 2012 è entrata il vigore il 1° gennaio 2014.
Di conseguenza, a partire da tale data la legislazione statale in materia non si limita più ai soli principi fondamentali, ma si espande anche alla normativa di dettaglio. A ciò si accompagna l'attribuzione contestuale allo Stato della potestà regolamentare in materia, in forza del comma sesto del medesimo articolo 117 Cost. e il conseguente venir meno della competenza regolamentare delle Regioni.
Giova ricordare che la Corte costituzionale è intervenuta, prima della suddetta modifica costituzionale, in tema di modalità applicative, per le autonomie speciali, del decreto legislativo n. 118 del 2011 (sentenza n. 178 del 2012). In tale sede, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo periodo del comma 1 dell’articolo 37, recante disposizioni concernenti le Regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, disposizione che non è più presente nella formulazione dell’art. 79 dello schema di d.lgs. in esame, vertente sulla medesima materia.
La Corte costituzionale ha, al contempo, ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, c. 1, primo periodo, del d.lgs. n. 118 del 2011, di identico contenuto all’art. 79 dello schema in esame, il quale prevede che «La decorrenza e le modalità di applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto legislativo nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, nonché nei confronti degli enti locali ubicati nelle medesime Regioni speciali e province autonome, sono stabilite, in conformità con i relativi statuti, con le procedure previste dall’art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42», cioè con «norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi». Secondo la Corte, infatti, le censure muovono dall’erronea premessa interpretativa che la norma impugnata imponga agli enti ad autonomia differenziata di recepire, sia pure mediante le procedure di attuazione statutaria, il contenuto dell’intero decreto legislativo delegato; diversamente la previsione di una procedura “pattizia” al fine di applicare agli enti ad autonomia speciale una normativa in materia di sistemi contabili e di bilancio implica necessariamente una determinazione paritetica del contenuto di detta normativa ed esclude, perciò, l’automatica ricezione della disciplina prevista dal decreto legislativo delegato per le regioni a statuto ordinario.
Anche per tracciare il quadro delle principali norma costituzionali rilevanti in materia di "federalismo fiscale", ma diverse dall'art. 119, può ricorrersi alle parole della Corte stessa (sentenza n. 102/2008):
...il “Titolo V della Parte II della Costituzione prevede che:
a) lo Stato ha competenza legislativa esclusiva in materia di «sistema tributario […] dello Stato» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.);
b) le Regioni hanno potestà legislativa esclusiva nella materia tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, con riguardo, beninteso, ai presupposti d’imposta collegati al territorio di ciascuna Regione e sempre che l’esercizio di tale facoltà non si traduca in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni (artt. 117, quarto comma, e 120, primo comma, Cost.);
c) .. (il già citato art. 119, secondo comma, Cost.);
d) lo Stato e le Regioni hanno competenza legislativa concorrente nella materia del «coordinamento […] del sistema tributario», nella quale è riservata alla competenza legislativa dello Stato la determinazione dei princípi fondamentali (art. 117, terzo comma, Cost.). "
Il quadro complessivo va poi completato con le altre norme di rango costituzionale su cui la Corte non è stata chiamata, nella sentenza sopra citata, ad esprimersi. Tra queste va ricordata la competenza legislativa esclusiva statale in materia di «perequazione delle risorse finanziarie» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.).
Con la sentenza n. 2/2006 la Corte ha negato che la Costituzione stabilisca una riserva esclusiva di competenza legislativa dello Stato in tema di progressività dei tributi. Ai sensi dell'art. 53, secondo comma, Cost., la progressività è principio che deve informare l'intero sistema tributario ed è, quindi, legittimo che anche le Regioni, nell'esercizio del loro autonomo potere di imposizione, improntino il prelievo a criteri di progressività in funzione delle politiche economiche e fiscali da esse perseguite.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, «l’art. 119 Cost. vieta al legislatore statale di prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 168 del 2008, nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 168 del 2009, nn. 63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005).
Così almeno secondo il disegno costituzionale. Questo orientamento ha dovuto peraltro “fare i conti” con l’inattuazione dell’articolo 119 Cost. e dunque con l’attuale assenza di una compiuta autonomia finanziaria delle regioni.
La legge delega sul federalismo fiscale (L. n. 42/2009) ha dato avvio al processo di attuazione dell’art. 119 Cost., ma questo processo non è stato ancora completato. Da una parte, infatti, non è giunto a conclusione lo stesso percorso attuativo avviato dalla legge delega e dai decreti legislativi; dall’altra, all'attuazione della delega si sono sovrapposti plurimi interventi legislativi, per lo più in via d'urgenza, volti a privilegiare l'equilibrio dei conti pubblici e il coordinamento statale e a ridurre i trasferimenti statali che la legge 42 aveva previsto di trasformare in risorse autonome degli enti territoriali (c.d. fiscalizzazione dei trasferimenti erariali).
La Corte ha, in proposito, ritenuto che “nella perdurante inattuazione della legge n. 42 del 2009, che non può non tradursi in incompiuta attuazione dell’art. 119 Cost., l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa (sentenze n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011). Tali interventi si configurano infatti come «portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla attuale grave crisi economica nazionale e internazionale» (sentenza n. 121 del 2010), che ben possono essere ritenute giustificazioni sufficienti per legittimare l’intervento del legislatore statale limitativo della competenza legislativa residuale delle Regioni, (così le sentenze n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011, in materia di trasporto pubblico locale).
Sempre la Corte ha rilevato che “il mancato completamento della transizione ai costi e fabbisogni standard, funzionale ad assicurare gli obiettivi di servizio e il sistema di perequazione, non consente, a tutt’oggi, l’integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previsti dall’art. 119 Cost.” (sentenza n. 273/2013).
La Corte dunque “ha ben presente, al riguardo, il disposto dell’art. 119, quarto comma, Cost., secondo cui le funzioni attribuite alle Regioni sono finanziate integralmente dalle fonti di cui allo stesso art. 119 (tributi propri, compartecipazioni a tributi erariali e altre entrate proprie). Ritiene peraltro che, in mancanza di norme che attuino detto articolo […] l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso, oltre a rispondere ai richiamati principi di eguaglianza e solidarietà, riveste quei caratteri di straordinarietà, eccezionalità e urgenza conseguenti alla situazione di crisi internazionale economica e finanziaria” (sentenza n. 10/2010).
Si consideri poi che la citata legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio, ha delimitato in vario modo l'autonomia finanziaria degli enti territoriali, a partire dalla modifica dello stesso art. 119 e dallo spostamento della “armonizzazione dei bilanci pubblici” dall'ambito delle materie concorrenti a quello delle materie di competenza legislativa esclusiva statale.
Del resto, il richiamo al generale contesto di recessione economica è ripetuto in numerose sentenze degli ultimi anni, al fine di giustificare un’interpretazione estensiva delle competenze del legislatore nazionale.
Secondo la Corte, infatti, «la situazione eccezionale di crisi economico-sociale» non è priva di incidenza sul riparto costituzionale delle competenze, perché ha «ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare» la propria competenza legislativa esclusiva in nella materia “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (sentenza n. 62/2013).
Sempre in considerazione della difficile congiuntura economica, la Corte ha progressivamente ampliato gli ambiti di intervento del legislatore statale in un’altra materia “trasversale” come il coordinamento della finanza pubblica, avallando, nei fatti, le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli anche molto puntuali per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali (sentenze n. 23/2014 e n. 198/2012).
Un più ampio potere del legislatore statale è stato riconosciuto anche nei confronti delle regioni a statuto speciale, ritenendo la Corte che in un contesto di grave crisi economica il legislatore possa discostarsi dal modello consensualistico nella determinazione delle modalità del concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica (sentenze n. 23/2014 e n. 193/2012).
La disciplina del pareggio di bilancio
costituisce per le regioni e gli enti locali la nuova regola contabile - in
sostituzione del previgente patto di stabilità interno - mediante cui gli enti territoriali concorrono
alla sostenibilità delle finanze pubbliche.
La nuova regola contabile dell’equilibrio di
bilancio per regioni ed enti locali è
stata introdotta dalla legge n. 243
del 2012 che agli articoli da 9 a 12 ha dettato le
disposizioni per assicurare l'equilibrio dei bilanci delle regioni
e degli enti locali e il concorso dei medesimi enti alla sostenibilità del
debito pubblico, dando così attuazione, con riferimento agli enti
territoriali, a quanto previsto dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, che
ha introdotto nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio.
La nuova regola, la cui applicazione – dopo
essere stata anticipata al 2015 per le regioni, con alcune specificità poi
ridefinite dalla normativa poi emanata a regime - è stata prevista a decorrere dal 2016, viene così a sostituire da tale anno il patto
di stabilità interno, che nel corso del tempo aveva portato ad
addensamento normativo di regole complesse e frequentemente mutevoli.
Esso, va rammentato, aveva finora
costituito, fin dalla sua introduzione nel 1999, lo strumento mediante cui sono
stati stabiliti gli obiettivi ed i vincoli della gestione finanziaria di
regioni ed enti locali, ai fini della determinazione della misura del concorso
dei medesimi al rispetto degli impegni derivanti dall'appartenenza all'Unione
europea. L'impostazione del patto
di stabilità interno è stata incentrata fino al 2014 per le regioni sul principio del contenimento
delle spese finali
e, per gli enti locali
(fino al 2015), sul controllo dei saldi
finanziari. Per gli enti locali, il vincolo al miglioramento dei saldi è
risultato funzionale all'impegno di riconoscere agli enti territoriali una
maggiore autonomia tributaria, responsabilizzandoli nella gestione finanziaria
anche in relazione ai vincoli finanziari derivanti dalla partecipazione
dell'Italia all'Unione europea.
La sostituzione del patto di stabilità
interno con la disciplina del pareggio di bilancio, quale nuova regola
contabile per gli enti territoriali e quale modalità del concorso degli stessi alla sostenibilità delle finanze pubbliche, si è realizzata
mediante un percorso che:
§ è stato avviato con la legge di stabilità 2015, anticipando l’applicazione della normativa sul pareggio alle regioni a statuto ordinario ed alla Sardegna;
§ è poi proseguito con la legge di stabilità 2016 attraverso il definitivo superamento del patto e la individuazione di un unico saldo di equilibrio per il 2016;
§ è continuato con il consolidamento ad opera della legge n.164/2016 del nuovo saldo di equilibrio nel testo della legge 243/2012 ( nonché con altre modifiche attinenti ai rapporti finanziari tra Stato ed enti territoriali);
§ si è infine concluso con la messa regime da parte della legge di bilancio 2017 (legge n.232 del 2016) delle regole sul pareggio introdotte dalla precedente legge di stabilità.
Il
contenuto della nuova regola, che costituisce il modo mediante cui
regioni e province autonome, comuni, province e città metropolitane concorrono
al conseguimento dei saldi e degli
obiettivi di finanza pubblica, è dettato in particolare dal comma
466 della legge 232
del 2016 sopra citata, nel quale si stabilisce che
tali enti devono conseguire un saldo
non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali.
Per gli enti
territoriali la nuova golden
rule risulta radicalmente diversa rispetto al previgente patto di stabilità, che, come prima
rammentato, consiste nel raggiungimento di uno specifico obiettivo di saldo
finanziario, calcolato quale differenza tra entrate e spese finali - comprese
dunque le spese in conto capitale - espresso in termini di competenza mista
(criterio contabile che considera le entrate e le spese in termini di
competenza, per la parte corrente, e in termini di cassa per la parte degli investimenti,
al fine di rendere l'obiettivo del patto di stabilità interno più coerente con
le regole contabili europee). I complessi meccanismi del patto sono ora sostituiti da un vincolo
più lineare, costituito dal raggiungimento di un unico saldo.
Questo è l’elemento centrale della nuova
disciplina, ed il principale elemento migliorativo rispetto al patto. Ciò in
quanto il nuovo saldo obiettivo, mediante cui gli enti concorrono agli
obiettivi di finanza pubblica, deve essere “non negativo”, vale a dire posto –
come livello minimo - pari a zero, a differenza del saldo obiettivo del patto,
posto sempre su valori positivi (doveva essere cioè un avanzo) in ragione del
concorso alla finanza pubblica richiesto annualmente agli enti. Inoltre il
fatto che il saldo è richiesto solo in termini di competenza comporta il venir
meno del previgente vincolo per cassa ai pagamenti in conto capitale,
consentendosi in tal modo agli enti locali che hanno liquidità di poter
procedere ai pagamenti di conto capitale, favorendosi così gli investimenti.
La regola dell’equilibrio di bilancio è
accompagnata da una dettagliata disciplina circa gli obblighi in capo a regioni
ed enti locali al fine del monitoraggio degli adempimenti, venendo altresì
corredata da un articolato sistema sanzionatorio/premiale, da applicare,
rispettivamente, in caso di mancato conseguimento del saldo non negativo tra
entrate e spese finali ed in caso di rispetto del saldo in situazioni di
virtuosità; vengono altresì previste alcune disposizioni volte ad introdurre elementi di flessibilità
ai fini del conseguimento del saldo di equilibrio.
L’obbligo del concorso al conseguimento dei
saldi e degli obiettivi di finanza pubblica vige anche per le autonomie
speciali, ma in talune di esse –
vale a dire la Sardegna, e la Regione Siciliana e, dal 2017, anche la Valle d’Aosta – il
concorso è attuato mediante la regola del pareggio
di bilancio, mentre per la Regione Friuli-Venezia
Giulia, la Regione Trentino-Alto
Adige e le Province autonome di
Bolzano e di Trento, tale regola non si applica, e tali enti continuano ad
essere tenuti al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso
le regole del patto di stabilità
interno di cui alla legge di stabilità 2013 (L. n. 228/2012) modulato secondo
quanto concordato tra Stato e singola regione e provincia autonoma (per tale
aspetto si rinvia a quanto esposto più avanti nel paragrafo 5). Tuttavia per la
regione Trentino-Alto Adige e le
Province autonome di Bolzano e di Trento la disciplina del pareggio di bilancio si applicherà a decorrere dal 2018.
La Corte costituzionale si è più volte
espressa sulla nuova disciplina (anche qui si veda il paragrafo 5), con
riferimento principalmente ad impugnative relative alla legge rinforzata n. 243
del 2012. Impugnative che, va premesso, con la sentenza della Corte n. 88 del 2014 sono state ritenute ammissibili
in ragione della circostanza che la legge suddetta, pur essendo da considerarsi
rinforzata in ragione della particolare maggioranza richiesta per la sua
approvazione, non differisce dal rango di legge ordinaria attuativa della legge
costituzionale.
Nella sentenza la Corte si è espressa diffusamente sulla disciplina del pareggio,
rilevando in premessa come il nuovo sistema di finanza pubblica disegnato dalla
legge cost. n. 1 del 2012 abbia una sua interna coerenza ed una sua
completezza. In essa, inoltre, si ritiene complessivamente che l’insieme delle
disposizioni da essa recate fa sì che la nuova disciplina debba essere
considerata non solo espressione della competenza esclusiva statale di
armonizzazione dei bilanci pubblici, ma altresì dei principi fondamentali di
coordinamento della finanza pubblica connessi con la salvaguardia degli
equilibri di bilancio. Tale riforma impone pertanto vincoli non solo allo Stato ma anche a tutte le amministrazioni pubbliche che concorrono al bilancio
consolidato, nel rispetto degli impegni presi in sede europea, e quindi poggia
anche sui principi costituzionali di solidarietà ed uguaglianza. Unitamente a
quelli di unitarietà dell’ordinamento i principi
in questione, da sempre sottesi alla disciplina della finanza pubblica, si sono con la legge 243 rafforzati e,
su questo assunto, la pronuncia ha ritenuto non trovassero riscontro alcune
censure avanzate circa la lesione dell’autonomia finanziaria e del principio di
leale collaborazione, poiché i limiti all’indebitamente ( di cui in particolare
all’articolo 10 della legge) trovano applicazione
ni confronti di tutte le autonomie, ivi comprese le speciali, senza
necessità di concertazione.
Nondimeno, in
tale quadro la Corte ha rilevato come il rinvio
ad una fonte secondaria contenuto nel suddetto articolo (vale a dire
l’emanazione di un DPCM previa intesa con la Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica) può dirsi conforme a Costituzione soltanto
se ad essa si demanda per la disciplina di aspetti meramente “tecnici”,
motivo per il quale la norma della legge di attuazione è incostituzionale nella
parte in cui non prevede che i criteri e le modalità per l’attuazione abbiano
esclusivamente natura “tecnica”.
Con riferimento poi ad una altra disposizione
della legge (articolo 12, comma 3) la Corte ha dichiarato violato il principio di leale collaborazione nella parte in cui si prevede
che, nelle fasi favorevoli del ciclo economico, un D.P.C.M. determini il
contributo di Regioni e di enti locali al Fondo di ammortamento per i titoli di
Stato, sentita la Conferenza per il
coordinamento della finanza pubblica. Secondo
la Corte, «considerate l’entità
del sacrificio imposto e la delicatezza del compito cui la Conferenza è
chiamata», l’adozione del decreto dovrebbe fare seguito ad un’intesa e non essere
meramente successiva all’ottenimento di un parere non vincolante. A
dover essere coinvolta è poi la Conferenza unificata e non la Conferenza per il
coordinamento della finanza pubblica, dal momento che occorre «garantire a tutti gli enti territoriali la
possibilità di collaborare alla fase decisionale».
Nella stessa sentenza, la Corte ha preso
posizione a fronte della tesi della difesa erariale, secondo cui la riforma
costituzionale avrebbe introdotto una nuova competenza esclusiva dello Stato, atta a giustificare l’intero
raggio dell’intervento operato con la legge n. 243 del 2012. La Corte ha
infatti sottolineato che “l’unica nuova competenza esclusiva dello Stato,
invocata dalla difesa dello Stato, è quella dell’armonizzazione dei bilanci
pubblici, che sino alla modifica operata con la legge cost.
n. 1 del 2012 si presentava in «endiadi» (sentenza
n. 17 del 2004) con il coordinamento della finanza
pubblica.
Essa, tuttavia, non può essere interpretata
così estensivamente da coprire l’intero ambito materiale regolato dalla legge
n. 243 del 2012: basti a tal fine considerare che la disciplina
dell’indebitamento delle autonomie territoriali, qui pure all’esame, è stata da
questa Corte ricondotta al coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284
del 2009, n. 285
del 2007, n. 320
del 2004, n. 376
del 2003), pur sottolineandosi come sia
«inscindibilmente connessa» alla «salvaguardia degli equilibri di bilancio» (sentenza
n. 70 del 2012).
Altro deve essere dunque l’approccio per
definire la natura e la portata dei princìpi di equilibrio di bilancio e di
sostenibilità del debito pubblico, pure invocati a sostegno della sua tesi
dalla difesa erariale. Come già affermato da questa Corte nel caso analogo del divieto di indebitamento se non per spese
di investimento (art. 119, sesto comma, Cost.),
questo tipo di disposizioni enunciano «un vincolo […] di carattere generale» (sentenza
n. 245 del 2004) a cui deve soggiacere la finanza pubblica.
A differenza del caso precedente, questa
volta il legislatore costituzionale non si è limitato a fissare principi
generali, lasciando così all’interprete la ricerca dei presupposti giustificativi
della disciplina statale attuativa (rinvenuti dalla sentenza citata nell’art. 5
Cost. e nella competenza concorrente del
coordinamento della finanza pubblica), ma ha puntualmente disciplinato sia la
fonte – la legge rinforzata − sia i suoi contenuti.
Il nuovo sistema di finanza pubblica
disegnato dalla legge cost. n. 1 del 2012 ha dunque
una sua interna coerenza e una sua completezza, ed è pertanto solo alla sua
stregua che vanno vagliate le questioni di costituzionalità sollevate nei
confronti della legge.
L'autonomia finanziaria degli enti
territoriali sancita e protetta dall'art. 119, primo comma, della Costituzione
riguarda non solo l'entrata, ma anche la spesa.
La disciplina statale di taluni, assai rilevanti,
profili di spesa degli enti territoriali si è presto confrontata in sede
giurisdizionale con il dettato costituzionale, sia in riferimento all'art. 117 Cost. sul riparto delle competenze, sia in riferimento
all'art. 119 Cost. che protegge, appunto,
l'"autonomia finanziaria... di spesa".
Tuttavia, in questo ambito, non è emersa una
questione di "attuazione" dell'art. 119, così come è emersa per i
profili di entrata. Le disposizioni statali sono risultate non solo
immediatamente operative, ma talmente stringenti nei confronti delle autonomie
territoriali che l'alimentazione - per questa via - del contenzioso costituzionale
è stato fenomeno assai rilevante.
Il terreno di confronto tra autonomie
territoriali e Stato sui profili di spesa è stato dapprima il "Patto di
stabilità interno" e a decorrere dall'anno 2015, per le regioni a statuto
ordinario, e dall'anno 2016, per gli enti locali, il "Pareggio di
bilancio", ovvero lo strumento attraverso cui lo Stato chiama - nelle
leggi di bilancio annuali (ancor prima nelle leggi finanziarie e di stabilità)
e non solo - il sistema delle territorialità a concorrere al rispetto degli obblighi
di carattere finanziario assunti in sede comunitaria. Poiché le Regioni, dal
punto di vista quantitativo, sono coinvolte soprattutto per i profili di spesa
sanitaria, questo ambito è divenuto oggetto di una disciplina a sé (cfr. par. 4.2).
Poiché la disciplina restrittiva ha riguardato
in diverse occasioni anche le spese, e non i saldi di bilancio, la Corte è stata
chiamata a valutare la compatibilità costituzionale di questo specifico
indirizzo normativo.
Al riguardo, è lo stesso giudice delle leggi a
definire "consolidato" (sentenza n. 169/2007) l’orientamento per il
quale il legislatore statale, con una «disciplina di principio», può legittimamente
«imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad
obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle
politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni
indirette all’autonomia di spesa degli enti» (sentenze n. 417/2005, n. 36/2004,
n. 376/2003, n. 4/2004, n. 237/2009, n. 207/2010, n. 182/2011, n. 151/2012, n.
193/2012, n. 236/2013, n. 43/2016). L’incidenza dei principi statali di
coordinamento è legittima, sia sull’autonomia di spesa delle Regioni (sentenze
n. 91 del 2011, n. 27 del 2010, n. 456 e n. 244 del 2005), sia su ogni tipo di
potestà legislativa regionale (sentenza n. 151 del 2012). Quindi, la
compressione della autonomia di spesa delle Regioni (sentenze n. 159/2008, n.
169/2007, n. 162/2007, n. 353/2006 e n. 36/2004, n. 39/2014, n. 65/2016 n.
141/2016) può colpire anche le materie di loro competenza.
Perché detti vincoli possano considerarsi rispettosi
dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali, tuttavia, essi debbono
riguardare l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo «in via transitoria
ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica
perseguiti dal legislatore statale» – la crescita della spesa corrente degli enti
autonomi. In altri termini, La legge statale può stabilire solo un «limite
complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse
fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenze n. 88/2006, n. 449/2005,
n. 417/2005 e n. 36/2004, n. 169/2007, n. 289/2008, n. 297/2009, n. 182/2011,
n. 139/2012, n. 217/2012, n. 22/2014, n. 43/2016). In altri termini, lo Stato
può agire direttamente sulla spesa delle proprie amministrazioni con norme
puntuali e, al contempo, dichiarare che le stesse norme sono efficaci nei
confronti delle Regioni "a condizione di permettere l'estrapolazione,
dalle singole disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto
all'esercizio dell'autonomia regionale" (sentenze n. 182/2011, n.
139/2012). Così la Corte (soprattutto, la sentenza n. 139 e la n. 211 del
2012), modificando il precedente orientamento più favorevole alle autonomie
territoriali, ha stabilito il principio che la norma statale che fissa
l’obbligo di ridurre le spese per una certa percentuale (nella specie, del 10%
delle spese per il personale) non è di dettaglio, ma costituisce un principio
fondamentale di coordinamento; in tal modo la Corte ha dato sì
un’interpretazione restrittiva dell’autonomia finanziaria di tali enti, ma ha
pur sempre ribadito in linea generale l’esistenza di una tale autonomia.
In sostanza, norme statali che fissano limiti
alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi princípi fondamentali di coordinamento della finanza
pubblica, se soddisfano i seguenti requisiti (vedi, in tal senso, le sentenze
n. 120/2008, n. 412/2007, n. 169/2007 e n. 88/2006, n. 237/2009, n. 284/2009,
n. 326/2010, n. 232/2011, n. 148/2012; n. 193/2012, n. 217/2012, n. 79/2014, n.
64/2016):
§ in primo luogo, si limitino a porre obiettivi
di riequilibrio della finanza pubblica, intesi anche nel senso di un
transitorio contenimento complessivo, sebbene non generale, della spesa
corrente;
§ in secondo luogo, non prevedano strumenti o
modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi.
La Corte ha ripetutamente ritenuto principio
fondamentale della materia del coordinamento della finanza pubblica e non
normativa di dettaglio norme statali recanti misure che incidono
transitoriamente su un rilevante aggregato della spesa pubblica anche se non
riguardante la generalità della spesa corrente ( sentenze n. 202/2016, n.
169/2007).
La Corte ha specificato inoltre che il
costante ricorso alla tecnica normativa dell’estensione dell’ambito temporale
di precedenti manovre, mediante aggiunta di un’ulteriore annualità a quelle
originariamente previste, finisce per porsi in contrasto con il canone della
transitorietà, se indefinitamente ripetuto. Il ricorso a tale tecnica normativa
potrebbe, infatti, prestare al canone della transitorietà un ossequio solo
formale, in assenza di plausibili e riconoscibili ragioni che impediscano in
concreto al legislatore di ridefinire e rinnovare complessivamente, secondo le
ordinarie scansioni temporali dei cicli di bilancio, il quadro delle relazioni
finanziarie tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, alla luce di mutamenti
sopravvenuti nella situazione economica del Paese (Sentenza n. 141/2016).
Emerge dunque l'esigenza di dedurre dalla trama normativa un termine finale che
consenta di assicurare la natura transitoria delle misure previste e, allo
stesso tempo, di non stravolgere gli equilibri della finanza pubblica, specie
in relazione all’anno finanziario in corso (sentenze n. 193 del 2012, n.
79/2014).
Particolare interesse riveste pure la
sentenza n. 188 del 2015, nella quale la Corte affronta le riduzioni di spese
dal punto di vista quantitativo per arrivare a dichiararne l'incostituzionalità
proprio a causa dell'eccessiva entità che si pone in contrasto con l'articolo
119, primo e quinto comma della Costituzione, nella misura in cui non consente
di finanziare le funzioni attribuite[1].
Parimenti in tal caso secondo i giudici risultano violati i canoni della
ragionevolezza e il principio del buon andamento di cui all'articolo 97 Cost. Tale indirizzo è stato poi confermato dalla sentenza
10/2016.
Per la posizione delle Autonomie speciali -
legittimamente incluse dalla disciplina statale nel quadro della
corresponsabilità territoriale finanziaria - si rinvia al cap. 5.
Di rilievo si presenta la definizione,
contenuta nella sentenza n. 414/2004,
dell' "armonizzazione dei
bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica". La Corte ha
ritenuto che essa si configura non tanto quale “materia” in senso proprio,
quanto piuttosto come “competenza
funzionale”, alla stregua di altri ambiti di legislazione concorrente (es.
ambiente), in quanto non individua propriamente oggetti, bensì peculiari e
strategiche finalità in vista delle quali la potestà legislativa statale,
trova, di volta in volta, il proprio fondamento costituzionale, a garanzia
dell'equilibrio finanziario complessivo della Repubblica, pur salvaguardando il
margine di autonomia delle diverse componenti in cui essa si articola.
L'incidenza del "coordinamento
finanziario" è evidente: lo testimonia anche la sentenza n. 120/2008, dove si rileva che il necessario concorso
delle Regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza
pubblica, adottati con l’adesione al patto di stabilità, postula che il
legislatore statale possa intervenire (nel caso di specie: sui coefficienti di
riduzione della spesa già definiti, qualora lo richieda il complessivo
andamento del disavanzo dei conti pubblici) con il solo limite della palese
arbitrarietà e della manifesta irragionevolezza della variazione.
Tale rilevante peso del "coordinamento
della finanza pubblica" ha reso necessario circostanziare attentamente la
nozione: con la sentenza n. 169/2007
è stato affermato che, per qualificare la disposizione denunciata quale
principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, occorre
verificare la sussistenza dei requisiti di esclusiva attinenza dell'intervento
legislativo statale all'equilibrio di finanza pubblica e in secondo luogo del
rispetto dell'autonomia degli enti territoriali.
La lettura
“finalistica” del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 4/2004,
n. 17/2004, n. 36/2004 e n. 37/2004) da una parte, ed il riferimento agli
impegni comunitari dall’altra, hanno costituito due argini piuttosto robusti
ove far operare i diversi vincoli imposti, per lo più dalle diverse leggi
finanziarie annuali, alle autonomie territoriali nell’ambito del c.d. “patto di
stabilità interno” prima e del pareggio di bilancio poi.
Da una parte,
dunque, la Corte (sentenze n. 376/2003, n. 260/2004, n. 35/2005 e n. 417/2005)
ha sottolineato il rilievo della natura e del carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento (v. anche
sentenza n. 36/2004), che può comportare la previsione a livello centrale non
solo delle norme fondamentali, ma altresì di poteri puntuali eventualmente
necessari perché la finalità di coordinamento, per sua natura eccedente le
possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali, possa essere concretamente
realizzata.
Al criterio finalistico del coordinamento
della finanza pubblica – anche nei confronti di ambiti riservati agli statuti
regionali - può essere ricondotta anche la sentenza n. 35/2014.
Infatti, in tale sentenza la Corte costituzionale
ha dichiarato la illegittimità costituzionale della delibera legislativa
statutaria della Regione Calabria «Riduzione del numero dei componenti del
Consiglio regionale e dei componenti della Giunta regionale. Modifiche alla
legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 “Statuto della Regione Calabria”», in
quanto non conforme all’’art 14, comma 1, del D.L. n. 138 del 2011 che
stabilisce, tra le varie misure, quella della riduzione del numero dei
consiglieri e assessori regionali, commisurato alla popolazione di ciascuna
Regione, al fine del contenimento della spesa pubblica, disponendo che le
Regioni adeguano, nell’esercizio dell’autonomia statutaria e legislativa, i
rispettivi ordinamenti ad alcuni parametri.
“Tale disposizione, come già rilevato da
questa Corte, detta un principio di coordinamento della finanza pubblica
(sentenze n. 23
del 2014, n. 198
del 2012; ordinanze n. 258 e n. 31
del 2013) e «non vìola gli artt. 117, 122 e 123 Cost., in quanto, nel quadro della finalità generale del
contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di
eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati» (sentenza
n. 198 del 2012). In particolare, la norma statale «fissando
un rapporto tra il numero degli abitanti e quello dei consiglieri, e quindi tra
elettori ed eletti (nonché tra abitanti, consiglieri e assessori), mira a
garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il
diritto di essere egualmente rappresentati. In assenza di criteri posti dal
legislatore statale, che regolino la composizione degli organi regionali, può
verificarsi – come avviene attualmente in alcune Regioni, sia nell’ambito dei
Consigli che delle Giunte regionali – una marcata diseguaglianza nel rapporto
elettori-eletti (e in quello elettori-assessori): i seggi (nel Consiglio e
nella Giunta) sono ragguagliati in misura differente alla popolazione e,
quindi, il valore del voto degli elettori (e quello di scelta degli assessori)
risulta diversamente ponderato da Regione a Regione» (sentenza
n. 198 del 2012). Inoltre, «[…] il principio relativo
all’equilibrio rappresentati-rappresentanti non riguarda solo il rapporto tra
elettori ed eletti, ma anche quello tra elettori e assessori (questi ultimi
nominati) […] sia perché, in base all’art. 123 Cost.,
“forma di governo” e “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento”
debbono essere “in armonia con la Costituzione”, sia perché l’art. 51 Cost. subordina al rispetto delle “condizioni di
eguaglianza” l’accesso non solo alle “cariche elettive”, ma anche agli “uffici
pubblici” (non elettivi)» (sentenza
n. 198 del 2012)”.
L’art. 1 della delibera legislativa
statutaria impugnata è in contrasto, per la Corte, con la lettera a) del comma
1 del citato art. 14 del decreto-legge 138, nella parte in cui sostituisce il
numero «50» consiglieri regionali con quello di «40», anziché con quello di
«30»; il successivo art. 2 è in contrasto con la lettera b) del medesimo comma
1, nella parte in cui prevede «un numero di Assessori non superiore a otto»
anziché «un numero di Assessori non superiore a sei». Per la Corte le
disposizioni censurate, dunque, ledono i principi di coordinamento della
finanza pubblica stabiliti dal citato art. 14 del D.L. n. 138 del 2011, con
conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.”.
D’altra parte,
tuttavia, il giudice delle leggi non ha mancato di sottolineare l’illegittimità di norme statali che non possono essere considerate principi
fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica: ponendo un
precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa, norme siffatte sono una
indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 Cost.
alle autonomie territoriali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad
esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio
gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi: misure
analitiche comprimono illegittimamente l’autonomia finanziaria, ed esorbitano
dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia (sentenze
n. 159/2008, n. 169/2007, n. 157/2007, n. 121/2007, n. 36/2004, n. 390/2004, n.
417/2005 n. 449/2005, n. 88/2006 e n. 95/2007).
Il principio
di leale collaborazione esercita naturalmente un'innegabile influenza anche
nel descritto ambito, come in via generale nel complesso dei rapporti
Stato-Regioni (cfr. n. 121/2007).
Particolare importanza riveste la sentenza n. 88 del 2014 che ha
censurato una norma della legge di attuazione del pareggio di bilancio, n. 243
del 2012 proprio per violazione del principio citato, perché prevedeva
l'adozione di un DPCM di riparto del contributo richiesto alle regioni per la
riduzione del debito del complesso delle amministrazioni pubbliche soltanto
previo parere della Conferenza
permanente per il coordinamento della finanza pubblica. Invece, "è
necessario, in primo luogo, che il procedimento si svolga nell’ambito non della
Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, bensì della
Conferenza unificata, in modo da garantire a tutti gli enti territoriali la
possibilità di collaborare alla fase decisionale. Ed è anche necessario che tale collaborazione
assuma la forma dell’intesa,
considerate l’entità del sacrificio imposto e la delicatezza del compito cui la
Conferenza è chiamata."
A quest’ultimo proposito, la Corte osserva
che "ciò non compromette la funzionalità del sistema: questo modulo
partecipativo, infatti, non comporta il rischio di uno stallo decisionale,
poiché in caso di dissenso, fatta salva la necessaria adozione di «idonee
procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze»
(sentenze n. 179
del 2012, n. 121
del 2010, n. 24
del 2007 e n. 339
del 2005), la determinazione finale può essere
adottata dallo Stato (sentenze n. 239
del 2013, n. 179
del 2012, n. 165 e n. 33
del 2011)."
Di recente, la sentenza n. 129/2016 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6, del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95[2] nella
parte in cui non prevedeva, nel procedimento di determinazione delle riduzioni
del Fondo sperimentale di riequilibrio da applicare a ciascun Comune nell’anno
2013, alcuna forma di coinvolgimento
degli enti interessati, né l’indicazione di un termine per l’adozione del
decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’interno.
Secondo i giudici delle leggi, il ricorso al
criterio delle spese sostenute per consumi intermedi come parametro per la
quantificazione delle riduzioni da imputare a ciascun comune presenta elementi
di ambiguità dato che "nella
nozione di «consumi intermedi» possono rientrare non solo le spese di
funzionamento dell’apparato amministrativo – ciò che permetterebbe al criterio
utilizzato di colpire le inefficienze dell’amministrazione e di innescare
virtuosi comportamenti di risparmio -, ma, altresì, le spese sostenute per
l’erogazione di servizi ai cittadini. Si tratta, dunque, di un criterio che si
presta a far gravare i sacrifici economici in misura maggiore sulle
amministrazioni che erogano più servizi, a prescindere dalla loro virtuosità
nell’impiego delle risorse finanziarie." "Si deve ritenere che il
ricorso al criterio delle spese sostenute per i consumi intermedi come
parametro per la quantificazione delle riduzioni delle risorse da imputare a
ciascun Comune possa trovare giustificazione solo se affiancato a procedure
idonee a favorire la collaborazione con gli enti coinvolti e a correggerne
eventuali effetti irragionevoli. Il criterio delle spese sostenute per i
consumi intermedi non è dunque illegittimo in sé e per sé; la sua illegittimità
deriva dall’essere parametro utilizzato in via principale anziché in via
sussidiaria, vale a dire solo dopo infruttuosi tentativi di coinvolgimento
degli enti interessati attraverso procedure concertate o in ambiti che
consentano la realizzazione di altre forme di cooperazione.
La sentenza
n. 211/2016, analogamente, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di
stabilità 2015), nella parte in cui prevede che le modalità di attuazione dei
commi da 223 a 227 e la ripartizione delle risorse su base regionale siano
stabilite con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, adottato “sentita” la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, anziché “d’intesa” con la Conferenza stessa.
La Corte ha pure rilevato (sentenze n. 121/2007 e n. 376/2003) che il coordinamento
finanziario può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine
amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo.
Su questo terreno ha inciso anche la riforma
costituzionale del 2012, la quale - oltre ad avere trasferito nella
competenza esclusiva dello Stato l'armonizzazione dei bilanci pubblici - ha
previsto all'articolo 97 che (tutte) "le pubbliche amministrazioni, in
coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei
bilanci e la sostenibilità del debito pubblico". Inoltre, l'autonomia
finanziaria di entrata e di spesa, sancita dall'articolo 119, è ora soggetta al
"rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci" e al concorso "ad
assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti
dall'ordinamento dell'Unione europea".
Più recentemente, sembrano delinearsi due diverse concezioni di coordinamento
della finanza pubblica. La prima, di
segno “negativo”, comprensiva degli interventi statali volti al contenimento
(purché transitorio) della spesa pubblica, la
seconda – così come individuata nella sentenza in commento – che potremmo
definire “positiva” o “virtuosa” in quanto funzionale al miglioramento
complessivo del sistema economico.
Nella sentenza
n. 272/2015, la Corte precisa che «la materia del coordinamento della
finanza pubblica, infatti, non può essere limitata alle norme aventi lo
scopo di limitare la spesa, ma comprende anche quelle aventi la funzione di “riorientare” la spesa pubblica (come nel caso dell’art. 41,
comma 2, del D.L. n. 66 del 2014), per una complessiva maggiore efficienza del
sistema». La Corte, riconoscendo alla previsione impugnata «lo scopo di
incentivare una più corretta gestione della spesa pubblica, nell’interesse
delle imprese ma anche del sistema complessivo pubblico-privato», riconduce la
disposizione al «principio di coordinamento della finanza pubblica, sia nella
parte in cui fissa i termini, sia nella parte in cui stabilisce la sanzione»[3].
Questa concezione particolare del
coordinamento finanziario emerge in altre pronunce della Corte costituzionale.
Nella sentenza
n. 8 del 2013 la Corte «ha giustificato una norma statale che introduceva
una misura premiale (concernente il rispetto del patto di stabilità) a favore
delle regioni che sviluppavano «adeguate politiche di crescita economica»
(nella specie, attuazione dei principi di liberalizzazione delle attività
economiche), rilevando che la crescita economica giova anche alla finanza
pubblica».
Nella sentenza
n. 38 del 2016 la Corte legittima un
coordinamento finanziario di estremo dettaglio, nelle forme
dell'imposizione di un vincolo di destinazione per le dismissioni immobiliari,
in ragione della finalità del medesimo, volta a un programma straordinario di
realizzazione o di acquisto di nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica
e di manutenzione straordinaria del patrimonio esistente. Il vincolo di
destinazione va inteso «come l’espressione di un principio fondamentale nella
materia del “coordinamento della finanza pubblica”, con il quale il legislatore
statale ha inteso stabilire una regola generale di uso uniforme delle risorse
disponibili provenienti dalle alienazioni immobiliari». Il finalismo insito in
tale genere di disposizioni esclude che possa invocarsi la logica della norma
di dettaglio, a fronte della ricostruzione finalistica del coordinamento.
A tale concezione del coordinamento sembra
ricollegabile anche la recente sentenza
n. 69 del 2016 la quale riconduce la norma impugnata dalla Regione Veneto -
l’art. 4, commi 1, 2, 3, 4 e 9, del D.L. n. 133 del 2014, cd. Sblocca Italia –
all’ambito di competenza del coordinamento della finanza pubblica in quanto
diretta «[al] recupero di risorse allo stato inutilizzate e [di] stimolo
alla ripresa dell’economia e dell’occupazione in un momento di particolare
difficoltà per il Paese»[4].
I pronunciamenti formulati negli ultimi anni
dalla Corte Costituzionale, in tema di controlli sulla finanza pubblica degli
enti territoriali, hanno registrato il rafforzamento dell'indirizzo assunto nel
primo decennio del nuovo secolo volto al riconoscimento della legittimità degli
interventi dallo Stato a carico degli enti decentrati, sin da allora in una
visione di governo unitario della finanza pubblica.
La Corte ha ripetutamente riconosciuto la
legittimità di leggi statali intese ad acquisire dalle Regioni dati utili,
anche nella prospettiva del coordinamento della finanza pubblica (sentenza
n. 376 del 2003; in seguito, sentenze
n. 36 del 2004; n. 35
del 2005), ed in particolare in rapporto alle
attribuzioni della Corte dei conti (sentenze
n. 57 del 2010; n. 417
del 2005; n. 64
del 2005). Detta impostazione era peraltro
rinvenibile anche nelle sentenze n. 82/2007 e n. 190/2008, in cui il tema della
legittimità del controllo statale sulla finanza pubblica decentrata, veniva
però risolto in un'ottica di mero "coordinamento informativo" (in part., sentenza n. 417/2005).
Con la sentenza n. 60/2013, la Corte ha poi affermato la legittimità
dell’art. 1, commi da 166 a 172, della
legge n. 266 del 2005 e dell’art. 148-bis del d.lgs. n. 267 del 2000, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera e), del d. l. n. 174 del 2012, i quali hanno
istituito ulteriori tipologie di controllo della Corte dei Conti, estese alla
generalità degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale,
ascrivibili a controlli di natura preventiva finalizzati ad evitare danni
irreparabili all’equilibrio di bilancio. È stato in quella sede
affermato che detti controlli non sono lesivi dell’autonomia regionale ed in
particolare di quella delle Regioni a statuto speciale e delle province
autonome in quanto si collocano su un piano distinto rispetto ai controlli
disciplinati dalle fonti “speciali” di autonomia, «almeno per quel che riguarda gli esiti del controllo spettante alla
Corte dei conti sulla legittimità e la regolarità dei conti».
La sentenza n. 219 del 2013 ha dichiarato tra
l'altro l'incostituzionalità delle verifiche ispettive della Ragioneria dello
Stato previste dall'articolo 5 del d.lgs. 149/2011 affermando che "la
disposizione impugnata eccede i confini circoscritti alla trasmissione da parte
degli uffici regionali delle notizie ritenute sensibili, per attribuire non al
giudice contabile, ma direttamente al Governo un potere di verifica sull’intero
spettro delle attività amministrative e finanziarie della Regione, nel caso di
squilibrio finanziario, per mezzo dei propri servizi ispettivi. Il grado e la
rilevanza costituzionale dell’autonomia politica della Regione si misura anche
sul terreno della sottrazione dei propri organi e dei propri uffici ad un
generale potere di sorveglianza da parte del Governo" "Tale assetto
normativo eccede i limiti propri dei principi di coordinamento della finanza
pubblica, e si ripercuote sulla competenza legislativa regionale in materia di
organizzazione degli uffici"
"Naturalmente, non possono escludersi
casi specifici in cui gli interessi costituzionali sollecitati dalla
fattispecie si coagulano intorno ad un nucleo di competenze, la cui titolarità
spetta esclusivamente allo Stato. Per tali ipotesi, non è contestabile la
legittimità costituzionale di una disciplina che protegga simili interessi,
attribuendo poteri ispettivi e di vigilanza ad organi statali (sentenze
n. 159 del 2008; n. 97
del 2001; n. 452
del 1989; n. 29
del 1995; n. 219
del 1984)"
Con la sentenza n. 39/2014 la Corte
costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale il D.L. n. 174 del
2012 che aveva esteso i controlli della Corte dei Conti alle regioni.
In particolare, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della norma che pone l’obbligo per la Regione (ordinaria e
speciale) di adottare, con legge, «i provvedimenti idonei a rimuovere le
irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio», a seguito delle
pronunce di accertamento delle Sezioni regionali della Corte dei Conti e che
dispone la preclusione, in caso di omessa adozione dei provvedimenti di
regolarizzazione o verifica negativa dei medesimi da parte della Corte,
dell’«attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la
mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria»,
con conseguente inefficacia delle leggi regionali in base alle quali dovevano
essere realizzati i programmi di spesa la cui attuazione è interdetta, per
violazione dell’autonomia politico-legislativa della Regione e dell’unicità
della giurisdizione costituzionale.
A parte queste censure, il giudice costituzionale
considera i controlli della Corte dei conti sulla gestione
economico-finanziaria degli enti territoriali funzionali al rispetto degli
obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea e dal patto di
stabilità interno e li riconduce alla materia concorrente «armonizzazione dei
bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica». Essi non impingono nella discrezionalità propria della particolare
autonomia di cui sono dotati gli enti territoriali destinatari, ma sono mirati
unicamente a garantire la sana gestione finanziaria, prevenendo o contrastando
pratiche non conformi ai richiamati principi costituzionali «l’equilibrio dei
bilanci e la sostenibilità del debito» del «complesso delle pubbliche
amministrazioni» e garantire il rispetto del vincolo «in materia di
indebitamento posto dall’ultimo comma dell’art. 119 Cost.»
«l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità
economica della Repubblica», compendiato negli artt. 81, 97, 100 e 119 Cost., è la causa, ragione soggettiva e funzione oggettiva
al contempo, di tali controlli e la giustificazione «naturale» della
compressione degli spazi delle competenze legislative ed amministrative delle
autonomie. Unica condizione di legittimità costituzionale della congerie di
controlli attribuiti alla Corte dei conti dalla legislazione statale è, per la
Corte costituzionale, la «natura collaborativa» che ricorre se il controllo
consente «valutazioni politiche del massimo organo rappresentativo della
Regione, anche nella prospettiva dell’attivazione di processi di
«autocorrezione» nell’esercizio delle funzioni legislative e amministrative» e
non implica «di per sé, alcuna coercizione dell’attività dell’ente sottoposto a
controllo».
Con la sentenza 130/2014 la Corte ha dichiarato
invece legittimo il controllo della Corte dei Conti sui rendiconti dei gruppi
consiliari, rilevando che tale controllo ha natura prevalentemente formale e
documentale, senza poter addentrarsi nelle scelte discrezionali rimesse
all'autonomia politica dei gruppi.
La manovra di finanza pubblica nel quadro finanziario Stato - regioni
ed enti locali
Il
riferimento costituzionale per la regolazione dei rapporti finanziari tra lo
Stato e gli altri enti territoriali è rappresentato dall’articolo 119 della
Costituzione, che attribuisce agli enti territoriali autonomia finanziaria di
entrata e di spesa, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, nel rispetto
dell'equilibrio dei relativi bilanci e dei vincoli economici e finanziari
derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea.
Accanto
ai principi del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario,
l’art. 119 Cost. introduce il principio della
necessaria correlazione tra funzioni e risorse attribuite a ciascun ente
territoriale (art. 119, quarto comma); il carattere integrativo e complementare
– rispetto ai tributi propri e alle compartecipazioni al gettito di tributi
erariali – del fondo perequativo (art. 119, terzo comma), ai fini del
finanziamento integrale delle funzioni; i principi di coesione e di solidarietà
sociale (art. 119, quinto comma); il carattere sussidiario delle risorse
aggiuntive e degli interventi speciali di cui all’art. 119, quinto comma,
finalizzati a costituire ulteriore (anche se straordinaria) garanzia rispetto
alla rimozione degli squilibri territoriali.
Dal
complesso dei mezzi di finanziamento così istituiti discende che ciascun ente territoriale è chiamato all’autosufficienza finanziaria per l’esercizio delle
funzioni ad esso affidate, mediante: tributi propri, compartecipazioni al
gettito di tributi erariali, secondo il criterio della territorialità
dell’imposta, e risorse derivanti dal fondo perequativo. Queste tre fonti di
entrata devono soddisfare il fabbisogno dell’ente, secondo il principio del
finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali e delle funzioni fondamentali degli enti locali,
idoneo ad assicurare la necessaria correlazione
tra funzioni e risorse (ad esempio: sentenze
n. 22/2012; n. 82/2012, n. 188/2015;
n. 151/2016).
Le risorse aggiuntive e gli interventi
speciali previsti dall’art. 119, quinto comma, Cost.
per tutti i livelli territoriali di governo, costituiscono risorse
straordinarie finalizzate alla promozione dello sviluppo economico, della
coesione e della solidarietà sociale e si configurano quali interventi di
carattere ulteriore rispetto all’ordinario sistema di finanziamento delle
funzioni.
In proposito, la Corte Costituzionale si è espressa con una consolidata giurisprudenza (in tempi recenti con sentenza n. 273 del 2013), asserendo che il legislatore statale non può porsi in contrasto con i criteri e i limiti che presiedono all’attuale sistema di autonomia finanziaria regionale delineato dall’art. 119 della Costituzione: criteri che non consentono finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale, per cui nell’ambito del Titolo V della Carta non è concesso allo Stato, di norma, prevedere propri finanziamenti in ambiti di competenza delle Regioni, né istituire fondi settoriali di finanziamento delle attività regionali. Tuttavia, nella perdurante situazione di mancata attuazione delle prescrizioni costituzionali in tema di garanzia dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni e degli enti locali, l’intervento dello Stato è ammissibile nei casi in cui risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa. Sulla base di quanto asserito dalla Corte, tali fattispecie di intervento, assieme al Fondo perequativo da istituire senza vincoli di destinazione, che deve essere indirizzato ai soli territori con minore capacità fiscale per abitante, costituiscono le uniche tipologie di finanziamento statale coerenti con il quadro costituzionale vigente.
Sull’equilibrio
tra risorse disponibili e finanziamento integrale delle funzioni pubbliche si
ripercuotono inevitabilmente gli effetti delle manovre di finanza pubblica, definite con l'intervento legislativo
dello Stato, che comportano una forte compressione delle risorse a disposizione
degli enti territoriali, per effetto dei tagli connessi alla revisione della
spesa o al concorso alla finanza pubblica.
Le
numerose misure che, a vario titolo, impongono agli enti territoriali vincoli e
limiti al governo dei conti pubblici hanno alimentato un forte contenzioso costituzionale.
Il
provvedimento che segna l’incremento di tale contenzioso costituzionale è il
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), il primo di una
serie di decreti-legge c.d. anticrisi intervenuti, a
più riprese, in materia di governo dei conti pubblici, che hanno inciso
sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali, determinando, di fatto, un
forte accentramento, rispetto al passato, delle decisioni di finanza pubblica,
a fronte dei vincoli posti dal diritto dell’Unione europea e dal c.d. Fiscal
Compact.
Il
contributo finanziario degli enti territoriali al raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica è stato nel tempo assicurato sia attraverso
misure di riduzione delle risorse
attribuite alle amministrazioni locali (riduzione del Fondo di solidarietà
comunale e del Fondo sperimentale di riequilibrio provinciale o di risorse a
qualunque titolo spettanti alle regioni) sia mediante strumenti miranti ad
inasprire gli obiettivi di bilancio delle diverse amministrazioni ad invarianza
di risorse loro attribuite (patto di
stabilità interno, poi pareggio di bilancio). A partire dal D.L. n. 95/2012
per le regioni e dal D.L. n. 66/2014 per gli enti locali, il concorso alla
finanza pubblica degli enti territoriali è stato assicurato anche mediante la
richiesta di ingenti risparmi di spesa
corrente.
Al
fine di meglio delineare la questione in esame, si ritiene utile riportare di
seguito un prospetto che ricostruisce le misure
di finanza pubblica a carico delle regioni e degli enti locali nell’anno 2015, effettuate attraverso
la riduzione delle spese e delle risorse attribuite alle amministrazioni locali,
tratto dalla Relazione sugli andamenti della
finanza territoriale della Corte dei Conti – Vol. II (luglio 2015). La
tavola è costruita su dati espressi in termini di saldo netto da finanziare,
non considerando, pertanto, il contributo richiesto agli enti territoriali, in
termini di indebitamento netto, attraverso i vincoli del patto di stabilità
interno. Ciò in ragione del fatto che la Corte costituzionale è stata chiamata
a pronunciarsi prevalentemente sulle misure di riduzione delle risorse
introdotte in sede di manovra annuale.
(dati in
milioni di euro)
Misure di finanza pubblica a carico delle Regioni a statuto ordinario
nel 2015* |
Misure di finanza pubblica a carico dei Comuni |
Misure di finanza pubblica a carico delle Province |
|||
Art. 14, co. 1-2, DL
78/2010 |
4.500,0 |
Art. 14, co. 2, DL 78/2010 |
2.500,0 |
Art. 14, co. 2, DL 78/2010 |
500,0 |
- |
- |
Art. 28, co. 7, DL 201/2011 |
1.510,0 |
Art. 28, co. 8, DL 201/2011 |
415,0 |
Art. 16, co. 2, DL 95/2012 |
1.050,0 |
Art. 16, co. 6, DL 95/2012 |
2.600,0 |
Art. 16, co. 7, DL 95/2012 |
1.250,0 |
Art. 46, co. 6-7, DL
66/2014 |
750,0 |
Art. 47, co. 8-13, DL
66/2014 |
563,4 |
Art. 47, co. 1-7, DL
66/2014 |
576,7 |
Art. 1, co. 398, L.
190/2014 |
365,0 |
Art. 1, co. 435, L.
190/2014 |
1.200,0 |
Art. 1, co. 418, L.
190/2014 |
1.000,0 |
TOTALE |
6.665,0 |
TOTALE |
8.373,4 |
TOTALE |
3.741,7 |
* La tavola con considera
le misure incidenti sulla spesa
sanitaria, a carico dei trasferimenti ordinari per il Servizio sanitario
nazionale, che ammontano, nel 2015, a oltre 14 miliardi.
Il vaglio costituzionale sulle manovre:
obiettivi di bilancio ed autonomia finanziaria degli enti
L’obbligo
di partecipazione delle Regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica – che ha peraltro
assunto valenza costituzionale a
seguito dell’approvazione della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 volta
ad introdurre il principio del pareggio
di bilancio nella Carta costituzionale - postula che il legislatore statale
è legittimato ad imporre agli enti territoriali vincoli alle politiche di
bilancio - anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni
indirette all’autonomia di spesa degli enti - per ragioni di coordinamento finanziario, volte a
salvaguardare, anche attraverso il contenimento della spesa corrente, l’equilibrio unitario della finanza
pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi
nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (tra le tante, sentenze n. 65 e n. 1 del 2016, n.
218/2015, n. 88 e n. 36 del 2014, n. 236/2013, n. 182/2011, n. 52/2010, n.
207/2010, n. 237/2009, n. 169/2007), anche alla luce del parametro dell’unità
economica della Repubblica (sentenze
n. 78/2011; n. 28, n. 51, n. 79 e n. 104 del 2013).
La
Corte ha, inoltre, più volte precisato che le norme incidenti sull’assetto
finanziario degli enti territoriali non possono essere valutate in modo “atomistico”, ma solo nel contesto della
manovra complessiva, che può comprendere norme aventi effetti di segno opposto
sulla finanza delle regioni e degli enti locali (ex multis,
sentenze n. 82/2015, n. 26/2014, n.
27/2010, n. 155/2006, n. 431/2004).
Sin
dalle prime decisioni rese all’indomani della riforma del Titolo V della
Costituzione, la Corte ha ricondotto le disposizioni dettate dal legislatore
statale in vista del contenimento della spesa degli enti territoriali alle
finalità di coordinamento della finanza pubblica, nel solco di un consolidato
orientamento che sottolinea la necessità
di armonizzare i poteri di spesa e la potestà impositiva di regioni ed enti locali con le
imprescindibili esigenze di coordinamento
della finanza pubblica, anche al prezzo di comprimere l’autonomia
finanziaria degli enti territoriali (sotto diversi profili, sentenze n. 296, n. 297 e n. 311 del
2003; n. 4, n. 17 e n. 37 del 2004; n. 162/2007; n. 102/2008; n. 289/2008).
Tale
interpretazione finalistica del coordinamento della finanza pubblica[5] si è consolidata a seguito dell’approvazione
della legge costituzionale n. 1/2012, sul pareggio di bilancio, e soprattutto
per effetto del comma premesso all’art. 97 Cost., il
quale richiama tutte le pubbliche amministrazioni, incluse le autonomie
speciali, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, ad assicurare
l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico (sentenze n.
60/2013 e n. 88 e 188 del 2014).
Per
costante giurisprudenza costituzionale, l’imposizione
di risparmi di spesa rientrerebbe,
dunque, a pieno titolo nell’esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica, attribuita alla competenza
statale dall’art. 117, terzo comma, Cost. Nel corso
del tempo è stata così accertata la conformità a Costituzione di disposizioni
contenute prevalentemente in leggi finanziarie o di stabilità e nei c.d. decreti-legge anticrisi, incidenti anche in modo penetrante
sulle autonomie, spesso ritenute necessario riflesso del coordinamento
finanziario alla stregua dei vincoli posti dal diritto dell’Unione europea,
legittimando in sostanza forti limitazioni di spesa degli enti territoriali (ex
plurimis, sentenze n. 169 e n. 179 del 2007; n. 289
del 2008; n. 69 del 2011; n. 139 del 2012; n. 88 del 2014; n. 143 del 2016).
La
giurisprudenza costituzionale ha però contestualmente precisato, sin dalle
prime sentenze in materia, che il legislatore statale può stabilire solo un limite complessivo di riduzione che
lasci agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi
ambiti e obiettivi di spesa (sentenze n. 36/2004 e n. 417/2005), ma non può vincolare le autonome
territoriali all’adozione di misure
analitiche e di dettaglio,
perché verrebbe a comprimere illegittimamente la loro autonomia finanziaria,
esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia
(sentenze n. 36/2004; n. 417/2005;
n. 169/2007; n. 120 e n. 159 del 2008; n. 237/2009, n. 182/2011, n. 139/2012,
n. 217/2012, n. 22/2014, n. 43/2016), cfr. al riguardo quanto più estesamente
illustrato nel successivo paragrafo relativo alla spending review.
Un significativo aspetto che emerge dalla
pronunce della Corte è che l’incidenza dell’intervento statale sull’autonomia
finanziaria degli enti territoriali non è tuttavia priva di limiti, nel senso
che lo Stato non può ridimensionare gli stanziamenti finanziari al punto tale
da impedire lo svolgimento delle funzioni amministrative dell’ente pubblico
territoriale, in violazione dei canoni della ragionevolezza e del principio del buon andamento di cui all'articolo 97 Cost..
Secondo
la giurisprudenza costituzionale, il legislatore statale, in nome del principio
del coordinamento della finanza pubblica, può intervenire sulle spese e sui
saldi di bilancio degli enti territoriali, con il limite tuttavia della palese
arbitrarietà e della manifesta
irragionevolezza della variazione, che deriverebbe dall’impossibilità, per
gli enti territoriali, di esercitare le funzioni fondamentali (sentenze n. 10/2016, n. 188/2015 e n.
241/2012).
La
Corte riferendosi alle “esigenze complessive” e valutando il rapporto tra “complessivi
bisogni regionali di spesa ed insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte”,
richiede che non vi sia grave alterazione tra queste poste, a seguito
dell'intervento statale. Tale principio ha trovato espresso riconoscimento in
una costante giurisprudenza della Corte costituzionale sviluppatasi nell’ambito
dei rapporti tra Stato e Regioni nonché nei confronti degli enti locali (sentenze 138/1999, 241/2012, 188/2015).
Il criterio maggiormente utilizzato dalla Consulta nel corso degli anni al fine
di vagliare il superamento di detto limite da parte del potere legislativo è
stato quello della “adeguata o congrua
corrispondenza” tra risorse e funzioni pubbliche.
In talune delle pronunce sopradette tale tema ha avuto specifico
rilievo con riguardo alle province,
evidenziandosi come i progressivi limiti imposti all’indirizzo di spesa degli
enti territoriali, al fine di fronteggiare gli oneri finanziari imposti in sede
europea, stia rendendo sempre più difficile assicurare il necessario
parallelismo tra funzioni e risorse, come emerge dalle più recenti tendenze
della giurisprudenza costituzionale. Ciò appare con particolare evidenzia in
relazione all’importante processo di riorganizzazione che sta investendo le
province e le città metropolitane. In particolare con la sentenza n. 10 del
2016 la Corte costituzionale, intervenendo nuovamente a breve distanza dalla
sentenza n. 188 del 24 luglio 2015 in materia di tagli di bilancio agli enti
locali, ha ribadito il principio fondamentale in base al quale l’attribuzione
di funzioni agli enti locali deve essere necessariamente accompagnata da
adeguate risorse finanziarie per l’esercizio delle stesse. La pronuncia assume un’importanza
centrale nell’ambito dell’autonomia finanziaria degli enti locali
sub-regionali, soprattutto in riferimento all’adeguatezza delle risorse
assegnate agli stessi per garantire servizi al cittadino. Va sottolineato come
le norme che hanno inciso sull’autonomia organizzativa e finanziaria delle
Province hanno resistito al vaglio costituzionale anche in considerazione della
programmata soppressione delle Province e previa cancellazione dalla Carta
costituzionale come enti costitutivi della Repubblica (sentenza n. 143/2016).
Un secondo aspetto che viene ad
evidenziarsi concerne la natura
permanente della riduzione di spesa. Secondo il costante indirizzo della
Corte, norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti
locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della
finanza pubblica alla condizione, tra l’altro, che si limitino a porre
obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo,
anche se non generale, della spesa corrente (ex multis, tra le più recenti, sentenze n. 65/2016, n. 218 e n. 189
del 2015; nello stesso senso, sentenze
n. 44/2014, n. 236 e n. 229 del 2013, n. 217, n. 193 e n. 148 del 2012, n.
182/2011).
In
particolare, con le sentenze n. 43 e n.
64 del 2016, si è espressamente confermata la legittimità di interventi
statali di contenimento della spesa pubblica regionale, purché l’arco temporale
di operatività delle misure di contenimento fosse definito ovvero, sebbene non
espresso, esso potesse essere considerato limitato nell’arco di un triennio,
corrispondente all’orizzonte temporale usuale delle manovre di bilancio contenute
nelle leggi di stabilità. La stessa considerazione ha portato alla legittimità
costituzionale di misure che si limitano ad estendere di una annualità il
confine temporale di operatività delle misure di contenimento della spesa, nel perdurante rispetto del canone della
transitorietà (da ultimo, sentenza
n. 141/2016).
Tuttavia,
proprio in tale sentenza n. 141/2016, la Corte stessa ha segnalato che “il
costante ricorso alla tecnica normativa dell’estensione dell’ambito temporale
di precedenti manovre, mediante aggiunta di un’ulteriore annualità a quelle
originariamente previste, finisce per porsi in contrasto con il canone della
transitorietà, se indefinitamente ripetuto”.
Va,
per completezza, segnalato un profilo di carattere
procedurale, ma non per ciò di rilievo sostanziale marginale: la
giurisprudenza della Corte costituzionale richiede che sia il ricorrente in via diretta a dimostrare l'alterazione grave nel
rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per
farvi fronte (sentenze n. 145/2008, n. 256/2007, n. 155/2005).
Nella
recente sentenza n. 205/2016, si
sottolinea come la giurisprudenza costituzionale sia stata costante nel
richiedere che, qualora venga lamentata la violazione dell’art. 119, quarto
comma, Cost. per impossibilità di esercizio delle
funzioni degli enti territoriali, venga fornita la prova del fatto che la norma
legislativa contestata produce uno squilibrio finanziario eccessivo a danno
degli enti stessi (ex multis,
sentenze n. 151, n. 127 e n. 65 del
2016, n. 89/2015, n. 26/2014), nonché dimostrare l’assoluta impossibilità,
conseguente all’applicazione delle misure finanziarie, di svolgere le funzioni
attribuitele dalla Costituzione (sentenze n. 29 del 2016, n. 252 e n. 239 del
2015, n. 26/2014).
Gli obblighi assunti in sede europea e la crisi
economica hanno reso necessaria, nell’ultimo decennio, un’azione mirata di
riduzione della spesa pubblica mirata ad eliminare degli sprechi ed a rendere
più efficiente l’allocazione delle risorse verso gli obiettivi considerati
primari.
Avviata dapprima in via sperimentale nel 2007, con
la legge finanziaria del Governo Prodi[6], la cd. spending review intesa come processo
sistematico di revisione della spesa fu riproposta dal Governo monti, che varò
alcuni provvedimenti d’urgenza mirati al contenimento della spesa pubblica:
§ il decreto-legge cd. “Salva Italia” (D.L. n. 201/2011);
§ il decreto-legge “Razionalizzazione della spesa pubblica” (D.L. n. 52/2012, c.d. Spending Review 1), che ha previsto un Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi;
§ il decreto-legge “Riduzione della spesa pubblica a servizi invariati” (D.L. n. 95/2012, c.d. Spending Review 2).
Quest’ultimo decreto, che probabilmente è stato il
principale provvedimento emanato dal Governo Monti in materia di contenimento
della spesa pubblica, ha toccato sensibilmente anche il comparto delle regioni
e degli enti locali, con la progressiva riduzione dei trasferimenti, oltre al
riordino delle province. Ha introdotto inoltre, per le amministrazioni inserite
nell’elenco Istat, misure di contenimento di alcune voci di spesa relativamente
alle autovetture di servizio, ai buoni pasto, al pagamento delle ferie, e alle
consulenze.
In seguito, dopo ulteriori interventi definiti nelle
leggi di stabilità 2013 e 2014[7], il Governo Renzi
ha proseguito l’opera di contenimento della spesa pubblica, in particolare con
l’adozione del D.L. n. 66/2014 (c.d. Spending Review 3), contenente
"Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale, volte ad
incidere soprattutto sulle modalità di acquisto di beni e servizi, con la
promozione degli acquisti centralizzati.
Tra le ulteriori misure previste dal decreto per contenere
la spesa possono inoltre ricordarsi il taglio del 30 per cento delle spese relative all’acquisto, al
noleggio, alla manutenzione e all’utilizzo delle autovetture, compreso
l’acquisto di buoni taxi. Per rendere più razionale la spesa per la manutenzione
e la locazione degli immobili, viene altresì stabilito che le pubbliche
amministrazioni debbano adottare un piano di ricognizione degli immobili.
Altre disposizioni di spending review, sono state poi varate con la
legge di stabilità 2015 (legge n. 190/2014), che ha interessato maggiormente i
settori dei Ministeri, della scuola pubblica e degli enti pubblici, poi con il
D.L. n. 78/2015, che ha riguardato le opere pubbliche degli enti territoriali,
con la legge di stabilità 2016 (legge n. 208/2015) e con la legge di bilancio
per il 2017 (legge n. 232/2016), che rafforzano la centralizzazione degli
acquisti.
Questa frequente produzione di norme statali che
tendono a ridurre le spese anche a livello delle autonomie locali ha generato
un notevole contenzioso costituzionale.
Su di esse la
giurisprudenza della Corte Costituzionale è pervenuta nel corso del
tempo a consolidarsi su alcune posizioni secondo cui le politiche statali di riduzione delle spese
pubbliche possono legittimamente incidere anche sull’autonomia
finanziaria degli enti territoriali (si vedano ad esempio le sentenze n. n.
376/2003, n. 36/2014, n. 88/2014, n. 1/2016, n. 65/2016 e, da ultimo,
129/2016 .
Nel contempo il giudice costituzionale ha ritenuto necessario che tal interventi
debbano osservare alcuni limiti e condizioni, ed in particolare, in
linea di massima, essere tali da:
§
garantire comunque il coinvolgimento di tali
enti, nel rispetto del principio di leale collaborazione, come enunciato
dall’ultima delle citate sentenze, che ha dichiarato illegittimo l’art. 16,
comma 6, del D.L. n. 95/2012 (uno dei decreti di spending review del Governo Monti) nella parte in cui lo Stato
prevede la riduzione delle risorse per gli enti locali senza alcuna forma di
coinvolgimento con tali enti. In particolare è stato ritenuto illegittimo il
mancato coinvolgimento della Conferenza Stato-Città e autonomie locali nella
fase di determinazione delle riduzioni addossate a ciascun comune, seppur
limitatamente all’anno 2013, unitamente alla mancanza di un termine per
l’adozione del decreto ministeriale. Vero è – ha osservato la Corte - che i
procedimenti di collaborazione tra enti debbono sempre essere corredati da
strumenti di chiusura che consentano allo Stato di addivenire alla
determinazione delle riduzioni dei trasferimenti, anche eventualmente sulla
base di una sua decisione unilaterale, al fine di assicurare che l’obiettivo
del contenimento della spesa pubblica sia raggiunto pur nella inerzia degli
enti territoriali. Ma tale condizione non può giustificare l’esclusione sin
dall’inizio di ogni forma di coinvolgimento degli enti interessati;
§
non
rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni degli enti in
questione (sentenze n. 10/2016, n. 188/2015 e n. 241/2012). Il giudice
costituzionale, nel confermare sulla base della propria pregressa
giurisprudenza che le politiche statali di riduzione delle spese pubbliche
possano incidere anche sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali,
precisa nel contempo come tale incidenza
debba in linea di massima essere mitigata attraverso la garanzia del
coinvolgimento degli enti interessati nella fase di distribuzione del sacrificio
e nella decisione sulle relative dimensioni quantitative, e non può essere tale
da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni agli stessi affidate.
In numerose sentenze la Corte richiede inoltre la natura
transitoria delle misure di risparmio di spesa previste, in quanto gli
interventi statali sull’autonomia di spesa delle Regioni sono consentiti, come
principi di coordinamento della finanza pubblica, purché transitori, dal
momento che “in caso contrario essi non corrisponderebbero all’esigenza di
garantire l’equilibrio dei conti pubblici in un dato arco temporale, segnato da
peculiari emergenze, ma trasmoderebbero in direttive strutturali
sull’allocazione delle risorse finanziarie di cui la Regione è titolare,
nell’ambito di scelte politiche discrezionali concernenti l’organizzazione
degli uffici, delle funzioni e dei servizi” (si vedano, ad esempio, la sentenza
n. 36/2004 e, da ultimo, la sentenza n. 43/2016).
Inoltre, le norme statali che fissano limiti alla
spesa delle Regioni e degli enti locali per qualificarsi come princıpi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica devono lasciare aperto uno spazio per l’esercizio
dell’autonomia regionale, evitando di prevedere in modo esaustivo strumenti
o modalità per il perseguimento degli obiettivi.
I vincoli imposti con tali norme possono
«considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali
quando stabiliscono un “limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia
libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di
spesa”(sentenza n. 182 del 2011, nonché sentenze n. 297 del
2009; n. 289 del 2008; n. 169 del 2007).
L’applicazione di questi principi si può vedere
nella sentenza n. 43/2016 già citata, con
cui la Corte Costituzionale ha recentemente accolto due delle questioni
sollevate nell'ambito di due differenti ricorsi proposti dalla Regione Veneto e
dalla Provincia autonoma di Trento sui tagli alla spesa in riferimento a due
norme del citato decreto-legge 66/2014.
La prima delle disposizioni ritenute illegittime
vincolava, a decorrere dal primo maggio 2014, le amministrazioni pubbliche, tra
cui la Regione Veneto ricorrente, a contenere la spesa per le autovetture e i
buoni taxi entro il 30 per cento della spesa sostenuta per tali voci nell’anno
2011. Tale norma viola gli articoli 117 e 119 della Costituzione “perché non
lascia alla Regione alcun margine di sviluppo dell’analitico precetto che è
stato formulato”, non viene riconosciuta, “la facoltà per la Regione di
adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente”.
La seconda disposizione, invece, prevedeva
l’applicazione delle misure contenute nel decreto “a decorrere dall’anno
2014″, anziché “negli anni 2014, 2015 e 2016". La disposizione
impugnata è stata dunque ricondotta ad un periodo transitorio di efficacia,
“visto che esso è connaturato alle caratteristiche dell’intervento legislativo
in cui la norma è collocata”.
Come si legge nella sentenza n. 43/2016, secondo la
costante giurisprudenza della Corte, il legislatore statale, con una
«disciplina di principio», può legittimamente «imporre agli enti autonomi, per
ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di
bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni
indirette all’autonomia di spesa degli enti» Questi vincoli, perché possano
considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali,
devono riguardare «l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo
“in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della
finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale” – la crescita della spesa
corrente». In altri termini, la legge statale può stabilire solo un «limite
complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle
risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenze n. 417 del 2005 e
n. 36 del 2004; si vedano anche le sentenze n. 88 del 2006 e n. 449 del 2005).
In applicazione di tali principi, ad esempio, la
Corte ha in precedenza giudicato rispettoso dell’autonomia finanziaria
regionale l’art. 6, comma 14, del D.L. n. 78 del 2010, perché la disposizione,
nel porre un limite alla spesa per autovetture valevole rigidamente nei
confronti delle amministrazioni statali, ne aveva previsto l’applicabilità alle
Regioni esclusivamente a titolo di principio fondamentale di
coordinamento della finanza pubblica. Per effetto di ciò continuava a spettare
alle Regioni, nel vasto ambito delle voci di spesa incise dal D.L. n. 78/2010,
scegliere se e in quale misura colpire proprio quelle analiticamente indicate
dall’art. 6, comma 14, sempre che, all’esito di questa operazione, ne
risultasse un risparmio complessivo non inferiore a quello conseguente
all’azione congiunta delle varie prescrizioni statali (sentenza n. 182/2011 ed altre).
Qualora invece non venga
lasciato alla Regione alcun margine di sviluppo dell’analitico precetto
formulato, e quindi non sia riconosciuta la facoltà per la Regione di adottare
misure alternative di contenimento della spesa corrente, la norma non può
essere ritenuto espressiva di un principio di coordinamento della finanza
pubblica (sentenza n. 139 del 2012).
Già in precedenza si è ricordato come il
profilo di maggior rilievo del contributo delle Regioni all'equilibrio
finanziario della Repubblica, anche in riferimento agli obblighi comunitari, si
sostanzia nel controllo della spesa sanitaria.
Il rilievo di questo segmento della finanza
pubblica è tale che merita una sia pur rapida trattazione, in riferimento alla
giurisprudenza costituzionale.
La Corte ha più volte affermato (sentenze n.
193/2007, n. 98/ 2007 e n. 36/2005) che l’autonomia legislativa delle Regioni
nel settore della tutela della salute può incontrare limiti alla luce degli
obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa, confermando la
norma che sancisce l’obbligo delle Regioni di provvedere alla copertura degli
eventuali disavanzi di gestione accertati nel servizio sanitario a livello
regionale, potendo peraltro esse a tal fine anche introdurre, in modo cumulativo
od alternativo, apposite misure di compartecipazione alla spesa sanitaria da
parte degli utenti, variazioni dell’aliquota dell’addizionale IRPEF o altre
misure fiscali previste dalla legge.
Nella stessa sentenza n. 36/2005 la Corte ha
fatto emergere anche la costanza del carattere “incentivante” del finanziamento
statale ai fini del conseguimento degli obiettivi di programmazione sanitaria e
del connesso miglioramento del livello di assistenza.
Dopo la riforma del titolo V la Corte
(sentenza n. 203/2008) ha ribadito la necessità che la spesa sanitaria sia resa
compatibile con «la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente
è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli
interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario»
(sentenza n. 111/2005). L'offerta “minimale” di servizi sanitari non può essere
tuttavia unilateralmente imposta dallo Stato, ma deve essere concordata per
alcuni aspetti con le Regioni, con la conseguenza che «sia le prestazioni che
le Regioni sono tenute a garantire in modo uniforme sul territorio nazionale,
sia il corrispondente livello di finanziamento sono oggetto di concertazione
tra lo Stato e le Regioni stesse» (sentenza n. 98/2007).
Vale poi ricordare la sentenza n. 387/2007,
nella parte in cui la Corte, riaffermato il potere statale di fissare le
prestazioni cui tutti gli utenti hanno diritto nell’intero territorio
nazionale, dettando norme di principio o di dettaglio, osserva in primo luogo
che la deroga alla competenza legislativa delle Regioni, in favore di quella
dello Stato, che ne consegue, è ammessa nei limiti necessari ad evitare che, in
parti del territorio nazionale, gli utenti debbano, in ipotesi, assoggettarsi
ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a
quello ritenuto intangibile dallo Stato e, in secondo luogo, che alle Regioni
sarà sempre possibile fornire, con proprie risorse, prestazioni aggiuntive tese
a migliorare ulteriormente il livello delle prestazioni, oltre la soglia minima
uniforme prescritta dalla legge statale.
Il biennio 2008-2009 ha poi visto
l'approvazione della legge delega n. 42 del 2009 in materia di federalismo
fiscale, che, dopo un decennio di sostanziale stasi, sembrava potersi avviare
verso una più compiuta realizzazione. Tale processo, pur avanzato a livello
normativo con l'approvazione del decreto legislativo n. 68 del 2011 (che
disciplina l’autonomia d’entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle
Province, nonché la determinazione dei costi e fabbisogni standard nel settore
sanitario), è rimasto tuttavia sostanzialmente bloccato dalle conseguenze della
crisi economica, ovvero dalla progressiva, relativa scarsità di risorse e
dall'introduzione di più stringenti vincoli costituzionali in materia di
bilancio (revisione dell'articolo 81 e principio del pareggio di bilancio).
Ne è derivato che il sistema delineato dalla
prassi e confermato dalla Corte costituzionale, sopra descritto, che di fatto
si fonda su una negoziazione tra Stato e regioni sia per determinare il livello
delle risorse e la loro ripartizione, sia per fissare i livelli essenziali
delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, si è
progressivamente strutturato come uno
strumento in grado di orientare decisivamente le scelte delle regioni,
teoricamente titolari, in seguito alla revisione costituzionale del 2001, di
ampi poteri legislativi e amministrativi in materia di tutela della salute.
Tale assetto, sostanzialmente imperniato - se
solo si penetra la realtà finanziaria sottesa all'articolato meccanismo di
finanziamento dei sistemi sanitari regionali - su un sistema di trasferimenti
erariali[8], sia
pur in massima parte solo nozionali, ha quindi frenato una vera autonomia in
ambito fiscale, ponendo alle Regioni obblighi stringenti, che hanno passato il
vaglio anche della giurisprudenza costituzionale.
Com’è noto, infatti, secondo la Corte la
mancata adozione della legislazione di coordinamento di cui all’articolo 119 Cost. ha impedito una piena esplicazione dell’autonomia
tributaria regionale; ne è conseguita, in tal modo, sia l’impossibilità per le
Regioni d’intervenire (se non entro limiti ristretti o, in alcuni casi,
obbligatoriamente) sui tributi con gettito a destinazione regionale (e in
particolare destinati al finanziamento del settore sanitario), ma istituiti e
disciplinati dalla normativa statale (come l’IRAP e l’addizionale IRPEF) (ex multis le
sentenze n. 216/2009, 123/2010 e 255/2010), sia, viceversa, la capacità dei
principi di coordinamento finanziario di dettare non solo le norme fondamentali
che regolano la materia, ma anche i poteri puntuali necessari affinché le
finalità di coordinamento possano essere concretamente realizzate (sent. n. 376/2003).
Il successivo sviluppo della situazione
socio-economica, come anticipato, ha accentuato tali tratti del sistema. Le
esigenze di contenimento della spesa, correlate all'impostazione di politica
economica adottata per fronteggiare la crisi economica e ai vincoli europei,
hanno consentito al legislatore statale d’imporre agli enti autonomi vincoli
alle politiche di bilancio, che nel caso della spesa sanitaria sono
rappresentati dalla restrizione finanziaria, dalla naturale rigidità (entro
certi limiti) della spesa sanitaria e dall'ampio margine di interpretazione
circa l'estensione dell'intervento programmatorio statale, la cui centralità è
stata decisamente salvaguardata, anche laddove non abbia soltanto fissato i
principi fondamentali della materia, sempre partendo dalla massima che la
tutela della salute “non può non darsi in condizioni di fondamentale
uguaglianza su tutto il territorio” ( Corte cost., 26
giugno 2002, n. 282).
Ne deriva, alla luce dei vincoli finanziari,
che limitano le risorse destinabili al settore sanitario, che l'autonomia
legislativa concorrente delle Regioni può incontrare limiti alla luce degli
obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa. E' pertanto
compito del legislatore nazionale effettuare un bilanciamento tra l’esigenza di
garantire egualmente a tutti i cittadini il diritto fondamentale alla salute e
quella di rendere compatibile la spesa sanitaria con la limitatezza delle
disponibilità finanziarie a essa destinate (sent. n.
149 del 2010).
Tale bilanciamento, come detto, si è inverato
in un sistema di accordi tra Stato e Regioni, la cui previsione o il cui
successivo recepimento in norme statali ne ha determinato il valore vincolante,
come riconosciuto dalla Consulta nelle sentenze n. 40 e 100 del 2010, creando
un sistema di finanza derivata premiale e negoziata. Il sistema degli accordi incide pertanto,
manovrando l'elemento decisivo rispetto alle prestazioni erogabili, ovvero la
leva finanziaria, sulla effettività del diritto alla salute, confermando la
sostanziale centralizzazione delle scelte in materia di spesa e rivelando il
carattere strumentale del coordinamento finanziario. Per le regioni (non poche)
con un sistema sanitario strutturalmente in deficit (fra l'altro caratterizzate
spesso anche da livelli qualitativi e quantitativi di assistenza poco
apprezzati dai loro abitanti), per esempio, si è stabilito che la normativa sui
piani di rientro (lo strumento adottato per riassorbire i suddetti deficit)
rientrasse fra i principi fondamentali di coordinamento finanziario, con
l’ulteriore conseguenza di inibire alle Regioni la possibilità d’interventi
legislativi che possano ostacolare (interferire con) l’attuazione dei piani
(sull'importante questione, l'orientamento costituzionale è ampiamente
consolidato: sentenze n. 193 del 2007, 2 e 361 del 2010, 77 e 78 del 2011, 91 e
260 del 2012) .
Sulla base di tale interpretazione, pertanto,
è stato disposto che qualora l’attuazione dei piani di rientro o dei programmi
operativi sia ostacolata da disposizioni legislative regionali, il Consiglio
dei Ministri, nell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui all’articolo 120 Cost., interviene anche con misure normative. Ne risulta
pesantemente incisa l’autonomia regionale, la cui produzione normativa è tenuta
a conformarsi (anche) a provvedimenti di natura amministrativa, pena
l’esercizio del potere sostitutivo governativo.
E a conferma di una disciplina dei piani di
rientro compressiva dell'autonomia regionale, la Corte costituzionale (sent. n. 219 del 2013) ha affermato che l’attività del
commissario ad acta per il rientro dal deficit sanitario, “inserendosi
nell’ambito del potere sostitutivo esercitabile dallo Stato nei confronti della
Regione”, è “direttamente imputabile” allo Stato, e non alla Regione, a
prescindere dal soggetto che in concreto rivesti la figura di Commissario ad acta.
Nella più limitata (e pertinente) questione
del finanziamento della spesa sanitaria, parametro essenziale del federalismo
fiscale, la Corte costituzionale è intervenuta più volte negli ultimi anni,
attestandosi ancora su una linea confermativa della netta prevalenza delle
esigenze del rispetto dei vincoli finanziari complessivi sull'autonomia
legislativa concorrente. In particolare, con la sentenza n. 104 del 2013, la
Consulta, dopo aver ricordato che “l’autonomia legislativa concorrente delle
Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell’ambito della
gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi
della finanza pubblica e del contenimento della spesa”, soprattutto “in un
«quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta
necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario»”, ha ritenuto che
anche l'assumere a carico del bilancio regionale (abruzzese, nel caso di
specie) "oneri aggiuntivi per garantire un livello di assistenza
supplementare” violi il "principio di contenimento della spesa pubblica
sanitaria, quale principio di coordinamento della finanza pubblica e, in
definitiva, l’articolo 117, terzo comma, Cost.”. La
sentenza appare di particolare rilievo, laddove si consideri che il limite
dell'autonomia regionale viene in tal caso posto in modo da escludere anche la
possibilità di un incremento delle spese per garantire prestazioni aggiuntive,
pur nel rispetto dei saldi complessivi e a valere su risorse regionali, quindi
senza attingere a risorse statali.
In relazione a specifici provvedimenti
normativi volti a disciplinare aspetti economico-finanziari dei SSR, il giudice
è poi intervenuti facendo espresso riferimento alla necessità di bilanciare le
esigenze connesse alla materia della «tutela della salute» con quelle implicite
nel «coordinamento della finanza pubblica», al fine di collocare
“materialmente” norme statali aventi l’obiettivo di ridurre la spesa sanitaria,
incidendo sull'autonomia regionale (v. le sentenze n. 125
del 2015, n. 278
del 2014, n. 91
del 2012, n. 330
del 2011) e con ciò creando "un intreccio
inscindibile fra le due materie, nessuna delle quali può ritenersi
prevalente" (sentenza n. 203 del 2016).
Il contemperamento dei due principi è stato individuato nella comprimibilità
della competenza regionale in materia di "tutela della salute"
tramite - continua la sentenza - "l’esercizio del potere statale di
coordinamento finanziario in funzione di riduzione della spesa, ma a condizione
che questa funzione non si esprima in norme dettagliate".
In relazione alle regioni a statuto speciale,
infine, sviluppando un principio generale del coordinamento della finanza
pubblica (che non può darsi in assenza di finanziamento del soggetto
coordinando da parte del soggetto coordinatore), la Corte ha ribadito, a latere
di una sentenza riguardante altri enti ma molto recente (n. 75 del 2016) che
"in riferimento alla materia del finanziamento del sistema sanitario in
una Regione a statuto speciale, questa Corte [...] ha infatti precisato che “lo
Stato, quando non concorre al finanziamento della spesa sanitaria, neppure ha
titolo per dettare norme di coordinamento finanziario (sentenza
n. 341 del 2009, sentenza
n. 133 del 2010; nello stesso senso, successivamente,
sentenze n. 115 e n. 187
del 2012")". Sulla medesima linea la
sentenza n. 125 del 2015.
Com’è noto, la posizione costituzionale delle
autonomie speciali nell’ambito del disegno federalista si delinea sulla base di
quanto prescrive in merito l’articolo 27
della legge n. 42 del 2009, secondo cui
le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di
Bolzano concorrono al conseguimento
degli obiettivi di perequazione e di solidarietà perseguiti dalla legge delega nel rispetto degli statuti speciali,
secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione delle rispettive
discipline statutarie, da definire con le procedure dalle stesse previste. Va
rammentato come tale regola valga anche (come precisato dal medesimo articolo)
anche per il rispetto del patto di stabilità interno e dell’assolvimento degli
obblighi posti dall’ordinamento comunitario.
La giurisprudenza
costituzionale ha confermato tale prospettazione delle competenze,
affermando che l’articolo 27 suddetto pone una effettiva riserva di competenza
alle norme di attuazione degli statuti per modificare la disciplina finanziaria
degli enti ad autonomia differenziata. In tal senso il giudice delle leggi si è
espresso con la sentenza n. 71 del 2012,
poi confermata con la sentenza n. 241 del medesimo anno, affermando
come, in relazione ad una norma di reperimento di risorse (articolo 19-bis del
decreto-legge n. 138/2011), il vincolo del rispetto degli statuti speciali,
operato anche mediante rinvio all’art. 27 della 42 del 2009 rivesta il
significato di prefigurare un percorso procedurale, dominato dal principio
consensualistico, per la modificazione delle norme di attuazione degli statuti
speciali. Ciò con riguardo all’eventualità in cui lo Stato voglia introdurre
negli enti ad autonomia differenziata, quanto alle materie trattate
decreto-legge suddetto, una disciplina non conforme alle norme di attuazione
statutaria. L’art. 27, infatti, pone
infatti una riserva di competenza
alle norme di attuazione degli statuti speciali per la modifica della
disciplina finanziaria degli enti ad autonomia differenziata, così da
configurarsi quale presidio procedurale
della specialità finanziaria di tali enti.
Negli stessi termini sono
del resto anche interpretate anche le c.d. clausole
di salvaguardia in favore delle autonomie
speciali, ormai da anni contenute nei provvedimenti di finanza pubblica,
con le quali com’è noto si dispone che le autonomie speciali si adeguino alla
norme di consolidamento dei conti pubblici secondo quanto previsto dagli
statuti di autonomia e dalle norme di attuazione. La Corte costituzionale ha in
proposito più volte affermato, ad esempio tra tante con sentenza n. 22 del 2014, come a tutela delle prerogative degli enti
ad autonomia differenziata la clausola in questione escluda che le norme in
materia di manovra economico-finanziaria impongano agli enti in questione di
attuare disposizioni che contrastino con i loro rispettivi statuti speciali o
con le relative norme di attuazione. La Corte quindi conferma - come già
affermato nella precedente sentenza n.215 del 2013, e successivamente con
pronuncia n. 23 del 2014 - che i
parametri statutari richiamati nei giudizi di costituzionalità promossi dalle
autonomie speciali sulle clausole di salvaguardia hanno la funzione di “generale limite” all’estensione nei
confronti delle stesse le disposizioni di manovra finanziaria, che sono
pertanto applicabili solo a condizione che ciò avvenga nel rispetto degli
statuti speciali.
La funzione delle norme statutarie come
presidio della specialità delle autonomie in questione registra tuttavia negli anni più recenti una
significativa evoluzione, cui concorrono da un lato il succedersi
delle manovre, che sotto la spinta
delle urgenze determinate dalla crisi economico-finanziaria richiedono il
contributo anche delle regioni a statuto speciale e province autonome alla
tenuta ed al consolidamento dei conti pubblici e, d’altro lato, il ridisegno
dei rapporti finanziari tra Stato ed autonomie territoriale delineato dalla legge delega sul federalismo fiscale,
che innesta inevitabili criticità tra finanza centrale e finanza decentrata.
Tale evoluzione si sostanzia nella circostanza che dal 2009 in poi la definizione
dei rapporti finanziari tra Stato ed autonomie è via via avvenuta mediante
modificazione degli statuti speciali con legge ordinaria previa sottoscrizione
di appositi accordi, secondo quanto
previsto dai rispettivi statuti relativamente alla materia finanziaria:
processo che è stato da più parti definito come “decostituzionalizzazione”
della disciplina statutaria speciale in
ambito economico e finanziario.
In tal modo gli accordi hanno consentito,
mediante legge ordinaria - previo, per l’appunto, l’accordo - di modificare la disciplina
statutaria speciale relativa agli assetti finanziario e tributario mediante una
procedura meno aggravata rispetto a
quella che incide direttamente alla fonte
statutaria; ed ha consentito nel contempo di ricomprendere in tale metodo,
pertanto su base sostanzialmente pattizia, il succedersi delle norme contenute
nelle manovre di finanza pubblica annuali.
Tale evoluzione normativa ha trovato riscontro nella giurisprudenza
costituzionale potendosi al riguardo citare la sentenza n. 60 del 2013, nella quale, su questione sollevata dalla
provincia di Bolzano su una lesione del proprio Statuto di autonomia, la Corte
ha osservato che la previsione che la provincia possa concordare con lo Stato
gli obblighi relativi al patto di stabilità interno con riferimento ai saldi di
bilancio da conseguire in ciascun periodo (art. 20 del decreto-legge n.
98/2011) non determina, di per sé, alcuna alterazione del regime di autonomia:
in proposito la Corte rammenta come essa abbia già più vote affermato che «l’accordo è lo strumento […] per conciliare e regolare in modo negoziato […] il concorso alla manovra di finanza
pubblica delle Regioni a statuto speciale»” come peraltro già postulato sotto
analogo profilo, prosegue la sentenza, anche dall’articolo 27 della legge
delega n. 42 del 2009 alla cui attuazione i parametri statutari e le relative
norme di attuazione richiamati dalla provincia presso la Corte sono
dichiaratamente rivolti.
Nella
stessa direzione interviene la sentenza
n. 99 del 2014, sempre in riferimento ad una lesione delle norme statutarie
lamentata dalla medesima provincia di Bolzano, effettuata mediante modifica
dell’articolo 79 dello statuto ad opera della legge finanziaria 2010,
n.191/2009. La Corte in proposito rileva come detta modifica sia stata disposta
dalla legge 191/2009 in esito al cosiddetto “Accordo di Milano” intervenuto nel
novembre del 2009 tra Stato e Provincia, il quale costituisce attuazione del
principio dell’accordo per regolare la partecipazione delle Province autonome
di Trento e di Bolzano al concorso al conseguimento degli obiettivi di finanza
pubblica. La sentenza prosegue indi ricordando che la Corte “in più pronunce ha
riconosciuto detti accordi quale strumento «ormai consolidato […] per conciliare e regolare in modo negoziato
il doveroso concorso delle Regioni a statuto speciale alla manovra di finanza
pubblica e la tutela della loro autonomia finanziaria, costituzionalmente
rafforzata» atteso che «il contenuto dell’accordo deve essere compatibile con il rispetto degli obiettivi
del patto di stabilità, della cui salvaguardia anche le Regioni a statuto
speciale devono farsi carico e contemporaneamente deve essere conforme e
congruente con le norme statutarie della Regione»”.
Da segnalare anche la sentenza n. 19 del 2015, nella quale si rileva come il metodo
dell’accordo dovrebbe essere concepito come uno strumento di bilanciamento tra l’autonomia finanziaria degli enti territoriali e l’esigenza di
raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica – alcuni dei quali, peraltro, derivanti da impegni assunti in
sede sovranazionale – del cui adempimento anche le Regioni speciali devono
farsi carico alla luce dei principi di solidarietà politica, economica e
sociale di cui all’art. 2 Cost., di unitarietà della Repubblica e di cui
all’art. 5 Cost., nonché di responsabilità internazionale dello Stato.
Lo strumento costituito dagli accordi
determina una nuova modalità di
evoluzione dell’assetto della finanza delle autonomie speciali rispetto alla fase precedente, incentrata
prevalentemente sul ricorso alla
disciplina recata dai decreti
legislativi di attuazione, come più volte riscontrato positivamente dalla Corte
costituzionale: vedasi per tutte la sentenza
n. 51 del 2006, ove si affermava, a
conferma di numerose altre la pronunce, che le norme di attuazione degli
statuti speciali possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle
stesse espressioni statutarie che delimitano le sfere di competenza delle
Regioni ad autonomia speciale; esse non possono essere modificate che mediante
atti adottati con il procedimento appositamente previsto negli statuti,
prevalendo in tal modo sugli atti legislativi ordinari.
Il consolidarsi del
metodo dell’accordo nel corso degli ultimi anni ha portato anzi alcuni
commentatori a distinguere due differenti fasi degli stessi: una prima fase, non ricomprensiva però
delle due regioni isolane, tra il 2009 e
il 2010, che, mediante accordi trasfusi in nome di legge, hanno modificato
la disciplina statutaria, secondo quanto previsto dagli stessi statuti
speciali; una seconda fase,
concernente tutte le Regioni ad autonomia differenziata, dal 2014 ad oggi, in cui gli accordi in
questione, pur non incidendo sui rispettivi statuti e avendo un portata
prevalentemente transattiva, hanno comunque concorso alla ridefinizione
dell’autonomia finanziaria e tributaria delle autonomie speciali, nonché a
conseguire il loro necessario apporto rispetto agli obiettivi di finanza
pubblica.
Riepilogo
degli accordi
AUTONOMIE SPECIALI |
ACCORDI SOTTOSCRITTI CON IL GOVERNO |
Regione
Siciliana |
- 9 giugno 2014 (recepito dall’articolo 42, commi da 5
a 8, D.L. n. 133/2014); - - 30 giugno 2015 |
Regione Sardegna |
- 21 luglio 2009 (recepito dall’articolo 42, commi da
9 a 14, D.L. n. 133/2014); - 24 febbraio 2016 |
Regione
Trentino Alto Adige, Provincia autonoma di Trento e Provincia autonoma di
Bolzano |
- 30 novembre 2009 (recepito dall’articolo 1, commi da
106 a 125, della legge n. 191/2009) - 15 ottobre 2014 (recepito, con modifiche ed integrazioni, dall’articolo 1, commi da 406 a 413, L. n. 190/2014) |
Regione Valle
d’Aosta |
- 11 novembre 2010 (recepito dall’articolo 1, commi da
160 a 164 della legge n. 220 del 2010) - 21 luglio 2015 (recepito dall’articolo 8-bis del decreto legge n. 78 del 2015) |
Regione Friuli
Venezia Giulia |
- 29 ottobre 2010 (recepito dall’articolo 1, commi 151
a 159 della legge n. 220 del 2010) - 23 ottobre 2014 (recepito dall’articolo 1, commi da 512 a 523, L. n. 190/2014) |
È stato altresì rilevato come i suddetti
accordi abbiano hanno garantito, nel corso dell’ultimo biennio, un
considerevole effetto deflattivo sul
contenzioso costituzionale, in ragione delle numerose rinunce ai ricorsi
pendenti, che si sono tradotte in declaratorie di cessazione della materia del
contendere o in decisioni di inammissibilità per sopravvenuta carenza di
interesse, in caso di ius superveniens modificativo delle modalità di
conseguimento delle intese relative al riparto degli oneri finanziari, come
rilevato in diverse sentenze della Corte,
quali la n.19 del 2015 già
citata o la n. 141 del 2016.
Tale effetto potrebbe mettesi in relazione
anche alla circostanza che l’accordo non può, in ragione della propria natura
consensuale, venire previamente sottoposto a scadenze da norme legislative, a differenza di come talvolta previsto
per il (diverso) strumento dell’intesa,
che per tale ragione è stato più volte censurato
dalla Corte.
In proposito può richiamarsi, tra le altre,
la sentenza n.179 del 2012, in
relazione alla previsione che il Consiglio dei ministri possa deliberare
unilateralmente in materie di competenza regionale, allorquando, a seguito del
dissenso espresso in conferenza dall’amministrazione regionale competente, non
si raggiunga l’intesa con la Regione interessata nel termine dei successivi
trenta giorni: la Corte ha ritenuto non
solo che il termine è così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso
lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, ma anche che dal suo inutile decorso si fa
automaticamente discendere l’attribuzione al Governo del potere di deliberare,
senza che siano previste le necessarie «idonee procedure per consentire
reiterate trattative volte a superare le divergenze». Né, d’altro canto,
prosegue la pronuncia, la previsione che il Consiglio dei ministri deliberi, in
esercizio del proprio potere sostitutivo, con la partecipazione dei Presidenti
delle autonomie speciali interessate possa essere considerata valida
sostituzione dell’intesa, giacché trasferisce nell’ambito interno di un organo
costituzionale dello Stato un confronto tra Stato e Regione, che deve
necessariamente avvenire all’esterno, in sede di trattative ed accordi,
rispetto ai quali le parti siano poste su un piano di parità.
Nello stesso senso la sentenza n. 274 del 2013, secondo cui costituisce motivo di
illegittimità costituzionale la predeterminazione di un termine
irragionevolmente breve: il principio della necessità dell’intesa è
sostanzialmente svuotato di significato dalla previsione del termine di 60
giorni, che si configura come irragionevolmente breve, specie in riferimento
alla complessità dell’opera, cosicché la sua rapida decorrenza contrasta
irrimediabilmente con la logica collaborativa che informa la previsione stessa
dell’intesa.
L’introduzione, ad opera della legge
costituzionale n.1 del 2012, nel rinnovato
articolo 81 Cost, del principio costituzionale del pareggio di bilancio,
contestualmente alla previsione inserita nel primo comma dell’articolo 97 della
Carta, che ha incluso tutte le
amministrazioni pubbliche nell’obbligo di assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito,
viene a riflettersi sulla giurisprudenza
costituzionale in materia, tenuto anche conto della declinazione del
principio del pareggio (rectius,
equilibrio) operata dalla legge attuativa del pareggio di bilancio, vale a dire
la legge “rinforzata” n.243 del 2012: in questa, all’articolo 9, la regola
contabile dell’equilibrio del bilancio include
anche le regioni a statuto speciale e le
province autonome, ed all’articolo 10 si stabilisce che le condizioni di
ricorso all’indebitamento si applicano anche nei confronti delle autonomie
speciali.
La nuova prospettiva, è stata riscontrata
positivamente dalla Corte con sentenza
n. 63 del 2013, in cui l’estensione
agli enti territoriali dotati di autonomia
speciale del controllo sulla gestione economico-finanziaria, è stata
ritenuta conforme a Costituzione nel
nuovo quadro delineato dalla legge costituzionale n. 1/2012 di introduzione del
principio costituzionale del pareggio di bilancio: ciò in particolare alla luce
del richiamo, all’articolo 2 della stessa, del complesso di tutte le pubbliche amministrazioni
quale universo di soggetti pubblici tenuti ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito
pubblico.
Nella stessa direzione muove si muove la sentenza n. 39 del 2014. Questa, nel riconfermare la precedente
statuizione circa le autonomie speciali, afferma inoltre, in riferimento alla
necessità di preservare l’equilibrio economico-finanziario del complesso delle
amministrazioni pubbliche in riferimento a parametri costituzionali e ai vincoli
derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, come tali equilibrio e vincoli siano
divenuti ancor più rilevanti nel quadro
delineato nella legge costituzionale, in particolare dall’art. 2 suddetto, da
cui consegue, conclude sul punto la
pronuncia, la conferma dell’ estensione
alle autonomie speciali dei principi di coordinamento della finanza
pubblica.
Tale orientamento del giudice costituzionale
viene poi ribadito, e ulteriormente
dettagliato, dalla sentenza n. 88 del
2014, relativa alle impugnative di alcune disposizioni della legge
“rinforzata” n.243.
In proposito il giudice costituzionale rileva
che in ordine al ricorso
all’indebitamento la legge suddetta
si muova in coerenza con l’articolo 4 della legge cost. n. 1 del 2012, secondo
cui si prevede l’adozione di una disciplina statale attuativa che non appare in
alcun modo limitata ai principi generali e che deve avere un contenuto eguale per tutte le autonomie.
La garanzia dell’omogeneità della disciplina è del resto connaturata alla
logica della riforma, anche per la stretta connessione della disciplina
dell’indebitamento rispetto ai princìpi dell’equilibrio di bilancio e della
sostenibilità del debito pubblico: essa, al pari di questi ultimi, deve
intendersi riferita al complesso delle
pubbliche amministrazioni in quanto, afferma espressamente la pronuncia, i
vincoli imposti alla finanza pubblica, se hanno come primo destinatario lo Stato,
non possono non coinvolgere tutti i soggetti istituzionali che concorrono alla
formazione di quel bilancio consolidato delle pubbliche amministrazioni – e
quindi anche le regioni a statuto speciale e le province autonome - in
relazione al quale va verificato il rispetto
degli impegni assunti in sede europea e sovranazionale. La riforma poggia
dunque sui princìpi fondamentali di unitarietà della Repubblica e di unità economica e giuridica
dell’ordinamento, unità che già nel precedente quadro costituzionale era
sottesa alla disciplina della finanza pubblica e di cui , conclude sul punto la
Corte, il nuovo quadro costituzionale risultante dalla legge n.1 del 2012 ha accentuato la pregnanza.
Nel vigente testo costituzionale la materia
del coordinamento
del sistema tributario rientra
tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma,
della Costituzione.
La riforma operata con la legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione), ha comportato l’assegnazione di poteri in materia di entrata e di spesa agli enti territoriali
(regioni, province, comuni, città metropolitane) e di correlate funzioni
normative, da esercitarsi nel quadro definito dalla legislazione statale. Tale
assetto di rapporti, nel quale a ciascun ente è riconosciuta autonomia
finanziaria entro i limiti necessari
a mantenere l’unitarietà dell’ordinamento e la solidarietà tra le articolazioni
territoriali della Repubblica, si riassume nella formula del “federalismo fiscale”.
Nel conferire autonomia finanziaria di
entrata e di spesa ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni,
il nuovo assetto costituzionale ha conferito ad essi risorse autonome, in
aggiunta a compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro
territorio, nonché il potere di stabilire e applicare tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo
i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Nel corso degli anni, la giurisprudenza della
Corte costituzionale si è sforzata di enucleare il significato delle nuove
disposizioni e di precisarne la collocazione nel sistema giuridico.
Per quanto riguarda, in generale,
l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione e l’esplicazione della potestà legislativa regionale relativamente
all’istituzione di tributi propri, la Corte costituzionale ha segnalato
l’urgenza di realizzare il sistema di finanza regionale ivi prefigurato, “al
fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo titolo V della
Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di
competenze configurato dalle nuove disposizioni” e per prevenire “rischi di
cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza
n. 370 del 2003).
La sentenza n. 37 del 2004 ha indicato come necessario presupposto per l'attuazione
del disegno costituzionale “l’intervento del legislatore statale, il quale, al
fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i
principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare
le grandi linee dell'intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti
entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di
Stato, Regioni ed enti locali”. Per quanto riguarda in particolare i tributi locali, la riserva di legge
stabilita dall’articolo 23 della Costituzione comporta la necessità di definire
l'ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti
sub-regionali, sforniti di poteri legislativi, e il rapporto fra quest’ultima e
la legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla
disciplina di grado primario. La Corte ha quindi concluso che “non è
ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali
autonome in carenza della fondamentale legislazione
di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale”. Questa conclusione è
stata confermata nella sentenze n. 241 del 2004 (sulla delega per la riforma
del sistema fiscale statale) e n. 261 del 2004 (sulla determinazione delle basi
di calcolo dei sovracanoni per la produzione di
energia idroelettrica).
Per quanto riguarda la specificazione della
nozione di tributo proprio, la Corte
ha affermato costantemente che nell’attuale quadro normativo non si danno tributi che possano essere
definiti propri delle regioni, nel senso inteso dall’articolo 119 della
Costituzione. Infatti, attualmente esistono soltanto tributi istituiti e
disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla sola particolarità che il
loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina di questi “tributi
regionali” non è divenuta oggetto di legislazione concorrente, ai sensi
dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma appartiene alla
competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che disciplina i casi e i
limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa regionale. Spetta quindi al
legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel
dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti. Tale potestà deve
tuttavia esercitarsi in armonia con i nuovi princìpi costituzionali: in
particolare, non potrebbe sopprimere, senza sostituirli, gli spazi di autonomia
già riconosciuti alle regioni e agli enti locali dal vigente ordinamento, né
configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica tali princìpi (sentenza
n. 37 del 2004).
La prima pronunzia a questo proposito è
contenuta nella sentenza n. 296 del 2003 che, su ricorso del Governo avverso la
legge della regione Piemonte 5 agosto 2002, n. 20, ha dichiarato illegittime le
disposizioni ivi contenute in materia di imposta
regionale sulle attività produttive (IRAP) e di tassa automobilistica.
La Corte ha dichiarato che l’IRAP non può qualificarsi tributo
proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale articolo 119 della
Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la disciplina soltanto nei
limiti consentiti dalla normativa statale in proposito, non rilevando in contrario
la devoluzione del relativo gettito alle regioni stesse. Spetta quindi alle
regioni soltanto una limitata facoltà di variare l’aliquota e di disciplinare
le procedure applicative secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997.
Quest’impostazione è stata confermata dalle sentenze n. 241 e n. 381 del 2004,
che hanno deciso ricorsi delle regioni avverso leggi statali intervenute in
materia di IRAP e di addizionali regionali all’IRPEF.
Analogamente, in materia di tassa automobilistica, la Corte, nella
citata sentenza n. 296 del 2003, ha affermato che alle regioni è stato
attribuito “il gettito della tassa, unitamente alla attività amministrativa
connessa alla sua riscossione, restando invece ferma la disciplina statale per
ogni altro aspetto sostanziale della tassa stessa”. La disciplina sostanziale
dell’imposta non è divenuta quindi oggetto di legislazione concorrente ai sensi
dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione. Le successive sentenze n.
297 e n. 311 del 2003 nonché n. 455 del 2005 hanno confermato
quest’impostazione.
Similmente, con la sentenza n. 199/2016, la Corte ha dichiarato
l’incostituzionalità di un regime di esenzioni introdotte con legge regionale:
“questo regime è stato abrogato dall’art. 1, comma 666, lettera b), della legge
23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015), ma viene reintrodotto, a
talune condizioni, dalla norma impugnata, attraverso la sostituzione della
tassa automobilistica con una tassa di circolazione forfettaria. La tassa
automobilistica è prevista, per quanto qui interessa, dall’art. 8, comma 2, del
decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia
di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), che
permette alle Regioni di disciplinarla, fermi restando i limiti massimi di
manovrabilità indicati dalla legislazione statale. Questa Corte, nel vigore del
citato art. 8, ha già ritenuto che tali limiti concernono anche le esenzioni,
permesse solo nei termini stabiliti dalla legge dello Stato (sentenza
n. 288 del 2012), così confermando la propria giurisprudenza
anteriore (sentenze n. 451
del 2007, n. 455
del 2005 e n. 296
del 2003)”.
Nei medesimi termini sono state decise
controversie riguardanti il tributo
speciale per il deposito dei rifiuti solidi in discarica (previsto dalla
legge n. 549 del 1995). Le sentenze n. 335 e n. 397 del 2005 hanno dichiarato
costituzionalmente illegittime disposizioni di legge regionale che,
rispettivamente, rimettevano a deliberazione della Giunta regionale il metodo
di determinazione del tributo (art. 44, comma 3, della legge della regione
Emilia-Romagna 14 aprile 2004, n. 7) e ne disponevano l’aumento oltre il
termine fissato dalla legge dello Stato (art. 1 della legge della Regione
Molise 31 agosto 2004, n. 18). Anche questo tributo deve infatti considerarsi
statale e non proprio della regione, che può dunque legiferare solo nei casi e
nei limiti previsti dalla legge dello Stato.
Verte in materia di IRAP, ma afferma un
principio di più generale applicazione, la sentenza n. 431 del 2004, con cui la
Corte costituzionale ha deciso il ricorso della regione Veneto avverso
l’articolo 19 della legge n. 289 del 2002 (legge finanziaria per il 2003), che
prorogava agevolazioni fiscali relative all’IRAP nel settore agricolo. La Corte
ha rigettato infatti la tesi, sostenuta dalla regione, secondo cui ogni intervento
sul tributo che, o per modificazione delle aliquote o per variazioni delle
agevolazioni previste, comporti un minor gettito per le Regioni, dovrebbe
essere accompagnato da misure
compensative a ristoro della finanza regionale. Secondo il giudice delle leggi,
la manovra fiscale dev’essere considerata nel suo insieme e non è quindi
possibile, sotto questo profilo, valutare singole disposizioni. La tesi è stata
ribadita in occasione di un altro giudizio (sentenza n. 155 del 2006) relativo
a disposizioni dell’articolo 1, commi 347 e seguenti, della legge n. 311 del
2004 (legge finanziaria per il 2005) direttamente o indirettamente incidenti
sulla determinazione della base imponibile dell’IRAP.
Con la sentenza
n. 50 del 2012 la Corte
Costituzionale ha chiarito che fino al 2013 in materia di IRAP le Regioni "non possono modificare le basi imponibili;
nei limiti stabiliti dalle leggi statali, possono modificare l'aliquota, le
detrazioni e le deduzioni, nonché introdurre speciali agevolazioni". In
sostanza, non è consentito alle regioni introdurre modifiche della base
imponibile IRAP non previste dalla legislazione statale, in quanto l’IRAP,
anche dopo la sua «regionalizzazione», non è divenuta «“tributo proprio”
regionale – nell’accezione di tributo la cui disciplina è liberamente
modificabile da parte delle Regioni (o Province autonome) − ma resta un
tributo disciplinato dalla legge statale in alcuni suoi elementi strutturali e,
quindi, in questo senso, “erariale”», e lo Stato «continua a regolare compiutamente
la materia e a circoscrivere con precisione gli ambiti di intervento del
legislatore regionale» (sentenze n. 357 del 2010 e n. 216 del 2009).
La Corte ha anche escluso che la Regione
possa mai intervenire, con legge interpretativa o innovativa su un tributo
regolato da una legge statale, neppure adducendo la violazione, da parte di
detta legge statale, di norme costituzionali (sentenza n. 451 del 2007).
Con la sentenza
n. 102 del 2008 la Corte –
intervenendo sulla questione dei tributi propri delle Regioni a statuto speciale ed i loro limiti - ha dichiarato
l’illegittimità dell’imposta regionale
sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico (prevista
dall’articolo 2 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006 e successive
modifiche) e dell’imposta regionale
sulle seconde case ad uso turistico (prevista dall’art. 3 della medesima
legge regionale e successive modifiche).
La Corte ha rilevato “la contraddizione fra
la ratio ispiratrice del tributo regionale censurato e la scelta di politica
fiscale del legislatore statale di limitare la tassazione alle sole plusvalenze
realizzate nel quinquennio”, peraltro “accentuata dal rilievo che la norma
denunciata, in entrambe le sue formulazioni, realizza un'ingiustificata
discriminazione tra i soggetti aventi residenza anagrafica all'estero e i
soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna aventi residenza anagrafica in
Italia, violando così gli artt. 3 e 53 Cost.”.
Con riferimento ai beni
immobili degli enti territoriali, la sentenza n. 63 del 2013
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 66, comma 9, secondo
periodo, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (decreto
"liberalizzazioni"), nella parte in cui prevede che gli enti
territoriali, in assenza di debito pubblico, o per la parte eventualmente
eccedente, debbano destinare al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato le
risorse derivanti delle operazioni di dismissione previste dallo stesso
articolo 66.
Successivamente, con la sentenza n. 205 del 2013, in tema di destinazione delle risorse
derivanti da valorizzazione e
dismissione di immobili pubblici, la Corte respinge la questione di
legittimità costituzionale sollevata con riferimento al sesto e settimo periodo
del comma 8-ter dell’art. 33 del D.L. n. 98 del 2011, in quanto, da un lato, la
Regione ha facoltà di scegliere se procedere alla riduzione del debito tramite
la valorizzazione e dismissione dei beni di cui trattasi; dall’altro, la previsione del vincolo alla destinazione
delle risorse, esprimendo, come detto, un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, può
legittimamente comportare una limitazione dell’autonomia amministrativa della
Regione.
Più recentemente, sul medesimo tema la Corte,
con la sentenza n. 189 del 2015, ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma che prevede che il 10
per cento delle risorse nette derivanti dalla vendita dell'originario
patrimonio immobiliare disponibile degli enti territoriali deve essere
destinato prioritariamente all'estinzione anticipata dei mutui; per la
restante quota alla copertura di spese di investimento e in assenza di
queste o per la parte eccedente, per la riduzione del debito dell'ente
ovvero al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (articolo 56-bis, comma 11, del D.L. n . 69 del 2013,
come modificato dal D.L. n. 78 del 2015, art. 7, c. 5). Al riguardo la Corte
rileva che, non essendo finalizzata ad assicurare l’esigenza
del risanamento del debito degli enti territoriali e, quindi, non essendo
correlata alla realizzazione del ricordato principio fondamentale, la
disposizione si risolve in una indebita ingerenza nell’autonomia della Regione.
La Corte ribadisce che le norme statali che fissano limiti alla spesa delle
Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla
seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi
di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento
complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che
non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei
suddetti obiettivi (sentenza n. 237 del 2009; nello stesso senso sentenze n.
139 del 2009, n. 289 e n. 120 del 2008).
In materia di federalismo fiscale municipale, con la sentenza n. 64 del 2012 la Corte chiarisce,
anche con riferimento alle regioni a statuto speciale che le disposizioni che
prevedono la devoluzione ai comuni
siciliani del gettito di alcune imposte erariali non ledono la competenza legislativa
esclusiva dell'Assemblea regionale siciliana in materia di regime degli enti
locali e delle circoscrizioni relative.
In seguito al ricorso effettuato dalla
Regione Sicilia, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 97 del 2013 ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'estensione (prevista dall'articolo 4, comma 2, del D.L. n.
16 del 2012) ai territori con autonomie speciali dei rincari Rc auto stabiliti dal decreto
legislativo sul federalismo fiscale (D.Lgs n. 68 del
2011, articolo 17). L’imposta sulle assicurazioni resta dunque tributo erariale (e come tale di
spettanza della regione Sicilia) anche nel caso in cui il suo gettito sia stato
stornato a favore di un ente territoriale altro, e la sua vesta sia mutata da
tributo erariale propriamente detto a tributo proprio derivato (come
già affermato dalla Corte, ex multis, nelle sentenze
n. 123 del 2010, n. 216 del 2009, n. 397 del 2005, n. 37 del 2004, n. 296 del
2003).
Quanto alla eccezione alla devoluzione delle
entrate tributarie erariali a favore della Regione, la Corte afferma che essa
riguarda le nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato con apposite
leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità
contingenti o continuative dello Stato, specificate nelle leggi medesime (art.
2 del d.P.R. n. 1074 del 1965). Secondo la
giurisprudenza costituzionale (da ultimo, tra le molte, la sentenza n. 241 del 2012), occorrono tre condizioni concomitanti
perché l’eccezione summenzionata possa operare: a) la natura tributaria
dell’entrata; b) la novità di tale entrata; c) la destinazione del gettito «con
apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari
finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi
medesime».
La Consulta ha inoltre confermato con la
medesima sentenza l'abrogazione
dell'addizionale all'accisa sull'energia elettrica.
Nel caso di abolizione di tributi erariali il
cui gettito era devoluto alla Regione, o di complesse operazioni di riforma e
di sostituzione di tributi la Corte ritiene possibile che vi siano, senza
violazione costituzionale, anche riduzioni di risorse per la Regione, purché
non tali da rendere impossibile lo svolgimento delle sue funzioni. Ciò vale
tanto più in presenza di un sistema di finanziamento che non è mai stato
interamente e organicamente coordinato con il riparto delle funzioni, così da
far corrispondere il più possibile, come sarebbe necessario, esercizio di
funzioni e relativi oneri finanziari da un lato, disponibilità di risorse, in
termini di potestà impositiva (correlata alla capacità fiscale della
collettività regionale), o di devoluzione di gettito tributario, o di altri
meccanismi di finanziamento, dall’altro» (sentenza n. 138 del 1999, nonché, da
ultimo, sentenza n. 241 del 2012).
Tali condizioni sussistono nel caso
analizzato dalla Corte con la sentenza n.
135 del 2012 con riferimento all’attribuzione allo Stato del gettito
dell’addizionale erariale della tassa
automobilistica riscossa nel territorio della Regione siciliana e cioè: a)
la novità dell’entrata tributaria; b) la destinazione del gettito, con apposite
leggi, alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità
contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 22 del 2012, ha dichiarato
l'incostituzionalità di alcune disposizioni in materia di protezione civile
(articolo 5, commi 5-quater e 5-quinquies primo periodo della legge 24 febbraio
1992, n. 225, introdotte dal D.L. 225/2010). Le disposizioni censurate
autorizzavano il Presidente della Regione, a seguito della dichiarazione dello
stato di emergenza e ove il bilancio dell'ente interessato non recasse
disponibilità finanziarie sufficienti a fronteggiare le spese conseguenti
all'emergenza, a deliberare aumenti,
sino al limite massimo consentito dalla vigente legislazione, dei tributi, delle addizionali, delle
aliquote ovvero delle maggiorazioni di aliquote attribuite alla regione, nonché
ad elevare ulteriormente la misura dell'imposta regionale sulla benzina; in
subordine, la disposizione prevedeva la facoltà di attivazione del Fondo
nazionale di protezione civile ove le predette misure regionali non fossero
sufficienti, ovvero in tutti gli altri casi di eventi emergenziali di rilevanza
nazionale. La declaratoria di incostituzionalità è stata motivata in relazione
all'articolo 119 Cost. (per violazione dell'autonomia
finanziaria regionale), in rapporto all'articolo 23 Cost.
(in quanto violano la riserva di legge in materia tributaria) e 123 Cost. (in quanto ledono l'autonomia statutaria regionale).
La
legge n. 56 del 2014
Com’è noto la legge 7 aprile 2014, n. 56 (cd. ‘legge Delrio') ha dettato un'ampia riforma in materia di enti locali, prevedendo, nelle more dell'approvazione della riforma costituzionale del titolo V, l'istituzione e la disciplina delle città metropolitane e la ridefinizione del sistema delle province, oltre ad una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni di comuni.
Le città metropolitane sostituiscono le province in dieci aree urbane del paese; il loro territorio corrisponde a quello delle province. Sono organi della città metropolitana: - il sindaco metropolitano, che è di diritto il sindaco del comune capoluogo; - il consiglio metropolitano, organo elettivo di secondo grado, per cui hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci ed i consiglieri comunali; - la conferenza metropolitana, composta da tutti i sindaci dei comuni della città metropolitana.
Per quanto riguarda il riordino delle province, per esse è previsto un assetto ordinamentale analogo a quello della città metropolitana.
Sono pertanto organi della provincia: il presidente della provincia (che però è organo elettivo di secondo grado), il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci. La legge definisce altresì le funzioni fondamentali, rispettivamente, di città metropolitane e province, riconoscendo un contenuto più ampio alle prime, e delinea, con riferimento alle sole province, la procedura per il trasferimento delle funzioni non fondamentali ai comuni o alle regioni.
La legge individua nove città metropolitane: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria; ad esse si aggiunge la città metropolitana di Roma capitale (art. 1, comma 5, L. n. 56/2014). La legge riguarda esclusivamente le regioni a statuto ordinario.
Per le regioni a statuto speciale, i princìpi della legge valgono come princìpi di grande riforma economica e sociale, conformemente ai rispettivi statuti, per la disciplina di città e aree metropolitane nelle regioni Sardegna, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia, che adeguano i propri ordinamenti interni entro dodici mesi dall'entrata in vigore della legge (art. 1, comma 145, L. n. 56/2014).
Le città metropolitane sono riconosciute quali enti territoriali di area vasta, con le seguenti finalità istituzionali generali: cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano; promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione della città metropolitana; cura delle relazioni istituzionali afferenti il proprio livello, comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee.
Alle città metropolitane sono attribuite: le funzioni fondamentali delle province; le funzioni attribuite alla città metropolitana nell'ambito del processo di riordino delle funzioni delle province; le funzioni fondamentali proprie della città metropolitana
Alla città metropolitana di Roma capitale si applicano le norme generali sulle città metropolitane con alcune ulteriori specificità connesse alle funzioni che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli organi costituzionali nonché delle rappresentanze diplomatiche degli Stati esteri.
L'effettivo passaggio dalla provincia alla città metropolitana è avvenuto nella gran parte dei casi il 1° gennaio 2015, data a partire dalla quale la città metropolitana è succeduta alla provincia in tutti i rapporti attivi e passivi e ne esercita le funzioni, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica e degli obiettivi del patto di stabilità interna. Da tale data il sindaco del comune capoluogo assume le funzioni di sindaco metropolitano e la città metropolitana opera con il proprio statuto e i propri organi, assumendo anche le funzioni proprie. Spettano alla città metropolitana il patrimonio, il personale e le risorse della provincia, comprese le entrate provinciali.
La legge n. 56/2014 disciplina il sistema elettorale del consiglio metropolitano, che è organo elettivo di secondo grado.
Le prime elezioni dei consigli metropolitani di Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma e Torino hanno avuto luogo tra il 28 settembre e il 12 ottobre 2014. L'elezione del consiglio della città metropolitana di Venezia si è svolta il 9 agosto 2015 e quella di Reggio Calabria il 7 agosto 2016.
La ‘legge Delrio’ reca una disciplina per il riordino delle province, adottata in attesa della riforma costituzionale del Titolo V e delle relative norme di attuazione (art. 1, co. 51, L. n. 56/2014).
Come per le città metropolitane, la legge si applica direttamente nelle regioni a statuto ordinario. Le disposizioni sulle province non si applicano alle province autonome di Trento e di Bolzano e alla regione Valle d'Aosta. Le regioni a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia adeguano i propri ordinamenti interni ai princìpi della legge, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della medesima.
In base al nuovo assetto ordinamentale, gli organi della provincia sono: a) il presidente della provincia, eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia. Il presidente della provincia, che resta in carica quattro anni, ha la rappresentanza dell'ente, convoca e presiede il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici ed esercita le funzioni attribuite dallo statuto; b) il consiglio provinciale, che è composto dal presidente della provincia e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione residente:
Punto qualificante del nuovo ordinamento delle province è la ridefinizione delle funzioni a queste spettanti. In particolare, l'impianto riformatore distingue tra funzioni fondamentali, ossia quelle demandate alle province dalla stessa legge n. 56, e funzioni non fondamentali, ossia quelle eventualmente riattribuite alle province all'esito dell'attuazione del processo riformatore.
Nelle specifico, le funzioni fondamentali sono: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali; c) programmazione provinciale della rete scolastica, d) raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; e) gestione dell'edilizia scolastica; f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale.
In base alla legge n. 56/2014, le altre funzioni non fondamentali, già esercitate dalle province sono oggetto di un riordino complessivo mediante accordo in sede di Conferenza unificata, sulla base dei seguenti principi: individuazione per ogni funzione dell'ambito territoriale ottimale di esercizio; efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei comuni; sussistenza di riconosciute esigenze unitarie; adozione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio mediante intesa o convenzione.
Lo Stato provvede al riordino delle funzioni di sua competenza con apposito D.P.C.M. e le Regioni con proprie leggi. Come previsto dalla legge n. 56, le funzioni che nell'ambito del processo di riordino sono trasferite dalle province ad altri enti territoriali continuano ad essere da esse esercitate fino alla data dell'effettivo avvio di esercizio da parte dell'ente subentrante; tale data è determinata nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per le funzioni di competenza statale ovvero è stabilita dalla regione per le funzioni di competenza regionale.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 50 del 2015, ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale promosse da alcune regioni nei confronti della riforma di cui alla legge 56/2014, relative, principalmente, all'istituzione delle città metropolitane senza seguire la procedura prevista dall'art. 133 Cost, alla natura indiretta dell'elezione degli organi, al riordino delle funzioni delle Province ed all’esercizio del potere sostitutivo dello Stato in caso di mancata approvazione degli statuti dei nuovi enti.
Quanto all’istituzione delle città metropolitane, la Corte ha innanzitutto ricondotto la relativa disciplina alla competenza esclusiva statale. Con riferimento al mancato rispetto della procedura dell’articolo 133 Cost., la Corte ha rilevato che la legge in questione costituisce una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica, operando un intervento − che peraltro ha solo determinato l’avvio della nuova articolazione di enti locali, al quale potranno seguire più incisivi interventi di rango costituzionale – che è stato necessariamente complesso. “Ciò- precisa la Corte - giustifica la mancata applicazione delle regole procedurali contenute nell’art. 133 Cost., che risultano riferibili solo ad interventi singolari, una volta rispettato il principio, espresso da quelle regole, del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate, anche se con forme diverse e successive, al fine di consentire il predetto avvio in condizioni di omogeneità sull’intero territorio nazionale.”
Circa l’elezione di secondo grado introdotta per gli organi delle Città metropolitane, la Corte sottolinea come la natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’art. 114 Cost., come costitutivi della Repubblica, ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’art. 5 Cost. non implichino l’automatica indispensabilità che gli organi di governo di tutti questi enti siano direttamente eletti.
Viene richiamata in proposito la precedente giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 274 del 2003 e ordinanza n. 144 del 2009), ivi compresa la sentenza n. 96 del 1968, nella quale la Corte aveva “affermato la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico, escludendo che il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo del territorio venga meno in caso di elezioni di secondo grado, «che, del resto, sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato»”.
Viene poi esaminato il nuovo modello ordinamentale delle Province, confermandosi in primo luogo quanto già detto nella sentenza in esame circa la legittimità dell’elezione di secondo grado degli organi. Sul riordino delle funzioni delle province disposto dalla legge n. 56/2014, alla luce dell’intervenuto Accordo sancito nella Conferenza unificata dell’11 settembre 2014 e con successivo DPCM la Corte ritiene venuto meno l’interesse delle Regioni ricorrenti e dichiara cessata la materia del contendere,
La sentenza affronta infine le questioni relative all’esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato, ritenendole infondate in quanto le norme censurate mirano ad assicurare il necessario principio dell’unità giuridica su tutto il territorio nazionale con l’attuazione del nuovo assetto ordinamentale rivisto dalla stessa legge n. 56 del 2014; ed in quanto, in ogni caso, “il potere sostitutivo statuale trova il suo fondamento espresso nella legge, dalla quale risulta la definizione dei presupposti sostanziali, e costituisce la manifestazione degli interessi unitari alla cui salvaguardia è propriamente preordinato l’intervento surrogatorio dello Stato.
Il trasferimento delle funzioni provinciali
Con l'inizio del 2016 tutte le Regioni a statuto ordinario hanno adottato la normativa sul riordino delle funzioni delle Province in attuazione della legge n. 56 del 2014 e dell'accordo Stato-Regioni dell'11 settembre 2014.
In particolare, vi hanno provveduto, con i menzionati provvedimenti: la Toscana (legge regionale 3 marzo 2015, n. 22), l'Umbria (legge regionale 2 aprile 2015, n. 10), le Marche (legge regionale 31 marzo 2015, n.13), la Liguria (legge regionale 10 aprile 2015, n. 15), la Calabria (legge regionale 22 giugno 2015, n. 14), la Lombardia (legge regionale 8 luglio 2015, n. 19), l'Emilia Romagna (legge regionale 30 luglio 2015, n. 13), l'Abruzzo (legge regionale 20 ottobre 2015, n. 32), il Veneto (legge regionale 29 ottobre 2015, n. 19), il Piemonte (legge regionale 29 ottobre 2015, n. 23), la Basilicata (legge regionale 6 novembre 2015, n. 49), la Campania (legge regionale 9 novembre 2015, n. 14), il Molise (legge regionale 10 dicembre 2015, n. 18), la Puglia (legge regionale 30 ottobre 2015, n. 31). La regione Lazio ha dettato disposizioni sulla materia con gli artt. 7-9 della legge di stabilità regionale 31 dicembre 2015, n. 17.
Alcune leggi regionali prevedono peraltro, in misura più o meno ampia, il mantenimento in capo alle province di funzioni non fondamentali (così, ad esempio, art. 2, comma 1, L.R. Lombardia n. 19/2015; art. 6, comma 1, e titolo II; L.R. Emilia Romagna n. 13/2015; art. 2, comma 1, L.R. Veneto n. 19/2015; art. 2 L.R. Piemonte n. 23/2015).
La legge n. 56/2014 esprime un nuovo assetto delle province e del livello istituzionale di area vasta che – in disparte l’esito della recente consultazione referendaria - è da ritenere stabile, in funzione (come rilevato dalla Corte dei conti) del rispetto del principio di continuità delle funzioni amministrative che, in quanto tale, opera oggettivamente in una prospettiva duratura. La necessità che ne discende di garantire comunque tale continuità anche in presenza di un processo di riallocazione di funzioni verso nuovi soggetti territoriali, ha portato più volte la Corte costituzionale a pronunciarsi – stante anche il ricorrere delle manovre finanziarie di consolidamento dei conti pubblici - sulla adeguatezza delle risorse rispetto alle funzioni provinciali.
Con le sentenze n. 202 e n. 205 del 2016, la Corte Costituzionale ha giudicato non fondati i ricorsi di legittimità costituzionale concernenti le norme della legge di stabilità 2015 attuative della legge n. 56/2014, giudicando legittimi i tagli alle risorse delle province e le disposizioni che per il biennio 2015/2016 hanno vincolato il budget per le assunzioni di regioni ed enti locali al ricollocamento dei dipendenti provinciali soprannumerari. In particolare la sentenza n. 205 evidenzia come la riduzione della spesa corrente degli enti di area vasta, oltre a perseguire il generale obiettivo di efficienza della spesa pubblica, è principalmente connessa alla riforma degli enti stessi. Tale obiettivo comporta un limite implicito all’efficacia temporale della previsione, nel senso che la riduzione della spesa corrente e il vincolo del versamento del corrispondente importo al bilancio dello Stato sono legati al processo di attuazione della riforma e, più precisamente, alla fase di passaggio delle funzioni non fondamentali ad altri enti, con conseguente riduzione dell’organico. La previsione del versamento al bilancio statale di risorse frutto della riduzione della spesa da parte degli enti di area vasta va dunque inquadrata nel percorso della complessiva riforma in itinere. E, così intesa, essa – precisa la Corte (richiamando anche le sentenze n. 159 del 2016 e n. 50 del 2015) - si risolve in uno specifico passaggio della vicenda straordinaria di trasferimento delle risorse dall’ente provincia ai nuovi soggetti ad esso subentranti nelle funzioni riallocate, vicenda la cui gestione deve necessariamente essere affidata allo Stato.
Si tratta perciò di misure per loro natura e funzione intrinsecamente transitorie e per ciò stesso evidentemente destinate a venire meno una volta attuata la riforma, con il trasferimento delle funzioni non fondamentali ad altri enti.
Per altri profili, peraltro, la Consulta ha confermato l’autonomia finanziaria delle province, sottolineando in due diverse sentenze (in cui si censurano alcune disposizioni della regione Piemonte in materia di i bilancio) i contenuti sostanziali dei precetti costituzionali finalizzati a garantire il diritto alla prestazione dei servizi: precetti assicurati anche dall’esercizio delle funzioni amministrative che non possono venir meno, e che devono essere adeguate a livelli minimi essenziali al di sotto dei quali i finanziamenti insufficienti possono anche risultare inutili. Nella prima di queste due sentenze (n. 188/2015) il criterio dell'adeguata corrispondenza tra risorse e funzioni viene ricavato dalla Corte a partire dal principio di buon andamento della p.a., letto a sua volta alla luce del principio di ragionevolezza, la cui violazione si riverbera anche in una ingiustificata menomazione dell'autonomia finanziaria delle Province. Le possibilità di ridimensionamento delle risorse sono possibili ma incontrano tuttavia dei limiti. In proposito la Corte richiama il proprio orientamento secondo cui «possono aversi, senza violazione costituzionale, anche riduzioni di risorse per la Regione [nel caso in esame della Provincia], purché non tali da rendere impossibile lo svolgimento delle sue funzioni. Ciò vale tanto più in presenza di un sistema di finanziamento che dovrebbe essere coordinato con il riparto delle funzioni, così da far corrispondere il più possibile esercizio di funzioni e relativi oneri finanziari da un lato, disponibilità di risorse dall’altro.
Nella
stessa direzione con la sentenza n. 10
del 2016, applicando il principio di buon andamento sono state dichiarate illegittime alcune norme, anche in tal
caso della Regione Piemonte - che (con la leggi finanziaria e di bilancio 2014),
aveva ridotto consistentemente risorse alle provincie di Asti e Novara - poiché
i tagli di risorse sono stati effettuati in misura tale da non consentire di finanziare le funzioni conferite alle stesse
Provincie, e tali anzi da rendere le risorse non idonee ad assicurare copertura
alla spesa, a cominciare da quella relativa al personale. La Corte ha anche
ritenuto violato il principio di eguaglianza sostanziale, perché rilevanti riduzioni
di risorse pregiudicano ai cittadini
la continuità nella fruizione dei
diritti di rilevanza sociale: fruizione che costituisce "un profilo di
garanzia fondante nella tavola dei valori costituzionali, che non può essere
sospeso nel corso del lungo periodo di transizione che accompagna la riforma delle
autonomie territoriali", sottolinea la sentenza. Infatti, i servizi
pubblici, indipendentemente dal soggetto anche temporalmente titolare,
non possono essere negativamente influenzati dalla complessità del processo di
passaggio tra diversi modelli di gestione. La forte riduzione delle risorse
destinate a funzioni esercitate con carattere di continuità ed in settori di
notevole rilevanza sociale risulta manifestamente irragionevole proprio per
l’assenza di proporzionate misure che ne possano in qualche modo giustificare
il dimensionamento (come già esposto nella pronuncia n. 188 del 2015 sopra
citata).
[1] Nel caso di specie si trattava di una riduzione da parte della regione Piemonte alle risorse a favore delle province per le funzioni loro conferite e delegate. La riduzione ammontava al 50% rispetto all'anno precedente e al 77% rispetto al biennio anteriore ad invarianza di funzioni e senza un progetto di riorganizzazione.
[2] (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.
[3] Cfr. sentenza 272/2015 il punto 3.1. del Considerato in diritto: «Previsioni di questo tipo sono dirette a fronteggiare una situazione che provoca gravi conseguenze per il sistema produttivo (soprattutto per le piccole e medie imprese) e a favorire la ripresa economica, con effetti positivi anche per la finanza pubblica (si pensi all’aumento di entrate tributarie derivante dal soddisfacimento dei creditori e al possibile aumento del Pil, che rileva ai fini del rispetto del patto europeo di stabilità: sentenza n. 8 del 2013)». Conseguentemente la Corte respinge l’assunto avanzato dalla ricorrente e, in effetti, pare che la norma-precetto lasciasse un margine di scelta agli enti pubblici, che erano tenuti ad organizzare le proprie procedure di pagamento dei debiti in modo da non superare i «tempi medi» massimi fissati dalla norma stessa.
[4] Corte cost., sentenza n. 69 del 2016, punto 7, del Considerato in diritto.
[5] Cfr. al riguardo quanto più analiticamente approfondito nel paragrafo “Finalità e limiti del coordinamento finanziario”.
[6] La legge n. 296/2007 avviò in via sperimentale il programma di analisi e valutazione della spesa, poi reso permanente l’anno successivo.
[7] Le
leggi n. 228/2012 e n. 147/2013 hanno previsto principalmente tagli di spesa
nei settori del personale pubblico, degli enti locali e della sanità.
[8] Il sistema è formalmente imperniato su tributi propri e compartecipazioni, ma il livello del FSN garantito dallo Stato prescinde dagli importi delle voci che concorrono a formarlo e, almeno finora, da calcoli del fabbisogno teorico derivanti dall'utilizzo dei costi standard delle regioni più virtuose. D'altronde, l'effettivo venir meno dei trasferimenti statali, con il conseguente reperimento a livello regionale delle risorse mediante tributi e compartecipazioni, avrebbe sicuramente comportato numerosi squilibri territoriali, in virtù della diversa incidenza sul territorio nazionale delle indicate fonti di entrata, aggravando le sperequazioni già esistenti. Ad ulteriore conferma che il sistema sanitario nazionale è ben lungi dall'essersi strutturato come manifestazione di federalismo fiscale si osserva che né i costi standard né il diverso contributo fiscale proveniente dalle regioni incide sul riparto del FSN, tuttora effettuato sulla base della quota capitaria pesata. Il Fondo sanitario nazionale, pertanto, dopo una breve stagione, ha fatto la sua ricomparsa, finendo per assumere in pratica i connotati del mai realizzato fondo perequativo.