Camera dei deputati
XVII Legislatura
BIBLIOTECA – LEGISLAZIONE
STRANIERA
Appunto 6/2014
14 febbraio 2014
L’ingiuria e la
diffamazione a mezzo Internet
in
Francia, Germania, Regno Unito e Spagna
Francia
In Francia le norme che definiscono il reato di diffamazione e di ingiuria
espresse mediante mezzi di comunicazione pubblica sono contenute nella legge sulla libertà di stampa del 1881, più volte modificata (Loi du 29 juillet 1881 sur la liberté de la presse
). Il testo legislativo prevede
un regime speciale per la sanzione dei reati commessi a mezzo stampa o mediante
altri mezzi di comunicazione, tra i quali è compreso anche “ogni mezzo di
comunicazione al pubblico per via elettronica” (art.
23).
Il diritto francese oltre
a prevedere i due reati di diffamazione e ingiuria, dà anche diverso rilievo al
fatto che le dichiarazioni diffamatorie o ingiuriose siano state espresse in forma pubblica o privata.
La diffamazione è definita, all’art.
29 della legge citata, come “ogni
allegazione o imputazione di un fatto che sia lesiva dell’onore o della
considerazione della persona o del corpo al quale è riferita”. L’elemento
morale del reato consiste nella consapevolezza di recare danno all’onore o alla
considerazione altrui, mentre l’intenzione di nuocere è presunta. Con la
formula “lesione dell’onore e della considerazione della persona” si intende
l’offesa recata alla sfera più intima dell’individuo, ossia alla dignità e al
decoro dell’essere umano. L’art. 29 dispone inoltre che “la pubblicazione
diretta, o come riproduzione, di questa allegazione o di questa imputazione è
punibile anche se è fatta in forma dubitativa, o se riguarda una persona o un
corpo non espressamente indicati, ma di cui l’identificazione è resa possibile
dai termini dei discorsi, delle grida, delle minacce, degli scritti o degli
stampati, dei manifesti o dei cartelloni incriminati”.
L’ingiuria, ai sensi dello stesso art. 29, secondo comma, è definita
come “ogni espressione di oltraggio, di disprezzo o di invettiva che non contenga
l’imputazione di alcun fatto preciso”.
La distinzione tra le due
fattispecie si fonda sull’offesa all’onore e alla considerazione della vittima,
con imputazione di un fatto preciso o meno.
La legge sulla libertà di
stampa definisce come délits
(reati) la diffamazione e l’ingiuria
espresse in forma pubblica e ne prevede le sanzioni penali (artt. 30-33). Qualora
invece la diffamazione o l’ingiuria siano espresse in forma privata, il Codice
penale le qualifica come infrazioni definite “contravvenzioni” (contraventions)
di I classe (Code Pénal,
art.
R621-1 e art.
R.621-2) e punibili con un’ammenda fino a 38 euro (Code Pénal, art.
131-13).
Le diffamazioni e le
ingiurie in forma pubblica sono soggette, di norma, secondo la legge sulla
libertà di stampa, alla prescrizione
dopo tre mesi dalla loro espressione (art.
65), ad eccezione di quelle formulate per motivi razziali, religiosi o
riguardanti il sesso, l’orientamento sessuale o una condizione di handicap della
vittima, per le quali il termine di prescrizione è di un anno.
Le pene relative alla diffamazione e all’ingiuria pubblica variano in
base alla vittima del reato e alle motivazioni che ne sono alla base.
Se la diffamazione pubblica è commessa nei confronti di tribunali, forze
armate, “corps constitués”
(ad esempio, consigli comunali, università, camere di commercio),
amministrazioni pubbliche (art.
30), o se è rivolta verso il Presidente della Repubblica, o verso i membri
del governo, i parlamentari, o altre categorie, tra cui “i cittadini incaricati
di un servizio o mandato pubblico”, in ragione delle loro funzioni o del loro
ruolo (art.
31), la pena prevista è un’ammenda
fino a 45.000 euro. Se, invece, il soggetto offeso è una persona fisica non
appartenente ad una delle categorie citate negli artt. 30 e 31, la pena
consiste in un’ammenda fino a 12.000
euro (art.
32).
Nel caso in cui la vittima subisca una diffamazione per motivi razziali o per la sua appartenenza ad una
confessione religiosa o anche in ragione della sua identità sessuale, del suo orientamento
sessuale o di una sua condizione di handicap, per l’autore del reato è prevista
una pena detentiva fino ad un anno e/o un’ammenda
fino a 45.000 euro (art. 32).
L’ingiuria pubblica commessa
nei confronti degli stessi organi o persone menzionate agli artt. 30 e 31 o nei
confronti di soggetti privati è sanzionata con un’ammenda fino a 12.000 euro. È punita invece con una pena fino a sei mesi di
detenzione e un’ammenda fino a 22.500
euro l’ingiuria pubblica per motivi razziali, o per l’appartenenza del soggetto offeso ad
una confessione religiosa o in ragione della sua identità sessuale, del suo orientamento
sessuale o di una sua condizione di handicap (art.
33).
I reclami per il risarcimento di
danni causati dalla diffamazione o dall’ingiuria, come da altri illeciti che si
qualificano come abusi della libertà di espressione previsti dalla legge sulla
libertà di stampa, sono azionabili in via principale in sede penale, salvo
alcune eccezioni (art.
45).
L’imputazione di responsabilità
penali per gli illeciti previsti dalla legge sulla libertà di stampa
commessi attraverso internet è inoltre regolata dalla legge del 1982 sulla comunicazione audiovisiva, da ultimo
modificata nel 2009 (Loi n. 82-652 du 29 juillet 1982 sur la communication audiovisuelle
). Il provvedimento prevede
una responsabilità penale principale del direttore o co-direttore della
pubblicazione elettronica se la messa online del messaggio incriminato è stata
preventivamente determinata; in questo caso l’autore materiale del messaggio
diffamatorio o ingiurioso sarà perseguito solo come “complice”. Nel caso in cui
invece la pubblicazione del messaggio incriminato non sia stata preventivamente
determinata dal direttore, risulterà come “autore principale” del messaggio, e
dunque perseguibile, l’autore materiale dello stesso, o in caso di sua
impossibile identificazione, il produttore (producteur) della pubblicazione (art.
93-3).
La
responsabilità del direttore (o del co-direttore) è poi esclusa “se l’illecito
risulta dal contenuto di un messaggio indirizzato da un internauta ad un
servizio di comunicazione online e messo a disposizione del pubblico da tale
servizio in uno spazio di contributi personali identificato come tale”. In tal
caso deve inoltre risultare che il direttore (o il co-direttore) non era
effettivamente a conoscenza del messaggio prima della sua messa online o che,
appena avutane notizia, abbia provveduto prontamente a ritirarlo dalla rete.
Sempre
con riferimento alle responsabilità
penali per le dichiarazioni diffamatorie e ingiuriose pubblicate online, rileva
anche la normativa riguardante specificatamente i supporti della comunicazione
via internet. A tal proposito sono da considerare in particolare gli obblighi
sanciti dalla legge sull’economia
digitale del 2004 (Loi n. 2004-575 du 21
juin 2004 sur l’économie numerique
).
La legge del
2004 stabilisce, in modo specifico, che i gestori di
piattaforme digitali che assicurano lo stoccaggio di messaggi scritti,
immagini, ecc. online, su richiesta degli utenti dei servizi di stoccaggio, non siano in linea di principio responsabili per le attività o le
informazioni di carattere illecito immesse sui siti internet, nel caso in cui non
siano a conoscenza del loro contenuto illecito o se, dal momento in cui essi ne
abbiano avuto conoscenza, abbiano provveduto prontamente a ritirare i messaggi
incriminati o a renderne impossibile l’accesso (art. 6, I, 3).
Il
provvedimento dispone inoltre che i soggetti
che offrono servizi per l’accesso alla rete e i gestori di piattaforme
digitali che assicurano lo stoccaggio di
messaggi, ecc. online “non sono
sottoposti ad un obbligo generale di controllare le informazioni che
trasmettono o memorizzano, né ad un obbligo generale di ricercare fatti o
circostanze che rivelano attività illecite” (art. 6, I, 7).
Tuttavia, con
riguardo ad alcune informazioni è invece loro richiesto un particolare controllo sui messaggi che gli
internauti possono diffondere. Si tratta di comunicazioni sui seguenti temi: apologia dei crimini contro l’umanità, incitamento all’odio razziale, così
come alla pornografia infantile,
incitamento alla violenza, in
particolare contro le donne, offese alla dignità umana (art. 6, I, 7).
Ai fini di un
contrasto alla diffusione di tali contenuti, gli internet host provider e i gestori di
piattaforme digitali di stoccaggio di messaggi online sono obbligati a mettere
a punto un dispositivo facilmente accessibile e visibile, che permetta a tutti
di segnalare loro la pubblicazione di tali messaggi illeciti. Essi hanno
inoltre l’obbligo di informare le autorità competenti di ogni attività illecita
di diffusione dei temi sopra richiamati da parte degli utenti dei loro servizi,
che sia stata loro segnalata e di rendere pubblici i mezzi che essi dedicano
alla lotta contro queste attività illegali (art. 6, I, 7).
L’inosservanza
di tali obblighi generali è sanzionata con la pena fino ad un anno di detenzione e un’ammenda fino a 75.000 euro.
Ogni vittima
di dichiarazioni diffamatorie o ingiuriose, secondo la legge sulla libertà di
stampa, ha inoltre “diritto di replica” (droit de réponse).
La legge del 2004 ha istituito anche uno
specifico diritto di replica applicato a
internet in base al quale ogni persona nominata o designata in un servizio
di comunicazione al pubblico online dispone di un diritto di replica, con anche
possibilità di richiedere la correzione della pubblicazione o del messaggio che
possa indirizzare al servizio online (art. 6, IV). La richiesta di esercizio del
diritto di replica è indirizzata al direttore della pubblicazione online, o in
caso di persona che editi a titolo non professionale o mantenga l’anonimato, al
provider o al web host provider. La richiesta di
replica, che è gratuita, deve essere presentata entro il termine di 3 mesi
dalla data di diffusione al pubblico del messaggio in causa. Il direttore della
pubblicazione è tenuto a inserire le repliche nel servizio di comunicazione al
pubblico online entro i tre giorni successivi alla ricezione di tali repliche,
pena l’obbligo del pagamento di un’ammenda di 3750 euro, che non esclude anche eventuali
altre sanzioni e risarcimento-danni ai quali il messaggio online in causa possa
dare luogo (cfr. inoltre Décret d’application du 24 octobre 2007).
Germania
Le
disposizioni che disciplinano il reato di diffamazione sono contenute nella
quattordicesima sezione della parte speciale (Besonderer Teil) del Codice penale (Strafgesetzbuch – StGB),
dedicata ai delitti contro l’onore.
Pur essendo sancite a livello costituzionale (art. 5 della Legge Fondamentale),
la libertà di stampa e la libertà di informazione radiotelevisiva incontrano
però dei limiti nell’esigenza di garantire altri interessi meritevoli di
tutela. La libertà di manifestare e diffondere il proprio pensiero con parole,
scritti e immagini senza preclusioni da fonti accessibili a tutti non possono,
infatti, ledere le disposizioni poste a tutela della gioventù e il diritto
all’onore personale, come stabilisce lo stesso art. 5 LF, comma 2.
La disciplina
codicistica distingue tre fattispecie di reato: la diffamazione, la menzogna diffamatoria
e la diffamazione e menzogna diffamatoria contro persone impegnate nella vita
politica. Per quanto riguarda la diffamazione
in generale (Üble Nachrede), il
§ 187 del Codice penale stabilisce
che chiunque, riferendosi ad un’altra persona, affermi o divulghi un fatto
idoneo a denigrarla o a svalutarla di fronte all’opinione pubblica, è punito -
se il fatto non è provabile e vero - con la reclusione fino a un anno o con una
sanzione pecuniaria. Se l’azione è commessa pubblicamente o mediante la
diffusione di scritti, è prevista la detenzione fino a due anni o una pena
pecuniaria. La prova liberatoria della verità del fatto
affermato determina un’esclusione della punibilità, nella misura in cui non sia
rinvenibile la fattispecie di cui al §
192, cioè la c.d. “ingiuria nonostante prova liberatoria” (Beleidigung trotz Wahrheitsbeweiss). Ciò che rileva non è la sussistenza
della verità in senso assoluto del fatto affermato, quanto la possibilità di
provarne la fondatezza e la realtà: sull’autore del reato grava quindi un onere
probatorio da intendersi in senso materiale. Qualora non sia possibile giungere
alla prova liberatoria perché permangono dubbi sulla verità o meno delle
dichiarazioni rese, in parziale contrasto con il principio “in dubio pro reo”,
il giudice sarà tenuto a condannare l’imputato non potendo escludere con
certezza l’antigiuridicità e la colpevolezza insite nella sua condotta. Sono
tuttavia previste anche ipotesi in cui l’autore resta comunque impunito, come
ad esempio nel caso in cui avesse agito in difesa di diritti o per la tutela di
interessi giuridicamente protetti ai sensi del § 193 (Wahrnehmung berechtigter Interessen) o quando la dichiarazione resa si fondi su
di una notizia proveniente da un organo ufficiale. Nel riferirsi alla prova
liberatoria tramite sentenza penale (Wahrheitsbeweis durch Strafurteil), il § 190 dispone che se il fatto affermato
o divulgato è un reato, la prova liberatoria si considera fornita quando la
persona offesa è stata condannata per questo fatto con giudizio definitivo. La
prova liberatoria è invece esclusa quando la parte lesa è stata definitivamente
assolta prima dell’affermazione o della divulgazione del fatto.
La conoscenza
o meno, da parte dell’autore, della falsità delle proprie affermazioni,
distingue la diffamazione dalla menzogna
diffamatoria (Verleumdung)
di cui al § 187, in base al quale chiunque, riferendosi ad un’altra
persona, affermi o divulghi in mala fede un fatto non vero, idoneo a
denigrarla o a svalutarla di fronte all’opinione pubblica o a mettere in
pericolo la sua reputazione, è punito con la detenzione fino a due anni o con la pena pecuniaria. In caso di
circostanze aggravanti, cioè se l’azione è commessa pubblicamente, in una
riunione o tramite la diffusione di scritti, la durata della pena detentiva può
arrivare fino a cinque anni. Rispetto al § 186 è qui prevista, come ulteriore
aggravante, l’ipotesi che l’azione denigratoria possa essere commessa anche
nell’ambito di una riunione.
Nel
successivo § 188 la diffamazione e la menzogna diffamatoria
sono riferite entrambe alle persone impegnate nella vita politica (Üble Nachrede und Verleumdung gegen Personen des politischen
Lebens). La norma prevede, infatti, che se
pubblicamente, in una riunione o tramite la diffusione di scritti viene
diffamata una persona impegnata nella vita politica, per motivi connessi alla
sua posizione nella vita pubblica, e l’azione è idonea a pregiudicarne in
maniera rilevante l’attività pubblica, la pena consiste nella detenzione da tre mesi a cinque anni.
Per la menzogna diffamatoria è, invece, prevista una pena detentiva da sei mesi
a cinque anni, quando sussistono gli stessi presupposti. Risulta evidente, in
questo caso, che l’interesse tutelato trascende la prospettiva prettamente
individuale e si proietta verso una funzione di pubblica utilità: la ragione
della diffamazione deve cioè trovare fondamento proprio nella posizione
ricoperta dall’offeso e deve essere tale da pregiudicarne l’agire pubblico in
maniera rilevante.
Infine,
l’ultima disposizione della sezione, il §
200, nel chiudere la disciplina dei delitti contro l’onore, prevede la pubblicazione della sentenza di condanna
(Bekanntgabe der Verurteilung). Il tipo di pubblicità deve essere
stabilito nella sentenza. In particolare, se l’ingiuria è stata commessa
tramite pubblicazione in un quotidiano o in un periodico, anche la
pubblicazione deve essere disposta in un quotidiano o in un periodico e, se
possibile, precisamente nello stesso in cui era contenuta l’ingiuria. Le stesse
regole si applicano anche quando l’ingiuria è stata commessa per mezzo di una
trasmissione radiofonica.
La
responsabilità dei service provider
Con la legge del 22 luglio 1997 (rimasta in
vigore fino al 2007) recante la disciplina delle condizioni generali per i
servizi di informazione e comunicazione (Gesetz
zur Regelung der Rahmenbedingungen für Informations-und Kommunikationsdienste – IuKD)
sono state introdotte nell’ordinamento tedesco alcune norme che riguardano
specificamente la responsabilità dei provider
e degli operatori in internet. Tali disposizioni, contenute precisamente
nel § 5 della legge sull’utilizzo dei servizi telematici (Gesetz über die Nutzung
von Telediensten,
Teledienstegesetz - TDG) che
costituiva l’art. 1 della IuKD, distinguono due figure di provider: il fornitore di servizi e il fornitore di un accesso alla
rete. Il primo, oltre a predisporre un accesso alla rete per i propri utenti, è
un fornitore di informazioni – in modo diretto o tramite terzi – sulla rete
stessa. Qualsiasi provider che
predisponga pagine web a cui gli
utenti possono accedere rientra in questa categoria e deve considerarsi
responsabile sia per il materiale illecito da lui stesso creato o riprodotto e
messo a disposizione per i propri utenti, sia per il materiale prodotto da
altri e messo a disposizione sul suo server.
In quest’ultimo caso, però, occorre che il provider
sia a conoscenza della pubblicazione di materiale illecito sul suo server, che disponga degli strumenti
tecnici per evitare l’ulteriore diffusione in rete di tale materiale e che si
possa ragionevolmente attendere un suo intervento affinché la diffusione di
tale materiale venga impedita. Diversa è invece la posizione della seconda
figura di provider, che è escluso da
qualsiasi forma di responsabilità per il materiale inviato da terzi, poiché è
solo un fornitore di accesso alla rete al pari di un operatore telefonico.
Prima
dell’approvazione della legge federale del 1997, la giurisprudenza tedesca era
orientata ad applicare la disciplina della responsabilità editoriale di una
testata giornalistica anche all’internet
provider. In materia di diffamazione, ad esempio, l’orientamento dei
giudici era quello di limitare la responsabilità dell’editore, e quindi per
analogia anche quella del provider,
alle sole affermazioni dichiaratamente offensive. Nell’affrontare un caso di
diffamazione online, il Tribunale distrettuale di Stoccarda sostenne
l’impossibilità di riconoscere in capo al provider responsabile un obbligo di
controllo di tutto il materiale inviato dai propri utenti. Secondo i giudici di
Stoccarda, tale responsabilità poteva essere ammessa soltanto nel caso in cui
il provider fosse stato a conoscenza
o avesse potuto conoscere l’esistenza del materiale offensivo.
Le
disposizioni contenute nella legge del 1997 riprendono in parte le affermazioni
dei giudici di Stoccarda stabilendo le tre condizioni già menzionate perché
possa attribuirsi una qualche responsabilità al fornitore di servizi in rete e
cioè, riepilogando: che questi sia effettivamente a conoscenza (non basta
quindi la mera conoscibilità) del materiale illecito; che abbia i mezzi tecnici
idonei ad impedire l’ulteriore uso di tale materiale e che ci si possa
ragionevolmente aspettare che tale impedimento venga messo in atto.
Dopo la sua
entrata in vigore (1° agosto 1997), la legge sui servizi telematici (Teledienstegesetz)
è stata modificata tre volte (nel 2000, nel 2001 e nel 2006) ed è stata infine
abrogata e incorporata nella nuova legge sui media telematici (Telemediengesetz – TMG), contenuta nell’art. 1 della
legge di unificazione di norme su determinati servzi
elettronici di informazione e comunicazione (Gesetz zur Vereinheitlichung
von Vorschriften über bestimmte elektronische Informations- und Kommunikationsdienste,
Elektronischer-Geschäftsverkehr-Vereinheitlichungsgesetz
- ElGVG) del
26 febbraio 2007, con la quale è stata recepita in Germania la direttiva
comunitaria 2000/31/CE dell'8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti
giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il
commercio elettronico, nel mercato interno. La nuova legge, in vigore dal 1°
marzo 2007 e da ultimo modificata nel maggio 2010, si applica ai c.d. Telemedia,
definiti in senso ampio come qualsiasi servizio di informazione o di
comunicazione elettronico, che non sia, da un lato, una trasmissione
radiofonica o televisiva (Rundfunk) e, dall’altro, un servizio di telecomunicazioni (Telekommunikationsdienst).
Nel campo di applicazione della TMG non rientrano, ad esempio, né l’Internet Protocol
TV (IPTV), né il Voice Over Internet Protocol (VOIP), ma le nuove disposizioni si applicano
pienamente ai siti web, alla posta
elettronica, ai motori di ricerca, alle piattaforme di scarico della musica, ai
webshop, ai
blog, ai newsgroup, ai portali, alle chatroom
e ai video on demand.
Sono soggetti alla nuova disciplina tutti i prestatori di servizi telematici,
compresi quelli di natura pubblica, a prescindere dal fatto che sia percepito o
meno un compenso per l’utilizzo del servizio stesso.
Sostanzialmente
le disposizioni contenute nella Telemediengesetz (§§
7-10), pur essendo più ampie e dettagliate rispetto alla legge precedente, non
mutano la responsabilità dei provider
dei media telematici per i contenuti di terzi ospitati sui propri server (aste online, mercati virtuali, forum di discussione, siti web,
ecc.). Tale responsabilità è infatti disciplinata anche dalla normativa
comunitaria in materia di commercio elettronico, che non prevede un obbligo
generale di monitorare in via preventiva i contenuti pubblicati, ma solo quello
di intervenire a posteriori una volta accertato il contenuto illecito. Il §
7, comma 1 della TMG, analogamente al § 5, comma 1 della vecchia normativa,
stabilisce infatti che i fornitori di servizi (Diensteanbieter) sono responsabili
per le proprie informazioni da essi rese disponibili in rete secondo le leggi
generali, ovvero le norme di diritto civile e penale (ivi comprese quelle
relative al reato di ingiuria e diffamazione), di diritto pubblico e, in
particolare, sul diritto d’autore. In tal caso la disciplina applicabile è
assimilabile a quella prevista per le pubblicazioni off-line. Il comma 2 dello stesso articolo precisa però che gli
stessi fornitori di servizi non hanno alcun obbligo di vigilanza sulle
informazioni da essi trasmesse o memorizzate, né quello di indagare sulle
circostanze che indichino un’attività illecita. Resta tuttavia invariato
l’obbligo di rimuovere o di bloccare l’utilizzo delle informazioni così come
previsto dalle leggi generali anche nel caso di irresponsabilità dello stesso
fornitore di servizi.
Rispetto alla
vecchia disciplina, la legge del 2007 distingue, ai fini della responsabilità
imputabile al provider per i
materiali altrui, la fattispecie della trasmissione (Durchleitung) di informazioni e
quella della memorizzazione (Speicherung) di tali informazioni sul proprio server. In merito al primo profilo, il §
8 stabilisce che il fornitore di servizi non è responsabile per le informazioni
altrui, che egli trasmette in una rete di comunicazione o a cui dà accesso per
l’utilizzo, a meno che egli stesso non abbia indotto la trasmissione, non abbia
selezionato il destinatario delle informazioni trasmesse e non abbia
selezionato o modificato le informazioni trasmesse. L’irresponsabilità del provider è espressamente esclusa qualora
egli collabori intenzionalmente con l’utente del suo server al fine di commettere un’azione illecita. Parimenti, il § 10
dispone che il provider non sia
responsabile per le informazioni altrui che memorizza sul suo server, a meno che non sia a conoscenza
dell’azione o dell’informazione illecita e non agisca prontamente per rimuovere
l’informazione o bloccare l’accesso ad essa non appena acquisito tale
conoscenza.
Regno Unito
La diffamazione
effettuata attraverso comunicazioni elettroniche è fattispecie disciplinata dal
Defamation Act 2013,
le cui disposizioni, entrate in vigore il 1° gennaio 2014, hanno innovato un quadro
normativo evolutosi - secondo un tratto tipico del sistema giuridico del Regno
Unito - sulla base di un considerevole apporto del diritto giurisprudenziale.
Caratteri
generali della law of defamation
La disciplina
applicabile alla diffamazione è formata in parte dal diritto di matrice
giurisprudenziale (common law) e in parte dal diritto legislativo; essa
tende, nel complesso, a privilegiare un’impostazione fondata sull’illecito
civile e sul conseguente risarcimento del danno rispetto all’approccio penalistico.
La fattispecie della diffamazione costituisce essenzialmente un illecito civile (tort)
che dà origine ad un’azione di risarcimento, e soltanto in modo residuale un reato (offence).
Nell’elaborazione giurisprudenziale, il
carattere diffamatorio di una pubblicazione è materia tradizionalmente rimessa
all'apprezzamento del giudice, come anche la sussistenza di esimenti (privileges), relative o assolute, corrispondenti ad
una complessa casistica di situazioni nonché al grado di diffusione delle affermazioni
diffamatorie; sul piano probatorio, inoltre, hanno rilievo la falsità e la
malafede (falsity and malice)
del contenuto di tali affermazioni. L’onere di provare, in sede di contenzioso
civile, la veridicità delle affermazioni ritenute diffamatorie grava
interamente sul convenuto, quale logica conseguenza della loro presunta
falsità; l’operatività di questa regola probatoria comporta che, nella prassi,
per non esporsi ad azioni di risarcimento i media
usino particolare cautela nel pubblicare notizie di cui non sia certa la
veridicità.
Sul versante penale, il reato si articola
nelle due figure del libel e dello slander, a seconda che la lesione alla reputazione e
all'onore venga perpetrata mediante lo scritto, la stampa o (in base alla
interpretazione evolutiva del concetto di publication) la diffusione radiotelevisiva,
oppure oralmente, mediante epiteti ingiuriosi od offensivi.
Nel primo
caso, il libel – assimilabile alla diffamazione a mezzo stampa nel diritto italiano –
è integrato da una condotta idonea a ledere l’altrui reputazione,
indipendentemente dal fatto che l’autore della diffamazione abbia certezza
della falsità di quanto dichiarato; la prova che le dichiarazioni di cui si
asserisce il carattere diffamatorio siano corrispondenti a verità non è infatti
elemento di per sé idoneo a far cadere l’accusa, a differenza di quanto avviene
in sede civile (cosiddetta defence of justification). Il libel
così perpetrato legittima la parte lesa ad agire in giudizio per
ottenere provvedimenti inibitori (injunction)
idonei ad interrompere il comportamento lesivo e per richiedere il risarcimento
del danno, che può essere liquidato in misura assai ingente qualora non si
limitino a compensare la lesione patita, ma assumano anche, nei casi più gravi,
una funzione di deterrenza (exemplary damages).
Nel secondo
caso, lo slander può dar luogo ad
un'azione di risarcimento soltanto se la diffamazione o ingiuria consistano
nell'attribuzione di un fatto delittuoso, o se la vittima provi di aver subito
un danno materiale.
Portata del
tutto residuale, nel sistema penale della defamation law, è assegnata al tema della responsabilità vicaria, che ha invece rilievo in sede di tutela
civile poiché può esservi affermata la responsabilità, oltre che del
giornalista, dell’editore e dello stampatore.
L'entità
delle sanzioni penali previste per
il reato di diffamazione dipende sostanzialmente dalla consapevolezza del reo (mens rea) circa la falsità delle
affermazioni lesive della altrui reputazione. Tali sanzioni variano, per il libel, dall'ammenda alla pena detentiva fino a un
anno; qualora il reo sia stato a conoscenza della falsità delle affermazioni,
la pena detentiva può essere elevata a due anni.
Alla
disciplina penale delineata dal common law, e sostanzialmente recepita dalle leggi in materia di criminal
libel adottate nel XIX secolo, ha contribuito la
successiva legislazione, perlopiù
concernente i profili civilistici della materia ed orientata ad introdurre
temperamenti in un sistema talvolta considerato, per la sua tradizionale
rigidità, sbilanciato sul versante della tutela dell’onore rispetto alla
garanzia del diritto di cronaca e di critica.
Con il Defamation Act approvato
nel 1952, il legislatore ha dapprima mitigato il rigore di tali norme
(applicabili quando l'affermazione diffamatoria configuri un “breach of peace” e
abbia perciò rilevanza per l'interesse pubblico), introducendo attenuanti per
il reo qualora questi abbia adottato comportamenti riparatori o si sia
adoperato per rettificare le proprie affermazioni diffamatorie.
Successivamente,
nella prospettiva di un riequilibrio delle posizioni soggettive suscettibili di
essere incise dall’esercizio di libertà fondamentali, il Defamation Act 1996 ha ridotto
il termine di prescrizione per promuovere azioni legali per diffamazione, e ha
previsto quale esimente di responsabilità la rettifica delle notizie pubblicate
(“offer to make amends”). Un’ulteriore difesa giudiziale è stata
prevista dalla legge per il caso in cui la parte che ha contribuito alla
divulgazione della notizia non abbia avuto conoscenza del suo contenuto
diffamatorio (“innocent dissamination”,
applicabile, ad esempio, con riguardo alla distribuzione libraria o agli Internet service providers).
Da ultimo,
con il Defamation Act 2013 il
legislatore ha innovato le norme in materia di diffamazione, adottando un testo
normativo che, pur non intendendo conseguire una codificazione della law of defamation
(la cui disciplina generale resta ampiamente affidata, come già detto, al
diritto giurisprudenziale), ne ha aggiornato gli istituti e ha introdotto, tra
l’altro, alcune cause di non punibilità, nel segno di un più adeguato bilanciamento
tra la tutela dell’onore e della reputazione e la libertà di espressione.
La legge del
2013 prevede, in particolare, l’onere per la parte lesa di provare l’effettivo
pregiudizio subito (“serious harm”) in
conseguenza delle dichiarazioni diffamatorie; prevede altresì l’esimente
costituita dall’interesse pubblico alla notizia, purché riportata in modo
responsabile; introduce, per i mezzi di informazione, l’esimente della
veridicità e correttezza delle notizie e dei commenti riportati (“truth and onest opinion”);
definisce gli obblighi degli Internet service providers rispetto
ai contenuti pubblicati dagli utenti, ponendo a loro carico la predisposizione
di procedure di conciliazione tra gli autori dei contenuti diffusi e quanti se
ne ritengono lesi nell’onore.
La
responsabilità degli Internet service
providers
Le
disposizioni del Defamation Act 2013 dedicate
alle comunicazioni elettroniche formano una disciplina complessivamente orientata
ad individuare il punto di equilibrio tra la libertà di espressione e la tutela
dell’onore e della reputazione, in un ambito connotato sia dalle peculiarità
tecniche degli strumenti di comunicazione elettronica, che li distinguono dai
tradizionali canali informativi, sia della varietà dei ruoli assunti dagli
operatori del settore, i quali – sebbene ricompresi nella generale categoria
degli Internet service providers
(ISP) - possono essere, di volta in volta, fornitori di servizi di rete (host), gestori di piattaforme di
comunicazione (come Facebook) oppure
motori di ricerca (come Google).
Le nuove
regole mantengono fermo il criterio generale dell’esonero da responsabilità dei providers
rispetto ai contenuti immessi dagli utenti nei canali di comunicazione
elettronica (user-generated contents);
tale esclusione della responsabilità discende, com’è noto, dal diritto
comunitario, segnatamente dalle norme in materia di commercio elettronico del
2000 (direttiva 2000/31/CE), le cui disposizioni
(art. 12) isolano l’attività di “semplice trasporto” (mere conduit) svolta dagli operatori per affrancarla
dall’imputabilità di illeciti commessi da terzi attraverso i mezzi di
comunicazione elettronica ricadenti nel loro controllo.
In linea di
principio, la posizione del fornitore di accesso a servizi Internet, che si
limita a veicolare in rete l’informazione e non incorre in responsabilità per
il suo contenuto, è dunque diversa da quella del provider in grado di esercitare un controllo sulle risorse
infomative rese accessibili al pubblico, il quale è per tale motivo
assimilabile al publisher e soggetto
alle medesime regole. La differenza dei due ruoli non è però così nitida nella
prassi, poiché l’operatività dei provider
può non esaurirsi nella prestazione di un servizio di connessione, ma
configurarlo come secondary publisher,
qualora essa comporti un certo grado di discrezionalità circa la durata e le
modalità dell’accesso pubblico ad un determinato contenuto informativo
pubblicato attraverso la sua piattaforma di comunicazione.
Per tale
ragione, il legislatore ha perseguito l’obiettivo di un attivo coinvolgimento
dei fornitori di servizi di comunicazione, i quali, anche se non tenuti ad
effettuare preventivi controlli sui contenuti diffusi attraverso le loro
piattaforme, nondimeno devono provvedere, nel caso della diffusione di contenuti diffamatori (nella forma, ad
esempio, di messaggio “postato” in un blog
oppure di tweet inviato od inoltrato
dall’utente), alla loro rimozione
entro un breve termine e nel quadro di una specifica procedura che prende avvio
con il reclamo notificatogli dalla
parte lesa.
Tale obbligo
è posto dalle legge quale contrappeso dell’esimente generale prevista per gli operators of websites (Defamation Act 2013, art.5), i quali non
sono considerati responsabili della diffusione di contenuti diffamatori
effettuata per loro tramite (anche quando i messaggi di tale natura sono
pubblicati da utenti di od “ambienti” di comunicazione sottoposti a
“moderazione”), se non in presenza di determinate condizioni: quando la parte
lesa dimostri l’impossibilità di identificare l’autore materiale del messaggio
(il quale deve invece essere individuabile, anche se anonimo, dal provider), di avere presentato reclamo
al provider e di non averne ricevuto
risposta entro i termini, o che lo stesso provider
ha agito con dolo (malice).
La disciplina
così delineata è integrata dalle regole di dettaglio introdotte dalla normativa
secondaria: le Defamation (Operators of Websites) Regulations 2013
prescrivono le operazioni che il provider,
al fine di non incorrere nella relativa responsabilità, deve compiere una volta
che venga a conoscenza di contenuti diffamatori diffusi attraverso la sua
piattaforma di comunicazione.
È previsto
nelle Regulations, in particolare,
che il reclamo concernente un’informazione diffamatoria pervenuto al gestore
della rete o piattaforma di comunicazione debba essere da questo notificato a
sua volta all’utente individuato come autore del messaggio. L’utente che abbia
ricevuto tale notifica (da cui possono essere espunte le generalità del
reclamante) è tenuto, entro cinque giorni, a formulare per iscritto il proprio consenso alla rimozione del suo
messaggio o commento, che in caso di sua adesione viene effettuata dal provider entro i due successivi giorni
lavorativi, e resa nota al reclamante (art. 7).
In mancanza
di tale risposta (o di sua incompletezza) il provider è obbligato, sempre entro il termine di due giorni
lavorativi, alla cancellazione del
testo di valenza diffamatoria (artt. 5, 6); in caso di espresso diniego del
consenso da parte dell’autore (poster)
del messaggio, questo dovrà comunicare i propri dati e dichiarare se acconsente
alla loro trasmissione al reclamante (art. 8), dovendo comunque il provider, a fronte di una comunicazione
di dati evidentemente falsi o inattendibili, procedere comunque alla rimozione
del messaggio diffamatorio, e comunicare i dati identificativi dell’autore
all’autorità giudiziaria che ne faccia richiesta.
Inoltre, in
caso di ripetizione per più di due volte del messaggio diffamatorio, in forma
identica o sostanzialmente analoga a quello già oggetto del primo reclamo, il provider provvede a rimuoverlo entro due
giorni dal ricevimento del nuovo reclamo (art. 9 delle Regulations).
Ad innescare
la procedura ora riassunta è, come già detto, il reclamo del soggetto che si pretende leso da notizie diffamatorie,
atto di cui la normativa secondaria delinea la forma tipica: il claimant vi indica il significato da lui
attribuito alle affermazioni di cui asserisce la valenza diffamatoria; vi
specifica quali notizie sul suo conto sono da ritenersi inaccurate o non
rispondenti al vero e, infine, vi dichiara di non avere sufficienti elementi
per la immediata identificazione del loro autore (art. 2). Eventuali deroghe ai
termini temporali che scandiscono tale procedura possono essere disposte
dall’autorità giudiziaria in base a considerazioni di “interesse della
giustizia” (art. 5 delle Regulations;
una illustrazione degli adempimenti procedurali ripartiti tra i tre soggetti - operator, claimant e poster – è
offerta dalla Guidance pubblicata dal Ministro della
Giustizia nel gennaio 2014).
Merita
segnalare come tali soluzioni complessivamente rappresentino, nell’esperienza
del Regno Unito, l’approdo legislativo di un articolato dibattito svoltosi
precedentemente in ambito giurisprudenziale, e caratterizzato dai diversi
orientamenti delineatisi in tema di obblighi del provider e sul parametro di diligenza (reasonable care) a cui essi devono attenersi circa il controllo
sulle informazioni diffuse attraverso gli strumenti da loro gestiti.
A questo
riguardo, la composizione dei contrapposti interessi è stata risolta dai
giudici con una varietà di decisioni: se in un caso (Godfrey v Demon Internet Ltd,
definitosi nel 2001) è stata affermata la responsabilità del provider che aveva rimosso i contenuti
diffamatori da un forum di
discussione trascorsi non meno di dodici giorni dal reclamo dell’interessato,
in un caso più recente (Tamiz v Google, del 2012) è stata
esclusa la responsabilità del gestore del noto motore di ricerca non essendo
questo assimilabile ad un editore, quanto piuttosto al «proprietario di un muro imbrattato nottetempo di
scritte diffamatorie ad opera di terzi», il quale,
se può procurarsi «impalcature e vernice» per cancellarli, non per questo deve considerarsi
responsabile alla medesima stregua di un publisher.
Ancora in anni recenti, una più precisa definizione della sfera della
responsabilità del provider non ha
tratto beneficio da una sentenza della Corte Suprema del Regno Unito, che in un
caso di diffamazione on-line (Flood v Times Newspapers Ltd, del
2011) si è concentrata sugli aspetti relativi alla veridicità della notizia e
all’adeguatezza dei controlli effettuati dall’editore, senza considerare la
questione della permanenza della notizia sulle pagine di un quotidiano on-line
anche dopo il proscioglimento del ricorrente da gravi imputazioni.
Questi
profili, indicativi della complessità della disciplina applicabile ai providers, sono puntualmente venuti
all’esame del Parlamento. Nel corso del dibattito parlamentare sul progetto di
legge da cui ha avuto origine la legge del 2013 è affiorata l’esigenza di
contemperare i diversi interessi attraverso il ricorso a procedure stragiudiziali di risoluzione delle controversie, che se
possono costituire, da una parte, un aggravio per gli operatori del settore
relativamente alle risorse organizzative e finanziarie necessarie per
predisporle, d’altra parte hanno il pregio di limitare i ricorsi in giudizio e,
di riflesso, di sollevare i providers
da un non meno oneroso scrutinio sui contenuti informativi degli utenti, che
applicato cautelativamente e in modo rigido rischierebbe, inoltre, di
comprimere la libertà di espressione (tali aspetti sono venuti all’attenzione,
in particolare, nel dibattito svoltosi nel gennaio 2013 presso la Camera Alta sul Defamation Bill).
La disciplina
dettata dalla legge del 2013 (e dalle relative Regulations) appare coerente con tale impostazione di fondo, poiché
persegue la comunicazione tra le parti e la spontanea cancellazione dei
contenuti diffamatori diffusi on line,
attribuendo un ruolo mediatorio allo stesso provider
che proprio attraverso il corretto svolgimento di tale compito si esonera dalla
responsabilità.
Può
segnalarsi, a questo proposito, il precedente costituito dall’operatività di un
protocollo predisposto dal Ministero della Giustizia e dal Lord Chancellor (Pre-action Protocol for Defamation,
aggiornato nel 2013) per introdurre regole di buona condotta destinate alle
parti costituite in un procedimento per diffamazione e ad agevolare, ove
possibile, la risoluzione stragiudiziale della lite. Benché il protocollo
faccia riferimento a procedimenti instaurati in giudizio e alla possibilità di
soluzioni transattive, esso persegue un obiettivo di fondo che può assumersi
valido tanto per i “tradizionali” mezzi di comunicazione quanto per i nuovi media: quello di «incoraggiare lo scambio di informazioni tra le parti
in una fase preliminare e fornire un chiaro quadro di riferimento entro cui
esse, agendo in buona fede, possono addivenire ad una immediata ed appropriata
composizione della lite». La rapida
definizione dei reclami, peraltro, ha particolare rilievo nelle controversie in
materia di diffamazione, in cui è normalmente interesse primario della parte
lesa conseguire la tempestiva correzione, rettifica o cancellazione delle
notizie diffamatorie diffuse sul suo conto come aspetto essenziale del ristoro
della sua reputazione.
Spagna
In Spagna
sono previste due fattispecie di reato: la calunnia (calumnia) e l’ingiuria (injuria), che
costituiscono i “reati contro l’onore” (delitos contra el honor),
disciplinati dal libro II, titolo XI, artt. 205-216, del codice penale del 1995.
La calunnia, secondo l’articolo 205 del
codice, consiste nell’attribuire falsamente (o con “temerario disprezzo della
verità”) a qualcuno la commissione di un reato; quando ciò avviene pubblicamente (con publicidad), cioè attraverso la stampa, la radiodiffusione o
mediante un altro mezzo avente un’efficacia similare (art. 211), il codice
prevede una pena detentiva compresa tra
i sei mesi e i due anni oppure,
in alternativa, una sanzione pecuniaria tra i 12 e i 24 mesi
(art. 206).
L’ingiuria, in base all’articolo 208 del
codice, consiste in un’azione o un’espressione che lede la dignità di un’altra
persona, sminuendo la sua fama o attentando alla sua considerazione; anche in
tale fattispecie l’ipotesi di reato scatta allorché è evidente la falsità o la
temerarietà dell’accusa e qualora, inoltre, le espressioni ingiuriose - per la
loro natura, gli effetti prodotti e le circostanze - siano ritenute gravi
secondo il giudizio corrente. Per l’ingiuria grave pronunciata pubblicamente è
prevista una pena pecuniaria, per l’esattezza
una multa da 6 a 14 mesi
(art. 209).
In entrambe
le circostanze il reato non sussiste
solo nel caso in cui l’accusato provi, nel caso della calunnia, il fatto
oggetto delle sue affermazioni (art. 207) o, nel caso dell’ingiuria, la verità
delle sue espressioni offensive rivolte a funzionari pubblici, in relazione a
fatti concernenti l’esercizio delle loro funzioni o riferiti alla commissione
di contravvenzioni penali o di infrazioni amministrative (art. 210).
In base
all’articolo 212 del codice, è prevista anche la responsabilità civile solidale dei proprietari dei mezzi d’informazione,
attraverso i quali è stata messa in circolazione la calunnia o l’ingiuria.
Il codice
prevede, inoltre, una circostanza aggravante,
cioè la commissione della calunnia o dell’ingiuria a seguito dell’ottenimento
di un compenso economico, di un altro tipo di ricompensa o, comunque, di una
promessa di un vantaggio (art. 213); in tal caso è prevista una pena
accessoria, consistente nell’inabilitazione
speciale all’esercizio dell’ufficio o carica pubblica o della propria
professione, ufficio, industria o commercio, per un periodo che va dai sei mesi
ai due anni.
Nel caso in
cui l’accusato di calunnia o ingiuria riconosca davanti all’autorità
giudiziaria la falsità o l’incertezza delle imputazioni e le ritratti, il
giudice o tribunale irroga la pena immediatamente inferiore di grado e può
decidere di non imporre l’inabilitazione di cui all’art. 213. Il giudice
ordinerà che il diffamatore consegni la testimonianza della ritrattazione
all’offeso e, se quest’ultimo ne fa richiesta, la pubblicazione con lo stesso
mezzo di diffusione con cui fu realizzata la calunnia o l’ingiuria, nello
spazio identico o similare a quello con cui fu prodotta la diffusione (art.
214).
La
procedibilità per la calunnia e l’ingiuria è su querela della parte offesa o del suo rappresentante legale, tranne
il caso in cui l’offesa sia rivolta a un funzionario pubblico, un’autorità o un agente della stessa su
fatti concernenti l’esercizio delle loro funzioni, allorché si può procedere d’ufficio. Nessuno può promuovere
l’azione nel caso di ingiuria vertente in giudizio, senza la previa
autorizzazione del giudice o tribunale che conosce o ha conosciuto la vicenda.
Il perdono dell’offeso o del suo rappresentante estingue l’azione penale (art.
215).
Per i reati
di calunnia e ingiuria la riparazione del danno comprende anche la
pubblicazione o divulgazione della sentenza di condanna, a spese del
condannato, nel tempo e nella forma che il giudice o tribunale ritenga maggiormente
adeguati, udite le parti (art. 216).
L’ampia
formulazione utilizzata dall’art. 211 del codice penale, per cui la calunnia e
l’ingiuria si considerano commesse pubblicamente quando sono diffuse attraverso
la stampa, la radiodiffusione o mediante un altro mezzo avente un’efficacia
similare, non lascia dubbi sul fatto che anche
Internet rientri nella fattispecie considerata.
Quanto alla
responsabilità civile di cui all’art. 212 del codice, la normativa sul punto risulta
integrata dalla Ley 34/2002, de 11 de julio,
de servicios de la sociedad
de la información y de comercio
electrónico,
i cui artt. 9-17 prescrivono gli obblighi e le
responsabilità dei fornitori di servizi in rete. In particolare l’art. 13,
relativo alla responsabilità dei fornitori di servizi della società
dell’informazione, riconosce che essi sono soggetti alla responsabilità civile,
penale e amministrativa stabilita in via generale dall’ordinamento giuridico.
L’art. 14 prevede tuttavia che gli operatori delle reti di telecomunicazione ed
i provider di accesso a una rete di
telecomunicazioni che forniscono un servizio di intermediazione, consistente
nel trasmettere mediante una rete di telecomunicazioni dati forniti dal
destinatario del servizio o nel consentire l’accesso alla rete, non sono responsabili per l’informazione
trasmessa, salvo nel caso in cui essi abbiano originato la trasmissione,
modificato i dati o selezionato i dati ovvero i destinatari dei dati.