Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Audizione dell'Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini - Roma, 29 ottobre 2015
Serie: Bollettino commissioni    Numero: 26
Data: 28/10/2015
Descrittori:
DIFESA E SICUREZZA INTERNAZIONALE   POLITICA ESTERA
RELAZIONI INTERNAZIONALI   UNIONE EUROPEA

Senato della Repubblica

 

Camera dei deputati

 

 

 

 

 

Documentazione per le Commissioni

Audizioni e incontri in ambito UE

 

 

 

 

Audizione dell’Alto Rappresentante dell’Unione

per gli affari esteri e la politica di sicurezza,

Federica Mogherini

 

Roma, 29 ottobre 2015

 

 

 

 

 

Senato della Repubblica

Servizio Studi

Dossier europei

n. 8

  Camera dei deputati

Ufficio rapporti con l’Unione  

europea

  n. 26

 

 

28 ottobre 2015

 

XVII LEGISLATURA


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dossier è stato curato dall’Ufficio rapporti con l’Unione europea (' 06 6760.2145 - * cdrue@camera.it) e dal Servizio Studi (' 06 6760.3410 - * st_segreteria@camera.it) della Camera dei deputati e dai Servizi Studi (' 06 6706.2451 - * affeuropei@senato.it) e Affari Internazionali (' 06 6706.3666 - * segreteriaaaii@senato.it ) del Senato della Repubblica.

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INDICE

Schede di lettura  1

L’Alto Rappresentante dell’Unione  per gli affari esteri e la politica di sicurezza  3

Il Servizio europeo per l’azione esterna  4

La Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) dell’Unione europea  7

La Politica estera e di sicurezza comune (PESC) 7

La Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) 8

La cooperazione strutturata nel settore della difesa  9

Il processo decisionale  10

Sviluppi nel settore della difesa (a cura del Servizio Studi del Senato) 11

Il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC  15

La revisione della Strategia di sicurezza dell’UE  17

Il documento di riflessione “The European Union in a changing global environment” 17

Recenti attività del Consiglio europeo e del Consiglio dell’UE in materia di politica estera e di sicurezza comune  23

Le missioni militari e civili dell'UE e il dibattito sulla loro efficacia (a cura del Servizio Studi del Senato) 29

Le disposizioni del Trattato di Lisbona  29

Le missioni militari e civili dell'Unione europea  30

La missione navale militare dell’UE nel Mediterraneo centromeridionale (EUNAVFOR MED, operazione Sophia) 33

Il dibattito sull'efficacia delle missioni militari e civili dell'UE  35

La politica di vicinato – bilancio, consultazione e attività di Camera e Senato (a cura del Servizio Studi del Senato) 39

Introduzione  39

Il Documento di consultazione  40

I contributi del Senato e della Camera  43

La politica di allargamento - stato dei negoziati e prospettive (a cura del Servizio Studi del Senato) 47

La gestione dei flussi migratori 51

Le dimensioni del fenomeno   51

Cronologia dei recenti interventi UE  51

Il Consiglio europeo del 15-16 ottobre 2015  55

Riunione degli Stati membri interessati alla rotta dei Balcani occidentali 60

Focus sui principali scenari di crisi (a cura dei Servizi Studi Camera e Senato, Servizio Affari internazionali del Senato, Osservatorio di politica internazionale) 63

-      Libia (a cura del Servizio Studi della Camera) 65

-      Siria (a cura del Servizio Studi della Camera) 69

-      Israele e Autorita' Nazionale Palestinese (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 73

-      Egitto (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 77

-      Turchia (a cura del Servizio Studi della Camera) 83

-      Contrasto al terrorismo di matrice islamica (a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato) 87

-      Afghanistan (a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale - CESI) 95

-      I riflessi dell’accordo sul nucleare sulla politica interna di Teheran (a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale - CESI) 99

-      Ucraina (a cura del Servizio Studi Camera) 105

 


 

 

 


 

 

Schede di lettura



 

L’Alto Rappresentante dell’Unione
per gli affari esteri e la politica di sicurezza

 

Ai sensi dell’art. 27 del RUE, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza:

·    guida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione e la attua in qualità di mandatario del Consiglio;

·    assicura la coerenza dell’azione esterna dell’Unione;

·    presiede il Consiglio dell’UE “Affari esteri” ed è uno dei Vicepresidenti della Commissione;

·    rappresenta l’Unione europea per le materie che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune. Conduce a nome dell’Unione il dialogo politico con i paesi terzi ed esprime la posizione dell’Unione nelle organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU.

L’Alto Rappresentante è nominato dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione, per un periodo di 5 anni. La sua nomina è sottoposta al voto collettivo di approvazione del Parlamento europeo sull’intera Commissione, ai sensi dell’art. 17 del TUE.

Lettera di incaricoFederica Mogherini è stata nominata Alto Rappresentante dal Consiglio europeo con decorrenza dal 1° dicembre 2014.

Il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, nella lettera di incarico ne ha chiarito il mandato sottolineando l’importanza del suo doppio ruolo di Vicepresidente della Commissione europea e Alto Rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza.

L’Alto Rappresentante, infatti, coordina il lavoro dei commissari con portafogli che hanno un impatto sulle relazioni esterne dell’UE.

Si tratta in particolare dei Commissari europei responsabili per:

·    allargamento e politica di vicinato (Johannes Hahn);

·    commercio (Cecilia Malmström);

·    cooperazione internazionale e politica di sviluppo (Neven Mimica);

·    aiuti umanitari e gestione delle crisi (Christos Stylianides).

A tal fine, l’Alto Rappresentante presiede il gruppo di lavoro sull’azione esterna, che si riunisce su base mensile ed è composto dai suddetti commissari cui sono associati anche i seguenti commissari europei con portafogli aventi una dimensione esterna rilevante: azione per il Clima ed energia (Miguel Arias Cañete); Trasporti (Violeta Bulc) migrazione, affari interni e cittadinanza (Dimitris Avramopoulos).

I rappresentanti specialiL’Alto Rappresentante è inoltre supportato da Rappresentanti speciali dell’UE per specifiche regioni ed aree.

Attualmente vi sono 9 rappresentanti speciali competenti per: Corno d’Africa (Alexander Rondos); Kosovo (Samuel Žbogar), diritti umani (Stavros Lambrinidis); Afghanistan (Franz-Michael Skjold Mellbin); Bosnia Erzegovina (Lars-Gunnar Wigemark); Caucaso del Sud crisi in Georgia (Herbert Salber); Sahel (Michel Dominique Reveyrand-de Menthon); processo di pace in Medio Oriente (Fernando Gentilini); Asia Centale (Peter Burian).

 

Il Servizio europeo per l’azione esterna

Il “Servizio europeo per l’azione esterna” (SEAE) è il servizio diplomatico dell’UE previsto dall’art. 27 del TUE con il compito di:

·    assistere l'Alto Rappresentante dell'UE nella gestione della politica estera e di sicurezza dell'UE;

·    gestire le relazioni diplomatiche e i partenariati strategici con i paesi extra UE;

·    collaborare con i servizi diplomatici nazionali dei paesi dell'UE, l'ONU e altre potenze mondiali.

Il Servizio europeo per l'azione esterna, guidato dall’Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, è composto da:

·    a Bruxelles – personale esperto trasferito dal Consiglio dell'UE, dalla Commissione europea e dai servizi diplomatici dei paesi dell'UE;

·    una rete di "ambasciate" (delegazioni) dell'UE presso 140 paesi terzi.

Il Servizio è un organo funzionalmente autonomo, distinto dalla Commissione e dal segretariato del Consiglio composto da una amministrazione centrale e 140 delegazioni[1] dell’Unione nei paesi terzi e presso le organizzazioni internazionali.

Il contributo finanziario per il funzionamento del SEAE nel progetto di bilancio dell’UE per il 2016 è pari a circa 600 milioni di euro.


 


La Politica estera e di sicurezza comune (PESC)
e la Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) dell’Unione europea

 

La Politica estera e di sicurezza comune (PESC)

L’articolo 24, paragrafo 2 del Trattato sull’Unione europea (TUE) prevede la realizzazione di una politica estera e di sicurezza comune fondata sullo sviluppo della reciproca solidarietà politica degli Stati membri, sull'individuazione delle questioni di interesse generale e sulla realizzazione di un livello di convergenza delle azioni degli Stati membri.

La PESC resta un settore d'azione prevalentemente intergovernativo nel quale il ruolo del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri dell’UE è preponderante.

ObiettiviLe disposizioni sulla politica estera e di sicurezza comune e sulla politica di sicurezza e difesa comune sono essenzialmente contenute all’articolo 21 del TUE indica i seguenti obiettivi per la politica estera comune dell’UE:

·    salvaguardia dei valori, degli interessi fondamentali, della sicurezza, dell'indipendenza e dell'integrità dell'Unione Europea;

·    consolidamento e sostegno alla democrazia, allo Stato di diritto, ai diritti dell'uomo e ai principi del diritto internazionale;

·    preservazione della pace, prevenzione dei conflitti e rafforzamento della sicurezza internazionale;

·    sviluppo sostenibile dei paesi in via di sviluppo sul piano economico, sociale e ambientale, con l'obiettivo primo di eliminare la povertà;

·    incoraggiamento dell'integrazione di tutti i paesi nell'economia mondiale;

·    contributo all'elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell'ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile;

·    aiuti alle popolazioni, ai paesi e alle regioni colpiti da calamità naturali o provocate dall'uomo;

·    promozione di un sistema internazionale basato su una cooperazione multilaterale rafforzata e del buon governo mondiale.

 

La Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC)

Con il Trattato di Lisbona viene esplicitamente evocata la prospettiva di una difesa comune, o comunque la definizione di una politica di difesa comune, i cui principi erano già stati stabiliti nel trattato di Maastricht, è diventata più realistica.

L’articolo 42, paragrafo 2 del TUE dispone che la decisione di creare una difesa comune sia adottata dal Consiglio europeo che delibera all'unanimità; essa esige anche l'approvazione di tutti gli Stati membri secondo le rispettive procedure costituzionali. Il perseguimento della politica di sicurezza e di difesa comune non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri e rispetta gli obblighi derivanti dal Trattato del Nord-Atlantico per gli Stati membri che ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la NATO.

Tra le principali innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona si ricordano:

·    la possibilità di creare, con decisione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata, una cooperazione strutturata permanente in materia di difesa tra gli Stati membri che hanno le capacità militari necessarie e la volontà politica di aderirvi (v. oltre);

·    l’istituzionalizzazione dell’Agenzia europea per la difesa, incaricata di individuare e, se del caso, mettere in atto qualsiasi misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica dell’industria della difesa; partecipare alla definizione di una politica europea delle capacità e degli armamenti. L’Agenzia europea per la difesa ha sede a Bruxelles;

·    l’istituzione di un fondo iniziale per finanziare le attività preparatorie delle attività militari dell’Unione europea; il fondo dovrebbe facilitare il dispiegamento delle operazioni militari.

Il Trattato di Lisbona ha rafforzato inoltre la solidarietà tra gli Stati membri attraverso:

·    Clausole di solidarietà e mutua assistenzala creazione di una clausola di solidarietà tra gli Stati membri in caso di attacco terroristico o di catastrofe naturale o di origine umana;

·    la creazione di una clausola di mutua assistenza in caso di aggressione armata.

 

Cooperazione strutturata nel settore della difesaLa cooperazione strutturata nel settore della difesa

Il TUE (art. 42, paragrafo 6 e art. 46) dispone che gli Stati membri che rispondono ai criteri più elevati di capacità militari e che hanno sottoscritto gli impegni sulle capacità militari previsti dal protocollo n. 10 sulla cooperazione strutturata permanente, possono stabilire una cooperazione strutturata permanente nell’ambito dell’Unione.

La procedura prevede che gli Stati membri intenzionati a partecipare alla cooperazione strutturata notifichino la loro intenzione al Consiglio e all’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Entro tre mesi dalla notifica, il Consiglio adotta una decisione che istituisce la cooperazione strutturata permanente e fissa l'elenco degli Stati membri partecipanti. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata previa consultazione dell’Alto Rappresentante.

Il Protocollo n. 10 in materia di cooperazione strutturata permanente prevede che essa sia aperta ad ogni Stato membro che si impegni, in particolare, a:

·     procedere più intensamente allo sviluppo delle sue capacità di difesa;

·     fornire, sia a titolo nazionale, sia come componente di gruppi multinazionali di forze, unità di combattimento capaci di intraprendere missioni previste entro un termine da 5 a 30 giorni, per rispondere alle richieste dell’ONU e sostenerle per un periodo iniziale di 30 giorni, prorogabile di 120 giorni;

·     riesaminare regolarmente gli obiettivi relativi al livello delle spese di investimento per equipaggiamenti di difesa, alla luce della situazione internazionale e delle responsabilità dell’Unione;

·     ravvicinare, nella misura del possibile, gli strumenti di difesa e prendere misure per rafforzare la disponibilità, interoperabilità, flessibilità e dispiegamento delle forze;

·     cooperare per assicurare l’adozione delle misure necessarie per colmare le lacune che siano state constatate nel quadro del meccanismo di sviluppo delle capacità;

·     partecipare allo sviluppo di programmi comuni o europei nel quadro delle attività promosse dall’Agenzia europea per la difesa.

Il processo decisionale

Regola dell’unanimitàLa politica estera e di sicurezza comune – e di conseguenza la PSDC - è soggetta a norme e procedure specifiche.

La relative decisioni sono adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio all'unanimità - salvo i casi previsti di voto a maggioranza qualificata da parte del Consiglio (vedi oltre) - su iniziativa di uno Stato membro, su proposta dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, o su proposta di quest'ultimo con l'appoggio della Commissione. 

In deroga alla regola generale dell’unanimità, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata nel settore della politica estera e di sicurezza comune quando adotta una decisione europea – che non abbia implicazioni militari o rientri nel settore della difesa – relativa a:

·     un'azione o una posizione dell'Unione, sulla base di una decisione europea del Consiglio europeo relativa agli interessi e obiettivi strategici dell'Unione;

·     un'azione o una posizione dell'Unione in base a una proposta dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza presentata in seguito a una richiesta specifica rivolta a quest'ultimo dal Consiglio europeo di sua iniziativa o su iniziativa dell’Alto Rappresentante;

·     l’attuazione di una decisione europea che definisce un'azione o posizione dell'Unione;

·     la nomina di un rappresentante speciale.

Se un membro del Consiglio dichiara che, per vitali ed espliciti motivi di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una decisione europea che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione. Il Ministro degli affari esteri dell'Unione cerca, in stretta consultazione con lo Stato membro interessato, una soluzione accettabile per quest'ultimo. In mancanza di un risultato il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può chiedere che della questione sia investito il Consiglio europeo, in vista di una decisione europea all'unanimità.

Sviluppi nel settore della difesa (a cura del Servizio Studi del Senato)

I clustersIl processo di rilancio della PSDC dopo il Consiglio europeo di dicembre 2013

Il Consiglio europeo di dicembre 2013, a conclusione di un processo avviato dalla comunicazione della Commissione "Verso un settore della difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente" (COM (2013) 542), ha adottato un quadro di azioni e iniziative volte a rilanciare la PSDC suddiviso in tre grandi clusters:

-       aumento dell'efficacia, della visibilità e dell'impatto della PSDC;

-       potenziamento dello sviluppo delle capacità militari;

-       rafforzamento dell'industria europea della difesa.

Obiettivi 2014Tale quadro, esplicitato in una specifica roadmap, è dunque entrato in fase attuativa a partire dal 2014; il Consiglio europeo si era altresì impegnato a valutare i progressi concreti su ciascuno dei clusters nel giugno 2015.

Sulla roadmap la Commissione ha presentato una relazione nel giugno 2014 (COM (2014) 387), soffermandosi in particolare sui seguenti obiettivi:

-       un mercato interno della difesa in cui le imprese europee possano operare liberamente e senza discriminazioni in tutti gli Stati membri;

-       una condizione di sicurezza dell'approvvigionamento su tutto il territorio dell'UE che dia alle forze armate la certezza di ricevere forniture sufficienti in ogni circostanza, a prescindere dallo Stato membro in cui ha sede il fornitore;

-       un'azione preparatoria sulla ricerca connessa con la PSDC, per esplorare le potenzialità di un programma di ricerca europeo che in futuro possa riguardare sia la sicurezza che la difesa;

-       una politica industriale che favorisca la competitività delle industrie europee della sicurezza e contribuisca a fornire a prezzi accessibili tutte le capacità di cui l'Europa ha bisogno per garantire la propria sicurezza.

 

L'8 maggio 2015, in vista del Consiglio affari esteri del 18 maggio e del Consiglio europeo del 25 e 26 giugno, la Commissione europea e l’Alto Rappresentante hanno presentato:

-       una relazione sulle iniziative in corso per la promozione di una base industriale e tecnologica di difesa europea, con particolare riferimento all’area del mercato interno, ricerca e politica industriale;

-       Valutazione e proposte dell'ARuna relazione sulle iniziative in corso per aumentare l’efficacia, l’impatto e la visibilità della PSDC.

In particolare nella relazione sull’efficacia, l’impatto e la visibilità della PSDC, l’Alto rappresentante presenta le seguenti valutazioni e proposte sulle prospettive future della PSDC:

-       le missioni e le operazioni in ambito PSDC costituiscono la parte più concreta e visibile dell’azione dell’UE, ma esse sono efficaci se gli Stati membri vi destinano le risorse necessarie e se sono basate su una forte volontà politica e su chiari mandati ed obiettivi;

-       è fondamentale, a lungo termine, rafforzare la capacità dei paesi partner e delle organizzazioni regionali di assumere direttamente le responsabilità per la prevenzione e gestione delle crisi;

-       l’UE deve ulteriormente ampliare i partenariati in ambito PSDC, in particolare attraverso il dialogo politico e la partecipazione di Stati terzi a missioni ed operazioni dell’UE;

-       il mutato contesto geostrategico fornisce uno stimolo ulteriore al rafforzamento della cooperazione tra l’UE e la NATO, in particolare per quanto riguarda gli strumenti di pianificazione, la sicurezza marittima, la cooperazione con Stati terzi, le minacce ibride, la comunicazione strategica, la cibersicurezza, le forze di intervento rapido;

-       è necessario dedicare maggiore attenzione e risorse allo sviluppo delle capacità civili delle missioni dell’UE;

-       gli Stati membri si devono impegnare ad investire di più e meglio nel settore della difesa, con riguardo anche agli investimenti nel settore della ricerca e sviluppo tecnologico. Occorre promuovere misure volte a stimolare gli investimenti degli Stati membri in progetti di ricerca nei settori della difesa, con l’obiettivo di raggiungere un’autonomia europea in tecnologie fondamentali per garantire la autonomia strategica dell’Europa;

-       occorre promuovere una cooperazione sistematica e a lungo termine tra gli Stati membri nel settore della difesa, che deve diventare la regola e non l’eccezione. A tale proposito occorre sfruttare a pieno le disposizioni del Trattato di Lisbona per sviluppare tale cooperazione;

-       nel settore spaziale, la difesa europea deve sfruttare meglio i progetti esistenti come Galileo e Copernicus e promuovere migliori sinergie tra progetti del settore civile e di quello militare.

 

La proposte del Consiglio (maggio 2015)Infine, a completare il quadro di avvicinamento al Consiglio europeo di giugno 2015 il Consiglio Difesa del 18 maggio ha approvato delle conclusioni sulla PSDC, che riprendono proposte e auspici già formulati nelle precedenti conclusioni di novembre 2014.

Il Consiglio, tra l'altro:

-       ha invitato l'Alto Rappresentante, in stretta cooperazione con i servizi della Commissione e con l'AED, e in consultazione con gli Stati membri, a presentare entro la fine del 2015 un quadro congiunto inclusivo di proposte immediatamente realizzabili e che contribuisca ad affrontare le minacce ibride, rafforzando la resilienza dell'UE, degli Stati membri e dei partner;

-       ha ribadito la necessità di rafforzare l'efficacia della PSDC e lo sviluppo e il mantenimento delle capacità degli Stati membri, supportate da una Base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB) più integrata, sostenibile, innovativa e competitiva;

-       ha sottolineato l'importanza di lavorare insieme ai partner, in particolare l'ONU, la NATO, l'OSCE, l'Unione africana, la Lega degli Stati arabi e l'ASEAN, nonché con i partner strategici e altri paesi partner, e si è soffermato in particolare sulla solida cooperazione con le Nazioni Unite nella gestione delle crisi, con la NATO nelle aree di interesse condiviso, con l'Unione africana e i paesi partner di quel continente, dando seguito alla Dichiarazione finale del Vertice UE-Africa del 2014;

-       ha salutato con favore l'implementazione dell'Approccio globale dell'UE ai conflitti esterni e alle crisi e ha dichiarato di attendere con interesse la presentazione di un Piano d'azione aggiornato che tragga spunto dalle recenti esperienze e sia redatto in stretto coordinamento con gli Stati membri;

-       ha salutato altresì la presentazione, in vista del Consiglio europeo di giugno, della Comunicazione congiunta "Potenziare le capacità per promuovere sicurezza e sviluppo - Consentire ai partner di prevenire e gestire le crisi" (JOIN(2015)17), con particolare riferimento alle proposte relative alla valutazione, al monitoraggio e a una metodologia per le gestione dei rischi;

-       ha preso atto con soddisfazione dei lavori in corso per implementare il Quadro europeo per la ciberdifesa e sottolineato la necessità di una maggior consapevolezza nei confronti delle minacce cibernetiche;

-       ha preso atto altresì dai lavori in corso per implementare il Piano d'azione del Dicembre 2014 per l'attuazione della Strategia dell'UE per la sicurezza marittima.

 

Il Consiglio europeo di giugno 2015

I tre settoriIl Consiglio europeo del 25 e 26 giugno 2015 aveva, tra i punti essenziali all'ordine del giorno, la prosecuzione dei lavori su una politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) più efficace, visibile e orientata ai risultati, al centro delle conclusioni del Consiglio europeo del dicembre 2013.

Constatati i cambiamenti radicali nel contesto europeo della sicurezza, il Consiglio europeo ha rilevato la necessità di interventi in tre settori interconnessi:

-       la prosecuzione dei lavori sulla rinnovata strategia di sicurezza interna dell'Unione, con priorità alla piena attuazione degli orientamenti in materia di lotta al terrorismo;

-       la continuazione, da parte dell'Alto Rappresentante, del processo di riflessione strategica al fine di preparare una strategia globale dell'UE in materia di politica estera e di sicurezza, in stretta cooperazione con gli Stati membri, da sottoporre al Consiglio europeo entro giugno 2016;

-       La PSDCla prosecuzione dei lavori per una PSDC più efficace, visibile e orientata ai risultati, in linea, oltre che con quanto stabilito dal Consiglio europeo di dicembre 2013, anche con le conclusioni del Consiglio difesa del 18 maggio 2015.

Per quanto concerne in particolare la PSDC, il Consiglio europeo ha ricordato la necessità:

-       che gli Stati membri destinino un livello sufficiente di spesa per la difesa, puntando altresì a un utilizzo il più possibile efficace delle risorse;

-       che il bilancio UE assicuri finanziamenti adeguati all'azione preparatoria sulla ricerca connessa alla PSDC, aprendo la strada a un eventuale futuro programma di ricerca e tecnologia nel settore della difesa;

-       che si promuova una cooperazione europea in materia di difesa rafforzata e più sistematica, al fine di creare le capacità chiave e ricorrendo anche a fondi dell'Unione;

-       che si mobilitino tutti gli strumenti dell'UE che possano contribuire a contrastare le minacce ibride;

-       che si intensifichino i partenariati con ONU, NATO, OSCE e Unione Africana;

-       che i partner siano messi in condizione di prevenire e gestire le crisi, anche attraverso progetti concreti di sviluppo di capacità in un ambito geografico flessibile.

Il Consiglio europeo ha infine espresso la determinazione a mantenere regolarmente la PSDC all'ordine del giorno dei suoi lavori.

 

Il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC

Il Parlamento europeo è consultato regolarmente dall’Alto Rappresentante sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica di sicurezza e di difesa comune.

Il Parlamento europeo, in quanto codecisore insieme al Consiglio sul bilancio dell’UE, esercita inoltre un controllo sul bilancio della PESC.

Conferenza parlamentare PESC/PSDCIl controllo parlamentare in tale ambito è svolto anche dalla Conferenza interparlamentare per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la Politica comune di sicurezza e difesa (PSDC) che si riunisce due volte l’anno, sotto la Presidenza del Parlamento dello Stato che esercita la Presidenza del Consiglio dell’UE, in cooperazione con il Parlamento europeo.

L’ultima conferenza si è svolta a Lussemburgo, il 4-6 settembre 2015 (testo delle conclusioni); la prossima si svolgerà all’Aja, sotto presidenza dei Paesi bassi, il 6-8 aprile 2016.

La Conferenza, che dispone di un proprio regolamento, è composta da delegazioni dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell'Unione europea (6 rappresentanti per ogni Parlamento, 3 per ogni Camera nei Parlamenti bicamerali) e del Parlamento europeo (16 rappresentanti). La Conferenza può adottare per consenso conclusioni non vincolanti.

Il regolamento della Conferenza prevede, inoltre, che l’Alto Rappresentante sia invitato a presentare le priorità e le strategie dell’UE in materia di PESC PSDC alle riunioni della Conferenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

La revisione della Strategia di sicurezza dell’UE

 

Il Consiglio europeo del 19 e 20 dicembre 2013 aveva invitato l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, in cooperazione con la Commissione e sulla base di consultazioni con gli Stati membri, a valutare l’impatto dei cambiamenti nel contesto globale e a riferire al Consiglio nel corso del 2015, anche in vista della revisione della strategia di sicurezza dell’UE del 2003.

L’Alto Rappresentante, Federica Mogherini, ha presentato al Consiglio europeo del 25 e 26 giugno 2015 un documento di riflessione intitolato “"The European Union in a changing global environment"”.

Avvio del processo di consultazioneIl Consiglio europeo ha invitato a continuare il processo di riflessione condotto dall'Alto Rappresentante e volto alla definizione di una nuova strategia globale dell'UE in materia di politica estera e di sicurezza da sottoporre al Consiglio europeo entro giugno 2016.

A partire dai primi di ottobre 2015 è stato avviato un ampio processo di consultazione sulla nuova strategia globale dell’UE, anche attraverso un apposito sito internet.

 

Il contesto globaleIl documento di riflessione “The European Union in a changing global environment

Nel documento presentato dall’Alto Rappresentante, Federica Mogherini, si analizzano i cambiamenti radicali del contesto geostrategico in cui l’UE si trova ad operare, rispetto alla strategia europea in materia di sicurezza del 2003.

ConnessioneIn particolare, il documento indica che l’attuale contesto è caratterizzato da un mondo:

·    più connesso: un livello di connettività globale senza precedenti sta modificando il significato delle frontiere. I flussi migratori, in particolare, accelerano a causa di conflitti, disparità economiche, demografia e cambiamenti climatici. L’aumento esponenziale – grazie alle nuove tecnologie di comunicazione - della diffusione di reti ha profonde ripercussioni politiche

·    ConflittualitàComplessità

più contrastato, con una diffusione di Stati fragili e spazi non governati; caratterizzato da conflitti prodotti da forme di radicalizzazione di ideologia e di identità. Il rischio di conflitti è aumentato dall’evoluzione demografica e da uno sviluppo squilibrato e anche dai cambiamenti climatici e dalla scarsità delle risorse. Il progresso tecnologico sta cambiando la natura del conflitto, creando nuove minacce, dalla criminalità informatica alla destabilizzazione ibrida e all'impiego delle tecnologie della comunicazione da parte di gruppi terroristici;

·    appare tramontata l’epoca del predominio di un singolo paese o di una singola area; stanno emergendo nuove potenze come la Cina e l’India, i cui PIL entro il 2030 dovrebbero rappresentare rispettivamente il 20% e il 16% del totale mondiale. La complessità è accresciuta dal passaggio da un mondo di Stati nazionali ad un mondo collegato in rete, composto di attori statali, non statali, interstatali e transnazionali. Lo stesso concetto di “polarità” è messo in discussione ed in tale contesto si registra la tendenza a un indebolimento del multilateralismo tradizionale. Il G20, pur emergendo quale nuovo forum informale, non è ancora riuscito ad affrontare le sfide globali strutturali.

VicinatoIn tale contesto il documento individua cinque grandi categorie di sfide ed opportunità per l’UE:

1)   dare un nuovo impulso alla politica dell’UE nei confronti dei paesi del vicinato, al fine di contrastare il declino del “soft power esercitato dall’UE nei confronti del vicinato. Allo stesso tempo, questioni come il conflitto tra la Russia e l’Ucraina, la sicurezza energetica dell’UE, il ruolo della Turchia come potenza regionale, impongono all’UE di sviluppare un’azione più ampia di politica estera e di sicurezza che comprenda e non sia limitata alla sola politica di vicinato. In particolare, per i Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Kosovo, Montenegro e Serbia) sarà necessario promuovere lo sviluppo e una maggiore integrazione economica con l’UE. Nei confronti della Turchia sarà necessario ravvivare una dinamica positiva per riforme politiche ed economiche strutturali, ma anche considerare questioni di comune interesse come il commercio, la gestione dei fenomeni migratori, le questioni energetiche e di sicurezza nella regione. Per i paesi del partenariato orientale (Armenia Azerbaigian Bielorussia Georgia Moldavia e Ucraina) che aspirano a più forti legami con l’UE, occorre impegnarsi per un più ampio sostegno alle riforme politiche, economiche e sociali. L’approccio ai paesi del partenariato orientale dovrà comprendere anche politiche volte a prevenire conflitti, stimolare lo sviluppo economico e promuovere una maggiore connettività delle reti di trasporto ed energetiche. La politica dell’UE nei confronti della Russia dovrà evitare nuove linee di divisione, garantendo allo stesso tempo una ferma risposta ai tentativi di destabilizzazione ai confini dell’UE;

2)   AfricaNord Africa e Medio Orienteripensare l’approccio dell’UE verso i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. L’UE deve far fronte al processo di profonda destabilizzazione che si è prodotto nel Nord Africa a partire dal 2011, in conseguenza del positivo fenomeno della Primavera araba. In particolare, è prioritario contrastare le reti terroristiche e criminali attraverso una maggiore coerenza delle politiche di sicurezza interna ed esterna dell’UE. Occorre, inoltre, fronteggiare la crisi umanitaria attraverso politiche di assistenza umanitaria e politiche di asilo. La politica dell’UE nei paesi del Nord Africa deve inoltre tenere in considerazione le forti connessioni di tali paesi con i paesi dell’area sub-sahariana e del Corno d’Africa. Per quanto riguarda il Medio Oriente, occorre promuovere un processo di riconciliazione, in particolare nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, attraverso una nuova architettura di sicurezza regionale indirizzata alla più ampia regione mediorientale;

3)   la ridefinizione del rapporto con l’Africa. L’azione dell’UE deve mirare a promuovere il notevole potenziale del continente africano, sviluppando una dinamica virtuosa attraverso un mix equilibrato di politiche per la sicurezza, la migrazione, la mobilità e politiche di integrazione economica. Nell’ambito della forte crescita demografica africana occorre trovare un equilibrio tra domanda e offerta di forze migratorie, di cui potrebbero beneficiare sia il continente africano che quello europeo. E’ importante che la politica dell’UE nei confronti dell’Africa tenga nella dovuta considerazione le forti interconnessioni tra i paesi dell’area Relazioni transatlantiche


nord africana, dell’area sub-sahariana e del Corno d’Africa;

4)   Asiail rilancio dei partenariati tra le due sponde dell’Atlantico. In particolare, le relazioni con gli USA possono essere approfondite per quanto riguarda la sicurezza e l’economia. Per il primo profilo l’UE ed i suoi Stati membri sono chiamati a farsi carico di una maggiore responsabilità per quanto riguarda la stabilità dell’area del vicinato e lo sviluppo di efficaci capacità di difesa. La politica di sicurezza e difesa dell’UE dovrà cooperare con la NATO per quanto riguarda la gestione delle crisi e le minacce ibride. Per quanto riguarda la cooperazione nell’economia, l’accordo TTIP (Transatlantic trade and investment partnership) rappresenta un progetto che può creare valore aggiunto, in termini di crescita occupazionale e imprenditoriale, ad entrambe le parti. L’approfondimento delle relazioni atlantiche dovrà inoltre essere indirizzato anche ai paesi dell’America latina e dei Caraibi;

5)   Nuovo approccio dell’azione esternauna strategia bilanciata nei confronti dell’Asia. L’UE ha un forte interesse nell'ulteriore crescita delle economie asiatiche e negli sforzi di riforma in Cina, ma è anche assai vulnerabile per eventuali dispute e conflitti regionali che potrebbero compromettere le rotte commerciali, i flussi finanziari e l’ordine regionale. La sfida per l’UE è quella di, allo stesso tempo, massimizzare le opportunità economiche e beneficiare della crescita nella regione asiatica e collocarsi come attore propositivo nella dimensione politica e di sicurezza della regione. Infine, l’UE deve cogliere le opportunità offerte delle nuove reti di connettività globali euroasiatiche, come i progetti della cosiddetta nuova via della seta, la “Silk road economic Belt” e la “New maritime Silk road”, assicurando che tali progetti siano compatibili con le regole OMC, rispettino le prassi di apertura degli appalti pubblici e standard sociali e ambientali stringenti.

Per dare attuazione a tali obiettivi il documento individua cinque ambiti nei quali occorre migliorare l’approccio dell’UE:

·    dotare l’azione esterna dell’UE di una più forte e chiara direzione politica, al fine di massimizzare l’influenza dell’UE;

·    conferire una maggiore flessibilità all’azione dell’UE;

·    promuovere maggiormente l’effetto leva nella dimensione esterna delle varie politiche dell’UE, con particolare riferimento alla politica commerciale e alla politica di vicinato;

·    dotare l’azione dell’UE di maggiore efficacia, tramite un più alto livello di coordinamento e coesione tra le istituzioni europee e tra i singoli Stati membri, con particolare riferimento alla politica europea di difesa, alla politica energetica con rilevanza esterna, alla cibersicurezza, alla politica di sviluppo;

·    migliorare le capacità esterne dell’UE, in particolare per quanto riguarda a) la gestione dei fenomeni migratori, per i quali è necessario assegnare maggiori risorse alle agenzie e integrare la gestione della dimensione interna delle migrazioni con quella esterna e b) la PSDC, eliminando le attuali difficoltà nella generazione di capacità militare dell’UE, migliorando l’accesso a procedure per il finanziamento comune delle spese delle operazioni di PSDC, utilizzando le possibilità offerte dall’articolo 44 del Trattato sull’Unione europea in merito alla cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa e facendo maggiore ricorso ai Battlegroups; c) nel campo della sicurezza informatica, è necessario concentrare l’attenzione sulla building capacity nelle aree della criminalità e della sicurezza informatica.

 

 



 

Recenti attività del Consiglio europeo e del Consiglio dell’UE in materia di politica estera e di sicurezza comune

 

Il Consiglio europeo del 15 ottobre 2015 si è concentrato, in particolare, sui temi della migrazione e la crisi dei rifugiati (v. scheda “La gestione dei flussi migratori nell’ambito della PESC” nel presente dossier).

Il Consiglio europeo, inoltre ha:

·     Siria discusso degli sviluppi politici e militari in Siria, convenendo sulla necessità di concentrarsi sulla lotta contro il Daesh e altri gruppi definiti terroristici dall'ONU. Il Consiglio europeo invita tutte le parti ad adoperarsi per una soluzione politica al conflitto in stretta cooperazione con le Nazioni Unite e i paesi della regione, indicando che una pace duratura in Siria non sarà possibile sotto l'attuale leadership e finché non saranno tenute in considerazione le rivendicazioni e aspirazioni di tutte le componenti della società siriana. Il Consiglio europeo ha espresso preoccupazione per gli attacchi russi contro l'opposizione siriana e per il rischio di un'ulteriore escalation militare;

Della situazione in Siria si è occupato anche il Consiglio affari esteri dell’UE, del 12 ottobre 2015, che ha sottolineato l'urgenza per l'opposizione politica moderata e i gruppi armati associati di unirsi intorno a un approccio comune per offrire un'alternativa al popolo siriano. L'UE manterrà il suo sostegno all'opposizione moderata, compresa la coalizione nazionale delle forze siriane della rivoluzione e dell'opposizione (SOC), che  ha un ruolo fondamentale da svolgere nella transizione politica. Il Consiglio ha ribadito il suo pieno sostegno agli sforzi a guida ONU e al lavoro dell'inviato speciale dell'ONU Staffan de Mistura per predisporre un asse d'intervento politico. A tal fine, l'UE avvierà un dialogo proattivo con i principali attori della regione, quali Arabia Saudita, Turchia, Iran, Iraq e partner internazionali nel quadro delle Nazioni Unite, per creare le condizioni per una transizione pacifica e inclusiva. In questo contesto, l’Alto Rappresentante è stato incaricato di esaminare i modi in cui l'UE possa promuovere attivamente una cooperazione regionale più costruttiva. Secondo l’UE la protezione dei civili in Siria deve essere una priorità per la comunità internazionale. A tale proposito, il Consiglio ha ricordato che l'UE ha aumentato in modo sostanziale gli sforzi finanziari a sostegno degli aiuti umanitari, destinando – insieme agli Stati membri - 4 miliardi di euro all'assistenza per il soccorso alle persone colpite dal conflitto all'interno della Siria, ai rifugiati e alle comunità di accoglienza nei paesi limitrofi. L'UE accrescerà la sua assistenza allo sviluppo e alla stabilizzazione a più lungo termine attraverso il fondo fiduciario regionale dell'UE recentemente istituito in risposta alla crisi siriana ("Fondo Madad") attualmente dotato di oltre 500 milioni di euro.

Si ricorda che la Commissione europea e l’Alto rappresentante hanno presentato, il 6 febbraio 2015, una comunicazione congiunta in merito strategia regionale dell’UE per la Siria, l’Iraq e la minaccia dell’ISIL/Daesh, nella quale si evidenzia come la risposta dell'Unione europea debba essere volta a: garantire la complementarità fra l'azione dell'UE e quella dei suoi Stati membri; evitare il contagio a livello regionale; affrontare in particolare, la minaccia terroristica e le gravi ripercussioni umanitarie; sviluppare una strategia che affronti le dinamiche sottese del conflitto attraverso il dialogo diplomatico e il sostegno delle riforme politiche, dello sviluppo socioeconomico e della riconciliazione etnosettaria. Per realizzare tali obiettivi la Commissione ha proposto un pacchetto di aiuti per un importo di 1 miliardo di euro sul bilancio UE degli anni 2015 e 2016.

Libia

·     accolto con favore l'annuncio delle Nazioni Unite relativo alla formazione in Libia di un Governo di unità nazionale ed ha invitato tutte le parti a aderirvi rapidamente. L'UE ribadisce la sua offerta di un significativo sostegno politico e finanziario al governo di unità nazionale non appena questo entrerà in carica.

Nell’ambito dello strumento europeo di vicinato (ENI), il programma finanziario dell’UE di sostegno ai paesi del vicinato, per quanto riguarda la Libia si prevede uno stanziamento compreso in una forchetta tra 126 e 154 milioni di euro per l’intero periodo di 2014-2020.

 

Il Consiglio dell’UE, il 14 settembre 2015, ha prorogato di sei mesi l’applicazione delle misure restrittive dell’UE aventi come oggetto azioni contro l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina. Il blocco dei beni e il divieto di viaggio nei confronti di 149 persone e 37 entità sono stati prorogati fino al 15 marzo 2016.

Il Consiglio dell’UE, nella riunione del 20 luglio 2015, ha discusso, in particolare, sui seguenti temi:

·     TunisiaTunisia. Il Consiglio ha adottato conclusioni nelle quali, in particolare: a) ribadisce la determinazione dell'UE a sostenere la transizione tunisina nel percorso di consolidamento democratico; b) rinnova il sostegno agli sforzi delle autorità tunisine volti ad attuare la costituzione, garantire la sicurezza nel territorio nazionale e avviare le riforme per affrontare le sfide socioeconomiche; c) indica che l'UE e gli Stati membri sono pronti a mobilitare tutti gli strumenti adeguati a loro disposizione per sostenere la Tunisia nella lotta contro il terrorismo e invita l’Alto Rappresentante e la Commissione a presentare proposte in tal senso. Il Consiglio, inoltre, prende atto dell'intensificazione dei contatti tra la Tunisia e gli Stati membri e le istituzioni dell'UE, tra cui Europol, e della necessità di portare avanti tali iniziative; d) indica che la risposta alla minaccia del terrorismo richiede una cooperazione rafforzata con i partner del Mediterraneo meridionale volta, in particolare, a rafforzare i meccanismi giudiziari e di sicurezza, la messa in sicurezza delle frontiere, la lotta contro il finanziamento del terrorismo e il traffico di armi da fuoco, la prevenzione della radicalizzazione e il problema dei combattenti stranieri; e) ribadisce il suo impegno a sostenere l'integrazione graduale dell'economia tunisina nel mercato europeo ed è pronto a sostenere l'iniziativa, qualora sia presa dalle autorità tunisine, di una conferenza internazionale sugli investimenti al fine di rilanciare lo sviluppo del settore privato e del sistema economico; g) sottolinea la necessità di approfondire il partenariato per la mobilità attraverso la conclusione di un accordo di agevolazione in materia di visti e di un accordo di riammissione; h) invita l'Alto Rappresentante e la Commissione a prendere in esame le possibili misure per potenziare il sostegno alla Tunisia in settori fondamentali come quelli della mobilità, dell'istruzione, dell'innovazione e della ricerca.

·     Processo di pace 
in Medio Oriente
Processo di pace in Medio Oriente. Il Consiglio ha adottato delle conclusioni nelle quali in particolare: a) ribadisce il suo impegno a favore di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese basata sulla coesistenza di due Stati; b) considera necessarie ulteriori misure positive nei confronti di Gaza che consentano l'inoltro degli aiuti umanitari, la ricostruzione e la ripresa economica e chiede la revoca della chiusura dei valichi, tenendo conto nel contempo delle preoccupazioni legittime di Israele in materia di sicurezza; c) ritiene la riconciliazione tra le fazioni intra-palestinesi un elemento importante per raggiungere una soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati; d) chiede che l'Autorità Palestinese assuma la sua funzione di governo nella striscia di Gaza. L'UE è pronta a fornire pieno sostegno a tali sforzi attraverso la rapida riattivazione e l'eventuale ampliamento del campo di applicazione e del mandato delle sue missioni EUBAM Rafah e EUPOL COPPS[2]; f) ribadisce la sua opposizione alla politica in materia di insediamenti e alle azioni intraprese in questo contesto da Israele, come la costruzione della barriera di separazione al di là della linea del 1967;

·      Programma nucleare dell’Iranaccordo sul programma nucleare dell’Iran. Il Consiglio ha adottato delle conclusioni nelle quali: a) ha accolto con favore il piano d'azione congiunto globale (PACG)., concordato il 14 luglio a Vienna, che garantisce la natura esclusivamente pacifica del programma nucleare iraniano; b) chiede all’Alto Rappresentante di continuare a svolgere un ruolo di coordinamento nel corso dell’attuazione del piano d'azione congiunto globale; c) indica che la revoca delle sanzioni economiche e finanziarie dell’UE nei confronti dell’Iran entrerà in vigore dopo che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica avrà certificato che l'Iran ha attuato i propri impegni in materia di nucleare; d) esprime l’auspicio che l’accordo apra la porta al miglioramento delle relazioni tra l’Unione europea, i suoi Stati membri e l’Iran; e) invita l’Alto Rappresentante a valutare in che modo l’UE potrebbe promuovere attivamente un quadro regionale di maggiore cooperazione e a riferire al Consiglio nei prossimi mesi.

Il 18 ottobre 2015, il Consiglio dell’UE ha adottato gli atti giuridici che prevedono la revoca di tutte le sanzioni economiche e finanziarie dell’UE relative al nucleare, come indicato nel piano d'azione congiunto globale del 14 luglio 2015. Gli atti avranno effetto solo alla "data di attuazione", accertata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, delle misure concordate in materia di nucleare.

·     Diplomazia energeticaPiano d’azione diritti umani e democrazia 2015-2019

piano d’azione dell’UE per i diritti umani e la democrazia 2015-2019. Il Consiglio ha adottato il piano d’azione che intende promuovere in particolare i principi della non discriminazione, parità di genere ed emancipazione femminile. L’UE assicurerà inoltre un approccio globale per i diritti umani nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e delle crisi, ed integrerà ulteriormente i diritti umani negli aspetti esterni delle politiche dell’UE;

·     diplomazia energetica. Il Consiglio ha adottato delle conclusioni nelle quali si accoglie con favore il piano d’azione per la diplomazia energetica presentato dall’Alto Rappresentante e dalla Commissione.


 

 


Le missioni militari e civili dell'UE e il dibattito sulla loro efficacia

(a cura del Servizio Studi del Senato)

 

Il quadro dei TrattatiLe disposizioni del Trattato di Lisbona

L’art. 42 del Trattato sull’Unione europea (TUE) stabilisce che la politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) assicura che l’Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari dei quali si può avvalere in missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. L’esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri.

Le decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese quelle inerenti all’avvio di una missione sono adottate dal Consiglio all’unanimità su proposta dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o su iniziativa di uno Stato membro. L’Alto Rappresentante può proporre il ricorso sia ai mezzi nazionali sia agli strumenti dell’Unione, se del caso congiuntamente alla Commissione.

Il Consiglio può affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità necessarie. Tali Stati membri, in associazione con l’Alto Rappresentante, si accordano sulla gestione della missione.

L’articolo 43 del TUE disciplina la tipologia delle missioni con mezzi civili e militari in ambito PSDC, prevedendo che esse possano intraprendere:

·    azioni congiunte in materia di disarmo;

·    missioni umanitarie e di soccorso;

·    missioni di consulenza e assistenza in materia militare;

·    missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace;

·    missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti.

Si prevede, inoltre, che tutte le sopra indicate missioni possano contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a paesi terzi.

Si ricorda che le missioni umanitarie e di soccorso, di mantenimento della pace, di unità di combattimento nella gestione di crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace rientravano tra le cosiddette missioni di Petersberg, che il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, ha integrato con ulteriori compiti relativi alle missioni di disarmo, di consulenza ed assistenza in materia militare, di stabilizzazione al termine dei conflitti.

Il Consiglio adotta le decisioni relative alle missioni stabilendone l’obiettivo, la portata e le modalità generali di realizzazione.

Il coordinamento degli aspetti civili e militari delle missioni è esercitato dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sotto l’autorità del Consiglio e in stretto e costante contatto con il Comitato politico e di sicurezza.

L’art. 41 del TUE stabilisce i principi per il finanziamento delle missioni civili e militari dell’UE, prevedendo che i costi per le missioni civili siano a carico del Bilancio dell’UE, mentre non lo sono i costi per le missioni militari, a meno che il Consiglio non decida altrimenti all’unanimità.

È inoltre prevista la possibilità di creare uno start up fund per le missioni PSDC urgenti basato su contributi degli Stati membri, al fine di rendere più veloce ed efficace il finanziamento, e quindi la pianificazione di missioni di reazione rapida.

 

Le Missioni militari e civili dell'Unione europea

Missioni nell’ambito della PSDC si sono svolte nei seguenti paesi e territori: ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Territori palestinesi occupati, Guinea-Bissau, Repubblica democratica del Congo, Sudan/Darfur, Ciad, Repubblica centrafricana, Somalia, Afghanistan, Moldova, Ucraina, Iraq, Georgia e Aceh (una provincia dell’Indonesia).

Si tratta in larga parte di azioni a sostegno di riforme della polizia, del sistema giudiziario e delle dogane e di rafforzamento della capacità, che facilitano accordi di cessazione delle ostilità e ne assicurano il rispetto. Possono essere decise missioni nell’ambito della PSDC anche con finalità specifiche, come la sorveglianza delle frontiere o la lotta contro la pirateria.

Missioni militariPer quanto concerne le missioni militari dell’UE, sono attualmente operative:

-       EUFOR ALTHEA, lanciata nel 2004 per il mantenimento della sicurezza in Bosnia-Erzegovina, e attualmente riconfigurata, con un contingente significativamente inferiore, in termini di sostegno al paese negli sforzi volti a garantire un ambiente sicuro e di formazione e capacity-building per il Ministero della Difesa e per le forze armate;

-       EUNAVFOR ATLANTA, missione navale istituita nel 2008 per contrastare le azioni di pirateria sulle coste della Somalia, proteggendo le navi noleggiate dal Programma alimentare mondiale (PAM) e le navi mercantili – sulla base di una valutazione di necessità da effettuarsi caso per caso – e monitorando le attività di pesca nell’area;

-       EUTM SOMALIA, lanciata nel 2010 e con sede in Uganda, per contribuire al rafforzamento del Governo federale di transizione e favorire lo sviluppo sostenibile del settore di sicurezza somalo, anche attraverso la fornitura di consulenza strategica e politica;

-       EUTM MALI, lanciata nel febbraio del 2013 con lo scopo di fornire, nel sud del Mali, formazione e consulenza militare alle forze armate maliane (FAM) che operano sotto il controllo delle legittime autorità civili, per consentire loro di condurre operazioni militari volte a ripristinare l’integrità territoriale maliana e ridurre la minaccia rappresentata dai gruppi terroristici;

-       EUFOR RCA, istituita nel febbraio 2014 nella Repubblica centrafricana, con l’obiettivo di contribuire alla fornitura di un ambiente sicuro e protetto, sulla base del mandato definito nella risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU 2134/2014;

-      EUNAVFOR MED (SOPHIA), missione navale istituita nel giugno 2015 a fini di lotta contro i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, con una prima fase orientata alla raccolta di informazioni di intelligence e due successive (di cui la seconda appena avviata) che riguarderanno la caccia attiva ai trafficanti, prima in acque internazionali, poi nelle acque territoriali e interne della Libia, previo mandato delle Nazioni Unite e approvazione del paese interessato.

Missioni civili 


Per quanto concerne invece le missioni civili, sono oggi operative:

-      EULEX KOSOVO, sullo stato di diritto e il sistema giudiziario;

-      EU BAM MOLDAVIA E UCRAINA, per il controllo delle frontiere, in particolare nella regione della Transnistria;

-      EU BAM RAFAH, per il controllo di frontiera al valico di Rafah, tra la striscia di Gaza e l’Egitto;

-      EUPOL ed EUSEC CONGO, a sostegno delle riforme nei settori della sicurezza e della giustizia nella Repubblica democratica del Congo;

-      EUPOL AFGHANISTAN, a sostegno e formazione delle forze di polizia nel paese;

-      EUMM GEORGIA, missione di monitoraggio al fine di contribuire al ristabilimento e la normalizzazione dell’area;

-      EUCAP SAHEL NIGER, a sostegno delle autorità nigeriane nello sviluppo di capacità proprie di lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo nel Sahel;

-      EUCAP NESTORE, con il fine di rafforzare la capacità degli Stati della regione del Corno d’Africa e dell’Oceano Indiano occidentale a gestire efficacemente le rispettive acque territoriali;

-      EUBAM LIBIA, istituita nel 2013 – mandato di due anni e sede a Tripoli - con l’obiettivo di fornire alle autorità libiche sostegno per sviluppare la capacità di accrescere la sicurezza delle frontiere terrestri, marine e aeree, a breve termine, e per implementare una strategia più ampia di gestione integrata delle frontiere a più lungo termine;

-      EUAM UCRAINA, istituita quest’anno per la riforma del settore della sicurezza civile in Ucraina;

-      EUCAP SAHEL-MALI, anch’essa istituita nel 2015, a fini di sostegno alle forze di sicurezza interna del Mali.

 

La missione navale militare dell’UE nel Mediterraneo centromeridionale (EUNAVFOR MED, operazione Sophia)

Il Consiglio affari esteri dell’UE, nella riunione del 22 giugno 2015, ha deciso l’avvio dell’operazione navale militare, denominata EUNAVFOR MED, volta a contribuire a smantellare le reti del traffico e della tratta di esseri umani nel Mediterraneo centromeridionale.

La missione - condotta nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) - è stata approvata dal Consiglio affari del 18 maggio 2015 con la decisione 2015/778, sulla base del mandato conferito dal Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015.

La missione è realizzata adottando misure sistematiche per individuare, fermare ed eliminare imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai passatori o dai trafficanti, in conformità del diritto internazionale applicabile, incluse l'UNCLOS e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Oltre all’Italia, partecipano alla missione i seguenti 21 Stati membri: Belgio, Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Repubblica ceca, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria.

Il comando operativo di EUNAVFOR MED ha sede a Roma e comandante dell'operazione è stato nominato l'ammiraglio di divisione Enrico Credendino. La missione ha una durata iniziale di 2 mesi per la fase preparatoria e 12 mesi per quella operativa.

Prima faseLa missione EUNAVFOR MED è condotta in 3 fasi:

·    in una prima fase, sostiene l'individuazione e il monitoraggio delle reti di migrazione attraverso la raccolta d'informazioni e il pattugliamento in alto mare conformemente al diritto internazionale;

·         Seconda fasein una seconda fase:

a) procede a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani, alle condizioni previste dal diritto internazionale applicabile, in particolare UNCLOS e protocollo per combattere il traffico di migranti;

Terza faseb) conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato, procede a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto mare o nelle acque territoriali e interne di tale Stato, di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani;

·    in una terza fase, conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato, adotta tutte le misure necessarie nei confronti di un'imbarcazione e relativi mezzi, anche eliminandoli o rendendoli inutilizzabili, che sono sospettati di essere usati per il traffico e la tratta di esseri umani, nel territorio di tale Stato, alle condizioni previste da detta risoluzione o detto consenso.

Per la piena operatività della missione nella seconda fase e nella terza fase sarà necessario un mandato internazionale attraverso una risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Risoluzione ONUIl Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 9 ottobre 2015, ha approvato la risoluzione 2240 (2015) che autorizza gli Stati membri e la UE ad effettuare, per il periodo di un anno, fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani (v. sopra seconda fare, punto a). Le fasi successive della missione dovranno essere autorizzate da successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza, per le quali sarà necessario il consenso del Governo libico.

Il controllo politico e la direzione strategica della missione è esercitato dal Comitato politico di sicurezza, organo preparatorio del Consiglio per le materie relative alla della politica estera e di sicurezza comune e della politica sicurezza e di difesa comune [3].

Avvio seconda faseIl Consiglio affari generali del 14 settembre 2015 ha adottato una valutazione positiva sulla sussistenza delle condizioni per passare alla prima parte della seconda fase in alto mare dell'EUNAVFOR MED.

Il 16 settembre 2015 si è svolta a Bruxelles la conferenza per la generazione delle forze volta a definire il contributo degli Stati partecipanti per la seconda fase della missione.

Nella prima fase la missione sono state impiegate: la portaerei italiana Cavour in qualità di nave ammiraglia dell'operazione navale, 8 unità navali, 12 unita aeree, con l’ausilio di circa mille uomini.

Il 28 settembre 2015 il Comitato politico e di sicurezza dell’UE ha deciso di avviare la prima parte della seconda fase (v. sopra punto a) a partire dal 7 ottobre 2015 ed ha approvato delle regole di ingaggio.

 Il Comitato politico ha, inoltre, deciso, di ribattezzare l’operazione EUNAFOR Med “Sophia” dal nome di una bambina nata sulla nave militare tedesca Schleswig-Holstein, nel corso di una operazione di soccorso effettuata il 22 agosto scorso.

La transizione alle fasi successive sarà oggetto di una ulteriore valutazione da parte del Consiglio dell’UE e decisione del Comitato politico e di sicurezza.

Costi comuniLa missione coopera con le pertinenti autorità degli Stati membri ed è previsto prevede un meccanismo di coordinamento con le agenzie dell’Unione Frontex, Europol, Eurojust, Ufficio europeo di sostegno all’asilo e le altre missioni PSDC.

L'importo di riferimento finanziario per i costi comuni della missione è stato stimato pari a 11,82 milioni di EUR.

 

Il dibattito sull'efficacia delle missioni militari e civili dell'UE

La ridefinizione dei confini dell'Unione europea a 28, la crescente instabilità dello scenario internazionale e l'apertura di nuovi scenari di crisi in paesi del vicinato - dall'Ucraina alla Siria e la Libia - rendono sempre più necessaria e sentita un'azione di rafforzamento delle missioni delle PSDC, in termini tanto di impatto strategico, quanto di risorse utilizzate.

Il dibattito sul rafforzamento della gestione delle crisi si è ovviamente intrecciato con la riflessione più generale sul rafforzamento della politica di sicurezza e difesa comune, che ha avuto nel Consiglio europeo del dicembre 2013 - il primo a ospitare un dibattito sui temi della difesa - uno snodo fondamentale. Le preoccupazioni di esperti e attori istituzionali si sono concentrate in particolare sulle seguenti questioni, considerate primarie in termini di necessità e urgenza e sottolineate, in particolare, nella Conclusioni del Consiglio difesa del 18 maggio 2015::

-      Temi al centro del dibattitoil rafforzamento delle strutture dell'UE per la gestione delle crisi, anche attraverso un maggior coinvolgimento di esperti in campo civile nella programmazione strategica. In questa direzione sembra procedere il processo di revisione delle strutture preposte alla gestione delle crisi all'interno del SEAE, di cui molti tra i contributori al dibattito hanno auspicato la rapida implementazione;

-      una maggiore efficienza delle strutture già esistenti, per esempio riducendo il numero di strutture parallele che operano nella gestione delle crisi, in modo da consentire una risposta più rapida e appropriata;

-      la preservazione e il rafforzamento del carattere distinto dell'approccio civile alla prevenzione e alla gestione delle crisi, anche attraverso la piena implementazione e la revisione, ove necessario, dei Civilian Headline Goals;

-      un intervento deciso sui fattori di debolezza strutturale nella gestione delle crisi, in primis l'eccessiva lunghezza e la scarsa flessibilità dei processi decisionali;

-      la necessità di intervenire con maggiore decisione sul persistente problema connesso al reclutamento di esperti e di personale qualificato dagli Stati membri per le missioni civili, attraverso l'avvio di un vero e proprio Civilian Capability Process e un rafforzamento degli strumenti e delle occasioni di formazione;

-      un impegno rafforzato per accelerare i processi decisionali e la programmazione di missioni militari, anche attraverso la più rapida generazione, a livello nazionale, delle forze necessarie;

-      l'implementazione del Rapid Response Concept, che fornisce un approccio più ampio e modulare alle capacità di risposta rapida dell'UE, e la presa in considerazione dei Battlegroups durante la programmazione delle missioni militari in quanto possibile opzione in situazioni di crisi che richiedano una risposta rapida:

-      il potenziamento delle sinergie tra le dimensioni militare e civile della PSDC, anche attraverso una cooperazione più strutturata e costante in settori quali la formazione, le infrastrutture, la logistica, i trasporti e la protezione degli operatori sul campo;

-      lo sviluppo, in linea con le conclusioni del Consiglio difesa di novembre 2014, di maggiori sinergie tra la PSDC, nelle sue dimensioni militare e civile, e gli attori istituzionali dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in particolare EUROPOL, CEPOL e FRONTEX;

-      la prosecuzione delle discussioni sul finanziamento delle missioni in ambito PSDC, anche al di là del completamento del processo di revisione del meccanismo Athena, relativo al finanziamento delle missioni militari.



 

 

La politica di vicinato – bilancio, consultazione e attività di Camera e Senato

(a cura del Servizio Studi del Senato)

 

Introduzione

Base giuridica della PEVLa revisione e il rilancio della Politica europea di vicinato (PEV) sono stati individuati tanto dal Presidente della Commissione europea, Juncker, quanto dall'Alto Rappresentante per la PESC/PSDC Mogherini come una delle priorità del nuovo esecutivo di Bruxelles. Più nel dettaglio, la nuova Commissione ha assunto l'impegno di presentare le nuove linee della PEV entro un anno dall'inizio del suo mandato, e quindi per l'autunno del 2015.

La comunicazione Wider EuropeLa base giuridica della PEV è rappresentata dall'articolo 8 del TEU, in base al quale l'UE "sviluppa con i paesi limitrofi relazioni privilegiate al fine di creare uno spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell'Unione e caratterizzato da relazioni strette e pacifiche basate sulla cooperazione".[4]

Lanciata nel 2003 con la comunicazione Wider Europe, la PEV si proponeva un'integrazione progressiva dei Paesi limitrofi, da realizzare tramite l'implementazione di impegnative riforme politiche, economiche e istituzionali e l'adozione di un sistema di valori comuni. Il processo di integrazione, pur avendo realizzato passi avanti significativi per quanto attiene sia alla componente regionale (con la creazione dell'Unione per il Mediterraneo nel 2008 e del Partenariato orientale nel 2009) sia allo strumento, sempre più efficace e stringente, degli accordi per la creazione di una zona di libero scambio ampia e approfondita, ha peraltro subito un forte rallentamento negli ultimi anni, legato ai fattori di instabilità emersi tanto nell'area orientale quanto in quella meridionale del vicinato.

Quadro finanziarioPer quanto concerne le dotazioni finanziarie destinate ai paesi del vicinato, un significativo passo in avanti si è registrato a partire dal 1° gennaio 2007, con la creazione di un meccanismo unico di finanziamento: lo Strumento europeo di vicinato e partenariato.

Nel periodo 2007-2013, i finanziamenti messi a disposizione dei partner della PEV hanno raggiunto un totale di 13,4 miliardi di euro, con un incremento del 75% rispetto al precedente Quadro finanziario pluriennale 2000-2006. Tali fondi sono stati destinati per più di 2/3 ai paesi del vicinato meridionale.

Strumento europeo di vicinatoDal 1° gennaio 2014, lo Strumento europeo di vicinato e partenariato è stato sostituito dallo Strumento europeo di vicinato. Nell'ambito del nuovo QFP 2014-2020, il plafond destinato alla PEV ammonta a 15,4 miliardi di euro.

Consultazione sulla PEVIl quadro attuale mostra una crescente divergenza nel livello di impegno e integrazione che i paesi limitrofi intendono assumere nei confronti dell'UE. La nuova Commissione ha pertanto ritenuto necessario procedere a un'analisi più dettagliata e attenta degli interessi dell'UE e dei suoi partner, al fine di individuare modalità flessibili e commisurate ai diversi livelli di ambizione dei partenariati di vicinato e al tempo stesso tenere conto dei conflitti in pieno svolgimento in molti paesi del vicinato e delle possibili modalità di azione e intervento.

A tal fine, la Commissione europea e l'Alto Rappresentante hanno presentato, in data 4 marzo 2015, un Documento di consultazione dal titolo "Verso una nuova Politica europea di vicinato" (JOIN (2015) 6), con l'obiettivo di sintetizzare le lezioni che possono essere tratte da un'esperienza ormai più che decennale e di sviluppare alcune possibili risposte innovative, da discutere con i partner chiave e con gli stakeholders. Il Documento ha lanciato una procedura di consultazione che si è conclusa il 30 giugno e costituirà la base di un'ulteriore comunicazione nella quale verranno tracciate le nuove linee della PEV.

Il Documento di consultazione

Per quanto concerne le lezioni da trarre dall'esperienza della PEV, la Commissione, pur consapevole dei diversi aspetti positivi che hanno contraddistinto la politica di vicinato - rafforzamento dei rapporti commerciali, con l'UE primo partner per quasi tutti i paesi limitrofi; significativi successi nella politica comune in materia di visti e di mobilità -, si è soffermata su alcuni limiti, legati soprattutto alla limitata flessibilità degli strumenti e al rischio che l'approccio more for more non garantisca in pieno un senso di ownership condivisa tra l'Unione e i suoi partner.

Tra le questioni che la PEV, nel suo formato attuale, non sembra soddisfare appieno, vi è quella connessa con la sua portata geografica, intendendo con ciò non tanto un'estensione sic et simpliciter ad altri paesi, quanto la ricerca di modalità flessibili per lavorare insieme ai "vicini dei vicini", garantendo così, al contempo, una maggiore coerenza tra la PEV e le relazioni che l'UE intrattiene con la Russia, i partner dell'Asia centrale, del Sahel e del Corno d'Africa.

Priorità
 


Altri temi sui quali il Documento si sofferma con maggior dettaglio sono:

·    un maggiore coinvolgimento degli Stati membri in quanto coattori (finora, la PEV è stata portata avanti esclusivamente tramite le istituzioni UE, in primis la Commissione);

·    un ripensamento degli strumenti finora utilizzati all'interno della PEV (Accordi di associazione, Accordi per una zona di libero scambio ampio e approfondito, Piani d'azione, Progress Reports), che punti a una loro maggiore flessibilità e modularità, in modo da adattarli alle diverse aspirazioni dei partner;

·    una maggiore focalizzazione dei partenariati sui settori dell'economia per i quali, vista la presenza di forti interessi comuni, sarebbe più facile instaurare una ownership condivisa (energia, trasporti, cooperazione doganale, ambiente, istruzione);

·    un migliore coordinamento tra le attività condotte dall'UE in ambito PESC/PSDC e la PEV, particolarmente necessario al momento di affrontare i conflitti e le crisi che maturino in Paesi limitrofi e di elaborare il mix di interventi necessari all'uopo (dalla prevenzione dell'estremismo e del terrorismo alla restaurazione di un clima di fiducia, alla ricostruzione delle strutture statali e amministrative);

·    il rafforzamento della cooperazione regionale attraverso l'Unione per il Mediterraneo e il Partenariato orientale, l'individuazione di quadri di riferimento flessibili e una collaborazione più stretta con altri attori regionali (OSCE, Consiglio d'Europa, ecc.);

·    la ricerca di ulteriori canali di contatto e dialogo con la società civile nel senso più esteso del termine, ma anche con il mondo dell'impresa, le università, le autorità locali, i media;

·    I quattro temi chiaveuna maggiore e più concreta attenzione alle attività che promuovano la tolleranza religiosa, la rimozione dei pregiudizi e il dialogo tra culture.

Quanto ai temi cardine in vista di una riforma della Politica di vicinato, la Commissione intende raccoglierli e sintetizzarli in quattro grandi linee:

·    differenziazione. È necessario che la PEV si adatti agli scenari sempre più diversificati che caratterizzano le aree orientale e meridionale del vicinato;

·    focalizzazione. Va valutata la possibilità di circoscrivere maggiormente le aree di cooperazione, oggi vastissime, incluse all'interno della PEV, concentrandosi sui settori nei quali gli interessi dell'Unione e dei partner convergono con maggiore evidenza: promozione del commercio e dello sviluppo economico; connettività e grandi reti, specie nei settori dei trasporti e dell'energia; impegno comune contro le minacce alla sicurezza derivanti dal terrorismo e dalle situazioni di conflitto; sostegno alle azioni di rafforzamento della governance, partendo dalla rule of law e dalle libertà fondamentali; liberalizzazione dei visti e politica della mobilità, accompagnate da misure comuni di lotta al traffico di esseri umani e all'immigrazione illegale; accesso a iniziative e programmi che favoriscano gli scambi di giovani nei settori dell'istruzione e della formazione;

·    flessibilità. Gli strumenti della PEV si sono espansi e consolidati nel corso degli anni, sempre entro il quadro giuridico fornito dagli accordi di associazione e dagli accordi di partenariato e cooperazione. Con 12 paesi partner sono stati concordati Piani d'azione, seguiti a cadenza annuale da relazioni sulla loro implementazione. Sempre a cadenza annuale, la Commissione europea produce una comunicazione strategica sulla PEV e due relazioni sull'attuazione delle priorità a livello regionale: una sul Partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con i Paesi del sud del Mediterraneo e una sul Partenariato orientale. Sulla base di tali strumenti, la riflessione che la Commissione proporrà dovrebbe incentrarsi su una maggior differenziazione dei Piani d'azione, onde adattarli alle esigenze e alle priorità dei singoli paesi;

·    ownership e visibilità. Una delle critiche rivolte più di frequente alla PEV è l'assenza di un vero senso di parità e di compartecipazione nei paesi partner e nelle rispettive società, nonché la scarsa consapevolezza degli scopi e dell'impatto della politica di vicinato da parte delle opinioni pubbliche. La Commissione dovrebbe pertanto avviare una riflessione sulle modalità per rendere le strutture della PEV più collaborative, in modo da sottolineare adeguatamente il ruolo di impulso e di scelta dei partner e da coinvolgere tutti gli attori all'interno delle rispettive società; per accelerare e rendere così più visibili al pubblico i benefici derivanti dalla PEV; per orientare i flussi di finanziamenti in una logica di investimenti - piuttosto che di doni -, così da rendere più chiaro il ruolo attivo dei paesi partner; per coinvolgere con maggiore efficacia gli Stati membri nella progettazione e implementazione delle politiche di vicinato.

 

I contributi del Senato e della Camera

Le Commissioni affari esteri del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati hanno entrambe approvato atti di indirizzo sul documento di consultazione della Commissione europea, rispettivamente il 16 giugno e il 5 agosto 2015.

I due documenti, analoghi e complementari nell'impostazione, individuano le seguenti priorità per la futura politica di vicinato:

·    maggiore integrazione della PEV in una riformata politica estera e di difesa comune, esaltando in questo senso il ruolo dell'Alto Rappresentante, del SEAE e, in particolare, della rete diplomatica europea;

·    mantenimento di un quadro unitario della PEV, ma introducendo forme più articolate di differenziazione, sia tra la dimensione meridionale e quella orientale sia all'interno di ciascuna di esse, da effettuare sulla base di un confronto con i partner sulle effettive priorità e potenzialità del rapporto e non partendo da classificazioni precostituite, tenendo conto cioè del diverso grado di preparazione ed evoluzione politica, economica e sociale dei Paesi coinvolti;

·    Mediterraneocentralità del Mediterraneo in quanto fulcro di tre sfide globali: il terrorismo, che ha per epicentro Nordafrica, Medio Oriente e Yemen; l'Africa e la questione demografica, che trova riscontro nella pressione migratoria rafforzata dalle migliaia di profughi che premono alle frontiere dell'Unione europea, a nord come a sud; necessità, pertanto, quanto meno di confermare la ormai consolidata modalità di ripartizione interna delle risorse della PEV (due terzi al partenariato meridionale e un terzo al partenariato orientale), rendendo al contempo più credibile e trasparente il flusso complessivo delle risorse dell'Unione verso ciascun paese partner, anche attraverso altri strumenti e fondi;

·    Migrazionisuperamento del principio more for more, che implica una dinamica di matrice unilaterale ed è percepito dai partner come forma di "paternalismo istituzionale", e introduzione di elementi di maggiore differenziazione, che tengano conto dei punti e delle condizioni di partenza nella valutazione dei risultati raggiunti e che muovano da una disamina accurata, caso per caso, delle reali esigenze dei partner;

·    introduzione in ambito PEV di un coordinamento mirato alle politiche migratorie, fondato sul dialogo con i paesi partner in vista di una gestione condivisa delle dinamiche migratorie, nel quadro di un progressivo superamento di logiche meramente emergenziali da realizzarsi attraverso l'auspicabile revisione del Regolamento Dublino III, e dell'instaurazione di criteri solidaristici tra gli Stati membri;

·    concentrazione degli strumenti e delle risorse della PEV in pochi settori prioritari, al fine di massimizzarne l'impatto, quali: promozione dell'occupazione giovanile, infrastrutture di trasporto e reti digitali; sostegno alle piccole e medie imprese; mobilità dei giovani, degli studenti e dei ricercatori; politiche sociali;

·    previsione di nuove forme di associazione e di dialogo che, anche se meno vincolanti e avanzate rispetto agli accordi di associazione e alle zone di libero scambio, siano comunque in grado di rinsaldare i rapporti tra l'UE e i suoi vicini tramite forme di sostegno più mirate;

·    avvio di una riflessione sull'efficacia dell'attività dell'Unione per il Mediterraneo e del partenariato orientale, valorizzando modelli di co-ownership e progressiva integrazione, non solo economica, più concreti, che tengano conto dei differenti livelli di dialogo tra i paesi dell'area e siano in grado di farne convergere gli interessi verso tematiche concrete di impatto immediato;

·    "Vicini dei vicini"allargamento degli strumenti di dialogo ai "vicini dei vicini", tanto nel vicinato meridionale, per il quale è essenziale rafforzare il dialogo con i paesi di origine dei flussi migratori (in particolare quelli del Sahel e del Corno d'Africa), quanto in quello orientale, attraverso un confronto sistematico e ravvicinato con la Russia che non sempre, in passato, si è dispiegato pienamente.


 


 

LA POLITICA DI ALLARGAMENTO - STATO DEI NEGOZIATI E PROSPETTIVE

(a cura del Servizio Studi del Senato)

 

La politica di allargamento dell'Unione europea - a tutt'oggi fondata sui criteri fissati nel 1993 dal Consiglio europeo di Copenaghen: democrazia, Stato di diritto, rispetto dei diritti fondamentali e un'economia di mercato funzionante - coinvolge attualmente tutti i Paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, ex repubblica jugoslava di Macedonia, Montenegro e Serbia), nonché la Turchia. Hanno lo status di paesi candidati l'Albania (da giugno 2014), l'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (da dicembre 2005), il Montenegro (da giugno 2012), la Serbia (da marzo 2012) e la Turchia (da dicembre 2004). La Bosnia-Erzegovina ha compiuto un significativo passo in avanti verso la concessione dello status di paese candidato con l'entrata in vigore, il 1° giugno 2015, dell'Accordo di stabilizzazione e associazione, mentre l'Accordo con il Kosovo dovrebbe essere firmato il 27 ottobre.

Processo di adesioneA seguito di un costante processo di verifica dei progressi realizzati dai Paesi candidati e delle principali problematicità emerse in fase negoziale, il processo di adesione è stato improntato a un maggior rigore e si basa su una visione più ampia rispetto al passato. Più nel dettaglio:

·    è stata conferita priorità assoluta al rafforzamento dello Stato di diritto, nel senso di affrontare questioni quali la riforma della giustizia e la lotta contro la criminalità organizzata già nelle primissime fasi dei negoziati, così da dare ai Paesi candidati più tempo per consolidare l'attuazione delle riforme stesse, favorendone il radicamento e l'irreversibilità;

·    è stato dato ampio risalto alla necessità di rivedere e rafforzare profondamente la governance economica, specie nei Balcani occidentali, una regione dove mancano ancora economie di mercato pienamente funzionanti e che registra tassi di disoccupazione elevati, specie tra i giovani;

·    è stato aggiunto, accanto ai due cluster sopra indicati, un terzo pilastro, relativo alla riforma della pubblica amministrazione;

·    è stata ribadita l'esigenza di potenziare le istituzioni democratiche, garantire processi democratici inclusivi atti a sostenerle e rafforzare i principi democratici fondamentali e i valori comuni dell'UE, sviluppando la società civile e contribuendo al raggiungimento di larghe intese tra i partiti a sostegno dell'integrazione europea;

·    è stato sollecitato l'impegno di tutti i paesi interessati al processo di adesione a garantire nuove riforme per far sì che la libertà di espressione e la tutela dei diritti delle minoranze siano sancite dal diritto e rispettate nei fatti;

·    è stata infine ribadita la centralità delle relazioni di buon vicinato e della cooperazione regionale, perni del processo di stabilizzazione e precondizioni del processo di adesione.

Rallentamento del processo di adesione 


Esclusione di nuove adesioniDopo un forte impulso iniziale, il processo di adesione ha subito un rallentamento, legato in misura significativa all'impatto della crisi economica sui paesi membri dell'Unione, oltre che al persistere di taluni ostacoli specifici, attinenti in particolare ai rapporti non semplici tra Serbia e Kosovo, alla perdurante crisi politica nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia (nonché alla controversia relativa al nome della nuova repubblica), alla fase di stallo del processo di integrazione europea in Bosnia-Erzegovina, alla difficoltà nei rapporti tra Turchia e Cipro. Le dichiarazioni rilasciate dal Presidente della Commissione europea Juncker a inizio del suo mandato - che escludevano la possibilità di nuove adesioni all'Unione europea nel breve e medio periodo - hanno provocato un raffreddamento anche da parte dei Paesi candidati, cui pure è subentrata, negli ultimi mesi, una ripresa dei negoziati, i cui segni più significativi sono forse stati rappresentati proprio dal perfezionamento degli accordi di stabilizzazione con Bosnia-Erzegovina e Kosovo.

Quanto ai Paesi candidati, meritano di essere segnalati:

·    l'apertura di numerosi, nuovi capitoli negoziali con il Montenegro, che già negli anni precedenti si era dimostrato tra i Paesi più avanzati nel processo di adeguamento interno ai criteri di Copenaghen. Tra questi, i capitoli relativi a salute e protezione dei consumatori, unione doganale, tassazione e servizi finanziari;

·    la forte spinta politica, da parte di diversi Stati membri tra cui l'Italia, per un'accelerazione dei negoziati di adesione con la Serbia, considerato un paese tra i più pronti tanto sul piano economico, quanto su quello della democrazia interna e del rispetto dei diritti;

·    la volontà di rilanciare i negoziati con la Turchia, bloccati da più di due anni, anche in considerazione del ruolo centrale svolto del Paese lungo la rotta migratoria dei Balcani e nella prima accoglienza dei rifugiati provenienti dalla Siria.

 



 

 

La gestione dei flussi migratori

 

Ingressi irregolariLe dimensioni del fenomeno

Secondo i dati più recenti di Frontex del 14 settembre 2015 nei primi otto mesi del 2015 sono stati rilevati più di 500 mila migranti che hanno attraversato le frontiere UE in modo irregolare; durante il solo mese di agosto, quinto mese consecutivo record, hanno attraversato le frontiere UE circa 156 mila migranti.

Secondo i rapporti Eurostat, nei primi sei mesi del 2015 i richiedenti asilo di prima istanza nell’UE (ovverosia cittadini di Stati terzi che hanno presentato domande nuove di protezione) sono stati circa 395 mila.

Cronologia dei recenti interventi UE

L’acuirsi negli ultimi mesi della crisi dei flussi migratori verso l’Europa e la conseguente pressione straordinaria sui sistemi di asilo di alcuni Stati membri hanno indotto le Istituzioni europee a dedicare particolare attenzione al tema. In particolare:

·    Primo pacchetto di attuazione dell’Agendail 13 maggio 2015 la Commissione europea presentava l'Agenda europea sulla migrazione;

·    il 27 maggio 2015 la Commissione europea presentava un primo pacchetto di misure attuative dell'Agenda europea sulla migrazione. Si prevedeva anzitutto la ricollocazione, in due anni, dall’Italia e dalla Grecia agli altri Stati membri di 40 mila richiedenti asilo in evidente stato di bisogno di protezione internazionale.

La cifra di 40 mila persone corrisponde all’incirca al 40% del totale di richiedenti con evidente bisogno di protezione internazionale entrati irregolarmente nei due paesi nel 2014.

Ricollocazione e reinsediamentoLa Commissione prevedeva altresì il sostegno, da parte delle Agenzie europee (in particolare di EASO e Frontex) e di funzionari degli altri Stati membri, all’Italia e alla Grecia per l’effettuazione delle operazioni di registrazione, identificazione e rilevamento delle impronte digitali dei richiedenti asilo. Contestualmente, Grecia e Italia erano chiamate a definire una roadmap relativa alle medesime operazioni. In caso di mancato adempimento di tali obblighi, era prevista la sanzione della sospensione dal programma di ricollocazione.

Nel pacchetto si prevedeva anche il reinsediamento negli Stati membri di 20 mila persone individuate dall’UNHCR tra soggetti in evidente stato di bisogno di protezione internazionale ospitati temporaneamente nelle zone di crisi (nei campi profughi di Stati terzi come Libano e Turchia);

·    il 25-26 giugno 2015 il Consiglio europeo accoglieva le proposte della Commissione europea;

·    Secondo pacchetto di attuazione dell’Agendail 20 luglio 2015 il Consiglio Giustizia e affari interni raggiungeva l’accordo sulla ricollocazione in due anni di 32.256 richiedenti asilo dall’Italia dalla Grecia; a causa dell’opposizione di alcuni Stati membri ad accogliere le quote assegnate di profughi, non veniva dunque raggiunto il numero di 40 mila originariamente previsto; il Consiglio si accordava altresì sul reinsediamento di 22.504 sfollati (più di quanti previsti dalla Commissione europea) in evidente bisogno di protezione internazionale provenienti da paesi extra-UE;

·    il 9 settembre 2015 la Commissione europea presentava un secondo pacchetto di attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione recante, in particolare, un piano di ricollocazione di ulteriori 120 mila richiedenti asilo da Grecia, Italia e Ungheria agli altri Stati membri. Secondo la proposta, sarebbero stati ricollocati 15.600 richiedenti asilo dall’Italia, 50.400 dalla Grecia e 54.000 dall’Ungheria. La proposta prevedeva, inoltre, l’assegnazione agli Stati membri destinatari del ricollocamento di 6 mila euro per richiedente asilo accolto, nonché di 500 euro agli Stati beneficiari per persona ricollocata per gli oneri relativi al trasferimento. La Commissione prevedeva inoltre la sanzione fino allo 0,002 per cento del PIL nazionale nei confronti degli Stati membri che si dichiarassero, per giustificati motivi, nell’impossibilità di ricevere richiedenti asilo. La Commissione europea presentava altresì una proposta di regolamento volta ad istituire un meccanismo permanente di ricollocazione in deroga al regolamento Dublino (che prevede che in linea di principio sia il Paese di primo approdo lo Stato membro competente a trattare la domanda di asilo) da attivarsi in tutti i casi in cui uno Stato membro si trovi ad affrontare situazioni di crisi per quanto riguarda la gestione di ingenti flussi migratori e di uno straordinario numero di richieste di asilo.

La Commissione presentava altresì una proposta di regolamento istitutiva di una lista europea di Paesi terzi definiti sicuri in quanto rispettano determinati standard in materia di rispetto di diritti umani: ai richiedenti asilo appartenenti ad uno Stato incluso in tale lista dovrebbe essere rifiutato dagli Stati membri lo status di protezione internazionale.

La Commissione europea presentava infine un Piano d’azione dell’UE sul rimpatrio. Il piano d'azione contiene misure immediate e a medio termine che gli Stati membri devono adottare per favorire il rimpatrio volontario, rafforzare l'attuazione della direttiva rimpatri, migliorare la condivisione delle informazioni; il piano prevede anche il rafforzamento del ruolo e del mandato di Frontex nelle operazioni di rimpatrio e crea un regime integrato di gestione dei rimpatri.

·    il 14 settembre 2015 (previo parere positivo del Parlamento europeo) il Consiglio giustizia e affari interni adottava la decisione recante il citato primo meccanismo di ricollocazione. In tale occasione il Consiglio trovava l’accordo sulla ricollocazione di 24 mila persone dall’Italia e di 16 mila dalla Grecia;

·    il 22 settembre 2015 (previo parere positivo del Parlamento europeo) il Consiglio giustizia e affari interni straordinario adottava una decisione recante il secondo meccanismo citato di ricollocazione (120 mila persone): in base alla decisione, 66.000 persone venivano ricollocate dall'Italia e dalla Grecia (15.600 dall'Italia e 50.400 dalla Grecia) negli altri Stati membri. Rispetto alla proposta originaria della Commissione europea, dal novero degli Stati membri beneficiari della ricollocazione veniva esclusa l’Ungheria in quanto contraria al meccanismo (la decisione veniva adottata a maggioranza qualificata e non per consenso). Conseguentemente le restanti 54.000 persone saranno soggette al ricollocamento dopo un anno dall'Italia e dalla Grecia oppure da altri Stati membri che si trovino ad affrontare situazioni di crisi per i propri sistemi di asilo e di accoglienza. Il Consiglio non ha invece accolto la proposta di sanzione economica sopracitata per gli Stati che abbiano dichiarato di non poter partecipare al programma di ricollocamento: uno Stato membro può notificare al Consiglio e alla Commissione la propria incapacità temporanea a partecipare al meccanismo di ricollocazione fino al 30% dei richiedenti ad esso assegnati per motivi debitamente giustificati e compatibili con i valori fondamentali dell'Unione; la Commissione valuta i motivi addotti e presenta proposte al Consiglio in merito alla temporanea sospensione della ricollocazione fino al 30% dei richiedenti assegnati allo Stato membro interessato e giustificato, la Commissione può proporre di prorogare il termine per ricollocare richiedenti nella quota restante fino a 12 mesi. Su tali proposte entro un mese decide il Consiglio;

·    Azioni prioritarie per i prossimi 6 mesiil 23 settembre 2015 si svolgeva una riunione straordinaria informale dei Capi di Stato e di Governo per discutere la crisi dei rifugiati in esito alla quale venivano approvate conclusioni volte, tra l’altro, a sostenere Libano, Giordania e Turchia nell’affrontare la crisi dei rifugiati siriani, e ad aiutare l’UNHCR. Il Programma alimentare mondiale e a altre agenzie con un miliardo di euro. Nel Piano di azione stipulato con la Turchia che ospita nel suo territorio 2,2 milioni di profughi, si è stabilito, tra l’altro, in un miliardo l’entità dell’aiuto a favore della Turchia a carico dell’UE;

·    sempre il 23 settembre 2015 la Commissione europea presentava una comunicazione recante una serie di azioni prioritarie per i prossimi sei mesi. In particolare venivano indicate le seguenti misure operative: il pieno avvio del meccanismo di ricollocazione e delle squadre di sostegno per la gestione della migrazione in azione presso i punti di crisi (hotspot); l’attivazione del meccanismo di protezione civile e di squadre Frontex di intervento rapido; la normalizzazione dello Spazio Schengen e l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne (temporaneamente reintrodotti da alcuni Stati membri); il rafforzamento dell’offensiva diplomatica e l’intensificazione della cooperazione con i paesi terzi per quanto riguarda i temi della migrazione.

La Commissione europea presentava inoltre una serie di iniziative finanziarie. Si tratta in particolare della proposta di aumentare: i finanziamenti per: gli aiuti alimentari tramite il Programma alimentare mondiale; gli aiuti umanitari; il sostegno per i rifugiati siriani aumentando il fondo fiduciario regionale dell’UE in risposta alla crisi siriana; la collaborazione con i Paesi di vicinato diretto, con particolare riferimento ad un miliardo a favore della Turchia e 17 milioni per Serbia ed ex Repubblica jugoslava di Macedonia per la gestione della pressione migratoria; l’istituzione di un fondo fiduciario di emergenza per aiutare l’Africa. Nella Comunicazione la Commissione europea ha inoltre sottolineato l’esigenza di attuare pienamente la legislazione europea in materia di asilo. Infine la Commissione ha preannunciato di voler presentare a dicembre 2015 proposte volte a rafforzare Frontex e ad istituire una guardia di frontiera e di una guardia costiera europee. Inoltre, secondo la Comunicazione, nel marzo del 2016 la Commissione europea dovrebbe presentare: una proposta su un meccanismo permanente di reinsediamento; una riforma del sistema Dublino; un pacchetto sulla migrazione legale comprendente la direttiva sulla Carta blu.

·    Bilancio rettificativo l’8-9 ottobre 2015, il Consiglio giustizia e affari interni, tra l’altro, approvava un finanziamento aggiuntivo mediante bilancio rettificativo del budget per fare fronte alla crisi dei rifugiati. Tale bilancio rettificativo (n. 7 del 2015) rafforza il sostegno UE all’attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione mediante 401,3 milioni di euro in impegno e 57 milioni in pagamenti. Nella stessa occasione il Consiglio approvava conclusioni circa il futuro della politica di rimpatrio.

Il Consiglio europeo del 15-16 ottobre 2015

Le discussioni del Consiglio europeo del 15-16 ottobre 2015 si sono concentrate, tra l’altro, sulla migrazione e la crisi dei rifugiati.

in tale occasione il Consiglio europeo ha stabilito, tra l’altro, una serie di orientamenti nei seguenti settori:

·    cooperazione con i paesi terzi per contenere i flussi;

·    rafforzamento della protezione delle frontiere esterne dell’UE sulla base dell’acquis di Schengen;

·    risposta all’afflusso di rifugiati in Europa e politica efficace di rimpatri.

Piano d’azione UE-Turchia Cooperazione con i paesi terzi per contenere i flussi

Circa il primo settore di intervento il Consiglio europeo ha tra l’altro valutato positivamente il piano d’azione comune con la Turchia nel quadro di un programma di cooperazione globale basato su condivisione di responsabilità, impegni reciproci e conseguimento di risultati. Secondo il Consiglio europeo un’attuazione efficace del piano contribuirà ad accelerare l'adempimento della tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti nei confronti di tutti gli Stati membri partecipanti e la piena attuazione dell'accordo di riammissione. I progressi saranno valutati nella primavera del 2016. Il Consiglio europeo ha aggiunto che l’'UE e i suoi Stati membri sono pronti a rafforzare la cooperazione con la Turchia e a intensificare significativamente il loro impegno politico e finanziario entro il quadro stabilito. Secondo il Consiglio europeo infine occorre rilanciare il processo di adesione al fine di compiere progressi nei negoziati.

Il Piano d’azione UE-Turchia (che riflette l’accordo tra Commissione europea e la Turchia), secondo un comunicato della Commissione europea del 15 ottobre 2015 si articola in due sezioni: il sostegno ai rifugiati e alle comunità che li ospitano in Turchia; il rafforzamento della cooperazione al fine di prevenire i flussi migratori irregolari verso l’Unione europea.

Circa il sostegno UE alla Turchia nella gestione dei migranti, si ricorda che la Turchia attualmente sta accogliendo circa 2,2 milioni di profughi, provenienti in massima parte dalla Siria e dall’Afghanistan. In tale ambito dell’accordo spiccano le seguenti misure: la proposta di mobilitare un finanziamento straordinario da parte dell’UE a favore della Turchia (secondo fonti informali circa tre miliardi di euro) per il periodo 2015-2016, tra l’altro, per l’assistenza umanitaria, il supporto legale amministrativo e psicologico ai rifugiati; la creazione di nuovi campi profughi in Turchia. Tale sezione dell’accordo prevede, inoltre, che l’Unione europea supporti i programmi e gli schemi esistenti di reinsediamento in modo tale che il flusso dei rifugiati che si trovano in Turchia verso l’Unione europea si svolga in maniera ordinato.

La Turchia sarà tenuta a migliorare il proprio sistema di asilo ad esempio garantendo la registrazione dei profughi, la fornitura di adeguati documenti; è inoltre previsto che la Turchia avvii politiche volte a migliorare l’integrazione dei rifugiati nella società e nell’economia turca.

Circa la prevenzione dei flussi irregolari, il Piano reca tra l’altro: il rafforzamento da parte dell’UE della capacità di contrastare i trafficanti di migranti; la previsione di operazioni congiunte UE-Turchia di rimpatrio; lo scambio di informazioni con la Turchia per quanto riguarda le reti criminali del traffico di migranti; il miglioramento della capacità della Turchia di intercettare i trafficanti; la cooperazione delle autorità turche con quelle greche e bulgare per prevenire la migrazione irregolare.

Conferenza rotta Balcani occidentali Il Consiglio europeo ha inoltre ritenuto che occorre assicurare un seguito efficace e operativo alla Conferenza ad alto livello sulla rotta del Mediterraneo orientale/dei Balcani occidentali, dedicando particolare attenzione alla gestione dei flussi migratori e alla lotta contro le reti criminali;

La Conferenza sulla rotta del Mediterraneo orientale e dei Balcani occidentali, che si è svolta l’8 ottobre 2015 si è concentrata sul consistente aumento del numero di migranti in provenienza dal Medio Oriente attraverso la rotta dei Balcani occidentali, con l’obiettivo di rafforzare il dialogo tra tutti i partner, aumentando la solidarietà e garantendo una gestione ordinata dei flussi di rifugiati e di migranti.

I Ministri degli affari interni e degli affari esteri dell'UE hanno incontrato i loro omologhi della Turchia, del Libano, della Giordania e dei Balcani occidentali. Hanno partecipato anche i paesi associati, Svizzera, Norvegia, Liechtenstein e Islanda. I rappresentanti dell’UNHCR, dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni, del Programma alimentare mondiale, nonché le agenzie dell’UE Frontex e EASO hanno presentato la situazione sul terreno.

La discussione si è focalizzata sui seguenti settori: aumentare il sostegno a Giordania, Libano e Turchia, per aiutarli a far fronte alla pressione; sostenere tutti i paesi di transito coinvolti per migliorare le capacità di accoglienza, registrazione e trattamento delle domande di asilo; rafforzare la cooperazione per combattere la criminalità organizzata responsabile del traffico di migranti e della tratta di esseri umani; affrontare le cause profonde dello spostamento obbligato; dialogare con i paesi di origine dei migranti irregolari.

Secondo il Consiglio europeo occorre conseguire misure operative concrete, in occasione del prossimo vertice di La Valletta con i capi di Stato o di governo africani, incentrate in modo equo ed equilibrato sui seguenti temi: rimpatrio e riammissione efficaci, smantellamento delle reti criminali e prevenzione della migrazione illegale, unitamente a sforzi concreti per affrontare le cause profonde e sostenere lo sviluppo socioeconomico africano, insieme a un impegno in materia di possibilità continuative di migrazione legale.

Conferenza EU-Africa di La Valletta La Conferenza che si svolgerà a La Valletta l'11 e il 12 novembre 2015 si baserà sui processi di cooperazione esistenti tra l'Europa e l'Africa, in particolare i processi di Rabat e Khartoum (che consistono in fori di dialogo regionale tra l’UE ed i Paesi dell’Africa occidentale, centrale e mediterranea sui temi migratori) e il dialogo UE-Africa in materia di migrazione e mobilità. Sono stati invitati al vertice: gli Stati membri dell'UE, i paesi partecipanti ai processi di Rabat e di Khartoum, gli osservatori del processo di Rabat, i rappresentanti della Commissione dell'Unione africana e della Commissione della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (ECOWAS), le Nazioni Unite (ONU) e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM).

Il vertice tratterà delle sfide e delle opportunità della migrazione. Riconoscerà inoltre che la migrazione rappresenta una responsabilità condivisa dei Paesi di origine, di transito e di destinazione.

Le discussioni tra i partecipanti si concentreranno su cinque settori specifici:

  1. affrontare le cause profonde della questione adoperandosi per contribuire alla creazione di pace, stabilità e sviluppo economico;
  2. migliorare il lavoro di promozione e organizzazione di canali di migrazione legale;
  3. rafforzare la protezione dei migranti e dei richiedenti asilo, in particolare dei gruppi vulnerabili;
  4. affrontare più efficacemente lo sfruttamento e il traffico di migranti;
  5. collaborare più strettamente per migliorare la cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione.

Infine il Consiglio europeo ha chiesto agli Stati membri di contribuire ulteriormente agli sforzi compiuti a sostegno dell'UNHCR, del Programma alimentare mondiale e di altre agenzie, nonché a sostegno del fondo fiduciario regionale dell'UE in risposta alla crisi siriana e del fondo fiduciario dell'UE per l'Africa.

Rafforzamento della protezione delle frontiere esterne dell’UE sulla base dell’acquis di Schengen

In tale ambito, secondo il Consiglio europeo occorre, tra l’altro:

a)   adoperarsi per l'istituzione progressiva di un sistema di gestione integrata delle frontiere esterne;

b)   sfruttare appieno l'attuale mandato di Frontex, anche per quanto concerne il dispiegamento di squadre di intervento rapido alle frontiere;

c)    rafforzare il mandato di Frontex nel contesto delle discussioni sullo sviluppo di un sistema di guardia di frontiera e costiera europea, anche per quanto concerne il dispiegamento di squadre di intervento rapido alle frontiere nei casi in cui le valutazioni Schengen o l'analisi dei rischi dimostrino la necessità di interventi rapidi e decisi, in cooperazione con gli Stati membri interessati;

Il Consiglio europeo ha infine valutato positivamente l'intenzione della Commissione di presentare a breve un pacchetto di misure al fine di migliorare la gestione delle frontiere esterne UE.

 

Risposta all’afflusso di rifugiati in Europa e politica efficace di rimpatri

In tale settore di intervento secondo li Consiglio occorre tra l’altro procedere speditamente alla creazione di altri punti di crisi (hotspot) entro il calendario convenuto per assicurare l'identificazione, la registrazione, il rilevamento delle impronte digitali e l'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e degli altri migranti, e nel contempo assicurare la ricollocazione e i rimpatri. Gli Stati membri devono sostenere appieno tali sforzi, in primo luogo soddisfacendo le richieste di consulenza da parte di Frontex ed EASO per le squadre di sostegno per la gestione della migrazione incaricate di operare nelle zone dei punti di crisi, nonché mediante la fornitura delle risorse necessarie.

È necessario inoltre procedere rapidamente alla piena attuazione delle decisioni finora adottate in materia di ricollocazione e degli impegni in materia di reinsediamento e di funzionamento dei punti di crisi.

Secondo il Consiglio europeo occorre inoltre intensificare l'attuazione della direttiva rimpatri da parte degli Stati membri e creare, entro la fine dell'anno, un apposito ufficio rimpatri all'interno di Frontex per rafforzare il sostegno agli Stati membri, nonché ampliare il mandato di Frontex in materia di rimpatri per includervi il diritto di organizzare di propria iniziativa operazioni congiunte di rimpatrio e rafforzare il ruolo di Frontex per quanto riguarda l'acquisizione dei documenti di viaggio per i rimpatriati.

Il Consiglio europeo ha ritenuto altresì necessario promuovere l'accettazione, da parte dei paesi terzi, di un lasciapassare europeo per i rimpatri migliorato come documento di riferimento a fini di rimpatrio. È necessario inoltre attuare effettivamente tutti gli impegni in materia di riammissione, siano essi assunti attraverso accordi di riammissione formali, l'accordo di Cotonou o altre intese, e rafforzare ulteriormente l'effetto leva nei settori del rimpatrio e della riammissione, ricorrendo se del caso al principio "di più a chi fa di più". A tal proposito, secondo il Consiglio europeo la Commissione e l'Alto Rappresentante dovranno proporre entro sei mesi incentivi globali e su misura da utilizzare nei confronti dei paesi terzi.

Piano di azione 17 punti Riunione degli Stati membri interessati alla rotta dei Balcani occidentali

Il 25 ottobre 2015 presso la Commissione europea si è tenuta una riunione sui flussi migratori che interessano la cosiddetta rotta dei Balcani occidentali. Alla riunione hanno partecipato i leader di Albania, Austria, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Germania, Grecia, Ungheria, Romania, Serbia e Slovenia. In esito alla riunione i leader hanno convenuto un piano di azione in 17 punti che si articola nei seguenti settori: scambiare in modo permanente le informazioni; limitare i movimenti secondari; sostenere i rifugiati e fornire loro protezione e riparo; gestire collettivamente i flussi migratori; gestire le frontiere; affrontare il traffico dei migranti e la tratta degli esseri umani; informare i rifugiati e i migranti dei loro obblighi e diritti.

Il piano prevede, tra l’altro:

·    la nomina di punti di contatto nazionali che consentano scambi quotidiani di informazioni e il coordinamento tra i Paesi firmatari dell’accordo;

·    aumentare la capacità di fornire protezione temporanea, cibo, salute, acqua e servizi igienici ai bisognosi di protezione internazionale, innescando se del caso il meccanismo di protezione civile dell'UE: è prevista la messa a disposizione di 100 mila posti per i rifugiati; in particolare la Grecia dovrà aumentare la capacità ricettiva di 30 mila posti entro la fine dell’anno e sostenere l’UNHCR per quanto riguarda l’impegno a fornire programmi per almeno altri 20 mila rifugiati; secondo l’accordo inoltre l’UNHCR fornirà ulteriori 50 mila posti lungo la rotta dei Balcani occidentali;

·    la piena capacità di registrare gli arrivi con il massimo utilizzo dei dati biometrici;

·     la finalizzazione e l’attuazione del Piano UE Turchia;

·    l’attuazione integrale dell’accordo di riammissione UE –Turchia e della roadmap in materia di liberalizzazione dei visti;

·    il potenziamento della missione Frontex Poseidon in Grecia;

·    il rafforzamento del sostegno di Frontex ai confini tra Bulgaria e Turchia;

·    il rafforzamento della cooperazione alle frontiere tra Grecia e Macedonia, con un maggior impegno dell’UNHCR;

·    l’invio in Slovenia di 400 ufficiali di polizia e di equipaggiamenti essenziali tramite il sostegno bilaterale;

·    l’uso della squadre di intervento rapido RABIT;

·    la conferma del principio per cui non si ammettono cittadini di Paesi terzi che non confermino la volontà di richiedere protezione internazionale.


 

 

 

 


 

 

 

Focus sui principali scenari di crisi

(a cura dei Servizi Studi Camera e Senato, Servizio Affari internazionali del Senato, Osservatorio di politica internazionale)



 

Libia

(a cura del Servizio Studi della Camera)

 

Il 13 settembre, dopo che il 27 agosto, ancora una volta senza la delegazione di Tripoli, erano ripresi in Marocco i tentativi di chiudere l’accordo per un nuovo assetto politico della Libia, l’inviato dell’ONU Bernardino Leon annunciava il superamento da parte di tutte le delegazioni presenti dei principali punti di disaccordo. Tuttavia, nonostante la prematura esultanza da parte di molti ambienti internazionali, all’annuncio di Leon non è ancora seguita l’effettiva conclusione del negoziato, con la firma del relativo accordo: un nodo caldo è attualmente quello della composizione del futuro governo di unità nazionale, per il quale l’inviato dell’ONU ha avanzato una proposta di organigramma che tuttavia non ha trovato immediato consenso.

Sia la delegazione internazionalmente riconosciuta di Tobruk che quella di Tripoli hanno chiesto ulteriore tempo per esaminare la proposta di Bernardino Leon - in particolare il parlamento di Tripoli ha espresso sorpresa per i nomi proposti per il nuovo governo, che non sarebbero mai stati menzionati nei nove mesi di negoziati.

Il 19 ottobre il Parlamento di Tobruk, con una decisione che in un primo tempo è apparsa all’unanimità – ma che successivamente l’inviato dell’ONU ha sostenuto doversi attribuire a una minoranza -, ha recisamente rigettato la proposta di governo di unità nazionale formulata dieci giorni prima. Nel contempo il parlamento di Tobruk ha deciso di sciogliere la sua delegazione che aveva partecipato ai negoziati in Marocco.

Il portavoce del parlamento ha spiegato che il voto negativo sarebbe stato correlato ad alcuni emendamenti all’accordo proposti dai filoislamisti di Tripoli, e che le Nazioni Unite avrebbero rifiutato di rigettare. Per quanto riguarda proprio Tripoli, il braccio politico dei Fratelli musulmani in Libia, il Partito Giustizia e Costruzione, aveva intanto lanciato un appello al Consiglio nazionale generale (in pratica il parlamento della capitale) ad un atteggiamento di responsabilità nei confronti della dialogo proposto dall’ONU.

L’Italia non ha tuttavia mancato di ribadire la propria disponibilità a un ruolo guida nei confronti della situazione libica: intervenendo infatti a New York per l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 29 settembre, aveva chiarito come l’Italia sia pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e ad assumere, su richiesta del (futuro) governo libico un ruolo di guida per la stabilizzazione del paese con il sostegno della Comunità internazionale. Tutto ciò, ha proseguito il Presidente Renzi, anche alla luce dei rischi che l’affacciarsi dell’ISIS sulla sponda sud del Mediterraneo comporta per il nostro Paese e per l’intera Europa.

Due giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni ha ribadito il sostegno italiano alla fase finale del negoziato tra le fazioni libiche mediato da Bernardino Leon - che a detta di Gentiloni non deve essere indebolito nella sua figura di mediatore solo per l’approssimarsi della scadenza del suo mandato - e in tal senso il Presidente Renzi e il Ministro Gentiloni hanno espressamente chiesto al Segretario generale dell’ONU di sostenere con forza Bernardino Leon. Per quanto poi riguarda il coinvolgimento dell’Italia nella questione libica, il Ministro Gentiloni ha chiarito non trattarsi affatto di una corposa spedizione, ma di interventi limitati su richiesta delle sperabilmente ricostituite autorità libiche, interventi che potranno andare dal monitoraggio elettorale alla messa in sicurezza di alcuni luoghi chiave del paese.

Con tutto ciò l’incontro dei rappresentanti di Tripoli e di Tobruk al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite (2 ottobre), quale forte momento di pressione della Comunità internazionale sulle fazioni libiche per giungere alla stretta finale dell’accordo, non ha dato i risultati sperati, e anzi il capo della delegazione dei filoislamisti che dominano Tripoli ha definito l’incontro un disastro – pur non chiudendo la porta alla possibilità di un accordo, da perseguire in ulteriori incontri nella città statunitense, e poi successivamente con la ripresa dei colloqui in Marocco. Cionondimeno l’incontro del 2 ottobre ha plasticamente rappresentato alle fazioni libiche la consapevolezza internazionale che non sia possibile frapporre ulteriori ritardi al raggiungimento di un accordo, da concludere assolutamente anche per porre fine all’instabilità che favorisce sia la diffusione dell’ISIS che le attività illegali degli scafisti. Non a caso all’incontro del 2 ottobre, oltre al Segretario generale dell’ONU e a Bernardino Leon, hanno partecipato anche il Segretario di Stato USA John Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni - unitamente ad altri colleghi di paesi membri dell’Unione europea -, e gli omologhi di Marocco, Algeria, Egitto, Turchia, Qatar e altri.

I contorni dell’appoggio europeo alla Libia in caso di positiva conclusione dell’estenuante negoziato per la formazione di un governo di unità nazionale sono stati precisati dagli uffici dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini in una nota informativa inviata ai governi degli Stati membri, secondo la quale in caso di circostanze favorevoli - ovviamente a partire dall’accettazione del piano delle Nazioni Unite per un nuovo governo - sarebbe pronto programma di aiuti da 100 milioni di euro, mentre con un approccio per fasi successive dovrebbe dispiegarsi anche un grande impegno per il ripristino di condizioni di sicurezza in Libia.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa specializzata “Agence Europe”, nella prima fase, si prospetta la possibilità di utilizzare la missione dell’UE per la gestione integrata delle frontiere libiche (EUBAM Libia), missione attualmente sospesa e il cui mandato scade il prossimo 21 novembre, e che andrebbe quindi rinnovata con la definizione di una eventuale integrazione del suo mandato. In aggiunta, gli Stati membri dovranno assumere, immediatamente, altre iniziative nel settore della sicurezza delle frontiere libiche.

Nella seconda fase, che richiede la firma di un piano di pace e l’insediamento di un Governo di unità nazionale e che nel documento è stimata per una durata di 40 giorni, dovranno essere avviate delle discussioni a livello tecnico e politico con il Governo Libico, per un pacchetto di iniziative di sostegno e aiuti da parte dell’UE, per far rispettare l’armistizio.

Nella terza fase, che dovrebbe durare dal 40° al 90° giorno, dovrà essere avviate discussioni tecniche con le autorità libiche sulle modalità dell’aiuto dell’UE nel quadro della politica di sicurezza e difesa dell’Unione, con l’obiettivo a lungo termine della riforma del settore della sicurezza in Libia e delle interazioni con le attività condotte nell’ambito della missione EUNAVFOR Med Sophia, volta a contribuire a smantellare le reti del traffico e della tratta di esseri umani nel Mediterraneo centromeridionale.

 

 


 


 

Siria

(a cura del Servizio Studi della Camera)

 

Il dato più rilevante delle ultime settimane è costituito dall’intervento russo nello scenario siriano: dopo alcune indirette aperture a questa ipotesi, la realtà dei fatti riscontrava in margine ai lavori dell’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’ONU un contrasto piuttosto duro tra le posizioni russe e quelle americane.

I due presidenti, che tra l’altro avevano anche un incontro diretto nella serata del 28 settembre, si trovavano in contrasto soprattutto in merito al ruolo del presidente Assad e del suo regime, che per Obama dovrà essere quanto prima sostituito, dopo lo scontro frontale con la popolazione siriana in corso dal 2011, mentre per Putin la rinuncia preventiva a un ruolo di Assad nella soluzione della questione siriana sarebbe un grave errore.

Il 30 settembre la Russia ha avviato i raid aerei sul territorio siriano, entrando subito in contrasto con gli Stati Uniti, che hanno accusato Mosca di non aver coordinato le mosse con le forze americane già impegnate nella coalizione contro l’ISIS e di aver colpito a Homs soprattutto basi degli oppositori moderati al regime di Assad, più che dello “Stato islamico”. L’equivoco di fondo è quello di una Russia impegnata in azioni militari contro formazioni che il suo alleato Assad definisce comunque terroristiche, e quindi non solo e non prevalentemente contro l’ISIS.

Nessun avvicinamento tra la posizione della Russia e quelle occidentali in merito allo scenario siriano si è avuto nell’incontro di Parigi del 2 ottobre, principalmente dedicato all’evoluzione dello scenario ucraino: la posizione della Russia è stata espressa direttamente dal presidente Putin, per il quale la permanenza al potere di Assad è fondamentale proprio nella lotta allo “Stato islamico”, contro cui unicamente sarebbero stati diretti i raid di Mosca - che effettivamente ha potuto vantare l’attacco diretto alla roccaforte dell’ISIS di Raqqa, al terzo giorno dall’inizio dell’azione militare in Siria.

Assai importante per l’evoluzione dello scenario siriano e per la questione dei grandi flussi di profughi in fuga dal paese è stata la visita del presidente turco Erdogan a Bruxelles del 5 ottobre: la Turchia, nel trattare della questione siriana, ha mantenuto ben fermo il proprio proposito di evitare la costituzione di qualunque forte entità territoriale a base curda, e non a caso non ha combattuto solo l’opposizione curda interna del PKK, ma ha anche mantenuto un atteggiamento quanto meno distaccato rispetto ai curdi siriani impegnati nella lotta contro l’ISIS.

Si spiega in tal modo l’insistenza turca sulla creazione di una vasta fascia di sicurezza in territorio siriano prospiciente al confine turco, non solo e non tanto per il contenimento dell’ondata di profughi, quanto piuttosto per inserire un cuneo nelle dinamiche militari in corso, impedendo il costituirsi di un forte arco territoriale a direzione curda.

Sempre il 3 ottobre si è verificato il primo episodio preoccupante a partire dall’intervento russo nello scenario siriano, quando un jet di Mosca sarebbe sconfinato nello spazio aereo turco. Relativamente blande le proteste di Ankara; da parte della NATO, invece, dopo una riunione di emergenza dei rappresentanti dei 28 Stati membri, è venuta una forte condanna sia della violazione dello spazio aereo turco sia degli attacchi contro l’opposizione ed i civili siriani da parte dei jet russi.

Il 7 ottobre un’ulteriore escalation ha caratterizzato l’intervento russo nello scenario siriano: navi ubicate nel Mar Caspio hanno lanciato 26 missili, asseritamente contro le posizioni dell’ISIS, i quali avrebbero colpito tutti i loro bersagli.

Sul terreno, nonostante la sottolineatura della Russia di aver aumentato la pressione proprio nei confronti dell’ISIS, i combattenti dell’opposizione al regime di Assad sono tornati a sostenere che gli attacchi russi hanno indirettamente rafforzato lo “Stato islamico”, colpendo proprio in prevalenza l’opposizione ad Assad. A riprova di ciò lo “Stato islamico” si impadroniva di alcuni villaggi dei dintorni di Aleppo, arrivando in qualche modo a minacciare da nord la grande città siriana.

Nei giorni successivi una massiccia ondata di profughi ha lasciato la regione a sud di Aleppo, investita dai raid russi e dall’offensiva di terra congiunta delle truppe di Assad e di quelle inviate dall’Iran contro gli insorti siriani.

Quanto all’Unione europea, il 12 ottobre il vertice ministeriale tenutosi in Lussemburgo aveva pronunciato una chiara condanna dell’intervento russo, rivolto non solo contro l’ISIS ma anche contro l’opposizione moderata, auspicandone l’immediata cessazione, a pena di prolungare il conflitto, pregiudicare l’eventuale soluzione politica di esso e aggravare la situazione umanitaria.

L’appoggio dei ministri europei all’azione di mediazione delle Nazioni Unite nei confronti di Assad non ha completamente nascosto le consuete divergenze in merito al ruolo dell’attuale capo del regime siriano, che per la Francia dovrà comunque essere sollecitamente rimosso, mentre paesi come la Germania e l’Italia hanno dimostrato di temere maggiormente il vuoto di potere che potrebbe seguire alla dipartita di Assad, configurando anche per la Siria uno scenario di tipo libico.

A riprova dei forti legami tra la Russia e Assad questi, nella serata del 20 ottobre, ha incontrato il presidente Putin a Mosca; Assad non si era più recato all’estero sin dall’inizio della rivolta nel suo paese nella primavera del 2011.


 


 

Israele e Autorita' Nazionale Palestinese

(a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)

 

L'evoluzione dei rapporti tra Israele e Autorità nazionale palestinese è stata segnata a fondo, e fortemente rallentata, dalla crisi nella Striscia di Gaza e dalla sospensione dei negoziati per un accordo di pace, avvenuta a fine aprile 2014. Anche sui rispettivi fronti interni, le ultime evoluzioni politico-istituzionali disegnano un quadro complesso.

In Israele, le elezioni tenutesi il 17 marzo 2015 hanno visto una sostanziale affermazione del Likud, il partito del premier Netanyahu, che ha ottenuto, con il 23,4% dei voti, una maggioranza più ampia rispetto a quanto i sondaggi facessero prevedere, ma non sufficiente a governare in autonomia. È stato pertanto formato un governo di coalizione, insediatosi il 14 maggio 2015, che comprende altri quattro partiti: Kulanu, partito di centro destra di recente formazione; Habayit Hayehudi, formazione di destra; il partito religioso Shas e l'ultra ortodosso United Torah Judaism. Nell'insieme, la coalizione dispone di una maggioranza numericamente esigua (61 seggi su 120) che non sembra deporre a favore della stabilità.

In Palestina, particolare rilievo ha assunto lo scioglimento del governo di unità nazionale che si era insediato il 2 giugno 2014, appena cinque settimane dopo la firma di un accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Tale accordo sembrava aver posto fine a una divisione durata per sette anni e seguita a una breve guerra civile in cui Hamas aveva assunto il controllo della Striscia di Gaza, mentre l'Autorità palestinese in mano a Fatah aveva continuato ad amministrare la maggior parte delle aree urbane della Cisgiordania (il controllo del territorio non urbanizzato, come della parte orientale di Gerusalemme, resta invece nelle mani di Israele). Concepito come esecutivo transitorio in vista dello svolgimento di nuove elezioni legislative, il governo è stato sciolto dal Presidente Abbas il 17 giugno 2015. Contestualmente, è stato dato l'incarico al premier Hamdallah di formare un nuovo esecutivo. La decisione è stata motivata con l'impossibilità per l'esecutivo di imporre la propria autorità sulla Striscia di Gaza, di fatto sotto il perdurante controllo di Hamas, che a sua volta ha rigettato la dissoluzione unilaterale del governo di unità nazionale, ascrivendola alla volontà di Fatah di evitare le elezioni, che secondo diversi sondaggi darebbero un esito favorevole ad Hamas anche in Cisgiordania.

Al quadro politico interno, incerto per entrambe le parti in causa, si sommano la complessità dello scenario internazionale e la forte instabilità dell'area. Tra i fattori di maggiore rilievo si segnalano:

-        gli effetti della cosiddetta "Intifada diplomatica" portata avanti da Abbas per ottenere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, e culminata, tra l'altro, nell'adesione, ad aprile 2015, dell'ANP alla Corte penale internazionale; nella decisione della Corte di giustizia dell'UE che ha annullato, per motivi procedurali, la decisione del Consiglio che manteneva Hamas nella lista europea delle organizzazioni terroristiche, e nella firma, lo scorso 26 giugno, dell'Accordo globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina;

-        la presentazione lo scorso 29 giugno, al Consiglio Diritti Umani dell'ONU, di un rapporto sul conflitto di Gaza del luglio 2014, rigettato da entrambe le parti in causa, che, nell'affermare che crimini di guerra sono stati commessi tanto da Israele quanto da gruppi armati palestinesi, evidenzia forti responsabilità dello Stato ebraico, soffermandosi sulla sproporzione tra le vittime (2251palestinesi o fronte di 67 israeliani);

-        l'accordo raggiunto a Vienna lo scorso 14 luglio sul nucleare iraniano tra i sei paesi negoziatori (USA, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) e l'Iran sul nucleare, che ha incontrato l'unanime dissenso delle forze politiche israeliane, che considerano la prospettiva di un Iran nuclearizzato alla stregua di una fondamentale minaccia all'esistenze stessa dello Stato ebraico;

-        la guerra civile siriana, cui Israele ha reagito accogliendo con sostanziale favore l'indebolimento del regiem di Assad, ma anche con rafforzati timori per l'accrescersi della minaccia qaidista e l'avanzata dell'ISIS.

A partire dal mese di ottobre, il quadro mediorientale è stato segnato da una nuova ondata di tensioni, culminata in quella che è stata definita, con termine efficace giornalisticamente quanto discutibile, la "Intifada dei coltelli", per i numerosi episodi di accoltellamenti di cittadini israeliani, a Gerusalemme come in altre città, da parte di palestinesi o arabi israeliani quasi sempre uccisi da polizia o esercito.

La causa scatenante di queste nuove tensioni è stata la marcia provocatoria sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme - luogo sacro dell'Islam sunnita e "Monte del Tempio" per gli ebrei - da parte di Uri Ariel, ministro dell'edilizia ed esponente del partito sionista "La Casa Ebraica", insieme ad altri esponenti politici di destra. Lo stesso Ariel, nel mese di luglio, aveva auspicato la ricostruzione del Tempio nel punto dove oggi sorge la Moschea di Al-Aqsa.

Il gesto di Ariel, considerato alla stregua di una grave provocazione, ha provocato una serie di scontri nella Città vecchia di Gerusalemme e sulla spianata, con decine di feriti tra manifestanti e forze dell'ordine, seguita dall'uccisione di due coloni israeliani nei pressi di Nablus il 1° ottobre e di due ebrei ortodossi nella Città vecchia di Gerusalemme, accoltellati da un giovane di Ramallah.

Tali episodi, cui è seguita una reazione molto violenta e decisa da parte delle forze di sicurezza israeliane, hanno sostanzialmente compattato maggioranza e opposizione in un sostegno deciso al governo Netanyahu, mentre Abbas ha incitato a una pacifica protesta popolare in difesa della Moschea di Al-Aqsa, intimando al governo israeliano di "stare alla larga dai luoghi sacri all'Islam e ai cristiani". Tale linea, sostanzialmente moderata, si scontra con un processo di radicalizzazione in atto nei Territori occupati, cui non è probabilmente estraneo, nell'ambito di una comune matrice jihadista, il potere attrattivo esercitato dall'ISIS.

L'azione svolta dall'Alto Rappresentante è stata tutta volta a un rilancio del dialogo tra le parti: in tale contesto vanno inquadrati gli incontri con entrambi gli attori di governo (Netanyahu a Berlino, il 21 ottobre, e Abu Mazen a Bruxelles, il 26 ottobre), finalizzati alla ricerca "di passi concreti sul territorio che possano migliorare la vita del popolo palestinese, rafforzando l'Autorità nazionale non solo sul piano economico ma anche su quello politico e della sicurezza e garantendo così, al contempo, la sicurezza del popolo israeliano".

Tra i due incontri con i leader israeliano e palestinese, l'Alto Rappresentante ha partecipato a Vienna, il 23 ottobre, alla riunione del Quartetto (USA, Russia, Unione europea e Nazioni Unite), che si è conclusa con una Dichiarazione comune nella quale:

-        viene espressa grande preoccupazione per l'escalation incessante delle tensioni tra israeliani e palestinesi e si condannano tutti gli atti di terrore e di violenza contro i civili;

-        si auspica il ritorno della calma e si chiede alle parti di evitare qualunque dichiarazione o azione che possa suonare provocatoria;

-        si incoraggia Israele a lavorare di concerto con la Giordania per tutelare lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme;.

Il Quartetto ha altresì annunciato l'invio di propri rappresentanti nella regione, che si confronteranno direttamente con le parti in causa, con l'obiettivo di incoraggiarle "a intraprendere azioni concrete, in linea con i precedenti accordi, per dimostrare un impegno autentico verso la soluzione basata su due Stati sovrani".


Egitto

(a cura del Servizio Rapporti Internazionali del Senato)

 

Dopo la deposizione del presidente Morsi nel luglio del 2013, il nuovo governo provvisorio ha avviato una revisione radicale della Costituzione che era stata approvata alla fine del 2012 e che era stata criticata perché espressione esclusiva delle forze islamiste. Dopo settimane di trattative e conflitti interni, l’Assemblea costituente ha approvato il 4 dicembre 2013 una nuova carta fondamentale.

Il testo, che è stato approvato a larga maggioranza da un referendum popolare nel gennaio 2014, sembra essere una riedizione della Costituzione del 1971, più volte emendata sotto Sadat e Mubarak. Il documento rafforza il ruolo preminente delle forze armate: i tribunali militari possono giudicare i civili; pieni poteri di controllo del budget da parte dell’esercito; autonomia del Consiglio supremo delle forze armate nella nomina del ministro della Difesa (per otto anni). Inoltre sono proibiti i partiti religiosi. È confermata la sharia alla base del diritto egiziano, ma vengono aboliti gli articoli che riguardano il ruolo della religione nel diritto e nell’esercizio del potere statale.

La nuova Costituzione, sebbene conferisca ai militari uno status privilegiato, contiene, tuttavia, elementi progressivi sul piano della laicità dello stato e del diritto, rispetto al precedente testo.

È stata di recente approvata anche una nuova legge elettorale che prevede che solo 120 dei 596 parlamentari sia assegnato alle liste di partito, lasciando il restante numero di seggi ai candidati singoli nei collegi (448), con 28 membri nominati direttamente dal presidente. Questo meccanismo ridurrà, secondo gli osservatori, la possibilità di formare blocchi omogenei di opposizione e di istituire un sistema multipartitico in Egitto.

Dopo le elezioni presidenziali di giugno 2014 che hanno visto prevalere l'ex capo dell'esercito, il generale Abdel Fattah Al Sisi, l'Egitto sta completando il suo processo di transizione. A seguito di una sentenza della Corte costituzionale, nel mese di luglio sono stati approvati i nuovi emendamenti alla legge elettorale e il 31 agosto la Commissione elettorale nazionale ha annunciato le date delle elezioni legislative che si stanno attualmente svolgendo in due distinte fasi per area geografica, ciascuna a doppio turno: la prima fase il 18 e 19 ottobre  e 26-27 ottobre 2015; la seconda fase il 22-23 e 1-2 dicembre 2015.

La prima tornata del 18-19 ottobre ha riguardato 27 milioni di elettori su 55. La Commissione elettorale del paese ha vietato alle donne che si recheranno alle urne di indossare il niqab e di avere dunque il volto coperto, per motivi di sicurezza e trasparenza. Alle elezioni si sono presentate nove liste, per un totale di 5420 candidati che in gran parte appoggiano Al Sisi. Tre sono i principali blocchi politici del paese. La prima è la coalizione conservatrice “Per amore dell’Egitto”, guidata da Sameh Seif Elyazal, ex funzionario dei servizi segreti, che include anche importanti uomini d’affari e ex membri del Partito nazionale democratico (sciolto nel 2011) dell’ex presidente Hosni Moubarak. La seconda è il “Fronte Egiziano”, guidato dall’ex candidato alle presidenziali 2012 Ahmed Shafiq, anch'essa composta soprattutto da membri del disciolto Partito Democratico Nazionale di Mubarak. C’è infine la coalizione “Chiamata salafita”, sostenuta dal partito islamista al–Nour di Younis Makhyoun e dai cristiano–copti. Al Nour è anche l’unico partito apertamente islamista in corsa e la formazione più ostile al presidente. Nei giorni precedenti alle elezioni è stato ucciso nella regione del nord del Sinai un candidato proprio del partito Al Nour. Secondo il ministero dell’Interno egiziano l'attentato sarebbe opera dei gruppi jihadisti intenzionati a fermare il processo elettorale in corso.

Tra i partiti che hanno invece deciso il completo boicottaggio delle prossime elezioni, “denunciando un ambiente elettorale anti–democratico e poco favorevole”, figurano le formazioni islamiste più o meno ideologicamente collegate alla galassia della Fratellanza musulmana, messa fuori legge e dichiarata organizzazione terroristica, come Misr al–Qawia (Egitto Forte) dell’ex candidato presidenziale Abdel Moneim Abul Fotouh; il partito salafita Hizb al–Watan (Partito della Nazione) di Emad Eddine Abdel–Ghaffour; e il partito islamico moderato Hizb al Wasat (Partito di Centro).

I dati della prima tornata elettorale confermano, nonostante i tentativi del governo di favorire un'ampia partecipazione, la previsione della bassa affluenza alle urne: solo il 26% degli aventi diritto si è recato a votare. Secondo i primi risultati la maggior parte dei seggi disponibili è stata assegnata ai candidati della coalizione "Per amore dell'Egitto".

Per il governo lo svolgimento delle elezioni dimostra l'impegno dell'Egitto nel rafforzare il processo democratico. Da parte di alcuni partiti sono emerse critiche alla legge elettorale che basandosi prevalentemente sul sistema della candidatura singola potrebbe favorire i candidati più ricchi e con maggiori relazioni familiari.

Alcuni osservatori hanno notato come quella egiziana sia una transizione non "consensuale" ma "imposta", incentrata sulla figura del presidente Al Sisi che ha svolto un ruolo di primo piano nella deposizione di Morsi nel luglio 2013 e che è stato eletto alla presidenza con un risultato plebiscitario: 97% dei voti a fronte di un'affluenza alle urne del 47,5%.

Lo scorso 19 settembre è entrato in carica il nuovo governo guidato dall'ex ministro del Petrolio Sherif Ismail che ha sostituito l'esecutivo di Ibrahim Mahlab, travolto da accuse di scandali e corruzione. Il nuovo governo, formato da 33 ministri, presenta poche novità rispetto al precedente. Restano al loro posto il ministri degli Esteri, quello degli Interni e della Giustizia, mentre entrano tre donne alla cooperazione internazionale, solidarietà e immigrazione. Le priorità di Al Sisi sono da un lato il ripristino della sicurezza e la lotta contro il terrorismo (in particolare nel Nord del Sinai, ove operano anche gruppi di estremisti jihadisti, quali Ansar Bayt el-Maqdis, collegati allo Stato Islamico), dall'altro il rilancio dell'economia.

Lo scorso 17 agosto il Presidente ha emanato una nuova legge antiterrorismo che prevede l'istituzione di tribunali speciali per rendere più veloci i processi, inasprisce le pene per terrorismo e incitamento alla violenza, fornisce tutela legale a soldati e forze dell'ordine che usano la forza nell'esercizio della loro missione. La norma prevede inoltre multe altissime per i giornalisti che non riportano correttamente la versione del governo sui fatti di terrorismo. Secondo alcuni osservatori internazionali, l'approvazione della legge è un tentativo del governo di reprimere la libertà di espressione e di dissenso. Dal 7 settembre scorso il governo ha dato avvio nel Sinai settentrionale all'operazione “Diritto dei martiri” con l'impiego congiunto di forze armate e polizia al fine di sradicare le cellule terroriste presenti nella regione. Nella sua prima fase l'operazione ha portato all'uccisione o alla cattura di centinaia di terroristi e alla diminuzione dell'attività terroristica. Tuttavia lo scorso 23 ottobre almeno quattro militari sono morti in un attentato che ha colpito un veicolo dell’esercito egiziano nella città di al Arish, nel Sinai settentrionale.

Una forte attenzione è data al tema delle riforme economiche. Lo scorso 20 agosto il presidente Sisi ha emanato una serie di decreti che riguardano il sistema di tassazione, le regole di investimento e la struttura del settore energetico. L'obiettivo è quello di promuovere condizioni di mercato più favorevoli agli investimenti. Un'altra priorità è la lotta alla corruzione nel settore pubblico e l'efficienza della burocrazia statale, questione che è stata affrontata in un recente provvedimento di riforma che lega gli incentivi economici alla produttività e che ha sollevato numerose proteste.

A fronte dell’avanzamento formale della road map politica, il Paese appare comunque ancora fortemente polarizzato. La rimozione di Morsi è stata seguita dalla dispersione violenta dei sit-in di Raba’a in cui i suoi sostenitori si erano concentrati (agosto 2014, con oltre 700  vittime) e da un’ondata di arresti/condanne (finanche alla pena capitale) che non solo ha decimato la leadership della Fratellanza Musulmana, ma che ha anche fortemente ridimensionato la struttura organizzativa e la capacità operativa del movimento che secondo le autorità hanno contiguità con i gruppi terroristi.

Al contrasto contro il terrorismo e all’azione di contenimento delle organizzazioni di stampo islamista si è poi collegata una serie di misure contro esponenti dell’opposizione laica/liberale e della società civile e da provvedimenti legislativi che hanno colpito la libertà di espressione. La perdurante assenza di un Parlamento eletto ha determinato una situazione in cui la Presidenza ha esercitato di fatto il potere legislativo in un contesto di "eccezionalità".

Nel corso dell’ultimo anno e mezzo diversi sono stati i decreti emanati, tra cui quello che limita il diritto di manifestazione, quello che consente alla Presidenza di revocare i Rettori delle Università (considerate focolai di estremismo), quello che limita fortemente le attività delle ONG straniere nel paese, quello che stabilisce l’estensione della competenza delle corti militari anche ai civili, laddove sia minacciata l’integrità delle istituzioni e l’interesse nazionale. Da parte della società civile egiziana si levano proteste soprattutto relative all’ampio spazio di interpretazione e all’arbitrarietà delle limitazioni alla libertà d’espressione. La critica principale è quella di volere, attraverso la legislazione antiterrorismo, silenziare qualsiasi forma d’opposizione, aggirando le libertà costituzionali.

Dal punto di vista della sicurezza la strategia egiziana contro il terrorismo di stampo islamista, presente in particolar modo nel governatorato del Sinai, è orientata verso due principali direttive: da una parte l'“approccio securitario”, ove le forze di sicurezza hanno adottato la maggior forza d’urto possibile per reprimere gli elementi terroristi; dall'altra l'approccio politico-culturale, basato sull’innovativa idea di Sisi di affrontare non solo le conseguenze del messaggio islamista, bensì il messaggio in sé.

Nel suo discorso del 1° gennaio 2015, il Presidente ha chiesto un nuovo sforzo d’esegesi alle istituzioni religiose e culturali egiziane (Università di Al-Azhar in primis) per confutare la fallace proposizione della narrativa di gruppi come Ansar Bayt al-Maqdis (ABM). In questo contesto emerge una nuova “strategia della tensione” dei gruppi terroristi basata su un  continuum di attacchi a bassa intensità, con piccoli ordigni e mini-attentati che minano la stabilità e la sicurezza del Paese. Tra questi rientra anche l’attentato alla Consolato Generale italiano del Cairo (11 luglio).

L’Egitto di Al Sisi intende assumere un ruolo attivo nella politica internazionale, presentandosi all’Occidente come interlocutore responsabile e interessato al ripristino della sicurezza nell’area; il problema della diffusione del jihadismo, che torna a colpire con alterna frequenza nei governatorati del Sinai e minaccia di espandersi lungo il confine con la Libia, sta richiedendo lo sforzo congiunto delle forze di polizia e dell’esercito per riportare sotto il controllo delle autorità le aree a maggior rischio.

Sul piano diplomatico, sostenuto finanziariamente e politicamente da Arabia Saudita e Emirati Arabi, Sisi ha riportato diversi successi: dalla reintegrazione dell’Egitto nell’Unione Africana, alla mediazione sul conflitto a Gaza, al riconoscimento politico dell’Europa e degli Stati Uniti.

L’ascesa del sedicente califfato islamico (Khilafat al-islamiyya) ha contribuito a rafforzare ulteriormente e a legittimare il ruolo egiziano, esposto direttamente alla minaccia del terrorismo di matrice islamica. Quest’ultima si manifesta lungo le quattro direttrici frontaliere. i) Sul fronte settentrionale (Mediterraneo) in corrispondenza della costa nord, con i fenomeni di traffici illegali (armi, droga, esseri umani fenomeno delle migrazioni irregolari, al cui interno possono infiltrarsi elementi del terrorismo islamico). ii) Sul lato orientale, con la situazione nel Nord del Sinai e, nella regione, con la crisi in Yemen. iii) Sul fronte meridionale per prevenire e contrastare i traffici di armi e di droga, dove Il Cairo si acconcia ad una relazione di buon vicinato con il Sudan, malgrado la distanza ideologica con il regime di Khartoum. iv) sul quadrante occidentale, ovvero la Libia, quello che maggiormente preoccupa gli egiziani, i quali ritengono che la situazione sia ormai giunta ad un livello esplosivo ed estremamente pericoloso.

La crisi libica ha un’importanza assolutamente prioritaria per l’Egitto, che sostiene con decisione la legittimità della Camera dei Rappresentanti di Tobruk ed il Governo (anti-islamista) Al Thinni. Il Cairo teme che la Libia si trasformi in un paese "incubatore" di forze jihadiste, che diventi una piattaforma di gestione dei traffici illegali in grado di finanziare il terrorismo e che sia messa a rischio la sicurezza della numerosa comunità egiziana in Libia. L'Egitto sostiene dunque il governo di Tobruk, ma d'altra parte è favorevole, concordando con l'Italia, alla costituzione di un governo di concordia nazionale e all'estensione dell'accordo di Shkirat (12 luglio) anche alla componente tripolina.

Recentemente il Ministro degli egiziano, Sameh Shoukry ha espresso la sua preoccupazione per “l’incapacità della Comunità internazionale di garantire assicurazioni sull’applicazione degli accordi politici sottoscritti lo scorso luglio e sulla creazione di un governo di unità nazionale”.

Sul fronte siriano l'Egitto sta conducendo ampie consultazioni al fine di formulare un consenso internazionale su una soluzione politica del conflitto che preservi l'unità del paese. L'Egitto sostiene l'opposizione moderata al regime e intende favorire la creazione di un governo di unità nazionale, evitando interventi esterni e contrastando l'avanzata dell'Isis. In Egitto sono presenti circa 500.000 profughi siriani.

La Presidenza Italiana dell’UE e la nomina dell’ex Ministro Mogherini all’incarico di Alta Rappresentante sono stati entrambi utili fondamenti per lavorare ad un più costruttivo rapporto tra Egitto e l’Europa.

Il Cairo ritiene che spesso Bruxelles non sia sempre coerente nel valutare la situazione sul terreno, e che dunque fatichi a comprendere nella sua interezza le dinamiche alla base della rivoluzione anti islamista. Suscitano reazioni fortemente critiche i tentativi dell’Unione di segnalare l’attenzione europea al tema del rispetto dei diritti umani e delle libertà. A tal proposito, ha suscitato viva preoccupazione la risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio 2015, la quale richiedeva maggiori aperture sul piano dei diritti umani e la liberazione dei detenuti politici.

Sono particolarmente buoni i rapporti con la Russia e recentemente il presidente Putin si è recato in Egitto per siglare importanti accordi commerciali. Sul piano diplomatico è in corso un forte riavvicinamento con gli Stati Uniti.

Alla nomina di Sisi, la Casa Bianca ha ufficialmente dichiarato di essere pronta a collaborare con il nuovo Presidente e il Presidente Obama ha riconosciuto un turning point positivo nelle relazioni bilaterali, sbloccando la seconda tranche di finanziamenti militari (per 650 milioni di USD). D'altra parte Obama non ha comunque fatto mancare il dispiacere per le incarcerazioni di attivisti e giornalisti, per i processi di massa e per le limitazioni alle libertà di espressione e manifestazione.

Sono ottimi i rapporti con la Cina e nel corso della visita del Presidente Sisi a Pechino dello scorso dicembre 2014 è stato ha siglato un accordo strategico bilaterale cha rafforza i legami tra i due paesi. La cooperazione si basa in particolare sui rapporti commerciali e sulle infrastrutture.


 

Turchia

(a cura del Servizio Studi della Camera)

 

Dopo le elezioni legislative del 7 giugno 2015, nelle quali c’è stata una battuta d’arresto del Partito islamista AKP del Capo dello Stato Erdogan, con un calo del 9% dei voti e la perdita di 71 seggi, lo scenario politico interno turco ha visto il tentativo di dar vita a una nuova compagine di governo con un’alleanza tra l’AKP e il Partito nazionalista conservatore turco. Il fallimento del tentativo ha fatto sì che nuove elezioni legislative siano state fissate per il 1° novembre.

Dalle elezioni di giugno è uscito con un largo successo il Partito democratico del popolo (HDP), di matrice curda ma largamente aperto ad istanze nazionali di modernizzazione e ai diritti di altre minoranze. Quasi superfluo sottolineare la delicatezza della situazione politica in tal modo creatasi, stante il contrasto e il sospetto di lungo periodo delle autorità turche nei confronti delle istanze curde, e non solo nei confronti del PKK, il Partito dei lavoratori curdo coinvolto anche in attività di tipo terroristico. Anche il Partito nazionalista e conservatore (MHP - Partito di azione nazionale) ha registrato un certo successo elettorale.

Tra i fattori principali che hanno determinato la temporanea sconfitta dell’AKP vi è sicuramente il notevole rallentamento della crescita economica turca, che pure aveva fatto parlare del paese come di una nuova locomotiva ai bordi dell’Europa. Vi è inoltre il riorientamento di ampie fasce di popolazione, e tra queste soprattutto di popolazione curda non pregiudizialmente contraria alle autorità di Ankara, ma spinta a prendere le distanze dalla difficile situazione regionale e internazionale in cui la Turchia sembra essersi collocata con la cosiddetta politica neo-ottomana.

Alcuni prodromi di questa impostazione erano chiari già nel 2010, con il netto peggioramento delle relazioni con Israele. E’ tuttavia a partire dal 2011 che si è assistito a cambiamenti tali della politica estera turca da sconcertare a più riprese i tradizionali alleati occidentali: in concomitanza delle cosiddette Primavere Arabe, infatti, la Turchia è sembrata cercare un nuovo ruolo, e in un primo tempo tutto ciò è stato visto con una certa soddisfazione anche da parte occidentale, in ragione del carattere apparentemente moderato del Partito islamico di governo. In qualche modo la Turchia era vista come un possibile modello per una evoluzione dei regimi arabi. Sta di fatto che la concreta azione della Turchia si è posto piuttosto l’obiettivo di alimentare alcune correnti jihadiste - Ankara ha appoggiato ovunque le istanze provenienti dalla Fratellanza Musulmana - con un disegno nascosto ma non troppo di destabilizzazione dei regimi esistenti. Ciò ha condotto ad accentuare l’isolamento della Turchia, che presto ha visto declinare la propria influenza: il parametro è proprio lo scenario siriano, dove la forte ostilità verso il regime di Assad ha portato la Turchia ad alimentare la ribellione contro il regime di Damasco, e finanche a tollerare forse oltre l'immaginabile la proliferazione dello “Stato islamico” a cavallo dei territori siriano e iracheno. La Turchia ha poi peggiorato anche le proprie relazioni con l'Egitto, rispetto al quale Ankara ha duramente criticato la rimozione dal potere di Mohammed Morsi, esponente locale della Fratellanza Musulmana, da parte delle autorità militari del Cairo. Il risultato di tutte queste azioni di politica estera, con il peggioramento incessante dello scenario siriano, ha fatto sì che la Turchia fosse investita da un'ondata crescente di profughi siriani, ormai giunta a circa 2 milioni di persone, accrescendo l'allarme della popolazione curda che si trova proprio ai confini con la Siria, e che si è vista inondare da popolazioni di diversa etnia - araba, appunto.

Vi è poi stata una crescente distanza rispetto all'Occidente e all'Unione europea in ragione della strisciante deriva autoritaria del paese, attestata dalle dure lotte di Erdogan contro il potere giudiziario, e dai forti sospetti di coinvolgimento del capo dell’AKP in varie malversazioni. Anche la stampa turca è stata più volte oggetto di attacchi da parte del governo e di tentativi di forte restrizione della libertà. In sintesi la Turchia, da pilastro della NATO e fedele alleato dell'Occidente nella regione, è divenuta un paese sempre meno affidabile per le istanze occidentali - la parabola del deterioramento dei rapporti con Israele ne è la cartina di tornasole.

L’evoluzione dello scenario siriano ha condotto nel periodo successivo alle elezioni di giugno ad un crescente coinvolgimento turco: Ankara non ha più potuto chiudere un occhio sulle attività dell'ISIS, a partire da quando il 20 luglio un attentato ha provocato trenta morti nella località turca di Suruk, vicino al confine siriano, e a meno di 10 km dalla città siriana di Kobane, simbolo della resistenza curda contro le truppe del “Califfato”. Il 23 luglio, dopo un colloquio telefonico tra Erdogan e Barack Obama, che aveva chiesto con chiarezza alla Turchia di fermare l'afflusso dei combattenti jihadisti stranieri in Siria a sostegno dello “Stato islamico”, e dopo che un sottufficiale turco aveva perso la vita a seguito di spari provenienti dal territorio siriano sotto controllo del “Califfato”, l'aviazione turca per la prima volta effettuava raid contro il territorio siriano controllato dall’ISIS, appoggiando un'azione di terra delle forze armate di Ankara.

Nei giorni successivi si chiariva tuttavia che la campagna militare turca, certamente indotta anche dalle pressioni americane, si concentrava più che sulla lotta allo “Stato islamico”, sul contrasto ai curdi di Siria e agli stessi curdi presenti in territorio turco: più volte venivano bombardate postazioni del PKK. Tutto ciò veniva confermato nei primi giorni di settembre, quando le forze turche si spingevano a compiere un blitz anticurdo in territorio iracheno: oltre a bombardamenti aerei, come già più volte avvenuto in passato forze speciali turche sono penetrate nel nord dell'Iraq per inseguire appartenenti al PKK ivi rifugiatisi (nel Kurdistan iracheno). Tutte queste attività militari contro il PKK, è stato osservato, hanno costituito senza dubbio anche un tentativo di rinfocolare nell'opinione pubblica turca l'allarme e il sospetto verso le frange curde della popolazione, e indirettamente dunque verso il Partito di ispirazione curda che aveva provocato in giugno lo stop elettorale dell’AKP.

Cionondimeno le azioni della Turchia, in ribasso in campo economico, come si è accennato, sono state rilanciate dal pressante bisogno dei paesi europei di far fronte alla grande ondata di profughi in fuga dallo scenario mediorientale e dal Nordafrica: la Turchia in questo senso è indubbiamente un paese chiave, e sono iniziate pressanti trattative con Bruxelles per trovare un modus vivendi nella gestione dei flussi migratori, provenienti in buona parte proprio territorio turco. Già alla fine di settembre i leader europei hanno stanziato fondi a favore della Turchia, per consentire al paese mediorientale di gestire la grande massa di profughi presenti sul proprio territorio.

Assai importante è stata la successiva visita del presidente turco Erdogan a Bruxelles: qui il 5 ottobre Erdogan ha gettato sul piatto della bilancia la strategicità del suo paese, per il quale ha richiesto l’assistenza finanziaria dell’Unione europea - riscontrando l’assenso delle autorità di Bruxelles. Non è però sfuggito che la Turchia nel trattare della questione siriana ha mantenuto ben fermo il proprio proposito di evitare la costituzione di qualunque forte entità territoriale a base curda, e si spiega in tal modo l’insistenza turca sulla creazione di una vasta fascia di sicurezza in territorio siriano prospiciente al confine turco, non solo e non tanto per il contenimento dell’ondata di profughi, quanto piuttosto per inserire un cuneo nelle dinamiche militari in corso, impedendo il costituirsi di un forte arco territoriale a direzione curda.

In ogni modo, il 15 ottobre è stato raggiunto un primo accordo ad Ankara, dove il vicepresidente della Commissione europea Timmermans ha negoziato un piano d’azione comune per affrontare nel modo migliore la questione dei rifugiati dalla Siria, attraverso un pacchetto di aiuti finanziari alla Turchia che potrebbero giungere alla somma di 3 miliardi di euro; la Turchia si vedrebbe anche favorita con un’accelerazione del processo di liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi in ingresso nel territorio europeo. L’intesa ha comunque destato reazioni assai differenziate all’interno dei Capi di Stato e di Governo europei riuniti nella stessa giornata a Bruxelles anche per discutere di riforma dell’eurozona.

Il 3 ottobre si era intanto verificato il primo episodio preoccupante a partire dall’intervento russo (30 settembre) nello scenario siriano, quando un jet di Mosca sarebbe sconfinato nello spazio aereo turco. Relativamente blande le proteste di Ankara, che tuttavia sottotraccia si trova in contrasto potenziale assai forte con l’azione militare russa, avendo sempre costantemente appoggiato le correnti jihadiste contrarie al presidente Assad e ispirate alla Fratellanza islamica, le quali costituiscono al momento uno degli obiettivi dell’azione militare russa, anche se non dichiarato. In ogni modo l’ambasciatore russo ad Ankara è stato convocato presso il ministero degli esteri per esprimere la protesta per la violazione dello spazio aereo, mentre assai più dura è stata la reazione della NATO, che ha ventilato la possibilità di rafforzare il dispositivo difensivo della Turchia.

I problemi della politica interna e della politica regionale della Turchia si sono purtroppo tragicamente intrecciati il 10 ottobre, quando l’esplosione di due bombe ad Ankara durante una manifestazione pacifica di filocurdi provocava un centinaio di morti e 400 feriti: nei giorni successivi le autorità turche hanno attribuito senza esitazioni l’attentato ad elementi dell’ISIS, ma non è sfuggito, in ragione dell’obiettivo dell’attacco, che questo ha potuto avere anche una valenza politica interna, aggiungendosi ad una serie di attacchi terroristici e violenze contro manifestazioni e sedi di matrice curda prima e dopo le elezioni di giugno. Va inoltre ricordato come la manifestazione pacifista fosse stata indetta per chiedere la fine degli attacchi delle forze di sicurezza turche contro i separatisti curdi del PKK.


Contrasto al terrorismo di matrice islamica

(a cura del Servizio Affari Internazionali del Senato)

 

Il fronte del jihadismo si è ampliato negli ultimi anni attraverso nuove direttrici, dall’Iraq alla Siria e da qui verso l’Egitto e la Libia, attraversando il deserto dell’Algeria e del Mali sino alla parte settentrionale della Nigeria. L'evoluzione di Al-Qaeda e del suo modo di operare, da organizzazione monopolista del terrorismo islamico-radicale ad aggregatore in funzione tattica di formazioni islamiche radicali e gruppi salafiti può essere sintetizzata impiegando successive etichette concettuali.

In sostanza la struttura di al-Qaeda appare oggi composta da tre elementi:

·      la top leadership, il cuore dell’organizzazione, che pare girare ancora attorno alla figura del leader al-Zawahiri (dopo la scomparsa di Bin Laden), ma che sembra tuttavia avere compiti più ideologici che operativi, rappresentando il messaggio jihadista e la sua diffusione nel mondo, detta obiettivi, detta priorità e segnala opportunità alla rete più estesa;

·      gruppi affiliati che hanno capacità di agire indipendentemente dalla top leadership, come AQIM (Al-Qaeda in Maghreb) o -almeno inizialmente - AQI (Al-Qaeda in Iraq). Separati dalla leadership questi gruppi potrebbero apparire come organizzazioni terroristiche convenzionali, con finalità prettamente interne al campo d’azione nazionale regionale nel quale operano (per esempio il ritiro delle truppe straniere). Ma i più recenti movimenti jihadisti sembrano ancor più decentralizzati e orientati alle connessioni e alle battaglie locali e appaiono certamente favoriti dalla destabilizzazione di alcuni paesi o aree geopolitiche;

·      piccole cellule o individui che non hanno alcun legame o affiliazione formale con il network e che agiscono indipendentemente sulla base di obiettivi del jihad globale.

Dal momento in cui l'ISIS si è affacciato a contendere il primato di Al-Qaeda sulla galassia dell'Islamismo radicale, nuovi studi sono intervenuti ad inquadrare l'emergere del fenomeno dell'Islamic State of Iraq and al-Sham (noto con l'acronimo inglese ISIS o arabo Daesh).

Le origini di ISIS si rinvengono nel gruppo, una volta noto come “Al-Qaeda in Iraq (AQI)", che nel 2006 ha preso il nome di Stato islamico dell’Iraq e nel 2013 il nome di Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) inteso come regione storica della Grande Siria nel vicino oriente, confinante con il mar Mediterraneo ad ovest, con il deserto siriano ad est, con l’Egitto al sud e con l’Anatolia al nord. L’acronimo ISIS si rivolge a Levante (al-Sham) e comprende anche e soprattutto Iran, India ed Indonesia per una saldatura con Afghanistan e Pakistan. In pochissimo tempo l’ISIS ha messo a segno successi militari e politici creando, di fatto, una nuova entità territoriale tra Siria e Iraq.

A partire dal 2013, con la conquista di città strategiche nei pressi della capitale Baghdad, l’ISIS si è strutturato come uno Stato, amministrando risorse del territorio, persone e cose, al fine di rafforzarsi economicamente e militarmente, diventando di fatto un soggetto statuale con potere amministrativo ed economico -grazie alla vendita di petrolio, armi e beni primari, nonché con l’imposizione di tasse rivoluzionarie e con l’estorsione di denaro ai commercianti ed agli autotrasportatori, lucrando sulle attività illegali. L'autoproclamato califfato si pone come una forza jihadista in grado di coniugare governo del territorio e capacità di ottenere il consenso della popolazione di credo sunnita. Il disegno dell’ISIS lascerebbe tuttavia intravedere un più ambizioso obiettivo che è quello di un reclutamento su scala regionale e globale, al fine di trasferire in Medio Oriente la struttura portante del jihadismo, attualmente presente nell’area afghana-pakistana, anche alla luce delle recenti dichiarazioni di alleanza con la nuova realtà e di progetto di estensione del califfato nell’area sud est asiatica (India, Bangladesh ed Indonesia) proclamate da al Zawahiri.

La risposta del Consiglio di Sicurezza dell'ONU rispetto all'evoluzione del terrorismo jihadista e all'azione destabilizzante di ISIS/DAESH è consistita finora ­in un pacchetto di 3 risoluzioni adottate in base al Capitolo VII della Carta che adatta alla nuova minaccia recata dall'ISIS lo strumentario già previsto dalle risoluzioni sul contrasto ad Al-Qaeda, dall'attentato alle Torri gemelle (risoluzione 1373/2001) in poi.

Il 15 agosto del 2014 viene adottata all'unanimità la risoluzione n. 2170 (2014) che condanna il reclutamento di foreign fighters da parte di ISIS e al-Nusra e aggiunge sei soggetti alla lista dei soggetti sanzionati nel quadro del regime al-Qaeda. La prima di un pacchetto di tre sul contrasto ad ISIS, tale risoluzione condanna nella maniera più forte gli atti terroristici, l'ideologia violenta ed estremista di ISIS e la sistematica violazione dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale, ricordando che gli attacchi diffusi e sistematici contro la popolazione civile in ragione dell'appartenenza etnica o religiosa possono configurare crimine contro l'umanità e che tutti gli Stati membri sono tenuti ad opporvisi, richiamando anche la risoluzione 1371 del 2001. Il 24 settembre 2014 all'unanimità viene adottata la risoluzione n. 2178 (2014) che disciplina le misure di contrasto al fenomeno dei foreign fighters terrorists (FFT) e richiama gli Stati membri a punire l'arruolamento in gruppi con finalità di terrorismo e la propaganda pro-ISIS. Tale risoluzione condanna tutti gli atti di terrorismo e l'estremismo violento che può condurre ad esso, invitando gli Stati membri ad operare serrati controlli al fine di impedire la circolazione dei terroristi, stabilendo, pertanto, la necessità di una stretta cooperazione ed un assiduo scambio di informazioni. Infine, il 12 febbraio 2015, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU approva all'unanimità la Risoluzione n. 2199 (2015) sul contrasto al finanziamento dei gruppi terroristi islamici (ISIS, Al-Nusrah e gruppi affiliati ad Al-Qaeda). Si tratta di una risoluzione che fornisce "chiare istruzioni pratiche" per contrastare il contrabbando del petrolio, i saccheggi e il traffico clandestino di antichità, i riscatti per i rapimenti e le donazioni esterne, condannando fermamente, ogni tipo di partecipazione, diretta o indiretta, al commercio illegale da cui tali gruppi possano trarre i loro proventi, nonché impedendo ogni tipo di fornitura di armi a favore di tali gruppi.

Il 27 marzo 2015 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU all'unanimità approva la risoluzione n. 2214 (2015) con la quale condanna tutti gli atti di terrorismo commessi dall'ISIS, da Ansar al-Sharia e dai soggetti ad essa collegati in Libia, come pendant della risoluzione n. 2213 (2015), adottata nella stessa data che, agendo sotto il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, chiede un cessate il fuoco immediato e incondizionato in Libia e proroga il mandato della missione UNSMIL e del Rappresentante Speciale al 15 settembre 2015.

Per rafforzare il contrasto a DAESH (ISIS), a margine del vertice NATO di Newport nel settembre 2014, è stata decisa la formazione di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti e con la presenza di Regno Unito, Francia, Italia e di altri paesi, per giungere all'obiettivo di contrastare l'ISIS in Iraq e Siria senza tuttavia l'utilizzazione di truppe di terra, coinvolgendo altresì i vari attori regionali, in primis la Turchia.

La Coalizione anti-DAESH (composta da 61 Paesi), perseguendo un approccio multidimensionale, articola i propri sforzi secondo 5 principali linee di azione: contributo militare, contrasto al flusso dei foreign fighters, confronto sul terreno della narrativa jihadista, lotta alle fonti di finanziamento e assistenza umanitaria, rinnovo dell'impegno per l'Iraq (secondo quanto stabilito il 3 dicembre 2014, a margine della riunione ministeriale NATO). Uno Small Group, composto da 21 Paesi, tra cui l'Italia ha il compito di supervisione politica della strategia collettiva.

Una riunione a livello di Capi di Stato e di Governo (“Leaders' Summit on Countering ISIL and Violent Extremism"), si è svolta il 29 settembre 2015 a margine dell'Assemblea Generale dell'ONU, su invito del Presidente Obama, con l’obiettivo di focalizzare le priorità della comunità internazionale nella lotta al terrorismo ed alla radicalizzazione.

Il 30 settembre 2015 gli Stati della Coalizione hanno emesso una Dichiarazione congiunta in cui ribadiscono che: in Iraq, la Coalizione sostiene il Governo del Primo Ministro Haider al-Abadi nel suo processo di riforma, riconciliazione e decentralizzazione indispensabili per sanare divisioni etniche e settarie; sostiene altresì la sua cooperazione con il Governo Regionale Curdo e i rappresentanti delle aree a prevalenza sunnita, le comunità etniche e religiose; in Siria, la Coalizione sostiene la popolazione siriana nei suoi sforzi per contrastare DAESH sul terreno e per definire un governo di transizione basato sui principi del Comunicato di Ginevra, al fine di addivenire a un Governo democratico, inclusivo e pluralistico che sia rappresentativo del volere del popolo siriano.

Si ricorda che, sotto impulso di Kofi Annan, i 5 membri del Consiglio permanente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU convocati a Ginevra il 30 giugno 2012 (Conferenza di Ginevra I) avevano raggiunto un accordo sull'obiettivo prioritario da perseguire in vista di una soluzione della crisi siriana ovvero una transizione politica ad un governo di intesa nazionale.

L’impegno italiano nella Coalizione anti-DAESH consiste in una partecipazione attiva ai cinque gruppi di lavoro della Coalizione, articolando i propri sforzi secondo le 5 linee d’azione concordate insieme agli altri partner.

Le 5 linee d’azione, come si è detto, riguardano:

-       stabilizzazione (Iraq): leadership nel coordinamento dell’addestramento delle forze di polizia irachene (ad opera dell'Arma dei Carabinieri) da dispiegare per la stabilizzazione nelle aree liberate dalla presenza di DAESH (con priorità, nell’attuale fase, alla provincia dell’Anbar). Inoltre, la Cooperazione Italiana è operativa con progetti a favore dei gruppi maggiormente vulnerabili, nel settore sanitario, e nella tutela del patrimonio culturale.

-       contrasto al finanziamento del terrorismo: l’Italia co-presiede il relativo gruppo di lavoro. Durante la riunione inaugurale di Roma (19-20 marzo 2015) sono stati delineati i settori principali di contrasto: sistema finanziario internazionale, sfruttamento delle risorse economiche; le risorse provenienti dall’esterno; flussi finanziari tra DAESH e suoi affiliati. Sono stati costituiti altresì sotto-gruppi con specifici compiti. L’Italia ha ottenuto la presidenza del sotto-gruppo sul commercio illegale di opere d’arte.

-       impegno Militare: fornitura di armi e munizioni alle forze curde irachene; dispiegamento di assetti aerei (tra cui 4 Tornado configurati per la ricognizione); contingente di 280 addestratori, a regime, con ruolo di Lead Nation nell’addestramento ad Erbil da giugno 2015 a dicembre 2015 (al momento oltre 1200 Peshmerga sono stati formati dal nostro contingente).

-       contrasto ai foreign fighters: con l’ampio pacchetto di misure adottato dal Governo italiano (D.L. 7/20153) nel campo della repressione, della prevenzione del reclutamento e del contrasto alla propaganda online.

-       comunicazione strategica: azioni di outreach verso le organizzazioni islamiche italiane per un loro coinvolgimento nell’azione di contrasto ideologico a DAESH ad opera del Ministero dell’Interno ed una intensa attività diplomatica con le leadership dei Paesi arabi moderati.

Solo alcuni Stati della Coalizione sono impegnati a livello militare, nei bombardamenti aerei in Iraq ed in Siria.

Gli Stati impegnati nei raid in Siria sono: Stati Uniti, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi, Bahrain e Qatar. I paesi arabi della Coalizione - i cui governi sono sunniti - sono animati anche dall'obiettivo di rovesciare il regime sciita di Damasco. Sono intervenuti (o sono pronti a farlo) nei raid in Iraq al fianco degli Stati Uniti: Francia, Olanda, Regno Unito, Danimarca e Belgio, Australia, Canada, Giordania. La Francia da fine settembre 2015 è impegnata nei raid in Siria e il Regno Unito è in procinto di farlo, previa autorizzazione del Parlamento. I paesi europei agiscono in legittima difesa, temendo che i loro cittadini arruolati dall'ISIS ritornino nel vecchio Continente per sferrare attentati. La Turchia ha approvato recentemente l’intervento in Iraq e Siria. Inizialmente, la Turchia, antagonista del regime di Damasco, consentiva di rifornire armi ai ribelli. La minaccia dell’ISIS in prossimità dei suoi confini ha convinto Ankara a intervenire.

Il Governo italiano sta attualmente valutando se, per corrispondere alle esigenze del governo iracheno e della coalizione anti-DAESH, autorizzare ulteriori ruoli operativi per i velivoli italiani presenti in teatro iracheno, come riferito dal Ministro Pinotti innanzi alle Commissioni Esteri e Difesa di Senato e Camera il 6 ottobre 2015. Si tratterebbe di modificare le regole di ingaggio dei Tornado per passare da azioni di ricognizione ad azioni offensive aeree (cosiddetti raid) e di montare i pod da combattimento sui veivoli.

Durante l'estate 2015 si è consolidato il progressivo arretramento delle forze leali al regime Assad, con conseguenti perdite di terreno (da gennaio 2015 il regime avrebbe ceduto circa il 20% del Paese) sia a favore dell'ISIS/DAESH - che in particolare controlla ormai buona parte del Nord-est del Paese con le sue risorse petrolifere, al punto da aver stabilito nella città siriana di Raqqa, e non in Iraq, la propria "capitale" - sia, soprattutto, a favore delle altre forze ribelli nel Nord-ovest della Siria, nello specifico nella zona di Idlib e della pianura di Ghab.

Tra fine agosto e settembre 2015 si è profilato un maggiore attivismo russo, sia sul terreno (tramite la creazione attorno a Tartus di una base avanzata a Jableh, nei pressi di Latakia), in funzione pro-Assad, sia a livello diplomatico.

A livello diplomatico, la Russia ha fatto delle aperture all’Arabia Saudita, invocando il comune obiettivo di combattere DAESH e ipotizzando un "dialogo a quattro" con Stati Uniti, Arabia Saudita ed Iran, in vista dell'Assemblea Generale dell'ONU. La strategia della Russia sarebbe quella di contrastare l’ISIS ma anche consolidare il suo ruolo in Medio Oriente e mantenere i suoi punti di forza in Siria, attraverso un negoziato in cui il regime di Assad sia parte preminente (se non perfino Assad stesso) e possibilmente di imprimere un'accelerazione al processo negoziale, scongiurando una "battaglia di Damasco".

È stata annunciata dalle autorità irachene l'istituzione a Baghdad di una cellula di coordinamento di intelligence anti-ISIS in Iraq (una sorta di war room) tra Russia, Iran, Siria e Iraq. Sembra rispondere al progetto russo di creare una coalizione anti-ISIS a sostegno di Assad e potrebbe indicare uno spostamento dell'Iraq - a soli 4 anni dal ritiro dei soldati americani - nella sfera di influenza della Russia.

A fine settembre 2015 sono partiti i primi raid delle forze aeree russe in Siria, su richiesta del governo Assad, con l'obiettivo dichiarato di contrastare DAESH. Tuttavia, tra gli obiettivi colpiti dagli aerei russi sembrano esservi le fazioni ribelli islamiste e, secondo alcuni, la strategia russa sembrerebbe orientata a colpire tutti i nemici di Assad e non solo DAESH. Nei cieli siriani dunque emerge la necessità di un coordinamento tra forze russe e forze della coalizione a guida statunitense.  

Sul terreno in Siria DAESH è in conflitto aperto con i tre maggiori attori della crisi siriana - cioè forze governative, opposizione, milizie curde - nonché sottoposto ai bombardamenti aerei della Coalizione anti-DAESH.

Sul variegato fronte dell'opposizione, si segnala che alcune milizie ribelli nei mesi scorsi si sono riunite in un'alleanza di fazioni, il cosiddetto Esercito della Conquista (Jaish al-Fateh), che includono formazioni riconducibili al Free Syrian Army tendenzialmente vicino alla Fratellanza Musulmana, gruppi radicali salafiti come Ahrar al-Sham ed i qaedisti di Jabhat al-Nusra, gruppo che, di fatto, guida l’alleanza. Tale coalizione sarebbe stata sostenuta da Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, al di là delle divergenze, sarebbero animate da preoccupazioni condivise quali il coinvolgimento dell’Iran nel conflitto e la minaccia del “Califfato” (inaccettabile soprattutto per i Saud che non tollerano che altri si proclamino califfi). Iraniani e Hezbollah sono presenti sul terreno a sostegno di Assad. A seguito dell'intervento della Russia in soccorso dell'alleato Assad in crescente difficoltà, sarebbe in corso un riesame della strategia statunitense in Siria che, secondo quanto anticipato dal New York Times, prevedrebbe l'impiego sul terreno della cosiddetta Syrian Arab Coalition che dovrebbe riunire le forze più filo-americane ovvero una dozzina di fazioni di ribelli moderati che combattano a fianco dei Peshmerga curdi in funzione anti-ISIS (5.000 uomini più 20.000), per condurre un'offensiva contro Raqqa e attuare una chiusura totale delle 60 miglia di confine tra Siria e Turchia, sotto l'ombrello di ulteriori raid aerei a partire dalla base aerea più vicina di Incirlik in Turchia.

La Russia rafforzando ulteriormente il proprio sostegno militare ad Assad, al duplice scopo di soccorrere l'alleato in crescente difficoltà e di salvaguardare i propri interessi nazionali nell'area, si è imposta come partner cruciale nella ricerca di una soluzione negoziale. Il 29 settembre 2015, all'Assemblea generale dell'ONU si è svolto un incontro "faccia a faccia" tra il Presidente Putin e il Presidente Obama dominato dal tema della lotta all'ISIS, interrompendo un periodo di freddezza nelle relazioni bilaterali durato due anni, dalla crisi ucraina.

Autorevoli osservatori sono convinti che si vada verso un accordo tra Russia e Stati Uniti ed alleati europei sulla Siria e che la soluzione della crisi siriana possa essere prospettata come pendant della soluzione della crisi ucraina. Bernard Kouchner, ex ministro degli Esteri francese, ritiene che la posizione della Francia su Assad si farà meno rigida ed emergerà un fronte comune contro l'ISIS che unirà gli sforzi di Russia, USA e Europa. Per un certo periodo Assad conserverà almeno l'apparenza del potere; successivamente la Russia acconsentirà a che venga sostituito, magari in cambio di un maggiore autonomia alle province orientali dell'Ucraina.



 

Afghanistan

(a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale - CESI)

 

A quattordici anni dalla caduta del regime talebano, l’Afghanistan si presenta ancora come un Paese profondamente instabile. Nonostante i passi in avanti compiuti dalle autorità afghane dal 2001, la mancanza di solidità del governo di Kabul e la difficoltà delle Forze di sicurezza nazionali nel rispondere in modo efficace all’insorgenza rappresentano i due grandi punti deboli per il successo del complicato processo di stabilizzazione.

La mancanza di una leadership politica che riesca a rappresentare l’autorità del governo centrale costituisce un fattore di grande criticità per un Paese in cui la divisione etnica e tribale della popolazione è sempre stata di ostacolo alla coesione interna.

L’eterogeneità del panorama etnico, infatti, (pashtun 42%, tagiki 27%, hazara e uzbechi 9%, aimak 4%, turkmeni 3% e baluchi 2%) costituisce la variabile fondamentale nei rapporti di potere all’interno del tessuto sociale afghano. Tale frammentarietà già in passato ha favorito l’affermarsi dei così detti “signori della guerra”, influenti capi locali che, durante l’invasione sovietica del ’79, si sono distinti alla guida di proprie milizie per la difesa del territorio afghano.

Per quanto instabile e assolutamente precario, dunque, l’equilibrio di potere all’interno del Paese è sempre stato strettamente legato al gioco di forza tra i diversi warlord, i quali, in questi trentacinque anni, hanno consolidato la loro influenza, dapprima grazie al ruolo dei diversi gruppi paramilitari sotto il loro comando e, dopo il 2001, attraverso l’autorità esercitata all’interno delle rispettive enclave territoriali, che ha permesso a molti di loro di ritagliarsi un ruolo politico all’interno del Paese.

L’importanza che questi signori della guerra ricoprono tuttora per la stabilità interna è testimoniata dal ruolo preponderante che alcuni di loro hanno avuto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali, tenutesi in tutto il Paese tra aprile (primo turno) e giugno (ballottaggio) dello scorso anno, non tanto come front runner ufficiali quanto come alleati strategici per i diversi candidati alla presidenza, in grado di garantire un sostanzioso apporto in termini di voti e, conseguentemente, di poter fare la differenza nella corsa elettorale. Tra questi, Abdul Rasul Sayyaf, Shafiq Gul Agha Sherzai, Ismail Khan e Abdul Rashid Dostum. Il gioco di forza dei diversi poteri locali è stato fondamentale soprattutto per i due candidati che, avendo ottenuto il maggior numero di voti durante il primo turno senza però superare la soglia del 50%+1 (indispensabile per aggiudicarsi la vittoria), si sono affrontati al ballottaggio: il pashtun Ashraf Ghani (ex Ministro delle finanze tra il 2002 e il 2004) e il tagiko Abdullah Abdullah (ex Ministro degli esteri, sfidante di Karzai nel 2009). Entrambi, infatti, hanno cercato l’appoggio degli ex signori della guerra per cercare non solo di ampliare il proprio bacino elettorale, per raggiungere lo scarto di voti necessario ad aggiudicarsi la vittoria, ma soprattutto di dare al futuro governo la speranza di una stabilità di medio-lungo termine.

La persistente difficoltà della classe politica afghana di ricomporre le diverse spinte determinate dagli interessi particolari rischia di compromettere la già precaria fiducia della popolazione verso il governo di Kabul, con inevitabili ripercussioni sullo sviluppo e sul consolidamento di un sentimento di appartenenza allo Stato.

Questa problematica si è manifestata in tutta la sua drammaticità proprio in occasione del sopracitato ballottaggio. Infatti, se al termine del primo turno autorità nazionali e straniere avevano espresso il proprio plauso per l’alto tasso di affluenza alle urne (circa 6 milioni di cittadini), interpretato come un segnale positivo per una maggior democratizzazione del processo elettorale, le denunce da parte di Abdullah di pesanti brogli a favore del rivale, uscito vincitore dalle elezioni, durante le votazioni e la poca trasparenza nelle operazioni di conteggio delle schede hanno gettato forti dubbi sulla validità delle consultazioni.

La reticenza dei due candidati di trovare un accordo per poter ufficializzare il risultato delle elezioni, di fatto, ha provocato uno stallo politico che ha dilatato i tempi per il passaggio di consegne ai vertici della presidenza e, conseguentemente, ha lasciato per tre mesi il Paese in una fase di pericoloso vuoto di potere. Solo il raggiungimento di un’intesa per la formazione di un governo di larghe intese, raggiunta tra Ghani e Abdullah lo scorso 21 settembre, ha posto fine ad un impasse che stava mettendo in seria difficoltà la già precaria stabilità delle istituzioni afghane.

Oltre alla debolezza del governo centrale, la solidità del Paese è posta in seria difficoltà dal riacutizzarsi dell’attività dell’insorgenza talebana, particolarmente intensa non solo nelle tradizionali roccaforti dell’est e del sud, enclave originarie dei gruppi talebani, ma anche nella stessa capitale, sempre più oggetto dei frequenti attacchi da parte della militanza non solo nelle aree più periferiche, ma anche nei centri nevralgici dei palazzi governativi e dei quartieri residenziali. L’evidente e rapido deterioramento delle condizioni di sicurezza interne ha posto seri dubbi sulla tenuta del Paese nel lungo periodo.

Con la conclusione della missione ISAF, a fine 2014, e l’inizio della nuova missione NATO, Resolute Support (iniziata nel gennaio 2015), il disimpegno delle truppe internazionali dalle operazioni sul campo e il progressivo ridispiegamento dei contingenti, di fatto, hanno messo in evidenza le difficoltà che le Forze di sicurezza afghane (Afghan National Security Forces - ANSF) riscontrano nel garantire la sicurezza sul territorio. Il moltiplicarsi dei fronti di combattimento, da un lato, e il sostegno che l’insorgenza ancora riscuote in molte aree, dall’altro, infatti, pongono alle attuali istituzioni centrali una sfida di ampia portata che, se non affrontata con efficacia e in tempi rapidi, potrebbe portare il Paese a disgregarsi nuovamente sotto la spinta centrifuga delle tradizionali conflittualità etniche e tribali.

Si segnala che il 15 ottobre 2015 il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato che l’impegno delle truppe americane in Afghanistan proseguirà fino al 2017. In particolare: i 9800 soldati americani presenti nel paese resterebbero fino alla fine del 2016; 5500 soldati resterebbero anche nel 2017 in un numero limitato di basi tra cui Bagram, Jalalabad, Kandahar; con gli alleati si lavorerà, infine, per definire le modalità della presenza in Afghanistan dopo il 2016.

Si ricorda che, all’indomani dell’annuncio del Presidente Obama di mantenere le truppe americane in Afghanistan, il Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, in un discorso all’Università di Venezia, ha affermato che l’Italia valuterà l’ipotesi di proseguire nel proprio impegno in Afghanistan. Analoga posizione era stata espressa dal Ministro della Difesa italiana, Roberta Pinotti, lo scorso 8 ottobre a Bruxelles; il Ministro aveva ricordato che altre nazioni avevano dato disponibilità alla prosecuzione della missione e che l’Italia avrebbe valutato tale ipotesi.

Il tema è stato poi esaminato dal Consiglio Supremo di Difesa, presieduto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella riunione del 21 ottobre.

Si ricorda che Il finanziamento della missione in Afghanistan rientra nell’oggetto del decreto-legge (c.d. missioni) licenziato lo scorso 12 ottobre dal Consiglio dei Ministri, nel quale si prevede un rifinanziamento pari a oltre 58 milioni di euro. Ad oggi, il decreto-legge non risulta pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

 

 

 


 

I riflessi dell’accordo sul nucleare sulla politica interna di Teheran

(a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale - CESI)

 

Lo scorso 14 luglio l’Iran e il così detto gruppo dei P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) hanno firmato uno storico accordo sul programma nucleare di Teheran, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA).

L’intesa, che disciplinerà la rimodulazione della ricerca nucleare iraniana nel prossimo decennio, è il risultato finale di una lunga serie di colloqui che hanno impegnato le parti per più di due anni. Secondo quanto pattuito, il governo iraniano procederà ad un ridimensionamento del proprio programma di ricerca nucleare per ottenere in cambio il progressivo sollevamento delle sanzioni internazionali a cui il Paese è stato fino ad ora sottoposto. Salutato dai negoziatori come un accordo soddisfacente per le richieste di tutti gli attori coinvolti, il JCPOA rappresenta a tutti gli effetti un importante punto di svolta nei rapporti tra Iran e Comunità Internazionale. Se correttamente implementato, infatti, l’accordo sul nucleare potrebbe diventare il primo passo verso una più ampia riapertura di Teheran al sistema internazionale e segnare, di fatto, il termine per il governo iraniano di un isolamento che dura ormai da più di trent’anni.

L’accordo sembra destinato a produrre considerevoli effetti proprio sull’economia iraniana, ma soprattutto sul quadro politico. Tradizionalmente, infatti, il sistema istituzionale della Repubblica Islamica è sempre basato su un delicatissimo equilibrio di potere tra le forze conservatrici, espressione dell’establishment religioso e militare, fedeli ad una rigida interpretazione dei valori della Rivoluzione, e le formazioni politiche riformiste e pragmatiste (di cui il governo del Presidente Hassan Rouhani è espressione), più inclini all’apertura del Paese verso l’esterno e ad un dialogo costruttivo con la Comunità Internazionale. La centralità di questo meccanismo è stata evidente anche in occasione della firma del JCPOA, quando le forze politiche tradizionaliste hanno richiesto al governo di sottoporre l’approvazione del JCPOA al voto del Parlamento (Majles), dove detengono la maggioranza dei seggi, per cercare di avere così voce in capitolo in un dossier tanto importante come l’implementazione del patto internazionale.

In un primo momento la questione era stata motivo di attrito con il Presidente, che avrebbe voluto affidare la decisione al Consiglio Nazionale di Sicurezza, l’organo competente per la gestione della politica di sicurezza nazionale. Tuttavia l’intervento della Guida Suprema Ali Khamenei in favore della richiesta dell’assemblea legislativa ha, di fatto, sancito la necessità del passaggio parlamentare. Il coinvolgimento del Majles è sembrato rispondere alla volontà di inserire l’intesa all’interno di un preciso quadro legislativo più che ad un’azione di ostracismo da parte delle forze che più si sono apposte al dialogo con la Comunità Internazionale. Già nei giorni immediatamente successivi alla firma del JCPOA il Parlamento aveva istituito una commissione consultiva ad hoc, per la valutare l’accordo ed elaborare il testo della legge di ratifica da sottoporre poi al voto dell’assemblea. Il testo, approvato dal Parlamento lo scorso 13 ottobre, più che avanzare una critica tout court al JCPOA, si è limitato a vincolare il rispetto degli impegni presi dall’Iran in sede negoziale all’effettiva implementazione da parte della Comunità Internazionale di specifiche clausole dell’accordo. In particolare, la legge di ratifica ha suggellato l’estraneità del dossier militare dal JCPOA e ha ribadito la centralità del sollevamento delle sanzioni per il rispetto del patto con la Comunità Internazionale. Questi argomenti sono sempre stati molto sensibili per il governo iraniano, tanto da aver rappresentato gli ostacoli che più hanno allontanato le parti in sede negoziale ed essere stati causa dei continui rinvii della conclusioni dell’accordo.

L’inviolabilità dei segreti militari, in particolare, è stato in questi mesi un punto fermo per le forze conservatrici e vicine agli alti ranghi delle Forze Armate, che hanno fatto forti pressioni affinché il gruppo dei negoziatori li tenesse fuori dal tavolo di trattativa. A dimostrazione rimane il fatto che la questione delle ispezioni alla tanto discussa base militare di Parchin non sia stata inserita nel JCPOA, ma sia disciplinata da un memorandum bilaterale tra Iran e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA)

Al di là della dialettica politica, anche le forze conservatrici, o per lo meno una parte di esse, guardano con grande interesse alle opportunità che la cancellazione delle sanzioni imposte in questi anni all’Iran dovrebbe portare con sé. L’immobilismo che ha fino ad ora caratterizzato il sistema interno iraniano, infatti, ha favorito la cristallizzazione di una vera e propria élite, trasversale al mondo politico e agli alti ranghi militari del Paese, la quale, attraverso la gestione e il controllo delle principali società, statali e private, ha consolidato il proprio potere in settori chiave quali le infrastrutture, i trasporti, il sistema bancario, il settore energetico.

Per molte di queste società, attualmente sulle liste nere della Comunità Internazionale, la fine del regime sanzionatorio comporterebbe non solo lo scongelamento di eventuali asset e depositi finanziari detenuti all’estero, ma soprattutto la possibilità di entrare in contatto con nuovi partner internazionali attraverso i quali espandere le proprie attività.

Una simile prospettiva interesserebbe soprattutto i grandi colossi, quali la Setad Ejraiye Farmane Hazrate Emam, nata come ente per la gestione delle proprietà abbandonate durante la Rivoluzione e diventata ora una vera e propria holding (con un capitale stimato di circa 95 miliardi di dollari) facente capo alla Guida Suprema, e la Khatam al-Anbiya, colosso dell’ingegneria civile considerata il potente braccio economico delle Guardie della Rivoluzione (Islamic Revolutionary Guard Corp - IRGC, conosciuti anche con il nome di Pasdaran).

Oltre a facilitare la convergenza anche delle anime conservatrici dello scenario politico interno, la prospettiva del miglioramento economico legato al JCPOA potrebbe rappresentare a tutti gli effetti un grande punto di forza per Rouhani. L’entusiasmo con cui è stata festeggiata a Teheran la conclusione dell’intesa è stato solo un primo ed evidente segnale del consenso circa i risultati ottenuti dalla squadra di Rouhani in quella che nell’ultimo anno è stata la grande scommessa dell’attuale esecutivo.

L’attuazione dell’accordo e, con esso, il possibile rinvigorimento delle condizioni economiche interne e l’avvio di rapporti più strutturati con partner internazionali, dunque, potrebbe tradursi in un effettivo incremento di consensi a favore dell’attuale Presidente. Un generale miglioramento delle condizioni interne e la conseguente riduzione della sperequazione sociale, infatti, potrebbero portare ad un rafforzamento dell’attuale classe media, in maggioranza giovane e istruita, la quale potrebbe rivelarsi un’importante base per il consolidamento del consenso popolare nei confronti dell’attuale governo e delle forze pragmatiste di cui è espressione.

Un eventuale ampliamento del proprio bacino elettorale potrebbe rivelarsi un grande vantaggio per i partiti moderati/riformatori, soprattutto in vista dei più imminenti appuntamenti elettorali, previsti per il 2016: il rinnovamento dell’Assemblea degli Esperti, l’organo incaricato di nominare la Guida Suprema e supervisionarne l’attività, e le elezioni per il Majles. In un momento in cui le forze conservatrici si trovano ad attraversare una fase di profonda divergenza al proprio interno, con le frange più moderate che sembrano cominciare a guardare con interesse al pragmatismo di Rouhani, la capitalizzazione dell’apprezzamento dell’opinione pubblica potrebbe davvero aiutare l’ala pragmatica-riformista a mettere in discussione l’influenza che gli ambienti più tradizionalisti hanno sempre avuto nell’assetto istituzionale del Paese.

Come si diceva in precedenza, un primo passo in questa direzione potrebbe essere compiuto in occasione del rinnovamento dell’Assemblea degli Esperti, i cui membri, giuristi e accademici religiosi, vengono eletti direttamente dalla popolazione per un mandato di otto anni. L’eventuale elezione di esponenti del clero vicino alle istanze più moderate, infatti, non solo modificherebbe i rapporti di forza interni all’organo, ad oggi dominato dai conservatori, ma consentirebbe anche alle forze pragmatico-riformiste di poter avere dei preziosi interlocutori all’interno della prossima Assemblea, la quale, di fatto, potrebbe verosimilmente essere chiamata a nominare la nuova Guida Suprema.

L’appuntamento che potrebbe però fare davvero la differenza per il consolidamento del margine di manovra del Presidente Rouhani sembrerebbe essere le prossime elezioni legislative, che si terranno in tutto il Paese a febbraio. In un momento in cui l’onda dell’entusiasmo per l’accordo sul nucleare sembra stia spingendo la popolazione a voler vedere rafforzata la posizione delle anime politiche vicine all’esecutivo anche in Parlamento, infatti, i candidati dei partiti così detti moderati potrebbero conoscere un considerevole successo alle urne.

In questo modo, lo schieramento pragmatico-riformista potrebbe avere l’opportunità di guadagnare importanti seggi all’interno del Parlamento e andare così a risicare gli spazi di manovra a disposizione delle forze tradizionaliste che si oppongono alle politiche del Governo Rouhani. In questo contesto, un possibile nuovo alleato per lo schieramento del Presidente in carica sembrerebbe essere l’Islamic Iranian National Alliance, il partito di ispirazione riformista, formatosi lo scorso aprile.

Primo partito di area progressista ad esser stato approvato dopo il giro di vite seguito alla così detta Green Revolution, questa formazione sta attirando l’attenzione di molti leader politici che avevano preso parte all’Islamic Iran Participation Front, la formazione politica filo-riformista soppressa dopo i tumulti del 2009. Non è da escludere, dunque, che la National Alliance, potrà diventare catalizzatore di tutti quegli esponenti pragmatico-moderati che, dopo aver mantenuto un basso profilo negli ultimi sei anni, potrebbero ora decidere di tornare alla ribalta e di fare della nuova formazione una piattaforma politica da cui riprendere le fila della propria attività per cercare di trasformare il Paese dall’interno (senza mai mettere in discussione la figura degli Ayatollah).

L’accordo sul nucleare, dunque, sembra destinato ad avere un significativo impatto sui rapporti tra i diversi poteri istituzionali. Tuttavia, se questo cambiamento potrebbe portare ad un rafforzamento della libertà di manovra del Presidente in politica interna, al contrario, le principali questioni di politica estera dovrebbero rimanere appannaggio delle forze militari. Per scongiurare che un improvviso cambiamento dei tradizionali equilibri interni possa provocare un pericoloso giro di vite da parte dei più conservatori centri di potere, infatti, il Presidente Rouhani in questi mesi sembra aver fatto un deciso passo indietro nella gestione di quei dossier di interesse strategico per l’establishment militare, quali la sicurezza in Medio Oriente e, soprattutto, la proiezione della potenza iraniana nella regione.

La carta bianca concessa fino ad ora alle IRCG per cercare di contenere la profonda crisi di sicurezza attraversata dai vicini Iraq e Siria ha portato le Forze iraniane a giocare un ruolo determinante per l’evoluzione degli equilibri sul terreno. Questo impegno, finanziario e operativo, con cui le Forze iraniane hanno fino ad ora sostenuto i propri alleati a Baghdad e Damasco ha, di fatto, permesso a Teheran di rafforzare la propria influenza nell’area. L’implementazione di una simile strategia regionale da parte iraniana, tuttavia, potrebbe diventare un fattore di tensione all’interno dello scenario mediorientale.

L’incremento dell’influenza di Teheran in modo trasversale alla regione, infatti, sembra aver suscitato una forte opposizione da parte delle Monarchie del Golfo, che guardano al rafforzamento del vicino sciita come ad un pericoloso fattore di destabilizzazione degli attuali equilibri. Benché questa rivalità sembra destinata ad essere giocata in mondo indiretto in teatri terzi, tuttavia l’innesco di una vera e propria competizione militare potrebbe spingere Iran e le Monarchie sunnite ad alimentare l’instabilità dello scacchiere mediorientale con conseguenze difficilmente controllabili.

Parallelamente, la presenza militare iraniana in contesti come quello iracheno e siriano sottolineano come Teheran e la Comunità Internazionale condividano ora la lotta comune contro il terrorismo jihadista. In questo senso, la conclusione dell’accordo sul nucleare sembrerebbe avere dei riflessi a riguardo. I mesi di trattativa, infatti, hanno dato prova che, nonostante l’esistenza di distanze importanti, è possibile trovare dei punti di incontro e aprire dei capitoli di dialogo con il governo iraniano. La comune minaccia terroristica potrebbe diventare nuovo terreno di incontro e il governo iraniano cominciare ad essere guardato sempre più come un attore regionale necessario con cui discutere per ridefinire gli equilibri nell’area.

Un ruolo di prezioso facilitatore per l’avvio di questo dialogo potrebbe essere ora giocato dall’Europa: l’Unione Europea, infatti, in virtù degli storici rapporti che intrattiene sia con i Paesi dell’area sia con attori terzi (in primis gli Stati Uniti) sembra essere l’attore ideale per assumere la leadership nel processo di ridefinizione degli equilibri di un’area le cui dinamiche si riflettono inevitabilmente sulla stabilità del Mediterraneo e, dunque, del Vecchio Continente. In particolare, per scongiurare che lo scetticismo con cui alcuni Paesi ancora guardano all’Iran possa rallentare l’emersione di un protagonismo europeo in questa direzione, l’Italia potrebbe fare un passo in avanti e assumere l’iniziativa in questa direzione.

La promozione di una politica di maggior apertura verso l’Iran e il rafforzamento dell’impegno per un concreto coinvolgimento del governo iraniano nella dialettica globale permetterebbe all’Italia non solo di riaffermare il proprio status di porta di ingresso al Vecchio Continente, ma soprattutto di accreditarsi come traino dell’impegno europeo per trasformare l’Iran in un vero e proprio partner su cui contare per la gestione delle crisi in uno scenario tanto strategico quanto quello mediorientale.

 


 

 

Ucraina

(a cura del Servizio Studi Camera)

 

Dopo la firma degli accordi di Minsk II del febbraio 2015 la situazione sul terreno, con una prevalenza di rispetto almeno apparente della tregua, ha visto diverse volte riaccendersi nel sud-est del paese scontri rabbiosi tra i separatisti filorussi e le forze regolari ucraine. Ciò è avvenuto soprattutto alla metà di aprile e alla metà di agosto, quando combattimenti di una certa intensità sono divampati nei dintorni di Donetsk e di Mariupol. Alla metà di giugno un rapporto della Commissione di vigilanza speciale dell’OSCE sulla situazione in Ucraina orientale ha denunciato ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti, ma attribuendo le maggiori responsabilità alle forze separatiste, rispetto alle quali l’OSCE ha sperimentato anche maggiore difficoltà nel controllare la dislocazione delle forze.

Tutto ciò non è stato probabilmente estraneo alla decisione del Consiglio dei ministri degli esteri dell’Unione europea che il 22 giugno ha prorogato le sanzioni alla Russia fino al 31 gennaio 2016 - va ricordato anche come il 7-8 giugno il Vertice G7 di Elmau avesse riaffermato il sostegno all’Ucraina, condannando l’annessione legale della Crimea e sostenendo la necessità del mantenimento delle sanzioni a carico della Russia, sanzioni da correlare strettamente - come sostenuto anche in sede europea - all’attuazione da parte della Russia degli impegni di Minsk II.

Opposti segnali di carattere negativo sono stati forniti dalle parti in conflitto fra la fine di agosto e l’inizio di settembre: a Kiev, in occasione del contestato voto parlamentare in prima lettura sugli emendamenti presidenziali alla Costituzione volti a conferire maggiore autonomia alle regioni separatiste, in ossequio gli accordi di Minsk II, gravi scontri si sono svolti tra frange ultranazionaliste ucraine e forze dell’ordine, con più di cento feriti tra i poliziotti e i membri della Guardia nazionale.

Dall’altra parte è giunta la decisione, peraltro già anticipata sei mesi prima, dell’adozione del rublo da parte delle due regioni separatiste di Donetsk e Lugansk.

Del resto la Russia non aveva partecipato alla fine di agosto all’intesa fra l’Ucraina e i creditori sulla ristrutturazione del debito di Kiev, che ha consentito un taglio del 20% del debito stesso e un riscadenzamento di ulteriori quattro anni.

Un’altra materia di contrasto è stata fornita poi alla fine di settembre dall’annuncio del governo di Kiev di voler vietare i voli in Ucraina a quasi tutte le compagnie aeree russe, al quale ha fatto seguito l’analoga contromossa di Mosca: pertanto dalla mezzanotte del 24 ottobre i due paesi hanno chiuso reciprocamente i propri spazi aerei, con la storica fine, per la prima volta, dei voli diretti – causando notevoli disagi a milioni di persone che per legami familiari o motivi di lavoro si muovono frequentemente tra i rispettivi territori.

Accanto a questi aspetti negativi va ricordato come subito dopo gli accordi di Minsk II il Fondo monetario internazionale annunciasse un piano di salvataggio quadriennale dell’Ucraina per un totale di 40 miliardi di dollari, a fronte di profonde riforme nel senso dell’economia di mercato da parte del governo di Kiev. Inoltre all’inizio di aprile Russia e Ucraina hanno firmato un accordo interinale per le forniture di gas russo a prezzi scontati nei tre mesi successivi.

Sempre sul fronte del gas va ricordato l’accordo tra Russia, Ucraina e Unione europea per le forniture invernali, siglato il 25 settembre a Bruxelles.

Va inoltre sottolineato come nel vertice di Parigi tra il Presidente francese Hollande, la Cancelliera tedesca Merkel, Vladimir Putin e il Presidente ucraino Poroshenko (2 ottobre) si siano constatati alcuni progressi, ma si sia anche sottolineato come la piena applicazione degli accordi di Minsk II appaia ancora lontana.

Assai positivo è stato il rinvio delle elezioni che i separatisti avevano indetto per il 18 ottobre nel Donbass, e che Kiev considerava illegali: il rinvio, auspicato anche nel vertice di Parigi del 2 ottobre, dovrebbe consentire l’adeguamento alla legislazione ucraina della normativa elettorale del Donbass, nonché la possibilità di monitorare il processo elettorale.

Nonostante la situazione di tensione tra la Russia e l’Occidente non sono mancati contatti ad alto livello: all’inizio di marzo il Presidente del Consiglio Matteo Renzi si è recato in visita ufficiale nelle capitali ucraina e russa, incontrando i rispettivi Capi di Stato e ribadendo l’interesse prioritario dell’Europa per l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina, nonché - alla luce dell’intesa di Minsk II firmata appena tre settimane prima - la necessità di un monitoraggio stretto del rispetto degli accordi, con il particolare contributo della missione OSCE. In giugno Putin ha restituito la visita del Presidente Renzi recandosi in Italia, ove ha visitato l’Expo di Milano e incontrato anche, oltre allo stesso Matteo Renzi, Papa Francesco. Nell’incontro con il Presidente del Consiglio italiano Putin non ha mancato di toccare il tasto del disagio creato dalle sanzioni alle stesse imprese italiane attive sul mercato russo.


 

 



[1] I Capi Delegazione italiani attualmente in carica sono: Sem Fabrizi, Australia; Patrizio Fondi, Emirati Arabi Uniti; Maria Francesca Spatolisano, Francia; Paola Amadei, Giamaica; Andrea Matteo Fontana, Giordania; Stefano Antonio Dejak, Kenya; Michele Cervone D’Urso, Kenya; Cesare De Montis, Kirghizistan; Alessandro Palmero, Paraguay; Stefano Di Leo, Sudan del Sud; Nicola Bellomo, Swaziland; Alessandro Mariani, Zambia.

[2] La missione EUBAM Rafah, istituita nel 2005, ha mandato di assicurare una presenza come parte terza al valico di Rafah. L’operatività della missione è stata sospesa il 13 giugno 2007, a seguito della presa di controllo della striscia di Gaza da parte di Hamas e della decisione di Israele di chiudere il valico di Rafah. La missione EUPOL COPPS, istituita nel 2006, è volta a sostenere la costruzione di una capacità istituzionale palestinese attraverso la creazione di un dispositivo di polizia efficace e la consulenza in materia di giustizia penale e Stato di diritto.

[3] Il Comitato politico e di sicurezza (CPS) è la formazione permanente del Consiglio dell'Unione europea che contribuisce all'elaborazione e all'attuazione della politica estera e di sicurezza comune (PESC) e della politica europea di sicurezza e di difesa (PESD). Il CPS, presieduto in permanenza dal servizio europeo per l'azione esterna, è composto da un ambasciatore per ogni Stato membro, un rappresentante permanente della Commissione europea, un rappresentante del Comitato militare dell’UE, un rappresentante del segretariato del Consiglio dell'UE e uno del servizio giuridico del Consiglio.

[4] La PEV - inaugurata dalla Commissione con una comunicazione presentata l’11 marzo 2003 - si rivolge ai nuovi Stati indipendenti (Bielorussia, Moldova, Ucraina), ai paesi del Mediterraneo meridionale (Algeria, Autorità palestinese, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco, Siria, Tunisia) e agli Stati del Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia).