Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Audizione informale di Morten Kjaerum, Direttore dell'Agenzia dell'Unione europea per i Diritti fondamentali (FRA) - Roma, 13 maggio 2014
Serie: Documentazione per le Commissioni - Audizioni e incontri con rappresentanti dell'UE    Numero: 8
Data: 12/05/2014
Descrittori:
AGENZIA DELL' UNIONE EUROPEA PER I DIRITTI FONDAMENTALI ( FRA )   DIRITTI CIVILI E POLITICI
DIRITTI DELL'UOMO   UNIONE EUROPEA


Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

 

 

 

 

Documentazione per le Commissioni

audizioni e incontri in ambito ue

 

 

 

 

 

 

Audizione informale di Morten Kjaerum, Direttore dell’Agenzia dell’Unione europea per i Diritti fondamentali (FRA)

 

Roma, 13 maggio 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 8

 

12 maggio 2014

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dossier è stato curato dall’Ufficio rapporti con l’Unione europea
(' 066760.2145 - * cdrue@camera.it)

Il capitolo ‘La tutela dei diritti umani e l’integrazione degli stranieri in Italia’ è stato curato dal Servizio Studi, Dipartimento Istituzioni (' 066760.3855); i capitoli ‘La tutela dei minori nella più recente attività legislativa’ e ‘Il contrasto alla violenza di genere nella più recente attività parlamentare’ sono stati curati dal Servizio Studi, Dipartimento Giustizia (' 066760.9148)

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I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 


I N D I C E

 

Scheda di lettura   1

L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali 3

·         Il sistema dei diritti fondamentali dopo il Trattato di Lisbona  4

·         Meccanismi di controllo del rispetto dei diritti umani/fondamentali nell’Ue  8

·         Il quadro normativo UE in materia di razzismo, xenofobia e intolleranza (reati generati dall’odio) 13

·         Politiche UE in materia di omofobia  17

·         Politiche UE di contrasto alla violenza sulle donne  18

·         Le risorse finanziarie  24

La tutela dei diritti umani e l’integrazione degli stranieri in Italia (a cura del Serivizo Studi) 27

·         La tutela dei diritti umani nella Costituzione  27

·         Normativa nazionale  27

·         Organismi governativi 29

·         Attività parlamentare  32

·         Le politiche sull’immigrazione  34

·         Le fonti normative  34

La tutela dei minori nella più recente attività legislativa (a cura del Serivizo Studi) 39

·         L’equiparazione tra figli naturali e figli legittimi 39

·         L’attuazione della direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile  40

Il contrasto alla violenza di genere nella più recente attività parlamentare (a cura del Serivizo Studi) 43

·         La ratifica della Convenzione di Istanbul 43

·         Il decreto-legge 93/2013  44

·         La legge di stabilità 2014  45

 


 

Scheda di lettura



L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali

L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, con sede a Vienna, è stato istituita con il regolamento (CE) 168/2007 ed è entrata in funzione il 1° marzo 2007, in sostituzione dell’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia.

L’Agenzia ha lo scopo di fornire alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali, in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti nell’adozione di misure o nella definizione di iniziative nei loro rispettivi settori di competenza.

Al fine di contribuire ad assicurare il pieno rispetto dei diritti fondamentali nell’UE la FRA svolge i seguenti compiti principali:

·         raccogliere e analizzare informazioni e dati;

·         fornire assistenza e consulenza;

·         comunicare e sensibilizzare ai diritti.

L’Agenzia non può invece esaminare ricorsi di singole persone fisiche o giuridiche: secondo il suo mandato, l’Agenzia può soltanto indicare agli individui i canali adeguati in cui possono cercare assistenza, a livello nazionale, europeo e internazionale. Inoltre, i compiti dell'Agenzia devono essere svolti entro i limiti dei settori tematici (tra i quali il regolamento istitutivo ricomprende espressamente la lotta contro il razzismo, la xenofobia e l'intolleranza ad essi associata) definiti in un quadro pluriennale che è adottato con decisione del Consiglio. Si segnala a tal proposito la recente adozione della decisione n. 252/2013/UE dell'11 marzo 2013 che istituisce un quadro pluriennale per il periodo 2013-2017 per l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali.

 

I settori di intervento della FRA

La decisione citata ha assegnato all’Agenzia per il quinquennio in corso i seguenti nove settori tematici :

a) l’accesso alla giustizia;

b) le vittime di reati, incluso il loro indennizzo;

c) la società dell’informazione e, in particolare, il rispetto della vita privata e la protezione dei dati personali;

d) l’integrazione dei Rom;

e) cooperazione giudiziaria, eccetto in materia penale;

f) i diritti del minore;

g) le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, il colore, l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, l’opinione politica o di qualunque altro genere, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la proprietà, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale;

h) l’immigrazione e l’integrazione dei migranti, i controlli di frontiera e i visti, nonché l’asilo;

i) il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza ad essi associata.

 

L’Agenzia dispone di uno staff di circa cento esperti legali, ricercatori in ambito sociale e politico, statistici ed esperti di comunicazione e di reti.

Fanno parte del consiglio di amministrazione dell’Agenzia un esperto indipendente, nominato da ciascuno Stato membro, due rappresentanti della Commissione europea e un esperto indipendente nominato dal Consiglio d’Europa.

La FRA ha disposizione di un budget annuale di circa 21 milioni.

Tra le principali indagini su larga scala realizzate dall’Agenzia si segnalano in particolare:

·         la prima indagine in tutta l'UE sulle esperienze di discriminazione e vittimizzazione degli immigrati e delle minoranze etniche EU-MIDIS che ha coinvolto 23.500 persone provenienti da gruppi di immigrati e delle minoranze etniche;

·         l’indagine sulla violenza di genere contro le donne in tutti gli Stati membri dell'UE, attuata mediante l’intervista di 42.000 donne;

·         l’indagine recante il sondaggio 93 mila persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e trans gender) circa i reati di odio e la discriminazione;

·         l’indagine sulle condizioni di vita e la situazione di discriminazione nei confronti dei ROM, che ha visto il coinvolgimento di 85.000 persone appartenenti a tali popolazioni;

·         un sondaggio in materia di antisemitismo che ha visto il coinvolgimento di 6 mila ebrei;

Si segnala da ultimo il rapporto pubblicato nell’aprile 2014 sulla situazione della partecipazione politica delle persone con disabilità nei 28 Stati membri

 

La FRA mantiene legami particolarmente stretti con: la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea; altre organizzazioni internazionali, quali il Consiglio d’Europa, le Nazioni Unite e l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE); i Governi, le organizzazioni della società civile, le istituzioni accademiche, gli organismi di parità e le istituzioni nazionali di difesa dei diritti dell’uomo.

 

Il sistema dei diritti fondamentali dopo il Trattato di Lisbona

Premessa

L’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea (TUE) include tra i valori fondanti dell’UE il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle minoranze (insieme a quello della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, e dello Stato di diritto, compresi i diritti delle minoranze).

In coerenza con tale principio, l’articolo 21, paragrafo 1, fonda la politica estera dell’Unione, tra l’altro, anche sulla universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo, valori che secondo la stessa disposizione devono essere promossi dall’Unione nel resto del mondo.

All’interno dell’UE la tutela dei diritti fondamentali è garantita da un sistema a due livelli, composto dal sistema nazionale fondato sulle Costituzioni degli Stati membri e sui loro obblighi giuridici internazionali (in particolare, quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e dal sistema dell’Unione basato sulla Carta europea dei diritti fondamentali, attivato solo con riguardo alle azioni intraprese dalle istituzioni dell’UE o all’attuazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri. La Carta integra i sistemi esistenti per la tutela dei diritti fondamentali senza sostituirli.

La Carta dei diritti fondamentali

I diritti fondamentali sono standard minimi di trattamento che garantiscono il rispetto per la dignità di ciascuna persona. Essi sono elencati nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, frimata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è giuridicamente vincolante per le istituzioni dell’UE e per tutti gli Stati membri dell’UE laddove attuino la legislazione dell’UE.

L’articolo 6, paragrafo 1 del TUE stabilisce infatti che l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta la quale ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Ai sensi del secondo periodo del paragrafo le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati.

I diritti contenuti nella Carta corrispondono, a grandi linee, a quelli già sanciti dalle Costituzioni nazionali degli Stati membri e dalle tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri. Lo stesso può dirsi per quanto riguarda il rapporto tra Carta e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sebbene la Carta può considerarsi più ricca, contenendo anche settori (diritti sociali, quali in particolare diritti sindacali, diritti del lavoro, della sicurezza e dell’assistenza sociale) che sono estranei al contenuto della Convenzione stessa.

 

 

La Carta si compone di un preambolo introduttivo e di 54 articoli suddivisi in sette capi:

-     dignità (dignità umana, diritto alla vita, diritto all'integrità della persona, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, proibizione della schiavitù e del lavoro forzato);

-     libertà (diritto alla libertà e alla sicurezza, rispetto della vita privata e della vita familiare, protezione dei dati di carattere personale, diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, libertà di pensiero, di coscienza e di religione, libertà di espressione e d’informazione, libertà di riunione e di associazione, libertà delle arti e delle scienze, diritto all'istruzione, libertà professionale e diritto di lavorare, libertà d'impresa, diritto di proprietà, diritto di asilo, protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione);

-     uguaglianza (uguaglianza davanti alla legge, non discriminazione, diversità culturale, religiose e linguistica, parità tra uomini e donne, diritti del bambino, diritti degli anziani, inserimento dei disabili);

-     solidarietà (diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione nell'ambito dell'impresa, diritto di negoziazione e di azioni collettive, diritto di accesso ai servizi di collocamento, tutela in caso di licenziamento ingiustificato, condizioni di lavoro giuste ed eque, divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro, vita familiare e vita professionale, sicurezza sociale e assistenza sociale, protezione della salute, accesso ai servizi d’interesse economico generale, tutela dell'ambiente, protezione dei consumatori);

-     cittadinanza (diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali, diritto ad una buona amministrazione, diritto d'accesso ai documenti, Mediatore europeo, diritto di petizione, libertà di circolazione e di soggiorno, tutela diplomatica e consolare);

-     giustizia (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, presunzione di innocenza e diritti della difesa, principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene, diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato);

-     disposizioni generali.

 

La Carta, come già accennato, si applica:

-              alle istituzioni dell’UE nel rispetto del principio della sussidiarietà e in nessun caso può ampliare le competenze ed i compiti a queste attribuiti dai trattati;

-              agli Stati membri quando danno attuazione alla normativa dell’UE. Per converso, laddove una normativa nazionale non costituisca una misura di attuazione del diritto dell’Unione o non presenti elementi di collegamento con quest’ultimo non sussiste la competenza della Corte di giustizia sull’applicazione della Carta.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d'Europa (che non è istituzione o organismo dell’Unione europea), consiste in un sistema di tutela internazionale dei diritti dell'uomo a disposizione dei singoli soggetti interessati.

Si tratta di un atto internazionale che impegna gli Stati aderenti a rispettare, nei confronti dei soggetti che ricadono nella loro giurisdizione, i diritti in essa enunciati, e a consentire (ove tali diritti siano violati) di adire la Corte all’uopo istituita, la quale ha il compito di accertare e dichiarare l’avvenuta violazione da parte dello Stato aderente convenuto, a sua volta tenuto ad eseguire la sentenza.

La Convenzione, successivamente ratificata da tutti gli Stati membri dell'UE[1], istituisce pertanto diversi organi di controllo, con sede a Strasburgo. I principali sono:

·         la Corte europea dei diritti dell'uomo, come detto, principale meccanismo giudiziario per l’applicazione dei diritti enunciati nella Convenzione ;

·         il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, che svolge il ruolo di custode della CEDU e si pronuncia in merito alle controversie sulle violazioni della CEDU che non siano state trattate dalla Corte.

L’adesione dell’Unione europea alla CEDU

L‘art. 6, par. 2 del TUE prevede l’adesione dell’UE alla CEDU, precisando che tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite dati Trattati. Il paragrafo successivo del medesimo articolo dispone che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali ocmuni agli sttai membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali,

Il processo di adesione, previsto dall’articolo 6, paragrafo 2, non si è ancora concluso.

A partire dal luglio 2010, rappresentanti della Commissione europea e del Comitato direttivo per i Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa si sono riuniti regolarmente per elaborare l’accordo di adesione. Al termine del processo, l’accordo sarà concluso dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e, all’unanimità, dal Consiglio dell’UE. Anche il Parlamento europeo, che deve essere pienamente informato di ciascuna delle fasi dei negoziati, deve dare la propria approvazione. Una volta concluso, l’accordo dovrà essere ratificato da tutte le 47 parti contraenti della CEDU, conformemente alle rispettive disposizioni costituzionali.  Il 5 aprile 2013 si è raggiunto un accordo a livello di negoziatori tuttora all’esame della Corte di giustizia che - secondo notizie informali - dovrebbe emettere il relativo parere il prossimo luglio.

In sintesi (e considerato che sono tuttora allo studio le possibili conseguenze di un tale processo), l’adesione dell’Unione europea alla CEDU dovrebbe anzitutto comportare:

-              un controllo giurisdizionale aggiuntivo nel settore della tutela dei diritti fondamentali nell’Unione. Sarà in effetti competenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sindacare, ai fini del rispetto della Convenzione, gli atti delle istituzioni, degli organi e organismi dell’UE, comprese le sentenze della Corte di giustizia;

-              l’azionabilità da parte di qualunque individuo di un nuovo mezzo di ricorso: sarà possibile infatti adire la Corte dei diritti dell’uomo in caso di violazione dei diritti fondamentali imputabile all’Unione, a condizione però che siano già esaurite tutte le vie di ricorso interne.

Meccanismi di controllo del rispetto dei diritti umani/fondamentali nell’Ue

Strumenti vigenti

Gli strumenti generali a garanzia del rispetto dei valori fondanti dell’Unione europea da parte degli Stati membri dell’UE, applicabili pertanto anche per i profili relativi ai diritti umani (compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze) sono riconducibili a:

·         la procedura attivabile in caso di gravi violazioni da parte di uno Stato membro, ai sensi dell’art. 7 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

In sintesi, il Consiglio (deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri) previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2; prima di tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. Constatata una violazione grave e persistente dell’articolo 2 TUE, il Consiglio può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio.

·         le procedure di infrazione che la Commissione europea può promuovere per violazione del diritto dell’UE da parte di uno Stato membro (inclusi i diritti e i valori fondamentali che costituiscono principi generali dell’ordinamento dell’UE, ai sensi dell’art. 6 del TUE);

·         i meccanismi di monitoraggio dell’osservanza della Carta europea dei diritti fondamentali, in particolare a pubblicazione di una relazione annuale della Commissione nella quale sono riportati: le misure concrete adottate per assicurare il rispetto della Carta; la giurisprudenza della Corte più rilevante sotto il profilo del’applicazione dei principi della Carta, nonché – in modo sintetico – allo sviluppo della giurisprudenza nazionale sull’attuazione della stessa da parte degli Stati membri.

A tal proposito si ricorda che il 14 aprile 2014 è stata pubblicata la Quarta Relazione relazione annuale della Commissione europea sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali. La Relazione è altresì accompagnata da un altro documento sui progressi realizzati nell'attuazione della Strategia europea per la parità tra donne e uomini nel 2013.

 

La valutazione dell’efficacia dei meccanismi a garanzia del rispetto dei valori fondanti dell’Ue (in particolare dei diritti umani).

Da più parti sono stati sollevati dubbi e critiche sull’adeguatezza dei meccanismi di tutela descritti, in particolare sull’effettiva capacità di coerenza interna/esterna dell’Unione europea nel settore dei diritti umani, così da prefigurare una sorta di principio di doppio standard che porterebbe l’Unione europea ad essere maggiormente propensa a diffondere e promuovere i diritti umani al di fuori di essa piuttosto che ad assicurare al suo interno il rispetto dei medesimi da parte degli Stati membri. La questione è emersa chiaramente in alcuni Stati membri con particolare riferimento a episodi di produzione legislativa (o anche di semplice esecuzione amministrativa), denunciati dalle Istituzioni europee (in primo luogo dalla Commissione) per mancato rispetto dei valori fondamentali dell’Ue, compreso il rispetto dei diritti umani/diritti fondamentali e dei principi dello Stato di diritto.

A titolo esemplificativo, si tratta di alcuni provvedimenti normativi adottati di recente dall’Ungheria (segnalati anche nella relazione sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali 2013) che hanno destato rilevanti preoccupazioni in materia di diritti fondamentali e che per questo sono stati sottoposti anche all’esame del Consiglio d’Europa; le violazioni riguarderebbero in particolare la sfera relativa all’indipendenza delle autorità giurisdizionali e dell’autorità garante della protezione dei dati personali (con particolare riferimento agli articolo 47 e 8 della Carta), alla libertà e pluralismo dei media, alla parità di trattamento sul lavoro (come profilo del più generale divieto di discriminazione ex articolo 21 della Carta), al rispetto dei diritti delle persone appartenenti a minoranze (in particolare ai diritti dei LGBT), alla libertà di religione o credo. Ulteriori criticità erano emerse anche per quanto riguarda episodi di sgombero di insediamenti e di rimpatrio di popolazioni Rom in Francia, nonché con riferimento a carenze evidenziate dalle Istituzioni europee nel sistema italiano di gestione delle richieste e dei conferimenti dello status di protezione internazionale (diritto di asilo), per le quali l’Italia è stata sottoposta a procedura di infrazione.

Le più recenti iniziative in materia

Il dibattito si è orientato nel senso di approfondire l’ipotesi di un nuovo meccanismo dell'Unione europea che garantisca efficacemente il rispetto dei diritti fondamentali, dello Stato di diritto, della democrazia e della giustizia.

In una lettera al Presidente della Commissione europea del 6 marzo 2013, i Ministri degli esteri tedesco, olandese, danese e finlandese hanno presentato un’iniziativa tesa a rafforzare i meccanismi di salvaguardia della democrazia, dei valori fondamentali, e dello Stato di diritto. In essa si prospettava l’introduzione di procedure attraverso le quali la Commissione o il Consiglio potessero chiedere in una fase precoce allo Stato interessato di porre rimedio ad eventuali violazioni.

In particolare, si suggeriva di fondare tali procedure su accordi bilaterali cogenti tra la Commissione e gli Stati membri. Inoltre l’iniziativa dei quattro Ministri prevedeva l’ipotesi di sanzionare, in ultima istanza, lo Stato inadempiente con la sospensione dell’erogazione dei fondi stanziati dall’UE.

In sede di discussione di tale proposta nell’ambito del Consiglio dell’UE numerosi Paesi hanno espresso un sostegno di massima all’iniziativa; altri (in particolare Italia, Francia e Regno unito), pur apprezzando gli obiettivi dell’iniziativa, hanno invitato a privilegiare la migliore utilizzazione degli strumenti vigenti (meccanismo ex articolo 7 del TUE).

Sul tema è tornato a pronunciarsi il Consiglio del 6-7 giugno 2013, nelle cui conclusioni :

-     ha invitato la Commissione a portare avanti nel 2013 un processo di dialogo, dibattito e impegno (sul rispetto dei diritti fondamentali e sui principi dello stato di diritto, e su un possibile nuovo meccanismo di salvaguardia degli stessi), che siano inclusivi con tutti gli Stati membri, le Istituzioni Ue nonché tutti i soggetti interessati;

-     ha annunciato di avviare una riflessione sull’eventuale necessità e possibile forma di metodi o iniziative per salvaguardare meglio i valori fondamentali, in particolare lo stato di diritto e i diritti fondamentali delle persone nell’’Unione e per contrastare forme estreme di intolleranza, quali razzismo, l’antisemitismo la xenofobia e l’omofobia.

Posizione del Parlamento europeo

Il Parlamento europeo (PE) in più occasioni si è espresso a favore della creazione di un nuovo meccanismo atto a far rispettare efficacemente i valori fondanti dell’UE enunciato all'articolo 2 del Trattato sull'Unione europea.

Da ultimo, il 27 febbraio 2014, il PE ha adottato una risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali dell’UE per il 2012 nella quale, indica che occorre applicare e attuare con urgenza tutti gli strumenti attualmente previsti dai trattati così come preparare, se del caso, le modifiche da apportare ai Trattati.

Il PE ritiene sia necessario predisporre un “nuovo meccanismo di Copenhagen”, volto a monitorare in maniera efficiente e vincolante l'osservanza dei criteri di Copenaghen da parte di ciascun Stato membro, e che dovrebbe, tra l’altro:

 

Per quanto riguarda, invece, le possibili future modifiche ai Trattati, il PE chiede che vengano esaminate le seguenti proposte:

·         una revisione dell'articolo 7 del trattato UE aggiungendo una fase di «applicazione dell'articolo 2 del trattato UE» e separando la fase del «rischio» da quella della «violazione» con soglie differenti a seconda delle maggioranze previste; il rafforzamento dell'analisi tecnica e obiettiva (e non soltanto politica); un dialogo più serrato con le istituzioni degli Stati membri e un più ampio ventaglio di sanzioni dettagliate e prevedibili applicabili lungo l'intera procedura;

·         la messa a punto di un meccanismo più incisivo e dettagliato per il coordinamento e la supervisione nel settore dei diritti fondamentali, basato sull'articolo 121 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea;

·         l'ampliamento delle possibilità di ricorso e delle competenze della Commissione e della Corte di giustizia;

·         un riferimento all'Agenzia per i diritti fondamentali nei trattati, ivi compresa una base giuridica che permetta di emendare il regolamento che la istituisce, non all'unanimità, come avviene attualmente, bensì mediante la procedura legislativa ordinaria;

·          la soppressione dell'articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali (secondo il quale le disposizioni ivi contenute si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione e agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione europea; permettere al Parlamento di avviare procedure relative alla violazione dell'articolo 2 del TUE su un piede di parità con la Commissione e il Consiglio e prevedere che la FRA possa fornire il suo sostegno specializzato durante la procedura;

·         la revisione del requisito dell'unanimità per le decisioni in seno al Consilgio nei settori relativi al rispetto, alla tutela e alla promozione dei diritti fondamentali, come l'uguaglianza e la non discriminazione (articolo 19 del TFUE).

L’iniziativa della Commissione europea dell’11 marzo 2014

 L’11 marzo 2014 la Commissione europea ha adottato un nuovo quadro giuridico volto a fronteggiare le minacce sistemiche allo Stato di diritto in uno qualsiasi dei 28 Stati membri dell’Unione europea.

L’iniziativa scaturisce dai due dibattiti di orientamento sullo Stato di diritto del 28 agosto 2013 e 25 febbraio 2014 in esito ai quali il collegio dei Commissari ha convenuto sulla necessità di mettere a punto uno strumento per gestire a livello dell’UE le minacce sistemiche allo Stato di diritto.

Si tratta di un meccanismo complementare sia rispetto alla procedura di infrazione (applicabile in caso di violazione del diritto dell’UE) sia alla procedura ex articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (come modificato dal Trattato di Lisbona) che, al massimo, consente la sospensione dei diritti di voto in caso di “violazione grave e persistente” dei valori dell’UE da parte di uno Stato membro.

Il nuovo quadro istituisce una sorta di meccanismo di preallarme che permette alla Commissione di avviare un dialogo con lo Stato membro interessato per evitare l’escalation delle minacce sistemiche allo Stato di diritto.

Pertanto, qualora non si trovi una soluzione in tale ambito, sarà in ogni caso possibile ricorrere in ultima istanza all’articolo 7 per risolvere la crisi e garantire il rispetto dei valori dell’Unione europea. Il nuovo quadro non conferisce né chiede nuove competenze per la Commissione bensì rende trasparente il modo in cui questa esercita il suo ruolo ai sensi dei trattati.

Il quadro presentato dalla Commissione europea è integralmente basato sui Trattati vigenti. Si tratta di un meccanismo incentrato sullo Stato di diritto, che rappresenta il fondamento e il presupposto indispensabile per la salvaguardia di tutti i valori su cui si basa l’Unione (indicati nell’articolo 2 del trattati sull’Unione europea TUE); lo Stato di diritto è altresì condizione essenziale per sostenere tutti i diritti e gli obblighi derivanti dai Trattati e dal diritto internazionale. La Commissione ha inteso riferirsi ad un concetto di Stato di diritto piuttosto ampio, ispirandosi ai principi propri della giurisprudenza della Corte di giustizia europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo: per Stato di diritto deve intendersi un sistema in cui le leggi sono applicate e fatte rispettare.

Nell’ambito del nuovo quadro la Commissione europea svolge un ruolo centrale, quale custode indipendente dei valori dell’Unione, e con il supporto dell’esperienza delle altre istituzioni europee e organizzazioni internazionali (in particolare il Parlamento europeo, il Consiglio, l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE)).

In sintesi, se sussistono chiare indicazioni di una minaccia sistemica allo Stato di diritto in uno Stato membro, la Commissione può avviare una procedura pre-articolo 7 intraprendendo un dialogo con lo Stato membro in questione. L’iter della procedura prevede tre fasi:

·         Valutazione della Commissione: la Commissione raccoglie ed esamina tutte le informazioni pertinenti e valuta se vi sono chiare indicazioni di una minaccia sistemica allo Stato di diritto; se conclude che si configura effettivamente una situazione di minaccia sistemica allo Stato di diritto, dà avvio al dialogo con lo Stato membro in questione trasmettendogli un “parere sullo Stato di diritto”, che costituisce una sorta di avvertimento allo Stato membro in cui espone e motiva le sue preoccupazioni. Lo Stato membro interessato avrà la possibilità di rispondere ai rilievi formulati.

·         Raccomandazione della Commissione: nella seconda fase, a meno che la questione non sia già stata risolta in modo soddisfacente, la Commissione rivolgerà allo Stato membro interessato una “raccomandazione sullo Stato di diritto”, invitandolo a risolvere entro un determinato termine i problemi individuati e a comunicarle quali provvedimenti ha adottato a tal fine. La Commissione rende pubblica la raccomandazione.

·         Follow-up della raccomandazione della Commissione: nella terza fase la Commissione controlla il seguito che lo Stato membro in questione ha dato alla raccomandazione. Se non è stato dato un seguito soddisfacente entro il termine fissato, la Commissione può applicare uno dei meccanismi previsti dall’articolo 7 del TUE.

Il quadro normativo UE in materia di razzismo, xenofobia e intolleranza (reati generati dall’odio)

Principi Ue

Tra i valori fondanti dell’Unione europea citati dal Trattato sono inclusi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Il Trattato fa altresì riferimento a una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.

Inoltre, l’articolo 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede che nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. Si ricorda altresì che l’articolo 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede che nel campo di applicazione dei Trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità, stabilendo che il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni. Infine l’articolo 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede che, fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell'ambito delle competenze da essi conferite all'Unione, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, possa prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. La medesima disposizione prevede che il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possano adottare i principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi indicati.

Giova citare inoltre l’articolo 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (nel titolo dedicato alla realizzazione di uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia), ai sensi del quale l’Unione si adopera per garantire un livello elevato di sicurezza, tra l’altro, attraverso misure di prevenzione e di lotta contro il razzismo e la xenofobia.

Il quadro giuridico europeo in materia di contrasto al razzismo e all’intolleranza è stato peraltro rafforzato sotto vari profili con l’inserimento nel Trattato della Carta dei diritti fondamentali UE (il cui Titolo III è dedicato al principio di uguaglianza, comprensivo – all’articolo 21 – del divieto di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale), nonché del processo di adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che dovrebbe implicare mezzi di tutela aggiuntivi riguardo alle violazioni dei diritti fondamentali in essa inclusi (con riferimento, pertanto, anche al divieto di discriminazione contemplato dall’articolo 14) .

Il diritto derivato

Per quanto concerne le specifiche misure di diritto derivato dell’UE volte a contrastare le varie forme di razzismo e xenofobia, si ricordano in particolare:

·         la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio del 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.

Nella decisione sono definiti i reati di stampo razzista e xenofobo; la decisione quadro, tra l’altro, obbliga gli Stati membri a comminare, per tali fattispecie, sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, della durata massima compresa almeno tra uno e tre anni di reclusione; in ogni caso, la motivazione razzista o xenofoba è considerata circostanza aggravante o, in alternativa, tale motivazione dovrà essere presa in considerazione nel decidere quale sanzione infliggere. La decisione – quadro, oltre a prevedere sanzioni specifiche per le persone giuridiche, dispone che l’avvio delle indagini o dell’azione penale per reati di razzismo o xenofobia non debba essere subordinato a una denuncia o un’accusa a opera della vittima.

 

·         la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica in vari settori della vita sociale;

·         la direttiva 2010/13 sui servizi di media audiovisivi, che contiene, tra l’altro,  il divieto di incitamento all'odio nei servizi di media audiovisivi e la promozione della discriminazione nelle comunicazioni commerciali audiovisive[2];

·          la proposta di direttiva anti-discriminazioni (COM(2008)426), relativa alla parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale, anche al di fuori della sfera lavorativa (presentata dalla Commissione europea il 2 luglio 2008).

Tale atto mira a rimuovere impedimenti o ostacoli, intervenendo in alcuni settori quali la protezione e la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l’istruzione e l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura (non prevede sanzioni di carattere penale).

L’iter presso le Istituzioni registra un rallentamento: sulla proposta il Parlamento europeo ha adottato un suo parere, nell'ambito della procedura di consultazione, già il 2 aprile  2009. Tuttavia, in seno al Consiglio, sembrano emerse perplessità da parte di alcuni Stati membri con riferimento al mancato rispetto del principio di sussidiarietà, nonché relativamente all’impatto giuridico e finanziario della proposta

 

·         la direttiva 2012/29/UE, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, poiché si riferisce esplicitamente alle vittime di reati d'odio e alle loro esigenze specifiche di protezione.

 

Si segnalano infine la risoluzione del 14 marzo 2013 il Parlamento europeo sul rafforzamento della lotta contro il razzismo, la xenofobia e i reati generati dall'odio, nonché le conclusioni del Consiglio Giustizia e affari interni del 5-6 dicembre  2013 sul contrasto dei reati d'odio nell'Unione europea nelle quali, tra l’altro si invitano gli Stati membri:

-     a potenziare le misure preventive, tra l'altro integrando la memoria nell'educazione ai diritti umani, nei programmi di storia e nelle pertinenti formazioni, prendendo disposizioni per educare il pubblico ai valori della diversità culturale e dell'inclusione, e provvedendo a che tutti i settori della società abbiano un ruolo nella lotta all'intolleranza; 

-     a considerare di ratificare, se ancora non l'hanno fatto, il Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica, relativo all'incriminazione di atti di natura razzista e xenofobica commessi a mezzo di sistemi informatici;

-     ad adottare misure atte a facilitare la denuncia dei reati d'odio da parte delle vittime e a raccogliere e pubblicare dati complessivi e comparabili sui reati d'odio, comprendenti anche - nella misura del possibile - il numero degli episodi riferiti dal pubblico e registrati dalle autorità di contrasto, il numero di condanne, le motivazioni di tali reati fondate sul pregiudizio e le pene irrogate.

 

L’Unione europea ha inoltre adottato delle politiche specifiche in materia di integrazione delle popolazioni Rom negli Stati membri. Oltre ai numerosi atti di indirizzo da parte del Parlamento europeo (ad esempio la risoluzione del 9 marzo 2011 sulla strategia dell'UE per l'inclusione dei Rom, nella quale il Parlamento europeo aveva, tra l’altro, individuato tra i settori prioritari di tale strategia la lotta contro l'antigitanismo, i pregiudizi, gli stereotipi, il razzismo e la xenofobia, la stigmatizzazione e i discorsi che incitano all'odio contro i rom, in particolare assicurando la piena applicazione della legislazione pertinente e irrogando pene adeguate per i reati a sfondo razziale), è di recente approvazione da parte del Consiglio (Giustizia e affari interni del 9 dicembre 2013) la raccomandazione su misure efficaci per l’integrazione dei Rom con la quale gli Stati membri sono esortati a prendere misure mirate per colmare il divario fra i Rom e il resto della popolazione.

La raccomandazione si concentra su quattro settori di politiche propriamente di inclusione (accesso all’istruzione, occupazione, assistenza sanitaria e alloggio), offrendo tuttavia anche orientamenti per quanto riguarda le politiche trasversali di integrazione dei Rom, comprese quelle volte al rispetto delle norme antidiscriminazione.

Si ricorda infine che il 4 aprile 2014 la Commissione euroepea ha presentato una nuova relazione sui progressi compiuti dagli Stati membri nell’ambito del Quadro dell’UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom. La Relazione valuta i progressi realizzati dal 2011, individuando a livello nazionale sia esempi positivi che punti su cui sono necessari maggiori sforzi da patre degli Stati membri.

 

Politiche UE in materia di omofobia

Gli articoli 10 e 19 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) stabiliscono che, nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate, tra l'altro, sull'orientamento sessuale. Il principio trova riscontro anche nell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ove è sancito il divieto di qualsiasi discriminazione fondata, tra l’altro, sulle tendenze sessuali.

La lotta contro l’omofobia è una delle priorità del Programma 2010-2014 per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (programma di Stoccolma), adottato dal Consiglio europeo nel dicembre 2009.

In questo quadro si colloca la già citata proposta di direttiva orizzontale anti-discriminazioni, relativa alla parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale, anche al di fuori della sfera lavorativa, presentata dalla Commissione europea il 2 luglio 2008 (COM(2008)426).

L’attività del Parlamento europeo

Particolare impulso all’impegno dell’UE nella lotta alla omofobia è stato inoltre dato da alcune pronunce del Parlamento europeo, in particolare, la risoluzione sulla lotta all’omofobia in Europa adottata nel maggio 2012, e la risoluzione adottata il 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’UE  il Parlamento europeo ha invitato. In linea con tali interventi, infine, la Risoluzione del 4 febbraio 2014 del Parlamento europeo sulla tabella di marcia dell'UE contro l'omofobia e la discriminazione legata all'orientamento sessuale e all'identità di genere.

Nella risoluzione, il Parlamento invita la Commissione, gli Stati membri e le agenzie europee a lavorare su una “politica globale pluriennale”,  in altre parole una tabella di marcia, una strategia o un piano d'azione per garantire piena protezione dei diritti fondamentali delle persone LGBT. La risoluzione stabilisce una serie di obiettivi che dovrebbero essere affrontati nella tabella di marcia, in settori quali l'occupazione, l'istruzione, la sanità, i beni e servizi, le famiglie e la libertà di movimento, la libertà di espressione, i crimini d'odio e l'asilo. La risoluzione afferma che tale politica globale deve in ogni caso rispettare le competenze degli Stati membri.

I principali obiettivi della tabella di marcia per i diritti LGBT indicata dal PE sono: 

Famiglia e libertà di circolazione

La Commissione dovrebbe elaborare orientamenti per garantire l'attuazione delle direttive relative al diritto dei cittadini UE e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri e al diritto alla riunificazione familiare per assicurare il rispetto di tutte le forme di famiglia riconosciute a livello giuridico dalla leggi nazionali degli Stati membri.

 

Politiche antibullismo

Nel campo dell'istruzione, la Commissione dovrebbe promuovere l'uguaglianza e la non discriminazione per motivi di orientamento sessuale in tutti i suoi programmi per la gioventù e l'istruzione. I deputati chiedono inoltre di agevolare la condivisione di buone prassi fra gli Stati membri nell'ambito dell'istruzione formale, anche a livello di materiali didattici e di politiche di lotta al bullismo e alla discriminazione.

Persone transgender

I deputati affermano che gli Stati membri dovrebbero "introdurre procedure di riconoscimento giuridico di genere, oppure rivedere quelle esistenti, onde garantire il pieno rispetto del diritto dei transgender alla dignità e all'integrità fisica”, ad esempio, vietando la sterilizzazione forzata. Inoltre, la Commissione dovrebbe continuare a collaborare con l'Organizzazione Mondiale della Sanità per smettere di considerare le persone transessuali malati di mente.

Crimini di odio

Ribadendo quanto indicato i precedenti risoluzioni, il Parlamento chiede la revisione della decisione quadro in vigore sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, per includervi i crimini d’odio e l’incitamento all’odio sulla base dell'orientamento sessuale e l'identità di genere.

 

Politiche UE di contrasto alla violenza sulle donne

Il Trattato di Lisbona ha riaffermato il principio di uguaglianza tra donne e uomini (già enunciato agli articoli 2, 3 e 13 del previgente Trattato istitutivo della Comunità europea - TCE), inserendolo tra i valori (art. 2 Trattato sull'Unione europea - TUE) e tra gli obiettivi dell’Unione (art. 3, par. 3 TUE). La dichiarazione n. 19 annessa ai Trattati afferma, inoltre, che l’Unione mira a lottare contro tutte le forme di violenza domestica; la stessa dichiarazione impegna gli Stati membri ad adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire tali atti criminali e per sostenere e proteggere le vittime.

In tale contesto, l’Unione europea considera la violenza sulle donne (tipologia predominante di violenza cosiddetta di genere) sia come violazione di più  diritti umani/fondamentali, sia come specifica manifestazione (e insieme risultato) di squilibrio/discriminazione di genere.

La violenza contro le donne lede, per vari profili, molti principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: oltre al diritto alla parità tra uomo e donna (articolo 23), vengono in considerazione il diritto alla dignità umana (articolo 1), alla vita (articolo 2) e all’integrità della persona (articolo 3), la proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 4), il diritto alla libertà e alla sicurezza (articolo 6), e alla non discriminazione (articolo 21).

Secondo quanto indicato nella direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI1 (vedi infra) per violenza di genere l’Unione europea intende la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere; secondo tale definizione, inoltre, questo tipo di violenza può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico o perdite economiche alla vittima e può comprendere la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l'aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti "reati d'onore".

 

La particolare natura della violenza sulle donne, quale lesione di diritti umani (ovverosia di un valore fondante l’UE), vincola l’Unione europea, secondo quanto previsto dai Trattati, ad intervenire sia all’interno del proprio territorio con politiche di prevenzione e contrasto rispetto a tale odioso fenomeno, sia sul piano delle relazioni esterne, in particolare  nei confronti di quei Paesi terzi in cui sono noti episodi di violenza di genere/sulle donne, per far sì che questi ultimi rientrino nell’alveo del rispetto dei diritti umani.

Tale impegno è stato più ribadito in numerosi documenti di indirizzo politico adottati negli ultimi anni dalle Istituzioni europee. Si ricordano, in particolare:

·         le Conclusioni sull’eradicazione della violenza contro le donne nell’Unione europea del Consiglio del 2010 (durante la Presidenza spagnola), con le quali tra l’altro la Commissione europea è stata chiamata ad elaborare una strategia di prevenzione e contrasto;

·         la Dichiarazione di uguaglianza tra uomo e donna del Consiglio dell’Unione europea 2010 - 2011 (trio di Presidenza spagnola, belga, e ungherese), con la quale, tra l’altro, gli Stati membri sono stati invitati a sviluppare strategie nazionali, a dedicare risorse per prevenire e combattere la violenza, a perseguire i colpevoli, a fornire assistenza e sostegno alle vittime, a considerare la violenza sulle donne come una priorità dei loro programmi, e a identificare chiaramente tale materia quale profilo particolare della questione della parità di genere;

·         i principali documenti programmatici della Commissione europea, in particolare: la Carta delle donne del 2010, la Strategia 2010-2015 per la promozione della parità fra uomini e donne nell’Unione europea; il  Programma di Stoccolma per lo Spazio di libertà sicurezza e giustizia, 2010- 2014; da ultimo, la recente Comunicazione “Verso l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili”;

·         le Conclusioni del Consiglio dell’Unione europea (dicembre 2012) “Lotta alla violenza contro le donne e servizi di sostegno a favore delle vittime di violenza domestica” adottate nel quadro dell'esame dell'attuazione della Piattaforma d'azione di Pechino;

·         numerosi documenti di indirizzo politico adottati sul tema dal Parlamento europeo, in particolare:

-      la risoluzione del 26 novembre 2009 sull'eliminazione della violenza contro le donne;

-      la risoluzione del 5 aprile 2011 sulle priorità e sulla definizione di un nuovo quadro politico dell'UE in materia di lotta alla violenza contro le donne;

-      la risoluzione del 6 febbraio 2013 sulla 57a sessione della Commissione sullo status delle donne (CSW) delle Nazioni Unite: prevenzione ed eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne e le ragazze;

-      risoluzione del 24 marzo 2009 sulla lotta contro le mutilazioni sessuali femminili praticate nell'UE e la risoluzione del 14 giugno 2012 sull'abolizione delle mutilazioni genitali femminili.

 

Gli indirizzi e i principi adottati dall’UE non si sono peraltro tradotti in specifiche inziative normative volte a fronteggiare il fenomeno violenza sulle donne sul piano del diritto penale. Deve al riguardo segnalarsi che tale esigenza è stata di recente evidenziata anche dal Parlamento europeo, che nella risoluzione del 25 febraio 2014  “Lotta alla violenza contro le donne” ha rivolto al Consiglio l’invito ad adottare una decisione (all’unanimità) che inserisca la violenza contro le donne e le ragazze (e altre forme di genere) fra i reati elencati all’articolo 83, paragrafo 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, reati cosiddetti a dimensione transnazionale sui quali il Trattato conferisce agli organi legislativi UE il potere di legiferare stabilendo norme minime relative alla descrizione della fattispecie e alla fissazione della relativa sanzione.

Interventi normativi più recenti

Alle politiche di contrasto nei confronti della violenza sulle donne sono riconducibili (anche se non esclusivamente) alcuni strumenti normativi di cui si è recentemente dotata l’Unione europea: oltre al regolamento (UE) n. 606/2013, in materia di misure di protezione in ambito civile (particolarmente orientato a situazioni patologiche di tensione familiare), devono infatti ricordarsi alcuni strumenti di tutela generale delle vittime  (anche potenziali) di reato.  

A proposito di quest’ultimo ordine di interventi, viene anzitutto in rilievo la direttiva 2011/99/UE, volta ad istituire l’Ordine di protezione europeoOPE (per le vittime di reato in genere). L’OPE si fonda sul principio del reciproco riconoscimento nell'ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale: rilasciato su richiesta della persona interessata qualora essa stia per lasciare o abbia lasciato il territorio dello Stato membro che aveva originariamente emesso una misura di protezione in suo favore, l’Ordine di protezione europeo (OPE) è riconosciuto nello Stato membro di destinazione che ne darà esecuzione in base alla sua legislazione nazionale. La direttiva stabilisce che l’ordine di protezione europeo possa essere emesso solo se nello Stato di emissione sia stata precedentemente adottata una misura di protezione che imponga alla persona che determina il pericolo uno o più dei seguenti divieti/restrizioni:

a) divieto di frequentare determinate località, determinati luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta;

b) divieto o regolamentazione dei contatti, in qualsiasi forma, con la persona protetta, anche per telefono, posta elettronica o ordinaria, fax o altro; o

c) divieto o regolamentazione dell’avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito.

 

Tale disciplina è stata recentemente completata con l’adozione del predetto regolamento (UE) n. 606/2013, relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile.

Si tratta di strumento parallelo, sul versante della cooperazione giudiziaria civile, al citato Ordine di protezione europeo in materia penale. La disciplina consente alle vittime di stalking, di molestie, o di violenza di genere, e alle vittime di violenza domestica in generale, che abbiano ottenuto dal proprio Stato membro misure di protezione nell’ambito di procedimenti in materia civile, lo spostamento in altro Stato dell’UE senza che ciò determini la perdita di tale protezione.

Il meccanismo è basato sull’emissione di un certificato da parte dello stesso Stato membro (di origine) che ha disposto la misura protettiva in ambito civile, mediante il quale si ottiene l’automatico riconoscimento e l’immediata esecutività della misura di protezione nello Stato membro di destinazione (principio del cosiddetto non exequatur).

 

Il tema della violenza sulle donne è altresì considerato nell’ambito della citata direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

In sintesi, la direttiva mira a garantire che in tutta l’Unione europea:

-      le vittime siano trattate in modo rispettoso, e polizia, procuratori e magistrati ricevano la necessaria formazione per potersene occupare;

-      le vittime siano informate dei loro diritti e delle cause che li riguardano in un modo  loro comprensibile;

-      sia garantito in ciascuno Stato membro il sostegno alle vittime;

-      le vittime possano prendere parte al procedimento, se lo desiderano, e siano aiutate ad assistere al processo;

-      le vittime vulnerabili come minori, vittime di stupro o persone disabili, siano identificate e adeguatamente tutelate;

-      le vittime siano protette durante la fase delle indagini e quella del procedimento penale.

Oltre alla definizione di violenza di genere, comprensiva di un elenco non esaustivo di pratiche dannose nei confronti delle donne (in particolare, matrimoni forzati, cd. “reati d’onore“, mutilazione genitale femminile), interessano anzitutto le disposizioni in materia di diritto di accesso ai servizi di assistenza specialistica a favore delle vittime di reato, recanti tra l’altro profili di specificità a favore di vittime di violenza di genere, vittime di violenza nelle relazioni strette, nonché di soggetti esposti a vittimizzazione secondaria e ripetuta (fattispecie particolarmente frequente nei casi di violenza sulle donne).  

 Si tratta del diritto ai servizi di assistenza specialistica di cui agli articoli 8 e 9 della direttiva citata, i quali (salvo il caso in cui sia diversamente disposto da altri servizi pubblici o privati) devono sviluppare e fornire almeno:

-      alloggi o altra eventuale sistemazione temporanea a vittime bisognose di un luogo sicuro a causa di un imminente rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni;

-      assistenza integrata e mirata a vittime con esigenze specifiche, come vittime di violenza sessuale, vittime di violenza di genere e vittime di violenza nelle relazioni strette, compresi il sostegno per il trauma subito e la relativa consulenza.

 

Simili specificità a favore (tra l’altro) delle vittime della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull'odio e le vittime con disabilità, sono altresì previste con riferimento alle norme sulla valutazione individuale delle vittime per individuarne le specifiche esigenze di protezione (articolo 22).

 

Giova infine ricordare la direttiva n. 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI.

La tratta di esseri umani è considerata uno tra i reati più gravi a livello mondiale. Costituisce una violazione dei diritti umani e una forma moderna di schiavitù. La nuova direttiva adottata dall'Unione europea (UE) definisce norme minime comuni per determinare i reati connessi alla tratta di esseri umani e fissare le relative pene.

Si segnala che secondo i dati in posseso della Commissione il numero totale delle vittime accertate e presunte nel 2008 è stato di 6.309, di 7.795 nel 2009 e di 9.528 nel 2010, con un aumento del 18% nel triennio di riferimento. La distribuzione per sesso ed età delle vittime nel triennio di riferimento è stata: 68% donne, 17% uomini, 12% ragazze e 3% ragazzi. La maggior parte delle vittime identificate e presunte nel triennio di riferimento è stata venduta a fini di sfruttamento sessuale (62%), seguono le vittime della tratta a fini di lavoro forzato (25%) e, con percentuali nettamente inferiori (14%), le vittime di altre forme di sfruttamento.

Interventi all’esame delle Istituzioni europee

Tra i documenti di indirizzo in materia più rilevanti adottati dalle Istituzioni europee, si ricordano le già citate Conclusioni approvate dal Consiglio dell’Unione europea del 6 dicembre 2012 sulla lotta alla violenza contro le donne e i servizi di sostegno a favore delle vittime di violenza domestica;

Il documento impegna gli Stati membri, tra l’altro a:

·         migliorare raccolta e diffusione di dati amministrativi e statistici comparabili, e disaggregati a vario titolo riguardanti le vittime e gli autori di tutte le forme di violenza contro le donne, in particolare la registrazione e il trattamento delle denunce, ricevute a livello di Stati membri, da parte delle autorità di polizia, giudiziarie, sanitarie e sociali e delle altre autorità, agenzie, istituzioni e ONG competenti;

·         fornire adeguata formazione per il personale che si occupa delle vittime e degli autori di tutti gli atti di violenza (ad esempio rafforzandole unità speciali e/o le unità di polizia competenti);

·         rafforzare il servizio sanitario nazionale e le infrastrutture sociali per promuovere la parità di accesso delle donne vittime della violenza all'assistenza sanitaria pubblica;

·         vagliare la possibilita di creare una helpline europea riservata alle donne vittime di violenze;

·         designare il 2015 Anno europeo della tolleranza zero nei confronti della violenza contro le donne.

Si segnala inoltre che la risoluzione “Lotta alla violenza contro le donne” adottata il 25 febbraio 2014 dal Palamento europeo contiene numerose raccomandazioni rivolte alle altre Istituzioni europee e agli Stati membri: oltre al citato invito al Consilglio ad inseirire la violenza sulle donne  fra i reati elencati all’articolo 83, paragrafo 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, al fine di una attività normativa a livello europeo di carattere penale in senso stretto, si ricorda che il Parlamento europeo chiede alla Commissione:

·         di presentare, entro la fine del 2014 una proposta di atto che stabilisca misure volte a promuovere e sostenere l'azione degli Stati membri nel settore della prevenzione della violenza contro le donne e le ragazze di presentare una proposta rivista di regolamento sulle statistiche europee relative ai reati violenti di qualsiasi tipo che preveda anche un sistema coerente per la raccolta di statistiche sulla violenza di genere negli Stati membri;

·         di promuovere le ratifiche nazionali e ad avviare la procedura per l'adesione dell'UE alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, una volta valutato l'impatto e il valore aggiunto che quest'ultima comporterebbe;

·         di presentare una strategia paneuropea e un piano d'azione per combattere tutte le forme di violenza contro le donne e le ragazze;

·         di muovere primi passi verso la creazione di un osservatorio europeo sulla violenza nei confronti delle donne e delle ragazze, basandosi sulle strutture istituzionali esistenti (Istituto europeo per l'uguaglianza di genere - EIGE), guidato da un coordinatore UE in materia;

·         di proclamare, nei prossimi tre anni, un Anno europeo per la cessazione della violenza contro le donne e le ragazze (soprattutto ai fini della sensibilizzazione dell’opnione pubblica e dei policy maker);

Particolari raccomandazioni sono altresì rivolte agli Stati membri in particolare per quanto riguarda il tema dei delitti d'onore, e la divulgazione di informazioni sui programmi e relativi finanziamenti dell'UE disponibili per combattere la violenza contro le donne.

Le risorse finanziarie  

Quale principale strumento di sostegno finanziario alla tutela dei diritti fondamentali da parte dell’Unione europea deve ricordarsi il programma “Diritti, uguaglianza e cittadinanza per il periodo 2014-2020 (istituito con il regolamento n. 1381/2013) cui obiettivi specifici sono:

-      promuovere l'attuazione efficace del divieto di discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale e rispettare il divieto di discriminazioni fondate sui motivi di cui all'articolo 21 della Carta;

-      prevenire e combattere il razzismo, la xenofobia, l'omofobia e le altre forme di intolleranza;

-      promuovere e proteggere i diritti delle persone con disabilità;

-      promuovere la parità tra donne e uomini nonché l'integrazione di genere;

-      prevenire e combattere tutte le forme di violenza nei confronti di bambini, giovani e donne, nonché la violenza contro altri gruppi a rischio, in particolare i gruppi a rischio di violenza nelle relazioni strette, e proteggere le vittime di tale violenza;

-      promuovere e tutelare i diritti del minore;

-      contribuire a garantire il livello più elevato di protezione della privacy e dei dati personali;

-      promuovere e rafforzare l'esercizio dei diritti derivanti dalla cittadinanza dell'Unione;

-      fare in modo che nel mercato interno le persone, in qualità di consumatori o imprenditori, possano far valere i propri diritti derivanti dal diritto dell'Unione, tenendo conto dei progetti finanziati a titolo del programma per la tutela dei consumatori.

 

Al Programma è stata assegnata una dotazione finanziaria di circa 440 milioni di euro (per il periodo 2014-2020); le azioni finanziate dal programma possono consistere, in linea di massima, in: attività di analisi, raccolta di dati e statistiche; valutazioni, elaborazioni e pubblicazione di guide; convegni e seminari; attività di formazione, campagne di sensibilizzazione, scambio di buone prassi; sostegno a ONG, autorità nazionali che cooperano all’attuazione degli obiettivi UE.

 



La tutela dei diritti umani e l’integrazione degli stranieri in Italia

La tutela dei diritti umani nella Costituzione

I diritti fondamentali trovano diretto riconoscimento e tutela nella Costituzione italiana; precipuamente, nei Princìpi fondamentali dettati dai primi dodici articoli della Carta e, in forma più dettagliata, nella Parte prima (artt. 13-54).

Alla base di tali disposizioni è posto il principio dettato dall’articolo 2, ai sensi del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.

Il disposto costituzionale riconosce, favorendole, le formazioni sociali all’interno delle quali gli individui organizzano la propria vita, garantendo in successivi articoli le libertà associative, i diritti delle formazioni sociali e la tutela del singolo al loro interno: artt. 8 e 20 (confessioni e associazioni religiose), art. 18 (associazioni in generale), art. 29 (famiglia), art. 39 (associazioni sindacali) e art. 49 (partiti politici).

Il principio di pari dignità ed eguaglianza è posto con forza dal primo comma dell’art. 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) che ribadisce la centralità della persona da cui deriva l’obbligo per il legislatore di disporre con norme generali ed astratte, applicabili ad una molteplicità infinita di fattispecie concrete.

L’art. 6 prevede, quale ulteriore principio fondamentale, la tutela delle minoranze linguistiche, da attuare attraverso appositi provvedimenti normativi.

L’art. 8 enuncia il principio della pari libertà delle confessioni religiose davanti alla legge e della loro autonomia rispetto allo Stato (“Tutte le confessioni religiose sono libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”).Tale disposto è da porre in connessione con l’art. 19, che tutela la libertà religiosa sia in forma individuale che associata. Il disposto dell’art. 8, riferito alle “confessioni religiose”, si concentra in particolare sul momento associativo, garantendo l’autonomia organizzativa delle confessioni e in tal senso si configura come un richiamo del più generale principio pluralista di cui all’art. 2.

Normativa nazionale

Il complesso di norme di maggiore organicità in materia di discriminazione razziale è costituito dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966.

L’articolo 3, comma 1, lettere a) e b), della legge, così come emendate dalla L. 85/2006[3], punisce con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.  Il comma 3 dello stesso articolo inoltre vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. 

Altre disposizioni in materia si rinvengono nei seguenti atti:

·         legge 11 marzo 1952, n, 153, che ratifica la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.

Le norme attuative della Convenzione sono state adottate con la legge 9 ottobre 1967, n. 962: l’articolo 1 punisce con la reclusione da 10 a 18 anni chiunque, per distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, commetta atti diretti a provocare lesioni gravi a persone appartenenti al gruppo e con la reclusione da 24 a 30 anni chiunque, con le stesse finalità, commetta atti diretti a cagionare la morte o lesioni personali gravissime a persone appartenenti al gruppo; l’articolo 8 della medesima legge prevede la reclusione da 3 a 12 anni per il delitto di istigazione a commettere genocidio e apologia di genocidio.

·      legge 8 marzo 1989, n. 101, di recepimento dell’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche: l’art. 2 stabilisce che le fattispecie di reato connesse alla discriminazione razziale (di cui all’articolo 3 della citata L. 654 del 1975), si intendono riferite anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso;

·      decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (cd. legge Mancino).

L’art. 2 punisce con la reclusione fino a tre anni (oltre che con una multa) chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la stessa norma punisce come contravvenzione (arresto da tre mesi ad un anno) l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con gli stessi emblemi o simboli. L’articolo 3 del provvedimento, inoltre, prevede una circostanza aggravante, applicabile a qualsiasi reato (ad eccezione di quelli per i quali è previsto l’ergastolo), consistente nell’avere commesso il fatto per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità.

·      decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero: l’articolo 43 definisce puntualmente la condotta discriminatoria per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, individuando cinque categorie di comportamenti perseguibili, mentre l’articolo 44 introduce l’azione civile contro le discriminazioni;

·      decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, di attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica;

·      decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, contro ogni forma di discriminazione legata a religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale;

·      decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro: l’articolo 10 vieta in particolare alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati di effettuare qualsivoglia indagine sulla razza, l'origine etnica, il colore, l’ascendenza, l'origine nazionale dei lavoratori (art. 10). La violazione di tale disposizione è punita con sanzioni penali (art. 18 che rinvia all’art. 38 dello Statuto dei lavoratori);

·      decreti legislativi 31 luglio 2005, n. 177 (testo unico della radiotelevisione), e 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo) che vietano le trasmissioni che contengano incitamenti all'odio comunque motivato o che inducano ad atteggiamenti di intolleranza basati su differenze di razza, sesso, religione o nazionalità, nonché le trasmissioni pubblicitarie e le televendite che comportino discriminazioni di razza, sesso o nazionalità.

Organismi governativi

Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (UNAR)

Istituito nel 2003 in attuazione dell’articolo 7 del decreto legislativo 215/2003[4], recante norme volte a contrastare le discriminazioni per razza ed origine etnica.

L’UNAR è incardinato nell’ambito del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri. Esso ha le tipiche funzioni degli equality bodies nati come strumenti di tutela dalle discriminazioni razziali, con “funzioni di controllo e garanzia della parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela”. In specie esso ha “il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso” (art. 7, co. 1, D.Lgs. 215/2003).

Comitato interministeriale dei diritti umani (CIDU)

E’ stato istituito presso il Ministero degli affari esteri con D.M. 15 febbraio 1978, n. 519.

Il Comitato, organismo di coordinamento dell’attività governativa in materia di promozione e tutela dei diritti dell’uomo, secondo quanto disposto dal D.P.C.M. 11 maggio 2007[5], svolge i seguenti compiti:

·         realizza un sistematico esame delle misure legislative, regolamentari, amministrative ed altre che siano state prese nell’ordinamento interno per attuare gli impegni assunti dall’Italia in virtù delle convenzioni internazionali in materia di tutela dei diritti umani adottate dalle organizzazioni internazionali di cui l’Italia è parte; a tal fine, raccoglie tutte le informazioni necessarie sull’azione governativa in tale settore;

·         promuove i provvedimenti che si rendono necessari od opportuni per assicurare il pieno adempimento degli obblighi internazionali già assunti o che dovranno essere assunti dall’Italia a seguito della ratifica delle convenzioni da essa sottoscritte;

·         segue l’attuazione delle convenzioni internazionali e la loro concreta osservanza sul territorio nazionale, e cura la preparazione dei rapporti periodici che lo Stato italiano è tenuto a presentare alle competenti organizzazioni internazionali competenti in materia di diritti umani, come le Nazioni Unite ed il Consiglio d’Europa; cura inoltre la preparazione di ulteriori rapporti, periodici e non, che vengano richiesti dalle organizzazioni in questione;

·         predispone annualmente la relazione al Parlamento in merito all’attività svolta dal Comitato nonché alla tutela e al rispetto dei diritti umani in Italia che il Ministro degli affari esteri è tenuto a presentare ai sensi dell’art. 1, co. 2, della L. 80/1999. L’ultima relazione è stata presentata il 26 luglio 2010 (Doc. CXXI, n. 3);

·         collabora nelle attività volte ad organizzare e a dar seguito in Italia ad iniziative internazionali attinenti ai diritti umani, quali conferenze, simposi e celebrazioni di ricorrenze internazionali;

·         mantiene ed implementa gli opportuni rapporti con le organizzazioni della società civile attive nel settore della promozione e protezione dei diritti umani.

Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo

Istituito con D.M. 30 gennaio 2004[6] presso il Ministero dell’interno. Esso è presieduto dal direttore del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Il decreto istitutivo prevede la partecipazione al Comitato di diverse amministrazioni dello Stato.

Compito del Comitato è vigilare sui pericoli di regressione verso forme di intolleranza, razzismo, xenofobia e antisemitismo e individuare tutte le misure necessarie per contrastare ogni comportamento ispirato da odio religioso o razziale. Il Presidente del Comitato riferisce periodicamente al Ministro dell’Interno sull’attività svolta.

Il Comitato si avvale dell’apporto informativo e della collaborazione delle Prefetture – Uffici Territoriali del Governo.

Comitato dei ministri per l’indirizzo e la guida strategica in materia di tutela dei diritti umani

Il D.P.C.M. 13 aprile 2007[7] ha istituito tale Comitato presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità al fine di garantire un’efficace attività di indirizzo e coordinamento strategico in materia di tutela dei diritti umani.

Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri, che può delegare le relative funzioni al ministro per le pari opportunità, ed è composto dal ministro per le pari opportunità, dal ministro degli affari esteri, dal ministro della difesa, dal ministro della giustizia, dal ministro dell’interno, dal ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, dal ministro del lavoro e delle politiche sociali, dal ministro per le politiche europee, dal ministro per le politiche per la famiglia e dal sottosegretario di stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri – segretario del consiglio dei ministri.

Alle riunioni del Comitato partecipa anche il presidente del Comitato interministeriale dei diritti umani. Possono, inoltre, essere chiamati a partecipare i responsabili di altri organismi che svolgono attività istituzionali in materia di diritti umani. Alle riunioni del Comitato, in base agli argomenti da trattare possono essere invitati altri ministri, nonché esponenti del sistema delle autonomie, rappresentativi degli altri livelli di governo.

Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale dei cittadini stranieri

E’ un organismo operante presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro con il compito di individuare e promuovere, con la partecipazione dei cittadini stranieri, le iniziative idonee alla rimozione degli ostacoli che impediscono l’effettivo esercizio dei diritti e dei doveri degli stranieri.

L’ONC è stato istituito dall'art. 42, comma 3, del Testo unico delle disposizioni in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998) e si è insediato presso il CNEL il 10 dicembre 1998. Disposizioni di dettaglio sono recate nel regolamento di attuazione del testo unico (DPR 394/1999, art. 56).

Due sono essenzialmente i compiti attribuiti all'ONC:

·         accompagnare e sostenere lo sviluppo dei processi locali di accoglienza ed integrazione dei cittadini stranieri, la loro rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica;

·         promuovere, a tale fine, il confronto fra soggetti istituzionali e sociali a livello locale, ma anche con realtà locali significative di altri paesi europei, per una continua socializzazione delle esperienze al fine di individuare e valutare percorsi e modelli efficaci di intervento.

Attività parlamentare

Le problematiche relative alla tutela dei diritti umani a livello internazionale rappresentano un nucleo tematico centrale dell’attività della Commissione Affari esteri e comunitari (III Commissione) della Camera dei Deputati. A partire dalla X Legislatura (1987-1992) la Commissione ha istituito al proprio interno il Comitato permanente per i diritti umani, un organismo preposto all'esame delle tematiche generali relative ai diritti umani, con particolare riferimento allo stato della loro tutela a livello internazionale, anche per il tramite di apposite indagini conoscitive. Il Comitato, che nell’attuale legislatura è stato istituito il 16 luglio 2013, ha anche il compito di seguire l'iter dei singoli provvedimenti in tema di diritti umani, svolgendo un lavoro di carattere istruttorio rispetto alle attività della Commissione.

Un organismo analogo, operante presso il Senato, è la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani. La Commissione effettua accurati monitoraggi, attraverso lo svolgimento di indagini conoscitive, sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani - ovvero su fenomeni di disconoscimento e lesione dei diritti stessi - tanto in Italia quanto a livello internazionale. E’ attualmente in corso l'indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale

Nella XVI legislatura le Commissioni riunite I (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e III (Affari esteri e comunitari) hanno svolto una indagine conoscitiva sull’antisemitismo (deliberata il 28 ottobre 2009) con l’obiettivo di monitorare e approfondire il fenomeno dell’antisemitismo, sia a livello internazionale che nazionale. L’indagine ha portato ad evidenziare i nuovi caratteri che tale fenomeno ha assunto rispetto alle impostazioni tradizionali, con particolare riferimento all’odio etnico e religioso alimentato dal fondamentalismo ed allo strumentale intreccio con l’antisionismo ed il negazionismo.

Al termine di tale indagine, è stato approvato dalle suddette Commissioni parlamentari un documento conclusivo (seduta del 6 ottobre 2011) nel quale sono state elaborate strategie di contrasto e proposte di lavoro. Al contempo, si prende atto, nel testo, del preoccupante e costante incremento in Italia e in Europa dell’antisemitismo, dovuto anche alla diffusione sempre maggiore di piattaforme e social network di tipo razzista, ed è stata richiamata la centralità della formazione delle nuove generazioni per un'efficace e duratura azione di contrasto al fenomeno. Al contempo, sul piano sanzionatorio si è posta la questione connessa alla omogenea repressione a livello internazionale dei reati di opinione.

Nella scorsa legislatura è stato istituito (dicembre 2009), presso la Camera dei deputati, l’Osservatorio sui fenomeni di xenofobia e razzismo. Si tratta di un organismo diretto alla sensibilizzazione su tali tematiche, al monitoraggio e alla valorizzazione delle attività svolte in materia da organismi pubblici e privati.

L’Osservatorio si compone di otto deputati, scelti dalla Presidenza sulla base delle esperienze già acquisite sulla materia, ed è coordinato da due Vicepresidenti della Camera nella qualità di Presidenti, rispettivamente, del Comitato di vigilanza sull’attività di documentazione e del Comitato per la comunicazione e l’informazione esterna.

Giova infine ricordare che, nel corso della XVI legislatura, la I Commissione della Camera ha esaminato un disegno di legge volto all'istituzione di una Commissione nazionale per la promozione e la protezione dei diritti umani in attuazione della risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite n. 48/134, adottata il 20 dicembre 1993, diretta ad unire tutti gli Stati in un impegno comune di tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il provvedimento (A.C. 4534), il cui esame è iniziato presso il Senato, è poi proseguito, senza pervenire ad approvazione, presso la Camera.

 

Le politiche sull’immigrazione

Le fonti normative

Le linee generali delle politiche pubbliche in materia di immigrazione in Italia, fissate dalla legge 40/1998 (cosiddetta “legge Turco – Napolitano”), sono state successivamente consolidate nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.

Il testo unico interviene in entrambi gli ambiti principali del diritto dell’immigrazione: il diritto dell’immigrazione in senso stretto, concernente la gestione nel suo complesso del fenomeno migratorio: la definizione di regole di ingresso, di soggiorno, di controllo, di stabilizzazione dei migranti ed anche la repressione delle violazioni a tali regole; e il diritto dell’integrazione, che riguarda l’estensione, in misura più o meno ampia, ai migranti dei diritti propri dei cittadini (diritti civili, sociali, politici).

I princìpi fondamentali che sono alla base del testo unico sono essenzialmente tre: la programmazione dei flussi migratori e il contrasto all’immigrazione clandestina (per quanto riguarda il diritto dell’immigrazione); la concessione di una ampia serie di diritti volti all’integrazione degli stranieri regolari (diritto dell’integrazione).

Il diritto dell’integrazione

Per quanto riguarda il terzo dei tre princìpi ispiratori della legislazione vigente, l’integrazione degli stranieri regolari, il nostro ordinamento garantisce una ampia tutela dei diritti degli stranieri e promuove l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati.

Innanzitutto, agli stranieri sono garantiti, alla stregua dei cittadini italiani, i diritti fondamentali di libertà ed eguaglianza fissati dalla prima parte della nostra Costituzione. Tra questi, espressamente destinato agli stranieri, il diritto di asilo (art. 10 della Cost.).

Inoltre, una serie di disposizioni contenute in leggi ordinarie provvedono a fissare contenuti e limiti della possibilità degli stranieri di godere dei diritti propri dei cittadini e dall’altro a promuovere l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati.

In primo luogo, la legge prevede, in presenza di determinate condizioni, la concessione agli stranieri della cittadinanza (per naturalizzazione, per nascita o per matrimonio), quale massimo strumento di integrazione e di possibilità di godimento dei diritti garantiti dall’ordinamento. L’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione presuppone la permanenza regolare e continuativa nel territorio nazionali per dieci anni ed è subordinata alla decisione, in larga parte discrezionale, dell’amministrazione pubblica.

Per quanto riguarda i diritti civili, agli stranieri è garantito il diritto alla difesa in giudizio (art. 17 testo unico).

Inoltre, è prevista una serie di strumenti volti al contrasto della discriminazione razziale: a partire dalla legge 654/1975 di ratifica della Convenzione di New York del 1966 contro il razzismo, fino al testo unico che da una definizione puntuale degli atti di discriminazione (art. 43) e disciplina l’azione di sede civile contro tali atti (art. 44).

In questo settore alcuni importanti interventi sono stati realizzati principalmente in attuazione della disciplina comunitaria: il D.Lgs. 215/2003 e il D.Lgs. 216/2003 contengono disposizioni per garantire la non discriminazione a causa delle proprie origini, il primo in generale, il secondo in materia di lavoro.

Sono previste, inoltre, alcune disposizioni relative alla tutela dei diritti sociali.

Specifiche disposizioni del testo unico (artt. 28-33) prendono in esame le forme di garanzia del diritto all’unità familiare e al ricongiungimento familiare, riconosciuto agli stranieri regolarmente soggiornanti, e di tutela dei minori, il cui prioritario interesse deve sorreggere tutti i provvedimenti amministrativi e giurisdizionali in materia di diritto all’unità familiare.

Per quanto riguarda il diritto alla salute, viene garantita una ampia assistenza sanitaria a tutti gli stranieri, compresi coloro che non sono in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno (artt. 34-36).

Anche il diritto allo studio è garantito dal testo unico (art. 38, 39 e 39-bis).

Le disposizioni del testo unico in materia di servizi abitativi e di assistenza sociale per stranieri (artt. 40-41) prevedono che le regioni, in collaborazione con gli enti locali e con le associazioni di volontariato, predispongano centri di accoglienza destinati ad ospitare stranieri regolarmente soggiornanti e impossibilitati, temporaneamente, a provvedere autonomamente alle proprie esigenze abitative e di sussistenza.

L’art. 41 del testo unico estende a favore degli stranieri in possesso del permesso di soggiorno (di durata non inferiore a un anno) o del permesso di soggiorno di lungo periodo anche l’accesso ai servizi socio-assistenziali organizzati sul territorio.

Quanto ai diritti politici, va segnalata la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale fatta a Strasburgo nel 1992 tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa (ratificata dall’Italia con legge 203/1994) con la quale vengono garantiti agli stranieri residenti nei Paesi aderenti una serie di diritti. In particolare il capitolo A della Convenzione prevede il riconoscimento agli stranieri, alle stesse condizioni previste per i cittadini, delle libertà di espressione, di riunione e di associazione, ivi compresa quella di costituire sindacati e affiliarsi ad essi, ferme restando le eventuali limitazioni per ragioni attinenti alla sicurezza dello Stato, alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Con il capitolo B si riconosce il diritto alle collettività locali che hanno nei loro rispettivi territori un numero significativo di residenti stranieri, di creare organi consultivi volti a rappresentare i residenti stranieri a livello locale, ai quali deve essere data la possibilità di discutere sui problemi di loro interesse per il tramite di rappresentanti eletti o nominati da gruppi associati.

Non si è data, invece, applicazione al capitolo C della Convenzione che impegna le parti a concedere agli stranieri residenti il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni locali che, pertanto, non è attribuibile agli stranieri non comunitari.

Interventi recenti e prospettive future

Nel corso della legislatura sono state adottate diverse misure concernenti diversi aspetti della disciplina dell'immigrazione, compreso quello dell’integrazione, soprattutto in materia di lavoro e di tutela dei diritti.

Cittadinanza

La Camera dei deputati ha iniziato l'esame di alcune proposte di legge in materia di cittadinanza (A.C. 274 ed abb.). Tra le principali innovazioni in discussione l'estensione dei casi di acquisizione della cittadinanza per nascita (jus soli) e l'agevolazione dell'accesso alla cittadinanza ai minori che hanno compiuto gli studi in Italia. Il decreto-legge 69/2013 nel frattempo ha semplificato le procedure per l'acquisto della cittadinanza per lo straniero nato in Italia.

Lavoro e formazione

Il decreto-legge 76/2013, recante alcuni interventi urgenti per favorire l’occupazione e, in primo luogo, quella giovanile, introduce anche alcune misure volte a semplificare i procedimenti relativi all’accesso al lavoro degli stranieri non comunitari. Tali misure intervengono al fine di:

·         modificare la procedura per l'instaurazione di un rapporto di lavoro dipendente, a tempo determinato o indeterminato, con un lavoratore non comunitario residente all'estero, prevedendo che la verifica, presso il centro per l'impiego competente, dell'indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale sia svolta precedentemente (e non successivamente) alla presentazione della richiesta del nulla osta, da parte del datore, presso lo sportello unico per l'immigrazione (articolo 9, comma 7)

·         modificare le procedure relative all’ingresso nel territorio nazionale di cittadini stranieri ammessi per la frequenza di corsi di formazione professionale o tirocini formativi, prevedendo essenzialmente la definizione di un contingente triennale per questa categoria di stranieri, al posto di quello annuale stabilito dalla normativa vigente (articolo 9, comma 8)

·         snellire i procedimenti volti all’emersione del lavoro nero, recando alcune integrazioni all’articolo 5 del D.Lgs. 109/2012, che disciplina sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (articolo 9, comma 10)

·         prevedere che la dichiarazione che il datore di lavoro rende alla questura relativa all’alloggio del lavoratore straniero non comunitario è assolta con la dichiarazione di instaurazione di un rapporto di lavoro (sia con un lavoratore straniero, sia italiano) che il datore di lavoro è tenuto a presentare presso il Servizio del lavoro competente per territorio (articolo 9, commi 10-bis e 10-ter).

Altre disposizioni in materia di lavoro trovano fondamento nella normativa comunitaria.

In primo luogo, è stato emanato il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 40, previsto dalla legge di delegazione europea 2013 (L. 96/2013), che recepisce la direttiva 2011/98/UE finalizzata a semplificare le procedure di ingresso e soggiorno a fini lavorativi dei cittadini di paesi terzi (soprattutto mediante la previsione di un permesso unico di soggiorno) e di garantire un insieme comune di diritti su un piano di parità rispetto ai cittadini nazionali.

Inoltre, la legge europea 2013 (L. 97/2013) estende ai familiari di cittadini dell'Unione europea, ai soggiornanti di lungo periodo e ai titolari dello status di protezione sussidiaria l’accesso ai posti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni (art. 7) attualmente riservato ai soli cittadini comunitari e ai rifugiati; la disposizione è finalizzata a risolvere due procedure di contenzioso aperte dalla Commissione: casi EU Pilot n. 1769/11/JUST e n. 2368/11/HOME.

Studio e ricerca

Il decreto-legge 145/2013 di avvio del piano "Destinazione Italia" ha liberalizzato l'ingresso in Italia degli studenti residenti all'estero che intendano accedere all'istruzione universitaria con la soppressione del contingentamento del numero dei visti per motivi di studio rilasciati ogni anno.

Si ricorda, inoltre, che il D.L. 104/2013 in materia di istruzione estende il limite massimo di durata del permesso di soggiorno per la frequenza a corsi di studio o per formazione, finora di durata annuale e rinnovabile (art. 9).

Assistenza e tutela dei diritti

In primo luogo, si segnala che l'articolo 4 del D.L. 93/2013 sul contrasto alla violenza di genere ha introdotto nel testo unico in materia di immigrazione l'articolo 18-bis, che prevede il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari alle vittime straniere di atti di violenza in ambito domestico. La finalità del permesso di soggiorno è consentire alla vittima straniera di sottrarsi alla violenza.

Inoltre, è stato incrementato in più occasioni il Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati: ad esso sono state assegnate alcune disponibilità residue del contributo statale ai comuni che hanno sostenuto o autorizzato spese per l'accoglienza di extracomunitari minorenni non accompagnati (art. 9, co. 9, D.L. 76/2013). Successivamente sono stati assegnati al fondo 40 milioni di euro (20 dall'art. 1, co. 1, del D.L. 120/2013 e 20 dalla legge di stabilità, L. 147/2013, art. 1, co. 202).

In tema di assistenza sociale, si segnala l’ampliamento della platea dei beneficiari dell'istituto dell'assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori, ricomprendendovi i cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nonché i familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente 8legge europea 2013). La disposizioni è volta al corretto recepimento della direttiva 2003/109/CE relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi.


 

La tutela dei minori nella più recente attività legislativa

L’equiparazione tra figli naturali e figli legittimi

Nella scorsa legislatura il parlamento ha approvato la legge delega n. 219 del 2012, volta a superare ogni residua distinzione tra figli legittimi e naturali. In attuazione della delega, in questa legislatura, è stato emanato il decreto legislativo n. 154 del 2013 che, intervenendo tanto sul codice civile quanto sulle leggi speciali, attua nell'ordinamento il principio di unicità dello stato di figlio.

La legge delega

La legge n. 219 del 2012, Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, contiene:

·           nuove disposizioni sostanziali e processuali, in materia di filiazione naturale e relativo riconoscimento (con particolare riferimento anche ai figli c.d. incestuosi ), ispirate al principio "tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico";

·           una delega al Governo per la modifica delle disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni residua discriminazione tra figli legittimi, naturali e adottivi (v. infra);

·           la ridefinizione delle competenze di tribunali ordinari e tribunali dei minorenni in materia di procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli;

·           disposizioni a garanzia del diritto dei figli agli alimenti e al mantenimento.

In particolare, allo scopo di eliminare ogni discriminazione tra i figli, l'articolo 2 della legge conferisce una delega al Governo per la modifica delle disposizioni in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità. Il termine di esercizio della delega è stabilito in 12 mesi dall'entrata in vigore dalla legge, e dunque entro il 1° gennaio 2014.

Il decreto legislativo n. 154/2013

Il decreto legislativo n. 154 del 2013, in attuazione della delega, contiene un complesso articolato suddiviso in quattro titoli:

·         il titolo I (articoli da 1 a 92) novella il codice civile. La maggior parte delle disposizioni – articoli da 1 a 66 – intervengono sul libro I, Delle persone; le restanti novellano la disciplina delle successioni contenuta nel libro II (si tratta in particolare degli articoli da 67 a 89) mentre i restanti quattro articoli modificano singole previsioni sparse nel codice;

·         il titolo II (articoli da 93 a 95) novella i restanti codici, penale, processuale penale e processuale civile;

·         il titolo III (articoli da 96 a 103) modifica la legislazione speciale;

·         il titolo IV (articoli da 104 a 108) contiene le abrogazioni e la disciplina transitoria.

 

 

Tra le principali novità della riforma, si richiamano:

·       lo spostamento - dagli articoli artt. 155 e ss. del codice civile ai nuovi articoli da 337-bis a 337-octies - delle disposizioni sull'esercizio della responsabilità genitoriale in tutte le ipotesi di "crisi" del rapporto tra i genitori (ovvero separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio); viene quindi raccolta insieme la disciplina dei rapporti tra genitori e figli, sia nella fase "fisiologica" sia in quella in cui si dissolve il legame, matrimoniale o di fatto;

·       riconoscimento per i nonni della possibilità di ricorrere al giudice per vedere affermato il loro diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni (competenza del tribunale per i minorenni);

·       previsione e disciplina dell'obbligo di ascolto del minore in tutti i procedimenti in cui debbano essere adottati provvedimenti che lo riguardano, salvo che il giudice ritenga l'ascolto in contrasto con l'interesse del minore o manifestamente superfluo (nuovo art. 336-bis c.c.);

·       interventi sulla disciplina delle successioni, finalizzate all'attuazione in tale ambito dell'estensione dei vincoli di parentela alla filiazione fuori dal matrimonio, a seguito della novella dell'art. 74 c.c. operata dall'art. 1 della legge n. 219 del 2012.

 

L’attuazione della direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile

In questa legislatura è stato emanato il decreto-legislativo 4 marzo 2014, n. 39, con il quale è stata data attuazione nel nostro ordinamento alla direttiva 2011/93/UE.

 

La direttiva 2011/93, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI. Essa si pone l’obiettivo di ravvicinare ulteriormente le legislazioni penali degli Stati membri in materia di abuso e sfruttamento sessuale dei minori, pornografia minorile e adescamento di minori per scopi sessuali, stabilendo norme minime relative alla definizione dei suddetti reati e delle relative sanzioni, nonché l’obiettivo di introdurre disposizioni intese a rafforzare la prevenzione di tali reati e la protezione delle vittime minorenni.

La direttiva sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI (adottata il 22 dicembre 2003), attuata dall’Italia con la legge n. 36 del 2008, contenente disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet.

 

L’attuazione della direttiva nell’ordinamento ha richiesto limitati interventi sul codice penale in quanto, già nella scorsa legislatura, il Parlamento aveva approvato la legge n. 172 del 2012, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote).

A seguito di questi due recenti interventi, la legislazione italiana di contrasto della pedofilia e dello sfruttamento sessuale dei minori ha raggiunto un livello avanzato di tutela.


 


Il contrasto alla violenza di genere nella più recente attività parlamentare

L'ordinamento italiano non prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente in danno delle donne, né prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti abbiano la donna come vittima.

Per il nostro diritto penale, se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo (e conseguentemente non è stato fino ad oggi censito nelle statistiche giudiziarie).

La mancanza di dati statistici ufficiali ed aggiornati sul numero di delitti commessi a danno di donne è stata negli ultimi mesi più volte stigmatizzata; ciò che appare evidente è peraltro che i sempre più drammatici, frequenti ed efferati episodi di cronaca, hanno certamente elevato la percezione della violenza nei confronti delle donne come un fenomeno in aumento.

 

L'ultima indagine dell'Istat (del 2007, relativa a «La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia - Anno 2006») parla di 6 milioni e 743 mila donne dai 16 ai 70 anni rimaste vittime di molestie o violenze fisiche, psichiche o sessuali nel corso della vita (una donna su tre tra i 16 ed i 70 anni); circa 1 milione di donne ha subito stupri o tentati stupri (il 4,8 per cento della popolazione femminile globale); il 14,3 per cento delle donne ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal proprio partner; il 24,7 per cento delle donne ha subito violenze da un altro uomo, 2 milioni e 77 mila donne hanno subito comportamenti persecutori (stalking), dai partner al momento della separazione. Va, in ogni caso, considerato che moltissimi episodi di violenza (circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% per cento di quelle da partner) non vengono comunque denunciati.

 

La ratifica della Convenzione di Istanbul

Per arginare questo fenomeno, durante la scorsa legislatura l'Italia ha firmato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l'11 maggio del 2011.

Il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul, approvando la legge 27 giugno 2013, n. 77. La Convenzione – avendo raggiunto il prescritto numero di ratifiche – entrerà in vigore il prossimo 1° agosto 2014.

Per una consapevole scelta del legislatore, la legge n. 77 non detta norme di adeguamento del nostro ordinamento interno motivate dal pieno rispetto della Convenzione. Ciò in quanto è prevalsa l'esigenza di privilegiare la rapida ratifica della Convenzione, essenziale a consentirne l'entrata in vigore; rapida ratifica che sarebbe stata ostacolata da un contenuto normativo più complesso. Concluso però questo adempimento, Governo e Parlamento hanno tentato di riempire di contenuti questa ratifica con il decreto-legge n. 93 del 2013 e la sua conversione in legge.

Il decreto-legge 93/2013

Il Governo ha emanato il decreto-legge 93 del 2013 nello mese di agosto 2013. Il provvedimento, come indicato nella relazione illustrativa del disegno di legge di conversione, è diretto anche ad attuare la Convenzione di Istanbul, con riguardo ai principali profili considerati necessari. Dopo una veloce calendarizzazione, il Parlamento ha convertito il provvedimento d'urgenza - che presenta peraltro un contenuto non circoscritto alla sola violenza di genere - con la legge 15 ottobre 2013, n. 119.

Il Capo I del decreto-legge, composto dagli articoli da 1 a 5-bis, è dedicato al contrasto e alla prevenzione della violenza di genere. In particolare, il provvedimento approvato:

·         interviene sul codice penale, introducendo un'aggravante comune (art. 61, n. 11-quinquies) per i delitti contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori;

·         novella il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), prevedendo un'aggravante quando il fatto è commesso con mezzi informatici o telematici e modificando il regime della querela di parte. In particolare, rispetto alla formulazione originaria del decreto-legge, che qualifica la querela come irrevocabile, la Camera ha circoscritto le ipotesi di irrevocabilità ai casi più gravi, prevedendo comunque che l'eventuale remissione possa avvenire soltanto in sede processuale;

·         interviene sul codice di procedura penale, consentendo anche quando si indaga per stalking di disporre intercettazioni;

·         introduce la misura di prevenzione dell'ammonimento del questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking;

·         sempre per tutelare le vittime, inserisce alcune misure relative all'allontanamento - anche d'urgenza - dalla casa familiare e all'arresto obbligatorio in flagranza dell'autore delle violenze. In merito, la Camera ha introdotto la possibilità di operare anche un controllo a distanza (c.d. braccialetto elettronico) del presunto autore di atti di violenza domestica;

·         prevede specifici obblighi di comunicazione da parte dell'autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria alla persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonché modalità protette di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti particolarmente vulnerabili;

·         modifica le disposizioni di attuazione del codice di procedura, inserendo i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d'udienza;

·         estende alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili l'ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito;

·         stabilisce chela relazione annuale al Parlamento sull'attività delle forze di polizia e sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica debba contenere un'analisi criminologica della violenza di genere;

·         riconosce agli stranieri vittime di violenza domestica la possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno;

·         demanda al Ministro per le pari opportunità l'elaborazione di un Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per il quale è previsto un finanziamento di 10 milioni di euro per il 2013, prevedendo azioni a sostegno delle donne vittime di violenza.

La legge di stabilità 2014

Da ultimo si segnala che la legge di stabilità 2014 incrementa di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016 la dotazione del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità allo scopo di finanziare il ''Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere''.

 

 

 

 



[1] L’a Convenzione è stata ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848.

 

[3] L. 24 febbraio 2006, n. 85, Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione.

[4]  D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Il decreto legislativo è stato adottato in attuazione della delega recata agli artt. 1 e 29 della legge comunitaria 2001 (L. 39/2002).

[5] D.P.C.M. 11 maggio 2007, Riordino del Comitato interministeriale per i diritti umani operante presso il Ministero degli affari esteri, ai sensi dell’articolo 29 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 (G. U. 27 agosto 2007, n. 198, S.O.)

[6]  Decreto del ministro dell’interno 30 gennaio 2004, Istituzione del Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo.

[7] D.P.C.M. 13 aprile 2007, Costituzione del Comitato dei Ministri per l’indirizzo e la guida strategica in materia di tutela dei diritti umani (G. U. 20 giugno 2007, n. 141).