Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari sociali | ||||
Titolo: | Politiche per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva | ||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 208 | ||||
Data: | 14/12/2015 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | XII-Affari sociali |
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Politiche per la
tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva |
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n. 208 |
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14 dicembre 2015 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Affari sociali ( 066760-3266 – * st_affarisociali@camera.it - |
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La
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File:
AS0227.docx |
INDICE
§ Natalità della popolazione residente
§ Fecondità della popolazione residente
La Convenzione ONU sui diritti
dell’infanzia
-
Monitoraggio della Convenzione ONU
-
Il Garante per l’infanzia e
l’adolescenza
Risorse e quadro degli interventi
per i minori
§ Misure determinate dalla legge di stabilità 2015
-
Buoni per famiglie con 4 o più
figli
§ Misure proposte dal disegno di legge di stabilità 2016
(A.C. 3444)
-
Contributo economico da impiegare
per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l'infanzia
-
Fondo per il contrasto della
povertà educativa minorile
Programma nazionale infanzia e anziani
Servizi socio educativi per la
prima infanzia
§ I numeri e la diffusione territoriale
§ La delega contenuta nella “Buona scuola”
Comunità residenziali per minori
§ La concentrazione metropolitana dell'accoglienza
§ Le caratteristiche dei bambini e dei ragazzi accolti
§ I bambini e i ragazzi nei servizi residenziali
§ Proposte per la definizione di criteri e standard comuni
Inclusione scolastica degli
studenti con disabilità
§ Il diritto del minore ad una famiglia
§ La ratifica della Convenzione dell’Aja del 1996
§ I provvedimenti all’esame del Parlamento
-
L’accesso del figlio alle
informazioni sulle proprie origini
Il contrasto alla violenza su
minori
§ La prima indagine nazionale sul maltrattamento dei
bambini
§ La tutela (indiretta) dei minori nell’ambito del Piano
nazionale contro la violenza di genere
§ I provvedimenti all’esame del Parlamento per combattere
il cyberbullismo
§ Le fattispecie penali nel codice
§ La ratifica della Convenzione di Varsavia
§ Prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e
protezione delle vittime
§ Le analisi del Ministero della giustizia
La lotta allo sfruttamento sessuale
dei minori
I provvedimenti di riforma della
giustizia minorile all’esame del Parlamento
§ L’istituzione del tribunale della famiglia e della
persona
§ La delega per la riforma dell’esecuzione penale minorile
Lavoro minorile e apprendistato
§ I provvedimenti all’esame del Parlamento
I minori stranieri non accompagnati
-
Il Fondo per i minori stranieri non
accompagnati
-
La domanda di protezione
internazionale
-
Divieto di espulsione e rimpatrio
assistito
§ L’Accesso all’istruzione dei minori stranieri
-
Quadro normativo sul diritto
all’istruzione dei minori stranieri
-
Recenti interventi normativi per
l’istruzione degli alunni stranieri
-
Recenti iniziative per
l’integrazione degli alunni stranieri
-
I numeri degli alunni stranieri e
la loro provenienza
§ Acquisto della cittadinanza da parte dei minori stranieri
-
La proposta di riforma all’esame
del Parlamento
I minori nei programmi della Cooperazione italiana allo sviluppo
§ Attuazione delle
Linee guida e avvio della disciplina sulla cooperazione allo sviluppo
§ I nuovi scenari
internazionali
Il presente dossier fornisce un quadro generale delle politiche per la
tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva.
Oltre all’esposizione dei dati statistici
riguardanti la natalità e gli aspetti caratterizzanti la condizione dei minori
nel nostro Paese, vengono illustrati i provvedimenti normativi più
significativi adottati in tale ambito o all’esame del Parlamento.
Si tratta di un argomento che tocca diversi
settori di interesse, coinvolgendo misure di carattere socio-assistenziale,
scolastico ed educativo, di diritto del lavoro, norme di diritto civile, penale
ed amministrativo nonché il tema della cooperazione allo sviluppo.
Il dossier è stato redatto in occasione
dell’esame da parte della Commissione parlamentare per l’infanzia e
l’adolescenza dello schema del IV Piano nazionale di azione e di interventi per
la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva.
Il Piano nazionale di azione e di interventi
per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva c.d. Piano
Nazionale Infanzia (PNI) contiene le linee strategiche fondamentali e gli
impegni concreti che il Governo intende perseguire per sviluppare un’adeguata
politica per l’infanzia e l’adolescenza.
Il
PNI, previsto in Italia dalla Legge 451/1997 istitutiva della Commissione parlamentare per l'infanzia
e dell'Osservatorio nazionale per l'infanzia, individua le modalità di
finanziamento per la tutela dei diritti e degli interventi da esso previsti
nonché le forme di potenziamento e di coordinamento delle azioni svolte dalle
Regioni e dagli Enti Locali.
L’Osservatorio nazionale per l’infanzia e
l’adolescenza è l’organismo
competente a predisporre il contenuto del PNI. Le Amministrazioni centrali
dello Stato, le Regioni e gli Enti Locali si coordinano con l’Osservatorio
affinché venga adottata ogni misura volta a qualificare l’impegno finanziario
per perseguire le priorità e le azioni previste dal piano stesso.
La bozza del Quarto Piano nazionale di
azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in
età evolutiva, è stata approvata il 28 luglio 2015 dalla Plenaria
dell’Osservatorio Nazionale Infanzia alla presenza del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali.
Per il Quarto Piano di azione, il Governo ha
inteso valorizzare le indicazioni derivanti dalle Osservazioni
conclusive all’Italia da parte del Comitato Onu sui diritti del fanciullo - oltre
al monitoraggio del 7° e 8° report della CRC -, dagli esiti del monitoraggio
del Terzo Piano di azione e dalle priorità tematiche delineatesi nel corso
della IV
Conferenza nazionale sull’infanzia e l’adolescenza,
tenutasi nel marzo 2014, nonché dalle Raccomandazioni
della Commissione Parlamentare per l’infanzia
contenute nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla povertà e
sul disagio minorile.
Per il Quarto Piano di azione le priorità
tematiche individuate sono le seguenti: 1. Linee di azione a contrasto della povertà
dei bambini e delle famiglie;
2. Servizi socio educativi per la prima
infanzia e qualità del sistema scolastico;
3. Strategie e interventi per l’integrazione
scolastica e sociale;
4. Sostegno alla genitorialità, sistema
integrato dei servizi e sistema dell’accoglienza.
In relazione a ciascuna priorità tematica
sono stati poi individuati interventi/azioni riconducibili a:
·
interventi
di tipo legislativo, che impegnano Amministrazione centrali, Regioni e Province
autonome, ivi compreso circolari e direttive attuative;
·
interventi
di tipo amministrativo generale e/o programmatorio, di competenza delle
Amministrazioni centrali, delle Regioni/Province autonome e in taluni casi
degli Enti locali;
·
interventi
di natura operativa (progetti sperimentali, costituzione di tavoli di
coordinamento, ecc.), che impegnano Amministrazioni centrali, Regioni/Province
autonome, Enti locali e anche realtà del terzo settore.
La declinazione degli obiettivi in
azioni/interventi è avvenuta attraverso la compilazione di una scheda
articolata nei seguenti elementi:
Ø Obiettivo specifico, cui si riferisce la
scheda;
Ø Azione/Intervento, che descrive l’azione che
ci si propone di intraprendere per raggiungere l’obiettivo di riferimento;
Ø Soggetti coinvolti nel ruolo di promotori - collaboratori
- destinatari finali. Infatti, in relazione al livello territoriale cui si
riferisce ogni azione (nazionale, regionale, subregionale) i possibili soggetti
coinvolti (istituzionali e non) sono diversi;
Ø Tipologia degli interventi proposti per realizzare
l’obiettivo specifico;
Ø Risorse disponibili a livello statale per la
realizzazione degli interventi individuati. Sul punto, all’interno dello stesso
Piano si riconosce che, a livello centrale, la spesa sociale per l’area
minorenni e famiglia si attesta, nel 2012, all’1.3% del PIL. Pertanto, la quota
di spesa sociale riservata a famiglie e minorenni è la più bassa fra i maggiori
Paesi europei, infatti la Germania spende per minorenni e famiglie l’11,2%
della spesa sociale, la Francia il 7,9%, il Regno Unito 6,6% e la Spagna il
5,4%. Le risorse per il Piano sono dunque coincidenti con le dotazioni dei
Fondi dedicati e con le risorse a carico
degli ordinari stanziamenti di bilancio nei capitoli di previsione del MLPS, del MIUR, del MIBAC (ad esempio per
Incoraggiare la partecipazione di tutti i minorenni ad attività ludiche,
ricreative, sportive e culturali), del Ministero della Salute (ad esempio per
migliorare la reattività dei sistemi sanitari nel rispondere alle esigenze dei
minorenni svantaggiati) e con le risorse a carico degli ordinari stanziamenti
dei bilanci regionali e comunali (anche questi molto ridotti negli ultimi
anni).
Il Rapporto Istat Natalità e fecondità della popolazione residente evidenzia che nel 2013 sono stati iscritti in anagrafe, per nascita, 514.308 bambini, quasi 20 mila in meno rispetto al 2012. Il dato conferma che è in atto una nuova fase di riduzione della natalità: oltre 62 mila nascite in meno a partire dal 2008.
Conseguentemente, nel 2013 il numero medio di figli per donna scende a 1,39 (rispetto a 1,46 del 2010).
Per le italiane l'indicatore nel 2013 è pari a 1,29 figli donna, per le cittadine straniere a 2,10. Ancora più marcata la diminuzione delle nascite da entrambi i genitori italiani (-70 mila nell'ultimo quinquennio): conseguenza del fatto che le donne italiane in età feconda sono sempre meno numerose e fanno sempre meno figli. In lieve diminuzione per la prima volta anche i nati con almeno un genitore straniero (3.239 in meno rispetto al 2012), che ammontano a poco più di 104 mila nel 2013, pari al 20,2% del totale dei nati a livello medio nazionale (il 28% nel Nord e solo l'8% nel Mezzogiorno). Diminuiscono in particolare i nati con entrambi i genitori stranieri, scesi a 77.705 unità nel 2013, 2.189 in meno rispetto al 2012. In leggera flessione anche la loro quota sul totale delle nascite, pari al 15% nel 2013.
La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva.
Inoltre, l’analisi del fenomeno della denatalità nel nostro Paese evidenzia delle differenze territoriali, in quanto l’andamento delle nascite nelle tre aree geografiche - Nord (ovest ed est) Centro e Mezzogiorno (sud e isole) - vede dinamiche diverse. All’inizio degli anni ‘80 solo il Mezzogiorno era contraddistinto da un tasso di fecondità totale maggiore di 2 nati per donna. Gli ultimi venti anni sono stati caratterizzati da una inversione della geografia della fecondità: le regioni del Centro-Nord hanno raggiunto e superato quelle meridionali, interessate da un costante percorso di declino. Questa inversione è il risultato delle nascite nella popolazione straniera: una maggiore concentrazione della presenza di immigrati nel Nord, unita ad una più elevata fecondità degli stranieri, rappresentano una spiegazione del divario attualmente esistente; nel Nord il numero di nati da madri non italiane è pari al 28%, nel Centro si attesta al 23%, mentre nel Mezzogiorno non giunge nemmeno all’8%.
Sul territorio si conferma l’avvicinamento dei livelli di fecondità tra le regioni del Nord e del Centro (1,43 e 1,35 figli per donna) e quelle del Mezzogiorno (1,31 del nel 2014). Il numero medio di figli più elevato si registra tra le residenti nelle Province Autonome di Bolzano e Trento (rispettivamente1,74 e 1,54); seguono Valle d’Aosta (1,54) e Lombardia (1,46). Le differenze territoriali sono spiegate in larga misura dal diverso contributo delle donne straniere, che al Nord e al Centro è di gran lunga più rilevante non solo per la loro maggiore presenza ma anche per la loro più alta propensione ad avere figli. I livelli più elevati della fecondità delle donne straniere si registrano, infatti, tra le residenti al Nord-Ovest o al Nord-Est: rispettivamente 2,10 e 2,08 figli per donna (contro 1,29 e 1,28 delle residenti di cittadinanza italiana). Le straniere che risiedono al Centro e al Sud hanno in media un numero di figli più contenuto (1,8).
La fecondità rappresenta la propensione alla riproduzione di una popolazione. L’intensità della fecondità si misura rapportando le nascite alla popolazione femminile in età feconda, in modo da ottenere un indicatore sintetico, il numero medio di figli per donna (o TFT – Tasso di fecondità totale), che consente di monitorare l’evoluzione del fenomeno nel tempo e nello spazio.
Il documento Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente, stima che su 10 coppie il 20% circa (1 su 5 ) ha difficoltà a procreare per vie naturali; 20 anni fa la percentuale era circa la metà. Il 40% delle cause di infertilità riguardano prevalentemente la componente femminile, l’altro 40% riguarda la componente maschile ed un 20% invece è di natura mista. Importante è sottolineare che negli ultimi 30 anni l’età media al concepimento in ambo i sessi è aumentata di quasi 10 anni, sia per l’uomo che per la donna.
Dal 1995 - quando si è raggiunto il minimo storico di 1,19 figli
per donna - la fecondità è cresciuta
fino al 2010 (1,46 figli per donna) per poi sperimentare una nuova fase di
contrazione, tuttora in essere. Infatti nel 2014 le residenti in Italia hanno
avuto in media 1,39 figli per donna. Inoltre, la distribuzione delle nascite per età della madre consente di mettere
in luce lo spostamento della maternità verso età sempre più avanzate,
caratteristica molto evidente fra le madri di cittadinanza italiana. La
posticipazione delle nascite ha contribuito al forte abbassamento della
natalità osservato nel nostro Paese dalla seconda metà degli anni Settanta alla
prima metà degli anni Novanta. Successivamente si è registrato un parziale
recupero delle nascite precedentemente rinviate in particolare da parte delle baby-boomers, che si è tradotto in un
progressivo aumento delle nascite da madri con più di 35 anni, soprattutto al
Nord e al Centro.
Nel 2014 le donne hanno in media 31,5 anni alla nascita dei figli, oltre un anno e mezzo in più rispetto al 1995 (29,8), valore che sale a 32,1 anni per le sole madri di cittadinanza italiana.
Circa l’8% dei nati nel 2014 ha una madre di almeno 40 anni, mentre la proporzione dei nati da madri di età inferiore a 25 anni è pari al 10,7% nel 2014. Considerando le sole donne italiane, la posticipazione della maternità è ancora più accentuata: l’8,9% sono ultraquarantenni e solo l’8,5% ha meno di 25 anni. Il dato medio nazionale racchiude significative differenze territoriali: il calendario delle nascite è tradizionalmente anticipato nelle regioni del Mezzogiorno, dove le madri italiane al di sotto dei 25 anni sono in media il 12,5% (15,5% in Sicilia, 13,3% in Campania) mentre quelle con almeno 40 anni sono il 6,7%. I casi di particolare “invecchiamento” delle madri italiane si registrano in Liguria, in Toscana, nel Lazio e in Sardegna regioni in cui la percentuale dei nati da madri ultraquarantenni supera l’11%.
Nel maggio 2015, il Ministero della salute ha presentato il Piano nazionale per la fertilità .
Il Piano è stato preceduto dal lavoro del "Tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità" che ha documentato il profilo multidisciplinare del tema, delineando alcuni punti sostanziali per l’elaborazione di un Piano Nazionale per la Fertilità. Lo scopo è quello di collocare la Fertilità al centro delle politiche sanitarie ed educative del Paese con la consapevolezza che la salute riproduttiva è alla base del benessere fisico, psichico e relazionale dei cittadini.
Gli obiettivi del
Piano
Il Report Istat La povertà in Italia: anno 2014 evidenzia che nel 2014, 1 milione 470 mila famiglie (il 5,7% delle famiglie residenti) risultano in condizione di povertà assoluta in Italia, per un totale di 4 milioni e 102 mila individui (6,8% dell’intera popolazione). Tra le persone coinvolte, 1 milione 866 mila risiedono nel Mezzogiorno (l’incidenza è del 9%), 2 milioni 44 mila sono donne (l’incidenza è del 6,6%), 1 milione 45 mila sono minori (l’incidenza è del 10%), 857 mila hanno un’età compresa tra 18 e 34 anni (8,1%) e 590 mila sono anziani (l’incidenza è del 4,5%).
Livelli elevati di povertà assoluta si osservano per le famiglie con cinque o più componenti (16,4%), soprattutto se coppie con tre o più figli (16%) e famiglie di altra tipologia, con membri aggregati (11,5%); l’incidenza sale al 18,6% se in famiglia ci sono almeno tre figli minori e scende nelle famiglie di e con anziani (4% tra le famiglie con almeno due anziani)
Per quanto riguarda la povertà relativa, nel 2014, sono 2 milioni 654 mila le famiglie in condizione di povertà relativa (il 10,3% di quelle residenti), per un totale di 7 milioni 815 mila individui (il 12,9% dell’intera popolazione) , di cui 3 milioni 879 mila sono donne (l’incidenza è del 12,5%), 1 milione e 986 sono minori (19%) e 1 milione 281 mila anziani (9,8%). La povertà relativa risulta sostanzialmente stabile rispetto al 2013 (era al 10,4).
Lievi segnali di peggioramento si registrano per le famiglie con figli minori, in particolare con due figli (dal 15,6% sale al 18,5%), soprattutto nel Centro (dall’8,1% al 13,6%). Tali segnali si associano al peggioramento della condizione delle coppie con persona di riferimento con meno di 65 anni (dal 4,9% al 6,5%), a quello delle famiglie con a capo una persona almeno diplomata (dal 5% al 6,2%, nel Mezzogiorno dall’11% al 13,2%) e a quello delle coppie con un figlio (nel Nord dal 3,5% al 5,4%).
Inoltre, il 28% delle famiglie con cinque o più componenti risulta in condizione di povertà relativa, l’incidenza raggiunge il 36,8% fra quelle che risiedono nel Mezzogiorno. Si tratta per lo più di coppie con tre o più figli e di famiglie con membri aggregati, tipologie familiari tra le quali l’incidenza di povertà a livello nazionale è pari, rispettivamente, al 27,7% e al 19,2% (35,5% e 31% nel Mezzogiorno). Il disagio economico si fa più diffuso se all’interno della famiglia sono presenti figli minori: l’incidenza di povertà, pari al 14,0% tra le coppie con due figli e al 27,7% tra quelle che ne hanno almeno tre, sale, rispettivamente, al 18,5% e al 31,2% se i figli hanno meno di 18 anni. Il fenomeno, ancora una volta, è particolarmente evidente nel Mezzogiorno, dove è povero oltre il 40% delle famiglie con tre o più figli minori.
Sul punto si rinvia anche all’Atlante dell’infanzia a rischio a cura di Save the children che stima che in Italia il 25% dei minori è a rischio povertà: sono circa due milioni e mezzo i bambini e gli adolescenti che, come esemplificato nell'Atlante dell'Infanzia, soprattutto nelle regioni del Sud vivono in condizioni di deprivazione materiale e spesso anche culturale, sociale e relazionale. Mentre, un milione di bambini vivono in povertà assoluta.
La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC), approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 176/1991, è composta di 54 articoli ed è suddivisa in tre parti: la prima parte (articoli 1-41) contiene l’enunciazione dei diritti, la seconda (art. 42-45) individua organismi preposti e modalità per l’implementazione e il monitoraggio della Convenzione stessa e la terza (art. 46-54) descrive la procedura di ratifica.
Le procedure contenute nella seconda parte della Convenzione, oltre a garantire il rispetto e l’adempimento degli obblighi convenzionali, prevedono un sistema di monitoraggio basato sulla redazione di rapporti periodici da parte degli Stati contraenti e sotto il controllo del Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Il Comitato ONU ha individuato quattro principi generali, trasversali a tutti i principi espressi dalla CRC ed in grado di fornire un orientamento ai governi per la sua attuazione:
Il Comitato ONU verifica i progressi compiuti dagli Stati che hanno ratificato la CRC nell’attuazione dei diritti in essa sanciti, attraverso la presentazione e relativa discussione a Ginevra di Rapporti periodici governativi e dei Rapporti Supplementari delle Ong.
In Italia, il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Gruppo CRC) è un network di associazioni italiane che opera al fine di garantire un sistema di monitoraggio indipendente sull’attuazione della CRC e delle Osservazioni finali del Comitato ONU in Italia. Per garantire continuità al monitoraggio della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il Gruppo CRC elabora e pubblica ogni anno dei Rapporti di aggiornamento (Rapporti CRC). I Rapporti rappresentano il consuntivo del monitoraggio compiuto dal Gruppo CRC e vengono presentati pubblicamente alle istituzioni italiane ogni anno il 27 maggio, anniversario della ratifica della CRC in Italia. Il Rapporto CRC, attraverso le raccomandazioni poste alla fine di ogni paragrafo, fornisce alle istituzioni competenti indicazioni concrete per promuovere un cambiamento. A tal fine il Gruppo CRC organizza incontri di confronto con le istituzioni destinatarie delle raccomandazioni, a livello nazionale e regionale e audizioni in Parlamento presso la Commissione per l’infanzia e l’adolescenza.
Nel giugno 2015 il Gruppo CRC ha presentato l’8° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia, anno 2014-2015, i cui capitoli rispecchiano i raggruppamenti tematici degli articoli della CRC suggerita dal Comitato ONU nelle «Linee Guida per la redazione dei Rapporti Periodici» - i diritti civili e le libertà dei minori; l’ambiente familiare e le misure alternative; la salute e l’assistenza; l’educazione, il gioco e l’attività culturali; le misure speciali per la tutela dei minori.
L'8° Rapporto evidenzia che:
Rispetto al problema dei minori privi di un ambiente familiare, il Rapporto sottolinea che gli stessi dati forniti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali presentano lacune e incongruenze (sui dati del Ministero del lavoro e delle politiche sociali vedi infra il capitolo dedicato alle “Comunità residenziali per minori”). I dati stimano infatti che al 31 dicembre 2012 i minorenni affidati a parenti erano 6.750, quelli affidati a terzi 7.444, per un totale complessivo di 14.191 affidamenti familiari, e che i minori inseriti in comunità erano 14.255. Poco o nulla sappiamo però sulle cause dell’allontanamento dalla famiglia e sui motivi che hanno portato a scegliere l’accoglienza in comunità o l’affido, il tipo di struttura di accoglienza e i tempi di permanenza. Informazioni che mancano soprattutto per i minorenni tra 0 e 5 anni. A ciò si aggiunge che molte Regioni non forniscono i dati richiesti, come la Calabria che non ha aderito alla rilevazione, la Liguria e la Sardegna che hanno fornito dati discordanti rispetto ai criteri della rilevazione, l’Abruzzo che non ha inviato i dati sull’affidamento familiare. Ed è incomprensibile il divario tra i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e quelli del Dipartimento per la Giustizia Minorile sugli affidamenti familiari consensuali o giudiziari. Sempre in merito al sistema di raccolta dati, la Banca Dati Nazionale dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione è operativa soltanto in 11 Tribunali per i Minorenni sui 29 esistenti e ciò rende difficile garantire a ogni bambino la scelta della miglior famiglia, quantificare e monitorare la situazione dei piccoli che non vengono adottati nonostante le tante famiglie disponibili.
Il rapporto dedica poi un paragrafo ai minori stranieri non accompagnati (MSNA), tema di grande attualità considerati i numerosi sbarchi di questo periodo, rilevando la necessità di rendere subito operativo il nuovo sistema di accoglienza. Dal primo gennaio al 31 marzo 2015 sono sbarcati in Italia 10.165 migranti, di cui 902 minori (289 accompagnati e 613 non accompagnati), dato che a giugno è balzato a quasi 5.000 minori. Nel 2014, 26.122 minori hanno raggiunto le coste italiane e di questi 13.026 sono risultati essere non accompagnati, ovvero un numero pari a due volte e mezzo quello registrato nel 2013. Si tratta per la maggior parte di ragazzi tra i 15 ed i 17 anni, originari dell’Eritrea (3.394), dell’Egitto (2.007) e della Somalia (1.481). Va menzionato anche l’elevato flusso migratorio via mare dalla Siria: nel 2014 sono sbarcati 10.965 minori (10.020 accompagnati e 945 non accompagnati)..
L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza è stata istituita con Legge 112/2011 con il compito di assicurare la promozione e la piena tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, collaborando a tal fine con tutti i soggetti che, in ambito nazionale e internazionale, operano in questo settore. Il Garante inoltre, assicura, anche in Italia, la piena attuazione e la tutela dei diritti e degli interessi dei minori secondo le disposizioni della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Al funzionamento dell’Ufficio del Garante sono dedicati 1,471 milioni di euro nel 2016, 1,565 milioni nel 2017 e 0,915 milioni di euro nel 2018.
Le risorse impegnate a livello statale per le politiche rivolte all’infanzia e all’adolescenza non sono riconducibili ad un quadro unitario. Infatti, gli stanziamenti utilizzati per le azioni e gli interventi rivolti ai minori sono allocati in fondi diversi; ugualmente le misure previste dalle ultime stabilità non sono spesso riconducibili ad un unico centro di spesa e non si collocano in uno spazio temporale di medio o lungo periodo.
Inoltre, gli interventi e i servizi rivolti ai minori, oltre ad essere finanziati con risorse statali, sono anche sostenuti dagli enti territoriali e locali ai quali spetta, rispettivamente, la loro pianificazione ed erogazione. Conseguentemente, in assenza di livelli essenziali delle prestazioni in ambito sociale, la situazione si presenta diversa a seconda delle realtà territoriali o locali di riferimento.
Per questo, l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza ha recentemente presentato il documento Verso la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni per i bambini e gli adolescenti. La proposta è stata elaborata dal Tavolo di lavoro sui livelli essenziali promosso dall'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza su impulso della rete "Batti il Cinque!", con il coinvolgimento dei Garanti Regionali per l'infanzia e l'adolescenza, di altre associazioni e coordinamenti ed esperti sul tema. Il lavoro si è sviluppato a partire dal marzo 2013, riprendendo e approfondendo un lavoro posto in essere dal 2011 dalla rete "Batti il Cinque! . Il documento parte dalla situazione descritta nel 7° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia 2013-2014: mancanza di una strategia politica che definisca le modalità per garantire prestazioni ovunque e a tutti i soggetti da 0 a 18 anni, come stabilito in materia di diritti civili sia dalla Costituzione sia dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia; disparità di trattamento da regione a regione e in certi casi da zona a zona; impossibilità in alcuni territori di ricevere prestazioni garantite in altri; assenza di standard strutturali e di strumenti normativi.
Per una retrospettiva delle risorse stanziate per l’infanzia e l’adolescenza nel periodo 2007- 2015 si rinvia a: Conferenza delle regioni e delle province autonome, Centro interregionale studi e documentazione, Le risorse finanziarie per le politiche sociali anni 2007-2015, luglio 2015.
Di seguito un quadro riassuntivo delle risorse impegnate per l’infanzia e l’adolescenza dal disegno di legge di bilancio 2016-2018 A.C. 3445, tuttora all’esame delle Camere.
|
2016 |
2017 |
2018 |
Fondo nazionale per le politiche sociali |
312.589.741 |
312.553.204 |
313.918.592 |
Fondo nazionale infanzia e adolescenza |
28.794.000 |
28.794.000 |
28.794.000 |
Fondo per le politiche delle famiglia |
5.359.227 |
5.359.227 |
5.359.227 |
Fondo per le adozioni internazionali |
15.000.000 |
15.000.000 |
15.000.000 |
Fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non
accompagnati |
170.000.000 |
170.000.000 |
120.000.000 |
Politiche per le pari opportunità |
25.405.000 |
17.530.000 |
17.597.000 |
Fondo carta acquisti |
734.663.525 |
261.124.010 |
256.969.619 |
Si ricorda che la legge 285/1997 ha istituito il Fondo
nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, suddividendolo tra le Regioni (70%) e
le 15 Città riservatarie (30%). Successivamente, la legge finanziaria 2007
(legge 296/2006) ha disposto, all'articolo 1, comma 1258, che la dotazione del Fondo
fosse interamente destinata ai comuni
riservatari, e venisse determinata annualmente dalla Tabella C della legge
finanziaria. Oggi le 15 Città
riservatarie - Bari, Bologna, Brindisi, Cagliari, Catania, Firenze, Genova,
Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Taranto, Torino, Venezia -
rappresentano un laboratorio di sperimentazione in materia di infanzia e
adolescenza. Il trasferimento delle risorse avviene con vincolo di
destinazione, quindi i finanziamenti della legge 285 sono collegati alla
progettazione dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza[1]. Il
Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza ha registrato una forte
contrazione delle risorse da circa 40 milioni nel 2011 a meno di 29 nel 2016.
La legge di stabilità 2015 (legge 190/2014), ai commi da 125 a 129, ha previsto, per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2015 fino al 31 dicembre 2017, un assegno di importo annuo di 960 euro erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione. L'assegno – che non concorre alla formazione del reddito complessivo - è corrisposto fino al compimento del terzo anno d'età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell'adozione. Per poter ottenere il beneficio economico si richiede tuttavia la condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente sia in condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non superiore a 25.000 euro annui. L'importo dell'assegno di 960 euro annui è raddoppiato quando il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente è in una condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore ISEE non superiore ai 7.000 euro annui. L'assegno è corrisposto, a domanda, dall'INPS ai cittadini italiani, UE, e stranieri in possesso di permesso di soggiorno.
Per quanto riguarda le previsioni di bilancio recate dal disegno di legge di bilancio (A.C. 3445), il cap. 3543 Somme da corrispondere per l'assegnazione del bonus bebè nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali presenta una previsione assestata per il 2015 pari a 202 milioni di euro, che con una variazione in aumento di 405 milioni di euro si attesta a una previsione per il 2016 pari a 607 milioni. Le previsioni per il 2017 e il 2018 sono pari a 1.012,0 milioni di euro (A.C. 3445-Disegno di legge di bilancio 2016-2018).
Il comma 130 della legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) ha stanziato 45 milioni di euro, per la concessione di buoni per l'acquisto di beni e servizi a favore dei nuclei familiari con quattro o più figli e in una condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore ISEE non superiore a 8.500 euro annui e con un numero di figli minori pari o superiore a quattro. L’importo è stato stanziato per il solo 2015. Le risorse non sono state ancora utilizzate poiché non è stato emanato il regolamento che dovrà stabilire l'ammontare massimo del beneficio per nucleo familiare e le modalità attuative, relative all’erogazione del beneficio.
Nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze è allocato il cap. 2129 Fondo da destinare ad interventi per la famiglia istituito con una dotazione di 112 milioni di euro per l'anno 2015 dall’art. 1, co. 131, della legge di stabilità 2015 (legge 190/2014), da destinare a interventi in favore della famiglia, di cui una quota pari a 100 milioni di euro riservata per il rilancio del piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia (Piano asili nido) e una quota di 12 milioni destinata al Fondo per la distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti. Il capitolo presenta una previsione assestata per il 2015 pari a 112 milioni di euro. Dal 2016 viene soppresso per cessazione dell'onere.
Nella riunione della Conferenza Unificata del 7 maggio 2015 è stata siglata l’intesa sullo schema di DPCM recante "Piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia" dove sono stati ripartiti tra le Regioni e le Province autonome 100 milioni di euro per l'anno 2015. Il riparto è avvenuto per il 50% sulla base dei criteri utilizzati per il Piano Nidi del 2008 e per il 50% utilizzando i criteri del Fondo nazionale per le Politiche Sociali. Nell’ambito del riparto è stato condiviso di dedicare 5 milioni a favore delle Regioni del Sud non ricomprese tra le “Regioni obiettivo” in modo da favorire nelle stesse l’incremento dei servizi per la prima infanzia. Tra gli obiettivi previsti dal Piano si segnalano l’avvio di nuove strutture o l’ampliamento dei servizi di nido e micronido a titolarità pubblica con incremento del numero degli utenti presi in carico e l’estensione dei servizi di nido a titolarità pubblica attraverso un’apertura pomeridiana e nel periodo estivo (per il testo dell’Intesa e per la consistenza del Fondo per le politiche della Famiglia dal 2007 al 2015, si rinvia a Conferenza delle regioni e delle province autonome Centro interregionale studi e documentazione, Le risorse finanziarie per le politiche sociali anni 2007-2015, luglio 2015).
Il comma 156 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) dispone la proroga per il 2016 delle norme (di rango legislativo e secondario) già stabilite, in via sperimentale, per gli anni 2013-2015, relative alla possibilità, per la madre lavoratrice dipendente o titolare di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, di richiedere, in sostituzione, anche parziale, del congedo parentale, un contributo economico da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l'infanzia (erogati da soggetti pubblici o da soggetti privati accreditati). Il medesimo comma 156 riduce, per il 2016, nella misura di 10 milioni di euro il Fondo sociale per occupazione e formazione.
Il contributo è corrisposto nell'àmbito di un limite di spesa, pari, per l'anno 2016, a 20 milioni di euro; tale misura è identica a quella stabilita per ciascuno degli anni 2014 e 2015 dalle disposizioni attuative di cui al D.M. 28 ottobre 2014. Queste ultime prevedono che l'importo massimo del contributo sia pari a 600 euro mensili, attribuito, per una durata non superiore a sei mesi, sulla base di una graduatoria nazionale redatta dall'INPS mediante il criterio dell'ordine cronologico di presentazione delle domande (ovvero, in ipotesi, anche mediante gli altri criteri di cui all'art. 3 del citato D.M. 28 ottobre 2014).
Resta fermo che ad ogni quota mensile di contributo consegue la riduzione di un mese della durata massima del congedo parentale.
Il comma 208 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) istituisce, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Al Fondo sono assegnati 600 milioni di euro per il 2016 e 1.000 milioni di euro a decorrere dal 2017. Le risorse del Fondo costituiscono i limiti di spesa per garantire l'attuazione di un Piano nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione, adottato con cadenza triennale e attuano le disposizioni contenute nei commi da 208 a 212 del disegno di legge di stabilità 2016.
Per il 2016, le risorse stanziate, pari a 600 milioni di euro, sono ripartite nei seguenti interventi, considerati priorità del Piano nazionale (comma 209):
Carta acquisti
La Carta acquisti ordinaria, istituita dal decreto-legge 112/2008, è un
beneficio economico, pari a 40 euro mensili, caricato bimestralmente su una
carta di pagamento elettronico. La Carta acquisti è riconosciuta agli anziani
di età superiore o uguale ai 65 e ai bambini di età inferiore ai tre anni, se
in possesso di particolari requisiti economici che li collocano nella fascia di
bisogno assoluto. Inizialmente, potevano usufruire della Carta acquisti
ordinaria soltanto i cittadini italiani; la legge di stabilità 2014 (legge
147/2013) ha esteso la platea dei beneficiari anche ai cittadini di altri Stati
dell'Ue e ai cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo, purché in possesso dei requisiti sopra
ricordati. La Carta è utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e
sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche. Gli enti locali possono
aderire al programma Carta acquisti estendendone l'uso o aumentando il
beneficio a favore dei propri residenti.
L'articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha configurato una fase
sperimentale della Carta acquisti, prevedendone una sperimentazione, di durata
non superiore ai dodici mesi, nei comuni con più di 250.000 abitanti e
destinando alla fase di sperimentazione della Carta un ammontare di risorse con
un limite massimo di 50 milioni di euro, e ha ampliato immediatamente la platea
dei beneficiari anche ai cittadini degli altri Stati dell'Ue e ai cittadini
esteri titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.
È così nata la Carta acquisti sperimentale, anche definita Sostegno per
l'inclusione attiva (SIA) o Carta per l’inclusione. Le modalità attuative della
sperimentazione della SIA sono state indicate dal decreto 10 gennaio 2013 che
fra l'altro stabilisce i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari,
individuati per il tramite dei Comuni, e l'ammontare della disponibilità sulle
singole carte, calcolato secondo la grandezza del nucleo familiare. La SIA - il
cui importo varia da un minimo di 231 a un massimo di 404 euro mensili - è
rivolta esclusivamente ai nuclei familiari con minori e con un forte disagio
lavorativo. Il nucleo familiare beneficiario dell'intervento stipula un patto
di inclusione con i servizi sociali degli enti locali di riferimento, il cui
rispetto è condizione per la fruizione del beneficio. I servizi sociali si
impegnano a favorire, con servizi di accompagnamento, il processo di inclusione
lavorativa e di attivazione sociale di tutti i membri del nucleo.
L'articolo 3 del decreto-legge 76/2013 ha esteso la sperimentazione
della SIA, già prevista per le città di Napoli, Bari, Palermo e Catania dal
decreto legge 5/2012, ai restanti territori delle regioni del Mezzogiorno, nel
limite di 140 milioni per il 2014 e di 27 milioni per il 2015. Tali risorse
sono state stanziate a valere sulla riprogrammazione delle risorse del Fondo di
rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie, già destinate ai
Programmi operativi 2007-2013 (cioè della quota di cofinanziamento nazionale
dei fondi strutturali), nonché mediante la rimodulazione delle risorse del
medesimo Fondo di rotazione già destinate agli interventi del Piano di Azione
Coesione. L'estensione della sperimentazione della SIA deve essere realizzata
nelle forme e secondo le modalità stabilite dal decreto interministeriale 10 gennaio 2013.
Sul ritardo nell'attivazione della sperimentazione della Carta acquisti
sperimentale-SIA, si rinvia alla risposta del Governo, in data 8 ottobre 2015, all’interrogazione 5-06598.
L'articolo 1, comma 216, della legge di stabilità 2014 (legge 147/2013)
ha previsto per il 2014 uno stanziamento per la Carta acquisti ordinaria pari a
250 milioni di euro e un distinto stanziamento di 40 milioni per ciascuno degli
anni del triennio 2014-2016 per la progressiva estensione su tutto il
territorio nazionale, non già coperto, della sperimentazione della SIA. La
stessa legge di stabilità 2014 ha previsto inoltre la possibilità - in presenza
di risorse disponibili, in relazione all'effettivo numero dei beneficiari - di
utilizzare le risorse rimanenti dei 250 milioni assegnati come stanziamento
alla Carta acquisti ordinaria, per l'estensione della sperimentazione della
SIA.
Infine, la legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) ha stabilito un
finanziamento a regime di 250 milioni di euro annui, a decorrere dal 2015, sul
Fondo Carta acquisti.
Le risorse utilizzate per la Carta acquisti e la SIA sono stanziate sul
Fondo Carta acquisti istituito nello stato di previsione del MEF (capitolo 1639).
Il comma 210 finalizza i 1.000 milioni di euro stanziati a regime, per gli anni successivi al 2016, all’introduzione di un’unica misura nazionale di contrasto alla povertà - correlata (come specificato nel corso dell’esame al Senato) alla differenza tra il reddito familiare del beneficiario e la soglia di povertà assoluta - nonché alla razionalizzazione degli strumenti e dei trattamenti esistenti.
Il comma 211 stabilisce che, a decorrere dal 2016, confluiscono nel Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali, nella misura di 54 milioni di euro annui. Per il 2016 tali risorse sono destinate all’avvio su tutto il territorio nazionale della misura di contrasto alla povertà, intesa come estensione, rafforzamento e consolidamento della Carta acquisti sperimentale.
Il comma 212 abroga i commi da 51 a 53 dell’articolo 2 della legge 92/2012, n. 92, relativi all’indennità una tantum dei lavoratori a progetto.
Per quanto riguarda le previsioni di bilancio recate dal disegno di legge di bilancio (a.C. 3445), il cap. 1639 Fondo speciale destinato al soddisfacimento delle esigenze prioritariamente di natura alimentare (Fondo Carta acquisti), registra previsioni assestate per il 2015 pari a circa 299,7 milioni di euro. Le previsioni per il 2016 registrano uno stanziamento di previsione pari a 300,7 milioni di euro (con una variazione in aumento pari a 0,9 milioni di euro), di cui: 10,7 milioni di cui al decreto legge 112/2008 art. 81 c. 29 (istituzione Fondo Carta acquisti); 40 milioni di cui alla legge di stabilità 2014 art. 1 c. 216 (legge 147/2013 - progressiva estensione su tutto il territorio nazionale, non già coperto, della sperimentazione della SIA - solo per il 2016); 250 milioni di cui alla legge di stabilità per il 2015 art. 1 c. 156 (incremento annuale a regime del Fondo Carta acquisti). Per gli anni 2017e 2018 risulta uno stanziamento pari a 261,1 milioni di euro di cui 250 milioni derivanti dall’incremento a regime previsto dalla stabilità 2015. Con la 1° Nota di Variazione il Fondo Carta acquisti ha registrato un incremento di 434 milioni, per cui le previsioni del cap. 1639 si attestano a 734,6 milioni di euro. Per il 2017 il cap. 1639 presenta una previsione pari a 261,1 milioni di euro, e per il 2018 a 257 milioni di euro circa.
I commi da 213 a 216 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) istituiscono un Fondo sperimentale per il contrasto della povertà educativa minorile alimentato da versamenti effettuati dalle fondazioni bancarie. Alle fondazioni è riconosciuto un credito d’imposta, pari al 75 per cento di quanto versato, fino ad esaurimento delle risorse disponibili, pari a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018. Le relative modalità di intervento sono rinviate ad un protocollo d’intesa tra le fondazioni, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Il comma 214 prevede la stipula di un protocollo d’intesa tra le fondazioni bancarie, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, volto a definire:
§ le modalità di intervento per il contrasto alla povertà educativa, con particolare riguardo a progetti ed attività educativi rivolti ai minori inseriti nel circuito giudiziario (specificazione inserita nel corso dell’esame al Senato);
§ le caratteristiche dei progetti da finanziare;
§ le modalità di valutazione, selezione (anche con il ricorso a valutatori indipendenti) e monitoraggio dei progetti, al fine di assicurare la trasparenza, il migliore utilizzo delle risorse e l’efficacia degli interventi;
§ le modalità di organizzazione e governo del Fondo.
Il comma 215 prevede, a favore delle fondazioni che abbiano effettuato un versamento nel Fondo, il riconoscimento di un credito d’imposta, pari al 75 per cento di quanto versato, fino ad esaurimento delle risorse disponibili, pari a 100 milioni di euro per gli anni 2016, 2017 e 2018, secondo l’ordine temporale in cui le fondazioni comunicano l’impegno a finanziare i progetti individuati con il protocollo d’intesa citato.
Il comma 224 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444), non modificato al Senato, istituisce, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, un autonomo Fondo per le adozioni internazionali, dotato di 15 milioni annui, a decorrere dal 2016. Il Fondo per le politiche per la famiglia – presso il quale le risorse per il sostegno a tali adozioni erano finora appostate – viene conseguentemente ridotto di pari entità dal comma 225. La gestione del Fondo per le adozioni internazionali è assegnata al segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Per coordinamento, il comma 226 elimina dalle finalizzazioni del Fondo per le politiche della famiglia, previste dalla legge finanziaria 2007, il sostegno alle adozioni internazionali e alla relativa Commissione.
In particolare, la
finalizzazione delle risorse del Fondo
per le adozioni internazionali, istituito con il comma 224, riguarda il sostegno alle politiche sulle adozioni internazionali
ed il funzionamento della relativa Commissione.
La Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI) presso la Presidenza del Consiglio è l'autorità centrale del nostro Paese in materia di adozioni internazionali e garantisce che le adozioni di bambini stranieri avvengano nel rispetto dei principi stabiliti dalla Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale.
Si ricorda che il precedente analogo Fondo (v. ultra) aveva come unica finalità il rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione del minore straniero.
Il Fondo per le adozioni internazionali dovrà essere trasferito al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio e, nelle more del processo di riorganizzazione della Presidenza previsto dalla legge n. 124 del 2015 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), le relative risorse saranno gestite dal Segretariato generale della stessa Presidenza.
Si ricorda che già la legge 311 del 2004 (L. finanziaria 2005) aveva istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un Fondo per il sostegno delle adozioni internazionali, finalizzato al rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione disciplinata dalla legge 184 del 1983 (art. 1, comma 152). Il Fondo aveva una dotazione per il 2005 di 10 milioni di euro. Con D.P.C.M. 28 giugno 2005 furono stabiliti i limiti di reddito per l’accesso al Fondo, le modalità di presentazione delle domande nonché l’ammontare delle spese rimborsabili.
Successivamente, le risorse per le adozioni internazionali sono confluite nel Fondo per le Politiche della Famiglia, istituito dall’art. 19, comma 1 del decreto legge 223 del 2006. L’art. 1, comma 1250, della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006), incrementando di 210 mln di euro il Fondo per le politiche della famiglia, aveva esplicitamente previsto tra le sue finalità il sostegno delle adozioni internazionali nonché il pieno funzionamento della Commissione per le adozioni internazionali.
L’ultima legge di stabilità (L. 190 del 2014 - L. stabilità 2015) ha previsto per il Fondo per le politiche della famiglia un incremento di 5 milioni di euro dal 2015 al fine di sostenere le adozioni internazionali. (art. 1, co. 132).
Per coordinamento, il comma 225 prevede che il Fondo per le politiche per la famiglia venga conseguentemente ridotto di pari entità (15 milioni).
Analogamente, il comma 226 elimina dalle finalizzazioni del Fondo per le politiche per la famiglia previste dal citato articolo 1, comma 1250, della legge finanziaria 2007 lo scopo di sostenere le adozioni internazionali e garantire il pieno funzionamento della relativa Commissione.
I commi da 87 a 95 del disegno di legge di stabilità, al fine di dare impulso allo sviluppo del welfare aziendale, prevedono che determinati benefici (servizi di assistenza ad anziani, servizi di istruzione, ecc.), definiti attraverso la contrattazione aziendale ed erogabili dal datore di lavoro anche sotto forma di voucher spendibili sul mercato, godano di un trattamento fiscale molto favorevole.
Il Programma nazionale infanzia e anziani, che si colloca nell'ambito del Piano d'azione Coesione (PAC), ha una durata triennale, dal 2013 al 2015, prorogata al giugno 2017. La sua attuazione è stata affidata al Ministero dell'Interno, individuato quale Autorità di Gestione responsabile. Le risorse stanziate sono destinate alle 4 regioni ricomprese nell'obiettivo europeo "Convergenza": Calabria, Campania, Puglia, Sicilia.
La strategia del programma è quella di mettere in campo un intervento aggiuntivo rispetto alle risorse già disponibili. Di conseguenza, i beneficiari naturali del programma sono i comuni, perché soggetti responsabili dell'erogazione dei servizi di cura sul territorio. L'obiettivo è quello di potenziare nei territori ricompresi nelle 4 regioni l'offerta dei servizi all'infanzia (0-3 anni) e agli anziani non autosufficienti (over 65), riducendo l'attuale divario "offerta" rispetto al resto del Paese.
Per i servizi alla prima infanzia (bambini 0-3 anni) sono individuati i seguenti obiettivi:
· aumento strutturale dell’offerta di servizi. Espandere l’offerta di posti in asili nido pubblici o convenzionati e nei servizi integrativi e innovativi (SII) fino alla copertura nel 2015 di almeno il 12% della domanda potenziale;
· estensione della copertura territoriale per soddisfare bisogni e domanda di servizi oggi disattesi, attivando strutture e servizi nelle aree ad oggi sprovviste;
· sostegno alla domanda, alla gestione e accelerazione dell’entrata in funzione delle nuove strutture, per la sostenibilità degli attuali e futuri livelli di servizio, sostenendo la transizione verso un sistema integrato di offerta pubblica e privata verso un efficace ed efficiente funzionamento a regime;
· miglioramento della qualità e della gestione dei servizi socioeducativi. Sostenere la crescita qualitativa dei percorsi di apprendimento ampliando la funzione socioeducativa degli asili nelle comunità dove operano. Aumentare l’efficienza operativa, gestionale e finanziaria del sistema di servizi pubblici, ed il progressivo incremento nei rapporti con un’offerta privata.
La dotazione finanziaria di 730 milioni (400 per i servizi di cura all'infanzia e 330 agli anziani non autosufficienti) con la legge di Stabilità 2015 (commi 122 e 123 dell'articolo 1 della legge 190/2014 che assegnano al finanziamento degli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato l'importo complessivo di 3,5 miliardi di euro a valere sulle risorse già destinate ad interventi PAC ) ha subito un taglio di oltre 102 milioni di euro, cosicché la dotazione attuale ammonta a circa 627 milioni di euro.
Il decreto del MEF 5 agosto 2015, Rideterminazione del finanziamento a carico del Fondo di rotazione di cui alla legge n. 183/1987 per l'attuazione degli interventi previsti dal Piano di Azione Coesione del Ministero dell'interno - Programma nazionale servizi di cura all'infanzia e agli anziani (PNSCIA) (Decreto n. 29/2015 pubblicato sulla G.U. n.216 del 17-9-2015), ha rideterminato in euro 627.636.020,00 il finanziamento a carico del Fondo di rotazione in favore degli interventi del Programma Nazionale Servizi di Cura all'Infanzia e agli Anziani (PNSCIA) del Piano di Azione Coesione del Ministero dell'interno.
Si ricorda infine, che il Ministero dell'Interno con un comunicato, pubblicato sulla G.U. n. 207 del 7 settembre 2015, ha segnalato che, con decreto n.5047/PAC del 6 agosto 2015, sono state stanziate risorse finanziarie pari a 2,5 milioni di euro destinate ad assicurare assistenza tecnica specialistica agli Ambiti/Distretti socio-sanitari e socio-assistenziali per le attività di monitoraggio e rendicontazione dei Piani di intervento infanzia e anziani.
La pubblicazione dell’Istat L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia stima che nell’anno scolastico 2012/2013 sono 149.647 i bambini di età tra zero e due anni iscritti agli asili nido comunali; altri 43.513 usufruiscono di asili nido privati convenzionati o con contributi da parte dei Comuni. Ammontano così a 193.160 gli utenti dell’offerta pubblica complessiva.
Gli asili nido e gli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia (servizi integrativi) assorbono circa il 18% delle risorse dedicate dai Comuni al welfare locale e il 46% della spesa rivolta all’area di utenza “famiglia e minori”. Nel 2012, la spesa complessiva per i servizi socio-educativi , al netto delle quote pagate dalle famiglie, è stata pari a 1 miliardo e 297 milioni di euro, quasi un milione e 600 mila euro in più rispetto all’anno precedente. Il 97% della spesa è stata assorbita dai servizi di asilo nido e il rimanente 3% dai servizi integrativi. Nel 2012 la spesa per i servizi integrativi risulta in calo rispetto all’anno precedente (- 16,5 milioni di euro), mentre la spesa rivolta agli asili nido presenta un aumento di circa 18 milioni di euro, pari all’1,5%.
Nell’anno scolastico 2012/2013 l’1,1% dei bambini tra zero e due anni (circa 20 mila) ha usufruito dei servizi integrativi per la prima infanzia. Tale quota risulta in diminuzione nel corso degli ultimi tre anni di osservazione.
Sommando gli utenti degli asili nido e dei servizi integrativi, sono 210.335 i bambini che si avvalgono di un servizio socio-educativo pubblico o finanziato dai Comuni, l’8,3% in meno rispetto all’anno scolastico precedente. Il calo degli utenti è più accentuato per i servizi integrativi per la prima infanzia (circa 10.700 bambini in meno rispetto al 2011/2012), più contenuta la diminuzione degli utenti per gli asili nido (circa 8.400 bambini in meno).
Fra il 2004 e il 2012 la spesa corrente per asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, ha subito un incremento complessivo del 49%. Nello stesso periodo è aumentato del 32% (circa 47 mila unità) il numero di bambini iscritti agli asili nido comunali o sovvenzionati dai Comuni.
Nel 2011, per la prima volta dal 2004, si ha un decremento del numero di bambini beneficiari dell’offerta comunale di asili nido (-0,04% nel 2011) confermato anche nel 2012 (-4,2%). Nel 2012/2013 sono in calo soprattutto le iscrizioni agli asili nido comunali (circa 5.700 utenti in meno rispetto all’anno precedente) e in misura più contenuta i contributi dei Comuni ai nidi privati o alle famiglie (circa 2.600 bambini in meno).
La percentuale di Comuni che offrono il servizio di asilo nido, sia sotto forma di strutture che di trasferimenti alle famiglie per la fruizione di servizi privati, è passata dal 32,8% del 2003/2004 al 52,7% del 2012/2013. Forti le differenze territoriali: i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5% dei residenti fra 0 e 2 anni al Sud al 17,3% al Centro. La percentuale dei Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 22,7% al Sud all’81,9% al Nord-est.
A legislazione vigente, il sistema dei servizi socio educativi per la prima infanzia vede la compresenza istituzionale dei diversi livelli di governo - Stato, Regioni, Enti locali – secondo un quadro di competenze normative ed amministrative che impongono meccanismi di rapporti e raccordi ispirati alla leale cooperazione e nel quale il ruolo maggiormente incisivo è rivestito dai comuni.
Il sistema, scaturito dalla riforma costituzionale del 2001, attribuisce allo Stato compiti di programmazione, indirizzo e coordinamento del sistema integrato; di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni educative; della determinazione e assegnazione delle risorse a carico del bilancio statale; di determinazione dei criteri di valutazione dell’offerta educativa e delle prestazioni dei sistema integrato.
Le regioni, che ripartiscono agli enti locali le risorse statali, hanno invece compiti di programmazione regionale; di determinazione degli standard relativi alle modalità organizzative di funzionamento dei nidi e dei servizi integrativi; di definizione dei requisiti qualitativi per l’accreditamento e per l’autorizzazione al funzionamento dei servizi socio educativi.
I comuni, infine, sono responsabili, nel loro territorio, di: programmare e attuare lo sviluppo del sistema integrato; autorizzare e accreditare i soggetti privati incaricati di gestire i servizi per la prima infanzia; favorire la continuità dei servizi socio educativi per la prima infanzia con la scuola dell’infanzia.
Il nuovo Titolo V
Il riparto di competenza legislativa
nel nuovo Titolo V (previsto dall'articolo 31 dell’A.C. 2613-B cost., che riscrive
l'articolo 117 della Costituzione, in tema di riparto di competenza legislativa
e regolamentare tra Stato e Regioni), modifica il catalogo delle materie e
sopprime la competenza concorrente, con una redistribuzione delle materie tra
competenza esclusiva statale e competenza regionale. Inoltre, nell'ambito della
competenza esclusiva statale introduce materie nuove e enuclea casi di
competenza esclusiva in cui l'intervento del legislatore statale è circoscritto
ad ambiti determinati (quali «disposizioni generali e comuni» o «disposizioni
di principio»). In particolare, l'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, come riscritto
dall’art. 31 dell’A.C. 2613-B cost., attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato
la competenza per quanto riguarda l'adozione di «disposizioni generali e comuni
per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza
alimentare» e lascia invece alle Regioni la potestà legislativa in materia di
programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali. Si ricorda
infine che l'art. 30 dell’A.C. 2613-B cost., che modifica
l'articolo 116 della Costituzione assoggetta al cosiddetto «regionalismo
differenziato» anche le «disposizioni generali e comuni per le politiche
sociali». Al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma,
della Costituzione, come novellato dall'articolo 30, è prevista la possibilità
di attribuire, con legge dello Stato, ulteriori forme e condizioni particolari
di autonomia, concernenti alcune delle materie richiamate dall'articolo 117,
secondo comma, a regioni diverse da quelle a statuto speciale, anche su
richiesta delle stesse, purché la regione sia in condizione di equilibrio tra
le entrate e le spese del proprio bilancio.
(Sul punto il parere della
Commissione XII della Camera).
In base alla normativa vigente (art. 70 della legge n. 448/2001) tra le competenze degli enti locali rientrano quelle relative agli asili nido, quali strutture volte a garantire la formazione e la socializzazione dei bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre anni di età, sostenendo al contempo le loro famiglie.
In base all’art. 6 del decreto-legge 55/1983 (L. 131/1983), gli asili nido rientrano tra le categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale, successivamente individuati dal DM 31 dicembre 1983. Per essi è prevista una contribuzione degli utenti a carattere non generalizzato non inferiore al 50 per cento del costo, definita mediante tariffe che possono essere differenziate dai singoli Comuni con adeguate motivazioni di carattere sociale. La determinazione della misura deve essere inoltre valutata in relazione all’esigenza di assicurare l’equilibrio economico-finanziario del bilancio, contemperando tale principio con la funzione sociale assolta dagli asili nido. Il Consiglio di Stato (Sent. n. 4362 del 31 luglio 2012) ha sancito il divieto di intervento sulle tariffe degli asili nido da parte dei comuni, nel corso dell'anno scolastico di frequenza, anche in caso di diminuzione delle entrate, in quanto lesiva del principio del legittimo affidamento.
Allo stato attuale, le rette sono determinate nel 75 per cento dei casi in base all’ISEE, nel 20 per cento dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5 per cento la retta è unica.
L’indagine di Cittadinanzattiva sugli asili nido comunali ha rilevato che, nel 2014, in Italia l’asilo nido costa mediamente 309 euro al mese, con notevoli differenze territoriali fra nord, centro e sud. Il costo medio rappresenta il 12% delle uscite mensili di una famiglia tipo. Gli asili più costosi sono al nord (380 euro) seguiti dal centro (322 euro) e infine dal sud (219 euro). La regione più economica è la Calabria con una tariffa media mensile di 139 euro, la più costosa la Valle D’Aosta con in media 432 euro. Fra le province il primato dei costi più alti spetta a Lecco con 515 euro al mese, mentre Vibo Valentia è la più economica con 120 euro mensili.
Per i Comuni è prevista inoltre la possibilità di attivare, in base all’art. 1, co. 630, della legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006), previo accordo in Conferenza unificata Stato-Regioni e autonomie locali, specifici servizi educativi per i bambini dai 24 ai 36 mesi, che fanno riferimento a progetti sperimentali di ampliamento qualificato dell’offerta formativa nell’ambito della scuola dell’infanzia (cd. sezioni primavera). L’art. 2, co. 3, del DPR n. 89/2009, che ha rivisto l'assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione, ha disposto la prosecuzione degli interventi relativi alle sezioni primavera allo scopo di coordinare l’istituto degli anticipi scolastici, favorendo in tal modo un’effettiva continuità del percorso formativo da 0 a 6 anni. Tali sezioni possono essere attivate non solo nelle scuole dell’infanzia statali e non statali, tra cui quelle comunali, ma anche negli asili nido gestiti direttamente dai Comuni o da soggetti in convenzione con i Comuni ovvero da questi appositamente organizzati.
La L. 1044/1971 ha riconosciuto come “servizio sociale di interesse pubblico” l'assistenza prestata negli asili nido ai bambini fino ai tre anni di età. In seguito, la L. 285/1997 ha incluso tra gli interventi finanziabili “l’innovazione e la sperimentazione di servizi socio-educativi per la prima infanzia”, non sostitutivi degli asili nido, ovvero servizi che presuppongono la presenza continua di genitori, che siano privi di mensa e non prevedano il riposo pomeridiano, servizi autorganizzati dalle famiglie, dalle associazioni e dai gruppi.
Successivamente, il Piano straordinario per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, varato con la legge finanziaria 2007 (art. 1, co. 1259, della L. 296/2006), ha previsto un finanziamento statale, nel triennio 2007-2009, pari ad € 446 mln per l'incremento dei posti disponibili nei servizi per i bambini da 0 a 3 anni, a cui si sono aggiunti circa € 281 mln di cofinanziamento regionale. Tale Piano è stato rilanciato con l’art. 1, co. 131, della legge di stabilità 2015 (L. 190/2014), che vi ha destinato 100 milioni di euro per il 2015.
Nel predisposizione del citato Piano straordinario, l’intesa in Conferenza unificata del 26 settembre 2007, ha individuato quali iniziali livelli essenziali di assistenza la copertura media nazionale della domanda al 13% e, in ciascuna regione, in percentuale non inferiore al 6%, sottolineando la necessità di assicurare il livello di copertura territoriale in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, anche in vista del raggiungimento dell’obiettivo di copertura territoriale fissato al 33% dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.
Contestualmente, è
stato predisposto dalla stessa Intesa del 2007 l’avvio di un’attività di
monitoraggio quantitativo, qualitativo e amministrativo contabile al quale
partecipano, fra l’altro, le regioni, il Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per
l’Infanzia e l’Adolescenza,
presso l’Istituto degli Innocenti a Firenze e l’ISTAT, che cura la
pubblicazione L’offerta
comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia.
Per mettere in moto il processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per la prima infanzia, l’intesa in Conferenza unificata del 26 settembre 2007, nel varare il Piano straordinario, ha individuato quali iniziali livelli essenziali di assistenza: la copertura media nazionale della domanda al 13% e, in ciascuna Regione, in percentuale non inferiore al 6%. Con i finanziamenti, l’intesa ha dato l’avvio a una rete “integrata, estesa, qualificata e differenziata” dei servizi socio educativi per la prima infanzia - asili nido, servizi integrativi e servizi innovativi nei luoghi di lavoro -, in grado di promuovere il benessere e lo sviluppo sociale ed educativo dei bambini, di sostenere il ruolo genitoriale e la conciliazione dei tempi di lavoro e di cura. A questo proposito, l’Intesa sottolinea la necessità di assicurare il livello di copertura territoriale della domanda in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, anche in vista del raggiungimento dell’obiettivo di copertura territoriale fissato al 33% dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.
Ai fini della valutazione del livello di attuazione del Piano Straordinario, l’Intesa del 2007 ha predisposto l’avvio di un’attività di monitoraggio quantitativo, qualitativo e amministrativo contabile al quale partecipano, fra l’altro, le Regioni, il Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, presso l’Istituto degli Innocenti a Firenze, e l’ISTAT.
Nel corso degli anni, il monitoraggio ha fotografato l’ampio divario tra le regioni - sia in termini di spesa che di utenti -, nell’offerta pubblica di asili nido. Ancora nell’anno scolastico 2012/2013, come rilevato dall’Istat nella pubblicazione L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,6% dei residenti fra 0 e 2 anni al Sud al 17,5% al Centro. La percentuale dei Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 22,5% al Sud all’76,3% al Nord-est.
In relazione alle specifiche difficoltà delle Regioni del Sud, sono state destinate maggiori risorse statali proprio a Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, grazie al programma di intervento straordinario PAC - Piano d’Azione e Coesione per i Servizi di cura all’Infanzia e agli Anziani non autosufficienti (v. supra)- a cui hanno partecipato il Dipartimento per le politiche della famiglia ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e la cui attuazione è stata affidata al Ministero dell'Interno, individuato quale autorità di gestione responsabile (al Piano di Azione/Coesione e al contributo e alle azioni strategiche della programmazione 2014/20 è dedicato un capitolo del Rapporto di monitoraggio del Piano nidi al 31 dicembre 2013, che restituisce una fotografia aggiornata sullo sviluppo dei servizi educativi per la prima infanzia e propone alcuni contributi di approfondimento sulle prospettive di riforma).
I Livelli essenziali delle prestazioni sociali,
previsti dalla Legge quadro 328/2000 per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali, sono stati pensati come strumento attuativo
del sistema integrato dei servizi. Nel sistema multilivello di finanziamento
delle politiche sociali - a cui concorrono Stato, regioni e comuni -, i livelli
essenziali delle prestazioni sociali avrebbero infatti dovuto garantire standard nazionali comuni (i
diritti esigibili). Sebbene molto attesi, anche per il ruolo che dovrebbero
ricoprire nel processo di attuazione del federalismo fiscale, i livelli
essenziali di assistenza non sono stati ancora definiti. Il CNEL, nella recente
relazione annuale “I livelli e la
qualità dei servizi offerti dalle Pubbliche amministrazioni centrali e locali
alle imprese e ai cittadini”, che dedica ampio spazio ai servizi educativi,
ricorda gli sforzi compiuti in tale direzione anche dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza.
Proprio per
la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni
sociali e per la mancanza di una classificazione e di una definizione dei
servizi sociali, nel 2006
nasce l'idea di un Nomenclatore dei servizi e degli interventi sociali. Nel 2009, il
Nomenclatore viene proposto quale strumento di mappatura degli interventi e dei
servizi sociali regionali, rendendo possibile il confronto su voci omogenee tra
i diversi sistemi di welfare regionali. Il Nomenclatore ha costituito
anche la base di riferimento per il Glossario utilizzato dall'Istat nella
rilevazione sugli "Interventi e servizi sociali dei comuni singoli e
associati". Nel 2012, nell’ambito di una convenzione tra
la Regione Liguria e il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, è stato
avviato un progetto finalizzato, da un lato, all’aggiornamento del
Nomenclatore, anche ai fini di un suo utilizzo condiviso nella definizione dei
livelli essenziali delle prestazioni sociali, e, dall’altro, alla sua massima
diffusione in ambito regionale e sub-regionale. I risultati prodotti non sono ancora approvati ufficialmente e
quindi alla data attuale non sono pubblicati,
ma fra alcune delle modifiche più significative sono comprese anche
quelle relative ai servizi per la prima infanzia per cui si sono recuperate le
tipologie emerse dal Monitoraggio del Piano di sviluppo dei servizi socio
educativi per la prima infanzia del Centro nazionale di documentazione e
analisi per l’infanzia e l’adolescenza (vedi supra).
Nel Nomenclatore dei servizi e degli interventi
sociali del 2009, fra gli interventi e i
servizi individuati per l’area di utenza riconducibile ai minori troviamo come trasferimenti monetari:
·
Retta per asilo
nido, quale intervento per garantire all'utente in difficoltà economica la
copertura della retta per asili nido. Sono compresi i contributi erogati per la
gestione dei servizi al fine di contenere l'importo delle rette;
·
Retta per servizi
integrativi o innovativi per la prima infanzia, quale intervento per garantire
all'utente in difficoltà economica la copertura della retta per i servizi
integrativi;
·
Contributi
economici per il servizi scolastici, quale sostegno economico per garantire
all'utente in difficoltà economica il diritto allo studio nell'infanzia e
nell'adolescenza, comprese le agevolazioni su trasporto e mensa scolastica
riconosciute alle famiglie bisognose.
Fra le strutture semiresidenziali rivolte ai minori
sono individuati:
·
Asili nido quale
servizio rivolto alla prima infanzia (0-3 anni) per promuovere lo sviluppo
psico-fisico, cognitivo, affettivo e sociale del bambino e offrire sostegno
alle famiglie nel loro compito educativo, aperto per almeno 5 giorni e almeno 6
ore al giorno per un periodo di almeno 10 mesi all'anno. Rientrano sotto questa
tipologia gli asili nido pubblici, gli asili nido aziendali e i micro-nidi e le
sezioni 24-36 mesi aggregate alle scuole dell'infanzia;
·
Servizi
integrativi per la prima infanzia: in questa categoria rientrano i servizi socio-educativi per la prima infanzia
innovativi e sperimentali previsti dall'art. 5 della legge 285/1997 Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia
e l'adolescenza e i servizi educativi realizzati in contesto
familiare. In particolare: spazi gioco per bambini dai 18 ai 36 mesi (per max 5
ore); centri per bambini e famiglie; servizi e interventi educativi in contesto
domiciliare.
Nell’ambito del processo di attuazione del federalismo fiscale, all’interno di un processo volto a garantire una migliore allocazione delle risorse pubbliche, maggiore trasparenza del flusso dei trasferimenti, più equità nella redistribuzione delle risorse e maggiore efficienza nella gestione della spesa pubblica, è stata completata la misurazione dei fabbisogni standard delle funzioni fondamentali dei comuni.
Per le funzioni relative a istruzione pubblica e servizio degli asili (che rappresentano circa il 18 per cento della spesa corrente dei comuni), le Note metodologiche hanno applicato il principio della spesa storica riferita al 2010 ovvero hanno considerato l’ammontare effettivamente speso da un comune in quell’anno anno per l’offerta del servizio ai cittadini. Le altre funzioni fondamentali dei comuni sono state invece riconosciute come fabbisogni standard, in grado di misurare, sulla base delle caratteristiche territoriali e degli aspetti socio-demografici della popolazione residente, il fabbisogno finanziario di un comune per quel servizio. Da più parti, è stato pertanto rilevato l’asimmetrico trattamento delle funzioni in cui sono previsti i livelli essenziali di assistenza, visto che il sociale è calcolato con la stima dei fabbisogni, mentre istruzione e asili nido prevedono la stima di una funzione di costo. Per gli asili nido, in particolare, è stata infatti effettuata una stima distinta rispetto al sociale (si rinvia a OpenCivitas per visualizzare e confrontare il fabbisogno standard, la spesa storica e un insieme di indicatori per tutti i comuni e le province delle regioni a statuto ordinario).
I servizi per la prima infanzia sono declinati
diversamente a seconda delle regione di riferimento. In particolare, va
ricordato che le leggi regionali hanno integrato la disciplina nazionale,
precisando la natura del servizio e tentando di connotare gli asili nido come
istituzioni non soltanto assistenziali, ma anche educative: per questo, le
norme regionali hanno stabilito le qualificazioni professionali ed i titoli di
studio richiesti al personale ed hanno promosso la riqualificazione e
l’aggiornamento del personale già in servizio. Inoltre, per ogni tipologia di
servizio socio educativo, le leggi regionali,
fissano innanzi tutto gli standard di qualità dei servizi: numero
massimo di bambini per educatore, età minima e massima dei bambini cui viene
erogato il servizio; la ricettività minima e massima delle strutture; l’orario
di servizio; il coordinamento delle attività (esistenza di un coordinatore) ed
il collegamento con altre strutture e servizi operanti nel territorio; i
requisiti professionali del personale addetto (tipologia, titoli di studio,
esperienza, ecc.); le caratteristiche edilizie ed urbanistiche delle strutture
dove viene svolto il servizio (metri quadrati per bambino, arredi,
attrezzature, ecc.); le modalità di elaborazione delle tabelle alimentari (es.
approvazione della Asl). Seppure omogenei nel genere, tali standard sono molto
differenziati e variano in funzione del territorio, del tipo di servizio e
dell’età dei bambini destinatari (l’età minima di accesso è fissata in più
della metà delle regioni a tre mesi, ma essa può aumentare in relazione alla
tipologia del servizio erogato). Molto diversa da regione a regione è anche la
soglia minima indicata per la ricettività, che può variare da 5 bambini per i
micro asili (a volte definiti nido famiglia, con punte minime di un solo
bambino in Toscana) ad un massimo di 75 per gli asili nido (ad esempio in
Piemonte). Un altro elemento di differenza è l’orario di servizio, che può
variare dalle 3, 4 ore al giorno (es. Lombardia) alle 10 ore (es. Umbria,
Friuli Venezia Giulia). Per quanto riguarda infine le superfici minime per
bambino, si può stimare che mediamente in Italia la superficie interna è pari a
8mq/bambino, mentre quelle esterne a 27mq/bambino. Un secondo aspetto
disciplinato dalla normativa regionale riguarda una sorta di “obblighi di
servizio” per l’infanzia. Si tratta di quegli elementi relativi alla vera e
propria erogazione del servizio: definizione di un progetto pedagogico
individualizzato; formazione permanente degli operatori; monitoraggio e
valutazione delle attività; adozione di carte dei servizi. Il terzo aspetto
riguarda i meccanismi di autorizzazione e di accreditamento, la cui assenza o
carenza in alcune Regioni impedisce l’integrazione tra pubblico e privato,
ovvero l’emersione di una offerta privata regolamentata e di qualità,
all’interno di una governance
pubblica.
La legge 107/2015 Riforma del sistema nazionale
di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni
legislative vigenti, all’art.
1, co. 180, ha previsto l’adozione, entro gennaio 2016, di uno o più
decreti legislativi finalizzati al riordino, alla semplificazione e alla
codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione. Fra le
deleghe previste vi è anche quella che riguarda l’istituzione del servizio
integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni,
costituito dai servizi educativi per l’infanzia e dalle scuole per
l’infanzia (art. 1, co. 181, lett. e)).
I principi e i criteri direttivi individuati per la delega sono i seguenti:
· definizione dei livelli essenziali delle prestazioni della scuola dell’infanzia e dei servizi educativi per l’infanzia previsti dal Nomenclatore interregionale degli interventi e dei servizi sociali, sentita la Conferenza Unificata, che prevedano:
o la generalizzazione della scuola dell’infanzia;
o la qualificazione universitaria e la formazione continua del personale dei servizi educativi per l’infanzia e della scuola dell’infanzia;
o gli standard strutturali, organizzativi e qualitativi dei servizi educativi per l’infanzia e della scuola dell’infanzia, diversificati in base alla tipologia, all’età dei bambini e agli orari di servizio, che prevedano tempi di compresenza del personale dei servizi educativi per l’infanzia e dei docenti della scuola dell’infanzia, nonché il coordinamento pedagogico territoriale e il riferimento alle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo;
·
la
definizione delle funzioni e dei compiti delle regioni e degli enti locali
al fine di potenziare la ricettività dei servizi educativi per
l’infanzia e la qualificazione del
sistema integrato;
·
l’esclusione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle scuole dell’infanzia dai servizi a domanda individuale;
Per quanto
concerne la scuola dell’infanzia, si
ricorda che, in base all’art. 1 del d.lgs. 59/2004, la stessa non è obbligatoria. Successivamente,
l’art. 2 del DPR 89/2009 ha previsto che la scuola dell'infanzia accoglie
bambini di età compresa tra i tre e i cinque anni compiuti entro il 31 dicembre
dell'a.s. di riferimento. Su richiesta delle famiglie sono iscritti alla scuola
dell'infanzia bambini che compiono tre anni di età entro il 30 aprile dell'as.
di riferimento, a condizione che vi sia disponibilità di posti, si sia
accertato l’avvenuto esaurimento di eventuali liste di attesa, vi sia
disponibilità di locali e dotazioni idonei sotto il profilo dell'agibilità e
funzionalità, tali da rispondere alle diverse esigenze dei bambini di età
inferiore a tre anni, vi sia la valutazione pedagogica e didattica, da parte
del collegio dei docenti, dei tempi e delle modalità dell'accoglienza.
Analogamente è prevista la possibilità, previo accordo in sede di Conferenza
unificata, di proseguire con l’attivazione delle «sezioni primavera» (art. 1,
co. 630 e 634, L. 296/2006), stabilendo gli opportuni coordinamenti con
l'istituto degli anticipi.
Alle scuole
dell’infanzia statali si affiancano scuole non statali, paritarie e non paritarie.
· l’istituzione di una quota capitaria per il raggiungimento dei livelli essenziali,
prevedendo il cofinanziamento dei costi di gestione da parte dello Stato con
trasferimenti diretti o con la gestione diretta delle scuole dell’infanzia; la
restante parte è assicurata dalle regioni e dagli enti locali, al netto delle
entrate da compartecipazione delle famiglie utenti del servizio;
·
l’approvazione
e finanziamento di un Piano di azione nazionale per la promozione del sistema integrato, finalizzato al raggiungimento
dei livelli essenziali delle prestazioni;
·
la promozione
della costituzione di Poli per
l’infanzia, destinati a bambini da 0 a 6 anni, anche aggregati a scuole
primarie e istituti comprensivi;
· l’istituzione, senza nuovi o maggiori oneri per lo Stato, di una commissione di esperti, nominati dal Ministro, dalle regioni e dagli enti locali, con compiti consultivi e propositivi.
Il rapporto Affidamenti familiari e collocamenti in comunità al 31 dicembre 2012, (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Quaderni della ricerca sociale n. 31, dicembre 2014) restituisce gli esiti della quarta edizione del monitoraggio che il Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza realizza in stretto raccordo con le Regioni e le Province autonome sul tema dell'accoglienza dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia di origine, ovvero collocati in affidamento familiare e nei servizi residenziali.
L'oggetto di rilevazione ha riguardato l'affidamento familiare residenziale per almeno cinque notti alla settimana, escluso i periodi di interruzione previsti nel progetto di affidamento, disposto dai servizi locali e reso esecutivo dal Tribunale per i minorenni o dal Giudice tutelare, e la rete dei servizi residenziali e la connessa accoglienza (questi ultimi classificati secondo le categorie individuate nel Nomenclatore Interregionale degli Interventi e dei Servizi Sociali).
Come concordato con le Regioni e le Province autonome, i dati sull'affidamento fotografano la presa in carico dei Comuni a fine anno mentre i dati sui servizi residenziali riguardano, per ciascuna realtà regionale, l'accoglienza a fine anno nei servizi che insistono sul proprio territorio di competenza.
La raccolta di dati non è stata completa. In particolare: la Calabria non ha aderito alla rilevazione proposta; la Liguria e la Sardegna, pur partecipando attivamente alla rilevazione, hanno fornito il dato dei bambini e ragazzi presi in carico dai Comuni liguri e sardi e collocati nei servizi residenziali in regione o fuori regione. La rilevazione riguarda invece gli accolti nei servizi residenziali del territorio di competenza delle Regioni.
Dati
generali
In merito all'età degli accolti risulta che nelle fasce estreme di 0-2 anni e di 15-17 anni si concentrano le più alte incidenze di ricorso al collocamento nei servizi residenziali - rispettivamente il 64% degli 0-2 anni e il 66% dei 15-17 anni. Se per i ragazzi più grandi, e prossimi alla maggiore età, l'accoglienza in comunità è spesso il solo intervento esperibile per rispondere alle problematicità del caso, per i bambini di 0-2 anni l'incidenza riscontata rappresenta un'evidenza, se non proprio una criticità, sulla quale riflettere in riferimento a quanto disposto dalla legge 149/01 – sebbene sia utile annotare in questa sede che alcune regioni hanno riservato una attenzione mirata al tema che si è tradotta nella più alta incidenza all'affidamento familiare anche in questa fascia d'età. Riguardo al genere degli accolti si ravvisa una prevalenza tra i maschi dell'accoglienza nei servizi residenziali, mentre una prevalenza tra le femmine di accoglienza in affidamento familiare. Quanto accade tra i bambini è da mettere in relazione all'accoglienza dei minori stranieri, prevalentemente maschi accolti nei servizi residenziali. La presenza straniera si distribuisce, infatti, per il 67% in accoglienza nei servizi residenziali e per il restante 33% nell'affidamento familiare, mente tra i coetanei italiani le due misure di accoglienza – 48% in affidamento e 52% in comunità - risultano più bilanciate. Ancor più polarizzata è l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati che risultano per l'86% dei casi inseriti nei servizi residenziali.
Alla data del 31 dicembre 2012, emerge che i bambini e i ragazzi di 0-17 anni fuori dalla famiglia di origine accolti nelle famiglie affidatarie e nelle comunità residenziali sono stimabili in 28.449 . Il dato fa segnare un'ulteriore arretramento dell'accoglienza che aveva raggiunto il suo picco massimo nell'anno 2007 quale frutto della sostanziale crescita dell'affidamento familiare in Italia. Osservando più da vicino il dato dell'ultimo biennio a disposizione, l'andamento dei fuori famiglia di origine è riconducibile alla sostanziale tenuta dell'affidamento familiare (da 14.397 del 2011 a 14.194 del 2012) a fronte di una perdita di accoglienza nelle comunità residenziali (14.991 del 2011 a 14.255 del 2012). Si tratta di dati che, pur confermando la sostanziale equa distribuzione delle accoglienze tra affidamento familiare e servizi residenziali, testimoniano quanto sostenuto dagli operatori del settore che, in linea con quanto normato dalla legge 149/2001, a più riprese di recente hanno evidenziato le difficoltà di tenuta dell'accoglienza nelle comunità e il maggior ricorso da parte dei servizi locali a strumenti di intervento per così dire più leggeri, che non contemplano necessariamente l'allontanamento del bambino dalla famiglia e l'ospitalità in residenzialità. In tal senso, se il relativo minor costo degli interventi messi in atto permette di dare risposta ad una più ampia platea di soggetti, resta da interrogarsi sull'effettiva efficacia di risposta di queste misure ai bisogni emergenti dai territori.
Nell'ambito delle attività relative alla stesura della Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 285/1997 recante disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza è stata sondata, per la prima volta, nelle quindici città riservatarie la dimensione dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia di origine, accolti in affidamento familiare e nei servizi residenziali, per valutare quanta parte del fenomeno complessivo italiano sia ascrivibile all'aggregato delle città riservatarie (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Brindisi, Taranto, Reggio Calabria, Palermo, Catania, e Cagliari). Complessivamente considerati i bambini e i ragazzi di 0-17 anni fuori dalla famiglia di origine nelle città riservatarie accolti nelle famiglie affidatarie e nelle comunità sono stimabili al 31 dicembre 2012 in 7.242 unità, di cui 2.521 bambini e ragazzi in affidamento familiare e 4.721 accolti nei servizi residenziali. Questi primi dati evidenziano già alcune peculiarità del fenomeno nelle città metropolitane. Se si considera che i dati più aggiornati indicano in 28.449 la stima di accoglienza di bambini e ragazzi fuori famiglia di origine in Italia, poco meno del 26% del fenomeno complessivo – ovvero un bambino su quattro - riguarda le città riservatarie, in quanto in carico ai servizi sociali delle stesse. A tutto ciò si lega una seconda evidenza, ovvero il forte squilibrio nelle città riservatarie del ricorso all'affidamento familiare e all'accoglienza in comunità. Se a livello nazionale infatti, i dati più aggiornati, fanno segnare una sostanziale equa distribuzione dei fuori famiglia di origine tra accolti in affidamento familiare (14.194) e nei servizi residenziali (14.255), nelle città riservatarie si registra, come già accennato, una netta prevalenza dell'accoglienza in comunità (4.721) rispetto all'accoglienza in affidamento familiare (2.521). Tale situazione non sembra determinarsi a causa di uno scarso ricorso all'affidamento familiare, ma più verosimilmente alla maggiore concentrazione nelle città riservatarie di servizi residenziali.
L'età degli affidati: mentre nelle precedenti rilevazioni risultava prevalente la classe di età 6-10 anni - il 33% nel 1999, il 26% nel 2007, il 27% nel 2008, il 30% nel 2011 -, nel 2012 con una valore pari al 30% tale classe d'età risulta appaiata alla classe 11-14 anni.
E' importante sottolineare che, se si considera in modo pertinente la diversa ampiezza delle classi di età utilizzate, la classe prevalente risulta la 15-17 anni (24%), era il 20% nel 1999, il 29% nel 2007, il 27% nel 2008 e il 27% nel 2011. Decisamente più contenute le incidenze percentuali che riguardano i piccoli di 3-5 anni e i piccolissimi di 0-2 anni che complessivamente cumulano poco meno del 15% del totale degli accolti in affidamento familiare – erano il 15,5% nel 1999. Tale andamento, tranne alcune rare eccezioni, si riscontra in tutte le regioni che hanno fornito i dati sulla distribuzione per età degli accolti. In particolare, al dicembre del 2012, tra gli 0-2 anni le incidenza massime si riscontrano in Liguria (9%) in Sicilia e in Sardegna, entrambe con il 7% degli affidamenti complessivi, e in Molise (20%) – valore sul quale incide fortemente l'esiguità dei casi rilevati - mentre tra i 3-5 anni i valori più alti si osservano in Provincia di Trento (17%) e in Umbria (19%.)
La distribuzione di genere: 51% di bambini a fronte del 49% di bambine.
La cittadinanza: continua, sebbene ad un ritmo meno sostenuto, la cresciuta dell'incidenza di bambini stranieri sul totale degli affidati al punto da rappresentare poco più del 17% del totale.
Al riguardo le differenze regionali risultano molto intense. I valori massimi, tra quanti hanno fornito l'informazione, si riscontrano in Veneto (33%), Umbria (30%) e Emilia-Romagna (30%), mentre quelli minimi si concentrano nelle regioni del sud e isole – con valori compresi tra l'1,5% della Sicilia e il 9% della Basilicata - in cui l'accoglienza in affidamento dei minori stranieri, per quanto in crescita, risulta ancora molto contenuta. Le marcate differenze territoriali nell'incidenza di affidamento dei minori stranieri è almeno in parte da mettere in relazione alla diversa presenza di minori stranieri sul territorio.
La tipologia dell'affido: i dati collezionati fanno emergere il perfetto equilibrio tra il ricorso alla via etero-familiare e a quella intra-familiare: rispettivamente pari al 53% e al 47% - erano il 47% e il 53% nel 1999, il 49% e il 51% nel 2007 e nel 2008 -, con una persistente forte variabilità del dato territoriale che si caratterizza per una incidenza di affidamento etero-familiare nelle regioni del sud che non supera la misura di un collocamento su tre, mentre nel centro e nel nord riguarda almeno un bambino su due, con punte massime di poco meno di tre bambini su quattro in Emilia-Romagna (74%) e in Lombardia (70%).
La natura dell'affido: tiene l'incidenza di ricorso all'affidamento giudiziale riscontrato negli anni precedenti, confermando la tendenza ad intervenire con lo strumento dell'affidamento familiare rispetto a situazioni molto compromesse, caratterizzate talvolta da conflittualità o comunque da una scarsa adesione della famiglia di origine al progetto di sostegno. L'affidamento giudiziale risulta infatti assolutamente prevalente rispetto a quello consensuale, su quattro bambini in affidamento tre trovano collocamento per via giudiziale a fronte di uno per via consensuale. Certamente tale situazione è conseguenza delle lunghe permanenze di accoglienza che risultano ancora significative, in considerazione del fatto che l'affidamento consensuale protratto oltre i due anni si trasforma in giudiziale essendo soggetto al nulla osta del Tribunale per i minorenni.
La durata dell'affido: ricordando che la legge 149/2001 individua il periodo massimo di affidamento in ventiquattro mesi - prorogabile da parte del Tribunale dei Minorenni laddove se ne riscontri l'esigenza –, i bambini e gli adolescenti in affidamento familiare da oltre due anni costituiscono la maggioranza degli accolti risultando pari a poco meno del 60% del totale – erano il 62,2% nel 1999, il 57,5% nel 2007, il 56% nel 2008 e il 60% nel 2011.
La mobilità dell'accoglienza, ovvero il collocamento dentro o fuori dalla regione di residenza: il valore medio riscontrato sulle Regioni e Province autonome indica una prassi consolidata di inserimento nella regione di residenza (97% del totale) – erano il 95% nel 2007, il 97% nel 2008 e il 96% del 2011 – riservando l'accoglienza in territori diversi da quello di residenza a situazioni davvero molto particolari e limitate in cui si ravvisa l'esigenza di allontanamento del bambino dalle relazioni che intratteneva e, in alcuni casi, dai rischi insiti in una sua permanenza nel contesto territoriale di appartenenza.
L'accoglienza dei bambini e dei ragazzi nelle comunità è assicurata attraverso una variegata offerta di servizio sul territorio che almeno in linea teorica dovrebbe garantire nella sua varietà un ampio ventaglio di scelta nell'individuazione della più adeguata risposta alle specifiche esigenze del caso di accoglienza.
Caratteristiche dei servizi: pur nelle differenziazioni regionali derivanti anche dalle diverse normative vigenti, tra le Regioni e le Province autonome rispondenti prevalgono in media le comunità socio educative (47%), le comunità familiari (17%) e i servizi di accoglienza per bambino/genitore (12%).
Caratteristiche degli accolti: la distribuzione per età dell'accoglienza indica nella tarda adolescenza il periodo in cui si sperimenta con più frequenza un'accoglienza nei servizi residenziali. La classe di età largamente prevalente è la 15-17 che cumula poco meno del 50% dei presenti a fine anno – erano il 31% nel 1998, 42% nel 2007, il 40% nel 2008 e il 44% nel 2011 -, seguita a notevole distanza dalle classi 11-14 (24%), e 6-10 (17%), mentre risultano decisamente più limitate le incidenze che riguardano i bambini di 0-2 anni (7%) e di 3-5 anni (7%) – classi di età queste ultime che complessivamente toccano i valori massimi nelle regioni di Lombardia (24%) e Marche (25%), cumulando un quarto dell'accoglienza complessiva delle stesse regioni. Molto più polarizzata di quanto non avvenga per l'affidamento familiare risulta la distribuzione di genere, con una netta prevalenza della componente maschile che si attesta attorno al 60% degli accolti – era il 53% nel 1998, il 59% nel 2007, il 64% nel 2008, 59% nel 2011 -, dato che con diverse intensità trova conferma in tutte le regioni e province autonome per cui è disponibile il dato – con la sola eccezione del Friuli-Venezia Giulia in cui si ravvisa una equa distribuzione di genere. Ciò che più caratterizza l'accoglienza residenziale è senz'altro l'altissima incidenza di bambini stranieri, e che finisce per influire fortemente sulle caratteristiche appena illustrate dell'età e del genere degli accolti. Tra i bambini accolti, uno su tre è di cittadinanza straniera, con un raddoppio dell'incidenza tra il 1998 (16%) e il 2012 (31%), e picchi superiori al 40% dell'accoglienza complessiva in Puglia (45%), Provincia di Trento (45%), Marche (44%), EmiliaRomagna e Toscana (41%), mentre i valori minimi – tra quanti hanno fornito il dato – si riscontrano in Sardegna (7%), nella provincia di Bolzano (13%) e in Valle d'Aosta (16%). La consistente presenza di bambini e adolescenti stranieri nei servizi residenziali è conseguenza anche dell'alto numero di minori stranieri non accompagnati che trova accoglienza quasi esclusivamente nei servizi residenziali – a livello medio, sulla base delle regioni e province autonome rispondenti, il 50% dei minori stranieri accolti nei servizi residenziali è non accompagnato. Tra le modalità dell'inserimento nell'attuale servizio residenziale, prevale la via giudiziaria, tre bambini su quattro sono collocati in comunità attraverso un provvedimento giudiziale, senza alcuna eccezione tra le regioni e province autonome rispondenti. Diversamente da quanto avviene per l'affidamento, la provenienza dei bambini al momento dell'ingresso nel servizio residenziale mostra elevati livelli di mobilità , legati da una parte alla effettiva presenza di strutture sul territorio e dall'altra alla eventuale necessità di allontanare il bambino dal territorio di appartenenza. Nonostante la modalità prevalente resti quella dell'inserimento del bambino nelle strutture della propria regione (in media pari al 77%), quote significative di provenienze da fuori regione si segnalano in particolar modo per l'Umbria (45%), la Puglia (43%) e la Basilicata (46%).
Il Gruppo di lavoro sulle Comunità di tipo familiare, attivato all'interno della Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni, istituita presso l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, ha elaborato il documento di proposta Comunità residenziali per minorenni: per la definizione dei criteri e degli standard. Obiettivo del documento è quello di avviare un processo virtuoso verso la definizione degli standard strutturali e gestionali e dei criteri di qualità delle relazioni, nelle Comunità di tipo familiare.
A tal fine, il documento approfondisce l'analisi e la definizione dei contenuti e delle caratteristiche peculiari e distintive della comunità di tipo familiare per dare concreta applicazione al mandato normativo della legge 149/2001 laddove afferma che ogni minorenne – qualora non sia possibile la permanenza nella propria famiglia d'origine o la definizione di un'adozione legittimante o di un affidamento familiare – può essere accolto in una Comunità di tipo familiare, quale forma di superamento degli istituti di assistenza pubblici o privati.
L’art. 1, co. 180, della L. 107/2015 ha delegato il Governo ad
adottare, entro 18 mesi dalla data
di entrata in vigore della legge, decreti legislativi finalizzati alla riforma
di differenti aspetti del sistema scolastico, fra i quali la promozione dell'inclusione scolastica degli studenti
con disabilità e il riconoscimento
delle differenti modalità di comunicazione (art. 1, co. 181, lett. c)).
L’art. 1, co. 182, dispone che i decreti legislativi sono adottati,
su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione,
con il Ministro dell’economia e delle finanze, nonché con altri Ministri
competenti, previo parere della Conferenza Stato-regioni.
Gli schemi sono trasmessi
alle Camere per l’espressione del parere
da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili
di carattere finanziario. Il parere deve intervenire entro 60 giorni, decorsi i quali i decreti legislativi possono
essere adottati. Se il termine previsto per l’espressione del parere
parlamentare cade nei 30 giorni che precedono la scadenza del termine di 18
mesi, la scadenza stessa è prorogata di 90 giorni.
I principi e criteri direttivi
individuati per l’esercizio della delega sono i seguenti:
· ridefinizione del ruolo dei docenti di sostegno, al fine di favorire l’inclusione scolastica degli
studenti con disabilità, anche attraverso l’istituzione di appositi percorsi di formazione universitaria.
Al riguardo si ricorda che
l’art. 315, co. 5, del d.lgs. 297/1994
prevede che i docenti di sostegno assumono la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano,
partecipano alla programmazione educativa e didattica e alla elaborazione e
verifica delle attività di competenza dei consigli di intersezione, di
interclasse, di classe e dei collegi dei docenti.
Con riferimento alla formazione iniziale, l’art. 13 del DM 249/2010 ha disposto, da ultimo, che la specializzazione per le
attività di sostegno didattico agli alunni disabili, in attesa della
istituzione di specifiche classi di abilitazione, si consegue solo presso le
università, con la partecipazione a un corso di durata almeno annuale, a numero
programmato, che deve comprendere almeno 300 ore di tirocinio. Possono
partecipare gli insegnanti abilitati. A conclusione, si sostiene un esame finale
che consente l'iscrizione negli elenchi per il sostegno.
· revisione dei criteri di inserimento nei ruoli per il
sostegno didattico, al fine di garantire la continuità del diritto allo studio degli alunni con disabilità, in
modo da rendere possibile allo studente di fruire dello stesso insegnante di
sostegno per l'intero ordine o grado di istruzione;
Con riguardo alla continuità didattica, l’art. 4 del CCNL personale del comparto scuola 2006-2009 del 29 novembre 2007
prevede che questa debba essere salvaguardata garantendo la stabilità pluriennale
dell’organico al fine di assicurare la “continuità didattica del personale
docente con particolare riferimento ai
docenti di sostegno”.
Da ultimo, l’art. 26 del CCNI concernente la mobilità del personale docente, educativo ed ATA per
l’a.s. 2015/2016 ha
previsto, tra l’altro, che il
trasferimento ai posti di sostegno comporta la permanenza per almeno un quinquennio
a far data dalla decorrenza del trasferimento su tali tipologie di posti.
L'insegnante titolare di posto di sostegno che non ha terminato il quinquennio
di permanenza può chiedere il trasferimento
solo per la medesima tipologia di posto ovvero per altra tipologia di posto
speciale, di sostegno o ad indirizzo didattico differenziato per accedere alla
quale possegga il relativo titolo di specializzazione;
· individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni
scolastiche, sanitarie e sociali, tenuto conto dei diversi
livelli di competenza istituzionale.
Al riguardo si ricorda che il co. 1 del già citato art. 315 del d.lgs. 297/1994 dispone che l'integrazione scolastica della persona
disabile nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e
grado si realizza anche attraverso la programmazione
coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali,
culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite
da enti pubblici o privati. A tale scopo gli enti locali, gli organi scolastici
e le unità sanitarie locali, nell'ambito delle rispettive competenze, stipulano
accordi di programma finalizzati alla predisposizione, attuazione e verifica
congiunta di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione
individualizzati, nonché a forme di integrazione tra attività scolastiche e
attività integrative extrascolastiche;
· previsione di indicatori per l’autovalutazione e la
valutazione dell’inclusione scolastica.
In materia, si veda il progetto realizzato nel 2009 dall’Agenzia Europea per lo sviluppo dell’istruzione
degli alunni disabili, su richiesta del Consiglio dei rappresentanti degli
Stati membri, sul tema “come individuare una serie di indicatori – per una
scuola inclusiva in Europa”[2]. Al progetto hanno partecipato 23 Stati europei, fra i quali l’Italia;
· revisione delle
modalità e dei criteri relativi alla certificazione degli
studenti con disabilità e con disturbi specifici di apprendimento, che deve essere volta a individuare le abilità residue al fine di poterle
sviluppare, attraverso percorsi individuati di
concerto con tutti gli specialisti delle
strutture pubbliche, private o convenzionate che seguono gli alunni, ai quali è dunque
consentita la partecipazione al GLH (Gruppo di Lavoro sull'Handicap)[3] o agli
incontri informali.
In particolare, le modalità
e i criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto disabile sono recate
dal DPCM 185/2006, emanato a seguito
dell’art. 35, co. 7, della L. 289/2002.
Il DPCM prevede che, ai
fini della individuazione dell'alunno come soggetto disabile, le Aziende Sanitarie dispongono, su richiesta documentata dei genitori o
degli esercenti la potestà parentale o la tutela dell'alunno, appositi accertamenti collegiali[4], da effettuarsi in tempi utili rispetto all'inizio dell'anno
scolastico, documentati attraverso la redazione di un verbale di individuazione dell'alunno come soggetto disabile. Il
verbale reca l'indicazione della patologia stabilizzata o progressiva,
accertata con riferimento alle classificazioni internazionali
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nonché la specificazione
dell'eventuale carattere di particolare gravità della medesima e l'eventuale
termine di rivedibilità dell'accertamento effettuato.
Tali accertamenti sono
propedeutici alla redazione della diagnosi
funzionale dell'alunno, cui provvede l'unità multidisciplinare, prevista
dall'art. 3, co. 2 del DPR 24 febbraio 1994[5], anche secondo i criteri di classificazione di disabilità e salute
previsti dall'OMS.
Il verbale di accertamento,
con l'eventuale termine di rivedibilità ed il documento relativo alla diagnosi
funzionale sono trasmessi ai genitori o agli esercenti la potestà parentale o
la tutela dell'alunno e da costoro all'istituzione scolastica presso cui
l'alunno deve essere iscritto, ai fini della tempestiva adozione dei
provvedimenti conseguenti.
Alla redazione della
diagnosi funzionale fa seguito la redazione del profilo dinamico funzionale e del piano educativo individualizzato, alla cui definizione, in base
all'art. 12, co. 5, della L. 104/1992, provvedono congiuntamente, con la
collaborazione dei genitori, gli operatori delle unità sanitarie locali e, per
ciascun grado di scuola, personale insegnante specializzato della scuola, con
la partecipazione dell'insegnante operatore psico-pedagogico.
Il profilo indica le
caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell'alunno e pone in
rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di
disabilità e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute.
Il piano educativo
individualizzato (PEI) descrive annualmente gli interventi educativi e
didattici destinati all’alunno con disabilità, definendo obiettivi, metodi e
criteri di valutazione[6];
·
revisione e razionalizzazione degli organismi di supporto all’inclusione
operanti a livello territoriale.
Si ricorda che, nell’ambito
del progetto “Nuove
tecnologie e disabilità”, gli Uffici scolastici regionali istituirono i Centri Territoriali di
Supporto (CTS). Il ruolo degli stessi è
stato, poi, disciplinato con la direttiva del MIUR del 27 dicembre 2012, che ha ritenuto opportuna la presenza di almeno un CTS per ogni
provincia[7]. Sempre in base alla direttiva, i CTS hanno il compito, tra l’altro, di
definire, autonomamente o in rete, per
ogni anno scolastico, il piano annuale di interventi relativo agli interventi
formativi, tenendo conto dei bisogni emergenti dal territorio e delle strategie
e priorità generali individuate dagli USR e dal MIUR.
Ai
CTS sono affiancati, a livello di distretto sociosanitario, i Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI).
Peraltro,
nella nota prot. n.
2563 del 22 novembre 2013 il MIUR ha fatto presente che era in atto una
riorganizzazione complessiva della rete dei CTS e dei CTI, a cura degli Uffici
scolastici regionali, per la ridefinizione di compiti e ruoli, che sarebbero
stati chiariti con successiva nota;
·
previsione dell'obbligo di formazione iniziale e in servizio per i dirigenti scolastici e per i docenti sugli aspetti pedagogico-didattici e organizzativi dell'integrazione
scolastica;
·
previsione dell'obbligo di formazione in servizio per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, rispetto alle
specifiche competenze, sull'assistenza
di base e sugli aspetti
organizzativi ed educativo-relazionali relativi al processo di integrazione
scolastica;
·
previsione della garanzia dell'istruzione domiciliare per gli studenti con
disabilità soggetti all’obbligo scolastico, qualora siano temporaneamente
impediti per motivi di salute a frequentare la scuola.
Al riguardo, si ricorda che l’art. 12, co. 9, della L.
104/92 prevede che l’educazione e l’istruzione scolastica è garantita anche
agli alunni nelle condizioni sopra richiamate. A tal fine, si provvede alla
istituzione, per i minori ricoverati, di classi
ordinarie quali sezioni distaccate della scuola statale, cui possono essere
ammessi anche altri minori ricoverati. La frequenza di tali classi è equiparata
ad ogni effetto alla frequenza delle classi alle quali i minori sono iscritti.
Come si evince dal portale Scuola in
ospedale del MIUR, il servizio
di istruzione domiciliare costituisce un ampliamento dell'offerta formativa
Scuola in Ospedale ed è previsto per alunni
che, già ospedalizzati a causa di
gravi patologie, siano sottoposti a
terapie domiciliari che impediscono la frequenza della scuola per un
periodo di tempo non inferiore a 30 giorni. Il servizio può essere erogato
anche nel caso in cui il periodo temporale, comunque non inferiore a 30 giorni,
non sia continuativo, qualora siano previsti cicli di cura ospedaliera
alternati a cicli di cura domiciliare oppure siano previsti ed autorizzati
dalla struttura sanitaria eventuali rientri a scuola durante i periodi di cura
domiciliare.
Si ricorda, infine, che l’art. 1, co. 7, lett. l), della stessa L.
107/2015 ha inserito il potenziamento dell'inclusione scolastica e del
diritto allo studio degli alunni con bisogni educativi speciali, attraverso
percorsi individualizzati e personalizzati, anche con il supporto e la
collaborazione dei servizi socio-sanitari ed educativi del territorio e delle
associazioni di settore, fra gli obiettivi dell’espansione dell’offerta
formativa.
Con il termine NEET (acronimo inglese di "Not (engaged) in Education, Employment or Training"), sono indicate le persone non impegnate né nello studio, né nel lavoro e né nella formazione.
Secondo gli ultimi dati ISTAT (ISTAT – Noi Italia 2015) in Italia nel 2013 oltre 2.435 migliaia di giovani (il 26,0% della popolazione tra i 15 e i 29 anni) risultavano fuori dal circuito formativo e lavorativo. L’incidenza dei NEET è più elevata tra le donne (27,7%) rispetto agli uomini (24,4%). Dopo un periodo in cui il fenomeno aveva mostrato una leggera regressione (tra il 2005 ed il 2007 si era passati dal 20,0 al 18,9%), l’incidenza dei NEET è tornata a crescere durante la fase ciclica negativa, facendo registrare nel 2013 l’incremento più sostenuto degli ultimi anni (+2,1 punti percentuali rispetto a un anno prima)
Per quanto attiene l’ambito europeo, in Italia la quota dei NEET è nettamente superiore alla media dell’UE-28 (rispettivamente 26,0 e 15,9%) e con valori significativamente più elevati rispetto a Germania (8,7%), Francia (13,8%) e Regno Unito (14,7%). La Bulgaria presenta una quota di NEET (25,7%) leggermente inferiore a quella italiana, mentre solo la Grecia presenta un’incidenza maggiore (28,9%). Nella maggior parte dei paesi europei il fenomeno coinvolge in misura maggiore le donne (il 17,7% in media contro il 14,1% degli uomini) con divari particolarmente ampi nella Repubblica Ceca e in Ungheria. Peraltro, nella media dei paesi Ue circa la metà dei NEET è alla ricerca di una occupazione, con picchi di oltre il 70% in Grecia, Spagna e Portogallo. Nel nostro Paese negli anni più recenti l’aggregato si è caratterizzato per una minore incidenza dei disoccupati e una più diffusa presenza di inattivi; tuttavia la quota di disoccupati tra i giovani NEET, cresciuta in misura significativa nel 2012, è aumentata ulteriormente nel 2013 arrivando al 42,2%, riducendo il divario con la media europea.
Se si guarda, più specificamente alla classe di età 15-19 anni, in Italia nel 2014 sono stati rilevati[8] in totale 326.000 NEET (di cui 180.000 maschi e 146.000 femmine), di cui 116.000 risultano disoccupati (69.000 maschi e 49.000 femmine) e 209.000 inattivi (111.000 maschi e 99 femmine). Nel II trimestre 2015 risultano in totale 269.000 soggetti (di cui 161.000 maschi e 108.000 femmine).
Tra i principali provvedimenti che hanno caratterizzato sinora la XVII legislatura, non può non ricordarsi, preliminarmente, l’emanazione del decreto legislativo n. 154 del 2013 che, in attuazione della legge delega n. 219 del 2012, ha superato ogni residua distinzione tra figli legittimi e naturali, modificando tanto il codice civile quanto le leggi speciali, attuando dunque nell'ordinamento il principio di unicità dello stato di figlio.
La
legge delega
Nella scorsa legislatura il
Parlamento ha approvato la legge n. 219 del 2012, Disposizioni in
materia di riconoscimento dei figli naturali, che contiene:
- nuove disposizioni sostanziali e
processuali, in materia di filiazione naturale e relativo riconoscimento (con
particolare riferimento anche ai figli c.d.
incestuosi), ispirate al principio "tutti i figli hanno lo
stesso stato giuridico";
- una delega al Governo per la
modifica delle disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni residua discriminazione
tra figli legittimi, naturali e adottivi (v. infra);
- la ridefinizione delle competenze di
tribunali ordinari e tribunali dei minorenni in materia di
procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli;
- disposizioni a garanzia del
diritto dei figli agli alimenti e al mantenimento.
In particolare, allo scopo di
eliminare ogni discriminazione tra i figli, l'articolo 2 della legge conferisce
una delega al Governo per la modifica delle disposizioni in materia di
filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità. Il termine di
esercizio della delega è stabilito in 12 mesi dall'entrata in vigore dalla
legge, e dunque entro il 1° gennaio 2014.
I numerosi princìpi e criteri
direttivi dettati dal comma 1 per l'esercizio della delega (lettere da a)
a p)) prevedono:
- la sostituzione, in tutta la
legislazione vigente, dei riferimenti ai figli legittimi e ai figli naturali
con i riferimenti ai figli; viene però fatto salvo l'uso delle denominazioni di
figli nati nel matrimonio o fuori del matrimonio, in relazione a disposizioni
ad essi specificamente relative (lett. a);
- una nuova articolazione e
ridefinizione sistematica dei capi del titolo VII del libro primo, la cui
rubrica è denominata "Dello stato di figlio"; la risistemazione ha
anche finalità di coordinamento con l'abrogazione delle disposizioni sulla
legittimazione (lett. b);
- la ridefinizione della disciplina
del possesso di stato e della prova della filiazione, prevedendo che la
filiazione fuori del matrimonio possa essere giudizialmente accertata con ogni
mezzo idoneo (lett. c);
- l'estensione della presunzione di
paternità del marito rispetto ai figli comunque nati o concepiti durante il
matrimonio e la ridefinizione della disciplina del disconoscimento di paternità
nel rispetto dei principi costituzionali (lett. d);
- la modificazione della disciplina
del riconoscimento dei figli naturali con l'adeguamento al principio
dell'unificazione dello stato di filiazione delle disposizioni sull'inserimento
del figlio riconosciuto nella famiglia di uno dei genitori, demandando al
giudice la valutazione di compatibilità con i diritti della famiglia legittima;
altro principio di delega concerne l'inammissibilità del riconoscimento in
tutti i casi in cui il riconoscimento medesimo è in contrasto con lo stato di
figlio riconosciuto o giudizialmente dichiarato (lett. e);
- l'abbassamento dell'età del figlio
minore, da 16 a 14 anni, ai fini dell'azione di disconoscimento della paternità
(art. 244 c.c.), dell'impugnazione del riconoscimento previa autorizzazione
giudiziale e nomina di un curatore speciale (art. 264 c.c.) e ai fini del
consenso all'azione per la dichiarazione di paternità o maternità esercitata
dal genitore o dal tutore (art. 274 c.c.) (lett. f);
- la limitazione
dell'imprescrittibilità dell'azione di impugnazione del riconoscimento solo al
figlio e l'introduzione di un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione
da parte degli altri legittimati (lett. g);
- l'unificazione della disciplina
sui diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati sia nel
matrimonio che fuori del matrimonio (lett. h);
- la disciplina delle modalità di
esercizio del diritto all'ascolto del minore che abbia adeguata capacità di
discernimento, precisando che, nell'ambito di procedimenti giurisdizionali, ad
esso provvede il presidente del tribunale o il giudice delegato (lett. i);
- l'adeguamento della disciplina
delle successioni e delle donazioni al principio dell'unificazione dello stato
di figlio (lett. l). In merito, per quanto riguarda i giudizi pendenti, il
Governo dovrà introdurre una disciplina che assicuri la produzione degli
effetti successori nei confronti dei parenti anche per gli aventi causa del figlio
naturale premorto o deceduto nel corso del riconoscimento con conseguente
estensione delle relative azioni petitorie per il riconoscimento del diritto
all'eredità;
- il necessario coordinamento della
disciplina del diritto internazionale privato di cui alla legge 218/1995 al
principio di unicità dello stato di figlio (lett. m);
- la specificazione della nozione di
abbandono morale e materiale del figlio, con riguardo all'irrecuperabilità
delle capacità genitoriali, fermo restando che le condizioni di indigenza non
possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria
famiglia (lett. n);
- la segnalazione ai comuni, da
parte dei tribunali dei minori, delle situazioni di indigenza di nuclei
familiari che richiedano interventi di sostegno nonchè i controlli che lo
stesso tribunale effettua sulle situazioni di disagio segnalate agli enti
locali (lett. o);
- il diritto dei nonni ovvero la
legittimazione degli ascendenti a far valere il diritto di mantenere rapporti
significativi con i nipoti minori (lettera p).
Il decreto legislativo n. 154 del 2013 dà attuazione alla delega novellando il codice civile, i codici, penale, processuale penale e processuale civile e la legislazione speciale.
Tra le principali novità della riforma, si richiamano:
In questa legislatura il Parlamento ha approvato la legge n. 173 del 2015, che ridefinisce il rapporto tra procedimento di adozione e affidamento familiare (cd. affido) allo scopo di garantire il diritto alla continuità affettiva dei minori. A tal fine riconosce alla famiglia affidataria una corsia preferenziale nell'adozione.
Gli
obiettivi della riforma
La prassi ha evidenziato che
l'affidamento, talvolta, perde nel corso del suo svolgimento il carattere di
«soluzione provvisoria e temporanea» che la legge invece gli attribuisce.
Il periodo massimo di affidamento
previsto dalla legge è pari a 2 anni, prorogabile da parte del tribunale dei
minorenni laddove se ne riscontri l'esigenza (quando la sospensione dell'affido
rechi pregiudizio al minore): questo termine è quindi la soglia di riferimento
circa la durata che dovrebbe avere la permanenza in accoglienza del minore.
Nella relazione che accompagna il
progetto di legge originario presentato al Senato (AS. 1209) si cita il
Rapporto dell'Istituto degli Innocenti del dicembre 2012 su affidamenti
familiari e collocamenti in comunità, elaborato per conto del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, da cui risulta che i bambini e gli
adolescenti in affidamento familiare da oltre due anni, cioè oltre il
termine ordinario previsto dalla legge, costituiscono la maggioranza degli
accolti, ovvero circa il 60 % del totale: erano il 62,2 per cento nel 1999,
il 57,5 per cento nel 2007, e il 56 per cento nel 2008. Lo stesso Rapporto
riferisce che i bambini in affido da oltre 4 anni sono ben il 31,7% del
totale (al 31 dicembre 2012).
In un numero elevato di casi, la
situazione critica che aveva giustificato l'allontanamento dalla famiglia
originaria non si risolve ed il minore viene, quindi, dichiarato adottabile. A
questo punto è possibile che bambini già provati da una prima separazione
(quella dalla famiglia d'origine), siano sottoposti ad una seconda separazione
e trasferiti ad una terza famiglia.
In relazione all'esigenza di
valorizzare il rapporto di affidamento, garantendo una corsia preferenziale
nell'adozione alle famiglie già affidatarie del minore, si segnala la sentenza 27 aprile 2010 della Seconda
Sezione della Corte europea per i diritti dell'uomo (Affare Moretti e
Benedetti c. Italia – causa n. 16318/07), che ha condannato l'Italia a
risarcire una coppia di coniugi che, dopo essersi presi cura per 19 mesi di un
minore attraverso l'istituto dell'affidamento, si era vista scavalcata da
un'altra famiglia in sede di adozione.
La legge n. 173 del 2015, introduce un favor per la considerazione positiva dei legami costruiti in ragione dell'affidamento, avendo cura di specificare che questi hanno rilievo solo ove il rapporto instauratosi abbia di fatto determinato una relazione profonda, proprio sul piano affettivo, tra minore e famiglia affidataria.
In particolare, la legge riforma l'articolo 4 della legge n. 184/1983, prevedendo una corsia preferenziale per l'adozione a favore della famiglia affidataria, laddove - dichiarato lo stato di abbandono del minore - risulti impossibile ricostituire il rapporto del minore con la famiglia d'origine. A tal fine:
La legge n. 173 del 2015, inoltre, garantisce alla famiglia o alla persona cui sia stato affidato il minore la legittimazione a intervenire nei procedimenti che riguardano il minore. Più in particolare, la norma impone l'obbligo, a pena di nullità, di convocare l'affidatario in tutti i procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, riconoscendogli nel contempo la facoltà di presentare memorie nell'interesse del minore.
Infine, la riforma interviene su una delle ipotesi di adozione in casi particolari (che prescinde dallo stato di abbandono), vale a dire quella relativa all'orfano di padre e di madre, che oggi può essere adottato da persone legate da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori. In tal caso, l'adozione è consentita anche alle coppie di fatto e alla persona singola; se però l'adottante è coniugato e non separato, l'adozione deve essere richiesta da entrambi i coniugi. L'art. 4, nel confermare la linea interpretativa favorevole a considerare positivamente i legami costruiti in ragione dell'affidamento, specifica che il rapporto "stabile e duraturo" è considerato ai fini dell'adozione dell'orfano di entrambi i genitori anche ove maturato nell'ambito di un prolungato periodo di affidamento.
Il Parlamento ha approvato la legge n. 101 del 2015, di ratifica della Convenzione dell'Aja del 1996, sulla responsabilità genitoriale e la protezione dei minori.
La
Convenzione dell'Aja del 1996
La Convenzione - che interviene in
un ambito già trattato dalla precedente Convenzione dell'Aja del 1961 di cui
intende superare alcune difficoltà applicative - è stata firmata dall'Italia il
1° aprile 2003 e consta di 63 articoli.
Quanto al campo di azione di azione
della Convenzione, essa individua in primo luogo le finalità: la determinazione
dello Stato le cui autorità sono competenti ad adottare le misure volte alla
protezione della persona o dei beni del minore; la determinazione della legge
applicabile da tali autorità nell'esercizio della loro competenza; la
determinazione della legge applicabile alla responsabilità genitoriale; la
garanzia del riconoscimento e dell'esecuzione delle misure di protezione del
minore in tutti gli Stati contraenti; lo stabilimento, fra le autorità degli
Stati contraenti, della cooperazione necessaria alla realizzazione degli
obiettivi della Convenzione.
La Convenzione trova applicazione
per i minori dal momento della nascita fino al compimento dei 18 anni.
Rientrano nel campo di applicazione
della Convenzione l'attribuzione, l'esercizio e la revoca – totale o parziale –
della responsabilità genitoriale; il diritto di affidamento; la tutela, la
curatela e gli istituti analoghi; la designazione e le funzioni di qualsiasi
persona od organismo incaricato di occuparsi del minore o dei suoi beni; il
collocamento del minore in famiglia di accoglienza o in istituto anche mediante
kafala o istituto analogo; la supervisione da parte delle autorità
pubbliche dell'assistenza fornita al minore da qualsiasi persona se ne faccia
carico; l'amministrazione, conservazione o disposizione dei beni del minore.
Sono esclusi dal campo della
Convenzione l'accertamento e la contestazione della filiazione; la decisione e
la revoca sull'adozione e le misure preparatorie; il cognome e nome del minore;
l'emancipazione; gli obblighi agli alimenti; le amministrazioni fiduciarie e le
successioni; la previdenza sociale; le misure pubbliche generali in materia di
istruzione e sanità; le misure adottate in conseguenza della commissione di
reati da parte del minore; le decisioni in materia di diritto d'asilo e di
immigrazione.
La Convenzione disciplina poi la
competenza e individua nelle autorità giudiziarie ed amministrative dello Stato
contraente di residenza abituale del minore quelle competenti all'adozione di
misure tendenti alla protezione della sua persona e dei suoi beni; stabilisce
poi i criteri per individuare la legge applicabile.
Quanto al riconoscimento e
l'esecuzione, in base alla Convenzione le misure adottate dalle autorità di uno
Stato contraente saranno riconosciute di pieno diritto negli altri Stati
contraenti. La norma prevede, tuttavia, una serie di ipotesi all'inverarsi
delle quali il riconoscimento potrà essere negato.
Sono poi definite le regole della
cooperazione. In particolare è previsto che ogni Stato contraente designi
un'autorità centrale incaricata di adempiere gli obblighi derivanti dalla
Convenzione. Le Autorità centrali devono cooperare fra loro e promuovere la
cooperazione fra le autorità competenti del proprio Stato per realizzare gli
obiettivi della Convenzione. Esse, nell'ambito dell'applicazione della
Convenzione, adottano le disposizioni idonee a fornire informazioni sulla loro
legislazione, nonché sui servizi disponibili nel loro Stato in materia di
protezione del minore.
La legge n. 101 del 2015 si limita a prevedere la ratifica della Convenzione, senza dettare norme di adeguamento interno.
Il disegno di legge originario, nel testo approvato in prima lettura dalla Camera, invece:
Nei Paesi che ispirano la propria legislazione ai
precetti coranici non esiste rapporto di filiazione diverso dal legame
biologico di discendenza che derivi da un rapporto sessuale lecito. La legge
islamica, inoltre, vieta l'adozione. Per evitare che figli senza genitori
restino del tutto sprovvisti di tutela, il diritto islamico prevede un istituto
di derivazione dottrinale, tramite il quale è garantita la protezione ai minori
orfani, abbandonati o, comunque, privi di un ambiente familiare idoneo alla
loro crescita. Per effetto della kafala un adulto musulmano (o una
coppia di coniugi) ottiene la custodia del minorenne, in stato di abbandono,
che non sia stato possibile affidare alle cure di parenti, nell'ambito della
famiglia estesa. La kafala è in
sostanza un affidamento che si protrae fino alla maggiore età e non trova ad
oggi espresse corrispondenze nell'ordinamento giuridico italiano.
Le disposizioni di adeguamento interno sono state stralciate nel corso dell'esame del disegno di legge al Senato; la necessità di un approfondimento della disciplina attuativa relativa all'istituto della kafala confliggeva infatti con quella di una rapida approvazione del provvedimento, derivante dal ritardo del nostro Paese nell'adempiere a tale impegno internazionale.
Collegato al tema dell’adozione è anche il provvedimento A.S. 1978, già approvato dalla Camera, finalizzato ad ampliare la possibilità del figlio adottato o non riconosciuto alla nascita di conoscere le proprie origini biologiche. In particolare, anche per dare seguito a una sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità della disciplina vigente, è prevista la possibilità di chiedere alla madre se intenda revocare la volontà di anonimato, manifestata alla nascita del figlio.
Il provvedimento - approvato dalla Camera il 18 giugno scorso – e ora all’esame del Senato, interviene sulla legge sull'adozione, n. 184 del 1983:
In particolare l'accesso - che non legittima, tuttavia, azioni di stato né da diritto a rivendicazioni di natura patrimoniale o successoria - è consentito:
- nei confronti della madre che abbia successivamente revocato la volontà di anonimato;
- nei confronti della madre deceduta.
Una nuova disposizione introdotta nella legge sull'adozione disciplina il procedimento di interpello della madre, volto a verificare il permanere della sua volontà di anonimato.
Il procedimento è avviato su istanza dei legittimati ad accedere alle informazioni biologiche: l'adottato che abbia raggiunto la maggiore età; il figlio non riconosciuto alla nascita, che abbia raggiunto la maggiore età, in assenza di revoca dell'anonimato da parte della madre; i genitori adottivi, legittimati per gravi e comprovati motivi; i responsabili di una struttura sanitaria, in caso di necessità e urgenza e qualora vi sia grave pericolo per la salute del minore.
L'istanza di interpello può essere presentata una sola volta, al tribunale per i minorenni del luogo di residenza del figlio. Il tribunale, con modalità che assicurino la massima riservatezza, e con l vincolo del segreto per quanti prendano parte al procedimento, si accerta della volontà o meno della madre di rimanere anonima.
Ove la madre confermi di volere mantenere l'anonimato, il tribunale per i minorenni autorizza l'accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all'eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.
Inoltre, è previsto anche che, decorsi diciotto anni dalla nascita del figlio, la madre che ha partorito in anonimato possa comunque confermare la propria volontà. Anche in questo caso, il tribunale per i minorenni, se richiesto, può autorizzare l'accesso alle sole informazioni sanitarie.
La proposta di legge modifica poi il codice della privacy con riguardo al certificato di assistenza al parto, le cui disposizioni sono coordinate con quelle introdotte dalla riforma (in particolare, quella che prevede la necessità del decorso di 100 anni per poter accedere alla documentazione contenente i dati identificativi della madre). Il vincolo dei 100 anni viene meno in caso di revoca dell'anonimato, di decesso della madre o di autorizzazione del tribunale all'accesso alle sole informazioni di carattere sanitario.
Per coordinamento, è inoltre modificato, per coordinamento, il regolamento sullo stato civile in relazione alle informazioni da rendere alla madre che dichiara di volere restare anonima. In particolare, la madre dovrà essere informata, anche in forma scritta:
E' prevista in fine una disciplina per i casi di parti anonimi precedenti all'entrata in vigore della legge: entro dodici mesi, la madre che ha partorito in anonimato prima dell'entrata in vigore della riforma, può confermare la propria volontà al tribunale dei minorenni, con modalità che garantiscano la massima riservatezza. Qualora la madre confermi la propria volontà di anonimato, il tribunale per i minorenni, se richiesto, autorizza l'accesso alle sole informazioni sanitarie. A tal fine saranno stabilite modalità di svolgimento di una campagna informativa.
Il Governo, decorsi tre anni, dovrà trasmettere al Parlamento i dati sull'attuazione della legge.
Infine, e per completezza, si ricorda che l'Assemblea della Camera ha approvato, il 24 settembre 2014, un testo unificato di alcune proposte di legge (A.C. 360 e abb.), volto a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai figli.
Il provvedimento all’esame del Senato (A.S. 1628), anche in relazione alla recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, modifica la disciplina civilistica in materia di attribuzione del cognome ai figli, prevedendo la possibilità di attribuire a questi ultimi il cognome materno.
In particolare, il provvedimento prevede che al figlio nato nel matrimonio, su accordo dei genitori, possa essere attribuito uno dei seguenti cognomi:
Al mancato accordo consegue l'attribuzione, in ordine alfabetico, di entrambi i cognomi dei genitori.
La stessa regola varrà per il figlio nato fuori dal matrimonio che venga riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori. Se il figlio è riconosciuto da un solo genitore, ne assume il cognome e laddove l'altro genitore effettui il riconoscimento in un secondo momento (tanto volontariamente quanto a seguito di accertamento giudiziale), il cognome di questi si aggiunge al primo solo con il consenso del genitore che ha riconosciuto il figlio per primo nonché, se ha già compiuto 14 anni, del figlio stesso.
Il testo unificato inoltre:
La riforma si applicherà solo alle dichiarazioni di nascita successive all'entrata in vigore di un apposito regolamento attuativo, da adottarsi entro dodici mesi.
In via transitoria sarà possibile aggiungere il cognome materno ai figli minorenni nati o adottati prima dell'entrata in vigore del regolamento attuativo: sono necessari il consenso di entrambi i genitori e del figlio minorenne, qualora abbia compiuto il quattordicesimo anno di età.
E' stata recentemente presentata la Prima indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini, voluta dall'Autorità Garante per l'infanzia e l'adolescenza e condotta in partnership con Terre des Hommes e CISMAI (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso dell'infanzia), con la collaborazione e il supporto di ANCI e ISTAT.
Il primo dato fornito dà una idea del fenomeno: sono oltre 91mila i minorenni maltrattati seguiti dai Servizi Sociali.
Rispetto al totale dei bambini e adolescenti seguiti dai Servizi, i minorenni presi in carico per maltrattamento sono più numerosi al Sud e al Centro (rispettivamente 273,7 e 259,9 ogni mille) contro i 155,7 casi al Nord. Particolarmente esposte le femmine e gli stranieri. Tra le tipologie più frequenti di maltrattamento troviamo la trascuratezza materiale e/o affettiva (47,1% dei casi seguiti), la violenza assistita (19%) e il maltrattamento psicologico (14%).
Mediamente ogni bambino maltrattato riceve almeno 2 tipologie di servizio di protezione e tutela, come assistenza economica alla famiglia (nel 27,9% dei casi), inserimento in comunità (19,3%), assistenza domiciliare (17,9%), affidamento famigliare (14,4%), assistenza in un centro diurno (10,2%).
L'Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia è stata condotta su un campione di 231 Comuni italiani statisticamente rappresentativo di tutto il territorio nazionale, attraverso la compilazione di una scheda che ha permesso la raccolta di dati quali-quantitativi sui minorenni in carico ai Servizi Sociali di ciascun Comune al 31 dicembre 2013.
A chiusura dell'indagine, i promotori hanno formulato 5 Raccomandazioni per il Governo e la Conferenza delle Regioni, che chiedono di:
Con la legge 27 giugno 2013, n. 77, l'Italia è stata tra i primi paesi europei a ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica - meglio nota come ‘Convenzione di Istanbul' - adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014, a seguito del raggiungimento del prescritto numero di dieci ratifiche.
La Convenzione è il primo strumento internazionale
giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a
tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. Particolarmente
rilevante è il riconoscimento espresso della violenza contro le donne
quale violazione dei diritti umani, oltre che come forma di
discriminazione contro le donne (art. 3 della Convenzione). La Convenzione
stabilisce inoltre un chiaro legame tra l'obiettivo della parità tra i sessi e
quello dell'eliminazione della violenza nei confronti delle donne.
Inoltre, il Parlamento ha approvato la legge 119/2013, di conversione del decreto-legge 93/2013, che contiene disposizioni volte a prevenire e reprimere la violenza domestica e di genere. In particolare, il provvedimento approvato:
L'art. 5 del citato D.L. 93/2013 ha previsto l'adozione di un Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, con lo scopo di affrontare in modo organico e in sinergia con i principali attori coinvolti a livello sia centrale che territoriale il fenomeno della violenza contro le donne.
Il Piano è elaborato dal Dipartimento per le pari opportunità, con il contributo delle amministrazioni interessate, delle associazioni di donne impegnate nella lotta contro la violenza e dei centri antiviolenza, ed è adottato dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata. Esso è inoltre predisposto in sinergia con la nuova programmazione dell'Unione europea per il periodo 2014-2020.
Le finalità del Piano sono molto ampie e riguardano interventi relativi ad una pluralità di ambiti: dall'educazione nelle scuole alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica, anche attraverso un'adeguata informazione da parte dei media; dal potenziamento dei centri antiviolenza e del sostegno alle vittime al recupero degli autori dei reati; dalla raccolta di dati statistici alla formazione degli operatori di settore. Il Piano assicura il coordinamento ed il coinvolgimento di tutti i livelli di governo interessati, basandosi sulle buone pratiche già realizzate a livello territoriale, anche grazie alle azioni di associazioni e soggetti privati.
Per quanto riguarda il finanziamento del Piano straordinario, l'articolo 5 del DL 93/2013 precisava che per l'elaborazione e l'adozione del Piano possono essere anche utilizzate le risorse del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità (istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri dall'art. 19, comma 3, del D.L. 223/2006). Non sono previsti stanziamenti aggiuntivi per la concreta attuazione del Piano straordinario che - ai sensi del comma 3 dell'art. 7 – deve avvenire "senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica".
Il decreto-legge dispone al riguardo un incremento del predetto Fondo per le pari opportunità di 10 milioni di euro, limitatamente all'anno 2013, vincolati al finanziamento del piano contro la violenza di genere (art. 5, comma 4). Per gli anni 2014, 2015, e 2016 ha provveduto la legge di stabilità 2014, aumentando ulteriormente il Fondo di 10 milioni per ciascuno di questi anni, con vincolo di destinazione al piano medesimo (art. 1, comma 217, L. n. 147/2013).
Nel Bilancio 2015 della Presidenza del Consiglio-Dip.to delle Pari Opportunità, nell'ambito delle somme da destinare al Piano contro la violenza alle donne (cap. 496) sono stanziati 9,1 milioni di euro per l'elaborazione del Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (nel Bilancio 2014, le risorse stanziate ammontavano a 10 milioni di euro).
Un ulteriore finanziamento, di natura permanente, è invece specificamente destinato, nell'ambito del Piano, al potenziamento delle forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso il rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e delle case rifugio: a tal fine il Fondo per le pari opportunità è incrementato di 10 milioni di euro per il 2013, di 7 milioni per il 2014 e di 10 milioni annui a decorrere dal 2015 (art. 5-bis DL n. 93/2013). Nel citato Bilancio 2015, il finanziamento in favore dei centri antiviolenza e delle case rifugio è anch'esso di 9,1 milioni di euro (7 milioni di euro nel bilancio 2014).
Il governo ha attivato sui contenuti del piano una consultazione pubblica, sulla base di questo documento. Il contenuto del Piano è stato presentato in una conferenza stampa lo scorso 7 maggio presso la Presidenza del Consiglio ed il Piano è stato adottato con DPCM 7 luglio 2015 e registrato dalla Corte dei Conti il 25 agosto 2015. Non è prevista la pubblicazione del piano nella Gazzetta ufficiale.
Le Commissioni Giustizia e Affari sociali stanno esaminando una serie di proposte di legge – tra le quali l’A.C. 3139, approvata dal Senato – che prevedono alcune misure di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e/o del bullismo informatico (cd. cyberbullismo).
Il termine bullismo deriva dall’inglese bullying, (to
bull) che significa “usare prepotenza,
maltrattare, intimidire, intimorire”. Tale definizione è entrata ormai
nell’uso corrente per indicare un fenomeno relazionale che si instaura tra
soggetti minorenni e che si manifesta essenzialmente sotto forma di pressione
fisica e/o psicologica messa in atto da una o più persone (bulli) nei confronti
di un altro individuo percepito come più debole (vittima).
L’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che lo
scenario principale in cui trova principale collocazione il fenomeno del
bullismo è il contesto scolastico. Caratteristiche del bullismo sono:
-
l’intenzionalità, gli atti di
bullismo derivano dal dolo, la volontà consapevole di compiere determinati
atti;
-
la reiterazione nel tempo; la
condotta illecita quasi mai è isolata ma persistente nel tempo;
-
l’asimmetria di potere; la relazione
che si instaura tra bullo e vittima si basa sulla diseguaglianza (fisica e/o
psicologica) tra i protagonisti;
-
l’inconsapevolezza dell’illiceità dei comportamenti; spesso gli
autori di atti di bullismo, di fronte alle forze dell’ordine e alla
magistratura, mostrano stupore per le conseguenze penali del loro
comportamento.
Le conseguenze psicologiche (e spesso fisiche) del
bullismo sulla vittima sono di diversa natura ed intensità; normalmente ne
deriva un senso di insicurezza, calo dell’autostima, difficoltà di relazione a
scuola e in famiglia; non infrequenti i cali nel rendimento scolastico della
vittima. Recenti episodi di cronaca hanno persino dimostrato come episodi di
bullismo sono stati causa (o concausa) di atti di autolesionismo o addirittura
del suicidio di adolescenti.
Nonostante il fenomeno sia noto e studiato da anni, il termine "bullismo" è stato
utilizzato per la prima volta in una norma di rango legislativo nel 2012: l'art. 50 del D.L. 5/2012, Disposizioni urgenti in materia di
semplificazione e di sviluppo (L.
conv. 35/2012) ha previsto - nell’ambito delle norme per consolidare e
sviluppare l'autonomia scolastica - che con decreto del Ministro
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca fossero emanate linee guida per la definizione, fra
l'altro, di un organico di rete territoriale (tra istituzioni scolastiche)
finalizzato anche al contrasto dei fenomeni di bullismo.
Sebbene sia stato inquadrato in vario modo da numerosi
studi, anche in ambito internazionale, non
esiste una definizione legislativa di bullismo ed il nostro ordinamento non
prevede disposizioni specifiche per sanzionare il fenomeno.
Il bullismo fa attualmente riferimento a una serie di
condotte in gran parte riconducibili a fattispecie di reato punite dal codice
penale o da leggi speciali. Senza pretesa di esaustività si tratta
prevalentemente delle seguenti:
-
violenza privata
(art. 610 c.p.),
-
percosse (art.
581 c.p.)
-
lesioni (artt.
582 c.p.),
-
molestie (art.
660 c.p.)
-
minaccia (art.
612 c.p.),
- stalking (art.
612-bis c.p.),
-
furto (art. 624
c.p.),
-
estorsione (art.
629 c.p.),
-
danneggiamento di
cose altrui (art. 635 c.p.)
-
ingiuria (art.
594 c.p.),
-
diffamazione
(art. 595 c.p.),
-
sostituzione di
persona (art. 494 c.p.)
-
furto d’identità
digitale (art. 640-ter c.p.),
-
trattamento
illecito di dati (art. 167, D.Lgs. 196/2003, Codice della privacy).
Costituendo prevalentemente illeciti a forma libera -
che quindi si consumano con diversi mezzi o modalità - in assenza di un
inquadramento normativo specifico, la giurisprudenza ha fondato numerose pronunce di condanna per
atti di bullismo sulle fattispecie
penali già esistenti.
In giurisprudenza (Cassazione penale, sentenza n 19070 del 2008), il bullismo è stato
anche considerato come circostanza aggravante di
altro reato. La sentenza citata ha infatti confermato nei confronti di
un ragazzo la condanna inasprita dalla Corte d'appello di Napoli che aveva
riconosciuto l'esistenza del concorso in lesioni personali, aggravate dai futili motivi. Secondo la Suprema
Corte, si configura l'aggravante quando, senza essere stato provocato, si
reagisce alle altrui protesta in maniera violenta, ponendo così in essere un
comportamento arrogante e gratuitamente umiliante inteso ad annientare l'altrui
personalità.
Sotto il profilo dell’imputabilità – a parte i
casi di bulli maggiorenni, soggetti alla disciplina ordinaria - l’art.
98 c.p. prevede l’imputabilità del minorenne con più di 14 anni al momento
del fatto di cui sia riconosciuta la capacità di intendere e di volere (ma la
pena è diminuita).
L’art. 97 c.p.
esclude invece l’imputabilità del minore di 14 anni. Tuttavia, ove quest’ultimo
sia ritenuto pericoloso, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e
delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, il giudice
minorile ne ordina il ricovero in riformatorio giudiziario o lo pone in libertà
vigilata (art. 224 c.p.).
Gli atti di bullismo, ove connotati da particolare gravità,
possono giustificare anche misure
cautelari. Nel gennaio 2015 a Salò, in provincia di Brescia, un sedicenne
che minacciava, aggrediva e picchiava un coetaneo compagno di scuola, estorcendogli
quotidianamente denaro, è stato denunciato dai genitori della vittima ed
arrestato dai Carabinieri. ll Tribunale dei Minorenni di Brescia ha convalidato
l’arresto e ha applicato al bullo la misura della permanenza in casa; «per non
interrompere i processi educativi» è stata data al minore la possibilità di uscire
solo per gli impegni scolastici.
Sotto il profilo della responsabilità civile, va ricordato il ruolo dei genitori del
minore autore degli atti di bullismo nonché, ove il fatto si verifichi durante
le ore scolastiche, degli insegnanti (questi ultimi ex art. 2048, secondo comma
c.c.), sia gli uni che gli altri passibili di condanna al risarcimento danni
alla vittima per colpa (culpa in educando per
i genitori, in vigilando per gli
insegnanti). L’esonero dalla
responsabilità consegue alla dimostrazione (particolarmente difficile per i
genitori, tenuti ai loro obblighi educativi) di non avere in alcun modo
impedire il fatto.
Sul punto, Cassazione civile, sentenza 21 febbraio 2003, n. 2657 ha
precisato che per superare la presunzione di responsabilità che ex art. 2048
c.c. grava sull'insegnante per il fatto illecito dell'allievo, non è
sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un
intervento correttivo o repressivo, dopo l'inizio della serie causale sfociante
nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato,
in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad
evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di
detta serie causale.
Quando gli atti di bullismo sono compiuti mediante
l’uso della rete e, in generale, dei mezzi informatici e telematici, il
fenomeno viene comunemente definito come bullismo informatico o cyberbullismo.
I relativi atti illeciti sono quindi effettuati tramite mezzi elettronici come
l'e-mail, la messaggistica istantanea, i telefoni cellulari, i social
media, i blog.
In particolare, gli atti di cyberbullismo sono compiuti, nella grande maggioranza dei casi, da
soggetti minorenni e talvolta minori di 14 anni, per i quali il nostro ordinamento
giuridico non riconosce l'imputabilità.
Come il bullismo nella vita reale, il cyberbullismo
può produrre conseguenze sul piano civile (art. 2043 c.c.) e penale.
Rispetto al bullismo tradizionale, l'uso dei mezzi
elettronici conferisce al cyberbullismo alcune caratteristiche proprie quali:
-
l'anonimato
del molestatore; in realtà, l’anonimato è illusorio in quanto ogni
comunicazione elettronica lascia delle tracce. Per la vittima però è difficile
risalire da sola al proprio molestatore e, a fronte dell'anonimato del
cyberbullo, dati e notizie sul conto della vittima possono essere inoltrate a
un ampio numero di persone;
-
la difficile
reperibilità; se il cyberbullismo avviene via sms, e-mail, o
in un forum on line privato, ad esempio, è più difficile reperirne
l'autore e porvi rimedio;
-
l’indebolimento
delle remore etiche; le due caratteristiche precedenti, abbinate con la
possibilità di essere «un'altra persona» on line (vedi giochi di ruolo),
possono indebolire le remore etiche; spesso la gente fa e dice on line cose
che non farebbe o direbbe nella vita reale;
-
l’assenza di
limiti spazio-temporali; mentre il bullismo tradizionale avviene di solito in
luoghi e momenti specifici (ad esempio in contesto scolastico), il bullismo
informatico investe la vittima ogni volta che si collega al mezzo elettronico
utilizzato dal suo persecutore.
Secondo un inquadramento di tipo psicologico, gli
studiosi hanno complessivamente ricostruito le seguenti categorie di
cyberbullismo:
-
flaming: messaggi on
line violenti e volgari mirati a suscitare battaglie verbali in un forum;
-
molestie (harassment):
spedizione ripetuta di messaggi insultanti mirati a ferire qualcuno;
denigrazione: sparlare di qualcuno per danneggiare gratuitamente e con
cattiveria la sua reputazione, via e-mail, messaggistica istantanea,
gruppi su social network eccetera;
- sostituzione di persona (impersonation): farsi
passare per un'altra persona per spedire messaggi o pubblicare testi
reprensibili;
- rivelazioni (exposure): pubblicare informazioni
private o imbarazzanti su un'altra persona; inganno;
- (trickery): ottenere
la fiducia di qualcuno con l'inganno per poi pubblicare o condividere con altri
le informazioni confidate via mezzi elettronici; esclusione: escludere
deliberatamente una persona da un gruppo on line per provocare in essa un
sentimento di emarginazione;
- cyber persecuzione (cyberstalking): molestie e denigrazioni ripetute e minacciose mirate a incutere paura.
Il dilagare del bullismo ne ha fatto un fenomeno su
cui da tempo si è concentrata l’attenzione, soprattutto degli operatori del
sociale.
Sulla dimensione e le forme del bullismo in Italia,
la Fondazione Censis, su incarico del Ministero dell'istruzione, ha svolto nel
2008 la "Prima indagine nazionale sul Bullismo". Ricerche comparate
più recenti condotte da singoli studiosi sono state svolte e presentate nel
2010, nel 2012 e per gli Stati Uniti nel 2014.
Una ricerca realizzata nel 2013 da Save the
Children, in collaborazione con Ipsos, evidenziava come 4 minori su 10 sono
testimoni di atti di bullismo online verso coetanei, percepiti «diversi»
per aspetto fisico (67 per cento), per orientamento sessuale (56 per cento) o
perché stranieri (43 per cento).
Ferme restando le diversità di approccio - sul piano penalistico o sociale – delle diverse proposte di legge, si segnalano tra le caratteristiche principali delle proposte di legge:
- la definizione degli atti di bullismo e di cyberbullismo;
- la previsione di specifiche sanzioni penali;
- il coinvolgimento delle famiglie e l'introduzione dell'ammonimento al minore, prima della denuncia o della querela;
- l'accesso a una procedura davanti al Garante della privacy a tutela del minore per ottenere l'oscuramento , la rimozione o il blocco dei dati personali illeciti;
- la previsione di tavoli tecnici intergovernativi e piani d'azione integrati;
- l'accresciuto ruolo delle istituzioni scolastiche per la prevenzione dei fenomeni illeciti e l'uso consapevole di Internet.
Sulle tematiche sottese alle proposte di legge le Commissioni riunite hanno deliberato lo svolgimento di un’indagine conoscitiva (v. seduta del 26 novembre 2015).
La tratta di esseri umani è espressamente punita nel nostro ordinamento dall'entrata in vigore della legge n. 228 del 2003 con la quale sono stati riscritti gli articoli del codice penale già relativi alla riduzione in schiavitù (artt. 600, 601 e 602). La definizione delle condotte punibili a titolo di tratta è stata poi da ultimo ampliata dal decreto legislativo n. 24 del 2014, che ha dedicato attenzione anche al profilo del risarcimento delle vittime. Le circostanze che comportano un aumento delle pene in caso di commissione di questi delitti sono state modificate dalla legge n. 108 del 2010 che ha inserito nel codice penale l'art. 602-bis. Come di seguito si evidenzierà, la disciplina del traffico di esseri umani nel nostro Paese è prevalentemente frutto dell'attuazione di normativa di derivazione europea (decisione quadro 2002/629/GAI e poi direttiva 2011/36/UE) e di convenzioni internazionali.
Nel corso della XIV legislatura il Parlamento ha approvato la legge 11 agosto 2003, n. 228, Misure contro la tratta di persone, diretta ad introdurre nuove disposizioni penali e a modificare quelle già esistenti allo scopo di contrastare il fenomeno della riduzione in schiavitù e, più in particolare, di quella forma di riduzione in schiavitù derivante dal traffico di esseri umani. Si tratta di una nuova schiavitù riguardante esseri umani – soprattutto donne e bambini – provenienti dai paesi poveri del mondo che, spinti nel nostro Paese dalla speranza di una diversa prospettiva di vita, sono costretti alla prostituzione, al lavoro forzato e all'accattonaggio.
Il nucleo principale della legge consiste nella modifica degli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, concernenti rispettivamente i reati di "riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù", "tratta di persone" e "acquisto e alienazione di schiavi", per i quali vengono sensibilmente aumentate le pene, arrivando fino ad un massimo di venti anni.
In particolare, l'articolo 600 del codice penale punisce con la reclusione da otto a venti anni, chiunque riduca una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù. Il nuovo articolo 600 si riferisce, a tale proposito:
Con il d.lgs. n. 24 del 2014 è stato aggiunta la costrizione al compimento di attività illecite che comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi.
Per definire poi in maniera più tassativa la fattispecie incriminatrice, viene precisato che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione possono configurarsi in presenza di una condotta particolarmente connotata. In particolare si richiede che la condotta sia attuata mediante:
L'aggravante originariamente prevista dall'art. 600 c.p. è stata soppressa nella scorsa legislatura con la ratifica della Convenzione di Varsavia (v. infra).
L'articolo 601 del codice penale definisce, punendolo con la reclusione da otto a venti anni, il delitto di tratta di persone, ritenendolo applicabile sia quando ne risultino vittima soggetti già ridotti in schiavitù o in servitù, sia quando esso riguardi soggetti che vengono trafficati allo scopo di essere ridotti in tali situazioni.
La condotta qualificante la nuova figura di reato è stata modificata dal d.lgs. n. 24 del 2014 e consiste oggi:
Alla stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma, realizza le condotte ivi previste nei confronti di persona minore di età.
Anche in questo caso la legge del 2003 prevedeva un'aggravante che è stata ora espunta dall'articolo (v. infra).
L'articolo 602 del codice penale prevede e disciplina la fattispecie di acquisto e alienazione di schiavi. La norma ha carattere residuale poiché disciplina le ipotesi che non sono già ricadenti nella fattispecie di tratta di persone (art. 601).
L'elemento oggettivo del reato in tali casi consiste nell'acquisto, nell'alienazione o nella cessione di una persona che si trovi in condizione di schiavitù o servitù ai sensi dell'articolo 600 c.p. La pena stabilita è quella della reclusione da otto a venti anni.
Per questi delitti:
La legge sulla tratta ha inoltre novellato il delitto di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) affermando che laddove l'associazione sia diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi di cui al comma 1 – promotori costitutori o organizzatori dell'associazione – e da quattro a nove anni nei casi di cui al comma 2 – partecipazione all'associazione.
Oltre alle sanzioni penali, la legge 228/2003 prevede anche sanzioni amministrative nei confronti di persone giuridiche, allorché i soggetti che le rappresentano o che nelle stesse ricoprano le particolari cariche previste dalla legge, commettano alcuno dei reati contro la personalità individuale previsti agli artt. 600-604 del codice penale. Si tratta delle sanzioni pecuniarie "per quote" previste dal D.Lgs 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica) dettate da un apposito art. 25-quinquies; la norma prevede, nei casi più gravi, l'interdizione temporanea per un anno (se non addirittura definitiva) dall'attività istituzionale dell'ente.
Dal punto di vista della prevenzione dei reati e dell'assistenza alle vittime degli stessi, la legge del 2003 ha previsto:
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha approvato la legge 2 luglio 2010, n. 108, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), conseguentemente adeguando l'ordinamento interno.
La Convenzione di Varsavia si pone come obiettivo la prevenzione e la
lotta, in ambito sia nazionale sia internazionale, contro la tratta degli
esseri umani in tutte le sue forme, collegate o meno alla criminalità
organizzata, ed in relazione a tutte le vittime, siano esse donne, bambini o
uomini. La Convenzione ha l'obiettivo di:
prevenire e combattere la tratta di
esseri umani, garantendo la parità tra le donne e gli uomini;
proteggere i diritti umani delle
vittime della tratta, delineare un quadro completo per la protezione e
l'assistenza alle vittime e ai testimoni, garantendo la parità tra le donne e
gli uomini, in modo da assicurare indagini e procedimenti giudiziari efficaci;
promuovere la cooperazione
internazionale nel campo della lotta alla tratta di esseri umani.
La Convenzione di Varsavia pone in
risalto il fatto che la tratta costituisce una violazione dei diritti umani e
un affronto alla dignità e all'integrità delle persone, e che, in tal senso,
occorre intensificare la protezione di tutte le sue vittime. Nessun altro testo
internazionale prima di questo documento, ha fissato una definizione di
vittima, in quanto veniva lasciato a ciascun Stato il compito di definire
chi doveva essere considerato una vittima, potendo quindi usufruire delle
misure di tutela e di assistenza. Nella Convenzione si definisce vittima ogni
persona oggetto di tratta e viene stabilito, inoltre, un elenco di disposizioni
obbligatorie di assistenza a favore delle vittime della tratta: in particolare,
le vittime della tratta devono ottenere un'assistenza materiale e psicologica,
e un supporto per il loro reinserimento nella società. Tra le misure previste,
sono indicate le cure mediche, le consulenze legali, le informazioni e la
sistemazione in un alloggio adeguato. Si prevede, inoltre, un risarcimento per
un periodo di ristabilimento e di riflessione di almeno 30 giorni. Vi è anche
la possibilità di rilasciare dei permessi di soggiorno alle vittime della
tratta, o per ragioni umanitarie, oppure nel quadro della loro cooperazione con
le autorità giudiziarie. La Convenzione prevede anche una possibile scriminante
per loro coinvolgimento delle vittime della tratta in attività illegali, nella
misura in cui vi siano state costrette.
La legge n. 108 del 2010 ratifica la Convenzione e detta disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno. In particolare, la legge novella le fattispecie penali già previste dal codice per punire la tratta di esseri umani. In ragione dell'intervento legislativo del 2003, infatti, l'ordinamento italiano non ha avuto bisogno di pesanti misure di adeguamento alla Convenzione di Varsavia e si è rivelata sufficiente una novella delle circostanze aggravanti dei già previsti delitti di tratta.
Infatti, per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p., tutti puniti con la reclusione da otto a venti anni, il codice dal 2003 prevedeva le medesime circostanze aggravanti - da cui derivava l'aumento della pena da un terzo alla metà - collegate alla minore età della vittima, ovvero alla finalizzazione del delitto allo sfruttamento della prostituzione o al traffico di organi.
La legge 108/2010 ha abrogato le singole aggravanti previste dagli articoli 600, 601 e 602, introducendo nel codice penale un nuovo articolo (art. 602-ter), rubricato Circostanze aggravanti.
La disposizione, in relazione ai citati delitti, conferma l'aumento da un terzo alla metà della pena nelle ipotesi già previste dalle norme previgenti (persona offesa minore di 18 anni e fatti diretti allo sfruttamento della prostituzione o commessi al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi), aggiungendo un'ulteriore circostanza aggravante per l'ipotesi in cui dal fatto derivi un grave pericolo per la vita o l'integrità fisica o psichica della persona offesa (primo comma).
Il legislatore ha inoltre dato seguito all'articolo 20 della Convenzione di Varsavia, che impegna le parti ad attribuire rilevanza penale ai seguenti atti, in quanto commessi intenzionalmente al fine di consentire la tratta degli esseri umani:
Conseguentemente, il secondo comma dell'articolo 602-ter, introdotto dall'articolo 3 della legge, introduce una nuova circostanza aggravante applicabile ai delitti di Falsità in atti di cui al Titolo VII, Capo III, del Libro II.
Tale Capo, in particolare, disciplina i reati di
falsità materiale e di falsità ideologica (posti in essere da parte del
pubblico ufficiale o del privato) ovvero, rispettivamente, condotte che
riguardano la formazione di documenti falsi e l'alterazione di documenti veri,
o che attengono alla veridicità del contenuto di atti materialmente integri. Il
suddetto Capo punisce anche la distruzione, soppressione e l'occultamento di
documenti veri, nonché l'uso di atti falsi.
In particolare, la legge prevede un aumento delle pene da un terzo alla metà nel caso in cui tali fatti siano commessi al fine di realizzare o agevolare i delitti di Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, Tratta di persone e Acquisto e alienazione di schiavi.
Infine, nell'attuale legislatura, il Governo ha emanato il decreto legislativo n. 24 del 2014, con il quale ha dato attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.
Rispetto alla previgente disciplina,
contenuta nella decisione quadro 2002/629/GAI, attuata con la legge sulla
tratta del 2003, la direttiva europea, approvata dopo l'entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, provvede a riordinare la materia in maniera più organica
proponendo, in particolare, una nuova e più ampia definizione del delitto di
tratta di esseri umani. In quest'ultima nozione rientrerebbero il
reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'alloggio o l'accoglienza di
persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell'autorità sulle vittime,
con la minaccia dell'uso o con l'uso stesso della forza o di altre forme di
coercizione, con il rapimento, la frode, l'inganno, l'abuso di potere o della
posizione di vulnerabilità o con l'offerta o l'accettazione di somme di denaro
o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su
un'altra, a fini di sfruttamento (art. 2, par. 2). In presenza di tali mezzi di
coercizione, il consenso della vittima è irrilevante (art. 2, par. 4). La
direttiva precisa che la cd. "posizione di vulnerabilità"
presuppone una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta
effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima.
L'art. 3 prevede la punibilità con pene
effettive, proporzionate e dissuasive dei reati di istigazione,
favoreggiamento e concorso o tentativo nella commissione dei reati di tratta di
cui all'art. 2. Dal punto di vista sanzionatorio la direttiva (art. 4) impone
agli Stati membri di prevedere che i reati di tratta (art. 2) siano punibili
con la reclusione della durata massima di almeno 5 anni (la decisione quadro
del 2002 non prevedeva alcuna soglia). Tale limite aumenta a 10 anni quando il
reato:
a) sia stato commesso nei confronti di una vittima particolarmente vulnerabile,
con particolare riferimento ai minori;
b) sia stato commesso nel contesto di un'organizzazione criminale;
c) abbia messo in pericolo la vita della vittima intenzionalmente o per colpa
grave;
d) sia stato commesso ricorrendo a violenze gravi o abbia causato alla vittima
un pregiudizio particolarmente grave.
Nuova previsione è quella che
prevede l'adozione di sequestro e confisca di strumenti e proventi del
reato di tratta (art. 7).
Sotto il profilo procedurale, la
novità della direttiva consiste nella previsione che gli Stati membri adottino
le misure necessarie per garantire la non perseguibilità dei reati che le
vittime della tratta fossero costrette a compiere come conseguenza diretta di
uno degli atti di cui all'articolo 2 (art. 8). Parimenti, devono essere
adottate, a livello nazionale, le misure necessarie affinché le indagini o
l'azione penale relative ai reati di cui agli articoli 2 e 3 non siano
subordinate alla querela, alla denuncia o all'accusa formulate da una vittima e
il procedimento penale possa continuare anche se la vittima ritratta una
propria dichiarazione (art. 9).
Infine, sono previste alcune
disposizioni in materia di assistenza e sostegno alle vittime di reati
di tratta di esseri umani (art. 11), nonché di tutela delle stesse nelle
indagini e nei procedimenti penali (art. 12). Queste ultime si aggiungono alle
garanzie previste in favore delle vittime vulnerabili all'interno dei
procedimenti penali dalla decisione quadro 2001/220/CE. Disposizioni specifiche
e di particolare ampiezza riguardano l'assistenza, il sostegno e la tutela dei
minori (v. artt. 13-16), anche in sede processuale.
La direttiva prevede poi, come
novità, che possa essere concesso un permesso di soggiorno per motivi
umanitari alla vittima della tratta anche indipendentemente dalla sua
collaborazione con la giustizia (art. 11). Più in generale la direttiva
introduce una serie di nuove misure finalizzate a rafforzare è completare la
rete di sostegno ed assistenza, anche psicologica, alle vittime della tratta,
con particolare riferimento ai minori di 18 anni (artt. 11-16); sul punto, va
segnalata tra le altre la previsione di una nomina di un tutore del minore non
accompagnato (art. 16). Una specifica previsione riguarda il diritto delle
vittime della tratta all'accesso a sistemi di risarcimento delle vittime dei
reati dolosi violenti (art. 17).
Il decreto legislativo integra la formulazione data dal codice penale ai delitti di cui agli articoli 600 e 601:
Il decreto legislativo integra la formulazione dell'art. 398 c.p.p. in materia di incidente probatorio, aggiungendovi un nuovo comma 5-ter che prevede che il giudice, su richiesta di parte, estende anche alle persone maggiorenni "in condizioni di particolare vulnerabilità" (desunte anche dal tipo di reato per cui si procede) le cautele previste dal comma 5-bis per l'incidente probatorio che coinvolga minori di età. In particolare, sarà possibile che la deposizione avvenga con modalità protette (es. con l'uso di un vetro divisorio) o che l'udienza si svolga anche in luogo diverso dal tribunale o, in mancanza, presso l'abitazione della persona maggiorenne interessata all'assunzione della prova; il giudice potrà avvalersi, ove possibile, di strutture specializzate di assistenza e le dichiarazioni potranno essere documentate integralmente con mezzi audiovisivi.
La riforma interviene poi sui diritti dei minori non accompagnati vittime di tratta (cfr. art. 16 della direttiva) prevedendo che il minore debba essere informato dei suoi diritti, anche in riferimento al suo possibile accesso alla protezione internazionale. E' previsto che un decreto del Presidente del Consiglio definisca la procedura attraverso cui – nel superiore interesse del minore - personale specializzato procede all'identificazione e alla determinazione dell'età del minore non accompagnato, anche attraverso l'eventuale collaborazione delle autorità diplomatiche.
Ulteriori disposizioni riguardano:
Le modifiche che il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24 ha apportato agli articoli 600 e 601 del codice penale e all'articolo 398 del codice di procedura penale sono analizzate dalla relazione n. III/04/2014 dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.
Lo scorso settembre la Direzione generale di statistica del Ministero della giustizia ha pubblicato un'indagine statistica su un campione rappresentativo di fascicoli definiti con sentenza relativamente ai reati ex art. 600, 601 e 602 del codice penale.
Lo studio evidenzia che ogni anno in Italia vengono iscritte in media circa 209 contestazioni di reato inerenti la tratta di esseri umani nei registri dell'ufficio Gip/Gup e una media di 33 nei registri della Corte di Assise. La gran parte (73%) riguarda la riduzione in schiavitù (art. 600 cp), il 23% la tratta di persone (art. 601) e il 4% l'alienazione e acquisto di schiavi (art. 602 cp).
Nel triennio 2011-2013, le sentenze di primo grado che interessano l'articolo 600 del codice penale sono state in media 54 (in 18 la pronuncia riguarda l'articolo 601 e in 2 è trattato l'articolo 602). La percentuale delle condanne è più alta per gli artt. 600 e 601, rispettivamente pari al 69% e al 67%, mentre scende al 50% per l'art. 602. Le assoluzioni rappresentano per tutte e tre le fattispecie di reato circa il 20% degli esiti delle sentenze, il resto è costituito dalle sentenze promiscue che prevedono cioè assoluzioni per alcuni imputati e condanne per altri. Una media di 67 fattispecie di reato inerenti la tratta di esseri umani finisce ogni anno in corte d'appello e circa 49 vengono definiti. Nel complesso, nel secondo grado di giudizio, la percentuale di condanne aumenta raggiungendo il 79% del totale delle sentenze.
Dall'indagine statistica emerge che la vittima tipica dello sfruttamento corrisponde al profilo di un/una giovane, di età media di 25 anni, nel 75,2% dei casi è di sesso femminile, di nazionalità estera, principalmente rumene (51,6%) e nigeriane (19%), in alcuni casi sposate (13,6%) o con figli (22,3%).
Il 15,7% delle vittime sono rappresentate da minorenni che giungono in Italia insieme o con il consenso dei genitori mentre il 21,4% sono uomini desiderosi di venire in Italia con la speranza di trovare un lavoro. Lo sfruttamento ha inizio appena giunti nel nostro paese perché quasi sempre la vittima decide volontariamente di partire, nell'84,5% dei casi per cercare lavoro mentre solo nel 4,4% perché costretta.
In genere, come si evince dalle dichiarazioni delle vittime, ci si rivolge ad un connazionale che già vive in Italia il quale poi mette in atto lo sfruttamento con l'inganno o la promessa di un lavoro, denaro o altri vantaggi – ciò avviene il 56,9% delle volte - con violenze e minacce rispettivamente il 39,8% e 31,4% delle volte. Ci sono inoltre vittime (l'11,7% del campione) sfruttate approfittando della loro inferiorità fisica o psichica e quindi costrette per il loro stato di handicap a sottostare alle condizioni si schiavitù dell'autore dello sfruttamento per poter vivere.
Nel caso delle donne, 3 volte su 4, una volta giunte in Italia, vengono costrette a prostituirsi subendo minacce e violenze fisiche e sessuali; nel caso degli uomini, invece, l'attività prevalente cui sono sottoposti è il lavoro in condizioni di schiavitù (48,3%) seguito dai furti (36,2%) e dall'accattonaggio (29,3%).
Un'altra tipologia di sfruttamento è poi quella che riguarda i bambini, anch'essi costretti di sovente a prostituirsi nel caso di ragazze adolescenti (68%) o impiegati per commettere furti nel caso dei maschi (46,1%). In genere i bambini, ma a volte anche donne e uomini adulti, finiscono in un campo nomadi dove vivono in condizioni di estrema indigenza e dove sono costretti a rubare o a mendicare per poi consegnare tutto il ricavato all'organizzazione. Sovente c'è anche un legame di parentela tra le persone che vivono nel campo nomadi per cui le attività illecite, anche se imposte, vengono vissute come una necessità per la sopravvivenza familiare. Le analogie tra la situazione delle vittime e quella degli organizzatori, che spesso partecipano alle attività criminose e vivono nelle stesse disagiate condizioni delle vittime, non sempre portano i giudici a condannarli per il reato di riduzione in schiavitù o tratta di persone.
Gli autori dei reati di riduzione in schiavitù, tratta di persone e alienazione e acquisto di schiavi hanno un'età media di 35 anni, 2 volte su 3 sono uomini, in gran parte stranieri (87,4%) tra cui il 45,2% è di nazionalità rumena, il 14,9% albanese e il 10,1% nigeriana.
Per quanto riguarda la correlazione statistica tra le diverse etnie e le tre distinte fattispecie di delitto, si segnala una propensione maggiore rispetto alla media di criminali bosniaci, italiani e serbi per il reato di riduzione in schiavitù, di nigeriani per la tratta di persone e di albanesi e nigeriani per il commercio di schiavi. A livello assoluto prevalgono imputati di nazionalità rumena per l'articolo 600 del codice penale e di nazionalità nigeriana per gli articoli 601 e 602. Queste fattispecie delittuose sono connesse con altri reati nell'83% degli autori, in quasi la metà dei casi con il favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione e in quasi un terzo con l'associazione a delinquere e con violazioni delle norme sull'immigrazione. Tutti crimini la cui percentuale di condanne risulta molto alta, rispettivamente 82,9%, 67,1% e 73,7%.
Considerando tutti i capi di imputazione relativi alla tratta di esseri umani (articoli 600, 601 e 602 cp) risulta una frequenza di condanna o patteggiamento pari al 59,6% (60,1% per l'art. 600, 58,1% per l'art. 601 e 59,3% per l'art.602) mentre i fascicoli con almeno una condanna per uno dei 3 capi di imputazione sono il 68,4%.
Nell'83% dei casi il reato di tratta è connesso con altri reati, tra i reati connessi la percentuale delle condanne è pari al 77%.
La pena media inflitta ai condannati per tratta, comprensiva anche di quella per reati connessi, è di 9 anni, in un terzo dei casi la penna comminata è compresa tra i 6 e i 9 anni.
La pena per il solo reato di tratta, per gli imputati che non hanno altri reati connessi, è di 5 anni e mezzo, nel 35% di questi è compresa tra i 3 e i 6 anni.
Con l’emanazione del decreto legislativo n. 39 del 2014 si è dato attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2011/93/UE, in tema di lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile.
La direttiva 2011/93, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13
dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale
dei minori e la pornografia minorile, sostituisce la decisione quadro
2004/68/GAI. Essa si pone l’obiettivo di ravvicinare ulteriormente le
legislazioni penali degli Stati membri in materia di abuso e sfruttamento sessuale
dei minori, pornografia minorile e adescamento di minori per scopi sessuali,
stabilendo norme minime relative alla definizione dei suddetti reati e delle
relative sanzioni, nonché l’obiettivo di introdurre disposizioni intese a
rafforzare la prevenzione di tali reati e la protezione delle vittime
minorenni.
Dal momento che alcune vittime della
tratta di esseri umani sono anche vittime minorenni di abusi sessuali o di
sfruttamento sessuale, la direttiva va considerata complementare alla direttiva
concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani
(2011/36, il cui recepimento è realizzato dal decreto legislativo n. 24 del
2014).
La direttiva sostituisce la
decisione quadro 2004/68/GAI (adottata il 22 dicembre 2003), attuata dall’Italia
con la legge n. 36 del 2008, contenente disposizioni in materia di lotta contro
lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo
Internet
Peraltro, successivamente, il nostro
Parlamento ha anche approvato la legge
n. 172 del 2012, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del
2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote), recante
rilevanti disposizioni di adeguamento interno. A seguito di questi due recenti
interventi, la legislazione italiana di contrasto della pedofilia e dello
sfruttamento sessuale dei minori ha raggiunto un livello avanzato di tutela.
Dopo avere chiarito l oggetto
dell’intervento normativo (articolo 1), la direttiva all’articolo 2 contiene le
consuete definizioni, che non pongono problemi di adeguamento interno.
In particolare, la direttiva rimette
agli Stati membri la individuazione dell’età del consenso sessuale, al di sotto
della quale è vietato compiere atti sessuali con un minore. Si ricorda che il
nostro codice penale individua nei 14 anni l’età al di sotto della quale gli
atti sessuali con un minorenne sono considerati violenza sessuale (16 anni se
il rapporto è con qualcuno legato al minore da vincoli di convivenza o di
cura); il consenso sessuale è considerato prestato anche dal tredicenne se la
differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni.
In particolare, quanto ai reati e
alle relative pene, la direttiva definisce una ventina di fattispecie,
suddivise in quattro categorie, ed impone agli Stati di prevedere pene
detentive massime superiori a talune soglie (che vanno da uno a dieci anni in
relazione alla gravità dei fatti e al fatto che il minore abbia raggiunto o
meno l’età del consenso sessuale); impone poi agli Stati di attribuire
rilevanza penale all’istigazione a commettere quei reati. Si tratta di:
- reati di abuso sessuale, come
compiere attività sessuali con un minore che non ha raggiunto l’età del
consenso sessuale o costringerlo a compiere tali attività con un’altra persona;
- reati di sfruttamento sessuale,
come ad esempio costringere un minore a prostituirsi o a partecipare a
spettacoli pornografici;
- reati di pornografia minorile:
possedere, accedere, distribuire, fornire e produrre materiale pedopornografico;ƒ
- reati di adescamento di minori su
internet per scopi sessuali: proporre su Internet un incontro con un minore con
l’intento di commettere abusi sessuali o incoraggiarlo, con lo stesso mezzo, a
fornire materiale pornografico che ritragga tale minore.
Per quanto concerne le attività sessuali consensuali, l’articolo 8 della direttiva lascia gli
Stati membri liberi di decidere se certe pratiche siano o meno punibili quando
coinvolgono persone vicine per età, grado di maturità fisica e psicologica e
che possono essere considerate come la normale scoperta della sessualità.
La direttiva prevede diverse
circostanze aggravanti, in particolare quando il reato è commesso nei confronti
di un minore in situazione di particolare vulnerabilità o da un familiare del
minore, o da una persona che ha abusato della sua posizione di fiducia o di
autorità, o ancora quando l'autore è già stato condannato per reati della
stessa indole (art. 9).
Dal punto di vista processuale-penale, la direttiva
richiede che i minorenni coinvolti nei reati di sfruttamento sessuale e
conseguentemente obbligati a compiere ulteriori attività criminali non siano
perseguiti (articolo 14).
L’articolo 15 della direttiva
richiede che le indagini e le azioni legali relative a questi reati non siano
subordinate alla querela o alla
denuncia formulate dalla vittima e afferma che il procedimento penale deve
continuare, anche se la persona ha ritirato la sua dichiarazione. La stessa
disposizione della direttiva richiede che, per i reati più gravi, l’azione
penale possa essere consentita per un congruo periodo di tempo dopo che la vittima ha raggiunto la maggiore età.
Sul versante delle indagini, l’articolo 15 della direttiva
richiede agli Stati di garantire anche alla repressione di questo tipo di criminalità
strumenti investigativi efficaci, analoghi a quelli applicati per le
indagini sulla criminalità organizzata.
L’articolo 17 della direttiva prevede inoltre che gli Stati debbano
stabilire la propria giurisdizione
per i reati di sfruttamento sessuale dei minori non solo quando il fatto è
commesso sul proprio territorio, ma anche quando l’autore del reato è un loro
cittadino, anche se il reato è commesso all’estero. Gli Stati possono inoltre
affermare la propria giurisdizione anche quando i reati di sfruttamento
sessuale dei minori sono commessi fuori del proprio territorio ma: in danno di
un proprio cittadino o di un residente nel proprio territorio; a vantaggio di
una persona giuridica che ha sede nel proprio territorio; da parte di colui che
risiede abitualmente nel proprio territorio; attraverso
tecnologie di comunicazione alle quali l’autore del delitto ha avuto accesso
dal proprio territorio.
Lo Stato membro non deve subordinare
la propria giurisdizione né alla condizione che i fatti costituiscano reato nel
Paese nel quale sono commessi, né alla eventuale condizione di procedibilità
della querela della persona offesa.
Gli articoli 12 e 13 della Direttiva 2011/93/UE prevedono che gli Stati
membri debbano assicurare che anche le persone
giuridiche possano essere ritenute responsabili e sanzionate qualora il
reato di sfruttamento sessuale dei minori sia commesso per loro conto da una
persona che eserciti potere decisionale.
La direttiva detta una particolare
disciplina in relazione alle attività
professionali a contatto con i minori. Per evitare il rischio di recidiva,
gli autori di uno dei reati di sfruttamento sessuale dei minori previsto dalla
direttiva dovrebbero essere interdetti
dall’esercizio di attività professionali che comportano contatti regolari e
diretti con minori (articolo 10, par. 1).
L’articolo 10 della direttiva
prevede, inoltre, che i datori di lavoro
hanno il diritto di essere informati dell’esistenza di una condanna o delle
misure interdittive esistenti. Tali informazioni devono inoltre essere
trasmesse agli altri Stati membri onde evitare che un pedofilo possa usufruire
della libera circolazione dei lavoratori nell’UE per lavorare con minori in un
altro paese.
Gli articoli 22 e 24 della direttiva
prevedono programmi specifici per ridurre il rischio di recidiva che devono
essere offerti alle persone condannate o perseguite per reati sessuali contro i
minori nonché a coloro che ritengano di poter commettere i reati di
sfruttamento sessuale dei minor. Tali persone devono inoltre essere valutate
per determinare il pericolo che esse rappresentano e il rischio di recidiva.
In conformità con le disposizioni
previste dalla direttiva relativa alla posizione della vittima nel procedimento
penale, la Direttiva 2011/93/UE prevede che si debba assicurare un’assistenza e un sostegno alle vittime prima, durante e dopo il
procedimento penale.
In relazione alla pornografia infantile su internet, l’articolo 25 della Direttiva stabilisce
che gli Stati membri devono garantire la tempestiva rimozione delle pagine web
che contengono o diffondono materiale pedopornografico ospitate nel loro
territorio e adoperarsi per ottenere la rimozione di pagine ospitate al di
fuori del loro territorio. In determinate condizioni di trasparenza e di
informazione degli utenti internet, hanno altresì facoltà di bloccare l’accesso
a tali siti.
Il decreto legislativo n. 39 del 2014, muovendo da un quadro normativo che, soprattutto a seguito della ratifica della Convenzione di Lanzarote, riconosce un elevato livello di tutela ai minori vittime di sfruttamento sessuale, può dare attuazione alla direttiva europea con pochi interventi riformatori.
In particolare, il decreto legislativo novella alcuni articoli del codice penale (artt. 602-ter, 609-ter, 609-quinquies e 609-undecies), prevedendo:
· una serie di ulteriori circostanze che aggravano i delitti di pedopornografia (prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, pornografia virtuale). In particolare, con la modifica all’art. 602-ter c.p. si prevedono aggravanti quando il reato è commesso da più persone riunite; dal componente di un’associazione a delinquere e al fine di agevolarne l’attività; con violenze gravi o con grave pregiudizio del minore «a causa della reiterazione delle condotte». Inoltre, la riforma aggrava ulteriormente le pene per i reati di pedopornografia quando gli stessi siano commessi avvalendosi di tecnologie informatiche volte a impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche;
· nuove aggravanti del delitto di violenza sessuale (art. 609-ter c.p.). Anche in questo caso il decreto legislativo recepisce l’articolo 9 della direttiva europea ed in particolare le circostanza previste dalle lettere d) (il reato è stato commesso nel contesto di un'organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata) e g) (il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave);
· nuove aggravanti del delitto di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.). Analogamente a quanto previsto dalle disposizioni precedenti, il delitto è aggravato quando è commesso: da più persone riunite; da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività; con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.
Il decreto legislativo introduce inoltre nel codice penale l’articolo 609-dundecies, volto ad aggravare le pene per i delitti di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo e adescamento di minorenne, quando i reati siano commessi con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche. La pena è aumentata in misura non eccedente la metà.
Con una modifica al Testo Unico in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (D.P.R. 313/2002), il decreto legislativo inserisce l’art. 25-bis, che disciplina il certificato penale del casellario giudiziale che può essere richiesto dal datore di lavoro. Il nuovo articolo 25-bis dispone infatti che il certificato penale debba essere chiesto da colui che intende impiegare una persona per «lo svolgimento di attività organizzate, professionali o volontarie, che comportino contatti diretti e regolari con minori», al fine di poter verificare l’esistenza di condanne per un delitto di pedopornografia e sfruttamento sessuale dei minori, ovvero l’applicazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti con i minori.
Inoltre, la riforma novella l’articolo 25-quinquies del decreto legislativo 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato, inserendo nel catalogo dei reati di sfruttamento sessuale dei quali è chiamato a rispondere l’ente anche l’art. 609-undecies c.p., Adescamento di minorenni.
Infine, il decreto legislativo n. 39 del 2014 introduce alcune modifiche al codice di procedura penale, prevedendo:
· l’inserimento nel catalogo dei reati per i quali le l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione sono consentite anche l’adescamento di minorenne previsto dall’art. 609-undecies c.p.;
· una modifica all’art. 62 c.p.p., in tema di divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato. Si tratta della disposizione che esclude che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini possano formare oggetto di testimonianza. Per prevenire la recidiva, la riforma aggiunge un ultimo comma ed esclude altresì che possano formare oggetto di testimonianza le dichiarazioni che l’imputato renda nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori. L’obiettivo è dunque quello di incentivare la partecipazione attiva al programma terapeutico.
Tanto sul versante della giustizia civile, quanto su quello dell’esecuzione penale, il Governo ha presentato alla Camera disegni di legge di riforma che riguardano specificamente i minori.
In particolare, quanto alla giustizia civile, si ricorda che l’A.C. 2953 – in corso d’esame in Commissione giustizia alla Camera - delega il Governo all’adozione di disposizioni per l'efficienza del processo civile attraverso anche l’istituzione del tribunale della famiglia e della persona.
Si tratta in realtà di
una Sezione specializzata per la famiglia, i minori e la persona con
competenza su tutti gli affari relativi alla famiglia, anche non fondata sul
matrimonio, e su tutti i procedimenti attualmente non rientranti nella
competenza del Tribunale per i minorenni in materia civile. Si prevede
l’impiego, all’interno delle sezioni specializzate, della professionalità di
tecnici specializzati nelle materie minorili; analoga, prevalente
specializzazione è richiesta ai magistrati del pubblico ministero che operano
presso le sezioni. Il rito davanti a queste ultime è improntato, infine, a
criteri di flessibilità e semplificazione.
L’articolo 1,
comma 1, lettera b) del disegno di legge detta i principi e criteri
direttivi di delega, volti alla istituzione di sezioni specializzate presso i tribunali, cui devolvere specifiche competenze in materia di famiglia e
minori.
Il principio ispiratore della delega in esame consiste
soprattutto nell’esigenza di razionalizzare
il riparto di competenze tra tribunale dei minorenni e tribunale ordinario,
riparto basato sul sistema dualistico previsto dall’art. 38 delle disposizioni
di attuazione e transitorie del codice civile.
Il vigente art. 38 disp. att. c.c. attribuisce alla competenza del tribunale per i minorenni
i provvedimenti previsti dai seguenti articoli del codice civile:
• art.
84 (ammissione di minori al matrimonio);
• art.
90 (nomina del curatore speciale del minore per la stipula delle convenzioni
matrimoniali);
• art.
330 (decadenza potestà genitoriale) e 332 (reintegrazione nella potestà);
• art.
333 (provvedimenti in casi di condotta pregiudizievole ai figli);
• art.
334 (rimozione dei genitori dall’amministrazione del patrimonio del minore) e
335 (riammissione all’amministrazione del patrimonio del minore)
• art.
371, ultimo comma (autorizzazione al tutore per la continuazione nell’esercizio
dell’impresa).
Per i procedimenti di cui all'articolo 333 (adozione di provvedimenti
in casi di condotta pregiudizievole ai figli) resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi
in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio
(in tali casi è quindi competente il tribunale ordinario) o giudizio in materia
di esercizio della potestà dei genitori ex articolo 316 del codice civile; in
tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati
dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.
Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni
i provvedimenti di cui:
• all’art.
251 (autorizzazione al riconoscimento di figlio nato da persone tra cui
intercorre vincolo di parentela o affinità);
• all’art.
317-bis del codice civile (ricorsi relativi al diritto degli ascendenti di
avere rapporti significativi coi nipote minore).
La
competenza del tribunale ordinario è prevista in via residuale: sono, infatti,
emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali
non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.
L’esigenza del riassetto delle competenze su famiglia e minori deriva in particolare dal nuovo assetto della giurisdizione in materia minorile conseguente alla legge di riforma della filiazione (L. 219 del 2012), che detta le disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali (alla legge ha fatto poi seguito il decreto attuativo, D.Lgs 154/2013).
Avendo la riforma comportato l'unificazione dello status di figlio, indipendentemente dalla sua nascita all’interno o fuori dal matrimonio, la competenza per i procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio è passata al tribunale ordinario, in quanto all'articolo 38 è stato soppresso – tra i procedimenti riservati alla competenza del giudice minorile – il riferimento agli articoli 316 e 317-bis del codice civile (norma, quest’ultima, che prima della riforma aveva ad oggetto l'esercizio della potestà dei genitori sul figlio naturale).
Il nuovo riparto di competenze tra tribunale dei minori e tribunale ordinario ha posto numerosi problemi interpretativi, il principale dei quali concerne l’avvenuta attrazione alla competenza al tribunale civile anche dei provvedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale (ex articolo 330 c.c.) che, secondo la dizione letterale dell’art. 38, dovrebbero essere di competenza del tribunale dei minorenni.
Un chiarimento sul punto è arrivato da Cassazione
civile, VI sezione, Ordinanza 1-14 ottobre 2014 n. 21633, che ha
ritenuto sussistente la competenza del giudice minorile quando si sia
pronunciato de potestate “prima”
dell’instaurazione del giudizio di separazione, negando quindi la vis attrattiva al tribunale ordinario
dei provvedimenti successivi in materia. La Cassazione ha sottolineato come,
nel caso di specie, ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse
superiore del minore, affermata a livello sia costituzionale che sovranazionale
(art. 8 CEDU e art. 24 della Carta dei Diritti dell'Unione), impediscano
qualsiasi interpretazione della disposizione dell'art. 38 tesa a vanificare il
percorso processuale già svolto a seguito di una domanda introdotta ex art. 333
c.c. davanti al Tribunale per i Minorenni prima della proposizione del giudizio
di separazione e di divorzio; altrimenti opinando, ha sostenuto la Cassazione.,
sarebbe possibile utilizzare strumentalmente il processo al fine di spostare la
competenza dall'uno all'altro giudice.
La Cassazione ha poi rilevato che il testo legislativo
non fosse univoco nel limitare l'applicazione dell'art. 38, primo comma, alla
sola ipotesi del procedimento di cui all'art. 333 c.c. perché in quella stessa
disposizione il legislatore richiama “anche i provvedimenti contemplati dalle
disposizioni richiamate nel primo periodo”. La Cassazione intende tale inciso
come richiamo ai provvedimenti di cui agli artt. 84, 90, 330, 332, 334, 335 e
371, stabilendo che “per tutta la durata del processo” la competenza spetti al
giudice ordinario. L’effetto attrattivo opera quindi non solo relativamente
alla proposizione di un ricorso ex art. 333 c.c. ma anche in tutti i casi in
cui, pendente un giudizio di separazione o di divorzio ex art. 316 c.c.
introdotto “successivamente” al ricorso de
potestate, si renda necessaria la pronuncia degli altri provvedimenti
nell’interesse del minore previsti dalle norme innanzi indicate.
L’obiettivo di razionalizzazione delle competenze in materia è perseguito dalla delega in esame attribuendo alle nuove sezioni specializzate tutte le competenze che la legge di riforma della filiazione già attribuisce al tribunale ordinario e lasciando al tribunale per i minorenni, oltre alle competenze penali, tutte le competenze civili che attengano al pregiudizio per il minore in considerazione della particolare specializzazione e della consolidata competenza maturata dai tribunali per i minorenni in questa materia.
Viene segnalato dalla relazione al d.d.l. come tale impostazione differisca dall’originaria versione dello schema di delega legislativa elaborato dalla commissione Berruti, in quanto quest’ultima avrebbe determinato un pesante svuotamento delle competenze dei tribunali per i minorenni, atteso che questi sarebbero stati destinati alla sola trattazione dei procedimenti penali a carico di imputati minorenni e dei procedimenti di adozione, al netto delle dichiarazioni di adottabilità, di cui si prevedeva il trasferimento alle sezioni specializzate.
Inoltre, lasciare ai tribunali per i minorenni le sole competenze penali determinerebbe – prosegue la relazione – “un'inefficiente utilizzazione delle risorse materiali e umane, in quanto costringerebbe al mantenimento di un numero elevato di magistrati (stante il regime delle incompatibilità dei processi penali), con la relativa dotazione delle cancellerie, per far fronte a modesti carichi”. Infine, tale soluzione, oltre ad una evidente disparità di carichi di lavoro “avrebbe provocato la congestione delle sezioni specializzate, con il conseguente allungamento dei tempi di definizione di procedure urgenti”.
Sulla base dei principi di delega, alle nuove sezioni specializzate per la famiglia e la persona da istituire presso i tribunali ordinari (n. 1) verrebbe assegnata la competenza (n. 2):
· sulle controversie attualmente di competenza del tribunale ordinario relative a stato e capacità delle persone, separazioni e divorzi, rapporti di famiglia e minori, procedimenti relativi a figli nati fuori dal matrimonio (n. 2.1);
· sui provvedimenti del giudice tutelare in materia di minori ed incapaci (n. 2.2);
Il giudice tutelare è il giudice del tribunale a cui
sono affidate diverse e importanti funzioni in materia di tutela delle persone,
particolarmente i soggetti più deboli come i minori e gli incapaci, con
riguardo agli aspetti sia patrimoniali che non patrimoniali
Il Giudice tutelare sovrintende alla maggior parte di
quelle attività definite di "volontaria giurisdizione", ossia
caratterizzate dal fatto che non vi sono due o più parti contrapposte,
portatrici di interessi in conflitto, ma soltanto delle persone incapaci, o non
del tutto capaci, di provvedere da sole ai propri interessi, a cui favore è
previsto l'intervento di un giudice con funzioni di tutela e di garanzia su
richiesta di parenti o soggetti che agiscono con la stessa finalità di
protezione.
Nell'ambito delle sue attribuzioni principali il
giudice tutelare:
· autorizza i genitori a compiere di atti di
straordinaria amministrazione relativi al patrimonio dei figli minori);
· nomina il curatore speciale ai figli minori in caso di
conflitto di interessi con i genitori;
· nomina l'amministratore di sostegno e vigila sul suo
operato (per maggiori informazioni vedi scheda "Amministrazione di
sostegno");
· nomina il tutore e il curatore e vigila sul loro
operato;
· vigila sull'osservanza delle condizioni stabilite dal
Tribunale per l'esercizio della potestà genitoriale e per l'amministrazione dei
beni del minore;
· adotta, su proposta del tutore, i provvedimenti circa
l'educazione del minore sottoposto a tutela e l'amministrazione dei suoi beni;
· autorizza l'interruzione volontaria della gravidanza
di minorenne (art. 12 L. n. 194/1978);
· emette il decreto di esecutività del provvedimento di
affidamento familiare di minore, disposto dal servizio sociale (art. 4 L. n.
184/1983);
· vigila per riconoscere se la causa dell'interdizione o
dell'inabilitazione continui. Se ritiene che sia venuta meno, deve informarne
il pubblico ministero;
· autorizza il rilascio di documento valido per
l'espatrio al minore quando manchi l'assenso di uno degli esercenti la potestà,
ovvero al genitore di figli minori che non abbia ottenuto l'assenso dell'altro
genitore (per maggiori informazioni vedi scheda "Autorizzazione al
rilascio di passaporto");
· convalida il provvedimento di trattamento sanitario
obbligatorio adottato dal Sindaco (per maggiori informazioni vedi scheda
"Opposizione al trattamento sanitario obbligatorio".
Nell'esercizio dei compiti di tutela delle persone
minori o incapaci, il giudice tutelare può, in qualsiasi momento, convocare il
tutore, il curatore o l'amministratore di sostegno per chiedere informazioni,
chiarimenti e notizie, e per dare istruzioni per la migliore realizzazione
degli interessi morali e patrimoniali della persona tutelata.
· su controversie relative al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione internazionale (n. 2.3); tuttavia, se si tratta di minori la competenza è del tribunale dei minorenni (v. ultra).
Il riconoscimento dello status di rifugiato è
entrato nel nostro ordinamento con l’adesione alla Convenzione di Ginevra
del 28 luglio 1951 (ratificata con la legge 722/1954) ed è regolato
essenzialmente da fonti europee. Successivamente, la normativa UE ha introdotto
l’istituto della protezione internazionale, che comprende due distinte
categorie giuridiche: i rifugiati,
disciplinati dalla Convenzione di Ginevra, e le persone ammissibili alla protezione
sussidiaria, di cui possono beneficiare i cittadini stranieri privi dei
requisiti per il riconoscimento dello status
di rifugiato, ossia che non sono in grado di dimostrare di essere oggetto di
specifici atti di persecuzione, ma che, tuttavia, se ritornassero nel Paese di
origine, correrebbero il rischio effettivo di subire un grave danno e che non
possono o (proprio a cagione di tale rischio) non vogliono avvalersi della
protezione del Paese di origine. Una ulteriore fattispecie è la protezione
temporanea che può essere concessa in caso di afflusso massiccio di
sfollati.
Il d.lgs. 25/2008, di attuazione della direttiva
2005/85/CE, prevede che avverso la decisione delle Commissioni territoriali
(istituite presso le Prefetture) e della Commissione nazionale sulla revoca o sulla
cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione
sussidiaria è ammesso ricorso dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria,
individuato nel tribunale del distretto
di corte d’appello.
· su tutte le controversie, attualmente non rientranti nella competenza del tribunale dei minorenni ai sensi dell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile anche eliminando il riferimento ai provvedimenti previsti dal primo periodo del primo comma dello stesso art. 38; è fatta salva la competenza del tribunale dei minorenni sui procedimenti relativi a minori stranieri non accompagnati e a quelli richiedenti protezione internazionale; il rito andrà disciplinato con modalità semplificate (n. 2.4).
Del problema della frammentazione delle competenze civili
in materia di famiglia e minori si è più volte occupato il Parlamento, senza
peraltro giungere all’approvazione di un testo di riforma.
Nell’attuale
legislatura, sempre al Senato, sono all’esame della Commissione
Giustizia, dal giugno 2013, tre disegni di legge di iniziativa parlamentare:
il d.d.l. S. 194 (Alberti Casellati ed altri) Delega al Governo per l'istituzione presso i tribunali e le corti
d'appello delle sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia, che
ripropone sostanzialmente il disegno di legge S. 3323 della XVI legislatura,
che la Commissione adottò a suo tempo come testo base per la prosecuzione
dell’esame. In particolare, il provvedimento, tra i criteri direttivi della
delega sulla competenza per materia, stabilisce che alle nuove sezioni
specializzate in materia di persone e di famiglia siano trasferite le
competenze giurisdizionali civili e le competenze amministrative in materia di
famiglia, minori, stato e capacità della persona, attualmente attribuite al
tribunale dei minorenni, al giudice ordinario e ai tribunali ordinari.
Resterebbero, quindi, ai tribunali dei minorenni le competenze in materia
penale.
il d.d.l. S. 595 (Cardiello ed altri) che - riproponendo anch’esso il
provvedimento a sua firma della scorsa legislatura - prevede la soppressione
dei tribunali per i minorenni, nonché l’istituzione di sezioni
specializzate per la famiglia e per i minori presso i tribunali e le corti
d'appello, nonché di uffici specializzati della procura della Repubblica presso
i tribunali medesimi. Il provvedimento ha nell'articolo 2 una delle norme di
maggior rilievo, giacché dispone che le competenze proprie del pubblico
ministero nella materia di competenza delle sezioni specializzate siano
esercitate da magistrati assegnati in via esclusiva alle sezioni costituite
presso la procura della Repubblica.
il d.d.l. S. 1238 (Lumia ed altri) – congiunto nella seduta del 24
marzo 2015 - volto ad abolire il
tribunale dei minorenni e ad
istituire il “tribunale della persona”, un giudice unico specializzato per
la persona e le relazioni familiari ed a porre criteri di delega per
l'organizzazione dei relativi uffici.
La Camera dei deputati ha approvato, con modifiche, il disegno di legge del Governo di riforma del processo penale (AC. 2798), per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi. Il provvedimento, che è ora all'esame del Senato (AS. 2067), è composto da 35 articoli, attraverso i quali vengono modificate alcune disposizioni dei codici - penale e di procedura penale - e delle norme di attuazione, e viene delegato il Governo a una riforma del processo penale e dell'ordinamento penitenziario.
In particolare, e rinviando al dossier del Servizio studi del Senato per una descrizione più analitica, il disegno di legge delega il Governo all'adeguamento delle norme dell'ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età, con riferimento tanto alle autorità giurisdizionali coinvolte, quanto all'organizzazione degli istituti per i minorenni, passando per la revisione delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari, con particolare attenzione all'istruzione ed ai contatti con la società esterna, in funzione di reinserimento sociale.
Il lavoro minorile è un fenomeno particolarmente complesso, che attraversa diverse realtà, quali l’istruzione, la salute, il mercato del lavoro, la sicurezza sociale, la distribuzione del reddito e la povertà economica e culturale dei territori e delle famiglie di appartenenza. Da tale complessità derivano le difficoltà nel monitorare tale realtà, come testimonia la quasi totale assenza di dati a livello europeo (come evidenziato dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks nel “Human Rights Comment” del 20 agosto 2013). Per quanto riguarda l’Italia, dati significativi emergono da uno studio pubblicato nel settembre 2014 (Game Over. Indagine sul lavoro minorile in Italia) dall’associazione Save the children Italia e dall’Associazione B. Trentin.
Secondo i dati riportati nello studio, sono circa 340.000 i minori tra i 7 e i 15 anni coinvolti in lavoro minorile nel nostro paese. Inoltre, analizzando le esperienze di lavoro svolte dai 14-15enni, si rileva che più di 2 su 3, ossia il 68% sono maschi e circa il 7% è un minore straniero. Peraltro, l’11% dei 14-15enni che lavorano (ossia circa 28.000 minori), sono coinvolti in attività lavorative definibili “a rischio di sfruttamento”, perlopiù in attività svolte in famiglia (44,9%). Tuttavia, in ambienti esterni, il rischio di sfruttamento è legato a lavori nel settore della ristorazione (43%), dell’artigianato (20%) e lavoro in campagna (20%). Tuttavia, la situazione potrebbe variare se si considerano alcuni gruppi specifici di minori, particolarmente vulnerabili. Infatti, in un’ulteriore indagine (Lavori Ingiusti. Indagine sul lavoro minorile e il circuito della giustizia penale[9]; realizzata da Save the Children in collaborazione con il Ministero della Giustizia) che ha coinvolto i minori all’interno del circuito della giustizia minorile, si rileva che il prestare il proprio lavoro fuori della cerchia familiare differenzia questi ragazzi e ragazze rispetto al più ampio universo dei minori lavoratori e rappresenta un rilevante fattore di rischio sfruttamento. Da quanto emerso dalla ricerca, i minori hanno lavorato prevalentemente nei seguenti settori: ristorazione (21%, bar, ristoranti, alberghi, pasticcerie, panifici), vendita (17%, negozi, mercati generali, vendita ambulante), edilizia (11%, manovali, imbianchini, carpentieri), agricoltura e allevamento (10%, coltivazione e raccolta e allevamento e maneggio degli animali). Il 71% dei ragazzi dichiara di aver lavorato quasi tutti i giorni e il 43% per più di 7 ore di seguito al giorno; mentre il 52% ha dichiarato di lavorare di sera o di notte.
Più del 60% degli intervistati ha svolto attività di lavoro tra i 14 e i 15 anni. Tuttavia, oltre il 40% ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei 13 anni e circa l’11% ha svolto delle attività persino prima degli 11 anni. Nel 73% dei casi sono giovani italiani mentre il 27% è costituito per lo più da ragazzi di origine straniera (in genere Romania, Albania, Africa del nord). Inoltre, la maggior parte dei minori afferma di avere iniziato le proprie azioni illecite tra i 12 e i 15 anni, parallelamente all’acutizzarsi di problemi a scuola, culminati spesso in bocciature e abbandoni. Per quanto riguarda i reati commessi, si tratta per lo più di reati contro il patrimonio (54,5%, per esempio furto e rapina), seguono quelli contro la persona (12,7%, per esempio lesioni volontarie), contro l’incolumità (9%) e le istituzioni (6% ).
Il nostro ordinamento giuridico si è dotato
di idonei strumenti normativi in materia di tutela dei diritti dell'infanzia,
tra cui va annoverato il diritto del minore ad essere protetto contro lo
sfruttamento economico ed ogni forma di lavoro pregiudizievole per la sua
educazione, la sua salute e il suo sviluppo psico-fisico, come previsto
dell'articolo 32 della convenzione Onu sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia
con la legge 27 maggio 1991, n. 176.
Con legge
del 25 maggio 2000, n. 148 è stata ratificata la convenzione Oil n. 182
relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile e all'azione
immediata per la loro eliminazione, nonché la Raccomandazione n. 190 sullo
stesso argomento, adottate dalla Conferenza generale dell'Organizzazione
internazionale del lavoro durante la sua ottantesima sessione tenutasi a Ginevra
il 17 giugno 1999.
L’articolo
37 della Costituzione rimette alla legge il compito di stabilire “il limite
minimo d età per il lavoro salariato”. Prevede, poi, che “La Repubblica tutela
il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di
lavoro, il diritto alla parità di retribuzione”.
In attuazione della previsione
costituzionale, la tutela del lavoro minorile è disciplinata dalla legge 17 ottobre 1967, n. 977, che
individua due categorie di minori: il minore che non ha ancora compiuto 15 anni
di età o che è ancora soggetto all'obbligo scolastico e l'adolescente; il
minore di età compresa tra i 15 e i 18 che non è più soggetto al suddetto
obbligo. La legge, pertanto, stabilisce l'età minima di ammissione al lavoro,
fissandola «al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione
obbligatoria e comunque non inferiore ai quindici anni compiuti» (articolo 3).
Anche nella Legislatura in corso sono presenti vari interventi legislativi in materia.
Per quanto riguarda, in particolare, il lavoro degli studenti, si segnala l’articolo 8-bis, comma 2, del D.L. 104/2013, che al fine di sostenere la diffusione dell'apprendistato di alta formazione nei percorsi degli Istituti tecnici superiori (ITS), ha disposto l’avvio (con specifico decreto interministeriale) di un programma sperimentale (per il triennio 2014-2016) per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di secondo grado. Il programma contempla la stipulazione di contratti di apprendistato, con oneri a carico delle imprese interessate e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Spetta al decreto definire la tipologia delle imprese che possono partecipare al programma, i loro requisiti, il contenuto delle convenzioni che devono essere concluse tra le istituzioni scolastiche e le imprese, i diritti degli studenti coinvolti, il numero minimo delle ore di didattica curriculare e i criteri per il riconoscimento dei crediti formativi. Successivamente, l’articolo 2, comma 2-bis, del D.L. 34/2014 (decreto Poletti), ha integrato tale disciplina, disponendo che, ai fini del richiamato programma sperimentale, i contratti di apprendistato possano essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti dall'articolo 5 del D.Lgs. 167/2011 (età compresa tra i 18 e i 29 anni per l’apprendistato di alta formazione e ricerca), con particolare riguardo agli studenti degli istituti professionali.
Inoltre, in sostanziale continuità con gli interventi effettuati nella XVI Legislatura, il legislatore è intervenuto in materia di apprendistato.
In primo luogo, con il D.L. 76/2013, è stata prevista (articolo 2, commi 2 e 3) l'adozione, in sede di Conferenza stato-Regioni, di linee guida volte a disciplinare il contratto di apprendistato professionalizzante, anche in vista di una disciplina maggiormente uniforme sull'intero territorio nazionale dell'offerta formativa pubblica (in aggiunta a quella posta in essere dalle imprese). La Conferenza Stato-Regioni ha adottato le linee guida (che disciplinano l'offerta formativa pubblica per l'acquisizione di competenze di base e trasversali in termini di durata, contenuti e modalità di realizzazione) il 20 febbraio 2014.
Successivamente, l'articolo 2 del D.L. 34/2014 ha semplificato la disciplina del contratto, modificando in più parti il D.Lgs. 167/2011 e la L. 92/2012, prevedendo, in primo luogo, modalità semplificate di redazione del piano formativo individuale, sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva. o dagli enti bilaterali. Per quanto concerne, in particolare, la stabilizzazione degli apprendisti (ossia la loro assunzione con contratto a tempo indeterminato a conclusione del periodo di apprendistato), il D.L. 34/2014 ha ridotto gli obblighi previsti dalla legislazione previgente ai fini di nuove assunzioni in apprendistato, da un lato circoscrivendo l'applicazione della norma alle sole imprese con più di 50 dipendenti, dall'altro riducendo al 20% la percentuale di stabilizzazione. Inoltre, viene consentito, per le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, che i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedano specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali.
Per quanto concerne la semplificazione dei profili formativi, si prevede che la Regione provveda a comunicare al datore di lavoro, entro 45 giorni dalla comunicazione dell'instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell'offerta formativa pubblica, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili, ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014.
Per quanto attiene, infine, alla retribuzione dell'apprendista, fatta salva l'autonomia della contrattazione collettiva, è stato disposto che, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, si debba tener conto delle ore di formazione almeno in misura del 35% del relativo monte ore complessivo.
Da ultimo, in attuazione della delega di cui alla L. 183/2014 (cd. jobs act) è stato emanato il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il quale ha introdotto importanti novità anche in materia di apprendistato. In primo luogo, è stato abrogato il D.Lgs. 167/2011 e l'intera disciplina è confluita negli articoli 41-47 del medesimo D.Lgs. 81/2015. Tra le più importanti modifiche apportate, si segnala in primo luogo la struttura integrata dell'apprendistato di cd. primo e terzo livello (rispettivamente apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale e apprendistato di alta formazione) al fine di creare un sistema duale di formazione e lavoro, attraverso un significativo potenziamento delle finalità della prima fattispecie e una delimitazione di quelle della seconda, che si conferma destinata alla formazione universitaria.
Inoltre, la struttura complessiva dell'istituto, che in larga parte ricalca quanto previsto dal D.Lgs. 167/2011, prevede alcune significative novità (rispetto alla materia in oggetto si segnala il piano formativo che nell'apprendistato di primo e terzo livello spetta all'istituzione formativa con il coinvolgimento dell'impresa).
Altra sostanziale modifica concerne la regolamentazione degli standard professionali e formativi e della certificazione delle competenze, la quale demanda la definizione dei richiamati standard ad un apposito decreto ministeriale.
Nell'attuale legislatura, le politiche dirette a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro – in grado di consentire alla lavoratrice e al lavoratore di adempiere alla loro funzione familiare, con conseguente maggior cura del minore - sono riconducibili in particolare a quanto previsto da uno dei decreti legislativi attuativi del Jobs act (D.Lgs. n.80/2015) e dalla legge delega di riforma della P.A. (L. 124/2015).
D.Lgs. 80/2015
Il decreto contiene
misure dirette, in particolare, alla tutela della maternità e a favorire
la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire
adeguato sostegno alle cure parentali.
Di seguito, le
principali novità introdotte:
§ il congedo di maternità (obbligatorio e retribuito della durata complessiva di cinque mesi):
- in caso di parto anticipato i giorni di maternità obbligatoria e non goduti prima del parto possono essere aggiunti a quelli successivi alla nascita, anche se si supera il previsto limite di 5 mesi;
- in caso di ricovero del neonato si può chiedere la sospensione del congedo (una sola volta per ogni figlio) e goderne dalla data di dimissioni del neonato;
§ il congedo di paternità (ossia il diritto del padre lavoratore di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre, o di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre) è riconosciuto anche se la madre è una lavoratrice autonoma e, in caso di adozione internazionale, il congedo previsto per la lavoratrice per il periodo di permanenza all'estero può essere utilizzato dal padre anche se la madre non è una lavoratrice;
§ il congedo parentale (astensione facoltativa dal lavoro della lavoratrice o del lavoratore per un limite complessivo massimo di 10 mesi) viene esteso dall'ottavo al dodicesimo anno di vita del bambino e la fruizione può essere anche su base oraria. Lo stesso termine si applica anche in caso di adozione e affidamento e di prolungamento del congedo parentale (per un periodo massimo non superiore a tre anni), in presenza di figlio minore portatore di handicap. L’indennizzo (nella misura del 30% per un periodo massimo complessivo di 6 mesi) viene esteso dal terzo al sesto anno di vita del bambino.
§ l’indennità di maternità (pari all’80% della retribuzione) viene corrisposta:
- anche nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa, derivante da colpa grave della lavoratrice, che si verifichi durante i periodi di congedo di maternità[10];
-
alle lavoratrici iscritte alla Gestione separata
INPS anche nel caso di mancato versamento dei contributi da parte del
committente e, in caso di adozione o affidamento, per i 5 mesi successivi
dall’ingresso del minore in famiglia
-
alle lavoratrici autonome anche nel caso di
adozione o affidamento, alle stesse condizioni previste per le altre
lavoratrici;
§ tra le lavoratrici che non possono essere obbligate a svolgere lavoro notturno, viene inserita anche la lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore, nei primi tre anni dall'ingresso del minore in famiglia, e comunque non oltre il dodicesimo anno di età (o, in alternativa ed alle stesse condizioni, il lavoratore padre adottivo o affidatario convivente con la stessa)[11];
§ in via sperimentale, per il triennio 2016-2018, si prevede che il 10% del Fondo per la contrattazione di secondo livello sia destinato alla promozione della conciliazione tra lavoro e vita privata.
§ il congedo per le donne vittime di violenza di genere, riconosciuto alle lavoratrici dipendenti, pubbliche e private (con esclusione del lavoro domestico) e alle lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, inserite in percorsi certificati di protezione relativi alla violenza di genere, le quali possono astenersi dal lavoro, per motivi legati al suddetto percorso, per un periodo massimo di tre mesi.
Anche la legge delega di Riforma della P.A. (L. 124/2015) ha introdotto alcune disposizioni volte a favorire la conciliazione tra vita e lavoro.
In particolare, in tema di passaggio di personale tra amministrazioni diverse, dispone:
§ che il genitore, dipendente di amministrazioni pubbliche, con figli minori fino a tre anni di età può chiedere di essere assegnato (per un periodo non superiore a tre anni, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione) ad una sede presente nella stessa provincia o regione nella quale lavora l'altro genitore. L'eventuale dissenso deve essere motivato.
In tema di cure parentali, dispone che le amministrazioni pubbliche:
§ adottino misure organizzative per l'attuazione del telelavoro e di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, anche al fine di tutelare le cure parentali;
§ stipulino convenzioni con asili nido e scuole dell'infanzia e organizzano, anche attraverso accordi con altre amministrazioni pubbliche, servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica
Per completezza, si segnala che la citata legge delega di riforma della P.A. dispone che la dipendente vittima di violenza di genere, inserita in specifici percorsi di protezione debitamente certificati, può chiedere il trasferimento ad altra amministrazione pubblica presente in un comune diverso da quello di residenza, previa comunicazione all’amministrazione di appartenenza che, entro quindici giorni, dispone il trasferimento presso l’amministrazione indicata dalla dipendente, ove vi siano posti vacanti corrispondenti alla sua qualifica professionale.
Prolungamento del congedo parentale
Per ogni minore con handicap in situazione di gravità accertata la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi o affidatari, hanno diritto, entro il compimento del dodicesimo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo non superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore (art. 33 del D.Lgs. 151/2001). Il congedo spetta al genitore richiedente anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto. Si precisa che il prolungamento decorre dal termine del periodo corrispondente alla durata massima del congedo parentale (spettante al richiedente ai sensi dell'art. 32, D.Lgs. 151/2001).
Permessi orari e mensili retribuiti
In alternativa al prolungamento del congedo parentale, i genitori lavoratori di minori con handicap grave possono usufruire di due ore di riposo giornaliero retribuito o di tre giorni di permesso mensile (art. 42, c. 1 e 2, del D.Lgs. 151/2001).
Quindi, i genitori, anche adottivi, possono fruire:
§ se con bambini fino a 3 anni, in alternativa, dei tre giorni di permesso (ex art. 33, c. 3, L. 104/1992), o delle ore di riposo giornaliero, o del prolungamento del congedo parentale;
§ se con bambini oltre i 3 anni e fino a 12 anni, in alternativa, dei tre giorni di permesso o del prolungamento del congedo parentale;
§ se con figli oltre i 12 anni, dei tre giorni di permesso mensile.
La proposta di legge C. 2014 (Mosca ed altri), di cui la XI Commissione (Lavoro) della Camera ha avviato l’esame il 4 novembre 2015, detta norme per promuovere forme di lavoro caratterizzate da una elevata flessibilità, soprattutto con riferimento all'orario e alla sede di lavoro (cd. smart working), allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Nel nostro ordinamento
le disposizioni in materia di minori stranieri non accompagnati sono contenute
principalmente negli articoli 32 e 33 del Testo unico in materia di
immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998), nonché nel relativo Regolamento di
attuazione (D.P.R. n. 394/1999) e nel D.P.C.M. n. 535 del 1999.
Specifiche disposizioni sull’accoglienza dei minori non accompagnati sono contenute nel D.Lgs. n. 142/2015, con cui nel corso dell’attuale legislatura è stata recepita la direttiva 2013/33/UE relativa all’accoglienza dei richiedenti asilo (c.d. direttiva accoglienza). Con riferimento particolare ai minori non accompagnati “richiedenti protezione internazionale”, oltre al menzionato decreto, si applicano alcune disposizioni del D.Lgs. 25 del 2008 sulle procedure per la domanda di protezione internazionale (art. 19; art. 6, co. 2 e 3; art. 26, co. 5 e 6), e del D.Lgs. 251/2007 (art. 28).
Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno trattato,
secondo i dati forniti dal Ministero del lavoro e delle
politiche sociali nel report bimestrale, i minori non
accompagnati non richiedenti asilo segnalati in Italia al 30 novembre 2015 sono
10.952, di cui 5.902 irreperibili[12].
L'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI)
promuove ogni due anni un'indagine nazionale che coinvolge tutti i Comuni
italiani ai quali spetta la tutela e l'accoglienza dei minori non accompagnati
presenti nel territorio. Gli ultimi dati sono disponibili nel V Rapporto
Anci-Cittalia sui minori stranieri non accompagnati in Italia
(2014), che contiene i dati relativi al fenomeno e alle politiche attivate nel
biennio 2011-2012.
La definizione di “minori non accompagnati” comunemente utilizzata è quella specificata nell’articolo 2 della Direttiva Europea 2001/55/CE: “i cittadini di paesi terzi o gli apolidi di età inferiore ai diciotto anni che entrano nel territorio degli Stati membri senza essere accompagnati da una persona adulta responsabile per essi in base alla legge o agli usi, finché non ne assuma effettivamente la custodia una persona per essi responsabile, ovvero i minori che sono lasciati senza accompagnamento una volta entrati nel territorio degli Stati membri”.
In ambito nazionale, riprendendo sostanzialmente le indicazioni europee, la definizione è ora contenuta nell'art. 2, co. 1, del D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, secondo cui il minore non accompagnato è lo straniero (cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea e apolide), di età inferiore ai diciotto, che si trova, per qualsiasi causa, nel territorio nazionale, privo di assistenza e rappresentanza legale.
Fino all’adozione del nuovo decreto accoglienza, vi
erano norme separate e distinte, in base alle quali, da un lato, ai sensi
dell'art. 1, co. 2, del D.P.C.M. 9 dicembre 1999, n. 535, il minore straniero
non accompagnato presente nel territorio dello Stato è quel minore non avente
cittadinanza italiana o di altro Paese dell’Unione Europea e che, non avendo
presentato domanda di asilo, si trova in Italia privo di assistenza e
rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente
responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano.
Dall’altro, i minori c.d. "richiedenti
asilo" erano definiti dall'articolo 28 del D.Lgs. 251/2007 come gli
stranieri di età inferiore a 18 anni che si trovano per qualsiasi motivo sul
territorio nazionale, privi di assistenza e rappresentanza da parte dei
genitori o di altri adulti per essi legalmente responsabili, che richiedono il
riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
Al minorenne straniero (accompagnato o meno) che entra in Italia, anche se in modo illegale, sono riconosciuti tutti i diritti garantiti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, la quale afferma, tra i suoi principi, che in tutte le decisioni relative al minore deve essere considerato prioritariamente “il superiore interesse” del ragazzo.
A prescindere dalla regolarità del soggiorno è garantita "la tutela della salute del minore" (art. 35, co. 3, lett. b), TU immigrazione) e i minori presenti sul territorio "sono soggetti all'obbligo scolastico; ad essi si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica" (art. 38, co. 1, TU immigrazione).
Alla tutela dell’effettivo esercizio di tali diritti era inizialmente preposto il Comitato per i minori stranieri, organismo statale operante presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali istituito ai sensi dell'art. 33 del D.Lgs. 286/1998 e disciplinato dal D.P.C.M. n. 535 del 1999. Tale Comitato è stato successivamente soppresso in attuazione dell'art. 12, co. 20, del D.L. 95/2012 (conv. da L. 135/2012), che ha disposto la razionalizzazione degli organismi collegiali delle p.a., ed i suoi compiti sono stati trasferiti alla Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (d'ora in poi, Direzione generale).
Le principali attività
svolte sono:
· accertamento dello status del minore non accompagnato;
· compiti di impulso e di ricerca al fine di promuovere l'individuazione dei familiari dei minori;
· decisione in merito al provvedimento di rimpatrio assistito;
· censimento dei minori presenti non accompagnati.
L’articolo 19 del D.lgs. 142/2015 stabilisce che
l’autorità di pubblica sicurezza dà immediata comunicazione della presenza del minore non accompagnato al Ministero del lavoro e delle
politiche sociali al fine di assicurare il censimento e il monitoraggio della
presenza dei minori non accompagnati nel territorio nazionale.
Il nuovo decreto accoglienza (art. 19, D.Lgs. n. 142/2015) detta alcune disposizioni specificamente destinate ai minori non accompagnati, recependo le previsioni dell’articolo 24 della direttiva 2013/33/UE, con l’obiettivo di rafforzare complessivamente gli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento secondo le indicazioni emerse nell’Intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 10 luglio 2014 sul piano nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari.
In particolare, la nuova disciplina distingue tra prima e seconda accoglienza. E stabilisce il principio in base al quale il minore non accompagnato non può in nessun caso essere trattenuto presso i centri di identificazione ed espulsione e i centri governativi di prima accoglienza (in prima battuta, gli attuali CARA).
L’accoglienza ad hoc dei minori si fonda innanzitutto sull’istituzione di strutture governative di prima accoglienza per le esigenze di soccorso e di protezione immediata di tutti i minori non accompagnati.
Tali strutture sono istituite con decreto del Ministro dell’interno, sentita la Conferenza
unificata e sono gestite dal medesimo Ministero, anche in convenzione con gli
enti locali. Sarà un decreto del Ministro dell’interno, adottato di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze per i profili finanziari, a
stabilire le modalità di accoglienza, gli standard strutturali e i servizi da
erogare, in modo da assicurare un’accoglienza adeguata alla minore età.
Nelle strutture di prima accoglienza i minori sono accolti per il tempo strettamente necessario alla identificazione e all’eventuale accertamento dell’età, nonché a ricevere tutte le informazioni sui diritti del minore, compreso quello di chiedere la protezione internazionale. In ogni caso, i minori restano in tali strutture non oltre sessanta giorni. All’interno delle strutture è garantito un colloquio con uno psicologo dell’età evolutiva, accompagnato se necessario da un mediatore culturale.
Per la prosecuzione dell’accoglienza del minore, il decreto conferma quanto già stabilito dalla normativa previgente, distinguendo in relazione alla domanda di protezione internazionale.
Infatti, i minori non accompagnati richiedenti protezione internazionale hanno accesso alle misure di accoglienza predisposte dagli enti locali nell’ambito dello Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati - SPRAR.
Per i minori non accompagnati non richiedenti protezione internazionale è prevista la possibilità di accedere ai servizi di accoglienza finanziati con il Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo di cui all’art. 1-septies del D.L. n. 416/1989 (conv. L. n. 39/1990, c.d. legge Martelli), nei limiti dei posti e delle risorse disponibili, possibilità introdotta con la legge di stabilità 2015 (art. 1, comma 183, L. 190/2014) e confermata dal c.d. decreto accoglienza (art. 19, co. 2, D.Lgs. 142/2015). A tal fine, gli enti locali che partecipano alla ripartizione del Fondo prevedono specifici programmi di accoglienza riservati ai minori non accompagnati.
In caso di temporanea indisponibilità nelle strutture di cui sopra, l'assistenza e l'accoglienza del minore sono temporaneamente assicurate dal comune dove si trova il minore, secondo gli indirizzi stabiliti dal Tavolo di coordinamento nazionale istituito ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. n. 142/2015 presso il Ministero dell’interno, cha ha il compito di programmare gli interventi del sistema di accoglienza, compresi i criteri di ripartizione regionale dei posti disponibili. I comuni che assicurano l’attività di accoglienza accedono ai contributi disposti dal Ministero dell’interno a valere sul Fondo nazionale per i minori non accompagnati (su cui. si v. infra).
Per sostenere i comuni nelle attività di accoglienza è stato istituito il Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, inizialmente allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ai sensi dell’art. 23, comma 11 (quinto periodo), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (conv. L. n. 135/2012), con una dotazione di 5 milioni di euro per l'anno 2012. L’istituzione del fondo faceva parte di una serie di misure volte ad assicurare la prosecuzione degli interventi connessi al superamento dell'emergenza umanitaria nel territorio nazionale, ivi comprese le operazioni per la salvaguardia della vita umana in mare, in relazione all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa.
Attraverso il Fondo, il Ministro provvede, con proprio decreto, sentita la Conferenza unificata, alla copertura dei costi sostenuti dagli enti locali per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, nei limiti delle risorse stanziate.
Con la legge di stabilità 2015, a decorrere dal 1° gennaio 2015, il Fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati è stato trasferito nello stato di previsione del Ministero dell’interno[13].
La dotazione del Fondo ha subito un progressivo aumento nel tempo: infatti, la
dotazione iniziale di 5 milioni di euro per l'anno 2012, è stata incrementata di 20 milioni per l'anno 2013, di 40 milioni di euro per il 2014 e di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016 dall'art. 1, co. 202 e 203, della L. 147/2013 (legge di stabilità 2014).
Nel disegno di legge di bilancio 2016 attualmente in discussione alla Camera (A.C. 3444 – Tab. 8), la dotazione del Fondo, a seguito dell’approvazione della I nota di variazioni, risulta pari a 170 milioni di euro.
Il minore non accompagnato può presentare direttamente la domanda di protezione internazionale. La domanda può essere presentata anche dal tutore sulla base di una valutazione individuale della situazione personale del minore (art. 6, co. 3, D.Lgs. 25/2008).
Al minore non accompagnato che abbia espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale deve in ogni caso essere fornita la necessaria assistenza per presentare la domanda (art. 19, comma 1, D.Lgs. 25/2008). In caso di dubbi sull’età, in ogni fase della procedura il minore non accompagnato può essere sottoposto, previo consenso suo o del legale rappresentante, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi per accertarne l’età. Il rifiuto di sottoporsi alla visita medica non costituisce motivo di impedimento all’accoglimento della domanda, né dell’adozione della decisione (art. 19, commi 2 e 3).
Nel corso della procedura, al minore si applicano particolari accorgimenti anche in relazione al colloquio personale che viene di norma richiesto dalla Commissione che esamina la domanda. In particolare, il colloquio del minore si svolge innanzi ad una componente della Commissione con specifica formazione, alla presenza del tutore nonché del personale di sostegno per prestare la necessaria assistenza. Qualora lo ritenga necessario in relazione alla situazione personale del minore, la Commissione territoriale può procedere nuovamente all’ascolto del minore, senza la presenza del tutore (art. 13, co. 3, D.Lgs. n. 25/2008).
Quando la domanda di protezione internazionale è presentata da un minore non accompagnato, l’autorità che la riceve informa immediatamente il Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) di cui all'articolo 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (conv. L. 39/1990) per l'inserimento del minore in una delle strutture operanti nell'ambito del Sistema stesso e ne dà comunicazione al tribunale dei minori ed al giudice tutelare. Nel caso in cui non sia possibile l'immediato inserimento del minore in una di tali strutture, l'assistenza e l'accoglienza del minore sono temporaneamente assicurate dal comune dove si trova il minore (art. 26, co. 6, D.Lgs. 25/2008).
Inoltre, ai sensi dell’art. 26, co. 5, del D.Lgs. n.
25/2008, quando è presentata una domanda di protezione internazionale da un
minore non accompagnato, l'autorità che la riceve sospende il procedimento, dà
immediata comunicazione al tribunale dei minorenni e al giudice tutelare per
l'apertura della tutela e per la nomina del tutore a norma degli articoli 343,
e seguenti, del codice civile, ed informa il Ministero del lavoro. Il giudice
tutelare nelle quarantotto ore successive alla comunicazione del questore
provvede alla nomina del tutore. Il tutore prende immediato contatto con il
minore per informarlo della propria nomina e con la questura per la conferma
della domanda, ai fini dell'ulteriore corso del procedimento.
Per quanto concerne la figura del tutore, il D.Lgs. n. 142/2015 ha introdotto specifiche disposizioni in base alle quali il tutore possiede le competenze necessarie per l'esercizio delle proprie funzioni e svolge i propri compiti in conformità al principio dell'interesse superiore del minore. Non possono essere nominati tutori individui o organizzazioni i cui interessi sono in contrasto anche potenziale con quelli del minore. Il tutore può essere sostituito solo in caso di necessità (art. 19, co. 6, D.lgs. n. 142/2015).
Ai sensi dell’articolo 2, comma 2, lett. f), del D.P.C.M. n. 535/1999, il Ministero del Lavoro (tramite la competente Direzione generale, che ha sostituito il Comitato minori) “svolge compiti di impulso e di ricerca al fine di promuovere l’individuazione dei familiari dei minori presenti non accompagnati, anche nei loro Paesi di origine o Paesi terzi”.
Per l'espletamento delle indagini familiari nei Paesi di origine, la Direzione generale può avvalersi di idonei organismi nazionali ed internazionali.
Nelle Linee guida sui minori non accompagnati a cura della Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, viene specificato che l’obiettivo dell’indagine è di fornire ai Comuni, agli assistenti sociali e agli operatori responsabili per l’accoglienza e la protezione dei minori elementi utili per:
§ conoscere la storia familiare del minore e le motivazioni alla migrazione;
§ approfondire le eventuali criticità o vulnerabilità che possono essere emerse dai colloqui con il minore;
§ calibrare il percorso di accoglienza/integrazione in Italia per il minore, adattandolo meglio ai suoi bisogni e alle sue motivazioni;
§ valutare le eventuali possibilità di reintegrazione nel paese di origine, in un’ottica di sostenibilità e di tutela del superiore interesse del minore (si v, infra, il rimpatrio assistito).
Ulteriori disposizioni sono contenute nel D.Lgs. n. 142/2015 (art. 19, comma 7), che in attuazione dell’articolo 24, paragrafo 3, della direttiva “accoglienza”, stabilisce l’avvio tempestivo delle iniziative per individuare i familiari del minore non accompagnato richiedente protezione internazionale. A tale fine, il Ministero dell'interno stipula convenzioni sulla base delle risorse disponibili del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo, con organizzazioni internazionali, intergovernative e associazioni umanitarie per l'attuazione di programmi diretti a rintracciare i familiari dei minori non accompagnati. L'attuazione dei programmi è svolta nel superiore interesse dei minori e con l'obbligo della assoluta riservatezza, in modo da tutelare la sicurezza del richiedente asilo e dei suoi familiari.
Il quadro normativo vigente (art. 19, co. 2, del D.Lgs. n. 286/1998) sancisce per tutti i minori stranieri il divieto di espulsione, che può essere derogato esclusivamente per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato (in tal caso è competente il Tribunale per i minorenni).
Accanto a ciò, l'ordinamento prevede che i minori stranieri non accompagnati possono essere rimpatriati attraverso la misura del rimpatrio assistito, finalizzata a garantire il diritto all’unità familiare del minore e ad adottare le conseguenti misure di protezione. Il provvedimento può essere adottato solo se, in seguito alle c.d. indagini familiari, attivate e svolte dalla Direzione generale del Ministero del lavoro anche nel Paese d’origine del minore o in Paesi terzi, si ritiene che il rimpatrio sia opportuno nell’interesse del minore.
L’istituto trova definizione nell’art. 1, co. 4,
D.P.C.M. 535/1999, ai sensi del quale per «rimpatrio assistito» si intende
l'insieme delle misure adottate allo scopo di garantire al minore interessato
l'assistenza necessaria fino al ricongiungimento coi propri familiari o al
riaffidamento alle autorità responsabili del Paese d'origine, in conformità
alle convenzioni internazionali, alla legge, alle disposizioni dell'autorità
giudiziaria ed al presente regolamento. Il rimpatrio assistito deve essere
finalizzato a garantire il diritto all'unità familiare del minore e ad adottare
le conseguenti misure di protezione.
Il rimpatrio assistito è disposto dalla Direzione ministeriale e viene eseguito accompagnando il minore fino al riaffidamento alla famiglia o alle autorità responsabili del Paese d’origine. A differenza dell’espulsione, il rimpatrio non comporta il divieto di reingresso per dieci anni. Nel caso in cui risulti instaurato nei confronti dello stesso minore un procedimento giurisdizionale, per procedere al rimpatrio è necessario che l'autorità giudiziaria rilasci il nulla osta, salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali (art. 33, co. 2-bis, TU immigrazione).
In generale, se la Direzione generale del Ministero del lavoro valuta che sia nell’interesse del minore restare in Italia, dispone il “non luogo a provvedere al rimpatrio” e segnala la situazione del minore alla magistratura e ai servizi sociali per l’eventuale affidamento.
In caso contrario, la Direzione generale, sulla base delle informazioni ottenute all'esito delle attività di indagine familiare, può adottare il provvedimento di rimpatrio assistito (art. 7, D.P.C.M. 535/1999). Ai fini dell'adozione del provvedimento, è necessaria la manifesta ed espressa volontà del minore capace di discernimento al rimpatrio, accertata dagli organi competenti, e deve essere valutata l'opinione espressa in merito al rimpatrio assistito da parte del tutore o di altre persone legalmente responsabili del minore in Italia.
Nel caso in cui ritenga che il rimpatrio non sia nel suo interesse, il minore ha diritto di presentare, per il tramite dei genitori o del tutore, ricorso alla magistratura per ottenere l’annullamento del provvedimento (art. 33, D.Lgs. 286/1998 e art. 7, D.P.C.M. 535/1999).
I minori stranieri che vengono rintracciati sul territorio, o che si presentano spontaneamente, sono collocati in luogo sicuro (articolo 403 c.c.), e presi in carico dai servizi sociali dell’ente locale competente. L’ente locale attiva le procedure previste dall’ordinamento giuridico italiano, quali l’apertura della tutela, l’affidamento, l’attivazione di un percorso d’integrazione e la richiesta di permesso di soggiorno (c.d. presa in carico del minore).
Ai minori stranieri
non accompagnati si applicano le norme previste dalla legge italiana in materia
di assistenza e protezione dei minori in stato di abbandono recata dagli artt. 343 e seguenti del codice civile,
ove si prevede l’apertura della tutela ad opera dell’autorità
giudiziaria per il minore i cui genitori non possono esercitare la potestà, e
dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia)
che prevede l’affidamento del minore, temporaneamente privo di un
ambiente familiare idoneo, a una famiglia o a una comunità.
La tutela legale del minore è
un istituto surrogatorio rispetto alla potestà dei genitori, nel caso in cui i
genitori siano morti o per altre cause non possano esercitare la potestà, al
bambino o adolescente deve essere nominato un tutore (art. 343 c.c.). La
competenza territoriale viene, al momento dell’apertura della tutela, radicata
nel circondario nel quale il minore ha la sede principale degli affari ed
interessi, mentre con la nomina del tutore il criterio determinante della
competenza territoriale diventa il domicilio del tutore. I casi tipici in cui
si apre una tutela a favore di un minore d’età sono i seguenti:
· morte dei genitori;
· abbandono del minore o suo mancato
riconoscimento alla nascita;
· dichiarazione di adottabilità;
· lontananza o irreperibilità dei
genitori;
· sospensione, decadenza o esclusione
dei genitori dalla potestà.
Si ricorda che nella legge 183 del
1984, per affidamento familiare s'intende l'affidamento ad una famiglia,
preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di
assicurare al minore il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni
affettive (art. 2, co. 1).
· Ai sensi dell’articolo 19 del D.Lgs. 142/2015, l’autorità di pubblica sicurezza deva dare immediata comunicazione della presenza del minore non accompagnato al giudice tutelare per l’apertura della tutela e per la nomina del tutore a norma degli articoli 343 ss. c.c, nonché al Tribunale per i minorenni per la ratifica delle misure di accoglienza predisposte.
Il tutore deve possedere le competenze necessarie e operare in conformità al principio dell’interesse superiore del minore, può essere sostituito solo in caso di necessità. È fatto divieto di nominare tutori individui o organizzazioni i cui interessi sono in contrasto anche potenziale con quelli del minore.
Nella legislatura in corso, la I Commissione Affari costituzionali della Camera ha avviato, a partire da martedì 3 giugno 2014, l’esame in sede referente della proposta A.C. 1658 (on. Zampa ed altri), che si propone di innovare la disciplina applicabile ai minori stranieri non accompagnati nei suoi principali aspetti, sia introducendo nuove disposizioni laddove la normativa vigente presenta alcune lacune, sia modificando gli aspetti di maggiore criticità emersi negli anni, specie in riferimento al sistema dell'accoglienza dei minori.
Nel corso dell’esame è stato emanato, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, il decreto legislativo n. 142 del 2015, di attuazione della direttiva 2013/33/UE sull'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (c.d. direttiva accoglienza) e della direttiva 2013/32/UE che reca procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (c.d. direttiva procedure).
Come già evidenziato, il decreto ridisegna il
sistema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, prevedendo
disposizioni vertenti in particolare sull'accoglienza delle persone
vulnerabili, primi fra tutti i minori,
specie se non accompagnati.
L'art. 38 del D.Lgs. 286/1998 stabilisce che i minori stranieri presenti
sul territorio nazionale sono soggetti all'obbligo scolastico e che ad
essi si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto
all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita
della comunità scolastica.
In base all'art. 45 del Regolamento
sull'immigrazione, conseguentemente adottato (D.P.R. 394/1999), i minori stranieri hanno diritto all'istruzione -
indipendentemente dalla regolarità della
propria posizione -, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini
italiani. L'iscrizione può essere richiesta in qualunque periodo dell'anno
scolastico.
Per quanto
concerne l'inserimento, lo stesso art. 45 prevede che i minori sono iscritti
alla classe corrispondente all'età anagrafica, salvo che il collegio dei
docenti deliberi l'iscrizione ad una classe diversa, tenendo conto di:
ordinamento degli studi del Paese di provenienza, corso di studi seguito, livello
di preparazione raggiunto.
Sempre il collegio
dei docenti definisce il necessario adattamento dei programmi di insegnamento.
Allo scopo, possono essere adottati specifici interventi
individualizzati o per gruppi di alunni per facilitare l'apprendimento della
lingua italiana. Il consolidamento della conoscenza della lingua italiana
può essere realizzato anche mediante l'attivazione di corsi intensivi sulla
base di specifici progetti.
L'art. 16 del D.L. 104/2013 (L. 128/2013)
ha indicato tra le finalità di uno stanziamento aggiuntivo di 10 milioni di
euro per il 2014 il potenziamento delle competenze del personale
scolastico nelle aree ad alto rischio socio-educativo e a forte
concentrazione di immigrati, rafforzando in particolare le competenze
relative all'integrazione scolastica, alla didattica interculturale, al
bilinguismo e all'italiano come lingua seconda. La definizione delle modalità
di organizzazione e gestione delle attività formative è stata demandata a un decreto
del MIUR.
In attuazione, è intervenuto il decreto direttoriale prot. 812 del 30 ottobre 2014, che ha definito la procedura per l'utilizzo di 100.000 euro che l'art.
5, co. 1, lett. e), del DM 351 del 21 maggio 2014 aveva destinato agli interventi
formativi indicati dall’art. 16 del D.L. 104/2013.
Inoltre, l’art.
7 dello stesso D.L. 104/2013 ha previsto un Programma di didattica
integrativa che doveva contemplare, fra l'altro, percorsi finalizzati all'integrazione
scolastica degli studenti stranieri.
In
attuazione, è intervenuto il DM 87 del 7 febbraio 2014.
Da ultimo, l’art. 1, co. 7, lett. r), della L. 107/2015
(c.d. Buona scuola) ha inserito fra i possibili obiettivi dell’espansione
dell’offerta formativa l’alfabetizzazione e il perfezionamento dell'italiano come lingua seconda attraverso
corsi e laboratori per studenti di cittadinanza o di lingua non italiana, da
organizzare anche in collaborazione con gli enti locali e il terzo settore, con
l'apporto delle comunità di origine, delle famiglie e dei mediatori culturali.
Il co. 32 dello stesso art. 1 ha, altresì,
previsto che le attività e i progetti di
orientamento scolastico nonché di accesso al lavoro sono sviluppati con
modalità idonee a sostenere anche le eventuali difficoltà e problematiche
proprie degli studenti di origine straniera.
Nel febbraio 2014
il MIUR ha emanato le nuove Linee guida per l'integrazione degli alunni
stranieri, che costituiscono l'aggiornamento delle precedenti Linee guida, emanate nel 2006.
Le linee guida, oltre a fornire una descrizione dell'attuale contesto
scolastico e sociale, propongono indicazioni operative e modelli di
integrazione e sostegno didattico che alcune scuole hanno già sperimentato.
In particolare, con
riferimento ai fenomeni di concentrazione di studenti con cittadinanza
straniera, il documento auspica un'equilibrata distribuzione delle
iscrizioni attraverso un'intesa tra scuole, organizzate in reti di
scuole, e una collaborazione mirata con gli enti locali.
Nell'ambito delle singole
scuole, l'orientamento più diffuso è quello di favorire l'eterogeneità
delle cittadinanze nella composizione delle classi, piuttosto che formare
classi omogenee per provenienza territoriale o religiosa degli stranieri.
Si richiama, inoltre, il
limite massimo di presenza di studenti stranieri nelle singole classi,
fissato, di norma, nel 30% del totale degli iscritti, dalla Circolare ministeriale n. 2 dell'8 gennaio
2010. Come già previsto dalla Circolare, detto limite può essere innalzato o
ridotto, con determinazione del Direttore generale dell'Ufficio Scolastico
Regionale, qualora gli alunni stranieri siano già in possesso di adeguate
competenze linguistiche o, al contrario, a fronte della presenza di alunni
stranieri con una padronanza della lingua italiana ancora inadeguata o comunque
in tutti i casi in cui si riscontrino particolari complessità.
Le nuove Linee guida
auspicano anche la previsione, per il personale scolastico neoassunto,
nonché per quello in servizio che desideri accrescere le proprie competenze, di
percorsi di formazione riferiti al tema dell'intercultura.
Ulteriori argomenti
affrontati riguardano il coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie, la
valutazione, l'orientamento (soprattutto per quanto riguarda il passaggio alla
scuola secondaria di secondo grado), l'insegnamento dell'italiano come lingua
seconda.
Con DM n. 718 del 5 settembre 2014, inoltre, il MIUR ha ricostituito l’Osservatorio
nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e per l'intercultura,
al fine di individuare soluzioni operative e organizzative per un effettivo
adeguamento delle politiche di integrazione alle esigenze di una scuola
multiculturale.
L'Osservatorio, che è presieduto dal Ministro dell'istruzione,
dell'università e della ricerca o dal sottosegretario con delega alle tematiche
dell'integrazione ed è composto da rappresentanti degli istituti di ricerca,
delle associazioni e degli enti di rilievo nazionale impegnati nel settore
dell'integrazione degli alunni stranieri e dell'intercultura, da esperti del
mondo accademico, culturale e sociale e da dirigenti scolastici, ha compiti
consultivi e propositivi. Deve, in particolare, promuovere politiche
scolastiche per l'integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana e
verificarne la loro attuazione (anche tramite monitoraggi), incoraggiare
accordi interistituzionali e favorire la sperimentazione e l'innovazione
metodologica didattica e disciplinare.
Da ultimo, nel
mese di settembre 2015 il MIUR ha emanato due bandi (pubblicati sui siti degli Uffici scolastici
regionali) che mettono a disposizione 500.000 euro
per il potenziamento dell'italiano come lingua seconda, con particolare
attenzione agli studenti di recente immigrazione, e, per la prima volta, altri
500.000 euro per progetti di accoglienza e di sostegno linguistico e
psicologico dedicati a minori stranieri non accompagnati. Alle scuole è stata
poi inviata una circolare con raccomandazioni e proposte operative elaborate
dall'Osservatorio.
Dall’ultimo Focus pubblicato dal MIUR ad ottobre 2015, emerge che, nell’a.s. 2014/2015, l’incremento del numero degli studenti con cittadinanza non italiana è stato pari a circa 3.000 unità, per un numero complessivo di 805.800 alunni.
La percentuale sul totale degli studenti è risultata pari al 9,2%. In particolare, sono diminuiti gli alunni stranieri nella scuola dell'infanzia e nella scuola secondaria di primo grado, mentre sono aumentati quelli frequentanti la scuola primaria e la scuola secondaria di secondo grado.
Nel precedente anno
scolastico, gli alunni con cittadinanza non italiana erano stati il 9%, a
fronte dell'8,8% nell'a.s. 2012/2013, dell'8,4% nell'a.s. 2011/2012 e del 7,9%
nell'a.s. 2010/2011. Nell'a.s. 2000/2001 gli alunni stranieri erano appena
l'1,7% del totale.
Continua ad essere in forte crescita la quota di alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia: l’incremento è risultato pari al 7,3%. In totale, gli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia rappresentano il 51,7% del totale degli alunni stranieri.
Invariato, rispetto al precedente anno scolastico, l'ordine dei Paesi di provenienza per numero di presenze di alunni stranieri, che vede al primo posto la Romania, seguita da Albania, Marocco, Cina, Filippine, Moldavia, India, Ucraina, Perù e Tunisia. Anche per l'a.s. 2014/2015, la regione italiana che ha ospitato più alunni con cittadinanza non italiana è stata la Lombardia, con 201.633 studenti.
Per quanto riguarda le scelte dei percorsi scolastici nella scuola secondaria di II grado, gli alunni stranieri si orientano, prevalentemente, verso gli istituti tecnici e professionali.
La disciplina in materia di cittadinanza fa oggi capo principalmente alla legge 5 febbraio 1992, n. 91. Ai sensi di tale legge si prevede che acquistino la cittadinanza italiana:
La cittadinanza è acquisita anche, automaticamente per i minori, per riconoscimento della filiazione (da parte del padre o della madre che siano cittadini italiani), oppure a seguito dell’accertamento giudiziale della sussistenza della filiazione (art. 2, co. 1).
Lo straniero nato in Italia può divenire cittadino italiano se vi ha risieduto legalmente e ininterrottamente fino alla maggiore età e dichiari, entro un anno dal compimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana (art. 4, co. 2).
In base ad una disposizione introdotta nel 2013, gli ufficiali di stato civile sono tenuti nel corso dei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno di età a comunicare all’interessato, la possibilità di esercitare tale diritto entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza, il diritto può essere esercitato anche oltre tale data (D.L. 69/2013, art. 33). La stessa disposizione ha chiarito inoltre che all’interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni altra idonea documentazione.
Dati quantitativi e
qualitativi sulle acquisizioni di cittadinanza italiana sono contenuti nel rapporto pubblicato dall’ISTAT il 22 ottobre 2015,
intitolato: Cittadini non comunitari:
presenza, nuovi ingressi e acquisizioni di cittadinanza.
La Camera ha approvato il 13 ottobre 2015 un testo unificato in materia di cittadinanza, ora in corso di esame al Senato (A.S. 2092). La proposta si concentra sulla questione fondamentale della tutela dell'acquisto della cittadinanza da parte dei minori, apportando a tal fine alcune modifiche alla vigente legge sulla cittadinanza (L. n. 91/1992).
Le novità principali del testo consistono nella previsione di una nuova fattispecie di acquisto della cittadinanza italiana per nascita (cd. ius soli) e nell'introduzione di una nuova fattispecie di acquisto della cittadinanza in seguito ad un percorso scolastico (cd. ius culturae).
In particolare, acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente o in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
In tal caso, la cittadinanza si acquista mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età dell'interessato.
Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l'interessato può:
La seconda fattispecie di acquisto della cittadinanza riguarda il minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Nel caso in cui la frequenza riguardi il corso di istruzione primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva di tale corso (c.d. ius culturae).
In tal caso, la cittadinanza si acquista mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore legalmente residente in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età dell'interessato.
Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l'interessato può:
Oltre a queste ipotesi, che configurano un diritto all'acquisto della cittadinanza, la proposta introduce un ulteriore caso di concessione della cittadinanza (cd. naturalizzazione), che ha carattere discrezionale, per lo straniero che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età, ivi legalmente residente da almeno sei anni, che ha frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, nel medesimo territorio, un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo, presso gli istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale con il conseguimento di una qualifica professionale. Tale fattispecie dovrebbe, in particolare, riguardare il minore straniero che ha fatto ingresso nel territorio italiano tra il dodicesimo ed il diciottesimo anno di età.
Tra le ulteriori disposizioni della proposta, si prevede infine l'esonero per le istanze o dichiarazioni concernenti i minori dal pagamento del contributo previsto attualmente dalla legge per le richieste di cittadinanza.
È stata inoltre dettata una disciplina transitoria, in base alla quale coloro che abbiano maturato i requisiti per l'acquisto iure culturae prima dell'entrata in vigore della legge e abbiano già compiuto i 20 anni di età (termine previsto dalla legge per la dichiarazione di acquisto della cittadinanza), possono fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro 12 mesi dall'entrata in vigore della legge, purché residenti in Italia da almeno 5 anni; l'acquisto è escluso nel caso in cui l'interessato sia stato destinatario di provvedimenti di diniego della cittadinanza per motivi di sicurezza della Repubblica o di provvedimenti di espulsione per i medesimi motivi. Resta ferma l'applicazione della normativa a coloro che abbiano maturato i requisiti per l'acquisto iure soli o iure culturae prima dell'entrata in vigore della legge e non abbiano compiuto i 20 anni di età.
Le Linee guida sui minori, adottate con la delibera del Comitato direzionale
della cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri l’11
dicembre 2011, costituiscono il principale documento di riferimento in tema di
rapporti tra condizione minorile e cooperazione internazionale.
Le Linee guida – redatte originariamente
nel 1998 e successivamente aggiornate nel 2004 - si collocano all’interno di un
quadro di riferimento
giuridico-internazionale, formato dai consensi e dai documenti adottati a
livello multilaterale sui diritti umani che l’Italia ha riconosciuto o ratificato,
dalla Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989 (CRC) ed i suoi Protocolli Opzionali, al Common Understanding (UN) on
Human Rights Based Approach to Development Cooperation del 2003, dagli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio alla Dichiarazione di Parigi (2005) per
l’allineamento e l’armonizzazione degli aiuti dall’Europa.
Il documento enuclea
altresì quattro princìpi generali della
CRC:
a.
il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo,
b.
il superiore interesse dei bambini e degli
adolescenti,
c.
il principio della non discriminazione,
d.
il diritto all’ascolto e alla partecipazione.
Al tempo stesso, nel
considerare nel considerare i minori come Protagonisti del proprio sviluppo, li
considera titolari di diritti inalienabili, quali il diritto alla salute,
quello a un ambiente familiare, quello di cittadinanza, quello all’educazione,
all’informazione e alla cultura, quello all’ambiente).
Il documento
definisce una serie di tematiche prioritarie,
che costituiscono i principali versanti d’intervento della Cooperazione
italiana allo sviluppo.
· l’educazione, priorità assoluta dei progetti italiani: le Linee guida
qualificano l’educazione principio
fondamentale per lo sviluppo del minore sottolineando l’esigenza di promuovere
politiche nazionali per l’inclusione dei minori in contesti educativi di
livello adeguato e senza disparità di genere. Le azioni della Cooperazione italiana
dovranno mirare a garantire una migliore offerta formativa all’interno dei
programmi scolastici nazionali per lo sviluppo globale della personalità, delle
attitudini e del senso di responsabilità morale e sociale di ogni minore,
sostenendo anche azioni educative di carattere non formale;
· la lotta allo sfruttamento sessuale, alla tratta ed al
lavoro minorile: nel documento si
ribadisce che la Cooperazione Italiana considera crimini contro l’umanità la tratta e lo sfruttamento dei minori e
la violazione della loro integrità psichica e fisica perpetrata attraverso ogni
forma di violenza, ispirandosi ai principi contenuti nella CRC e nei suoi
Protocolli opzionali e nelle convezioni di Lanzarote e di Strasburgo del
Consiglio d’Europa. Il testo prefigura pertanto l’adozione di strategie volte a
prevenire e contrastare l’induzione alla prostituzione, il turismo sessuale re
la pedopornografia, anche attraverso strumenti telematici, nella prospettiva di
una cultura dei diritti umani che superi
la neutralità della condizione infantile verso un pieno riconoscimento dei
diritti dei minori;
· la giustizia minorile: in linea con gli standard
internazionali adottati in materia e riconoscendo la particolare vulnerabilità
dei minori che entrano in contatto con il sistema della giustizia minorile, le Linee guide considerano fondamentale promuovere
e sostenere l’adozione e l’attuazione di politiche e interventi nei paesi
destinatari di cooperazione in materia di giustizia minorile civile e penale al
fine di prevenire, recuperare e reinserire nella società i minori in conflitto
con la legge;
· il contrasto al lavoro minorile: In linea con la Convenzione sull’età minima dell’Organizzazione
internazionale del lavoro n. 138 del 1973, il documento individua quale
priorità della Cooperazione Italiana la promozione di iniziative volte
all’adozione ed all’attuazione di politiche e progetti di contrasto e sradicamento di tutte le modalità di sfruttamento dei
minori attraverso il lavoro, dando priorità alle peggiori forme del lavoro
minorile e a ogni mansione che possa comprometterne la sicurezza, la salute e
lo sviluppo. A livello sovranazionale, la Cooperazione italiana si impegna a gli sforzi in atto per innalzare la responsabilità sociale delle imprese,
migliorare gli standard di lavoro per
gli adulti e per un’efficace prevenzione dello sfruttamento del lavoro minorile
in tutte le sue forme;
· i minori nei contesti di crisi: un
ulteriore versante prioritario d’intervento è rappresentato dalla realizzazione
d’iniziative finalizzate al recupero e
al reinserimento sociale dei minori ex-combattenti
e vittime dei conflitti che presuppongono un vasto impegno civile e
politico delle istituzioni locali. In quest’ottica la Cooperazione italiana attribuisce
particolare rilievo alla protezione dei minori nelle situazioni di emergenza
umanitaria, riconducibili all’uomo o derivanti da fattori naturali, ove la
particolare vulnerabilità dei minori risulti evidente e un’azione quanto più
tempestiva in loro favore rappresenti una condizione indispensabile per ridurre
l’esposizione a gravissimi fattori di rischio;
· i minori con disabilità: i diritti dei
minori con disabilità sono definiti nel documento “parte integrante dei diritti
umani fondamentali” e vi sottolinea il forte impegno della Cooperazione
italiana nelle azioni di lotta all’esclusione
sociale ed alla marginalizzazione socioculturale ed educativa dei minori con
disabilità. Tale attività è finalizzata a garantire il diritto dei minori
disabili all’accesso all’educazione e alla partecipazione sociale, culturale e
ricreativa della Comunità, al pari degli altri. La Cooperazione attribuisce
elevata priorità alla prevenzione dei fattori che producono disabilità e alla
rimozione degli ostacoli che impediscono al Minore disabile la piena
partecipazione alla vita sociale[14];
· i minori nelle migrazioni: la Cooperazione italiana attribuisce infine particolare
rilievo alla tutela dei minori nei processi migratori, sia nei Paesi d’origine
dei flussi migratori, sia nel nostro Paese, la cui crescente complessità è da
collegarsi ai fenomeni legati alla globalizzazione e che coinvolgono anche il
nostro Paese. In questa prospettiva essa s’impegna ad intervenire sostenendo i sistemi di welfare nei Paesi d’origine
dei flussi migratori allo scopo di promuovere politiche di sviluppo e d’inclusione
sociale a favore di Minori, anche mediante la cooperazione decentrata.
Successivamente
all’adozione delle Linee guida, è intervenuta l’approvazione della legge di
riforma del settore (legge n. 125/2014) che definisce una nuova architettura del sistema
della cooperazione rilanciandone il posizionamento istituzionale, i meccanismi
di indirizzo politico, oltre che gli strumenti di attuazione, mutando altresì
la denominazione dello stesso Dicastero che significativamente diviene “degli affari esteri e della cooperazione
internazionale”.
La ristrutturazione
del sistema si è completata con la creazione e la definizione della governance dell’Agenzia italiana per la cooperazione[15] e con l’adozione del nuovo documento di
programmazione triennale, “Un Mondo in comune: Solidarietà,
Partnership, Sviluppo”, approvato dal Comitato interministeriale per la
cooperazione allo sviluppo l’11 giugno scorso .
Sul
versante finanziario, la nuova legge individua come interlocutore strategico
per l’Agenzia la Cassa Depositi e
Prestiti (CDP), società per azioni a controllo pubblico chiamata ad operare
come banca o istituzione finanziaria per la cooperazione allo sviluppo: cioè
non solo a concedere crediti agevolati a valere sul fondo rotativo fuori
bilancio costituito presso di essa (art. 8), ma anche a strutturare prodotti di
finanza per lo sviluppo nell’ambito di accordi con organizzazioni finanziarie
europee o internazionali, a partecipare a programmi dell’UE e a destinare
risorse proprie in regime di cofinanziamento con soggetti privati, pubblici o
internazionali (art. 22, comma 4).
Sul piano delle
risorse, la nuova normativa esplicita la necessità di un allineamento agli
impegni e agli standard
internazionali, che dovrebbe
significare un percorso di graduale adeguamento degli stanziamenti annuali per
la cooperazione internazionale allo sviluppo, tale da porre l’Italia in linea
con gli impegni e gli obiettivi assunti a livello europeo e internazionale, a
cominciare da quello dello 0,7% del PNL
(art. 30).
Occorre
segnalare a tale proposito che, in linea con quanto previsto nel Documento di
economia e finanza 2015, il disegno di
legge di stabilità 2016 è caratterizzato da un rilancio in termini di risorse
finanziarie messe a disposizione per la cooperazione allo sviluppo.
Si tratta di risorse aggiuntive in favore della nuova Agenzia, pari a 120 milioni per il 2016, a 240 milioni per
il 201 ed a 360 milioni a decorrere dal 2018.
Nelle
intenzioni del ministro degli Affari esteri e della cooperazione
internazionale, Paolo Gentiloni, “si tratta di un’inversione di tendenza
storica che rafforza il ruolo internazionale dell’Italia a favore dei paesi in
via di sviluppo. Gli ulteriori stanziamenti permetteranno all’Italia di dare
attuazione a un piano di riallineamento del nostro aiuto pubblico allo sviluppo
e di valorizzare i contributi sia attraverso il finanziamento delle
organizzazioni internazionali sia promuovendo un maggiore sostegno all’attività
delle ONG, che sono tra le forze migliori dell’Italia all’estero, delle imprese
e delle università”.
La
Cooperazione - ha aggiunto il Ministro - “è
un vero investimento
strategico: la lotta contro la povertà va nella direzione di
una maggiore pacificazione delle aree di crisi, della stabilizzazione
internazionale e di un contributo alla costruzione di istituzioni democratiche
a tutela dei diritti umani, consentendo anche di rafforzare la nostra strategia
di intervento sulle cause dei flussi migratori”[16].
Come
rilevato nel recente VIII Rapporto
di aggiornamento sul
monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in
Italia 2014-2015, curato dal Gruppo di lavoro sulla CRC da un
lato permane ancora difficile identificare quanti e
quali contributi possano essere considerati in favore dell’infanzia.
“I criteri
di classificazione degli interventi nei diversi anni – si osserva nel Rapporto
- non sono stati sempre completamente uniformi e, quindi, in assenza di una
chiara programmazione e di una più chiara definizione dei criteri di
classificazione, risulta ancora difficile una valutazione dell’ammontare delle
risorse allocate in favore dell’infanzia nella cooperazione internazionale”.
Lo stesso Rapporto
rileva come sia mancato un vero e proprio monitoraggio delle Linee guida e che pertanto, anche “alla luce della recente riforma, si rende
oggi indispensabile una loro revisione che porti alla messa in atto di un
percorso di verifica più strutturato, al quale possano partecipare tutti gli
attori coinvolti”.
Secondo le stime
fornite dal Rapporto stesso, nel 2014,
il 24% (pari a 55 mln.) delle
risorse della Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo sarebbero
state destinate all’infanzia, a fronte del 15 % (34 mln.) nel 2013, del 45% (39
mln.) nel 2012, del 20% (36 mln.) nel 2011 e del 13% (42 mln.) nel 2010.
In questa
prospettiva occorre ricordare che nel corso di quest’anno la Comunità
internazionale abbia iniziato a ridefinire una nuova agenda globale attraverso una serie di conferenze ed
iniziative multilaterali come la terza Conferenza
sul finanziamento dello sviluppo di Addis Abeba che si è svolta a luglio
2015 ed il negoziato alla Conferenza sulla Convenzione quadro delle Nazioni
Unite sui cambiamenti climatici in corso di svolgimento a Parigi in questi
giorni che hanno un notevole impatto sul nesso
cooperazione internazionale-problematiche minorili.
Soprattutto occorre
evidenziare la rilevanza che assume la nuova Agenda di sviluppo 2030 per uno sviluppo sostenibile, adottata
ufficialmente in occasione di un vertice dei capi di Stato e di Governo,
tenutosi presso la sede dell’Onu di New York, in occasione dell'annuale
Assemblea Generale, tra il 25 ed il 27 settembre scorsi.
Per contribuire allo
sviluppo globale, promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente, l’Agenda 2030 per
uno sviluppo sostenibile contiene 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs, nell'acronimo inglese, per Sustainable Development Goals) e 169 sotto-obiettivi, alcuni hanno uno
specifico rilievo sotto il profilo delle condizioni e dei diritti dei minori.
Oltre allo sviluppo
sociale ed economico, gli SDGs integrano anche la sostenibilità ecologica.
Inoltre riprendono aspetti di fondamentale importanza per lo sviluppo
sostenibile come la pace e la sicurezza, lo Stato di diritto e il buongoverno.
Gli SDGs hanno
validità universale, tutti i Paesi pertanto devono fornire un contributo per
raggiungere gli obiettivi in base alle loro capacità. Inoltre devono essere
creati stimoli affinché attori non statali forniscano un maggiore contributo
attivo allo sviluppo sostenibile.
Gli obiettivi
di sviluppo sostenibile sono:
1.
sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque
nel mondo;
2.
porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza
alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere l’agricoltura sostenibile;
3. garantire una vita sana e promuovere il benessere di
tutti a tutte le età;
4. garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e
promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti.
5. raggiungere l’uguaglianza di genere e
l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze.
6.
garantire la disponibilità e la gestione sostenibile
di acqua e servizi igienici per tutti.
7.
garantire l’accesso all’energia a prezzo accessibile,
affidabile, sostenibile e moderna per tutti;
8.
promuovere una crescita economica duratura, inclusiva
e sostenibile, la piena occupazione e il lavoro dignitoso per tutti;
9.
costruire un’infrastruttura resiliente, promuovere
l’industrializzazione inclusiva e sostenibile e sostenere l’innovazione;
10.
ridurre le disuguaglianze all’interno dei e fra i
Paesi;
11.
rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi,
sicuri, resilienti e sostenibili.
12.
garantire modelli di consumo e produzione sostenibili;
13.
adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti
climatici e le loro conseguenze;
14.
conservare
e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine;
15.
proteggere, ripristinare e promuovere l’uso
sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste,
contrastare la desertificazione, arrestare e invertire il degrado dei suoli e
fermare la perdita di biodiversità;
16.
promuovere società pacifiche e inclusive orientate
allo sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia e
costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli;
17.
rafforzare le modalità di attuazione e rilanciare il
partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.
[1] Si ricorda che i progetti attuati nelle città riservatarie con le risorse del Fondo sono illustrati nella Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge recante disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza (Doc. CLXIII).
[2] Il progetto ha ricevuto un contributo della Comunità Europea nell’ambito del Programma di apprendimento per tutto l’arco della vita, erogato dalla Commissione Europea, Direzione Generale per l’Istruzione e la Cultura.
[3] In base alle FAQ presenti nella
pagina del MIUR dedicata all’integrazione scolastica degli alunni con
disabilità, il GHL,
Gruppo di Lavoro sull'Handicap, si
riferisce ad ogni singolo alunno e indica l'insieme dei soggetti chiamati a
definire il profilo dinamico funzionale e il piano educativo individualizzato,
ossia tutti gli insegnanti, curricolari e di sostegno e gli operatori
dell'Azienda Sanitaria, con la collaborazione dei genitori.
[4] L’art. 4 della L. 104/1992 ha previsto che gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua sono effettuati dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1 della L. 295/1990 (composte da un medico legale e da due medici, di cui uno specialista di medicina del lavoro e di volta in volta integrate con sanitari in rappresentanza delle associazioni delle diverse categorie di invalidi o disabili), che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le stesse unità sanitarie locali. Da ultimo, l’art. 19, co. 11, del D.L. 98/2011 (L. 111/2011) ha poi disposto che tali commissioni sono integrate obbligatoriamente con un rappresentante dell’INPS nei casi di valutazione della diagnosi funzionale costitutiva del diritto all'assegnazione del docente di sostegno all'alunno disabile (che, tuttavia, è successiva e affidata all’organo di cui alla nota che segue).
[5] L’unità multidisciplinare è composta: dal medico specialista nella patologia segnalata, dallo specialista in neuropsichiatria infantile, dal terapista della riabilitazione, dagli operatori sociali in servizio presso l’unità sanitaria locale o in regime di convenzione con la medesima.
[6] Per approfondimenti si vedano, in particolare, le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità e le FAQ presenti sul sito del MIUR.
[7] Le aree metropolitane, per densità di popolazione, possono necessitare di uno o più CTS dedicati.
[8] Fonte: I.Stat – banche dati correnti
[9] L’indagine ha coinvolto la totalità dei ragazzi e ragazze che si trovano negli Istituti Penitenziari Minorili (IPM), nelle Comunità di Accoglienza Penale (CPA) e nelle Comunità Ministeriali oltre a un significativo numero di ragazzi in carico all’Ufficio di servizio sociale Minorile (USSM). Negli IPM si trovano ragazzi e ragazze che stanno scontando una pena o in custodia cautelare; nei CPA minori in stato di arresto, fermo ed accompagnamento fino all’udienza di convalida che deve avvenire al massimo entro 96 ore; le Comunità Ministeriali assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato; gli uffici del servizio sociale minorile (U.S.S.M.) forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale e forniscono ai magistrati informazioni utili alla comprensione della personalità e condizione del minore.
[10] Si ricorda che l’indennità di maternità viene corrisposta anche in caso di cessazione dell'attività dell'azienda, di ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice è stata assunta o di scadenza del termine contrattuale che si verifichino durante i periodi di congedo di maternità.
[11] Le altre categorie sono la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa e la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni. Si ricorda che è in ogni caso vietato adibire le donne al lavoro notturno (dalle 24 alle 6) dall'accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
[12] Per irreperibili si intendono i minori stranieri non accompagnati per i quali è stato segnalato un allontanamento dalle strutture o dalle famiglie di accoglienza.
[13] Nel nuovo fondo confluiscono le risorse dell’analogo Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali dal decreto-legge n. 95/2012 che viene contestualmente soppresso (art. 1, co. 181). Il successivo comma 182 demanda ad un apposito decreto del Ministero del lavoro la definizione delle modalità di erogazione delle risorse residue del Fondo. Tale ripartizione è avvenuta con D.M. 5 agosto 2015.
[14] Si segnala a tale proposito
che la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo ha approvato nel
novembre 2010 le Linee Guida per l’introduzione
della tematica della disabilità nell’ambito delle politiche e delle attività
della Cooperazione Italiana redatte sulla base degli standard internazionali e in particolare della Convenzione dei diritti
delle persone con disabilità (CRPD), adottata dall’Assemblea delle Nazioni
Unite il 13 dicembre 2006, attualmente ratificata da 103 Stati tra cui
l’Italia, con la legge n. 18/2009.
[15] Lo statuto dell'Agenzia italiana per la
cooperazione allo sviluppo è stato emanato dal MAECI con il Decreto
Ministeriale 22 luglio 2015, n. 113.
[16] http://www.info-cooperazione.it/2015/10/con-la-legge-di-stabilita-crescono-del-40-i-fondi-per-la-cooperazione/