Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari sociali
Titolo: Politiche per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 208
Data: 14/12/2015
Descrittori:
ASSISTENZA ALL'INFANZIA   INFANZIA
MINORI   SCUOLA
Organi della Camera: XII-Affari sociali

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Politiche per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 208

 

 

 

14 dicembre 2015

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Affari sociali

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File: AS0227.docx

 


INDICE

Schede di lettura

Premessa  5

Dati statistici 8

§  Natalità della popolazione residente  8

§  Fecondità della popolazione residente  9

§  Povertà minorile  10

La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia  14

-     Gruppo CRC   14

-     Monitoraggio della Convenzione ONU   15

-     Il Garante per l’infanzia e l’adolescenza  16

Risorse e quadro degli interventi per i minori 17

§  Fondi dedicati 18

§  Misure determinate dalla legge di stabilità 2015  19

-     Bonus bebé  19

-     Buoni per famiglie con 4 o più figli 19

-     Piano asili nido  20

§  Misure proposte dal disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) 21

-     Contributo economico da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l'infanzia  21

-     Lotta alla povertà  21

-     Carta acquisti 22

-     Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile  24

-     Adozioni internazionali 24

-     Welfare aziendale  26

Programma nazionale infanzia e anziani 27

Servizi socio educativi per la prima infanzia  29

§  I numeri e la diffusione territoriale  29

§  I livelli di governo  30

§  Quadro normativo nazionale  32

§  La delega contenuta nella “Buona scuola” 36

Comunità residenziali per minori 39

§  I numeri dell'accoglienza  40

§  La concentrazione metropolitana dell'accoglienza  40

§  Le caratteristiche dei bambini e dei ragazzi accolti 41

§  I bambini e i ragazzi nei servizi residenziali 43

§  Proposte per la definizione di criteri e standard comuni 44

Inclusione scolastica degli studenti con disabilità  45

Neet 50

Tutela dei diritti dei minori 51

§  La riforma della filiazione  51

§  Il diritto del minore ad una famiglia  53

§  La ratifica della Convenzione dell’Aja del 1996  55

§  I provvedimenti all’esame del Parlamento  57

-     L’accesso del figlio alle informazioni sulle proprie origini 57

-     Il cognome dei figli 59

Il contrasto alla violenza su minori 61

§  La prima indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini 61

§  La tutela (indiretta) dei minori nell’ambito del Piano nazionale contro la violenza di genere  62

§  I provvedimenti all’esame del Parlamento per combattere il cyberbullismo  64

La lotta alla tratta  69

§  Le fattispecie penali nel codice  69

§  La ratifica della Convenzione di Varsavia  72

§  Prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e protezione delle vittime  74

§  Le analisi del Ministero della giustizia  77

La lotta allo sfruttamento sessuale dei minori 81

I provvedimenti di riforma della giustizia minorile all’esame del Parlamento  86

§  L’istituzione del tribunale della famiglia e della persona  86

§  La delega per la riforma dell’esecuzione penale minorile  91

Lavoro minorile e apprendistato  92

§  I dati del fenomeno  92

§  Quadro normativo  93

Conciliazione vita-lavoro  97

§  Quadro normativo  97

-     Legge di riforma della P.A. 98

§  Permessi per figli disabili 99

§  I provvedimenti all’esame del Parlamento  100

I minori stranieri non accompagnati 101

§  Quadro normativo  101

-     Status giuridico  101

-     Le misure di accoglienza  103

-     Il Fondo per i minori stranieri non accompagnati 104

-     La domanda di protezione internazionale  105

-     Le indagini familiari 106

-     Divieto di espulsione e rimpatrio assistito  107

-     Affidamento e tutela  108

-     I lavori parlamentari 109

§  L’Accesso all’istruzione dei minori stranieri 110

-     Quadro normativo sul diritto all’istruzione dei minori stranieri 110

-     Recenti interventi normativi per l’istruzione degli alunni stranieri 111

-     Recenti iniziative per l’integrazione degli alunni stranieri 111

-     I numeri degli alunni stranieri e la loro provenienza  113

§  Acquisto della cittadinanza da parte dei minori stranieri 113

-     La proposta di riforma all’esame del Parlamento  114

I minori nei programmi della Cooperazione italiana allo sviluppo  117

§  Attuazione delle Linee guida e avvio della disciplina sulla cooperazione allo sviluppo  119

§  I nuovi scenari internazionali 121

 


SIWEB

Schede di lettura

 


Premessa

Il presente dossier fornisce un quadro generale delle politiche per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva.

Oltre all’esposizione dei dati statistici riguardanti la natalità e gli aspetti caratterizzanti la condizione dei minori nel nostro Paese, vengono illustrati i provvedimenti normativi più significativi adottati in tale ambito o all’esame del Parlamento.

Si tratta di un argomento che tocca diversi settori di interesse, coinvolgendo misure di carattere socio-assistenziale, scolastico ed educativo, di diritto del lavoro, norme di diritto civile, penale ed amministrativo nonché il tema della cooperazione allo sviluppo.

Il dossier è stato redatto in occasione dell’esame da parte della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza dello schema del IV Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva.

Il Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva c.d. Piano Nazionale Infanzia (PNI) contiene le linee strategiche fondamentali e gli impegni concreti che il Governo intende perseguire per sviluppare un’adeguata politica per l’infanzia e l’adolescenza.

Il PNI, previsto in Italia dalla Legge 451/1997 istitutiva della Commissione parlamentare per l'infanzia e dell'Osservatorio nazionale per l'infanzia, individua le modalità di finanziamento per la tutela dei diritti e degli interventi da esso previsti nonché le forme di potenziamento e di coordinamento delle azioni svolte dalle Regioni e dagli Enti Locali.

L’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza è l’organismo competente a predisporre il contenuto del PNI. Le Amministrazioni centrali dello Stato, le Regioni e gli Enti Locali si coordinano con l’Osservatorio affinché venga adottata ogni misura volta a qualificare l’impegno finanziario per perseguire le priorità e le azioni previste dal piano stesso.

La bozza del Quarto Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, è stata approvata il 28 luglio 2015 dalla Plenaria dell’Osservatorio Nazionale Infanzia alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Per il Quarto Piano di azione, il Governo ha inteso valorizzare le indicazioni derivanti dalle Osservazioni conclusive all’Italia da parte del Comitato Onu sui diritti del fanciullo - oltre al monitoraggio del 7° e 8° report della CRC -, dagli esiti del monitoraggio del Terzo Piano di azione e dalle priorità tematiche delineatesi nel corso della IV Conferenza nazionale sull’infanzia e l’adolescenza, tenutasi nel marzo 2014, nonché dalle Raccomandazioni della Commissione Parlamentare per l’infanzia contenute nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla povertà e sul disagio minorile.

Per il Quarto Piano di azione le priorità tematiche individuate sono le seguenti: 1. Linee di azione a contrasto della povertà dei bambini e delle famiglie;

2. Servizi socio educativi per la prima infanzia e qualità del sistema scolastico;

3. Strategie e interventi per l’integrazione scolastica e sociale;

4. Sostegno alla genitorialità, sistema integrato dei servizi e sistema dell’accoglienza.

In relazione a ciascuna priorità tematica sono stati poi individuati interventi/azioni riconducibili a:

·         interventi di tipo legislativo, che impegnano Amministrazione centrali, Regioni e Province autonome, ivi compreso circolari e direttive attuative;

·         interventi di tipo amministrativo generale e/o programmatorio, di competenza delle Amministrazioni centrali, delle Regioni/Province autonome e in taluni casi degli Enti locali;

·         interventi di natura operativa (progetti sperimentali, costituzione di tavoli di coordinamento, ecc.), che impegnano Amministrazioni centrali, Regioni/Province autonome, Enti locali e anche realtà del terzo settore.

La declinazione degli obiettivi in azioni/interventi è avvenuta attraverso la compilazione di una scheda articolata nei seguenti elementi:

Ø  Obiettivo specifico, cui si riferisce la scheda;

Ø  Azione/Intervento, che descrive l’azione che ci si propone di intraprendere per raggiungere l’obiettivo di riferimento;

Ø  Soggetti coinvolti nel ruolo di promotori - collaboratori - destinatari finali. Infatti, in relazione al livello territoriale cui si riferisce ogni azione (nazionale, regionale, subregionale) i possibili soggetti coinvolti (istituzionali e non) sono diversi;

Ø  Tipologia degli interventi proposti per realizzare l’obiettivo specifico;

Ø  Risorse disponibili a livello statale per la realizzazione degli interventi individuati. Sul punto, all’interno dello stesso Piano si riconosce che, a livello centrale, la spesa sociale per l’area minorenni e famiglia si attesta, nel 2012, all’1.3% del PIL. Pertanto, la quota di spesa sociale riservata a famiglie e minorenni è la più bassa fra i maggiori Paesi europei, infatti la Germania spende per minorenni e famiglie l’11,2% della spesa sociale, la Francia il 7,9%, il Regno Unito 6,6% e la Spagna il 5,4%. Le risorse per il Piano sono dunque coincidenti con le dotazioni dei Fondi dedicati  e con le risorse a carico degli ordinari stanziamenti di bilancio nei capitoli di previsione del  MLPS, del MIUR, del MIBAC (ad esempio per Incoraggiare la partecipazione di tutti i minorenni ad attività ludiche, ricreative, sportive e culturali), del Ministero della Salute (ad esempio per migliorare la reattività dei sistemi sanitari nel rispondere alle esigenze dei minorenni svantaggiati) e con le risorse a carico degli ordinari stanziamenti dei bilanci regionali e comunali (anche questi molto ridotti negli ultimi anni).

 

 

 

 

 


Dati statistici

Natalità della popolazione residente

Il Rapporto Istat Natalità e fecondità della popolazione residente evidenzia che nel 2013 sono stati iscritti in anagrafe, per nascita, 514.308 bambini, quasi 20 mila in meno rispetto al 2012. Il dato conferma che è in atto una nuova fase di riduzione della natalità: oltre 62 mila nascite in meno a partire dal 2008.

Conseguentemente, nel 2013 il numero medio di figli per donna scende a 1,39 (rispetto a 1,46 del 2010).

 

Per le italiane l'indicatore nel 2013 è pari a 1,29 figli donna, per le cittadine straniere a 2,10. Ancora più marcata la diminuzione delle nascite da entrambi i genitori italiani (-70 mila nell'ultimo quinquennio): conseguenza del fatto che le donne italiane in età feconda sono sempre meno numerose e fanno sempre meno figli. In lieve diminuzione per la prima volta anche i nati con almeno un genitore straniero (3.239 in meno rispetto al 2012), che ammontano a poco più di 104 mila nel 2013, pari al 20,2% del totale dei nati a livello medio nazionale (il 28% nel Nord e solo l'8% nel Mezzogiorno). Diminuiscono in particolare i nati con entrambi i genitori stranieri, scesi a 77.705 unità nel 2013, 2.189 in meno rispetto al 2012. In leggera flessione anche la loro quota sul totale delle nascite, pari al 15% nel 2013.

 

La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva.

Inoltre, l’analisi del fenomeno della denatalità nel nostro Paese evidenzia delle differenze territoriali, in quanto l’andamento delle nascite nelle tre aree geografiche - Nord (ovest ed est) Centro e Mezzogiorno (sud e isole) - vede dinamiche diverse. All’inizio degli anni ‘80 solo il Mezzogiorno era contraddistinto da un tasso di fecondità totale maggiore di 2 nati per donna. Gli ultimi venti anni sono stati caratterizzati da una inversione della geografia della fecondità: le regioni del Centro-Nord hanno raggiunto e superato quelle meridionali, interessate da un costante percorso di declino. Questa inversione è il risultato delle nascite nella popolazione straniera: una maggiore concentrazione della presenza di immigrati nel Nord, unita ad una più elevata fecondità degli stranieri, rappresentano una spiegazione del divario attualmente esistente; nel Nord il numero di nati da madri non italiane è pari al 28%, nel Centro si attesta al 23%, mentre nel Mezzogiorno non giunge nemmeno all’8%.

 

Sul territorio si conferma l’avvicinamento dei livelli di fecondità tra le regioni del Nord e del Centro (1,43 e 1,35 figli per donna) e quelle del Mezzogiorno (1,31 del nel 2014). Il numero medio di figli più elevato si registra tra le residenti nelle Province Autonome di Bolzano e Trento (rispettivamente1,74 e 1,54); seguono Valle d’Aosta (1,54) e Lombardia (1,46). Le differenze territoriali sono spiegate in larga misura dal diverso contributo delle donne straniere, che al Nord e al Centro è di gran lunga più rilevante non solo per la loro maggiore presenza ma anche per la loro più alta propensione ad avere figli. I livelli più elevati della fecondità delle donne straniere si registrano, infatti, tra le residenti al Nord-Ovest o al Nord-Est: rispettivamente 2,10 e 2,08 figli per donna (contro 1,29 e 1,28 delle residenti di cittadinanza italiana). Le straniere che risiedono al Centro e al Sud hanno in media un numero di figli più contenuto (1,8).

Fecondità della popolazione residente

La fecondità rappresenta la propensione alla riproduzione di una popolazione. L’intensità della fecondità si misura rapportando le nascite alla popolazione femminile in età feconda, in modo da ottenere un indicatore sintetico, il numero medio di figli per donna (o TFT – Tasso di fecondità totale), che consente di monitorare l’evoluzione del fenomeno nel tempo e nello spazio.

Il documento Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente, stima che su 10 coppie il 20% circa (1 su 5 ) ha difficoltà a procreare per vie naturali; 20 anni fa la percentuale era circa la metà. Il 40% delle cause di infertilità riguardano prevalentemente la componente femminile, l’altro 40% riguarda la componente maschile ed un 20% invece è di natura mista. Importante è sottolineare che negli ultimi 30 anni l’età media al concepimento in ambo i sessi è aumentata di quasi 10 anni, sia per l’uomo che per la donna.

Dal 1995 - quando si è raggiunto il minimo storico di 1,19 figli per donna - la fecondità è cresciuta fino al 2010 (1,46 figli per donna) per poi sperimentare una nuova fase di contrazione, tuttora in essere. Infatti nel 2014 le residenti in Italia hanno avuto in media 1,39 figli per donna. Inoltre, la distribuzione delle nascite per età della madre consente di mettere in luce lo spostamento della maternità verso età sempre più avanzate, caratteristica molto evidente fra le madri di cittadinanza italiana. La posticipazione delle nascite ha contribuito al forte abbassamento della natalità osservato nel nostro Paese dalla seconda metà degli anni Settanta alla prima metà degli anni Novanta. Successivamente si è registrato un parziale recupero delle nascite precedentemente rinviate in particolare da parte delle baby-boomers, che si è tradotto in un progressivo aumento delle nascite da madri con più di 35 anni, soprattutto al Nord e al Centro.

Nel 2014 le donne hanno in media 31,5 anni alla nascita dei figli, oltre un anno e mezzo in più rispetto al 1995 (29,8), valore che sale a 32,1 anni per le sole madri di cittadinanza italiana.

 

Circa l’8% dei nati nel 2014 ha una madre di almeno 40 anni, mentre la proporzione dei nati da madri di età inferiore a 25 anni è pari al 10,7% nel 2014. Considerando le sole donne italiane, la posticipazione della maternità è ancora più accentuata: l’8,9% sono ultraquarantenni e solo l’8,5% ha meno di 25 anni. Il dato medio nazionale racchiude significative differenze territoriali: il calendario delle nascite è tradizionalmente anticipato nelle regioni del Mezzogiorno, dove le madri italiane al di sotto dei 25 anni sono in media il 12,5% (15,5% in Sicilia, 13,3% in Campania) mentre quelle con almeno 40 anni sono il 6,7%. I casi di particolare “invecchiamento” delle madri italiane si registrano in Liguria, in Toscana, nel Lazio e in Sardegna regioni in cui la percentuale dei nati da madri ultraquarantenni supera l’11%.

 

Nel maggio 2015, il Ministero della salute ha presentato il Piano nazionale per la fertilità .

Il Piano è stato preceduto dal lavoro del "Tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità" che ha documentato il profilo multidisciplinare del tema, delineando alcuni punti sostanziali per l’elaborazione di un Piano Nazionale per la Fertilità. Lo scopo è quello di collocare la Fertilità al centro delle politiche sanitarie ed educative del Paese con la consapevolezza che la salute riproduttiva è alla base del benessere fisico, psichico e relazionale dei cittadini.

Gli obiettivi del Piano

Povertà minorile

Il Report Istat La povertà in Italia: anno 2014 evidenzia che nel 2014, 1 milione 470 mila famiglie (il 5,7% delle famiglie residenti) risultano in condizione di povertà assoluta in Italia, per un totale di 4 milioni e 102 mila individui (6,8% dell’intera popolazione). Tra le persone coinvolte, 1 milione 866 mila risiedono nel Mezzogiorno (l’incidenza è del 9%), 2 milioni 44 mila sono donne (l’incidenza è del 6,6%), 1 milione 45 mila sono minori (l’incidenza è del 10%), 857 mila hanno un’età compresa tra 18 e 34 anni (8,1%) e 590 mila sono anziani (l’incidenza è del 4,5%).

 

 

Livelli elevati di povertà assoluta si osservano per le famiglie con cinque o più componenti (16,4%), soprattutto se coppie con tre o più figli (16%) e famiglie di altra tipologia, con membri aggregati (11,5%); l’incidenza sale al 18,6% se in famiglia ci sono almeno tre figli minori e scende nelle famiglie di e con anziani (4% tra le famiglie con almeno due anziani)

 

 

Per quanto riguarda la povertà relativa, nel 2014, sono 2 milioni 654 mila le famiglie in condizione di povertà relativa (il 10,3% di quelle residenti), per un totale di 7 milioni 815 mila individui (il 12,9% dell’intera popolazione) , di cui 3 milioni 879 mila sono donne (l’incidenza è del 12,5%), 1 milione e 986 sono minori (19%) e 1 milione 281 mila anziani (9,8%). La povertà relativa risulta sostanzialmente stabile rispetto al 2013 (era al 10,4).

 

 

Lievi segnali di peggioramento si registrano per le famiglie con figli minori, in particolare con due figli (dal 15,6% sale al 18,5%), soprattutto nel Centro (dall’8,1% al 13,6%). Tali segnali si associano al peggioramento della condizione delle coppie con persona di riferimento con meno di 65 anni (dal 4,9% al 6,5%), a quello delle famiglie con a capo una persona almeno diplomata (dal 5% al 6,2%, nel Mezzogiorno dall’11% al 13,2%) e a quello delle coppie con un figlio (nel Nord dal 3,5% al 5,4%).

Inoltre, il 28% delle famiglie con cinque o più componenti risulta in condizione di povertà relativa, l’incidenza raggiunge il 36,8% fra quelle che risiedono nel Mezzogiorno. Si tratta per lo più di coppie con tre o più figli e di famiglie con membri aggregati, tipologie familiari tra le quali l’incidenza di povertà a livello nazionale è pari, rispettivamente, al 27,7% e al 19,2% (35,5% e 31% nel Mezzogiorno). Il disagio economico si fa più diffuso se all’interno della famiglia sono presenti figli minori: l’incidenza di povertà, pari al 14,0% tra le coppie con due figli e al 27,7% tra quelle che ne hanno almeno tre, sale, rispettivamente, al 18,5% e al 31,2% se i figli hanno meno di 18 anni. Il fenomeno, ancora una volta, è particolarmente evidente nel Mezzogiorno, dove è povero oltre il 40% delle famiglie con tre o più figli minori.

Sul punto si rinvia anche all’Atlante dell’infanzia a rischio a cura di Save the children che stima che in Italia il 25% dei minori è a rischio povertà: sono circa due milioni e mezzo i bambini e gli adolescenti che, come esemplificato nell'Atlante dell'Infanzia, soprattutto nelle regioni del Sud vivono in condizioni di deprivazione materiale e spesso anche culturale, sociale e relazionale. Mentre, un  milione di bambini vivono in povertà assoluta.

 


La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia

La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC), approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 176/1991, è composta di 54 articoli ed è suddivisa in tre parti: la prima parte (articoli 1-41) contiene l’enunciazione dei diritti, la seconda (art. 42-45) individua organismi preposti e modalità per l’implementazione e il monitoraggio della Convenzione stessa e la terza (art. 46-54) descrive la procedura di ratifica.

Le procedure contenute nella seconda parte della Convenzione, oltre a garantire il rispetto e l’adempimento degli obblighi convenzionali, prevedono un sistema di monitoraggio basato sulla redazione di rapporti periodici da parte degli Stati contraenti e sotto il controllo del Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Il Comitato ONU ha individuato quattro principi generali, trasversali a tutti i principi espressi dalla CRC ed in grado di fornire un orientamento ai governi per la sua attuazione:

 

Il Comitato ONU verifica i progressi compiuti dagli Stati che hanno ratificato la CRC nell’attuazione dei diritti in essa sanciti, attraverso la presentazione e relativa discussione a Ginevra di Rapporti periodici governativi e dei Rapporti Supplementari delle Ong.

 

Gruppo CRC

In Italia, il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Gruppo CRC) è un network di associazioni italiane che opera al fine di garantire un sistema di monitoraggio indipendente sull’attuazione della CRC e delle Osservazioni finali del Comitato ONU in Italia. Per garantire continuità al monitoraggio della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il Gruppo CRC elabora e pubblica ogni anno dei Rapporti di aggiornamento (Rapporti CRC). I Rapporti rappresentano il consuntivo del monitoraggio compiuto dal Gruppo CRC e vengono presentati pubblicamente alle istituzioni italiane ogni anno il 27 maggio, anniversario della ratifica della CRC in Italia. Il Rapporto CRC, attraverso le raccomandazioni poste alla fine di ogni paragrafo, fornisce alle istituzioni competenti indicazioni concrete per promuovere un cambiamento. A tal fine il Gruppo CRC organizza incontri di confronto con le istituzioni destinatarie delle raccomandazioni, a livello nazionale e regionale e audizioni in Parlamento presso la Commissione per l’infanzia e l’adolescenza.

 

Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia

Nel giugno 2015 il Gruppo CRC ha presentato l’8° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia, anno 2014-2015,  i cui capitoli rispecchiano i raggruppamenti tematici degli articoli della CRC suggerita dal Comitato ONU nelle «Linee Guida per la redazione dei Rapporti Periodici» - i diritti civili e le libertà dei minori; l’ambiente familiare e le misure alternative; la salute e l’assistenza; l’educazione, il gioco e l’attività culturali; le misure speciali per la tutela dei minori.

L'8° Rapporto evidenzia che:

Rispetto al problema dei minori privi di un ambiente familiare, il Rapporto sottolinea che gli stessi dati forniti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali presentano lacune e incongruenze (sui dati del Ministero del lavoro e delle politiche sociali vedi infra il capitolo dedicato alle “Comunità residenziali per minori”). I dati stimano infatti che al 31 dicembre 2012 i minorenni affidati a parenti erano 6.750, quelli affidati a terzi 7.444, per un totale complessivo di 14.191 affidamenti familiari, e che i minori inseriti in comunità erano 14.255. Poco o nulla sappiamo però sulle cause dell’allontanamento dalla famiglia e sui motivi che hanno portato a scegliere l’accoglienza in comunità o l’affido, il tipo di struttura di accoglienza e i tempi di permanenza. Informazioni che mancano soprattutto per i minorenni tra 0 e 5 anni. A ciò si aggiunge che molte Regioni non forniscono i dati richiesti, come la Calabria che non ha aderito alla rilevazione, la Liguria e la Sardegna che hanno fornito dati discordanti rispetto ai criteri della rilevazione, l’Abruzzo che non ha inviato i dati sull’affidamento familiare. Ed è incomprensibile il divario tra i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e quelli del Dipartimento per la Giustizia Minorile sugli affidamenti familiari consensuali o giudiziari. Sempre in merito al sistema di raccolta dati, la Banca Dati Nazionale dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione è operativa soltanto in 11 Tribunali per i Minorenni sui 29 esistenti e ciò rende difficile garantire a ogni bambino la scelta della miglior famiglia, quantificare e monitorare la situazione dei piccoli che non vengono adottati nonostante le tante famiglie disponibili.

Il rapporto dedica poi un paragrafo ai minori stranieri non accompagnati (MSNA), tema di grande attualità considerati i numerosi sbarchi di questo periodo, rilevando la necessità di rendere subito operativo il nuovo sistema di accoglienza. Dal primo gennaio al 31 marzo 2015 sono sbarcati in Italia 10.165 migranti, di cui 902 minori (289 accompagnati e 613 non accompagnati), dato che a giugno è balzato a quasi 5.000 minori. Nel 2014, 26.122 minori hanno raggiunto le coste italiane e di questi 13.026 sono risultati essere non accompagnati, ovvero un numero pari a due volte e mezzo quello registrato nel 2013. Si tratta per la maggior parte di ragazzi tra i 15 ed i 17 anni, originari dell’Eritrea (3.394), dell’Egitto (2.007) e della Somalia (1.481). Va menzionato anche l’elevato flusso migratorio via mare dalla Siria: nel 2014 sono sbarcati 10.965 minori (10.020 accompagnati e 945 non accompagnati)..

 

L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza

L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza è stata istituita con Legge 112/2011 con il compito di assicurare la promozione e la piena tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, collaborando a tal fine con tutti i soggetti che, in ambito nazionale e internazionale, operano in questo settore. Il Garante inoltre, assicura, anche in Italia, la piena attuazione e la tutela dei diritti e degli interessi dei minori secondo le disposizioni della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Al funzionamento dell’Ufficio del Garante sono dedicati 1,471 milioni di euro nel 2016, 1,565 milioni nel 2017 e 0,915 milioni di euro nel 2018.


Risorse e quadro degli interventi per i minori

Le risorse impegnate a livello statale per le politiche rivolte all’infanzia e all’adolescenza non sono riconducibili ad un quadro unitario. Infatti, gli stanziamenti utilizzati per le azioni e gli interventi rivolti ai minori sono allocati in fondi diversi; ugualmente le misure previste dalle ultime stabilità non sono spesso riconducibili ad un unico centro di spesa e non si collocano in uno spazio temporale di medio o lungo periodo.

Inoltre, gli interventi e i servizi rivolti ai minori, oltre ad essere finanziati con risorse statali, sono anche sostenuti dagli enti territoriali e locali ai quali spetta, rispettivamente, la loro pianificazione ed erogazione. Conseguentemente, in assenza di livelli essenziali delle prestazioni in ambito sociale, la situazione si presenta diversa a seconda delle realtà territoriali o locali di riferimento.

Per questo, l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza ha recentemente presentato il documento Verso la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni per i bambini e gli adolescenti. La proposta è stata elaborata dal Tavolo di lavoro sui livelli essenziali promosso dall'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza su impulso della rete "Batti il Cinque!", con il coinvolgimento dei Garanti Regionali per l'infanzia e l'adolescenza, di altre associazioni e coordinamenti ed esperti sul tema. Il lavoro si è sviluppato a partire dal marzo 2013, riprendendo e approfondendo un lavoro posto in essere dal 2011 dalla rete "Batti il Cinque! . Il documento parte dalla situazione descritta nel 7° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia 2013-2014: mancanza di una strategia politica che definisca le modalità per garantire prestazioni ovunque e a tutti i soggetti da 0 a 18 anni, come stabilito in materia di diritti civili sia dalla Costituzione sia dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia; disparità di trattamento da regione a regione e in certi casi da zona a zona; impossibilità in alcuni territori di ricevere prestazioni garantite in altri; assenza di standard strutturali e di strumenti normativi.

 


Fondi dedicati

Per una retrospettiva delle risorse stanziate per l’infanzia e l’adolescenza nel periodo 2007- 2015 si rinvia a: Conferenza delle regioni e delle province autonome, Centro interregionale studi e documentazione, Le risorse finanziarie per le politiche sociali anni 2007-2015, luglio 2015.

Di seguito un quadro riassuntivo delle risorse impegnate per l’infanzia e l’adolescenza dal disegno di legge di bilancio 2016-2018 A.C. 3445, tuttora all’esame delle Camere.

 

 

 

 

2016

 

2017

 

2018

Fondo nazionale per le politiche sociali

 

312.589.741

 

 

312.553.204

 

 

313.918.592

 

Fondo nazionale infanzia e adolescenza

 

28.794.000

 

 

28.794.000

 

 

28.794.000

 

Fondo per le politiche delle famiglia

 

5.359.227

 

 

5.359.227

 

 

5.359.227

 

Fondo per le adozioni internazionali

 

15.000.000

 

 

15.000.000

 

 

15.000.000

 

Fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati

170.000.000

170.000.000

120.000.000

Politiche per le pari opportunità

25.405.000

17.530.000

17.597.000

Fondo carta acquisti

734.663.525

261.124.010

256.969.619

 

Si ricorda che la legge 285/1997 ha istituito il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, suddividendolo tra le Regioni (70%) e le 15 Città riservatarie (30%). Successivamente, la legge finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha disposto, all'articolo 1, comma 1258, che la dotazione del Fondo fosse  interamente destinata ai comuni riservatari, e venisse determinata annualmente dalla Tabella C della legge finanziaria. Oggi le 15 Città riservatarie - Bari, Bologna, Brindisi, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Taranto, Torino, Venezia - rappresentano un laboratorio di sperimentazione in materia di infanzia e adolescenza. Il trasferimento delle risorse avviene con vincolo di destinazione, quindi i finanziamenti della legge 285 sono collegati alla progettazione dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza[1]. Il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza ha registrato una forte contrazione delle risorse da circa 40 milioni nel 2011 a meno di 29 nel 2016.

 

Misure determinate dalla legge di stabilità 2015

Bonus bebè

La legge di stabilità 2015 (legge 190/2014), ai commi da 125 a 129, ha previsto, per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2015 fino al 31 dicembre 2017, un assegno di importo annuo di 960 euro erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione. L'assegno – che non concorre alla formazione del reddito complessivo - è corrisposto fino al compimento del terzo anno d'età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell'adozione. Per poter ottenere il beneficio economico si richiede tuttavia la condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente sia in condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non superiore a 25.000 euro annui. L'importo dell'assegno di 960 euro annui è raddoppiato quando il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente è in una condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore ISEE non superiore ai 7.000 euro annui. L'assegno è corrisposto, a domanda, dall'INPS ai cittadini italiani, UE, e stranieri in possesso di permesso di soggiorno.

Per quanto riguarda le previsioni di bilancio recate dal disegno di legge di bilancio (A.C. 3445), il cap. 3543 Somme da corrispondere per l'assegnazione del bonus bebè nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali presenta una previsione assestata per il 2015 pari a 202 milioni di euro, che con una variazione in aumento di 405 milioni di euro si attesta a una previsione per il 2016 pari a 607 milioni. Le previsioni  per il 2017 e il 2018 sono pari a 1.012,0 milioni di euro (A.C. 3445-Disegno di legge di bilancio 2016-2018).

 

Buoni per famiglie con 4 o più figli

Il comma 130 della legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) ha stanziato 45 milioni di euro, per la concessione di buoni per l'acquisto di beni e servizi a favore dei nuclei familiari con quattro o più figli e in una condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore ISEE non superiore a 8.500 euro annui e con un numero di figli minori pari o superiore a quattro. L’importo è stato stanziato per il solo 2015. Le risorse non sono state ancora utilizzate poiché non è stato emanato il regolamento che dovrà stabilire l'ammontare massimo del beneficio per nucleo familiare e le modalità attuative, relative all’erogazione del beneficio.

 

Rilancio del piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia (Piano asili nido)

Nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze è allocato il cap. 2129 Fondo da destinare ad interventi per la famiglia istituito con una dotazione di 112 milioni di euro per l'anno 2015 dall’art. 1, co. 131, della legge di stabilità 2015 (legge 190/2014), da destinare a interventi in favore della famiglia, di cui una quota pari a 100 milioni di euro riservata per il rilancio del piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia (Piano asili nido) e una quota di 12 milioni destinata al Fondo per la distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti. Il capitolo presenta una previsione assestata per il 2015 pari a 112 milioni di euro. Dal 2016 viene soppresso per cessazione dell'onere.

Nella riunione della Conferenza Unificata del 7 maggio 2015 è stata siglata l’intesa sullo schema di DPCM recante "Piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia" dove sono stati ripartiti tra le Regioni e le Province autonome 100 milioni di euro per l'anno 2015. Il riparto è avvenuto per il 50% sulla base dei criteri utilizzati per il Piano Nidi del 2008 e per il 50% utilizzando i criteri del Fondo nazionale per le Politiche Sociali. Nell’ambito del riparto è stato condiviso di dedicare 5 milioni a favore delle Regioni del Sud non ricomprese tra le “Regioni obiettivo” in modo da favorire nelle stesse l’incremento dei servizi per la prima infanzia. Tra gli obiettivi previsti dal Piano si segnalano l’avvio di nuove strutture o l’ampliamento dei servizi di nido e micronido a titolarità pubblica con incremento del numero degli utenti presi in carico e l’estensione dei servizi di nido a titolarità pubblica attraverso un’apertura pomeridiana e nel periodo estivo (per il testo dell’Intesa e per la consistenza del Fondo per le politiche della Famiglia dal 2007 al 2015, si rinvia a Conferenza delle regioni e delle province autonome Centro interregionale studi e documentazione, Le risorse finanziarie per le politiche sociali anni 2007-2015, luglio 2015).


 

 

Misure proposte dal disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444)

Contributo economico da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l'infanzia

Il comma 156 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) dispone la proroga per il 2016 delle norme (di rango legislativo e secondario) già stabilite, in via sperimentale, per gli anni 2013-2015, relative alla possibilità, per la madre lavoratrice dipendente o titolare di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, di richiedere, in sostituzione, anche parziale, del congedo parentale, un contributo economico da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l'infanzia (erogati da soggetti pubblici o da soggetti privati accreditati). Il medesimo comma 156 riduce, per il 2016, nella misura di 10 milioni di euro il Fondo sociale per occupazione e formazione.

Il contributo è corrisposto nell'àmbito di un limite di spesa, pari, per l'anno 2016, a 20 milioni di euro; tale misura è identica a quella stabilita per ciascuno degli anni 2014 e 2015 dalle disposizioni attuative di cui al D.M. 28 ottobre 2014. Queste ultime prevedono che l'importo massimo del contributo sia pari a 600 euro mensili, attribuito, per una durata non superiore a sei mesi, sulla base di una graduatoria nazionale redatta dall'INPS mediante il criterio dell'ordine cronologico di presentazione delle domande (ovvero, in ipotesi, anche mediante gli altri criteri di cui all'art. 3 del citato D.M. 28 ottobre 2014).

Resta fermo che ad ogni quota mensile di contributo consegue la riduzione di un mese della durata massima del congedo parentale.

 

Lotta alla povertà

Il comma 208 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) istituisce, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Al Fondo sono assegnati 600 milioni di euro per il 2016 e 1.000 milioni di euro a decorrere dal 2017. Le risorse del Fondo costituiscono i limiti di spesa per garantire l'attuazione di un Piano nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione, adottato con cadenza triennale e attuano le disposizioni contenute nei commi da 208 a 212 del disegno di legge di stabilità 2016.

Per il 2016, le risorse stanziate, pari a 600 milioni di euro, sono ripartite nei seguenti interventi, considerati priorità del Piano nazionale (comma 209):

 

Carta acquisti

La Carta acquisti ordinaria, istituita dal decreto-legge 112/2008, è un beneficio economico, pari a 40 euro mensili, caricato bimestralmente su una carta di pagamento elettronico. La Carta acquisti è riconosciuta agli anziani di età superiore o uguale ai 65 e ai bambini di età inferiore ai tre anni, se in possesso di particolari requisiti economici che li collocano nella fascia di bisogno assoluto. Inizialmente, potevano usufruire della Carta acquisti ordinaria soltanto i cittadini italiani; la legge di stabilità 2014 (legge 147/2013) ha esteso la platea dei beneficiari anche ai cittadini di altri Stati dell'Ue e ai cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, purché in possesso dei requisiti sopra ricordati. La Carta è utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche. Gli enti locali possono aderire al programma Carta acquisti estendendone l'uso o aumentando il beneficio a favore dei propri residenti.

L'articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha configurato una fase sperimentale della Carta acquisti, prevedendone una sperimentazione, di durata non superiore ai dodici mesi, nei comuni con più di 250.000 abitanti e destinando alla fase di sperimentazione della Carta un ammontare di risorse con un limite massimo di 50 milioni di euro, e ha ampliato immediatamente la platea dei beneficiari anche ai cittadini degli altri Stati dell'Ue e ai cittadini esteri titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. È così nata la Carta acquisti sperimentale, anche definita Sostegno per l'inclusione attiva (SIA) o Carta per l’inclusione. Le modalità attuative della sperimentazione della SIA sono state indicate dal decreto 10 gennaio 2013 che fra l'altro stabilisce i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari, individuati per il tramite dei Comuni, e l'ammontare della disponibilità sulle singole carte, calcolato secondo la grandezza del nucleo familiare. La SIA - il cui importo varia da un minimo di 231 a un massimo di 404 euro mensili - è rivolta esclusivamente ai nuclei familiari con minori e con un forte disagio lavorativo. Il nucleo familiare beneficiario dell'intervento stipula un patto di inclusione con i servizi sociali degli enti locali di riferimento, il cui rispetto è condizione per la fruizione del beneficio. I servizi sociali si impegnano a favorire, con servizi di accompagnamento, il processo di inclusione lavorativa e di attivazione sociale di tutti i membri del nucleo.

L'articolo 3 del decreto-legge 76/2013 ha esteso la sperimentazione della SIA, già prevista per le città di Napoli, Bari, Palermo e Catania dal decreto legge 5/2012, ai restanti territori delle regioni del Mezzogiorno, nel limite di 140 milioni per il 2014 e di 27 milioni per il 2015. Tali risorse sono state stanziate a valere sulla riprogrammazione delle risorse del Fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie, già destinate ai Programmi operativi 2007-2013 (cioè della quota di cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali), nonché mediante la rimodulazione delle risorse del medesimo Fondo di rotazione già destinate agli interventi del Piano di Azione Coesione. L'estensione della sperimentazione della SIA deve essere realizzata nelle forme e secondo le modalità stabilite dal decreto interministeriale 10 gennaio 2013.

Sul ritardo nell'attivazione della sperimentazione della Carta acquisti sperimentale-SIA, si rinvia alla risposta del Governo, in data 8 ottobre 2015, all’interrogazione 5-06598.

L'articolo 1, comma 216, della legge di stabilità 2014 (legge 147/2013) ha previsto per il 2014 uno stanziamento per la Carta acquisti ordinaria pari a 250 milioni di euro e un distinto stanziamento di 40 milioni per ciascuno degli anni del triennio 2014-2016 per la progressiva estensione su tutto il territorio nazionale, non già coperto, della sperimentazione della SIA. La stessa legge di stabilità 2014 ha previsto inoltre la possibilità - in presenza di risorse disponibili, in relazione all'effettivo numero dei beneficiari - di utilizzare le risorse rimanenti dei 250 milioni assegnati come stanziamento alla Carta acquisti ordinaria, per l'estensione della sperimentazione della SIA.

Infine, la legge di stabilità 2015 (legge 190/2014) ha stabilito un finanziamento a regime di 250 milioni di euro annui, a decorrere dal 2015, sul Fondo Carta acquisti.

Le risorse utilizzate per la Carta acquisti e la SIA sono stanziate sul Fondo Carta acquisti istituito nello stato di previsione del MEF (capitolo 1639).

 

Il comma 210 finalizza i 1.000 milioni di euro stanziati a regime, per gli anni successivi al 2016, all’introduzione di un’unica misura nazionale di contrasto alla povertà - correlata (come specificato nel corso dell’esame al Senato) alla differenza tra il reddito familiare del beneficiario e la soglia di povertà assoluta - nonché alla razionalizzazione degli strumenti e dei trattamenti esistenti.

Il comma 211 stabilisce che, a decorrere dal 2016, confluiscono nel Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali, nella misura di 54 milioni di euro annui. Per il 2016 tali risorse sono destinate all’avvio su tutto il territorio nazionale della misura di contrasto alla povertà, intesa come estensione, rafforzamento e consolidamento della Carta acquisti sperimentale.

Il comma 212 abroga i commi da 51 a 53 dell’articolo 2 della legge 92/2012, n. 92, relativi all’indennità una tantum dei lavoratori a progetto.

Per quanto riguarda le previsioni di bilancio recate dal disegno di legge di bilancio (a.C. 3445), il cap. 1639 Fondo speciale destinato al soddisfacimento delle esigenze prioritariamente di natura alimentare (Fondo Carta acquisti), registra previsioni assestate per il 2015 pari a circa 299,7 milioni di euro. Le previsioni per il 2016 registrano uno stanziamento di previsione pari a 300,7 milioni di euro (con una variazione in aumento pari a 0,9 milioni di euro), di cui: 10,7 milioni di cui al decreto legge 112/2008 art. 81 c. 29 (istituzione Fondo Carta acquisti); 40 milioni di cui alla legge di stabilità 2014 art. 1 c. 216 (legge 147/2013 - progressiva estensione su tutto il territorio nazionale, non già coperto, della sperimentazione della SIA - solo per il 2016); 250 milioni di cui alla legge di stabilità per il 2015 art. 1 c. 156 (incremento annuale a regime del Fondo Carta acquisti). Per gli anni 2017e 2018 risulta uno stanziamento pari a 261,1 milioni di euro di cui 250 milioni derivanti dall’incremento a regime previsto dalla stabilità 2015. Con la 1° Nota di Variazione il Fondo Carta acquisti ha registrato un incremento di 434 milioni, per cui le previsioni del cap. 1639 si attestano a 734,6 milioni di euro. Per il 2017 il cap. 1639 presenta una previsione pari a 261,1 milioni di euro, e per il 2018 a 257 milioni di euro circa.

 

Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile

I commi da 213 a 216 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444) istituiscono un Fondo sperimentale per il contrasto della povertà educativa minorile alimentato da versamenti effettuati dalle fondazioni bancarie. Alle fondazioni è riconosciuto un credito d’imposta, pari al 75 per cento di quanto versato, fino ad esaurimento delle risorse disponibili, pari a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018. Le relative modalità di intervento sono rinviate ad un protocollo d’intesa tra le fondazioni, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Il comma 214 prevede la stipula di un protocollo d’intesa tra le fondazioni bancarie, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, volto a definire:

§  le modalità di intervento per il contrasto alla povertà educativa, con particolare riguardo a progetti ed attività educativi rivolti ai minori inseriti nel circuito giudiziario (specificazione inserita nel corso dell’esame al Senato);

§  le caratteristiche dei progetti da finanziare;

§  le modalità di valutazione, selezione (anche con il ricorso a valutatori indipendenti) e monitoraggio dei progetti, al fine di assicurare la trasparenza, il migliore utilizzo delle risorse e l’efficacia degli interventi;

§  le modalità di organizzazione e governo del Fondo.

Il comma 215 prevede, a favore delle fondazioni che abbiano effettuato un versamento nel Fondo, il riconoscimento di un credito d’imposta, pari al 75 per cento di quanto versato, fino ad esaurimento delle risorse disponibili, pari a 100 milioni di euro per gli anni 2016, 2017 e 2018, secondo l’ordine temporale in cui le fondazioni comunicano l’impegno a finanziare i progetti individuati con il protocollo d’intesa citato.

 

Adozioni internazionali

Il comma 224 del disegno di legge di stabilità 2016 (A.C. 3444), non modificato al Senato, istituisce, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, un autonomo Fondo per le adozioni internazionali, dotato di 15 milioni annui, a decorrere dal 2016. Il Fondo per le politiche per la famiglia – presso il quale le risorse per il sostegno a tali adozioni erano finora appostate – viene conseguentemente ridotto di pari entità dal comma 225. La gestione del Fondo per le adozioni internazionali è assegnata al segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Per coordinamento, il comma 226 elimina dalle finalizzazioni del Fondo per le politiche della famiglia, previste dalla legge finanziaria 2007, il sostegno alle adozioni internazionali e alla relativa Commissione.

In particolare, la finalizzazione delle risorse del Fondo per le adozioni internazionali, istituito con il comma 224, riguarda il sostegno alle politiche sulle adozioni internazionali ed il funzionamento della relativa Commissione.

La Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI) presso la Presidenza del Consiglio è l'autorità centrale del nostro Paese in materia di adozioni internazionali e garantisce che le adozioni di bambini stranieri avvengano nel rispetto dei principi stabiliti dalla Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale.

Si ricorda che il precedente analogo Fondo (v. ultra) aveva come unica finalità il rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione del minore straniero.

Il Fondo per le adozioni internazionali dovrà essere trasferito al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio e, nelle more del processo di riorganizzazione della Presidenza previsto dalla legge n. 124 del 2015 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), le relative risorse saranno gestite dal Segretariato generale della stessa Presidenza.

Si ricorda che già la legge 311 del 2004 (L. finanziaria 2005) aveva istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un Fondo per il sostegno delle adozioni internazionali, finalizzato al rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione disciplinata dalla legge 184 del 1983 (art. 1, comma 152). Il Fondo aveva una dotazione per il 2005 di 10 milioni di euro. Con D.P.C.M. 28 giugno 2005 furono stabiliti i limiti di reddito per l’accesso al Fondo, le modalità di presentazione delle domande nonché l’ammontare delle spese rimborsabili.

Successivamente, le risorse per le adozioni internazionali sono confluite nel Fondo per le Politiche della Famiglia, istituito dall’art. 19, comma 1 del decreto legge 223 del 2006. L’art. 1, comma 1250, della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006), incrementando di 210 mln di euro il Fondo per le politiche della famiglia, aveva esplicitamente previsto tra le sue finalità il sostegno delle adozioni internazionali nonché il pieno funzionamento della Commissione per le adozioni internazionali.

L’ultima legge di stabilità (L. 190 del 2014 - L. stabilità 2015) ha previsto per il Fondo per le politiche della famiglia un incremento di 5 milioni di euro dal 2015 al fine di sostenere le adozioni internazionali. (art. 1, co. 132).

Per coordinamento, il comma 225 prevede che il Fondo per le politiche per la famiglia venga conseguentemente ridotto di pari entità (15 milioni).

Analogamente, il comma 226 elimina dalle finalizzazioni del Fondo per le politiche per la famiglia previste dal citato articolo 1, comma 1250, della legge finanziaria 2007 lo scopo di sostenere le adozioni internazionali e garantire il pieno funzionamento della relativa Commissione.

 


 

Welfare aziendale

I commi da 87 a 95 del disegno di legge di stabilità, al fine di dare impulso allo sviluppo del welfare aziendale, prevedono che determinati benefici (servizi di assistenza ad anziani, servizi di istruzione, ecc.), definiti attraverso la contrattazione aziendale ed erogabili dal datore di lavoro anche sotto forma di voucher spendibili sul mercato, godano di un trattamento fiscale molto favorevole.

 


Programma nazionale infanzia e anziani

Il Programma nazionale infanzia e anziani, che si colloca nell'ambito del Piano d'azione Coesione (PAC), ha una durata triennale, dal 2013 al 2015, prorogata al giugno 2017. La sua attuazione è stata affidata al Ministero dell'Interno, individuato quale Autorità di Gestione responsabile. Le risorse stanziate sono destinate alle 4 regioni ricomprese nell'obiettivo europeo "Convergenza": Calabria, Campania, Puglia, Sicilia.

La strategia del programma è quella di mettere in campo un intervento aggiuntivo rispetto alle risorse già disponibili. Di conseguenza, i beneficiari naturali del programma sono i comuni, perché soggetti responsabili dell'erogazione dei servizi di cura sul territorio. L'obiettivo è quello di potenziare nei territori ricompresi nelle 4 regioni l'offerta dei servizi all'infanzia (0-3 anni) e agli anziani non autosufficienti (over 65), riducendo l'attuale divario "offerta" rispetto al resto del Paese.

Per i servizi alla prima infanzia (bambini 0-3 anni) sono individuati i seguenti obiettivi:

·      aumento strutturale dell’offerta di servizi. Espandere l’offerta di posti in asili nido pubblici o convenzionati e nei servizi integrativi e innovativi (SII) fino alla copertura nel 2015 di almeno il 12% della domanda potenziale;

·      estensione della copertura territoriale per soddisfare bisogni e domanda di servizi oggi disattesi, attivando strutture e servizi nelle aree ad oggi sprovviste;

·      sostegno alla domanda, alla gestione e accelerazione dell’entrata in funzione delle nuove strutture, per la sostenibilità degli attuali e futuri livelli di servizio, sostenendo la transizione verso un sistema integrato di offerta pubblica e privata verso un efficace ed efficiente funzionamento a regime;

·      miglioramento della qualità e della gestione dei servizi socioeducativi. Sostenere la crescita qualitativa dei percorsi di apprendimento ampliando la funzione socioeducativa degli asili nelle comunità dove operano. Aumentare l’efficienza operativa, gestionale e finanziaria del sistema di servizi pubblici, ed il progressivo incremento nei rapporti con un’offerta privata.

La dotazione finanziaria di 730 milioni (400 per i servizi di cura all'infanzia e 330 agli anziani non autosufficienti) con la legge di Stabilità 2015 (commi 122 e 123 dell'articolo 1 della legge 190/2014 che assegnano al finanziamento degli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato l'importo complessivo di 3,5 miliardi di euro a valere sulle risorse già destinate ad interventi PAC ) ha subito un taglio di oltre 102 milioni di euro, cosicché la dotazione attuale ammonta a circa 627 milioni di euro.

Il decreto del MEF 5 agosto 2015, Rideterminazione del finanziamento a carico del Fondo di rotazione di cui alla legge n. 183/1987 per l'attuazione degli interventi previsti dal Piano di Azione Coesione del Ministero dell'interno - Programma nazionale servizi di cura all'infanzia e agli anziani (PNSCIA) (Decreto n. 29/2015 pubblicato sulla G.U. n.216 del 17-9-2015), ha rideterminato in euro 627.636.020,00 il finanziamento a carico del Fondo di rotazione in favore degli interventi del Programma Nazionale Servizi di Cura all'Infanzia e agli Anziani (PNSCIA) del Piano di Azione Coesione del Ministero dell'interno.

Si ricorda infine, che il Ministero dell'Interno con un comunicato, pubblicato sulla G.U. n. 207 del 7 settembre 2015, ha segnalato che, con decreto n.5047/PAC del 6 agosto 2015, sono state stanziate risorse finanziarie pari a 2,5 milioni di euro destinate ad assicurare assistenza tecnica specialistica agli Ambiti/Distretti socio-sanitari e socio-assistenziali per le attività di monitoraggio e rendicontazione dei Piani di intervento infanzia e anziani.

 


Servizi socio educativi per la prima infanzia

I numeri e la diffusione territoriale

La pubblicazione dell’Istat L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia stima che nell’anno scolastico 2012/2013 sono 149.647 i bambini di età tra zero e due anni iscritti agli asili nido comunali; altri 43.513 usufruiscono di asili nido privati convenzionati o con contributi da parte dei Comuni. Ammontano così a 193.160 gli utenti dell’offerta pubblica complessiva.

Gli asili nido e gli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia (servizi integrativi) assorbono circa il 18% delle risorse dedicate dai Comuni al welfare locale e il 46% della spesa rivolta all’area di utenza “famiglia e minori”. Nel 2012, la spesa complessiva per i servizi socio-educativi , al netto delle quote pagate dalle famiglie, è stata pari a 1 miliardo e 297 milioni di euro, quasi un milione e 600 mila euro in più rispetto all’anno precedente. Il 97% della spesa è stata assorbita dai servizi di asilo nido e il rimanente 3% dai servizi integrativi. Nel 2012 la spesa per i servizi integrativi risulta in calo rispetto all’anno precedente (- 16,5 milioni di euro), mentre la spesa rivolta agli asili nido presenta un aumento di circa 18 milioni di euro, pari all’1,5%.

Nell’anno scolastico 2012/2013 l’1,1% dei bambini tra zero e due anni (circa 20 mila) ha usufruito dei servizi integrativi per la prima infanzia. Tale quota risulta in diminuzione nel corso degli ultimi tre anni di osservazione.

Sommando gli utenti degli asili nido e dei servizi integrativi, sono 210.335 i bambini che si avvalgono di un servizio socio-educativo pubblico o finanziato dai Comuni, l’8,3% in meno rispetto all’anno scolastico precedente. Il calo degli utenti è più accentuato per i servizi integrativi per la prima infanzia (circa 10.700 bambini in meno rispetto al 2011/2012), più contenuta la diminuzione degli utenti per gli asili nido (circa 8.400 bambini in meno).

 

 

Fra il 2004 e il 2012 la spesa corrente per asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, ha subito un incremento complessivo del 49%. Nello stesso periodo è aumentato del 32% (circa 47 mila unità) il numero di bambini iscritti agli asili nido comunali o sovvenzionati dai Comuni.

 


 

 

Nel 2011, per la prima volta dal 2004, si ha un decremento del numero di bambini beneficiari dell’offerta comunale di asili nido (-0,04% nel 2011) confermato anche nel 2012 (-4,2%). Nel 2012/2013 sono in calo soprattutto le iscrizioni agli asili nido comunali (circa 5.700 utenti in meno rispetto all’anno precedente) e in misura più contenuta i contributi dei Comuni ai nidi privati o alle famiglie (circa 2.600 bambini in meno).

 

La percentuale di Comuni che offrono il servizio di asilo nido, sia sotto forma di strutture che di trasferimenti alle famiglie per la fruizione di servizi privati, è passata dal 32,8% del 2003/2004 al 52,7% del 2012/2013. Forti le differenze territoriali: i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5% dei residenti fra 0 e 2 anni al Sud al 17,3% al Centro. La percentuale dei Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 22,7% al Sud all’81,9% al Nord-est.

 

I livelli di governo

A legislazione vigente, il sistema dei servizi socio educativi per la prima infanzia vede la compresenza istituzionale dei diversi livelli di governo - Stato, Regioni, Enti locali – secondo un quadro di competenze normative ed amministrative che impongono meccanismi di rapporti e raccordi ispirati alla leale cooperazione e nel quale il ruolo maggiormente incisivo è rivestito dai comuni.

Il sistema, scaturito dalla riforma costituzionale del 2001, attribuisce allo Stato  compiti di programmazione, indirizzo e coordinamento del sistema integrato; di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni educative; della determinazione e assegnazione delle risorse a carico del bilancio statale; di determinazione dei criteri di valutazione dell’offerta educativa e delle prestazioni dei sistema integrato.

Le regioni, che ripartiscono agli enti locali le risorse statali, hanno invece compiti di programmazione regionale; di determinazione degli standard relativi alle modalità organizzative di funzionamento dei nidi e dei servizi integrativi; di definizione dei requisiti qualitativi per l’accreditamento e per l’autorizzazione al funzionamento dei servizi socio educativi.

I comuni, infine, sono responsabili, nel loro territorio, di: programmare e attuare lo sviluppo del sistema integrato; autorizzare e accreditare i  soggetti privati incaricati di gestire i servizi per la prima infanzia; favorire la continuità dei servizi socio educativi per la prima infanzia con la scuola dell’infanzia.


 

Il nuovo Titolo V

Il riparto di competenza legislativa nel nuovo Titolo V (previsto dall'articolo 31 dell’A.C. 2613-B cost., che riscrive l'articolo 117 della Costituzione, in tema di riparto di competenza legislativa e regolamentare tra Stato e Regioni), modifica il catalogo delle materie e sopprime la competenza concorrente, con una redistribuzione delle materie tra competenza esclusiva statale e competenza regionale. Inoltre, nell'ambito della competenza esclusiva statale introduce materie nuove e enuclea casi di competenza esclusiva in cui l'intervento del legislatore statale è circoscritto ad ambiti determinati (quali «disposizioni generali e comuni» o «disposizioni di principio»). In particolare, l'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, come riscritto dall’art. 31 dell’A.C. 2613-B cost., attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato la competenza per quanto riguarda l'adozione di «disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare» e lascia invece alle Regioni la potestà legislativa in materia di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali. Si ricorda infine che l'art. 30 dell’A.C. 2613-B cost., che modifica l'articolo 116 della Costituzione assoggetta al cosiddetto «regionalismo differenziato» anche le «disposizioni generali e comuni per le politiche sociali». Al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, come novellato dall'articolo 30, è prevista la possibilità di attribuire, con legge dello Stato, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti alcune delle materie richiamate dall'articolo 117, secondo comma, a regioni diverse da quelle a statuto speciale, anche su richiesta delle stesse, purché la regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio.

(Sul punto il parere della Commissione XII della Camera).

 

In base alla normativa vigente (art. 70 della legge n. 448/2001) tra le competenze degli enti locali rientrano quelle relative agli asili nido, quali strutture volte a garantire la formazione e la socializzazione dei bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre anni di età, sostenendo al contempo le loro famiglie.

In base all’art. 6 del decreto-legge 55/1983 (L. 131/1983), gli asili nido rientrano tra le categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale, successivamente individuati dal DM 31 dicembre 1983. Per essi è prevista una contribuzione degli utenti a carattere non generalizzato non inferiore al 50 per cento del costo, definita mediante tariffe che possono essere differenziate dai singoli Comuni con adeguate motivazioni di carattere sociale. La determinazione della misura deve essere inoltre valutata in relazione all’esigenza di assicurare l’equilibrio economico-finanziario del bilancio, contemperando tale principio con la funzione sociale assolta dagli asili nido. Il Consiglio di Stato (Sent. n. 4362 del 31 luglio 2012) ha sancito il divieto di intervento sulle tariffe degli asili nido da parte dei comuni, nel corso dell'anno scolastico di frequenza, anche in caso di diminuzione delle entrate, in quanto lesiva del principio del legittimo affidamento.

Allo stato attuale, le rette sono determinate nel 75 per cento dei casi in base all’ISEE, nel 20 per cento dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5 per cento la retta è unica.

L’indagine di Cittadinanzattiva sugli asili nido comunali ha rilevato che, nel 2014, in Italia l’asilo nido costa mediamente 309 euro al mese, con notevoli differenze territoriali fra nord, centro e sud. Il costo medio rappresenta il 12% delle uscite mensili di una famiglia tipo. Gli asili più costosi sono al nord (380 euro) seguiti dal centro (322 euro) e infine dal sud (219 euro). La regione più economica è la Calabria con una tariffa media mensile di 139 euro, la più costosa la Valle D’Aosta con in media 432 euro. Fra le province il primato dei costi più alti spetta a Lecco con 515 euro al mese, mentre Vibo Valentia è la più economica con 120 euro mensili.

Per i Comuni è prevista inoltre la possibilità di attivare, in base all’art. 1, co. 630, della legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006), previo accordo in Conferenza unificata Stato-Regioni e autonomie locali, specifici servizi educativi per i bambini dai 24 ai 36 mesi, che fanno riferimento a progetti sperimentali di ampliamento qualificato dell’offerta formativa nell’ambito della scuola dell’infanzia (cd. sezioni primavera). L’art. 2, co. 3, del DPR n. 89/2009, che ha rivisto l'assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione, ha disposto la prosecuzione degli interventi relativi alle sezioni primavera allo scopo di coordinare l’istituto degli anticipi scolastici, favorendo in tal modo un’effettiva continuità del percorso formativo da 0 a 6 anni. Tali sezioni possono essere attivate non solo nelle scuole dell’infanzia statali e non statali, tra cui quelle comunali, ma anche negli asili nido gestiti direttamente dai Comuni o da soggetti in convenzione con i Comuni ovvero da questi appositamente organizzati.

Quadro normativo nazionale

La L. 1044/1971 ha riconosciuto come “servizio sociale di interesse pubblico” l'assistenza prestata negli asili nido ai bambini fino ai tre anni di età. In seguito, la L. 285/1997 ha incluso tra gli interventi finanziabili “l’innovazione e la sperimentazione di servizi socio-educativi per la prima infanzia”, non sostitutivi degli asili nido, ovvero servizi che presuppongono la presenza continua di genitori, che siano privi di mensa e non prevedano il riposo pomeridiano, servizi autorganizzati dalle famiglie, dalle associazioni e dai gruppi.

Successivamente, il Piano straordinario per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, varato con la legge finanziaria 2007 (art. 1, co. 1259, della L. 296/2006), ha previsto un finanziamento statale, nel triennio 2007-2009, pari ad € 446 mln per l'incremento dei posti disponibili nei servizi per i bambini da 0 a 3 anni, a cui si sono aggiunti circa € 281 mln di cofinanziamento regionale. Tale Piano è stato rilanciato con l’art. 1, co. 131, della legge di stabilità 2015 (L. 190/2014), che vi ha destinato 100 milioni di euro per il 2015.

Nel predisposizione del citato Piano straordinario, l’intesa in Conferenza unificata del 26 settembre 2007, ha individuato quali iniziali livelli essenziali di assistenza la copertura media nazionale della domanda al 13% e, in ciascuna regione, in percentuale non inferiore al 6%, sottolineando la necessità di assicurare il livello di copertura territoriale in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, anche in vista del raggiungimento dell’obiettivo di copertura territoriale fissato al 33% dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.

Contestualmente, è stato predisposto dalla stessa Intesa del 2007 l’avvio di un’attività di monitoraggio quantitativo, qualitativo e amministrativo contabile al quale partecipano, fra l’altro, le regioni, il Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, presso l’Istituto degli Innocenti a Firenze e l’ISTAT, che cura la pubblicazione L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia.

Per mettere in moto il processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per la prima infanzia, l’intesa in Conferenza unificata del 26 settembre 2007, nel varare il Piano straordinario, ha individuato quali iniziali livelli essenziali di assistenza: la copertura media nazionale della domanda al 13% e, in ciascuna Regione, in percentuale non inferiore al 6%. Con i finanziamenti, l’intesa ha dato l’avvio a una rete “integrata, estesa, qualificata e differenziata” dei servizi socio educativi per la prima infanzia - asili nido, servizi integrativi e servizi innovativi nei luoghi di lavoro -, in grado di promuovere il benessere e lo sviluppo sociale ed educativo dei bambini, di sostenere il ruolo genitoriale e la conciliazione dei tempi di lavoro e di cura. A questo proposito, l’Intesa sottolinea la necessità di assicurare il livello di copertura territoriale della domanda in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, anche in vista del raggiungimento dell’obiettivo di copertura territoriale fissato al 33% dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.

Ai fini della valutazione del livello di attuazione del Piano Straordinario, l’Intesa del 2007 ha predisposto l’avvio di un’attività di monitoraggio quantitativo, qualitativo e amministrativo contabile al quale partecipano, fra l’altro, le Regioni, il Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, presso l’Istituto degli Innocenti a Firenze,  e l’ISTAT.

Nel corso degli anni, il monitoraggio ha fotografato l’ampio divario tra le regioni - sia in termini di spesa che di utenti -, nell’offerta pubblica di asili nido. Ancora nell’anno scolastico 2012/2013, come rilevato dall’Istat nella pubblicazione L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,6% dei residenti fra 0 e 2 anni al Sud al 17,5% al Centro. La percentuale dei Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 22,5% al Sud all’76,3% al Nord-est.

In relazione alle specifiche difficoltà delle Regioni del Sud, sono state destinate maggiori risorse statali proprio a Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, grazie al programma di intervento straordinario PAC - Piano d’Azione e Coesione per i Servizi di cura all’Infanzia e agli Anziani non autosufficienti (v. supra)- a cui hanno partecipato il Dipartimento per le politiche della famiglia ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e la cui attuazione è stata affidata al Ministero dell'Interno, individuato quale autorità di gestione responsabile (al Piano di Azione/Coesione e al contributo e alle azioni strategiche della programmazione 2014/20 è dedicato un capitolo del Rapporto di monitoraggio del Piano nidi al 31 dicembre 2013, che restituisce una fotografia aggiornata sullo sviluppo dei servizi educativi per la prima infanzia e propone alcuni contributi di approfondimento sulle prospettive di riforma).

 

I Livelli essenziali delle prestazioni sociali, previsti dalla Legge quadro 328/2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, sono stati pensati come strumento attuativo del sistema integrato dei servizi. Nel sistema multilivello di finanziamento delle politiche sociali - a cui concorrono Stato, regioni e comuni -, i livelli essenziali delle prestazioni sociali avrebbero infatti dovuto  garantire standard nazionali comuni (i diritti esigibili). Sebbene molto attesi, anche per il ruolo che dovrebbero ricoprire nel processo di attuazione del federalismo fiscale, i livelli essenziali di assistenza non sono stati ancora definiti. Il CNEL, nella recente relazione annuale “I livelli e la qualità dei servizi offerti dalle Pubbliche amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini”, che dedica ampio spazio ai servizi educativi, ricorda gli sforzi compiuti in tale direzione anche  dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza.

Proprio per la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali e per la mancanza di una classificazione e di una definizione dei servizi sociali, nel 2006 nasce l'idea di un Nomenclatore dei servizi e degli interventi sociali. Nel 2009, il Nomenclatore viene proposto quale strumento di mappatura degli interventi e dei servizi sociali regionali, rendendo possibile il confronto su voci omogenee tra i diversi sistemi di welfare regionali. Il Nomenclatore ha costituito anche la base di riferimento per il Glossario utilizzato dall'Istat nella rilevazione sugli "Interventi e servizi sociali dei comuni singoli e associati". Nel 2012, nell’ambito di una convenzione tra la Regione Liguria e il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, è stato avviato un progetto finalizzato, da un lato, all’aggiornamento del Nomenclatore, anche ai fini di un suo utilizzo condiviso nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, e, dall’altro, alla sua massima diffusione in ambito regionale e sub-regionale. I risultati prodotti  non sono ancora approvati ufficialmente e quindi alla data attuale non sono pubblicati,  ma fra alcune delle modifiche più significative sono comprese anche quelle relative ai servizi per la prima infanzia per cui si sono recuperate le tipologie emerse dal Monitoraggio del Piano di sviluppo dei servizi socio educativi per la prima infanzia del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza (vedi supra).

Nel Nomenclatore dei servizi e degli interventi sociali del 2009,  fra gli interventi e i servizi individuati per l’area di utenza riconducibile ai  minori troviamo come trasferimenti monetari:

·         Retta per asilo nido, quale intervento per garantire all'utente in difficoltà economica la copertura della retta per asili nido. Sono compresi i contributi erogati per la gestione dei servizi al fine di contenere l'importo delle rette;

·         Retta per servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia, quale intervento per garantire all'utente in difficoltà economica la copertura della retta per i servizi integrativi;

·         Contributi economici per il servizi scolastici, quale sostegno economico per garantire all'utente in difficoltà economica il diritto allo studio nell'infanzia e nell'adolescenza, comprese le agevolazioni su trasporto e mensa scolastica riconosciute alle famiglie bisognose.

Fra le strutture semiresidenziali rivolte ai minori sono individuati:

·         Asili nido quale servizio rivolto alla prima infanzia (0-3 anni) per promuovere lo sviluppo psico-fisico, cognitivo, affettivo e sociale del bambino e offrire sostegno alle famiglie nel loro compito educativo, aperto per almeno 5 giorni e almeno 6 ore al giorno per un periodo di almeno 10 mesi all'anno. Rientrano sotto questa tipologia gli asili nido pubblici, gli asili nido aziendali e i micro-nidi e le sezioni 24-36 mesi aggregate alle scuole dell'infanzia;

·         Servizi integrativi per la prima infanzia: in questa categoria rientrano i servizi socio-educativi per la prima infanzia innovativi e sperimentali previsti dall'art. 5 della legge 285/1997 Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza e i servizi educativi realizzati in contesto familiare. In particolare: spazi gioco per bambini dai 18 ai 36 mesi (per max 5 ore); centri per bambini e famiglie; servizi e interventi educativi in contesto domiciliare.

 

Nell’ambito del processo di attuazione del federalismo fiscale, all’interno di un processo volto a garantire una migliore allocazione delle risorse pubbliche, maggiore trasparenza del flusso dei trasferimenti, più equità nella redistribuzione delle risorse e maggiore efficienza nella gestione della spesa pubblica, è stata completata la misurazione dei fabbisogni standard delle funzioni fondamentali dei comuni.

Per le funzioni relative a istruzione pubblica e servizio degli asili (che rappresentano circa il 18 per cento della spesa corrente dei comuni), le Note metodologiche hanno applicato il principio della spesa storica riferita al 2010 ovvero hanno considerato l’ammontare effettivamente speso da un comune in quell’anno anno per l’offerta del servizio ai cittadini. Le altre funzioni fondamentali dei comuni sono state invece riconosciute come fabbisogni standard, in grado di misurare, sulla base delle caratteristiche territoriali e degli aspetti socio-demografici della popolazione residente, il fabbisogno finanziario di un comune per quel servizio. Da più parti, è stato pertanto rilevato l’asimmetrico trattamento delle funzioni in cui sono previsti i livelli essenziali di assistenza, visto che il sociale è calcolato con la stima dei fabbisogni, mentre istruzione e asili nido prevedono la stima di una funzione di costo. Per gli asili nido, in particolare, è stata infatti effettuata una stima distinta rispetto al sociale (si rinvia a OpenCivitas per visualizzare e confrontare il fabbisogno standard, la spesa storica e un insieme di indicatori per tutti i comuni e le province delle regioni a statuto ordinario).

 

I servizi per la prima infanzia sono declinati diversamente a seconda delle regione di riferimento. In particolare, va ricordato che le leggi regionali hanno integrato la disciplina nazionale, precisando la natura del servizio e tentando di connotare gli asili nido come istituzioni non soltanto assistenziali, ma anche educative: per questo, le norme regionali hanno stabilito le qualificazioni professionali ed i titoli di studio richiesti al personale ed hanno promosso la riqualificazione e l’aggiornamento del personale già in servizio. Inoltre, per ogni tipologia di servizio socio educativo, le leggi regionali,  fissano innanzi tutto gli standard di qualità dei servizi: numero massimo di bambini per educatore, età minima e massima dei bambini cui viene erogato il servizio; la ricettività minima e massima delle strutture; l’orario di servizio; il coordinamento delle attività (esistenza di un coordinatore) ed il collegamento con altre strutture e servizi operanti nel territorio; i requisiti professionali del personale addetto (tipologia, titoli di studio, esperienza, ecc.); le caratteristiche edilizie ed urbanistiche delle strutture dove viene svolto il servizio (metri quadrati per bambino, arredi, attrezzature, ecc.); le modalità di elaborazione delle tabelle alimentari (es. approvazione della Asl). Seppure omogenei nel genere, tali standard sono molto differenziati e variano in funzione del territorio, del tipo di servizio e dell’età dei bambini destinatari (l’età minima di accesso è fissata in più della metà delle regioni a tre mesi, ma essa può aumentare in relazione alla tipologia del servizio erogato). Molto diversa da regione a regione è anche la soglia minima indicata per la ricettività, che può variare da 5 bambini per i micro asili (a volte definiti nido famiglia, con punte minime di un solo bambino in Toscana) ad un massimo di 75 per gli asili nido (ad esempio in Piemonte). Un altro elemento di differenza è l’orario di servizio, che può variare dalle 3, 4 ore al giorno (es. Lombardia) alle 10 ore (es. Umbria, Friuli Venezia Giulia). Per quanto riguarda infine le superfici minime per bambino, si può stimare che mediamente in Italia la superficie interna è pari a 8mq/bambino, mentre quelle esterne a 27mq/bambino. Un secondo aspetto disciplinato dalla normativa regionale riguarda una sorta di “obblighi di servizio” per l’infanzia. Si tratta di quegli elementi relativi alla vera e propria erogazione del servizio: definizione di un progetto pedagogico individualizzato; formazione permanente degli operatori; monitoraggio e valutazione delle attività; adozione di carte dei servizi. Il terzo aspetto riguarda i meccanismi di autorizzazione e di accreditamento, la cui assenza o carenza in alcune Regioni impedisce l’integrazione tra pubblico e privato, ovvero l’emersione di una offerta privata regolamentata e di qualità, all’interno di una governance pubblica.

 

La delega contenuta nella “Buona scuola”

La legge 107/2015 Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, all’art. 1, co. 180, ha previsto l’adozione, entro gennaio 2016, di uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino, alla semplificazione e alla codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione. Fra le deleghe previste vi è anche quella che riguarda l’istituzione del servizio integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni, costituito dai servizi educativi per l’infanzia e dalle scuole per l’infanzia (art. 1, co. 181, lett. e)).

I principi e i criteri direttivi individuati per la delega sono i seguenti:

 

·      definizione dei livelli essenziali delle prestazioni della scuola dell’infanzia e dei servizi educativi per l’infanzia previsti dal Nomenclatore interregionale degli interventi e dei servizi sociali, sentita la Conferenza Unificata, che prevedano:

o  la generalizzazione della scuola dell’infanzia;

o  la qualificazione universitaria e la formazione continua del personale dei servizi educativi per l’infanzia e della scuola dell’infanzia;

o  gli standard strutturali, organizzativi e qualitativi dei servizi educativi per l’infanzia e della scuola dell’infanzia, diversificati in base alla tipologia, all’età dei bambini e agli orari di servizio, che prevedano tempi di compresenza del personale dei servizi educativi per l’infanzia e dei docenti della scuola dell’infanzia, nonché il coordinamento pedagogico territoriale e il riferimento alle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo;

·      la definizione delle funzioni e dei compiti delle regioni e degli enti locali al fine di potenziare la ricettività dei servizi educativi per l’infanzia e la qualificazione del sistema integrato;

·      l’esclusione dei servizi educativi per l’infanzia e delle scuole dell’infanzia dai servizi a domanda individuale;

Per quanto concerne la scuola dell’infanzia, si ricorda che, in base all’art. 1 del d.lgs. 59/2004, la stessa non è obbligatoria. Successivamente, l’art. 2 del DPR 89/2009 ha previsto che la scuola dell'infanzia accoglie bambini di età compresa tra i tre e i cinque anni compiuti entro il 31 dicembre dell'a.s. di riferimento. Su richiesta delle famiglie sono iscritti alla scuola dell'infanzia bambini che compiono tre anni di età entro il 30 aprile dell'as. di riferimento, a condizione che vi sia disponibilità di posti, si sia accertato l’avvenuto esaurimento di eventuali liste di attesa, vi sia disponibilità di locali e dotazioni idonei sotto il profilo dell'agibilità e funzionalità, tali da rispondere alle diverse esigenze dei bambini di età inferiore a tre anni, vi sia la valutazione pedagogica e didattica, da parte del collegio dei docenti, dei tempi e delle modalità dell'accoglienza. Analogamente è prevista la possibilità, previo accordo in sede di Conferenza unificata, di proseguire con l’attivazione delle «sezioni primavera» (art. 1, co. 630 e 634, L. 296/2006), stabilendo gli opportuni coordinamenti con l'istituto degli anticipi.

Alle scuole dell’infanzia statali si affiancano scuole non statali, paritarie e non paritarie.

·      l’istituzione di una quota capitaria per il raggiungimento dei livelli essenziali, prevedendo il cofinanziamento dei costi di gestione da parte dello Stato con trasferimenti diretti o con la gestione diretta delle scuole dell’infanzia; la restante parte è assicurata dalle regioni e dagli enti locali, al netto delle entrate da compartecipazione delle famiglie utenti del servizio;

·      l’approvazione e finanziamento di un Piano di azione nazionale per la promozione del sistema integrato, finalizzato al raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni;

·      la promozione della costituzione di Poli per l’infanzia, destinati a bambini da 0 a 6 anni, anche aggregati a scuole primarie e istituti comprensivi;

·      l’istituzione, senza nuovi o maggiori oneri per lo Stato, di una commissione di esperti, nominati dal Ministro, dalle regioni e dagli enti locali, con compiti consultivi e propositivi.

 

 

 


Comunità residenziali per minori

 

Il rapporto Affidamenti familiari e collocamenti in comunità al 31 dicembre 2012, (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Quaderni della ricerca sociale n. 31, dicembre 2014) restituisce gli esiti della quarta edizione del monitoraggio che il Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza realizza in stretto raccordo con le Regioni e le Province autonome sul tema dell'accoglienza dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia di origine, ovvero collocati in affidamento familiare e nei servizi residenziali.

L'oggetto di rilevazione ha riguardato l'affidamento familiare residenziale per almeno cinque notti alla settimana, escluso i periodi di interruzione previsti nel progetto di affidamento, disposto dai servizi locali e reso esecutivo dal Tribunale per i minorenni o dal Giudice tutelare, e la rete dei servizi residenziali e la connessa accoglienza (questi ultimi classificati secondo le categorie individuate nel Nomenclatore Interregionale degli Interventi e dei Servizi Sociali).

Come concordato con le Regioni e le Province autonome, i dati sull'affidamento fotografano la presa in carico dei Comuni a fine anno mentre i dati sui servizi residenziali riguardano, per ciascuna realtà regionale, l'accoglienza a fine anno nei servizi che insistono sul proprio territorio di competenza.

La raccolta di dati non è stata completa. In particolare: la Calabria non ha aderito alla rilevazione proposta; la Liguria e la Sardegna, pur partecipando attivamente alla rilevazione, hanno fornito il dato dei bambini e ragazzi presi in carico dai Comuni liguri e sardi e collocati nei servizi residenziali in regione o fuori regione. La rilevazione riguarda invece gli accolti nei servizi residenziali del territorio di competenza delle Regioni.

 

Dati generali

 

In merito all'età degli accolti risulta che nelle fasce estreme di 0-2 anni e di 15-17 anni si concentrano le più alte incidenze di ricorso al collocamento nei servizi residenziali - rispettivamente il 64% degli 0-2 anni e il 66% dei 15-17 anni. Se per i ragazzi più grandi, e prossimi alla maggiore età, l'accoglienza in comunità è spesso il solo intervento esperibile per rispondere alle problematicità del caso, per i bambini di 0-2 anni l'incidenza riscontata rappresenta un'evidenza, se non proprio una criticità, sulla quale riflettere in riferimento a quanto disposto dalla legge 149/01 – sebbene sia utile annotare in questa sede che alcune regioni hanno riservato una attenzione mirata al tema che si è tradotta nella più alta incidenza all'affidamento familiare anche in questa fascia d'età. Riguardo al genere degli accolti si ravvisa una prevalenza tra i maschi dell'accoglienza nei servizi residenziali, mentre una prevalenza tra le femmine di accoglienza in affidamento familiare. Quanto accade tra i bambini è da mettere in relazione all'accoglienza dei minori stranieri, prevalentemente maschi accolti nei servizi residenziali. La presenza straniera si distribuisce, infatti, per il 67% in accoglienza nei servizi residenziali e per il restante 33% nell'affidamento familiare, mente tra i coetanei italiani le due misure di accoglienza – 48% in affidamento e 52% in comunità - risultano più bilanciate. Ancor più polarizzata è l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati che risultano per l'86% dei casi inseriti nei servizi residenziali.

 

 

I numeri dell'accoglienza

Alla data del 31 dicembre 2012, emerge che i bambini e i ragazzi di 0-17 anni fuori dalla famiglia di origine accolti nelle famiglie affidatarie e nelle comunità residenziali sono stimabili in 28.449 . Il dato fa segnare un'ulteriore arretramento dell'accoglienza che aveva raggiunto il suo picco massimo nell'anno 2007 quale frutto della sostanziale crescita dell'affidamento familiare in Italia. Osservando più da vicino il dato dell'ultimo biennio a disposizione, l'andamento dei fuori famiglia di origine è riconducibile alla sostanziale tenuta dell'affidamento familiare (da 14.397 del 2011 a 14.194 del 2012) a fronte di una perdita di accoglienza nelle comunità residenziali (14.991 del 2011 a 14.255 del 2012). Si tratta di dati che, pur confermando la sostanziale equa distribuzione delle accoglienze tra affidamento familiare e servizi residenziali, testimoniano quanto sostenuto dagli operatori del settore che, in linea con quanto normato dalla legge 149/2001, a più riprese di recente hanno evidenziato le difficoltà di tenuta dell'accoglienza nelle comunità e il maggior ricorso da parte dei servizi locali a strumenti di intervento per così dire più leggeri, che non contemplano necessariamente l'allontanamento del bambino dalla famiglia e l'ospitalità in residenzialità. In tal senso, se il relativo minor costo degli interventi messi in atto permette di dare risposta ad una più ampia platea di soggetti, resta da interrogarsi sull'effettiva efficacia di risposta di queste misure ai bisogni emergenti dai territori.

La concentrazione metropolitana dell'accoglienza

Nell'ambito delle attività relative alla stesura della Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 285/1997 recante disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza è stata sondata, per la prima volta, nelle quindici città riservatarie la dimensione dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia di origine, accolti in affidamento familiare e nei servizi residenziali, per valutare quanta parte del fenomeno complessivo italiano sia ascrivibile all'aggregato delle città riservatarie (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Brindisi, Taranto, Reggio Calabria, Palermo, Catania, e Cagliari). Complessivamente considerati i bambini e i ragazzi di 0-17 anni fuori dalla famiglia di origine nelle città riservatarie accolti nelle famiglie affidatarie e nelle comunità sono stimabili al 31 dicembre 2012 in 7.242 unità, di cui 2.521 bambini e ragazzi in affidamento familiare e 4.721 accolti nei servizi residenziali. Questi primi dati evidenziano già alcune peculiarità del fenomeno nelle città metropolitane. Se si considera che i dati più aggiornati indicano in 28.449 la stima di accoglienza di bambini e ragazzi fuori famiglia di origine in Italia, poco meno del 26% del fenomeno complessivo – ovvero un bambino su quattro - riguarda le città riservatarie, in quanto in carico ai servizi sociali delle stesse. A tutto ciò si lega una seconda evidenza, ovvero il forte squilibrio nelle città riservatarie del ricorso all'affidamento familiare e all'accoglienza in comunità. Se a livello nazionale infatti, i dati più aggiornati, fanno segnare una sostanziale equa distribuzione dei fuori famiglia di origine tra accolti in affidamento familiare (14.194) e nei servizi residenziali (14.255), nelle città riservatarie si registra, come già accennato, una netta prevalenza dell'accoglienza in comunità (4.721) rispetto all'accoglienza in affidamento familiare (2.521). Tale situazione non sembra determinarsi a causa di uno scarso ricorso all'affidamento familiare, ma più verosimilmente alla maggiore concentrazione nelle città riservatarie di servizi residenziali.

Le caratteristiche dei bambini e dei ragazzi accolti

L'età degli affidati: mentre nelle precedenti rilevazioni risultava prevalente la classe di età 6-10 anni - il 33% nel 1999, il 26% nel 2007, il 27% nel 2008, il 30% nel 2011 -, nel 2012 con una valore pari al 30% tale classe d'età risulta appaiata alla classe 11-14 anni.

E' importante sottolineare che, se si considera in modo pertinente la diversa ampiezza delle classi di età utilizzate, la classe prevalente risulta la 15-17 anni (24%), era il 20% nel 1999, il 29% nel 2007, il 27% nel 2008 e il 27% nel 2011. Decisamente più contenute le incidenze percentuali che riguardano i piccoli di 3-5 anni e i piccolissimi di 0-2 anni che complessivamente cumulano poco meno del 15% del totale degli accolti in affidamento familiare – erano il 15,5% nel 1999. Tale andamento, tranne alcune rare eccezioni, si riscontra in tutte le regioni che hanno fornito i dati sulla distribuzione per età degli accolti. In particolare, al dicembre del 2012, tra gli 0-2 anni le incidenza massime si riscontrano in Liguria (9%) in Sicilia e in Sardegna, entrambe con il 7% degli affidamenti complessivi, e in Molise (20%) – valore sul quale incide fortemente l'esiguità dei casi rilevati - mentre tra i 3-5 anni i valori più alti si osservano in Provincia di Trento (17%) e in Umbria (19%.)

La distribuzione di genere: 51% di bambini a fronte del 49% di bambine.

La cittadinanza: continua, sebbene ad un ritmo meno sostenuto, la cresciuta dell'incidenza di bambini stranieri sul totale degli affidati al punto da rappresentare poco più del 17% del totale.

Al riguardo le differenze regionali risultano molto intense. I valori massimi, tra quanti hanno fornito l'informazione, si riscontrano in Veneto (33%), Umbria (30%) e Emilia-Romagna (30%), mentre quelli minimi si concentrano nelle regioni del sud e isole – con valori compresi tra l'1,5% della Sicilia e il 9% della Basilicata - in cui l'accoglienza in affidamento dei minori stranieri, per quanto in crescita, risulta ancora molto contenuta. Le marcate differenze territoriali nell'incidenza di affidamento dei minori stranieri è almeno in parte da mettere in relazione alla diversa presenza di minori stranieri sul territorio.

La tipologia dell'affido: i dati collezionati fanno emergere il perfetto equilibrio tra il ricorso alla via etero-familiare e a quella intra-familiare: rispettivamente pari al 53% e al 47% - erano il 47% e il 53% nel 1999, il 49% e il 51% nel 2007 e nel 2008 -, con una persistente forte variabilità del dato territoriale che si caratterizza per una incidenza di affidamento etero-familiare nelle regioni del sud che non supera la misura di un collocamento su tre, mentre nel centro e nel nord riguarda almeno un bambino su due, con punte massime di poco meno di tre bambini su quattro in Emilia-Romagna (74%) e in Lombardia (70%).

La natura dell'affido: tiene l'incidenza di ricorso all'affidamento giudiziale riscontrato negli anni precedenti, confermando la tendenza ad intervenire con lo strumento dell'affidamento familiare rispetto a situazioni molto compromesse, caratterizzate talvolta da conflittualità o comunque da una scarsa adesione della famiglia di origine al progetto di sostegno. L'affidamento giudiziale risulta infatti assolutamente prevalente rispetto a quello consensuale, su quattro bambini in affidamento tre trovano collocamento per via giudiziale a fronte di uno per via consensuale. Certamente tale situazione è conseguenza delle lunghe permanenze di accoglienza che risultano ancora significative, in considerazione del fatto che l'affidamento consensuale protratto oltre i due anni si trasforma in giudiziale essendo soggetto al nulla osta del Tribunale per i minorenni.

La durata dell'affido: ricordando che la legge 149/2001 individua il periodo massimo di affidamento in ventiquattro mesi - prorogabile da parte del Tribunale dei Minorenni laddove se ne riscontri l'esigenza –, i bambini e gli adolescenti in affidamento familiare da oltre due anni costituiscono la maggioranza degli accolti risultando pari a poco meno del 60% del totale – erano il 62,2% nel 1999, il 57,5% nel 2007, il 56% nel 2008 e il 60% nel 2011.

La mobilità dell'accoglienza, ovvero il collocamento dentro o fuori dalla regione di residenza: il valore medio riscontrato sulle Regioni e Province autonome indica una prassi consolidata di inserimento nella regione di residenza (97% del totale) – erano il 95% nel 2007, il 97% nel 2008 e il 96% del 2011 – riservando l'accoglienza in territori diversi da quello di residenza a situazioni davvero molto particolari e limitate in cui si ravvisa l'esigenza di allontanamento del bambino dalle relazioni che intratteneva e, in alcuni casi, dai rischi insiti in una sua permanenza nel contesto territoriale di appartenenza.

I bambini e i ragazzi nei servizi residenziali

L'accoglienza dei bambini e dei ragazzi nelle comunità è assicurata attraverso una variegata offerta di servizio sul territorio che almeno in linea teorica dovrebbe garantire nella sua varietà un ampio ventaglio di scelta nell'individuazione della più adeguata risposta alle specifiche esigenze del caso di accoglienza.

Caratteristiche dei servizi: pur nelle differenziazioni regionali derivanti anche dalle diverse normative vigenti, tra le Regioni e le Province autonome rispondenti prevalgono in media le comunità socio educative (47%), le comunità familiari (17%) e i servizi di accoglienza per bambino/genitore (12%).

Caratteristiche degli accolti: la  distribuzione per età dell'accoglienza indica nella tarda adolescenza il periodo in cui si sperimenta con più frequenza un'accoglienza nei servizi residenziali. La classe di età largamente prevalente è la 15-17 che cumula poco meno del 50% dei presenti a fine anno – erano il 31% nel 1998, 42% nel 2007, il 40% nel 2008 e il 44% nel 2011 -, seguita a notevole distanza dalle classi 11-14 (24%), e 6-10 (17%), mentre risultano decisamente più limitate le incidenze che riguardano i bambini di 0-2 anni (7%) e di 3-5 anni (7%) – classi di età queste ultime che complessivamente toccano i valori massimi nelle regioni di Lombardia (24%) e Marche (25%), cumulando un quarto dell'accoglienza complessiva delle stesse regioni. Molto più polarizzata di quanto non avvenga per l'affidamento familiare risulta la distribuzione di genere, con una netta prevalenza della componente maschile che si attesta attorno al 60% degli accolti – era il 53% nel 1998, il 59% nel 2007, il 64% nel 2008, 59% nel 2011 -, dato che con diverse intensità trova conferma in tutte le regioni e province autonome per cui è disponibile il dato – con la sola eccezione del Friuli-Venezia Giulia in cui si ravvisa una equa distribuzione di genere. Ciò che più caratterizza l'accoglienza residenziale è senz'altro l'altissima incidenza di bambini stranieri, e che finisce per influire fortemente sulle caratteristiche appena illustrate dell'età e del genere degli accolti. Tra i bambini accolti, uno su tre è di cittadinanza straniera, con un raddoppio dell'incidenza tra il 1998 (16%) e il 2012 (31%), e picchi superiori al 40% dell'accoglienza complessiva in Puglia (45%), Provincia di Trento (45%), Marche (44%), EmiliaRomagna e Toscana (41%), mentre i valori minimi – tra quanti hanno fornito il dato – si riscontrano in Sardegna (7%), nella provincia di Bolzano (13%) e in Valle d'Aosta (16%). La consistente presenza di bambini e adolescenti stranieri nei servizi residenziali è conseguenza anche dell'alto numero di minori stranieri non accompagnati che trova accoglienza quasi esclusivamente nei servizi residenziali – a livello medio, sulla base delle regioni e province autonome rispondenti, il 50% dei minori stranieri accolti nei servizi residenziali è non accompagnato. Tra le modalità dell'inserimento nell'attuale servizio residenziale, prevale la via giudiziaria, tre bambini su quattro sono collocati in comunità attraverso un provvedimento giudiziale, senza alcuna eccezione tra le regioni e province autonome rispondenti. Diversamente da quanto avviene per l'affidamento, la provenienza dei bambini al momento dell'ingresso nel servizio residenziale mostra elevati livelli di mobilità , legati da una parte alla effettiva presenza di strutture sul territorio e dall'altra alla eventuale necessità di allontanare il bambino dal territorio di appartenenza. Nonostante la modalità prevalente resti quella dell'inserimento del bambino nelle strutture della propria regione (in media pari al 77%), quote significative di provenienze da fuori regione si segnalano in particolar modo per l'Umbria (45%), la Puglia (43%) e la Basilicata (46%).

Proposte per la definizione di criteri e standard comuni

Il Gruppo di lavoro sulle Comunità di tipo familiare, attivato all'interno della Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni, istituita presso l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, ha elaborato il documento di proposta Comunità residenziali per minorenni: per la definizione dei criteri e degli standard. Obiettivo del documento è quello di avviare un processo virtuoso verso la definizione degli standard strutturali e gestionali e dei criteri di qualità delle relazioni, nelle Comunità di tipo familiare.

A tal fine, il documento approfondisce l'analisi e la definizione dei contenuti e delle caratteristiche peculiari e distintive della comunità di tipo familiare per dare concreta applicazione al mandato normativo della legge 149/2001 laddove afferma che ogni minorenne – qualora non sia possibile la permanenza nella propria famiglia d'origine o la definizione di un'adozione legittimante o di un affidamento familiare – può essere accolto in una Comunità di tipo familiare, quale forma di superamento degli istituti di assistenza pubblici o privati.

 


 

Inclusione scolastica degli studenti con disabilità

L’art. 1, co. 180, della L. 107/2015 ha delegato il Governo ad adottare, entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, decreti legislativi finalizzati alla riforma di differenti aspetti del sistema scolastico, fra i quali la promozione dell'inclusione scolastica degli studenti con disabilità e il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione (art. 1, co. 181, lett. c)).

 

L’art. 1, co. 182, dispone che i decreti legislativi sono adottati, su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, con il Ministro dell’economia e delle finanze, nonché con altri Ministri competenti, previo parere della Conferenza Stato-regioni.

Gli schemi sono trasmessi alle Camere per l’espressione del parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili di carattere finanziario. Il parere deve intervenire entro 60 giorni, decorsi i quali i decreti legislativi possono essere adottati. Se il termine previsto per l’espressione del parere parlamentare cade nei 30 giorni che precedono la scadenza del termine di 18 mesi, la scadenza stessa è prorogata di 90 giorni.

 

I principi e criteri direttivi individuati per l’esercizio della delega sono i seguenti:

 

·      ridefinizione del ruolo dei docenti di sostegno, al fine di favorire l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, anche attraverso l’istituzione di appositi percorsi di formazione universitaria.

Al riguardo si ricorda che l’art. 315, co. 5, del d.lgs. 297/1994 prevede che i docenti di sostegno assumono la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano, partecipano alla programmazione educativa e didattica e alla elaborazione e verifica delle attività di competenza dei consigli di intersezione, di interclasse, di classe e dei collegi dei docenti.

Con riferimento alla formazione iniziale, l’art. 13 del DM 249/2010 ha disposto, da ultimo, che la specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni disabili, in attesa della istituzione di specifiche classi di abilitazione, si consegue solo presso le università, con la partecipazione a un corso di durata almeno annuale, a numero programmato, che deve comprendere almeno 300 ore di tirocinio. Possono partecipare gli insegnanti abilitati. A conclusione, si sostiene un esame finale che consente l'iscrizione negli elenchi per il sostegno.

 

·      revisione dei criteri di inserimento nei ruoli per il sostegno didattico, al fine di garantire la continuità del diritto allo studio degli alunni con disabilità, in modo da rendere possibile allo studente di fruire dello stesso insegnante di sostegno per l'intero ordine o grado di istruzione;

Con riguardo alla continuità didattica, l’art. 4 del CCNL personale del comparto scuola 2006-2009 del 29 novembre 2007 prevede che questa debba essere salvaguardata garantendo la stabilità pluriennale dell’organico al fine di assicurare la “continuità didattica del personale docente con particolare riferimento ai docenti di sostegno”.

Da ultimo, l’art. 26 del CCNI concernente la mobilità del personale docente, educativo ed ATA per l’a.s. 2015/2016 ha previsto, tra l’altro, che il trasferimento ai posti di sostegno comporta la permanenza per almeno un quinquennio a far data dalla decorrenza del trasferimento su tali tipologie di posti. L'insegnante titolare di posto di sostegno che non ha terminato il quinquennio di permanenza può chiedere il trasferimento solo per la medesima tipologia di posto ovvero per altra tipologia di posto speciale, di sostegno o ad indirizzo didattico differenziato per accedere alla quale possegga il relativo titolo di specializzazione;

 

·      individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni scolastiche, sanitarie e sociali, tenuto conto dei diversi livelli di competenza istituzionale.

Al riguardo si ricorda che il co. 1 del già citato art. 315 del d.lgs. 297/1994 dispone che l'integrazione scolastica della persona disabile nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado si realizza anche attraverso la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite da enti pubblici o privati. A tale scopo gli enti locali, gli organi scolastici e le unità sanitarie locali, nell'ambito delle rispettive competenze, stipulano accordi di programma finalizzati alla predisposizione, attuazione e verifica congiunta di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione individualizzati, nonché a forme di integrazione tra attività scolastiche e attività integrative extrascolastiche;

 

·      previsione di indicatori per l’autovalutazione e la valutazione dell’inclusione scolastica.

In materia, si veda il progetto realizzato nel 2009 dall’Agenzia Europea per lo sviluppo dell’istruzione degli alunni disabili, su richiesta del Consiglio dei rappresentanti degli Stati membri, sul tema “come individuare una serie di indicatori – per una scuola inclusiva in Europa”[2]. Al progetto hanno partecipato 23 Stati europei, fra i quali l’Italia;

 

·      revisione delle modalità e dei criteri relativi alla certificazione degli studenti con disabilità e con disturbi specifici di apprendimento, che deve essere volta a individuare le abilità residue al fine di poterle sviluppare, attraverso percorsi individuati di concerto con tutti gli specialisti delle strutture pubbliche, private o convenzionate che seguono gli alunni, ai quali è dunque consentita la partecipazione al GLH (Gruppo di Lavoro sull'Handicap)[3] o agli incontri informali.

In particolare, le modalità e i criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto disabile sono recate dal DPCM 185/2006, emanato a seguito dell’art. 35, co. 7, della L. 289/2002.

Il DPCM prevede che, ai fini della individuazione dell'alunno come soggetto disabile, le Aziende Sanitarie dispongono, su richiesta documentata dei genitori o degli esercenti la potestà parentale o la tutela dell'alunno, appositi accertamenti collegiali[4], da effettuarsi in tempi utili rispetto all'inizio dell'anno scolastico, documentati attraverso la redazione di un verbale di individuazione dell'alunno come soggetto disabile. Il verbale reca l'indicazione della patologia stabilizzata o progressiva, accertata con riferimento alle classificazioni internazionali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nonché la specificazione dell'eventuale carattere di particolare gravità della medesima e l'eventuale termine di rivedibilità dell'accertamento effettuato.

Tali accertamenti sono propedeutici alla redazione della diagnosi funzionale dell'alunno, cui provvede l'unità multidisciplinare, prevista dall'art. 3, co. 2 del DPR 24 febbraio 1994[5], anche secondo i criteri di classificazione di disabilità e salute previsti dall'OMS.

Il verbale di accertamento, con l'eventuale termine di rivedibilità ed il documento relativo alla diagnosi funzionale sono trasmessi ai genitori o agli esercenti la potestà parentale o la tutela dell'alunno e da costoro all'istituzione scolastica presso cui l'alunno deve essere iscritto, ai fini della tempestiva adozione dei provvedimenti conseguenti.

Alla redazione della diagnosi funzionale fa seguito la redazione del profilo dinamico funzionale e del piano educativo individualizzato, alla cui definizione, in base all'art. 12, co. 5, della L. 104/1992, provvedono congiuntamente, con la collaborazione dei genitori, gli operatori delle unità sanitarie locali e, per ciascun grado di scuola, personale insegnante specializzato della scuola, con la partecipazione dell'insegnante operatore psico-pedagogico.

Il profilo indica le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell'alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di disabilità e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute.

Il piano educativo individualizzato (PEI) descrive annualmente gli interventi educativi e didattici destinati all’alunno con disabilità, definendo obiettivi, metodi e criteri di valutazione[6];

 

·         revisione e razionalizzazione degli organismi di supporto all’inclusione operanti a livello territoriale.

Si ricorda che, nell’ambito del progetto “Nuove tecnologie e disabilità”, gli Uffici scolastici regionali istituirono i Centri Territoriali di Supporto (CTS). Il ruolo degli stessi è stato, poi, disciplinato con la direttiva del MIUR del 27 dicembre 2012, che ha ritenuto opportuna la presenza di almeno un CTS per ogni provincia[7]. Sempre in base alla direttiva, i CTS hanno il compito, tra l’altro, di definire, autonomamente o in rete, per ogni anno scolastico, il piano annuale di interventi relativo agli interventi formativi, tenendo conto dei bisogni emergenti dal territorio e delle strategie e priorità generali individuate dagli USR e dal MIUR.

Ai CTS sono affiancati, a livello di distretto sociosanitario, i Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI).

Peraltro, nella nota prot. n. 2563 del 22 novembre 2013 il MIUR ha fatto presente che era in atto una riorganizzazione complessiva della rete dei CTS e dei CTI, a cura degli Uffici scolastici regionali, per la ridefinizione di compiti e ruoli, che sarebbero stati chiariti con successiva nota;

 

·         previsione dell'obbligo di formazione iniziale e in servizio per i dirigenti scolastici e per i docenti sugli aspetti pedagogico-didattici e organizzativi dell'integrazione scolastica;

 

·         previsione dell'obbligo di formazione in servizio per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, rispetto alle specifiche competenze, sull'assistenza di base e sugli aspetti organizzativi ed educativo-relazionali relativi al processo di integrazione scolastica;

 

·         previsione della garanzia dell'istruzione domiciliare per gli studenti con disabilità soggetti all’obbligo scolastico, qualora siano temporaneamente impediti per motivi di salute a frequentare la scuola.

Al riguardo, si ricorda che l’art. 12, co. 9, della L. 104/92 prevede che l’educazione e l’istruzione scolastica è garantita anche agli alunni nelle condizioni sopra richiamate. A tal fine, si provvede alla istituzione, per i minori ricoverati, di classi ordinarie quali sezioni distaccate della scuola statale, cui possono essere ammessi anche altri minori ricoverati. La frequenza di tali classi è equiparata ad ogni effetto alla frequenza delle classi alle quali i minori sono iscritti.

Come si evince dal portale Scuola in ospedale del MIUR, il servizio di istruzione domiciliare costituisce un ampliamento dell'offerta formativa Scuola in Ospedale ed è previsto per alunni che, già ospedalizzati a causa di gravi patologie, siano sottoposti a terapie domiciliari che impediscono la frequenza della scuola per un periodo di tempo non inferiore a 30 giorni. Il servizio può essere erogato anche nel caso in cui il periodo temporale, comunque non inferiore a 30 giorni, non sia continuativo, qualora siano previsti cicli di cura ospedaliera alternati a cicli di cura domiciliare oppure siano previsti ed autorizzati dalla struttura sanitaria eventuali rientri a scuola durante i periodi di cura domiciliare.

 

Si ricorda, infine, che l’art. 1, co. 7, lett. l), della stessa L. 107/2015 ha inserito il potenziamento dell'inclusione scolastica e del diritto allo studio degli alunni con bisogni educativi speciali, attraverso percorsi individualizzati e personalizzati, anche con il supporto e la collaborazione dei servizi socio-sanitari ed educativi del territorio e delle associazioni di settore, fra gli obiettivi dell’espansione dell’offerta formativa.

 


Neet

Con il termine NEET (acronimo inglese di "Not (engaged) in Education, Employment or Training"), sono indicate le persone non impegnate né nello studio, né nel lavoro e né nella formazione.

Secondo gli ultimi dati ISTAT (ISTAT – Noi Italia 2015) in Italia nel 2013 oltre 2.435 migliaia di giovani (il 26,0% della popolazione tra i 15 e i 29 anni) risultavano fuori dal circuito formativo e lavorativo. L’incidenza dei NEET è più elevata tra le donne (27,7%) rispetto agli uomini (24,4%). Dopo un periodo in cui il fenomeno aveva mostrato una leggera regressione (tra il 2005 ed il 2007 si era passati dal 20,0 al 18,9%), l’incidenza dei NEET è tornata a crescere durante la fase ciclica negativa, facendo registrare nel 2013 l’incremento più sostenuto degli ultimi anni (+2,1 punti percentuali rispetto a un anno prima)

Per quanto attiene l’ambito europeo, in Italia la quota dei NEET è nettamente superiore alla media dell’UE-28 (rispettivamente 26,0 e 15,9%) e con valori significativamente più elevati rispetto a Germania (8,7%), Francia (13,8%) e Regno Unito (14,7%). La Bulgaria presenta una quota di NEET (25,7%) leggermente inferiore a quella italiana, mentre solo la Grecia presenta un’incidenza maggiore (28,9%). Nella maggior parte dei paesi europei il fenomeno coinvolge in misura maggiore le donne (il 17,7% in media contro il 14,1% degli uomini) con divari particolarmente ampi nella Repubblica Ceca e in Ungheria. Peraltro, nella media dei paesi Ue circa la metà dei NEET è alla ricerca di una occupazione, con picchi di oltre il 70% in Grecia, Spagna e Portogallo. Nel nostro Paese negli anni più recenti l’aggregato si è caratterizzato per una minore incidenza dei disoccupati e una più diffusa presenza di inattivi; tuttavia la quota di disoccupati tra i giovani NEET, cresciuta in misura significativa nel 2012, è aumentata ulteriormente nel 2013 arrivando al 42,2%, riducendo il divario con la media europea.

Se si guarda, più specificamente alla classe di età 15-19 anni, in Italia nel 2014 sono stati rilevati[8] in totale 326.000 NEET (di cui 180.000 maschi e 146.000 femmine), di cui 116.000 risultano disoccupati (69.000 maschi e 49.000 femmine) e 209.000 inattivi (111.000 maschi e 99 femmine). Nel II trimestre 2015 risultano in totale 269.000 soggetti (di cui 161.000 maschi e 108.000 femmine).

 


Tutela dei diritti dei minori

La riforma della filiazione

Tra i principali provvedimenti che hanno caratterizzato sinora la XVII legislatura, non può non ricordarsi, preliminarmente, l’emanazione del decreto legislativo n. 154 del 2013 che, in attuazione della legge delega n. 219 del 2012, ha superato ogni residua distinzione tra figli legittimi e naturali, modificando tanto il codice civile quanto le leggi speciali, attuando dunque nell'ordinamento il principio di unicità dello stato di figlio.

 

La legge delega

Nella scorsa legislatura il Parlamento ha approvato la legge n. 219 del 2012, Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, che contiene:

- nuove disposizioni sostanziali e processuali, in materia di filiazione naturale e relativo riconoscimento (con particolare riferimento anche ai figli c.d. incestuosi), ispirate al principio "tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico";

- una delega al Governo per la modifica delle disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni residua discriminazione tra figli legittimi, naturali e adottivi (v. infra);

- la ridefinizione delle competenze di tribunali ordinari e tribunali dei minorenni in materia di procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli;

- disposizioni a garanzia del diritto dei figli agli alimenti e al mantenimento.

In particolare, allo scopo di eliminare ogni discriminazione tra i figli, l'articolo 2 della legge conferisce una delega al Governo per la modifica delle disposizioni in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità. Il termine di esercizio della delega è stabilito in 12 mesi dall'entrata in vigore dalla legge, e dunque entro il 1° gennaio 2014.

I numerosi princìpi e criteri direttivi dettati dal comma 1 per l'esercizio della delega (lettere da a) a p)) prevedono:

- la sostituzione, in tutta la legislazione vigente, dei riferimenti ai figli legittimi e ai figli naturali con i riferimenti ai figli; viene però fatto salvo l'uso delle denominazioni di figli nati nel matrimonio o fuori del matrimonio, in relazione a disposizioni ad essi specificamente relative (lett. a);

- una nuova articolazione e ridefinizione sistematica dei capi del titolo VII del libro primo, la cui rubrica è denominata "Dello stato di figlio"; la risistemazione ha anche finalità di coordinamento con l'abrogazione delle disposizioni sulla legittimazione (lett. b);

- la ridefinizione della disciplina del possesso di stato e della prova della filiazione, prevedendo che la filiazione fuori del matrimonio possa essere giudizialmente accertata con ogni mezzo idoneo (lett. c);

- l'estensione della presunzione di paternità del marito rispetto ai figli comunque nati o concepiti durante il matrimonio e la ridefinizione della disciplina del disconoscimento di paternità nel rispetto dei principi costituzionali (lett. d);

- la modificazione della disciplina del riconoscimento dei figli naturali con l'adeguamento al principio dell'unificazione dello stato di filiazione delle disposizioni sull'inserimento del figlio riconosciuto nella famiglia di uno dei genitori, demandando al giudice la valutazione di compatibilità con i diritti della famiglia legittima; altro principio di delega concerne l'inammissibilità del riconoscimento in tutti i casi in cui il riconoscimento medesimo è in contrasto con lo stato di figlio riconosciuto o giudizialmente dichiarato (lett. e);

- l'abbassamento dell'età del figlio minore, da 16 a 14 anni, ai fini dell'azione di disconoscimento della paternità (art. 244 c.c.), dell'impugnazione del riconoscimento previa autorizzazione giudiziale e nomina di un curatore speciale (art. 264 c.c.) e ai fini del consenso all'azione per la dichiarazione di paternità o maternità esercitata dal genitore o dal tutore (art. 274 c.c.) (lett. f);

- la limitazione dell'imprescrittibilità dell'azione di impugnazione del riconoscimento solo al figlio e l'introduzione di un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati (lett. g);

- l'unificazione della disciplina sui diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati sia nel matrimonio che fuori del matrimonio (lett. h);

- la disciplina delle modalità di esercizio del diritto all'ascolto del minore che abbia adeguata capacità di discernimento, precisando che, nell'ambito di procedimenti giurisdizionali, ad esso provvede il presidente del tribunale o il giudice delegato (lett. i);

- l'adeguamento della disciplina delle successioni e delle donazioni al principio dell'unificazione dello stato di figlio (lett. l). In merito, per quanto riguarda i giudizi pendenti, il Governo dovrà introdurre una disciplina che assicuri la produzione degli effetti successori nei confronti dei parenti anche per gli aventi causa del figlio naturale premorto o deceduto nel corso del riconoscimento con conseguente estensione delle relative azioni petitorie per il riconoscimento del diritto all'eredità;

- il necessario coordinamento della disciplina del diritto internazionale privato di cui alla legge 218/1995 al principio di unicità dello stato di figlio (lett. m);

- la specificazione della nozione di abbandono morale e materiale del figlio, con riguardo all'irrecuperabilità delle capacità genitoriali, fermo restando che le condizioni di indigenza non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria famiglia (lett. n);

- la segnalazione ai comuni, da parte dei tribunali dei minori, delle situazioni di indigenza di nuclei familiari che richiedano interventi di sostegno nonchè i controlli che lo stesso tribunale effettua sulle situazioni di disagio segnalate agli enti locali (lett. o);

- il diritto dei nonni ovvero la legittimazione degli ascendenti a far valere il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minori (lettera p).

 

Il decreto legislativo n. 154 del 2013 dà attuazione alla delega novellando il codice civile, i codici, penale, processuale penale e processuale civile e la legislazione speciale.

Tra le principali novità della riforma, si richiamano:

 

Il diritto del minore ad una famiglia

 

In questa legislatura il Parlamento ha approvato la legge n. 173 del 2015, che ridefinisce il rapporto tra procedimento di adozione e affidamento familiare (cd. affido) allo scopo di garantire il diritto alla continuità affettiva dei minori. A tal fine riconosce alla famiglia affidataria una corsia preferenziale nell'adozione.

 

Gli obiettivi della riforma

La prassi ha evidenziato che l'affidamento, talvolta, perde nel corso del suo svolgimento il carattere di «soluzione provvisoria e temporanea» che la legge invece gli attribuisce.

Il periodo massimo di affidamento previsto dalla legge è pari a 2 anni, prorogabile da parte del tribunale dei minorenni laddove se ne riscontri l'esigenza (quando la sospensione dell'affido rechi pregiudizio al minore): questo termine è quindi la soglia di riferimento circa la durata che dovrebbe avere la permanenza in accoglienza del minore.

Nella relazione che accompagna il progetto di legge originario presentato al Senato (AS. 1209) si cita il Rapporto dell'Istituto degli Innocenti del dicembre 2012 su affidamenti familiari e collocamenti in comunità, elaborato per conto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, da cui risulta che i bambini e gli adolescenti in affidamento familiare da oltre due anni, cioè oltre il termine ordinario previsto dalla legge, costituiscono la maggioranza degli accolti, ovvero circa il 60 % del totale: erano il 62,2 per cento nel 1999, il 57,5 per cento nel 2007, e il 56 per cento nel 2008. Lo stesso Rapporto riferisce che i bambini in affido da oltre 4 anni sono  ben il 31,7% del totale (al 31 dicembre 2012).

In un numero elevato di casi, la situazione critica che aveva giustificato l'allontanamento dalla famiglia originaria non si risolve ed il minore viene, quindi, dichiarato adottabile. A questo punto è possibile che bambini già provati da una prima separazione (quella dalla famiglia d'origine), siano sottoposti ad una seconda separazione e trasferiti ad una terza famiglia.

In relazione all'esigenza di valorizzare il rapporto di affidamento, garantendo una corsia preferenziale nell'adozione alle famiglie già affidatarie del minore, si segnala la sentenza 27 aprile 2010 della Seconda Sezione della Corte europea per i diritti dell'uomo (Affare Moretti e Benedetti c. Italia – causa n. 16318/07), che ha condannato l'Italia a risarcire una coppia di coniugi che, dopo essersi presi cura per 19 mesi di un minore attraverso l'istituto dell'affidamento, si era vista scavalcata da un'altra famiglia in sede di adozione.

 

La legge n. 173 del 2015, introduce un favor per la considerazione positiva dei legami costruiti in ragione dell'affidamento, avendo cura di specificare che questi hanno rilievo solo ove il rapporto instauratosi abbia di fatto determinato una relazione profonda, proprio sul piano affettivo, tra minore e famiglia affidataria.

In particolare, la legge riforma l'articolo 4 della legge n. 184/1983, prevedendo una corsia preferenziale per l'adozione a favore della famiglia affidataria, laddove - dichiarato lo stato di abbandono del minore - risulti impossibile ricostituire il rapporto del minore con la famiglia d'origine. A tal fine:

La legge n. 173 del 2015, inoltre, garantisce alla famiglia o alla persona cui sia stato affidato il minore la legittimazione a intervenire nei procedimenti che riguardano il minore. Più in particolare, la norma impone l'obbligo, a pena di nullità, di convocare l'affidatario in tutti i procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, riconoscendogli nel contempo la facoltà di presentare memorie nell'interesse del minore.

Infine, la riforma interviene su una delle ipotesi di adozione in casi particolari (che prescinde dallo stato di abbandono), vale a dire quella relativa all'orfano di padre e di madre, che oggi può essere adottato da persone legate da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori. In tal caso, l'adozione è consentita anche alle coppie di fatto e alla persona singola; se però l'adottante è coniugato e non separato, l'adozione deve essere richiesta da entrambi i coniugi. L'art. 4, nel confermare la linea interpretativa favorevole a considerare positivamente i legami costruiti in ragione dell'affidamento, specifica che il rapporto "stabile e duraturo" è considerato ai fini dell'adozione dell'orfano di entrambi i genitori anche ove maturato nell'ambito di un prolungato periodo di affidamento.

 

La ratifica della Convenzione dell’Aja del 1996

Il Parlamento ha approvato la legge n. 101 del 2015, di ratifica della Convenzione dell'Aja del 1996, sulla responsabilità genitoriale e la protezione dei minori.

 

La Convenzione dell'Aja del 1996

La Convenzione - che interviene in un ambito già trattato dalla precedente Convenzione dell'Aja del 1961 di cui intende superare alcune difficoltà applicative - è stata firmata dall'Italia il 1° aprile 2003 e consta di 63 articoli.

Quanto al campo di azione di azione della Convenzione, essa individua in primo luogo le finalità: la determinazione dello Stato le cui autorità sono competenti ad adottare le misure volte alla protezione della persona o dei beni del minore; la determinazione della legge applicabile da tali autorità nell'esercizio della loro competenza; la determinazione della legge applicabile alla responsabilità genitoriale; la garanzia del riconoscimento e dell'esecuzione delle misure di protezione del minore in tutti gli Stati contraenti; lo stabilimento, fra le autorità degli Stati contraenti, della cooperazione necessaria alla realizzazione degli obiettivi della Convenzione.

La Convenzione trova applicazione per i minori dal momento della nascita fino al compimento dei 18 anni.

Rientrano nel campo di applicazione della Convenzione l'attribuzione, l'esercizio e la revoca – totale o parziale – della responsabilità genitoriale; il diritto di affidamento; la tutela, la curatela e gli istituti analoghi; la designazione e le funzioni di qualsiasi persona od organismo incaricato di occuparsi del minore o dei suoi beni; il collocamento del minore in famiglia di accoglienza o in istituto anche mediante kafala o istituto analogo; la supervisione da parte delle autorità pubbliche dell'assistenza fornita al minore da qualsiasi persona se ne faccia carico; l'amministrazione, conservazione o disposizione dei beni del minore.

Sono esclusi dal campo della Convenzione l'accertamento e la contestazione della filiazione; la decisione e la revoca sull'adozione e le misure preparatorie; il cognome e nome del minore; l'emancipazione; gli obblighi agli alimenti; le amministrazioni fiduciarie e le successioni; la previdenza sociale; le misure pubbliche generali in materia di istruzione e sanità; le misure adottate in conseguenza della commissione di reati da parte del minore; le decisioni in materia di diritto d'asilo e di immigrazione.

La Convenzione disciplina poi la competenza e individua nelle autorità giudiziarie ed amministrative dello Stato contraente di residenza abituale del minore quelle competenti all'adozione di misure tendenti alla protezione della sua persona e dei suoi beni; stabilisce poi i criteri per individuare la legge applicabile.

Quanto al riconoscimento e l'esecuzione, in base alla Convenzione le misure adottate dalle autorità di uno Stato contraente saranno riconosciute di pieno diritto negli altri Stati contraenti. La norma prevede, tuttavia, una serie di ipotesi all'inverarsi delle quali il riconoscimento potrà essere negato.

Sono poi definite le regole della cooperazione. In particolare è previsto che ogni Stato contraente designi un'autorità centrale incaricata di adempiere gli obblighi derivanti dalla Convenzione. Le Autorità centrali devono cooperare fra loro e promuovere la cooperazione fra le autorità competenti del proprio Stato per realizzare gli obiettivi della Convenzione. Esse, nell'ambito dell'applicazione della Convenzione, adottano le disposizioni idonee a fornire informazioni sulla loro legislazione, nonché sui servizi disponibili nel loro Stato in materia di protezione del minore.

 

La legge n. 101 del 2015 si limita a prevedere la ratifica della Convenzione, senza dettare norme di adeguamento interno.

Il disegno di legge originario, nel testo approvato in prima lettura dalla Camera, invece:

 

Nei Paesi che ispirano la propria legislazione ai precetti coranici non esiste rapporto di filiazione diverso dal legame biologico di discendenza che derivi da un rapporto sessuale lecito. La legge islamica, inoltre, vieta l'adozione. Per evitare che figli senza genitori restino del tutto sprovvisti di tutela, il diritto islamico prevede un istituto di derivazione dottrinale, tramite il quale è garantita la protezione ai minori orfani, abbandonati o, comunque, privi di un ambiente familiare idoneo alla loro crescita. Per effetto della kafala un adulto musulmano (o una coppia di coniugi) ottiene la custodia del minorenne, in stato di abbandono, che non sia stato possibile affidare alle cure di parenti, nell'ambito della famiglia estesa. La kafala è in sostanza un affidamento che si protrae fino alla maggiore età e non trova ad oggi espresse corrispondenze nell'ordinamento giuridico italiano.

 

Le disposizioni di adeguamento interno sono state stralciate nel corso dell'esame del disegno di legge al Senato; la necessità di un approfondimento della disciplina attuativa relativa all'istituto della kafala confliggeva infatti con quella di una rapida approvazione del provvedimento, derivante dal ritardo del nostro Paese nell'adempiere a tale impegno internazionale.

I provvedimenti all’esame del Parlamento

L’accesso del figlio alle informazioni sulle proprie origini

Collegato al tema dell’adozione è anche il provvedimento A.S. 1978, già approvato dalla Camera, finalizzato ad ampliare la possibilità del figlio adottato o non riconosciuto alla nascita di conoscere le proprie origini biologiche. In particolare, anche per dare seguito a una sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità della disciplina vigente, è prevista la possibilità di chiedere alla madre se intenda revocare la volontà di anonimato, manifestata alla nascita del figlio.

Il provvedimento - approvato dalla Camera il 18 giugno scorso – e ora all’esame del Senato, interviene sulla legge sull'adozione, n. 184 del 1983:

In particolare l'accesso - che non legittima, tuttavia, azioni di stato né da diritto a rivendicazioni di natura patrimoniale o successoria - è consentito:

-        nei confronti della madre che abbia successivamente revocato la volontà di anonimato;

-        nei confronti della madre deceduta.

 

Una nuova disposizione introdotta nella legge sull'adozione disciplina il procedimento di interpello della madre, volto a verificare il permanere della sua volontà di anonimato.

Il procedimento è avviato su istanza dei legittimati ad accedere alle informazioni biologiche: l'adottato che abbia raggiunto la maggiore età; il figlio non riconosciuto alla nascita, che abbia raggiunto la maggiore età, in assenza di revoca dell'anonimato da parte della madre; i genitori adottivi, legittimati per gravi e comprovati motivi; i responsabili di una struttura sanitaria, in caso di necessità e urgenza e qualora vi sia grave pericolo per la salute del minore.

L'istanza di interpello può essere presentata una sola volta, al tribunale per i minorenni del luogo di residenza del figlio. Il tribunale, con modalità che assicurino la massima riservatezza, e con l vincolo del segreto per quanti prendano parte al procedimento, si accerta della volontà o meno della madre di rimanere anonima.

Ove la madre confermi di volere mantenere l'anonimato, il tribunale per i minorenni autorizza l'accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all'eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.

Inoltre, è previsto anche che, decorsi diciotto anni dalla nascita del figlio, la madre che ha partorito in anonimato possa comunque confermare la propria volontà. Anche in questo caso, il tribunale per i minorenni, se richiesto, può autorizzare l'accesso alle sole informazioni sanitarie.

La proposta di legge modifica poi il codice della privacy con riguardo al certificato di assistenza al parto, le cui disposizioni sono coordinate con quelle introdotte dalla riforma (in particolare, quella che prevede la necessità del decorso di 100 anni per poter accedere alla documentazione contenente i dati identificativi della madre). Il vincolo dei 100 anni viene meno in caso di revoca dell'anonimato, di decesso della madre o di autorizzazione del tribunale all'accesso alle sole informazioni di carattere sanitario.

Per coordinamento, è inoltre modificato, per coordinamento, il regolamento sullo stato civile in relazione alle informazioni da rendere alla madre che dichiara di volere restare anonima. In particolare, la madre dovrà essere informata, anche in forma scritta:

E' prevista in fine una disciplina per i casi di parti anonimi precedenti all'entrata in vigore della legge: entro dodici mesi, la madre che ha partorito in anonimato prima dell'entrata in vigore della riforma, può confermare la propria volontà al tribunale dei minorenni, con modalità che garantiscano la massima riservatezza. Qualora la madre confermi la propria volontà di anonimato, il tribunale per i minorenni, se richiesto, autorizza l'accesso alle sole informazioni sanitarie. A tal fine saranno stabilite modalità di svolgimento di una campagna informativa.

Il Governo, decorsi tre anni, dovrà trasmettere al Parlamento i dati sull'attuazione della legge.

 

Il cognome dei figli

Infine, e per completezza, si ricorda che l'Assemblea della Camera ha approvato, il 24 settembre 2014, un testo unificato di alcune proposte di legge (A.C. 360 e abb.), volto a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai figli.

Il provvedimento all’esame del Senato (A.S. 1628), anche in relazione alla recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, modifica la disciplina civilistica in materia di attribuzione del cognome ai figli, prevedendo la possibilità di attribuire a questi ultimi il cognome materno.

In particolare, il provvedimento prevede che al figlio nato nel matrimonio, su accordo dei genitori, possa essere attribuito uno dei seguenti cognomi:

Al mancato accordo consegue l'attribuzione, in ordine alfabetico, di entrambi i cognomi dei genitori.

La stessa regola varrà per il figlio nato fuori dal matrimonio che venga riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori. Se il figlio è riconosciuto da un solo genitore, ne assume il cognome e laddove l'altro genitore effettui il riconoscimento in un secondo momento (tanto volontariamente quanto a seguito di accertamento giudiziale), il cognome di questi si aggiunge al primo solo con il consenso del genitore che ha riconosciuto il figlio per primo nonché, se ha già compiuto 14 anni, del figlio stesso.

Il testo unificato inoltre:

La riforma si applicherà solo alle dichiarazioni di nascita successive all'entrata in vigore di un apposito regolamento attuativo, da adottarsi entro dodici mesi.

In via transitoria sarà possibile aggiungere il cognome materno ai figli minorenni nati o adottati prima dell'entrata in vigore del regolamento attuativo: sono necessari il consenso di entrambi i genitori e del figlio minorenne, qualora abbia compiuto il quattordicesimo anno di età.

 


Il contrasto alla violenza su minori

La prima indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini

E' stata recentemente presentata la Prima indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini, voluta dall'Autorità Garante per l'infanzia e l'adolescenza e condotta in partnership con Terre des Hommes e CISMAI (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso dell'infanzia), con la collaborazione e il supporto di ANCI e ISTAT.

Il primo dato fornito dà una idea del fenomeno: sono oltre 91mila i minorenni maltrattati seguiti dai Servizi Sociali.

Rispetto al totale dei bambini e adolescenti seguiti dai Servizi, i minorenni presi in carico per maltrattamento sono più numerosi al Sud e al Centro (rispettivamente 273,7 e 259,9 ogni mille) contro i 155,7 casi al Nord. Particolarmente esposte le femmine e gli stranieri. Tra le tipologie più frequenti di maltrattamento troviamo la trascuratezza materiale e/o affettiva (47,1% dei casi seguiti), la violenza assistita (19%) e il maltrattamento psicologico (14%).

Mediamente ogni bambino maltrattato riceve almeno 2 tipologie di servizio di protezione e tutela, come assistenza economica alla famiglia (nel 27,9% dei casi), inserimento in comunità (19,3%), assistenza domiciliare (17,9%), affidamento famigliare (14,4%), assistenza in un centro diurno (10,2%).

L'Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia è stata condotta su un campione di 231 Comuni italiani statisticamente rappresentativo di tutto il territorio nazionale, attraverso la compilazione di una scheda che ha permesso la raccolta di dati quali-quantitativi sui minorenni in carico ai Servizi Sociali di ciascun Comune al 31 dicembre 2013.

A chiusura dell'indagine, i promotori hanno formulato 5 Raccomandazioni per il Governo e la Conferenza delle Regioni, che chiedono di:

 

La tutela (indiretta) dei minori nell’ambito del Piano nazionale contro la violenza di genere

Con la legge 27 giugno 2013, n. 77, l'Italia è stata tra i primi paesi europei a ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica - meglio nota come ‘Convenzione di Istanbul' - adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014, a seguito del raggiungimento del prescritto numero di dieci ratifiche.

 

La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. Particolarmente rilevante è il riconoscimento espresso della violenza contro le donne quale violazione dei diritti umani, oltre che come forma di discriminazione contro le donne (art. 3 della Convenzione). La Convenzione stabilisce inoltre un chiaro legame tra l'obiettivo della parità tra i sessi e quello dell'eliminazione della violenza nei confronti delle donne.

 

Inoltre, il Parlamento ha approvato la legge 119/2013, di conversione del decreto-legge 93/2013, che contiene disposizioni volte a prevenire e reprimere la violenza domestica e di genere. In particolare, il provvedimento approvato:

 

L'art. 5 del citato D.L. 93/2013 ha previsto l'adozione di un Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, con lo scopo di affrontare in modo organico e in sinergia con i principali attori coinvolti a livello sia centrale che territoriale il fenomeno della violenza contro le donne.

Il Piano è elaborato dal Dipartimento per le pari opportunità, con il contributo delle amministrazioni interessate, delle associazioni di donne impegnate nella lotta contro la violenza e dei centri antiviolenza, ed è adottato dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata. Esso è inoltre predisposto in sinergia con la nuova programmazione dell'Unione europea per il periodo 2014-2020.

Le finalità del Piano sono molto ampie e riguardano interventi relativi ad una pluralità di ambiti: dall'educazione nelle scuole alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica, anche attraverso un'adeguata informazione da parte dei media; dal potenziamento dei centri antiviolenza e del sostegno alle vittime al recupero degli autori dei reati; dalla raccolta di dati statistici alla formazione degli operatori di settore. Il Piano assicura il coordinamento ed il coinvolgimento di tutti i livelli di governo interessati, basandosi sulle buone pratiche già realizzate a livello territoriale, anche grazie alle azioni di associazioni e soggetti privati.

Per quanto riguarda il finanziamento del Piano straordinario, l'articolo 5 del DL 93/2013 precisava che per l'elaborazione e l'adozione del Piano possono essere anche utilizzate le risorse del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità (istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri dall'art. 19, comma 3, del D.L. 223/2006). Non sono previsti stanziamenti aggiuntivi per la concreta attuazione del Piano straordinario che - ai sensi del comma 3 dell'art. 7 – deve avvenire "senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica".

Il decreto-legge dispone al riguardo un incremento del predetto Fondo per le pari opportunità di 10 milioni di euro, limitatamente all'anno 2013, vincolati al finanziamento del piano contro la violenza di genere (art. 5, comma 4). Per gli anni 2014, 2015, e 2016 ha provveduto la legge di stabilità 2014, aumentando ulteriormente il Fondo di 10 milioni per ciascuno di questi anni, con vincolo di destinazione al piano medesimo (art. 1, comma 217, L. n. 147/2013).

Nel Bilancio 2015 della Presidenza del Consiglio-Dip.to delle Pari Opportunità, nell'ambito delle somme da destinare al Piano contro la violenza alle donne (cap. 496) sono stanziati 9,1 milioni di euro per l'elaborazione del Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (nel Bilancio 2014, le risorse stanziate ammontavano a 10 milioni di euro).

Un ulteriore finanziamento, di natura permanente, è invece specificamente destinato, nell'ambito del Piano, al potenziamento delle forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso il rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e delle case rifugio: a tal fine il Fondo per le pari opportunità è incrementato di 10 milioni di euro per il 2013, di 7 milioni per il 2014 e di 10 milioni annui a decorrere dal 2015 (art. 5-bis DL n. 93/2013). Nel citato Bilancio 2015, il finanziamento in favore dei centri antiviolenza e delle case rifugio è anch'esso di 9,1 milioni di euro (7 milioni di euro nel bilancio 2014).

Il governo ha attivato sui contenuti del piano una consultazione pubblica, sulla base di questo documento. Il contenuto del Piano è stato presentato in una conferenza stampa lo scorso 7 maggio presso la Presidenza del Consiglio ed il Piano è stato adottato con DPCM 7 luglio 2015 e registrato dalla Corte dei Conti il 25 agosto 2015. Non è prevista la pubblicazione del piano nella Gazzetta ufficiale.

I provvedimenti all’esame del Parlamento per combattere il cyberbullismo

Le Commissioni Giustizia e Affari sociali stanno esaminando una serie di proposte di legge – tra le quali l’A.C. 3139, approvata dal Senato – che prevedono alcune misure di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e/o del bullismo informatico (cd. cyberbullismo).

 

Il termine bullismo deriva dall’inglese bullying, (to bull) che significa “usare prepotenza, maltrattare, intimidire, intimorire”. Tale definizione è entrata ormai nell’uso corrente per indicare un fenomeno relazionale che si instaura tra soggetti minorenni e che si manifesta essenzialmente sotto forma di pressione fisica e/o psicologica messa in atto da una o più persone (bulli) nei confronti di un altro individuo percepito come più debole (vittima).

L’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che lo scenario principale in cui trova principale collocazione il fenomeno del bullismo è il contesto scolastico. Caratteristiche del bullismo sono:

-     l’intenzionalità, gli atti di bullismo derivano dal dolo, la volontà consapevole di compiere determinati atti;

-     la reiterazione nel tempo; la condotta illecita quasi mai è isolata ma persistente nel tempo;

-     l’asimmetria di potere; la relazione che si instaura tra bullo e vittima si basa sulla diseguaglianza (fisica e/o psicologica) tra i protagonisti;

-     l’inconsapevolezza dell’illiceità dei comportamenti; spesso gli autori di atti di bullismo, di fronte alle forze dell’ordine e alla magistratura, mostrano stupore per le conseguenze penali del loro comportamento.

Le conseguenze psicologiche (e spesso fisiche) del bullismo sulla vittima sono di diversa natura ed intensità; normalmente ne deriva un senso di insicurezza, calo dell’autostima, difficoltà di relazione a scuola e in famiglia; non infrequenti i cali nel rendimento scolastico della vittima. Recenti episodi di cronaca hanno persino dimostrato come episodi di bullismo sono stati causa (o concausa) di atti di autolesionismo o addirittura del suicidio di adolescenti.

Nonostante il fenomeno sia noto e studiato da anni, il termine "bullismo" è stato utilizzato per la prima volta in una norma di rango legislativo nel 2012: l'art. 50 del D.L. 5/2012, Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo (L. conv. 35/2012) ha previsto - nell’ambito delle norme per consolidare e sviluppare l'autonomia scolastica - che con decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca fossero emanate linee guida per la definizione, fra l'altro, di un organico di rete territoriale (tra istituzioni scolastiche) finalizzato anche al contrasto dei fenomeni di bullismo.

Sebbene sia stato inquadrato in vario modo da numerosi studi, anche in ambito internazionale, non esiste una definizione legislativa di bullismo ed il nostro ordinamento non prevede disposizioni specifiche per sanzionare il fenomeno.

Il bullismo fa attualmente riferimento a una serie di condotte in gran parte riconducibili a fattispecie di reato punite dal codice penale o da leggi speciali. Senza pretesa di esaustività si tratta prevalentemente delle seguenti:

-     violenza privata (art. 610 c.p.),

-     percosse (art. 581 c.p.)

-     lesioni (artt. 582 c.p.),

-     molestie (art. 660 c.p.)

-     minaccia (art. 612 c.p.),

-     stalking (art. 612-bis c.p.),

-     furto (art. 624 c.p.),

-     estorsione (art. 629 c.p.),

-     danneggiamento di cose altrui (art. 635 c.p.)

-     ingiuria (art. 594 c.p.),

-     diffamazione (art. 595 c.p.),

-     sostituzione di persona (art. 494 c.p.)

-     furto d’identità digitale (art. 640-ter c.p.),

-     trattamento illecito di dati (art. 167, D.Lgs. 196/2003, Codice della privacy).

Costituendo prevalentemente illeciti a forma libera - che quindi si consumano con diversi mezzi o modalità - in assenza di un inquadramento normativo specifico, la giurisprudenza ha fondato numerose pronunce di condanna per atti di bullismo sulle fattispecie penali già esistenti.

In giurisprudenza (Cassazione penale, sentenza n 19070 del 2008), il bullismo è stato anche considerato come circostanza aggravante di altro reato. La sentenza citata ha infatti confermato nei confronti di un ragazzo la condanna inasprita dalla Corte d'appello di Napoli che aveva riconosciuto l'esistenza del concorso in lesioni personali, aggravate dai futili motivi. Secondo la Suprema Corte, si configura l'aggravante quando, senza essere stato provocato, si reagisce alle altrui protesta in maniera violenta, ponendo così in essere un comportamento arrogante e gratuitamente umiliante inteso ad annientare l'altrui personalità.

Sotto il profilo dell’imputabilità a parte i casi di bulli maggiorenni, soggetti alla disciplina ordinaria - l’art. 98 c.p. prevede l’imputabilità del minorenne con più di 14 anni al momento del fatto di cui sia riconosciuta la capacità di intendere e di volere (ma la pena è diminuita).

L’art. 97 c.p. esclude invece l’imputabilità del minore di 14 anni. Tuttavia, ove quest’ultimo sia ritenuto pericoloso, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, il giudice minorile ne ordina il ricovero in riformatorio giudiziario o lo pone in libertà vigilata (art. 224 c.p.).

Gli atti di bullismo, ove connotati da particolare gravità, possono giustificare anche misure cautelari. Nel gennaio 2015 a Salò, in provincia di Brescia, un sedicenne che minacciava, aggrediva e picchiava un coetaneo compagno di scuola, estorcendogli quotidianamente denaro, è stato denunciato dai genitori della vittima ed arrestato dai Carabinieri. ll Tribunale dei Minorenni di Brescia ha convalidato l’arresto e ha applicato al bullo la misura della permanenza in casa; «per non interrompere i processi educativi» è stata data al minore la possibilità di uscire solo per gli impegni scolastici.

Sotto il profilo della responsabilità civile, va ricordato il ruolo dei genitori del minore autore degli atti di bullismo nonché, ove il fatto si verifichi durante le ore scolastiche, degli insegnanti (questi ultimi ex art. 2048, secondo comma c.c.), sia gli uni che gli altri passibili di condanna al risarcimento danni alla vittima per colpa (culpa in educando per i genitori, in vigilando per gli insegnanti). L’esonero dalla responsabilità consegue alla dimostrazione (particolarmente difficile per i genitori, tenuti ai loro obblighi educativi) di non avere in alcun modo impedire il fatto.

Sul punto, Cassazione civile, sentenza  21 febbraio 2003, n. 2657 ha precisato che per superare la presunzione di responsabilità che ex art. 2048 c.c. grava sull'insegnante per il fatto illecito dell'allievo, non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo, dopo l'inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di detta serie causale.

Quando gli atti di bullismo sono compiuti mediante l’uso della rete e, in generale, dei mezzi informatici e telematici, il fenomeno viene comunemente definito come bullismo informatico o cyberbullismo. I relativi atti illeciti sono quindi effettuati tramite mezzi elettronici come l'e-mail, la messaggistica istantanea, i telefoni cellulari, i social media, i blog.

In particolare, gli atti di cyberbullismo sono compiuti, nella grande maggioranza dei casi, da soggetti minorenni e talvolta minori di 14 anni, per i quali il nostro ordinamento giuridico non riconosce l'imputabilità.

Come il bullismo nella vita reale, il cyberbullismo può produrre conseguenze sul piano civile (art. 2043 c.c.) e penale.

Rispetto al bullismo tradizionale, l'uso dei mezzi elettronici conferisce al cyberbullismo alcune caratteristiche proprie quali:

-     l'anonimato del molestatore; in realtà, l’anonimato è illusorio in quanto ogni comunicazione elettronica lascia delle tracce. Per la vittima però è difficile risalire da sola al proprio molestatore e, a fronte dell'anonimato del cyberbullo, dati e notizie sul conto della vittima possono essere inoltrate a un ampio numero di persone;

-     la difficile reperibilità; se il cyberbullismo avviene via sms, e-mail, o in un forum on line privato, ad esempio, è più difficile reperirne l'autore e porvi rimedio;

-     l’indebolimento delle remore etiche; le due caratteristiche precedenti, abbinate con la possibilità di essere «un'altra persona» on line (vedi giochi di ruolo), possono indebolire le remore etiche; spesso la gente fa e dice on line cose che non farebbe o direbbe nella vita reale;

-     l’assenza di limiti spazio-temporali; mentre il bullismo tradizionale avviene di solito in luoghi e momenti specifici (ad esempio in contesto scolastico), il bullismo informatico investe la vittima ogni volta che si collega al mezzo elettronico utilizzato dal suo persecutore.

Secondo un inquadramento di tipo psicologico, gli studiosi hanno complessivamente ricostruito le seguenti categorie di cyberbullismo:

-     flaming: messaggi on line violenti e volgari mirati a suscitare battaglie verbali in un forum;

-     molestie (harassment): spedizione ripetuta di messaggi insultanti mirati a ferire qualcuno; denigrazione: sparlare di qualcuno per danneggiare gratuitamente e con cattiveria la sua reputazione, via e-mail, messaggistica istantanea, gruppi su social network eccetera;

-     sostituzione di persona (impersonation): farsi passare per un'altra persona per spedire messaggi o pubblicare testi reprensibili;

-     rivelazioni (exposure): pubblicare informazioni private o imbarazzanti su un'altra persona; inganno;

-     (trickery): ottenere la fiducia di qualcuno con l'inganno per poi pubblicare o condividere con altri le informazioni confidate via mezzi elettronici; esclusione: escludere deliberatamente una persona da un gruppo on line per provocare in essa un sentimento di emarginazione;

-     cyber persecuzione (cyberstalking): molestie e denigrazioni ripetute e minacciose mirate a incutere paura.

Il dilagare del bullismo ne ha fatto un fenomeno su cui da tempo si è concentrata l’attenzione, soprattutto degli operatori del sociale.

Sulla dimensione e le forme del bullismo in Italia, la Fondazione Censis, su incarico del Ministero dell'istruzione, ha svolto nel 2008 la "Prima indagine nazionale sul Bullismo". Ricerche comparate più recenti condotte da singoli studiosi sono state svolte e presentate nel 2010, nel 2012 e per gli Stati Uniti nel 2014.

Una ricerca realizzata nel 2013 da Save the Children, in collaborazione con Ipsos, evidenziava come 4 minori su 10 sono testimoni di atti di bullismo online verso coetanei, percepiti «diversi» per aspetto fisico (67 per cento), per orientamento sessuale (56 per cento) o perché stranieri (43 per cento).

 

Ferme restando le diversità di approccio - sul piano penalistico o sociale – delle diverse proposte di legge, si segnalano tra le caratteristiche principali delle proposte di legge:

-     la definizione degli atti di bullismo e di cyberbullismo;

-     la previsione di specifiche sanzioni penali;

-     il coinvolgimento delle famiglie e l'introduzione dell'ammonimento al minore, prima della denuncia o della querela;

-     l'accesso a una procedura davanti al Garante della privacy a tutela del minore per ottenere l'oscuramento , la rimozione o il blocco dei dati personali illeciti;

-     la previsione di tavoli tecnici intergovernativi e piani d'azione integrati;

-     l'accresciuto ruolo delle istituzioni scolastiche per la prevenzione dei fenomeni illeciti e l'uso consapevole di Internet.

Sulle tematiche sottese alle proposte di legge le Commissioni riunite hanno deliberato lo svolgimento di un’indagine conoscitiva (v. seduta del 26 novembre 2015).

 


La lotta alla tratta

La tratta di esseri umani è espressamente punita nel nostro ordinamento dall'entrata in vigore della legge n. 228 del 2003 con la quale sono stati riscritti gli articoli del codice penale già relativi alla riduzione in schiavitù (artt. 600, 601 e 602). La definizione delle condotte punibili a titolo di tratta è stata poi da ultimo ampliata dal decreto legislativo n. 24 del 2014, che ha dedicato attenzione anche al profilo del risarcimento delle vittime. Le circostanze che comportano un aumento delle pene in caso di commissione di questi delitti sono state modificate dalla legge n. 108 del 2010 che ha inserito nel codice penale l'art. 602-bis. Come di seguito si evidenzierà, la disciplina del traffico di esseri umani nel nostro Paese è prevalentemente frutto dell'attuazione di normativa di derivazione europea (decisione quadro 2002/629/GAI e poi direttiva 2011/36/UE) e di convenzioni internazionali.

Le fattispecie penali nel codice

Nel corso della XIV legislatura il Parlamento ha approvato la legge 11 agosto 2003, n. 228, Misure contro la tratta di persone, diretta ad introdurre nuove disposizioni penali e a modificare quelle già esistenti allo scopo di contrastare il fenomeno della riduzione in schiavitù e, più in particolare, di quella forma di riduzione in schiavitù derivante dal traffico di esseri umani. Si tratta di una nuova schiavitù riguardante esseri umani – soprattutto donne e bambini – provenienti dai paesi poveri del mondo che, spinti nel nostro Paese dalla speranza di una diversa prospettiva di vita, sono costretti alla prostituzione, al lavoro forzato e all'accattonaggio.

Il nucleo principale della legge consiste nella modifica degli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, concernenti rispettivamente i reati di "riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù", "tratta di persone" e "acquisto e alienazione di schiavi", per i quali vengono sensibilmente aumentate le pene, arrivando fino ad un massimo di venti anni.

 

In particolare, l'articolo 600 del codice penale punisce con la reclusione da otto a venti anni, chiunque riduca una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù. Il nuovo articolo 600 si riferisce, a tale proposito:

Con il d.lgs. n. 24 del 2014 è stato aggiunta la costrizione al compimento di attività illecite che comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi.

Per definire poi in maniera più tassativa la fattispecie incriminatrice, viene precisato che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione possono configurarsi in presenza di una condotta particolarmente connotata. In particolare si richiede che la condotta sia attuata mediante:

L'aggravante originariamente prevista dall'art. 600 c.p. è stata soppressa nella scorsa legislatura con la ratifica della Convenzione di Varsavia (v. infra).

 

L'articolo 601 del codice penale definisce, punendolo con la reclusione da otto a venti anni, il delitto di tratta di persone, ritenendolo applicabile  sia quando ne risultino vittima soggetti già ridotti in schiavitù o in servitù, sia quando esso riguardi soggetti che vengono trafficati allo scopo di essere ridotti in tali situazioni.

La condotta qualificante la nuova figura di reato è stata modificata dal d.lgs. n. 24 del 2014 e consiste oggi:

Alla stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma, realizza le condotte ivi previste nei confronti di persona minore di età.

Anche in questo caso la legge del 2003 prevedeva un'aggravante che è stata ora espunta dall'articolo (v. infra).

 

L'articolo 602 del codice penale prevede e disciplina la fattispecie di acquisto e alienazione di schiavi. La norma ha carattere residuale poiché disciplina le ipotesi che non sono già ricadenti nella fattispecie di tratta di persone (art. 601).

L'elemento oggettivo del reato in tali casi consiste nell'acquisto, nell'alienazione o nella cessione di una persona che si trovi in condizione di schiavitù o servitù ai sensi dell'articolo 600 c.p. La pena stabilita è quella della reclusione da otto a venti anni.

 

Per questi delitti:

 

La legge sulla tratta ha inoltre novellato il delitto di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) affermando che laddove l'associazione sia diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi di cui al comma 1 – promotori costitutori o organizzatori dell'associazione – e da quattro a nove anni nei casi di cui al comma 2 – partecipazione all'associazione.

 

Oltre alle sanzioni penali, la legge 228/2003 prevede anche sanzioni amministrative nei confronti di persone giuridiche, allorché i soggetti che le rappresentano o che nelle stesse ricoprano le particolari cariche previste dalla legge, commettano alcuno dei reati contro la personalità individuale previsti agli artt. 600-604 del codice penale. Si tratta delle sanzioni pecuniarie "per quote" previste dal D.Lgs 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica) dettate da un apposito art. 25-quinquies; la norma prevede, nei casi più gravi, l'interdizione temporanea per un anno (se non addirittura definitiva) dall'attività istituzionale dell'ente.

 

Dal punto di vista della prevenzione dei reati e dell'assistenza alle vittime degli stessi, la legge del 2003 ha previsto:

 

La ratifica della Convenzione di Varsavia

Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha approvato la legge 2 luglio 2010, n. 108, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), conseguentemente adeguando l'ordinamento interno.

 

La Convenzione di Varsavia si pone come obiettivo la prevenzione e la lotta, in ambito sia nazionale sia internazionale, contro la tratta degli esseri umani in tutte le sue forme, collegate o meno alla criminalità organizzata, ed in relazione a tutte le vittime, siano esse donne, bambini o uomini. La Convenzione ha l'obiettivo di:

prevenire e combattere la tratta di esseri umani, garantendo la parità tra le donne e gli uomini;

proteggere i diritti umani delle vittime della tratta, delineare un quadro completo per la protezione e l'assistenza alle vittime e ai testimoni, garantendo la parità tra le donne e gli uomini, in modo da assicurare indagini e procedimenti giudiziari efficaci;

promuovere la cooperazione internazionale nel campo della lotta alla tratta di esseri umani.

La Convenzione di Varsavia pone in risalto il fatto che la tratta costituisce una violazione dei diritti umani e un affronto alla dignità e all'integrità delle persone, e che, in tal senso, occorre intensificare la protezione di tutte le sue vittime. Nessun altro testo internazionale prima di questo documento, ha fissato una definizione di vittima, in quanto veniva lasciato a ciascun Stato il compito di definire chi doveva essere considerato una vittima, potendo quindi usufruire delle misure di tutela e di assistenza. Nella Convenzione si definisce vittima ogni persona oggetto di tratta e viene stabilito, inoltre, un elenco di disposizioni obbligatorie di assistenza a favore delle vittime della tratta: in particolare, le vittime della tratta devono ottenere un'assistenza materiale e psicologica, e un supporto per il loro reinserimento nella società. Tra le misure previste, sono indicate le cure mediche, le consulenze legali, le informazioni e la sistemazione in un alloggio adeguato. Si prevede, inoltre, un risarcimento per un periodo di ristabilimento e di riflessione di almeno 30 giorni. Vi è anche la possibilità di rilasciare dei permessi di soggiorno alle vittime della tratta, o per ragioni umanitarie, oppure nel quadro della loro cooperazione con le autorità giudiziarie. La Convenzione prevede anche una possibile scriminante per loro coinvolgimento delle vittime della tratta in attività illegali, nella misura in cui vi siano state costrette.

 

La legge n. 108 del 2010 ratifica la Convenzione e detta disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno. In particolare, la legge novella le fattispecie penali già previste dal codice per punire la tratta di esseri umani. In ragione dell'intervento legislativo del 2003, infatti, l'ordinamento italiano non ha avuto bisogno di pesanti misure di adeguamento alla Convenzione di Varsavia e si è rivelata sufficiente una novella delle circostanze aggravanti dei già previsti delitti di tratta.

Infatti, per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p., tutti puniti con la reclusione da otto a venti anni, il codice dal 2003 prevedeva le medesime circostanze aggravanti - da cui derivava l'aumento della pena da un terzo alla metà - collegate alla minore età della vittima, ovvero alla finalizzazione del delitto allo sfruttamento della prostituzione o al traffico di organi.

La legge 108/2010 ha abrogato le singole aggravanti previste dagli articoli 600, 601 e 602, introducendo nel codice penale un nuovo articolo (art. 602-ter), rubricato Circostanze aggravanti.

La disposizione, in relazione ai citati delitti, conferma l'aumento da un terzo alla metà della pena nelle ipotesi già previste dalle norme previgenti (persona offesa minore di 18 anni e fatti diretti allo sfruttamento della prostituzione o commessi al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi), aggiungendo un'ulteriore circostanza aggravante per l'ipotesi in cui dal fatto derivi un grave pericolo per la vita o l'integrità fisica o psichica della persona offesa (primo comma).

Il legislatore ha inoltre dato seguito all'articolo 20 della Convenzione di Varsavia, che impegna le parti ad attribuire rilevanza penale ai seguenti atti, in quanto commessi intenzionalmente al fine di consentire la tratta degli esseri umani:

Conseguentemente, il secondo comma dell'articolo 602-ter, introdotto dall'articolo 3 della legge, introduce una nuova circostanza aggravante applicabile ai delitti di Falsità in atti di cui al Titolo VII, Capo III, del Libro II.

Tale Capo, in particolare, disciplina i reati di falsità materiale e di falsità ideologica (posti in essere da parte del pubblico ufficiale o del privato) ovvero, rispettivamente, condotte che riguardano la formazione di documenti falsi e l'alterazione di documenti veri, o che attengono alla veridicità del contenuto di atti materialmente integri. Il suddetto Capo punisce anche la distruzione, soppressione e l'occultamento di documenti veri, nonché l'uso di atti falsi.

In particolare, la legge prevede un aumento delle pene da un terzo alla metà nel caso in cui tali fatti siano commessi al fine di realizzare o agevolare i delitti di Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, Tratta di persone e Acquisto e alienazione di schiavi.

Prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e protezione delle vittime

Infine, nell'attuale legislatura, il Governo ha emanato il decreto legislativo n. 24 del 2014, con il quale ha dato attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.

 

Rispetto alla previgente disciplina, contenuta nella decisione quadro 2002/629/GAI, attuata con la legge sulla tratta del 2003, la direttiva europea, approvata dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, provvede a riordinare la materia in maniera più organica proponendo, in particolare, una nuova e più ampia definizione del delitto di tratta di esseri umani. In quest'ultima nozione rientrerebbero il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'alloggio o l'accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell'autorità sulle vittime, con la minaccia dell'uso o con l'uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l'inganno, l'abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l'offerta o l'accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un'altra, a fini di sfruttamento (art. 2, par. 2). In presenza di tali mezzi di coercizione, il consenso della vittima è irrilevante (art. 2, par. 4). La direttiva precisa che la cd. "posizione di vulnerabilità" presuppone una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima.

L'art. 3 prevede la punibilità con pene effettive, proporzionate e dissuasive dei reati di istigazione, favoreggiamento e concorso o tentativo nella commissione dei reati di tratta di cui all'art. 2. Dal punto di vista sanzionatorio la direttiva (art. 4) impone agli Stati membri di prevedere che i reati di tratta (art. 2) siano punibili con la reclusione della durata massima di almeno 5 anni (la decisione quadro del 2002 non prevedeva alcuna soglia). Tale limite aumenta a 10 anni quando il reato:
a) sia stato commesso nei confronti di una vittima particolarmente vulnerabile, con particolare riferimento ai minori;
b) sia stato commesso nel contesto di un'organizzazione criminale;
c) abbia messo in pericolo la vita della vittima intenzionalmente o per colpa grave;
d) sia stato commesso ricorrendo a violenze gravi o abbia causato alla vittima un pregiudizio particolarmente grave.

Nuova previsione è quella che prevede l'adozione di sequestro e confisca di strumenti e proventi del reato di tratta (art. 7).

Sotto il profilo procedurale, la novità della direttiva consiste nella previsione che gli Stati membri adottino le misure necessarie per garantire la non perseguibilità dei reati che le vittime della tratta fossero costrette a compiere come conseguenza diretta di uno degli atti di cui all'articolo 2 (art. 8). Parimenti, devono essere adottate, a livello nazionale, le misure necessarie affinché le indagini o l'azione penale relative ai reati di cui agli articoli 2 e 3 non siano subordinate alla querela, alla denuncia o all'accusa formulate da una vittima e il procedimento penale possa continuare anche se la vittima ritratta una propria dichiarazione (art. 9).

Infine, sono previste alcune disposizioni in materia di assistenza e sostegno alle vittime di reati di tratta di esseri umani (art. 11), nonché di tutela delle stesse nelle indagini e nei procedimenti penali (art. 12). Queste ultime si aggiungono alle garanzie previste in favore delle vittime vulnerabili all'interno dei procedimenti penali dalla decisione quadro 2001/220/CE. Disposizioni specifiche e di particolare ampiezza riguardano l'assistenza, il sostegno e la tutela dei minori (v. artt. 13-16), anche in sede processuale.

La direttiva prevede poi, come novità, che possa essere concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari alla vittima della tratta anche indipendentemente dalla sua collaborazione con la giustizia (art. 11). Più in generale la direttiva introduce una serie di nuove misure finalizzate a rafforzare è completare la rete di sostegno ed assistenza, anche psicologica, alle vittime della tratta, con particolare riferimento ai minori di 18 anni (artt. 11-16); sul punto, va segnalata tra le altre la previsione di una nomina di un tutore del minore non accompagnato (art. 16). Una specifica previsione riguarda il diritto delle vittime della tratta all'accesso a sistemi di risarcimento delle vittime dei reati dolosi violenti (art. 17).

 

Il decreto legislativo integra la formulazione data dal codice penale ai delitti di cui agli articoli 600 e 601:

 

Il decreto legislativo integra la formulazione dell'art. 398 c.p.p. in materia di incidente probatorio, aggiungendovi un nuovo comma 5-ter che prevede che il giudice, su richiesta di parte, estende anche alle persone maggiorenni "in condizioni di particolare vulnerabilità" (desunte anche dal tipo di reato per cui si procede) le cautele previste dal comma 5-bis per l'incidente probatorio che coinvolga minori di età. In particolare, sarà possibile che la deposizione avvenga con modalità protette (es. con l'uso di un vetro divisorio) o che l'udienza si svolga anche in luogo diverso dal tribunale o, in mancanza, presso l'abitazione della persona maggiorenne interessata all'assunzione della prova; il giudice potrà avvalersi, ove possibile, di strutture specializzate di assistenza e le dichiarazioni potranno essere documentate integralmente con mezzi audiovisivi.

 

La riforma interviene poi sui diritti dei minori non accompagnati vittime di tratta (cfr. art. 16 della direttiva) prevedendo che il minore debba essere informato dei suoi diritti, anche in riferimento al suo possibile accesso alla protezione internazionale. E' previsto che un decreto del Presidente del Consiglio definisca la procedura attraverso cui – nel superiore interesse del minore - personale specializzato procede all'identificazione e alla determinazione dell'età del minore non accompagnato, anche attraverso l'eventuale collaborazione delle autorità diplomatiche.

 

Ulteriori disposizioni riguardano:

Le modifiche che il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24 ha apportato agli articoli 600 e 601 del codice penale e all'articolo 398 del codice di procedura penale sono analizzate dalla relazione n. III/04/2014 dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.

Le analisi del Ministero della giustizia

Lo scorso settembre la Direzione generale di statistica del Ministero della giustizia ha pubblicato un'indagine statistica su un campione rappresentativo di fascicoli definiti con sentenza relativamente ai reati ex art. 600, 601 e 602 del codice penale.

Lo studio evidenzia che ogni anno in Italia vengono iscritte in media circa 209 contestazioni di reato inerenti la tratta di esseri umani nei registri dell'ufficio Gip/Gup e una media di 33 nei registri della Corte di Assise. La gran parte (73%) riguarda la riduzione in schiavitù (art. 600 cp), il 23% la tratta di persone (art. 601) e il 4% l'alienazione e acquisto di schiavi (art. 602 cp).

Nel triennio 2011-2013, le sentenze di primo grado che interessano l'articolo 600 del codice penale sono state in media 54 (in 18 la pronuncia riguarda l'articolo 601 e in 2 è trattato l'articolo 602). La percentuale delle condanne è più alta per gli artt. 600 e 601, rispettivamente pari al 69% e al 67%, mentre scende al 50% per l'art. 602. Le assoluzioni rappresentano per tutte e tre le fattispecie di reato circa il 20% degli esiti delle sentenze, il resto è costituito dalle sentenze promiscue che prevedono cioè assoluzioni per alcuni imputati e condanne per altri. Una media di 67 fattispecie di reato inerenti la tratta di esseri umani finisce ogni anno in corte d'appello e circa 49 vengono definiti. Nel complesso, nel secondo grado di giudizio, la percentuale di condanne aumenta raggiungendo il 79% del totale delle sentenze.

 

 

Dall'indagine statistica emerge che la vittima tipica dello sfruttamento corrisponde al profilo di un/una giovane, di età media di 25 anni, nel 75,2% dei casi è di sesso femminile, di nazionalità estera, principalmente rumene (51,6%) e nigeriane (19%), in alcuni casi sposate (13,6%) o con figli (22,3%).

Il 15,7% delle vittime sono rappresentate da minorenni che giungono in Italia insieme o con il consenso dei genitori mentre il 21,4% sono uomini desiderosi di venire in Italia con la speranza di trovare un lavoro. Lo sfruttamento ha inizio appena giunti nel nostro paese perché quasi sempre la vittima decide volontariamente di partire, nell'84,5% dei casi per cercare lavoro mentre solo nel 4,4% perché costretta.

In genere, come si evince dalle dichiarazioni delle vittime, ci si rivolge ad un connazionale che già vive in Italia il quale poi mette in atto lo sfruttamento con l'inganno o la promessa di un lavoro, denaro o altri vantaggi – ciò avviene il 56,9% delle volte - con violenze e minacce rispettivamente il 39,8% e 31,4% delle volte. Ci sono inoltre vittime (l'11,7% del campione) sfruttate approfittando della loro inferiorità fisica o psichica e quindi costrette per il loro stato di handicap a sottostare alle condizioni si schiavitù dell'autore dello sfruttamento per poter vivere.

Nel caso delle donne, 3 volte su 4, una volta giunte in Italia, vengono costrette a prostituirsi subendo minacce e violenze fisiche e sessuali; nel caso degli uomini, invece, l'attività prevalente cui sono sottoposti è il lavoro in condizioni di schiavitù (48,3%) seguito dai furti (36,2%) e dall'accattonaggio (29,3%).

Un'altra tipologia di sfruttamento è poi quella che riguarda i bambini, anch'essi costretti di sovente a prostituirsi nel caso di ragazze adolescenti (68%) o impiegati per commettere furti nel caso dei maschi (46,1%). In genere i bambini, ma a volte anche donne e uomini adulti, finiscono in un campo nomadi dove vivono in condizioni di estrema indigenza e dove sono costretti a rubare o a mendicare per poi consegnare tutto il ricavato all'organizzazione. Sovente c'è anche un legame di parentela tra le persone che vivono nel campo nomadi per cui le attività illecite, anche se imposte, vengono vissute come una necessità per la sopravvivenza familiare. Le analogie tra la situazione delle vittime e quella degli organizzatori, che spesso partecipano alle attività criminose e vivono nelle stesse disagiate condizioni delle vittime, non sempre portano i giudici a condannarli per il reato di riduzione in schiavitù o tratta di persone.

Gli autori dei reati di riduzione in schiavitù, tratta di persone e alienazione e acquisto di schiavi hanno un'età media di 35 anni, 2 volte su 3 sono uomini, in gran parte stranieri (87,4%) tra cui il 45,2% è di nazionalità rumena, il 14,9% albanese e il 10,1% nigeriana.

Per quanto riguarda la correlazione statistica tra le diverse etnie e le tre distinte fattispecie di delitto, si segnala una propensione maggiore rispetto alla media di criminali bosniaci, italiani e serbi per il reato di riduzione in schiavitù, di nigeriani per la tratta di persone e di albanesi e nigeriani per il commercio di schiavi. A livello assoluto prevalgono imputati di nazionalità rumena per l'articolo 600 del codice penale e di nazionalità nigeriana per gli articoli 601 e 602. Queste fattispecie delittuose sono connesse con altri reati nell'83% degli autori, in quasi la metà dei casi con il favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione e in quasi un terzo con l'associazione a delinquere e con violazioni delle norme sull'immigrazione. Tutti crimini la cui percentuale di condanne risulta molto alta, rispettivamente 82,9%, 67,1% e 73,7%.

 

 

Considerando tutti i capi di imputazione relativi alla tratta di esseri umani (articoli 600, 601 e 602 cp) risulta una frequenza di condanna o patteggiamento pari al 59,6% (60,1% per l'art. 600, 58,1% per l'art. 601 e 59,3% per l'art.602) mentre i fascicoli con almeno una condanna per uno dei 3 capi di imputazione sono il 68,4%.

Nell'83% dei casi il reato di tratta è connesso con altri reati, tra i reati connessi la percentuale delle condanne è pari al 77%.

La pena media inflitta ai condannati per tratta, comprensiva anche di quella per reati connessi, è di 9 anni, in un terzo dei casi la penna comminata è compresa tra i 6 e i 9 anni.

La pena per il solo reato di tratta, per gli imputati che non hanno altri reati connessi, è di 5 anni e mezzo, nel 35% di questi è compresa tra i 3 e i 6 anni.

 


La lotta allo sfruttamento sessuale dei minori

Con l’emanazione del decreto legislativo n. 39 del 2014 si è dato attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2011/93/UE, in tema di lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile.

 

La direttiva 2011/93, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI. Essa si pone l’obiettivo di ravvicinare ulteriormente le legislazioni penali degli Stati membri in materia di abuso e sfruttamento sessuale dei minori, pornografia minorile e adescamento di minori per scopi sessuali, stabilendo norme minime relative alla definizione dei suddetti reati e delle relative sanzioni, nonché l’obiettivo di introdurre disposizioni intese a rafforzare la prevenzione di tali reati e la protezione delle vittime minorenni.

Dal momento che alcune vittime della tratta di esseri umani sono anche vittime minorenni di abusi sessuali o di sfruttamento sessuale, la direttiva va considerata complementare alla direttiva concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani (2011/36, il cui recepimento è realizzato dal decreto legislativo n. 24 del 2014).

La direttiva sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI (adottata il 22 dicembre 2003), attuata dall’Italia con la legge n. 36 del 2008, contenente disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet

Peraltro, successivamente, il nostro Parlamento ha anche approvato la legge n. 172 del 2012, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote), recante rilevanti disposizioni di adeguamento interno. A seguito di questi due recenti interventi, la legislazione italiana di contrasto della pedofilia e dello sfruttamento sessuale dei minori ha raggiunto un livello avanzato di tutela.

Dopo avere chiarito l oggetto dell’intervento normativo (articolo 1), la direttiva all’articolo 2 contiene le consuete definizioni, che non pongono problemi di adeguamento interno.

In particolare, la direttiva rimette agli Stati membri la individuazione dell’età del consenso sessuale, al di sotto della quale è vietato compiere atti sessuali con un minore. Si ricorda che il nostro codice penale individua nei 14 anni l’età al di sotto della quale gli atti sessuali con un minorenne sono considerati violenza sessuale (16 anni se il rapporto è con qualcuno legato al minore da vincoli di convivenza o di cura); il consenso sessuale è considerato prestato anche dal tredicenne se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni.

In particolare, quanto ai reati e alle relative pene, la direttiva definisce una ventina di fattispecie, suddivise in quattro categorie, ed impone agli Stati di prevedere pene detentive massime superiori a talune soglie (che vanno da uno a dieci anni in relazione alla gravità dei fatti e al fatto che il minore abbia raggiunto o meno l’età del consenso sessuale); impone poi agli Stati di attribuire rilevanza penale all’istigazione a commettere quei reati. Si tratta di:

- reati di abuso sessuale, come compiere attività sessuali con un minore che non ha raggiunto l’età del consenso sessuale o costringerlo a compiere tali attività con un’altra persona;

- reati di sfruttamento sessuale, come ad esempio costringere un minore a prostituirsi o a partecipare a spettacoli pornografici;

- reati di pornografia minorile: possedere, accedere, distribuire, fornire e produrre materiale pedopornografico;ƒ

- reati di adescamento di minori su internet per scopi sessuali: proporre su Internet un incontro con un minore con l’intento di commettere abusi sessuali o incoraggiarlo, con lo stesso mezzo, a fornire materiale pornografico che ritragga tale minore.

Per quanto concerne le attività sessuali consensuali, l’articolo 8 della direttiva lascia gli Stati membri liberi di decidere se certe pratiche siano o meno punibili quando coinvolgono persone vicine per età, grado di maturità fisica e psicologica e che possono essere considerate come la normale scoperta della sessualità.

La direttiva prevede diverse circostanze aggravanti, in particolare quando il reato è commesso nei confronti di un minore in situazione di particolare vulnerabilità o da un familiare del minore, o da una persona che ha abusato della sua posizione di fiducia o di autorità, o ancora quando l'autore è già stato condannato per reati della stessa indole (art. 9).

Dal punto di vista processuale-penale, la direttiva richiede che i minorenni coinvolti nei reati di sfruttamento sessuale e conseguentemente obbligati a compiere ulteriori attività criminali non siano perseguiti (articolo 14).

L’articolo 15 della direttiva richiede che le indagini e le azioni legali relative a questi reati non siano subordinate alla querela o alla denuncia formulate dalla vittima e afferma che il procedimento penale deve continuare, anche se la persona ha ritirato la sua dichiarazione. La stessa disposizione della direttiva richiede che, per i reati più gravi, l’azione penale possa essere consentita per un congruo periodo di tempo dopo che la vittima ha raggiunto la maggiore età.

Sul versante delle indagini, l’articolo 15 della direttiva richiede agli Stati di garantire anche alla repressione di questo tipo di criminalità strumenti investigativi efficaci, analoghi a quelli applicati per le indagini sulla criminalità organizzata.

 

L’articolo 17 della direttiva prevede inoltre che gli Stati debbano stabilire la propria giurisdizione per i reati di sfruttamento sessuale dei minori non solo quando il fatto è commesso sul proprio territorio, ma anche quando l’autore del reato è un loro cittadino, anche se il reato è commesso all’estero. Gli Stati possono inoltre affermare la propria giurisdizione anche quando i reati di sfruttamento sessuale dei minori sono commessi fuori del proprio territorio ma: in danno di un proprio cittadino o di un residente nel proprio territorio; a vantaggio di una persona giuridica che ha sede nel proprio territorio; da parte di colui che risiede abitualmente nel proprio territorio;       attraverso tecnologie di comunicazione alle quali l’autore del delitto ha avuto accesso dal proprio territorio.

Lo Stato membro non deve subordinare la propria giurisdizione né alla condizione che i fatti costituiscano reato nel Paese nel quale sono commessi, né alla eventuale condizione di procedibilità della querela della persona offesa.

Gli articoli 12 e 13 della Direttiva 2011/93/UE prevedono che gli Stati membri debbano assicurare che anche le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili e sanzionate qualora il reato di sfruttamento sessuale dei minori sia commesso per loro conto da una persona che eserciti potere decisionale.

La direttiva detta una particolare disciplina in relazione alle attività professionali a contatto con i minori. Per evitare il rischio di recidiva, gli autori di uno dei reati di sfruttamento sessuale dei minori previsto dalla direttiva dovrebbero essere interdetti dall’esercizio di attività professionali che comportano contatti regolari e diretti con minori (articolo 10, par. 1).

L’articolo 10 della direttiva prevede, inoltre, che i datori di lavoro hanno il diritto di essere informati dell’esistenza di una condanna o delle misure interdittive esistenti. Tali informazioni devono inoltre essere trasmesse agli altri Stati membri onde evitare che un pedofilo possa usufruire della libera circolazione dei lavoratori nell’UE per lavorare con minori in un altro paese.

Gli articoli 22 e 24 della direttiva prevedono programmi specifici per ridurre il rischio di recidiva che devono essere offerti alle persone condannate o perseguite per reati sessuali contro i minori nonché a coloro che ritengano di poter commettere i reati di sfruttamento sessuale dei minor. Tali persone devono inoltre essere valutate per determinare il pericolo che esse rappresentano e il rischio di recidiva.

In conformità con le disposizioni previste dalla direttiva relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, la Direttiva 2011/93/UE prevede che si debba assicurare un’assistenza e un sostegno alle vittime prima, durante e dopo il procedimento penale.

In relazione alla pornografia infantile su internet, l’articolo 25 della Direttiva stabilisce che gli Stati membri devono garantire la tempestiva rimozione delle pagine web che contengono o diffondono materiale pedopornografico ospitate nel loro territorio e adoperarsi per ottenere la rimozione di pagine ospitate al di fuori del loro territorio. In determinate condizioni di trasparenza e di informazione degli utenti internet, hanno altresì facoltà di bloccare l’accesso a tali siti.

 

Il decreto legislativo n. 39 del 2014, muovendo da un quadro normativo che, soprattutto a seguito della ratifica della Convenzione di Lanzarote, riconosce un elevato livello di tutela ai minori vittime di sfruttamento sessuale, può dare attuazione alla direttiva europea con pochi interventi riformatori.

In particolare, il decreto legislativo novella alcuni articoli del codice penale (artt. 602-ter, 609-ter, 609-quinquies e 609-undecies), prevedendo:

·           una serie di ulteriori circostanze che aggravano i delitti di pedopornografia (prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, pornografia virtuale). In particolare, con la modifica all’art. 602-ter c.p. si prevedono aggravanti quando il reato è commesso da più persone riunite; dal componente di un’associazione a delinquere e al fine di agevolarne l’attività; con violenze gravi o con grave pregiudizio del minore «a causa della reiterazione delle condotte». Inoltre, la riforma aggrava ulteriormente le pene per i reati di pedopornografia quando gli stessi siano commessi avvalendosi di tecnologie informatiche volte a impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche;

·           nuove aggravanti del delitto di violenza sessuale (art. 609-ter c.p.). Anche in questo caso il decreto legislativo recepisce l’articolo 9 della direttiva europea ed in particolare le circostanza previste dalle lettere d) (il reato è stato commesso nel contesto di un'organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata) e g) (il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave);

·           nuove aggravanti del delitto di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.). Analogamente a quanto previsto dalle disposizioni precedenti, il delitto è aggravato quando è commesso: da più persone riunite; da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività; con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

Il decreto legislativo introduce inoltre nel codice penale l’articolo 609-dundecies, volto ad aggravare le pene per i delitti di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo e adescamento di minorenne, quando i reati siano commessi con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche. La pena è aumentata in misura non eccedente la metà.

Con una modifica al Testo Unico in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (D.P.R. 313/2002), il decreto legislativo inserisce l’art. 25-bis, che disciplina il certificato penale del casellario giudiziale che può essere richiesto dal datore di lavoro. Il nuovo articolo 25-bis dispone infatti che il certificato penale debba essere chiesto da colui che intende impiegare una persona per «lo svolgimento di attività organizzate, professionali o volontarie, che comportino contatti diretti e regolari con minori», al fine di poter verificare l’esistenza di condanne per un delitto di pedopornografia e sfruttamento sessuale dei minori, ovvero l’applicazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti con i minori.

Inoltre, la riforma novella l’articolo 25-quinquies del decreto legislativo 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato, inserendo nel catalogo dei reati di sfruttamento sessuale dei quali è chiamato a rispondere l’ente anche l’art. 609-undecies c.p., Adescamento di minorenni.

Infine, il decreto legislativo n. 39 del 2014 introduce alcune modifiche al codice di procedura penale, prevedendo:

·      l’inserimento nel catalogo dei reati per i quali le l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione sono consentite anche l’adescamento di minorenne previsto dall’art. 609-undecies c.p.;

·      una modifica all’art. 62 c.p.p., in tema di divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato. Si tratta della disposizione che esclude che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini possano formare oggetto di testimonianza. Per prevenire la recidiva, la riforma aggiunge un ultimo comma ed esclude altresì che possano formare oggetto di testimonianza le dichiarazioni che l’imputato renda nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori. L’obiettivo è dunque quello di incentivare la partecipazione attiva al programma terapeutico.

 


I provvedimenti di riforma della giustizia minorile all’esame del Parlamento

Tanto sul versante della giustizia civile, quanto su quello dell’esecuzione penale, il Governo ha presentato alla Camera disegni di legge di riforma che riguardano specificamente i minori.

L’istituzione del tribunale della famiglia e della persona

In particolare, quanto alla giustizia civile, si ricorda che l’A.C. 2953 – in corso d’esame in Commissione giustizia alla Camera - delega il Governo all’adozione di disposizioni per l'efficienza del processo civile attraverso anche l’istituzione del tribunale della famiglia e della persona.

Si tratta in realtà di una Sezione specializzata per la famiglia, i minori e la persona con competenza su tutti gli affari relativi alla famiglia, anche non fondata sul matrimonio, e su tutti i procedimenti attualmente non rientranti nella competenza del Tribunale per i minorenni in materia civile. Si prevede l’impiego, all’interno delle sezioni specializzate, della professionalità di tecnici specializzati nelle materie minorili; analoga, prevalente specializzazione è richiesta ai magistrati del pubblico ministero che operano presso le sezioni. Il rito davanti a queste ultime è improntato, infine, a criteri di flessibilità e semplificazione.

 

L’articolo 1, comma 1, lettera b) del disegno di legge detta i principi e criteri direttivi di delega, volti alla istituzione di sezioni specializzate presso i tribunali, cui devolvere specifiche competenze in materia di famiglia e minori.

Il principio ispiratore della delega in esame consiste soprattutto nell’esigenza di razionalizzare il riparto di competenze tra tribunale dei minorenni e tribunale ordinario, riparto basato sul sistema dualistico previsto dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile.

 

Il vigente art. 38 disp. att. c.c. attribuisce alla competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti previsti dai seguenti articoli del codice civile:

      art. 84 (ammissione di minori al matrimonio);

      art. 90 (nomina del curatore speciale del minore per la stipula delle convenzioni matrimoniali);

      art. 330 (decadenza potestà genitoriale) e 332 (reintegrazione nella potestà);

      art. 333 (provvedimenti in casi di condotta pregiudizievole ai figli);

      art. 334 (rimozione dei genitori dall’amministrazione del patrimonio del minore) e 335 (riammissione all’amministrazione del patrimonio del minore)

      art. 371, ultimo comma (autorizzazione al tutore per la continuazione nell’esercizio dell’impresa).

Per i procedimenti di cui all'articolo 333 (adozione di provvedimenti in casi di condotta pregiudizievole ai figli) resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio (in tali casi è quindi competente il tribunale ordinario) o giudizio in materia di esercizio della potestà dei genitori ex articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.

Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti di cui:

      all’art. 251 (autorizzazione al riconoscimento di figlio nato da persone tra cui intercorre vincolo di parentela o affinità);

      all’art. 317-bis del codice civile (ricorsi relativi al diritto degli ascendenti di avere rapporti significativi coi nipote minore).

La competenza del tribunale ordinario è prevista in via residuale: sono, infatti, emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.

 

L’esigenza del riassetto delle competenze su famiglia e minori deriva in particolare dal nuovo assetto della giurisdizione in materia minorile conseguente alla legge di riforma della filiazione (L. 219 del 2012), che detta le disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali (alla legge ha fatto poi seguito il decreto attuativo, D.Lgs 154/2013).

Avendo la riforma comportato l'unificazione dello status di figlio, indipendentemente dalla sua nascita all’interno o fuori dal matrimonio, la competenza per i procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio è passata al tribunale ordinario, in quanto all'articolo 38 è stato soppresso – tra i procedimenti riservati alla competenza del giudice minorile – il riferimento agli articoli 316 e 317-bis del codice civile (norma, quest’ultima, che prima della riforma aveva ad oggetto l'esercizio della potestà dei genitori sul figlio naturale).

Il nuovo riparto di competenze tra tribunale dei minori e tribunale ordinario ha posto numerosi problemi interpretativi, il principale dei quali concerne l’avvenuta attrazione alla competenza al tribunale civile anche dei provvedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale (ex articolo 330 c.c.) che, secondo la dizione letterale dell’art. 38, dovrebbero essere di competenza del tribunale dei minorenni.

 

Un chiarimento sul punto è arrivato da Cassazione civile, VI sezione, Ordinanza 1-14 ottobre 2014 n. 21633, che ha ritenuto sussistente la competenza del giudice minorile quando si sia pronunciato de potestate “prima” dell’instaurazione del giudizio di separazione, negando quindi la vis attrattiva al tribunale ordinario dei provvedimenti successivi in materia. La Cassazione ha sottolineato come, nel caso di specie, ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, affermata a livello sia costituzionale che sovranazionale (art. 8 CEDU e art. 24 della Carta dei Diritti dell'Unione), impediscano qualsiasi interpretazione della disposizione dell'art. 38 tesa a vanificare il percorso processuale già svolto a seguito di una domanda introdotta ex art. 333 c.c. davanti al Tribunale per i Minorenni prima della proposizione del giudizio di separazione e di divorzio; altrimenti opinando, ha sostenuto la Cassazione., sarebbe possibile utilizzare strumentalmente il processo al fine di spostare la competenza dall'uno all'altro giudice.

La Cassazione ha poi rilevato che il testo legislativo non fosse univoco nel limitare l'applicazione dell'art. 38, primo comma, alla sola ipotesi del procedimento di cui all'art. 333 c.c. perché in quella stessa disposizione il legislatore richiama “anche i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo”. La Cassazione intende tale inciso come richiamo ai provvedimenti di cui agli artt. 84, 90, 330, 332, 334, 335 e 371, stabilendo che “per tutta la durata del processo” la competenza spetti al giudice ordinario. L’effetto attrattivo opera quindi non solo relativamente alla proposizione di un ricorso ex art. 333 c.c. ma anche in tutti i casi in cui, pendente un giudizio di separazione o di divorzio ex art. 316 c.c. introdotto “successivamente” al ricorso de potestate, si renda necessaria la pronuncia degli altri provvedimenti nell’interesse del minore previsti dalle norme innanzi indicate.

 

L’obiettivo di razionalizzazione delle competenze in materia è perseguito dalla delega in esame attribuendo alle nuove sezioni specializzate tutte le competenze che la legge di riforma della filiazione già attribuisce al tribunale ordinario e lasciando al tribunale per i minorenni, oltre alle competenze penali, tutte le competenze civili che attengano al pregiudizio per il minore in considerazione della particolare specializzazione e della consolidata competenza maturata dai tribunali per i minorenni in questa materia.

 

Viene segnalato dalla relazione al d.d.l. come tale impostazione differisca dall’originaria versione dello schema di delega legislativa elaborato dalla commissione Berruti, in quanto quest’ultima avrebbe determinato un pesante svuotamento delle competenze dei tribunali per i minorenni, atteso che questi sarebbero stati destinati alla sola trattazione dei procedimenti penali a carico di imputati minorenni e dei procedimenti di adozione, al netto delle dichiarazioni di adottabilità, di cui si prevedeva il trasferimento alle sezioni specializzate.

Inoltre, lasciare ai tribunali per i minorenni le sole competenze penali determinerebbe – prosegue la relazione – “un'inefficiente utilizzazione delle risorse materiali e umane, in quanto costringerebbe al mantenimento di un numero elevato di magistrati (stante il regime delle incompatibilità dei processi penali), con la relativa dotazione delle cancellerie, per far fronte a modesti carichi”. Infine, tale soluzione, oltre ad una evidente disparità di carichi di lavoro “avrebbe provocato la congestione delle sezioni specializzate, con il conseguente allungamento dei tempi di definizione di procedure urgenti”.

Sulla base dei principi di delega, alle nuove sezioni specializzate per la famiglia e la persona da istituire presso i tribunali ordinari (n. 1) verrebbe assegnata la competenza (n. 2):

·      sulle controversie attualmente di competenza del tribunale ordinario relative a stato e capacità delle persone, separazioni e divorzi, rapporti di famiglia e minori, procedimenti relativi a figli nati fuori dal matrimonio (n. 2.1);

·      sui provvedimenti del giudice tutelare in materia di minori ed incapaci (n. 2.2);

 

Il giudice tutelare è il giudice del tribunale a cui sono affidate diverse e importanti funzioni in materia di tutela delle persone, particolarmente i soggetti più deboli come i minori e gli incapaci, con riguardo agli aspetti sia patrimoniali che non patrimoniali

Il Giudice tutelare sovrintende alla maggior parte di quelle attività definite di "volontaria giurisdizione", ossia caratterizzate dal fatto che non vi sono due o più parti contrapposte, portatrici di interessi in conflitto, ma soltanto delle persone incapaci, o non del tutto capaci, di provvedere da sole ai propri interessi, a cui favore è previsto l'intervento di un giudice con funzioni di tutela e di garanzia su richiesta di parenti o soggetti che agiscono con la stessa finalità di protezione.

Nell'ambito delle sue attribuzioni principali il giudice tutelare:

·       autorizza i genitori a compiere di atti di straordinaria amministrazione relativi al patrimonio dei figli minori);

·       nomina il curatore speciale ai figli minori in caso di conflitto di interessi con i genitori;

·       nomina l'amministratore di sostegno e vigila sul suo operato (per maggiori informazioni vedi scheda "Amministrazione di sostegno");

·       nomina il tutore e il curatore e vigila sul loro operato;

·       vigila sull'osservanza delle condizioni stabilite dal Tribunale per l'esercizio della potestà genitoriale e per l'amministrazione dei beni del minore;

·       adotta, su proposta del tutore, i provvedimenti circa l'educazione del minore sottoposto a tutela e l'amministrazione dei suoi beni;

·       autorizza l'interruzione volontaria della gravidanza di minorenne (art. 12 L. n. 194/1978);

·       emette il decreto di esecutività del provvedimento di affidamento familiare di minore, disposto dal servizio sociale (art. 4 L. n. 184/1983);

·       vigila per riconoscere se la causa dell'interdizione o dell'inabilitazione continui. Se ritiene che sia venuta meno, deve informarne il pubblico ministero;

·       autorizza il rilascio di documento valido per l'espatrio al minore quando manchi l'assenso di uno degli esercenti la potestà, ovvero al genitore di figli minori che non abbia ottenuto l'assenso dell'altro genitore (per maggiori informazioni vedi scheda "Autorizzazione al rilascio di passaporto");

·       convalida il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio adottato dal Sindaco (per maggiori informazioni vedi scheda "Opposizione al trattamento sanitario obbligatorio".

Nell'esercizio dei compiti di tutela delle persone minori o incapaci, il giudice tutelare può, in qualsiasi momento, convocare il tutore, il curatore o l'amministratore di sostegno per chiedere informazioni, chiarimenti e notizie, e per dare istruzioni per la migliore realizzazione degli interessi morali e patrimoniali della persona tutelata.

 

·      su controversie relative al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione internazionale (n. 2.3); tuttavia, se si tratta di minori la competenza è del tribunale dei minorenni (v. ultra).

 

Il riconoscimento dello status di rifugiato è entrato nel nostro ordinamento con l’adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (ratificata con la legge 722/1954) ed è regolato essenzialmente da fonti europee. Successivamente, la normativa UE ha introdotto l’istituto della protezione internazionale, che comprende due distinte categorie giuridiche: i rifugiati, disciplinati dalla Convenzione di Ginevra, e le persone ammissibili alla protezione sussidiaria, di cui possono beneficiare i cittadini stranieri privi dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ossia che non sono in grado di dimostrare di essere oggetto di specifici atti di persecuzione, ma che, tuttavia, se ritornassero nel Paese di origine, correrebbero il rischio effettivo di subire un grave danno e che non possono o (proprio a cagione di tale rischio) non vogliono avvalersi della protezione del Paese di origine. Una ulteriore fattispecie è la protezione temporanea che può essere concessa in caso di afflusso massiccio di sfollati.

Il d.lgs. 25/2008, di attuazione della direttiva 2005/85/CE, prevede che avverso la decisione delle Commissioni territoriali (istituite presso le Prefetture) e della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria è ammesso ricorso dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria, individuato nel tribunale del distretto di corte d’appello.

 

·      su tutte le controversie, attualmente non rientranti nella competenza del tribunale dei minorenni ai sensi dell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile anche eliminando il riferimento ai provvedimenti previsti dal primo periodo del primo comma dello stesso art. 38; è fatta salva la competenza del tribunale dei minorenni sui procedimenti relativi a minori stranieri non accompagnati e a quelli richiedenti protezione internazionale; il rito andrà disciplinato con modalità semplificate (n. 2.4).

 

Del problema della frammentazione delle competenze civili in materia di famiglia e minori si è più volte occupato il Parlamento, senza peraltro giungere all’approvazione di un testo di riforma.

Nell’attuale legislatura, sempre al Senato, sono all’esame della Commissione Giustizia, dal giugno 2013, tre disegni di legge di iniziativa parlamentare:

il d.d.l. S. 194 (Alberti Casellati ed altri) Delega al Governo per l'istituzione presso i tribunali e le corti d'appello delle sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia, che ripropone sostanzialmente il disegno di legge S. 3323 della XVI legislatura, che la Commissione adottò a suo tempo come testo base per la prosecuzione dell’esame. In particolare, il provvedimento, tra i criteri direttivi della delega sulla competenza per materia, stabilisce che alle nuove sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia siano trasferite le competenze giurisdizionali civili e le competenze amministrative in materia di famiglia, minori, stato e capacità della persona, attualmente attribuite al tribunale dei minorenni, al giudice ordinario e ai tribunali ordinari. Resterebbero, quindi, ai tribunali dei minorenni le competenze in materia penale.

il d.d.l. S. 595 (Cardiello ed altri) che - riproponendo anch’esso il provvedimento a sua firma della scorsa legislatura - prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni, nonché l’istituzione di sezioni specializzate per la famiglia e per i minori presso i tribunali e le corti d'appello, nonché di uffici specializzati della procura della Repubblica presso i tribunali medesimi. Il provvedimento ha nell'articolo 2 una delle norme di maggior rilievo, giacché dispone che le competenze proprie del pubblico ministero nella materia di competenza delle sezioni specializzate siano esercitate da magistrati assegnati in via esclusiva alle sezioni costituite presso la procura della Repubblica.

il d.d.l. S. 1238 (Lumia ed altri) – congiunto nella seduta del 24 marzo 2015 - volto ad abolire il tribunale dei minorenni e ad istituire il “tribunale della persona”, un giudice unico specializzato per la persona e le relazioni familiari ed a porre criteri di delega per l'organizzazione dei relativi uffici.

 

La delega per la riforma dell’esecuzione penale minorile

La Camera dei deputati ha approvato, con modifiche, il disegno di legge del Governo di riforma del processo penale (AC. 2798), per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi. Il provvedimento, che è ora all'esame del Senato (AS. 2067), è composto da 35 articoli, attraverso i quali vengono modificate alcune disposizioni dei codici - penale e di procedura penale - e delle norme di attuazione, e viene delegato il Governo a una riforma del processo penale e dell'ordinamento penitenziario.

In particolare, e rinviando al dossier del Servizio studi del Senato per una descrizione più analitica, il disegno di legge delega il Governo all'adeguamento delle norme dell'ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età, con riferimento tanto alle autorità giurisdizionali coinvolte, quanto all'organizzazione degli istituti per i minorenni, passando per la revisione delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari, con particolare attenzione all'istruzione ed ai contatti con la società esterna, in funzione di reinserimento sociale.

 


Lavoro minorile e apprendistato

La tutela dei soggetti in età evolutiva nel mercato del lavoro si concretizza attraverso diversi strumenti volti a favorire in particolar modo, da un lato, l’inserimento del minore nel mondo del lavoro (apprendistato, politiche attive per i NEET), anche attraverso la previsione di un’apposita disciplina diretta alla tutela della sua salute (tutela del lavoro minorile) e, dall’altro, la genitorialità, attraverso la previsione di strumenti e norme atte a migliorare, in particolare modo, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

I dati del fenomeno

Il lavoro minorile è un fenomeno particolarmente complesso, che attraversa diverse realtà, quali l’istruzione, la salute, il mercato del lavoro, la sicurezza sociale, la distribuzione del reddito e la povertà economica e culturale dei territori e delle famiglie di appartenenza. Da tale complessità derivano le difficoltà nel monitorare tale realtà, come testimonia la quasi totale assenza di dati a livello europeo (come evidenziato dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks nel “Human Rights Comment” del 20 agosto 2013). Per quanto riguarda l’Italia, dati significativi emergono da uno studio pubblicato nel settembre 2014 (Game Over. Indagine sul lavoro minorile in Italia) dall’associazione Save the children Italia e dall’Associazione B. Trentin.

Secondo i dati riportati nello studio, sono circa 340.000 i minori tra i 7 e i 15 anni coinvolti in lavoro minorile nel nostro paese. Inoltre, analizzando le esperienze di lavoro svolte dai 14-15enni, si rileva che più di 2 su 3, ossia il 68% sono maschi e circa il 7% è un minore straniero. Peraltro, l’11% dei 14-15enni che lavorano (ossia circa 28.000 minori), sono coinvolti in attività lavorative definibili “a rischio di sfruttamento”, perlopiù in attività svolte in famiglia (44,9%). Tuttavia, in ambienti esterni, il rischio di sfruttamento è legato a lavori nel settore della ristorazione (43%), dell’artigianato (20%) e lavoro in campagna (20%). Tuttavia, la situazione potrebbe variare se si considerano alcuni gruppi specifici di minori, particolarmente vulnerabili. Infatti, in un’ulteriore indagine (Lavori Ingiusti. Indagine sul lavoro minorile e il circuito della giustizia penale[9]; realizzata da Save the Children in collaborazione con il Ministero della Giustizia) che ha coinvolto i minori all’interno del circuito della giustizia minorile, si rileva che il prestare il proprio lavoro fuori della cerchia familiare differenzia questi ragazzi e ragazze rispetto al più ampio universo dei minori lavoratori e rappresenta un rilevante fattore di rischio sfruttamento. Da quanto emerso dalla ricerca, i minori hanno lavorato prevalentemente nei seguenti settori: ristorazione (21%, bar, ristoranti, alberghi, pasticcerie, panifici), vendita (17%, negozi, mercati generali, vendita ambulante), edilizia (11%, manovali, imbianchini, carpentieri), agricoltura e allevamento (10%, coltivazione e raccolta e allevamento e maneggio degli animali). Il 71% dei ragazzi dichiara di aver lavorato quasi tutti i giorni e il 43% per più di 7 ore di seguito al giorno; mentre il 52% ha dichiarato di lavorare di sera o di notte.

Più del 60% degli intervistati ha svolto attività di lavoro tra i 14 e i 15 anni. Tuttavia, oltre il 40% ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei 13 anni e circa l’11% ha svolto delle attività persino prima degli 11 anni. Nel 73% dei casi sono giovani italiani mentre il 27% è costituito per lo più da ragazzi di origine straniera (in genere Romania, Albania, Africa del nord). Inoltre, la maggior parte dei minori afferma di avere iniziato le proprie azioni illecite tra i 12 e i 15 anni, parallelamente all’acutizzarsi di problemi a scuola, culminati spesso in bocciature e abbandoni. Per quanto riguarda i reati commessi, si tratta per lo più di reati contro il patrimonio (54,5%, per esempio furto e rapina), seguono quelli contro la persona (12,7%, per esempio lesioni volontarie), contro l’incolumità (9%) e le istituzioni (6% ).

Quadro normativo

Il nostro ordinamento giuridico si è dotato di idonei strumenti normativi in materia di tutela dei diritti dell'infanzia, tra cui va annoverato il diritto del minore ad essere protetto contro lo sfruttamento economico ed ogni forma di lavoro pregiudizievole per la sua educazione, la sua salute e il suo sviluppo psico-fisico, come previsto dell'articolo 32 della convenzione Onu sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176.

Con legge del 25 maggio 2000, n. 148 è stata ratificata la convenzione Oil n. 182 relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile e all'azione immediata per la loro eliminazione, nonché la Raccomandazione n. 190 sullo stesso argomento, adottate dalla Conferenza generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro durante la sua ottantesima sessione tenutasi a Ginevra il 17 giugno 1999.

L’articolo 37 della Costituzione rimette alla legge il compito di stabilire “il limite minimo d età per il lavoro salariato”. Prevede, poi, che “La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione”.

In attuazione della previsione costituzionale, la tutela del lavoro minorile è disciplinata dalla legge 17 ottobre 1967, n. 977, che individua due categorie di minori: il minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all'obbligo scolastico e l'adolescente; il minore di età compresa tra i 15 e i 18 che non è più soggetto al suddetto obbligo. La legge, pertanto, stabilisce l'età minima di ammissione al lavoro, fissandola «al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non inferiore ai quindici anni compiuti» (articolo 3).

Anche nella Legislatura in corso sono presenti vari interventi legislativi in materia.

Per quanto riguarda, in particolare, il lavoro degli studenti, si segnala l’articolo 8-bis, comma 2, del D.L. 104/2013, che al fine di sostenere la diffusione dell'apprendistato di alta formazione nei percorsi degli Istituti tecnici superiori (ITS), ha disposto l’avvio (con specifico decreto interministeriale) di un programma sperimentale (per il triennio 2014-2016) per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di secondo grado. Il programma contempla la stipulazione di contratti di apprendistato, con oneri a carico delle imprese interessate e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Spetta al decreto definire la tipologia delle imprese che possono partecipare al programma, i loro requisiti, il contenuto delle convenzioni che devono essere concluse tra le istituzioni scolastiche e le imprese, i diritti degli studenti coinvolti, il numero minimo delle ore di didattica curriculare e i criteri per il riconoscimento dei crediti formativi. Successivamente, l’articolo 2, comma 2-bis, del D.L. 34/2014 (decreto Poletti), ha integrato tale disciplina, disponendo che, ai fini del richiamato programma sperimentale, i contratti di apprendistato possano essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti dall'articolo 5 del D.Lgs. 167/2011 (età compresa tra i 18 e i 29 anni per l’apprendistato di alta formazione e ricerca), con particolare riguardo agli studenti degli istituti professionali.

 

Inoltre, in sostanziale continuità con gli interventi effettuati nella XVI Legislatura, il legislatore è intervenuto in materia di apprendistato.

In primo luogo, con il D.L. 76/2013, è stata prevista (articolo 2, commi 2 e 3) l'adozione, in sede di Conferenza stato-Regioni, di linee guida volte a disciplinare il contratto di apprendistato professionalizzante, anche in vista di una disciplina maggiormente uniforme sull'intero territorio nazionale dell'offerta formativa pubblica (in aggiunta a quella posta in essere dalle imprese). La Conferenza Stato-Regioni ha adottato le linee guida (che disciplinano l'offerta formativa pubblica per l'acquisizione di competenze di base e trasversali in termini di durata, contenuti e modalità di realizzazione) il 20 febbraio 2014.

 

Successivamente, l'articolo 2 del D.L. 34/2014 ha semplificato la disciplina del contratto, modificando in più parti il D.Lgs. 167/2011 e la L. 92/2012, prevedendo, in primo luogo, modalità semplificate di redazione del piano formativo individuale, sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva. o dagli enti bilaterali. Per quanto concerne, in particolare, la stabilizzazione degli apprendisti (ossia la loro assunzione con contratto a tempo indeterminato a conclusione del periodo di apprendistato), il D.L. 34/2014 ha ridotto gli obblighi previsti dalla legislazione previgente ai fini di nuove assunzioni in apprendistato, da un lato circoscrivendo l'applicazione della norma alle sole imprese con più di 50 dipendenti, dall'altro riducendo al 20% la percentuale di stabilizzazione. Inoltre, viene consentito, per le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, che i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedano specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali.

Per quanto concerne la semplificazione dei profili formativi, si prevede che la Regione provveda a comunicare al datore di lavoro, entro 45 giorni dalla comunicazione dell'instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell'offerta formativa pubblica, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili, ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014.

Per quanto attiene, infine, alla retribuzione dell'apprendista, fatta salva l'autonomia della contrattazione collettiva, è stato disposto che, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, si debba tener conto delle ore di formazione almeno in misura del 35% del relativo monte ore complessivo.

 

Da ultimo, in attuazione della delega di cui alla L. 183/2014 (cd. jobs act) è stato emanato il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il quale ha introdotto importanti novità anche in materia di apprendistato. In primo luogo, è stato abrogato il D.Lgs. 167/2011 e l'intera disciplina è confluita negli articoli 41-47 del medesimo D.Lgs. 81/2015. Tra le più importanti modifiche apportate, si segnala in primo luogo la struttura integrata dell'apprendistato di cd. primo e terzo livello (rispettivamente apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale e apprendistato di alta formazione) al fine di creare un sistema duale di formazione e lavoro, attraverso un significativo potenziamento delle finalità della prima fattispecie e una delimitazione di quelle della seconda, che si conferma destinata alla formazione universitaria.

Inoltre, la struttura complessiva dell'istituto, che in larga parte ricalca quanto previsto dal D.Lgs. 167/2011, prevede alcune significative novità (rispetto alla materia in oggetto si segnala il piano formativo che nell'apprendistato di primo e terzo livello spetta all'istituzione formativa con il coinvolgimento dell'impresa).

Altra sostanziale modifica concerne la regolamentazione degli standard professionali e formativi e della certificazione delle competenze, la quale demanda la definizione dei richiamati standard ad un apposito decreto ministeriale.

 


Conciliazione vita-lavoro

Nell'attuale legislatura, le politiche dirette a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro – in grado di consentire alla lavoratrice e al lavoratore di adempiere alla loro funzione familiare, con conseguente maggior cura del minore - sono riconducibili in particolare a quanto previsto da uno dei decreti legislativi attuativi del Jobs act (D.Lgs. n.80/2015) e dalla legge delega di riforma della P.A. (L. 124/2015).

Quadro normativo

D.Lgs. 80/2015

Il decreto contiene misure dirette, in particolare, alla tutela della maternità e a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali.

Di seguito, le principali novità introdotte:

§  il congedo di maternità (obbligatorio e retribuito della durata complessiva di cinque mesi):

-     in caso di parto anticipato i giorni di maternità obbligatoria e non goduti prima del parto possono essere aggiunti a quelli successivi alla nascita, anche se si supera il previsto limite di 5 mesi;

-     in caso di ricovero del neonato si può chiedere la sospensione del congedo (una sola volta per ogni figlio) e goderne dalla data di dimissioni del neonato;

§  il congedo di paternità (ossia il diritto del padre lavoratore di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre, o di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre) è riconosciuto anche se la madre è una lavoratrice autonoma e, in caso di adozione internazionale, il congedo previsto per la lavoratrice per il periodo di permanenza all'estero può essere utilizzato dal padre anche se la madre non è una lavoratrice;

§  il congedo parentale (astensione facoltativa dal lavoro della lavoratrice o del lavoratore per un limite complessivo massimo di 10 mesi) viene esteso dall'ottavo al dodicesimo anno di vita del bambino e la fruizione può essere anche su base oraria. Lo stesso termine si applica anche in caso di adozione e affidamento e di prolungamento del congedo parentale (per un periodo massimo non superiore a tre anni), in presenza di figlio minore portatore di handicap. L’indennizzo (nella misura del 30% per un periodo massimo complessivo di 6 mesi) viene esteso dal terzo al sesto anno di vita del bambino.

§  l’indennità di maternità (pari all’80% della retribuzione) viene corrisposta:

-     anche nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa, derivante da colpa grave della lavoratrice, che si verifichi durante i periodi di congedo di maternità[10];

-     alle lavoratrici iscritte alla Gestione separata INPS anche nel caso di mancato versamento dei contributi da parte del committente e, in caso di adozione o affidamento, per i 5 mesi successivi dall’ingresso del minore in famiglia

-     alle lavoratrici autonome anche nel caso di adozione o affidamento, alle stesse condizioni previste per le altre lavoratrici;

§  tra le lavoratrici che non possono essere obbligate a svolgere lavoro notturno, viene inserita anche la lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore, nei primi tre anni dall'ingresso del minore in famiglia, e comunque non oltre il dodicesimo anno di età (o, in alternativa ed alle stesse condizioni, il lavoratore padre adottivo o affidatario convivente con la stessa)[11];

§  in via sperimentale, per il triennio 2016-2018, si prevede che il 10% del Fondo per la contrattazione di secondo livello sia destinato alla promozione della conciliazione tra lavoro e vita privata.

§  il congedo per le donne vittime di violenza di genere, riconosciuto alle lavoratrici dipendenti, pubbliche e private (con esclusione del lavoro domestico) e alle lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, inserite in percorsi certificati di protezione relativi alla violenza di genere, le quali possono astenersi dal lavoro, per motivi legati al suddetto percorso, per un periodo massimo di tre mesi.

 

Legge di riforma della P.A.

Anche la legge delega di Riforma della P.A. (L. 124/2015) ha introdotto alcune disposizioni volte a favorire la conciliazione tra vita e lavoro.

In particolare, in tema di passaggio di personale tra amministrazioni diverse, dispone:

§  che il genitore, dipendente di amministrazioni pubbliche, con figli minori fino a tre anni di età può chiedere di essere assegnato (per un periodo non superiore a tre anni, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione) ad una sede presente nella stessa provincia o regione nella quale lavora l'altro genitore. L'eventuale dissenso deve essere motivato.

In tema di cure parentali, dispone che le amministrazioni pubbliche:

§  adottino misure organizzative per l'attuazione del telelavoro e di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, anche al fine di tutelare le cure parentali;

§  stipulino convenzioni con asili nido e scuole dell'infanzia e organizzano, anche attraverso accordi con altre amministrazioni pubbliche, servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica

Per completezza, si segnala che la citata legge delega di riforma della P.A. dispone che la dipendente vittima di violenza di genere, inserita in specifici percorsi di protezione debitamente certificati, può chiedere il trasferimento ad altra amministrazione pubblica presente in un comune diverso da quello di residenza, previa comunicazione all’amministrazione di appartenenza che, entro quindici giorni, dispone il trasferimento presso l’amministrazione indicata dalla dipendente, ove vi siano posti vacanti corrispondenti alla sua qualifica professionale.

Permessi per figli disabili

Prolungamento del congedo parentale

Per ogni minore con handicap in situazione di gravità accertata la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi o affidatari, hanno diritto, entro il compimento del dodicesimo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo non superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore (art. 33 del D.Lgs. 151/2001). Il congedo spetta al genitore richiedente anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto. Si precisa che il prolungamento decorre dal termine del periodo corrispondente alla durata massima del congedo parentale (spettante al richiedente ai sensi dell'art. 32, D.Lgs. 151/2001).

Permessi orari e mensili retribuiti

In alternativa al prolungamento del congedo parentale, i genitori lavoratori di minori con handicap grave possono usufruire di due ore di riposo giornaliero retribuito o di tre giorni di permesso mensile (art. 42, c. 1 e 2, del D.Lgs. 151/2001).

Quindi, i genitori, anche adottivi, possono fruire:

§  se con bambini fino a 3 anni, in alternativa, dei tre giorni di permesso (ex art. 33, c. 3, L. 104/1992), o delle ore di riposo giornaliero, o del prolungamento del congedo parentale;

§  se con bambini oltre i 3 anni e fino a 12 anni, in alternativa, dei tre giorni di permesso o del prolungamento del congedo parentale;

§  se con figli oltre i 12 anni, dei tre giorni di permesso mensile.

I provvedimenti all’esame del Parlamento

La proposta di legge C. 2014 (Mosca ed altri), di cui la XI Commissione (Lavoro) della Camera ha avviato l’esame il 4 novembre 2015, detta norme per promuovere forme di lavoro caratterizzate da una elevata flessibilità, soprattutto con riferimento all'orario e alla sede di lavoro (cd. smart working), allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

 


I minori stranieri non accompagnati

Quadro normativo

Nel nostro ordinamento le disposizioni in materia di minori stranieri non accompagnati sono contenute principalmente negli articoli 32 e 33 del Testo unico in materia di immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998), nonché nel relativo Regolamento di attuazione (D.P.R. n. 394/1999) e nel D.P.C.M. n. 535 del 1999.

Specifiche disposizioni sull’accoglienza dei minori non accompagnati sono contenute nel D.Lgs. n. 142/2015, con cui nel corso dell’attuale legislatura è stata recepita la direttiva 2013/33/UE relativa all’accoglienza dei richiedenti asilo (c.d. direttiva accoglienza). Con riferimento particolare ai minori non accompagnati “richiedenti protezione internazionale”, oltre al menzionato decreto, si applicano alcune disposizioni del D.Lgs. 25 del 2008 sulle procedure per la domanda di protezione internazionale (art. 19; art. 6, co. 2 e 3; art. 26, co. 5 e 6), e del D.Lgs. 251/2007 (art. 28).

 

Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno trattato, secondo i dati forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel report bimestrale, i minori non accompagnati non richiedenti asilo segnalati in Italia al 30 novembre 2015 sono 10.952, di cui 5.902 irreperibili[12].

L'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) promuove ogni due anni un'indagine nazionale che coinvolge tutti i Comuni italiani ai quali spetta la tutela e l'accoglienza dei minori non accompagnati presenti nel territorio. Gli ultimi dati sono disponibili nel V Rapporto Anci-Cittalia sui minori stranieri non accompagnati in Italia (2014), che contiene i dati relativi al fenomeno e alle politiche attivate nel biennio 2011-2012.

 

Status giuridico

La definizione di “minori non accompagnati” comunemente utilizzata è quella specificata nell’articolo 2 della Direttiva Europea 2001/55/CE: “i cittadini di paesi terzi o gli apolidi di età inferiore ai diciotto anni che entrano nel territorio degli Stati membri senza essere accompagnati da una persona adulta responsabile per essi in base alla legge o agli usi, finché non ne assuma effettivamente la custodia una persona per essi responsabile, ovvero i minori che sono lasciati senza accompagnamento una volta entrati nel territorio degli Stati membri”.

In ambito nazionale, riprendendo sostanzialmente le indicazioni europee, la definizione è ora contenuta nell'art. 2, co. 1, del D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, secondo cui il minore non accompagnato è lo straniero (cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea e apolide), di età inferiore ai diciotto, che si trova, per qualsiasi causa, nel territorio nazionale, privo di assistenza e rappresentanza legale.

 

Fino all’adozione del nuovo decreto accoglienza, vi erano norme separate e distinte, in base alle quali, da un lato, ai sensi dell'art. 1, co. 2, del D.P.C.M. 9 dicembre 1999, n. 535, il minore straniero non accompagnato presente nel territorio dello Stato è quel minore non avente cittadinanza italiana o di altro Paese dell’Unione Europea e che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova in Italia privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano.

Dall’altro, i minori c.d. "richiedenti asilo" erano definiti dall'articolo 28 del D.Lgs. 251/2007 come gli stranieri di età inferiore a 18 anni che si trovano per qualsiasi motivo sul territorio nazionale, privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per essi legalmente responsabili, che richiedono il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.

 

Al minorenne straniero (accompagnato o meno) che entra in Italia, anche se in modo illegale, sono riconosciuti tutti i diritti garantiti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, la quale afferma, tra i suoi principi, che in tutte le decisioni relative al minore deve essere considerato prioritariamente “il superiore interesse” del ragazzo.

 

A prescindere dalla regolarità del soggiorno è garantita "la tutela della salute del minore" (art. 35, co. 3, lett. b), TU immigrazione) e i minori presenti sul territorio "sono soggetti all'obbligo scolastico; ad essi si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica" (art. 38, co. 1, TU immigrazione).

 

 

Alla tutela dell’effettivo esercizio di tali diritti era inizialmente preposto il Comitato per i minori stranieri, organismo statale operante presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali istituito ai sensi dell'art. 33 del D.Lgs. 286/1998 e disciplinato dal D.P.C.M. n. 535 del 1999. Tale Comitato è stato successivamente soppresso in attuazione dell'art. 12, co. 20, del D.L. 95/2012 (conv. da L. 135/2012), che ha disposto la razionalizzazione degli organismi collegiali delle p.a., ed i suoi compiti sono stati trasferiti alla Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (d'ora in poi, Direzione generale).

Le principali attività svolte sono:

·      accertamento dello status del minore non accompagnato;

·      compiti di impulso e di ricerca al fine di promuovere l'individuazione dei familiari dei minori;

·      decisione in merito al provvedimento di rimpatrio assistito;

·      censimento dei minori presenti non accompagnati.

 

L’articolo 19 del D.lgs. 142/2015 stabilisce che l’autorità di pubblica sicurezza dà immediata comunicazione della presenza del minore non accompagnato al Ministero del lavoro e delle politiche sociali al fine di assicurare il censimento e il monitoraggio della presenza dei minori non accompagnati nel territorio nazionale.

 

Le misure di accoglienza

Il nuovo decreto accoglienza (art. 19, D.Lgs. n. 142/2015) detta alcune disposizioni specificamente destinate ai minori non accompagnati, recependo le previsioni dell’articolo 24 della direttiva 2013/33/UE, con l’obiettivo di rafforzare complessivamente gli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento secondo le indicazioni emerse nell’Intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 10 luglio 2014 sul piano nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari.

In particolare, la nuova disciplina distingue tra prima e seconda accoglienza. E stabilisce il principio in base al quale il minore non accompagnato non può in nessun caso essere trattenuto presso i centri di identificazione ed espulsione e i centri governativi di prima accoglienza (in prima battuta, gli attuali CARA).

L’accoglienza ad hoc dei minori si fonda innanzitutto sull’istituzione di strutture governative di prima accoglienza per le esigenze di soccorso e di protezione immediata di tutti i minori non accompagnati.

 

Tali strutture sono istituite con decreto del Ministro dell’interno, sentita la Conferenza unificata e sono gestite dal medesimo Ministero, anche in convenzione con gli enti locali. Sarà un decreto del Ministro dell’interno, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze per i profili finanziari, a stabilire le modalità di accoglienza, gli standard strutturali e i servizi da erogare, in modo da assicurare un’accoglienza adeguata alla minore età.

 

Nelle strutture di prima accoglienza i minori sono accolti per il tempo strettamente necessario alla identificazione e all’eventuale accertamento dell’età, nonché a ricevere tutte le informazioni sui diritti del minore, compreso quello di chiedere la protezione internazionale. In ogni caso, i minori restano in tali strutture non oltre sessanta giorni. All’interno delle strutture è garantito un colloquio con uno psicologo dell’età evolutiva, accompagnato se necessario da un mediatore culturale.

 

Per la prosecuzione dell’accoglienza del minore, il decreto conferma quanto già stabilito dalla normativa previgente, distinguendo in relazione alla domanda di protezione internazionale.

Infatti, i minori non accompagnati richiedenti protezione internazionale hanno accesso alle misure di accoglienza predisposte dagli enti locali nell’ambito dello Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati - SPRAR.

Per i minori non accompagnati non richiedenti protezione internazionale è prevista la possibilità di accedere ai servizi di accoglienza finanziati con il Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo di cui all’art. 1-septies del D.L. n. 416/1989 (conv. L. n. 39/1990, c.d. legge Martelli), nei limiti dei posti e delle risorse disponibili, possibilità introdotta con la legge di stabilità 2015 (art. 1, comma 183, L. 190/2014) e confermata dal c.d. decreto accoglienza (art. 19, co. 2, D.Lgs. 142/2015). A tal fine, gli enti locali che partecipano alla ripartizione del Fondo prevedono specifici programmi di accoglienza riservati ai minori non accompagnati.

In caso di temporanea indisponibilità nelle strutture di cui sopra, l'assistenza e l'accoglienza del minore sono temporaneamente assicurate dal comune dove si trova il minore, secondo gli indirizzi stabiliti dal Tavolo di coordinamento nazionale istituito ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. n. 142/2015 presso il Ministero dell’interno, cha ha il compito di programmare gli interventi del sistema di accoglienza, compresi i criteri di ripartizione regionale dei posti disponibili. I comuni che assicurano l’attività di accoglienza accedono ai contributi disposti dal Ministero dell’interno a valere sul Fondo nazionale per i minori non accompagnati (su cui. si v. infra).

 

Il Fondo per i minori stranieri non accompagnati

Per sostenere i comuni nelle attività di accoglienza è stato istituito il Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, inizialmente allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ai sensi dell’art. 23, comma 11 (quinto periodo), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (conv. L. n. 135/2012), con una dotazione di 5 milioni di euro per l'anno 2012. L’istituzione del fondo faceva parte di una serie di misure volte ad assicurare la prosecuzione degli interventi connessi al superamento dell'emergenza umanitaria nel territorio nazionale, ivi comprese le operazioni per la salvaguardia della vita umana in mare, in relazione all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa.

Attraverso il Fondo, il Ministro provvede, con proprio decreto, sentita la Conferenza unificata, alla copertura dei costi sostenuti dagli enti locali per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, nei limiti delle risorse stanziate.

Con la legge di stabilità 2015, a decorrere dal 1° gennaio 2015, il Fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati è stato trasferito nello stato di previsione del Ministero dell’interno[13].

La dotazione del Fondo ha subito un progressivo aumento nel tempo: infatti, la

dotazione iniziale di 5 milioni di euro per l'anno 2012, è stata incrementata di 20 milioni per l'anno 2013, di 40 milioni di euro per il 2014 e di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016 dall'art. 1, co. 202 e 203, della L. 147/2013 (legge di stabilità 2014).

Nel disegno di legge di bilancio 2016 attualmente in discussione alla Camera (A.C. 3444 – Tab. 8), la dotazione del Fondo, a seguito dell’approvazione della I nota di variazioni, risulta pari a 170 milioni di euro.

 

La domanda di protezione internazionale

Il minore non accompagnato può presentare direttamente la domanda di protezione internazionale. La domanda può essere presentata anche dal tutore sulla base di una valutazione individuale della situazione personale del minore (art. 6, co. 3, D.Lgs. 25/2008).

 

Al minore non accompagnato che abbia espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale deve in ogni caso essere fornita la necessaria assistenza per presentare la domanda (art. 19, comma 1, D.Lgs. 25/2008). In caso di dubbi sull’età, in ogni fase della procedura il minore non accompagnato può essere sottoposto, previo consenso suo o del legale rappresentante, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi per accertarne l’età. Il rifiuto di sottoporsi alla visita medica non costituisce motivo di impedimento all’accoglimento della domanda, né dell’adozione della decisione (art. 19, commi 2 e 3).

Nel corso della procedura, al minore si applicano particolari accorgimenti anche in relazione al colloquio personale che viene di norma richiesto dalla Commissione che esamina la domanda. In particolare, il colloquio del minore si svolge innanzi ad una componente della Commissione con specifica formazione, alla presenza del tutore nonché del personale di sostegno per prestare la necessaria assistenza. Qualora lo ritenga necessario in relazione alla situazione personale del minore, la Commissione territoriale può procedere nuovamente all’ascolto del minore, senza la presenza del tutore (art. 13, co. 3, D.Lgs. n. 25/2008).

 

Quando la domanda di protezione internazionale è presentata da un minore non accompagnato, l’autorità che la riceve informa immediatamente il Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) di cui all'articolo 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (conv. L. 39/1990) per l'inserimento del minore in una delle strutture operanti nell'ambito del Sistema stesso e ne dà comunicazione al tribunale dei minori ed al giudice tutelare. Nel caso in cui non sia possibile l'immediato inserimento del minore in una di tali strutture, l'assistenza e l'accoglienza del minore sono temporaneamente assicurate dal comune dove si trova il minore (art. 26, co. 6, D.Lgs. 25/2008).

 

Inoltre, ai sensi dell’art. 26, co. 5, del D.Lgs. n. 25/2008, quando è presentata una domanda di protezione internazionale da un minore non accompagnato, l'autorità che la riceve sospende il procedimento, dà immediata comunicazione al tribunale dei minorenni e al giudice tutelare per l'apertura della tutela e per la nomina del tutore a norma degli articoli 343, e seguenti, del codice civile, ed informa il Ministero del lavoro. Il giudice tutelare nelle quarantotto ore successive alla comunicazione del questore provvede alla nomina del tutore. Il tutore prende immediato contatto con il minore per informarlo della propria nomina e con la questura per la conferma della domanda, ai fini dell'ulteriore corso del procedimento.

 

Per quanto concerne la figura del tutore, il D.Lgs. n. 142/2015 ha introdotto specifiche disposizioni in base alle quali il tutore possiede le competenze necessarie per l'esercizio delle proprie funzioni e svolge i propri compiti in conformità al principio dell'interesse superiore del minore. Non possono essere nominati tutori individui o organizzazioni i cui interessi sono in contrasto anche potenziale con quelli del minore. Il tutore può essere sostituito solo in caso di necessità (art. 19, co. 6, D.lgs. n. 142/2015).

 

Le indagini familiari

Ai sensi dell’articolo 2, comma 2, lett. f), del D.P.C.M. n. 535/1999, il Ministero del Lavoro (tramite la competente Direzione generale, che ha sostituito il Comitato minori) “svolge compiti di impulso e di ricerca al fine di promuovere l’individuazione dei familiari dei minori presenti non accompagnati, anche nei loro Paesi di origine o Paesi terzi”.

Per l'espletamento delle indagini familiari nei Paesi di origine, la Direzione generale può avvalersi di idonei organismi nazionali ed internazionali.

 

Nelle Linee guida sui minori non accompagnati a cura della Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, viene specificato che l’obiettivo dell’indagine è di fornire ai Comuni, agli assistenti sociali e agli operatori responsabili per l’accoglienza e la protezione dei minori elementi utili per:

§  conoscere la storia familiare del minore e le motivazioni alla migrazione;

§  approfondire le eventuali criticità o vulnerabilità che possono essere emerse dai colloqui con il minore;

§  calibrare il percorso di accoglienza/integrazione in Italia per il minore, adattandolo meglio ai suoi bisogni e alle sue motivazioni;

§  valutare le eventuali possibilità di reintegrazione nel paese di origine, in un’ottica di sostenibilità e di tutela del superiore interesse del minore (si v, infra, il rimpatrio assistito).

 

Ulteriori disposizioni sono contenute nel D.Lgs. n. 142/2015 (art. 19, comma 7), che in attuazione dell’articolo 24, paragrafo 3, della direttiva “accoglienza”, stabilisce l’avvio tempestivo delle iniziative per individuare i familiari del minore non accompagnato richiedente protezione internazionale. A tale fine, il Ministero dell'interno stipula convenzioni sulla base delle risorse disponibili del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo, con organizzazioni internazionali, intergovernative e associazioni umanitarie per l'attuazione di programmi diretti a rintracciare i familiari dei minori non accompagnati. L'attuazione dei programmi è svolta nel superiore interesse dei minori e con l'obbligo della assoluta riservatezza, in modo da tutelare la sicurezza del richiedente asilo e dei suoi familiari.

 

Divieto di espulsione e rimpatrio assistito

Il quadro normativo vigente (art. 19, co. 2, del D.Lgs. n. 286/1998) sancisce per tutti i minori stranieri il divieto di espulsione, che può essere derogato esclusivamente per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato (in tal caso è competente il Tribunale per i minorenni).

Accanto a ciò, l'ordinamento prevede che i minori stranieri non accompagnati possono essere rimpatriati attraverso la misura del rimpatrio assistito, finalizzata a garantire il diritto all’unità familiare del minore e ad adottare le conseguenti misure di protezione. Il provvedimento può essere adottato solo se, in seguito alle c.d. indagini familiari, attivate e svolte dalla Direzione generale del Ministero del lavoro anche nel Paese d’origine del minore o in Paesi terzi, si ritiene che il rimpatrio sia opportuno nell’interesse del minore.

 

L’istituto trova definizione nell’art. 1, co. 4, D.P.C.M. 535/1999, ai sensi del quale per «rimpatrio assistito» si intende l'insieme delle misure adottate allo scopo di garantire al minore interessato l'assistenza necessaria fino al ricongiungimento coi propri familiari o al riaffidamento alle autorità responsabili del Paese d'origine, in conformità alle convenzioni internazionali, alla legge, alle disposizioni dell'autorità giudiziaria ed al presente regolamento. Il rimpatrio assistito deve essere finalizzato a garantire il diritto all'unità familiare del minore e ad adottare le conseguenti misure di protezione.

 

Il rimpatrio assistito è disposto dalla Direzione ministeriale e viene eseguito accompagnando il minore fino al riaffidamento alla famiglia o alle autorità responsabili del Paese d’origine. A differenza dell’espulsione, il rimpatrio non comporta il divieto di reingresso per dieci anni. Nel caso in cui risulti instaurato nei confronti dello stesso minore un procedimento giurisdizionale, per procedere al rimpatrio è necessario che l'autorità giudiziaria rilasci il nulla osta, salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali (art. 33, co. 2-bis, TU immigrazione).

In generale, se la Direzione generale del Ministero del lavoro valuta che sia nell’interesse del minore restare in Italia, dispone il “non luogo a provvedere al rimpatrio” e segnala la situazione del minore alla magistratura e ai servizi sociali per l’eventuale affidamento.

In caso contrario, la Direzione generale, sulla base delle informazioni ottenute all'esito delle attività di indagine familiare, può adottare il provvedimento di rimpatrio assistito (art. 7, D.P.C.M. 535/1999). Ai fini dell'adozione del provvedimento, è necessaria la manifesta ed espressa volontà del minore capace di discernimento al rimpatrio, accertata dagli organi competenti, e deve essere valutata l'opinione espressa in merito al rimpatrio assistito da parte del tutore o di altre persone legalmente responsabili del minore in Italia.

Nel caso in cui ritenga che il rimpatrio non sia nel suo interesse, il minore ha diritto di presentare, per il tramite dei genitori o del tutore, ricorso alla magistratura per ottenere l’annullamento del provvedimento (art. 33, D.Lgs. 286/1998 e art. 7, D.P.C.M. 535/1999).

 

Affidamento e tutela

I minori stranieri che vengono rintracciati sul territorio, o che si presentano spontaneamente, sono collocati in luogo sicuro (articolo 403 c.c.), e presi in carico dai servizi sociali dell’ente locale competente. L’ente locale attiva le procedure previste dall’ordinamento giuridico italiano, quali l’apertura della tutela, l’affidamento, l’attivazione di un percorso d’integrazione e la richiesta di permesso di soggiorno (c.d. presa in carico del minore).

Ai minori stranieri non accompagnati si applicano le norme previste dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori in stato di abbandono recata dagli artt. 343 e seguenti del codice civile, ove si prevede l’apertura della tutela ad opera dell’autorità giudiziaria per il minore i cui genitori non possono esercitare la potestà, e dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) che prevede l’affidamento del minore, temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, a una famiglia o a una comunità.

 

La tutela legale del minore è un istituto surrogatorio rispetto alla potestà dei genitori, nel caso in cui i genitori siano morti o per altre cause non possano esercitare la potestà, al bambino o adolescente deve essere nominato un tutore (art. 343 c.c.). La competenza territoriale viene, al momento dell’apertura della tutela, radicata nel circondario nel quale il minore ha la sede principale degli affari ed interessi, mentre con la nomina del tutore il criterio determinante della competenza territoriale diventa il domicilio del tutore. I casi tipici in cui si apre una tutela a favore di un minore d’età sono i seguenti:

·       morte dei genitori;

·       abbandono del minore o suo mancato riconoscimento alla nascita;

·       dichiarazione di adottabilità;

·       lontananza o irreperibilità dei genitori;

·       sospensione, decadenza o esclusione dei genitori dalla potestà.

Si ricorda che nella legge 183 del 1984, per affidamento familiare s'intende l'affidamento ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurare al minore il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive (art. 2, co. 1).

 

·         Ai sensi dell’articolo 19 del D.Lgs. 142/2015, l’autorità di pubblica sicurezza deva dare immediata comunicazione della presenza del minore non accompagnato al giudice tutelare per l’apertura della tutela e per la nomina del tutore a norma degli articoli 343 ss. c.c, nonché al Tribunale per i minorenni per la ratifica delle misure di accoglienza predisposte.

Il tutore deve possedere le competenze necessarie e operare in conformità al principio dell’interesse superiore del minore, può essere sostituito solo in caso di necessità. È fatto divieto di nominare tutori individui o organizzazioni i cui interessi sono in contrasto anche potenziale con quelli del minore.

 

I lavori parlamentari

Nella legislatura in corso, la I Commissione Affari costituzionali della Camera ha avviato, a partire da martedì 3 giugno 2014, l’esame in sede referente della proposta A.C. 1658 (on. Zampa ed altri), che si propone di innovare la disciplina applicabile ai minori stranieri non accompagnati nei suoi principali aspetti, sia introducendo nuove disposizioni laddove la normativa vigente presenta alcune lacune, sia modificando gli aspetti di maggiore criticità emersi negli anni, specie in riferimento al sistema dell'accoglienza dei minori.

Nel corso dell’esame è stato emanato, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, il decreto legislativo n. 142 del 2015, di attuazione della direttiva 2013/33/UE sull'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (c.d. direttiva accoglienza) e della direttiva 2013/32/UE che reca procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (c.d. direttiva procedure).

Come già evidenziato, il decreto ridisegna il sistema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, prevedendo disposizioni vertenti in particolare sull'accoglienza delle persone vulnerabili, primi fra tutti i minori, specie se non accompagnati.

 

L’Accesso all’istruzione dei minori stranieri

Il quadro normativo sul diritto all’istruzione dei minori stranieri

L'art. 38 del D.Lgs. 286/1998 stabilisce che i minori stranieri presenti sul territorio nazionale sono soggetti all'obbligo scolastico e che ad essi si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica.

In base all'art. 45 del Regolamento sull'immigrazione, conseguentemente adottato (D.P.R. 394/1999), i minori stranieri hanno diritto all'istruzione - indipendentemente dalla regolarità della propria posizione -, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani. L'iscrizione può essere richiesta in qualunque periodo dell'anno scolastico.

Per quanto concerne l'inserimento, lo stesso art. 45 prevede che i minori sono iscritti alla classe corrispondente all'età anagrafica, salvo che il collegio dei docenti deliberi l'iscrizione ad una classe diversa, tenendo conto di: ordinamento degli studi del Paese di provenienza, corso di studi seguito, livello di preparazione raggiunto.

Sempre il collegio dei docenti definisce il necessario adattamento dei programmi di insegnamento. Allo scopo, possono essere adottati specifici interventi individualizzati o per gruppi di alunni per facilitare l'apprendimento della lingua italiana. Il consolidamento della conoscenza della lingua italiana può essere realizzato anche mediante l'attivazione di corsi intensivi sulla base di specifici progetti.

 

Recenti interventi normativi per l’istruzione degli alunni stranieri

L'art. 16 del D.L. 104/2013 (L. 128/2013) ha indicato tra le finalità di uno stanziamento aggiuntivo di 10 milioni di euro per il 2014 il potenziamento delle competenze del personale scolastico nelle aree ad alto rischio socio-educativo e a forte concentrazione di immigrati, rafforzando in particolare le competenze relative all'integrazione scolastica, alla didattica interculturale, al bilinguismo e all'italiano come lingua seconda. La definizione delle modalità di organizzazione e gestione delle attività formative è stata demandata a un decreto del MIUR.

In attuazione, è intervenuto il decreto direttoriale prot. 812 del 30 ottobre 2014, che ha definito la procedura per l'utilizzo di 100.000 euro che l'art. 5, co. 1, lett. e), del DM 351 del 21 maggio 2014 aveva destinato agli interventi formativi indicati dall’art. 16 del D.L. 104/2013.

 

Inoltre, l’art. 7 dello stesso D.L. 104/2013 ha previsto un Programma di didattica integrativa che doveva contemplare, fra l'altro, percorsi finalizzati all'integrazione scolastica degli studenti stranieri.

In attuazione, è intervenuto il DM 87 del 7 febbraio 2014.

 

Da ultimo, l’art. 1, co. 7, lett. r), della L. 107/2015 (c.d. Buona scuola) ha inserito fra i possibili obiettivi dell’espansione dell’offerta formativa l’alfabetizzazione e il perfezionamento dell'italiano come lingua seconda attraverso corsi e laboratori per studenti di cittadinanza o di lingua non italiana, da organizzare anche in collaborazione con gli enti locali e il terzo settore, con l'apporto delle comunità di origine, delle famiglie e dei mediatori culturali.

Il co. 32 dello stesso art. 1 ha, altresì, previsto che le attività e i progetti di orientamento scolastico nonché di accesso al lavoro sono sviluppati con modalità idonee a sostenere anche le eventuali difficoltà e problematiche proprie degli studenti di origine straniera.

 

Recenti iniziative del MIUR per l’integrazione degli alunni stranieri

Nel febbraio 2014 il MIUR ha emanato le nuove Linee guida per l'integrazione degli alunni stranieri, che costituiscono l'aggiornamento delle precedenti Linee guida, emanate nel 2006.

Le linee guida, oltre a fornire una descrizione dell'attuale contesto scolastico e sociale, propongono indicazioni operative e modelli di integrazione e sostegno didattico che alcune scuole hanno già sperimentato.

In particolare, con riferimento ai fenomeni di concentrazione di studenti con cittadinanza straniera, il documento auspica un'equilibrata distribuzione delle iscrizioni attraverso un'intesa tra scuole, organizzate in reti di scuole, e una collaborazione mirata con gli enti locali.

Nell'ambito delle singole scuole, l'orientamento più diffuso è quello di favorire l'eterogeneità delle cittadinanze nella composizione delle classi, piuttosto che formare classi omogenee per provenienza territoriale o religiosa degli stranieri.

Si richiama, inoltre, il limite massimo di presenza di studenti stranieri nelle singole classi, fissato, di norma, nel 30% del totale degli iscritti, dalla Circolare ministeriale n. 2 dell'8 gennaio 2010. Come già previsto dalla Circolare, detto limite può essere innalzato o ridotto, con determinazione del Direttore generale dell'Ufficio Scolastico Regionale, qualora gli alunni stranieri siano già in possesso di adeguate competenze linguistiche o, al contrario, a fronte della presenza di alunni stranieri con una padronanza della lingua italiana ancora inadeguata o comunque in tutti i casi in cui si riscontrino particolari complessità.

Le nuove Linee guida auspicano anche la previsione, per il personale scolastico neoassunto, nonché per quello in servizio che desideri accrescere le proprie competenze, di percorsi di formazione riferiti al tema dell'intercultura.

Ulteriori argomenti affrontati riguardano il coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie, la valutazione, l'orientamento (soprattutto per quanto riguarda il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado), l'insegnamento dell'italiano come lingua seconda.

Con DM n. 718 del 5 settembre 2014, inoltre, il MIUR ha ricostituito l’Osservatorio nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e per l'intercultura, al fine di individuare soluzioni operative e organizzative per un effettivo adeguamento delle politiche di integrazione alle esigenze di una scuola multiculturale.

L'Osservatorio, che è presieduto dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca o dal sottosegretario con delega alle tematiche dell'integrazione ed è composto da rappresentanti degli istituti di ricerca, delle associazioni e degli enti di rilievo nazionale impegnati nel settore dell'integrazione degli alunni stranieri e dell'intercultura, da esperti del mondo accademico, culturale e sociale e da dirigenti scolastici, ha compiti consultivi e propositivi. Deve, in particolare, promuovere politiche scolastiche per l'integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana e verificarne la loro attuazione (anche tramite monitoraggi), incoraggiare accordi interistituzionali e favorire la sperimentazione e l'innovazione metodologica didattica e disciplinare.

 

Da ultimo, nel mese di settembre 2015 il MIUR ha emanato due bandi (pubblicati sui siti degli Uffici scolastici regionali) che mettono a disposizione 500.000 euro per il potenziamento dell'italiano come lingua seconda, con particolare attenzione agli studenti di recente immigrazione, e, per la prima volta, altri 500.000 euro per progetti di accoglienza e di sostegno linguistico e psicologico dedicati a minori stranieri non accompagnati. Alle scuole è stata poi inviata una circolare con raccomandazioni e proposte operative elaborate dall'Osservatorio.

 

I numeri degli alunni stranieri e la loro provenienza

Dall’ultimo Focus pubblicato dal MIUR ad ottobre 2015, emerge che, nell’a.s. 2014/2015, l’incremento del numero degli studenti con cittadinanza non italiana è stato pari a circa 3.000 unità, per un numero complessivo di 805.800 alunni.

La percentuale sul totale degli studenti è risultata pari al 9,2%. In particolare, sono diminuiti gli alunni stranieri nella scuola dell'infanzia e nella scuola secondaria di primo grado, mentre sono aumentati quelli frequentanti la scuola primaria e la scuola secondaria di secondo grado.

Nel precedente anno scolastico, gli alunni con cittadinanza non italiana erano stati il 9%, a fronte dell'8,8% nell'a.s. 2012/2013, dell'8,4% nell'a.s. 2011/2012 e del 7,9% nell'a.s. 2010/2011. Nell'a.s. 2000/2001 gli alunni stranieri erano appena l'1,7% del totale.

Continua ad essere in forte crescita la quota di alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia: l’incremento è risultato pari al 7,3%. In totale, gli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia rappresentano il 51,7% del totale degli alunni stranieri.

Invariato, rispetto al precedente anno scolastico, l'ordine dei Paesi di provenienza per numero di presenze di alunni stranieri, che vede al primo posto la Romania, seguita da Albania, Marocco, Cina, Filippine, Moldavia, India, Ucraina, Perù e Tunisia. Anche per l'a.s. 2014/2015, la regione italiana che ha ospitato più alunni con cittadinanza non italiana è stata la Lombardia, con 201.633 studenti.

Per quanto riguarda le scelte dei percorsi scolastici nella scuola secondaria di II grado, gli alunni stranieri si orientano, prevalentemente, verso gli istituti tecnici e professionali.

Acquisto della cittadinanza da parte dei minori stranieri

La disciplina in materia di cittadinanza fa oggi capo principalmente alla legge 5 febbraio 1992, n. 91. Ai sensi di tale legge si prevede che acquistino la cittadinanza italiana:

 

La cittadinanza è acquisita anche, automaticamente per i minori, per riconoscimento della filiazione (da parte del padre o della madre che siano cittadini italiani), oppure a seguito dell’accertamento giudiziale della sussistenza della filiazione (art. 2, co. 1).

 

Lo straniero nato in Italia può divenire cittadino italiano se vi ha risieduto legalmente e ininterrottamente fino alla maggiore età e dichiari, entro un anno dal compimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana (art. 4, co. 2).

In base ad una disposizione introdotta nel 2013, gli ufficiali di stato civile sono tenuti nel corso dei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno di età a comunicare all’interessato, la possibilità di esercitare tale diritto entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza, il diritto può essere esercitato anche oltre tale data (D.L. 69/2013, art. 33). La stessa disposizione ha chiarito inoltre che all’interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni altra idonea documentazione.

 

Dati quantitativi e qualitativi sulle acquisizioni di cittadinanza italiana sono contenuti nel rapporto pubblicato dall’ISTAT il 22 ottobre 2015, intitolato: Cittadini non comunitari: presenza, nuovi ingressi e acquisizioni di cittadinanza.

 

La proposta di riforma all’esame del Parlamento

La Camera ha approvato il 13 ottobre 2015 un testo unificato in materia di cittadinanza, ora in corso di esame al Senato (A.S. 2092). La proposta si concentra sulla questione fondamentale della tutela dell'acquisto della cittadinanza da parte dei minori, apportando a tal fine alcune modifiche alla vigente legge sulla cittadinanza (L. n. 91/1992).

Le novità principali del testo consistono nella previsione di una nuova fattispecie di acquisto della cittadinanza italiana per nascita (cd. ius soli) e nell'introduzione di una nuova fattispecie di acquisto della cittadinanza in seguito ad un percorso scolastico (cd. ius culturae).

In particolare, acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente o in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

In tal caso, la cittadinanza si acquista mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età dell'interessato.

Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l'interessato può:

 

La seconda fattispecie di acquisto della cittadinanza riguarda il minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Nel caso in cui la frequenza riguardi il corso di istruzione primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva di tale corso (c.d. ius culturae).

In tal caso, la cittadinanza si acquista mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore legalmente residente in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età dell'interessato.

Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l'interessato può:

 

Oltre a queste ipotesi, che configurano un diritto all'acquisto della cittadinanza, la proposta introduce un ulteriore caso di concessione della cittadinanza (cd. naturalizzazione), che ha carattere discrezionale, per lo straniero che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età, ivi legalmente residente da almeno sei anni, che ha frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, nel medesimo territorio, un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo, presso gli istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale con il conseguimento di una qualifica professionale. Tale fattispecie dovrebbe, in particolare, riguardare il minore straniero che ha fatto ingresso nel territorio italiano tra il dodicesimo ed il diciottesimo anno di età.

 

Tra le ulteriori disposizioni della proposta, si prevede infine l'esonero per le istanze o dichiarazioni concernenti i minori dal pagamento del contributo previsto attualmente dalla legge per le richieste di cittadinanza.

 

È stata inoltre dettata una disciplina transitoria, in base alla quale coloro che abbiano maturato i requisiti per l'acquisto iure culturae prima dell'entrata in vigore della legge e abbiano già compiuto i 20 anni di età (termine previsto dalla legge per la dichiarazione di acquisto della cittadinanza), possono fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro 12 mesi dall'entrata in vigore della legge, purché residenti in Italia da almeno 5 anni; l'acquisto è escluso nel caso in cui l'interessato sia stato destinatario di provvedimenti di diniego della cittadinanza per motivi di sicurezza della Repubblica o di provvedimenti di espulsione per i medesimi motivi. Resta ferma l'applicazione della normativa a coloro che abbiano maturato i requisiti per l'acquisto iure soli o iure culturae prima dell'entrata in vigore della legge e non abbiano compiuto i 20 anni di età.

 

 


I minori nei programmi della Cooperazione italiana allo sviluppo

Le Linee guida sui minori, adottate con la delibera del Comitato direzionale della cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri l’11 dicembre 2011, costituiscono il principale documento di riferimento in tema di rapporti tra condizione minorile e cooperazione internazionale.

Le Linee guida – redatte originariamente nel 1998 e successivamente aggiornate nel 2004 - si collocano all’interno di un quadro di riferimento giuridico-internazionale, formato dai consensi e dai documenti adottati a livello multilaterale sui diritti umani che l’Italia ha riconosciuto o ratificato, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989 (CRC) ed i suoi Protocolli Opzionali, al Common Understanding (UN) on Human Rights Based Approach to Development Cooperation del 2003, dagli Obiettivi di Sviluppo del Millennio alla Dichiarazione di Parigi (2005) per l’allineamento e l’armonizzazione degli aiuti dall’Europa.

Il documento enuclea altresì quattro princìpi generali della CRC:

a.   il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo,

b.   il superiore interesse dei bambini e degli adolescenti,

c.   il principio della non discriminazione,

d.   il diritto all’ascolto e alla partecipazione.

Al tempo stesso, nel considerare nel considerare i minori come Protagonisti del proprio sviluppo, li considera titolari di diritti inalienabili, quali il diritto alla salute, quello a un ambiente familiare, quello di cittadinanza, quello all’educazione, all’informazione e alla cultura, quello all’ambiente).

Il documento definisce una serie di tematiche prioritarie, che costituiscono i principali versanti d’intervento della Cooperazione italiana allo sviluppo.

·      l’educazione, priorità assoluta dei progetti italiani: le Linee guida qualificano l’educazione principio fondamentale per lo sviluppo del minore sottolineando l’esigenza di promuovere politiche nazionali per l’inclusione dei minori in contesti educativi di livello adeguato e senza disparità di genere. Le azioni della Cooperazione italiana dovranno mirare a garantire una migliore offerta formativa all’interno dei programmi scolastici nazionali per lo sviluppo globale della personalità, delle attitudini e del senso di responsabilità morale e sociale di ogni minore, sostenendo anche azioni educative di carattere non formale;

·      la lotta allo sfruttamento sessuale, alla tratta ed al lavoro minorile: nel documento si ribadisce che la Cooperazione Italiana considera crimini contro l’umanità la tratta e lo sfruttamento dei minori e la violazione della loro integrità psichica e fisica perpetrata attraverso ogni forma di violenza, ispirandosi ai principi contenuti nella CRC e nei suoi Protocolli opzionali e nelle convezioni di Lanzarote e di Strasburgo del Consiglio d’Europa. Il testo prefigura pertanto l’adozione di strategie volte a prevenire e contrastare l’induzione alla prostituzione, il turismo sessuale re la pedopornografia, anche attraverso strumenti telematici, nella prospettiva di una cultura dei diritti umani che superi la neutralità della condizione infantile verso un pieno riconoscimento dei diritti dei minori;

·      la giustizia minorile: in linea con gli standard internazionali adottati in materia e riconoscendo la particolare vulnerabilità dei minori che entrano in contatto con il sistema della giustizia minorile, le Linee guide considerano fondamentale promuovere e sostenere l’adozione e l’attuazione di politiche e interventi nei paesi destinatari di cooperazione in materia di giustizia minorile civile e penale al fine di prevenire, recuperare e reinserire nella società i minori in conflitto con la legge;

·      il contrasto al lavoro minorile: In linea con la Convenzione sull’età minima dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 138 del 1973, il documento individua quale priorità della Cooperazione Italiana la promozione di iniziative volte all’adozione ed all’attuazione di politiche e progetti di contrasto e sradicamento di tutte le modalità di sfruttamento dei minori attraverso il lavoro, dando priorità alle peggiori forme del lavoro minorile e a ogni mansione che possa comprometterne la sicurezza, la salute e lo sviluppo. A livello sovranazionale, la Cooperazione italiana si impegna a  gli sforzi in atto per innalzare la responsabilità sociale delle imprese, migliorare gli standard di lavoro per gli adulti e per un’efficace prevenzione dello sfruttamento del lavoro minorile in tutte le sue forme;

·      i minori nei contesti di crisi: un ulteriore versante prioritario d’intervento è rappresentato dalla realizzazione d’iniziative finalizzate al recupero e al reinserimento sociale dei minori ex-combattenti e vittime dei conflitti che presuppongono un vasto impegno civile e politico delle istituzioni locali. In quest’ottica la Cooperazione italiana attribuisce particolare rilievo alla protezione dei minori nelle situazioni di emergenza umanitaria, riconducibili all’uomo o derivanti da fattori naturali, ove la particolare vulnerabilità dei minori risulti evidente e un’azione quanto più tempestiva in loro favore rappresenti una condizione indispensabile per ridurre l’esposizione a gravissimi fattori di rischio;

·      i minori con disabilità: i diritti dei minori con disabilità sono definiti nel documento “parte integrante dei diritti umani fondamentali” e vi sottolinea il forte impegno della Cooperazione italiana nelle azioni di lotta all’esclusione sociale ed alla marginalizzazione socioculturale ed educativa dei minori con disabilità. Tale attività è finalizzata a garantire il diritto dei minori disabili all’accesso all’educazione e alla partecipazione sociale, culturale e ricreativa della Comunità, al pari degli altri. La Cooperazione attribuisce elevata priorità alla prevenzione dei fattori che producono disabilità e alla rimozione degli ostacoli che impediscono al Minore disabile la piena partecipazione alla vita sociale[14];

·      i minori nelle migrazioni: la Cooperazione italiana attribuisce infine particolare rilievo alla tutela dei minori nei processi migratori, sia nei Paesi d’origine dei flussi migratori, sia nel nostro Paese, la cui crescente complessità è da collegarsi ai fenomeni legati alla globalizzazione e che coinvolgono anche il nostro Paese. In questa prospettiva essa s’impegna ad intervenire sostenendo i sistemi di welfare nei Paesi d’origine dei flussi migratori allo scopo di promuovere politiche di sviluppo e d’inclusione sociale a favore di Minori, anche mediante la cooperazione decentrata.

 

Attuazione delle Linee guida e avvio della disciplina sulla cooperazione allo sviluppo

Successivamente all’adozione delle Linee guida, è intervenuta l’approvazione della legge di riforma del settore (legge n. 125/2014) che definisce una nuova architettura del sistema della cooperazione rilanciandone il posizionamento istituzionale, i meccanismi di indirizzo politico, oltre che gli strumenti di attuazione, mutando altresì la denominazione dello stesso Dicastero che significativamente diviene “degli affari esteri e della cooperazione internazionale”.

La ristrutturazione del sistema si è completata con la creazione e la definizione della governance dell’Agenzia italiana per la cooperazione[15] e con l’adozione del nuovo documento di programmazione triennale, “Un Mondo in comune: Solidarietà, Partnership, Sviluppo”, approvato dal Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo l’11 giugno scorso .

Sul versante finanziario, la nuova legge individua come interlocutore strategico per l’Agenzia la Cassa Depositi e Prestiti (CDP), società per azioni a controllo pubblico chiamata ad operare come banca o istituzione finanziaria per la cooperazione allo sviluppo: cioè non solo a concedere crediti agevolati a valere sul fondo rotativo fuori bilancio costituito presso di essa (art. 8), ma anche a strutturare prodotti di finanza per lo sviluppo nell’ambito di accordi con organizzazioni finanziarie europee o internazionali, a partecipare a programmi dell’UE e a destinare risorse proprie in regime di cofinanziamento con soggetti privati, pubblici o internazionali (art. 22, comma 4).

Sul piano delle risorse, la nuova normativa esplicita la necessità di un allineamento agli impegni e agli standard internazionali, che dovrebbe significare un percorso di graduale adeguamento degli stanziamenti annuali per la cooperazione internazionale allo sviluppo, tale da porre l’Italia in linea con gli impegni e gli obiettivi assunti a livello europeo e internazionale, a cominciare da quello dello 0,7% del PNL (art. 30).

Occorre segnalare a tale proposito che, in linea con quanto previsto nel Documento di economia e finanza 2015, il disegno di legge di stabilità 2016 è caratterizzato da un rilancio in termini di risorse finanziarie messe a disposizione per la cooperazione allo sviluppo. Si tratta di risorse aggiuntive in favore della nuova Agenzia, pari a 120 milioni per il 2016, a 240 milioni per il 201 ed a 360 milioni a decorrere dal 2018.

Nelle intenzioni del ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, “si tratta di un’inversione di tendenza storica che rafforza il ruolo internazionale dell’Italia a favore dei paesi in via di sviluppo. Gli ulteriori stanziamenti permetteranno all’Italia di dare attuazione a un piano di riallineamento del nostro aiuto pubblico allo sviluppo e di valorizzare i contributi sia attraverso il finanziamento delle organizzazioni internazionali sia promuovendo un maggiore sostegno all’attività delle ONG, che sono tra le forze migliori dell’Italia all’estero, delle imprese e delle università”.

La Cooperazione - ha aggiunto il Ministro - “è un vero investimento strategico: la lotta contro la povertà va nella direzione di una maggiore pacificazione delle aree di crisi, della stabilizzazione internazionale e di un contributo alla costruzione di istituzioni democratiche a tutela dei diritti umani, consentendo anche di rafforzare la nostra strategia di intervento sulle cause dei flussi migratori[16].

Come rilevato nel recente VIII Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia 2014-2015, curato dal Gruppo di lavoro sulla CRC da un lato permane ancora difficile identificare quanti e quali contributi possano essere considerati in favore dell’infanzia.

“I criteri di classificazione degli interventi nei diversi anni – si osserva nel Rapporto - non sono stati sempre completamente uniformi e, quindi, in assenza di una chiara programmazione e di una più chiara definizione dei criteri di classificazione, risulta ancora difficile una valutazione dell’ammontare delle risorse allocate in favore dell’infanzia nella cooperazione internazionale”.

Lo stesso Rapporto rileva come sia mancato un vero e proprio monitoraggio delle Linee guida e che pertanto, anche “alla luce della recente riforma, si rende oggi indispensabile una loro revisione che porti alla messa in atto di un percorso di verifica più strutturato, al quale possano partecipare tutti gli attori coinvolti”.

Secondo le stime fornite dal Rapporto stesso, nel 2014, il 24% (pari a 55 mln.) delle risorse della Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo sarebbero state destinate all’infanzia, a fronte del 15 % (34 mln.) nel 2013, del 45% (39 mln.) nel 2012, del 20% (36 mln.) nel 2011 e del 13% (42 mln.) nel 2010.

 

I nuovi scenari internazionali

In questa prospettiva occorre ricordare che nel corso di quest’anno la Comunità internazionale abbia iniziato a ridefinire una nuova agenda globale attraverso una serie di conferenze ed iniziative multilaterali come la terza Conferenza sul finanziamento dello sviluppo di Addis Abeba che si è svolta a luglio 2015 ed il negoziato alla Conferenza sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in corso di svolgimento a Parigi in questi giorni che hanno un notevole impatto sul nesso cooperazione internazionale-problematiche minorili.

Soprattutto occorre evidenziare la rilevanza che assume la nuova Agenda di sviluppo 2030 per uno sviluppo sostenibile, adottata ufficialmente in occasione di un vertice dei capi di Stato e di Governo, tenutosi presso la sede dell’Onu di New York, in occasione dell'annuale Assemblea Generale, tra il 25 ed il 27 settembre scorsi.

Per contribuire allo sviluppo globale, promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente, l’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile contiene 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs, nell'acronimo inglese, per Sustainable Development Goals) e 169 sotto-obiettivi, alcuni hanno uno specifico rilievo sotto il profilo delle condizioni e dei diritti dei minori.

Oltre allo sviluppo sociale ed economico, gli SDGs integrano anche la sostenibilità ecologica. Inoltre riprendono aspetti di fondamentale importanza per lo sviluppo sostenibile come la pace e la sicurezza, lo Stato di diritto e il buongoverno.

Gli SDGs hanno validità universale, tutti i Paesi pertanto devono fornire un contributo per raggiungere gli obiettivi in base alle loro capacità. Inoltre devono essere creati stimoli affinché attori non statali forniscano un maggiore contributo attivo allo sviluppo sostenibile.

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono:

1.    sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo;

2.    porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere l’agricoltura sostenibile;

3.    garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età;

4.    garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti.

5.    raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze.

6.    garantire la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e servizi igienici per tutti.

7.    garantire l’accesso all’energia a prezzo accessibile, affidabile, sostenibile e moderna per tutti;

8.    promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena occupazione e il lavoro dignitoso per tutti;

9.    costruire un’infrastruttura resiliente, promuovere l’industrializzazione inclusiva e sostenibile e sostenere l’innovazione;

10.  ridurre le disuguaglianze all’interno dei e fra i Paesi;

11.  rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili.

12.  garantire modelli di consumo e produzione sostenibili;

13.  adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le loro conseguenze;

14.  conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine;

15.  proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e invertire il degrado dei suoli e fermare la perdita di biodiversità;

16.  promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli;

17.  rafforzare le modalità di attuazione e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.

 



[1]     Si ricorda che i progetti attuati nelle città riservatarie con le risorse del Fondo sono illustrati nella Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge recante disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia  e l’adolescenza (Doc. CLXIII).

[2]     Il progetto ha ricevuto un contributo della Comunità Europea nell’ambito del Programma di apprendimento per tutto l’arco della vita, erogato dalla Commissione Europea, Direzione Generale per l’Istruzione e la Cultura.

[3]     In base alle FAQ presenti nella pagina del MIUR dedicata all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, il GHL, Gruppo di Lavoro sull'Handicap, si riferisce ad ogni singolo alunno e indica l'insieme dei soggetti chiamati a definire il profilo dinamico funzionale e il piano educativo individualizzato, ossia tutti gli insegnanti, curricolari e di sostegno e gli operatori dell'Azienda Sanitaria, con la collaborazione dei genitori.

[4]     L’art. 4 della L. 104/1992 ha previsto che gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua sono effettuati dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1 della L. 295/1990 (composte da un medico legale e da due medici, di cui uno specialista di medicina del lavoro e di volta in volta integrate con sanitari in rappresentanza delle associazioni delle diverse categorie di invalidi o disabili), che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le stesse unità sanitarie locali. Da ultimo, l’art. 19, co. 11, del D.L. 98/2011 (L. 111/2011) ha poi disposto che tali commissioni sono integrate obbligatoriamente con un rappresentante dell’INPS nei casi di valutazione della diagnosi funzionale costitutiva del diritto all'assegnazione del docente di sostegno all'alunno disabile (che, tuttavia, è successiva e affidata all’organo di cui alla nota che segue).

[5]     L’unità multidisciplinare è composta: dal medico specialista nella patologia segnalata, dallo specialista in neuropsichiatria infantile, dal terapista della riabilitazione, dagli operatori sociali in servizio presso l’unità sanitaria locale o in regime di convenzione con la medesima.

[6]     Per approfondimenti si vedano, in particolare, le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità e le FAQ presenti sul sito del MIUR.

[7]     Le aree metropolitane, per densità di popolazione, possono necessitare di uno o più CTS dedicati.

[8]     Fonte: I.Stat – banche dati correnti

[9]     L’indagine ha coinvolto la totalità dei ragazzi e ragazze che si trovano negli Istituti Penitenziari Minorili (IPM), nelle Comunità di Accoglienza Penale (CPA) e nelle Comunità Ministeriali oltre a un significativo numero di ragazzi in carico all’Ufficio di servizio sociale Minorile (USSM). Negli IPM si trovano ragazzi e ragazze che stanno scontando una pena o in custodia cautelare; nei CPA minori in stato di arresto, fermo ed accompagnamento fino all’udienza di convalida che deve avvenire al massimo entro 96 ore; le Comunità Ministeriali assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato; gli uffici del servizio sociale minorile (U.S.S.M.) forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale e forniscono ai magistrati informazioni utili alla comprensione della personalità e condizione del minore.

[10]    Si ricorda che l’indennità di maternità viene corrisposta anche in caso di cessazione dell'attività dell'azienda, di ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice è stata assunta o di scadenza del termine contrattuale che si verifichino durante i periodi di congedo di maternità.

[11]    Le altre categorie sono la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa e la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni. Si ricorda che è in ogni caso vietato adibire le donne al lavoro notturno (dalle 24 alle 6) dall'accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.

[12]    Per irreperibili si intendono i minori stranieri non accompagnati per i quali è stato segnalato un allontanamento dalle strutture o dalle famiglie di accoglienza.

[13]    Nel nuovo fondo confluiscono le risorse dell’analogo Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali dal decreto-legge n. 95/2012 che viene contestualmente soppresso (art. 1, co. 181). Il successivo comma 182 demanda ad un apposito decreto del Ministero del lavoro la definizione delle modalità di erogazione delle risorse residue del Fondo. Tale ripartizione è avvenuta con D.M. 5 agosto 2015.

[14] Si segnala a tale proposito che la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo ha approvato nel novembre 2010 le Linee Guida per l’introduzione della tematica della disabilità nell’ambito delle politiche e delle attività della Cooperazione Italiana redatte sulla base degli standard internazionali e in particolare della Convenzione dei diritti delle persone con disabilità (CRPD), adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, attualmente ratificata da 103 Stati tra cui l’Italia, con la legge n. 18/2009.

[15]    Lo statuto dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo è stato emanato dal MAECI con il Decreto Ministeriale 22 luglio 2015, n. 113. 

[16]    http://www.info-cooperazione.it/2015/10/con-la-legge-di-stabilita-crescono-del-40-i-fondi-per-la-cooperazione/