Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento attività produttive
Titolo: Sistemi anticontraffazione per l'identificazione dei prodotti di origine italiana o interamente prodotti in Italia - A.C. 1454 - Elementi per l'istruttoria legislativa
Riferimenti:
AC N. 1454/XVII     
Serie: Progetti di legge    Numero: 104
Data: 17/12/2013
Descrittori:
FALSITA'   MARCHI DI QUALITA' GARANZIA E IDENTIFICAZIONE
Organi della Camera: X-Attività produttive, commercio e turismo


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Sistemi anticontraffazione per l'identificazione dei prodotti di origine italiana o interamente prodotti in Italia

17 dicembre 2013
Elementi per l'istruttoria legislativa



Indice

Contenuto|Relazioni allegate o richieste|Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite|Compatibilità comunitaria|Formulazione del testo|



Contenuto

La proposta di legge in esame, di iniziativa parlamentare, è volta ad introdurre agevolazioni per le piccole e medie imprese e per i distretti produttivi, i quali adottino sistemi di tracciabilità attestati da codici a barre, che consentano ai consumatori di identificare i prodotti made in Italy e quelli interamente realizzati in Italia.

L'articolo 1 specifica le finalità della proposta - ovvero contrastare il fenomeno della contraffazione volta a trarre in inganno il consumatore finale sulla reale provenienza di un prodotto etichettato made in Italy - e richiama le definizioni, ai sensi della vigente normativa comunitaria e nazionale, dei prodotti oggetto dell'applicazione dei sistemi di tracciabilità.

In particolare:
a) per la definizione del "made in Italy", viene richiamata la vigente normativa comunitaria sull'origine doganale non preferenziale delle merci (art. 36 del regolamento (CE) n. 450/2008), che si riferisce ai prodotti per i quali l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale è avvenuta in Italia;
Si ricorda che la legge n. 55 del 2010 recante "Disposizioni concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri", all'articolo 1, comma 4, aveva previsto che l'impiego dell'indicazione «Made in Italy» fosse permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità. L'effettiva applicabilità della l. n. 55/2010 (e dei criteri di individuazione dell'origine italiana dei prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri da essa previsti) è però alquanto problematica. La legge n. 55/2010 è stata infatti approvata senza la preventiva comunicazione alla Commissione europea, come stabilito dalla direttiva europea n. 34 del 22 giugno 1998, che impone agli Stati membri di comunicare alla Commissione i progetti di "regole tecniche". Inoltre mancano i necessari decreti attuativi previsti dall'art. 2 (cfr. la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30 settembre 2010 n. 49403 e la Circolare dell'Agenzia delle dogane del 22 settembre 2010, n. 119919), che difficilmente potranno essere emanati, visto che, come ha rilevato la Commissione europea (cfr. Comunicazione della Direzione generale, impresa e industria della Commissione europea inviata nel luglio 2010 all'Ambasciatore italiano a Bruxelles), la disciplina dell'etichettatura che dovrebbero attuare è in contrasto coi principi comunitari. Ed infatti, secondo la Corte di giustizia è incompatibile con il mercato unico e con il principio di libera circolazione delle merci la previsione da parte degli Stati membri dell'obbligo di marchiatura di origine per le merci importate, quando l'origine territoriale non implichi una particolare qualità del prodotto come per i prodotti a D.O.P. e a I.G.P. in cui la qualità è strettamente legata all'ambiente in cui il prodotto viene realizzato (cfr. CGiustCE, sent. 17 giugno 1981, Causa 113/80, Commissione c/Irlanda, in Racc., 1981, p. 1625).
b) per la defizione di "interamente realizzato in Italia", viene richiamata la vigente disciplina nazionale (art. 16 del D.L. 25 settembre 2009 n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166) che si riferisce al prodotto classificabile come 100 per cento made in Italy e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione e il confezionamento sono stati compiuti esclusivamente nel territorio italiano,

L'articolo 2, specifica in cosa consistono i codici a barre che consentono l'identificazione del prodotto e come devono essere realizzati, a seconda che si applichino sui prodotti made in Italy oppure su quelli interamente realizzati in Italia.

Più in particolare la tracciabilità è realizzata attraverso l'identificazione del prodotto con segni unici e non riproducibili associati a un codice a barre bidimensionale non seriale e non replicabile, basato su una tecnologia che consente al consumatore di leggere le informazioni in esso contenute anche tramite un telefono cellulare o uno smartphone e devono contenere i dati fiscali del produttore, dell'ente certificatore della filiera del prodotto, del distributore e dell'azienda che fornisce il sistema di codici a barre, nonché l'elencazione di ogni fase di lavorazione con la specificazione delle fasi interamente realizzate in Italia per i prodotti per i prodotti made in Italy e di tutte le fasi di lavorazione e delle materie prime utilizzate per i per i prodotti 100 per cento made in Italy.

Il medesimo articolo specifica che i soggetti destinatari delle misure agevolative possono essere:

  • le micro, piccole e medie imprese;
Secondo la definizione della Raccomandazione 2003/361/Ce della Commissione del 6 maggio 2003, citata nel testo le microimprese, le piccole o medie imprese vengono definite in funzione del loro organico e del loro fatturato ovvero del loro bilancio totale annuale. Una media impresa è definita come un'impresa il cui organico sia inferiore a 250 persone e il cui fatturato non superi 50 milioni di euro o il cui totale di bilancio annuale non sia superiore a 43 milioni di euro. Una piccola impresa è definita come un'impresa il cui organico sia inferiore a 50 persone e il cui fatturato o il totale del bilancio annuale non superi 10 milioni di euro. Una microimpresa è definita come un'impresa il cui organico sia inferiore a 10 persone e il cui fatturato o il totale di bilancio annuale non superi 2 milioni di euro;
  • i distretti produttivi
Il comma 366 della L. 23-12-2005 n. 266, demanda ad un D.M. del MEF la definizione delle caratteristiche e delle modalità di individuazione dei distretti produttivi, quali libere aggregazioni di imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale, con l'obiettivo di accrescere lo sviluppo delle aree e dei settori di riferimento, di migliorare l'efficienza nell'organizzazione e nella produzione, secondo princìpi di sussidiarietà verticale ed orizzontale, anche individuando modalità di collaborazione con le associazioni imprenditoriali. Inoltre il comma 371-bis precisa che in attesa dell'adozione del decreto del MEF di cui al comma 366, può essere riconosciuto un contributo statale a progetti in favore dei distretti produttivi adottati dalle regioni, per un ammontare massimo del 50 per cento delle risorse pubbliche complessivamente impiegate in ciascun progetto. Inoltre con decreto del Ministro dello sviluppo economico, adottato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sono individuati i progetti regionali ammessi al beneficio di cui al comma 371-bis ed i relativi oneri per il bilancio dello Stato ed eventuali ulteriori progetti di carattere nazionale, fermo restando il limite massimo di cui al comma 372. In attuazione di tale disposizione sono stati emanati il D.M. 28 dicembre 2007 (Progetti a favore dei distretti industriali) e il D.M. 7 maggio 2010 (Riparto delle risorse per l'annualità 2008, da assegnare a favore dei distretti produttivi, ai sensi dell'articolo 1, comma 890, della legge finanziaria 2007), parzialmente modificati dal D.M. 26-6-2012.

Gli articoli 3 e 4 prevedono l'estensione alle imprese e ai distretti produttivi che introducono un sistema di tracciabilità certificata da enti e istituti pubblici o privati, così come descritto dall'articolo 2 della presente proposta di legge, dei contributi e dei finanziamenti a tasso agevolato, attualmente previsti (dall'art. 2 del D.L. 69/2013) per le imprese che realizzano investimenti per innovare i propri macchinari, nonché per gli investimenti in hardware, in software ed in tecnologie digitali.

I contributi e i finanziamenti sono concessi nella misura del 50 per cento per i prodotti made in Italy e nella misura del 100 per cento per i prodotti 100 % made in Italy.

L'articolo 2 del D.L. 69/2013, convertito, con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ha introdotto un meccanismo incentivante per le micro, piccole e medie imprese che vogliono effettuare investimenti, anche tramite leasing, di macchinari, impianti, attrezzature ad uso produttivo. L'agevolazione si applica anche all'acquisto di beni strumentali d'impresa, nonché per gli investimenti in hardware, in software ed in tecnologie digitali. Il meccanismo prevede da un lato finanziamenti agevolati concessi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati all'esercizio dell'attività di leasing finanziario (al riguardo presso Cassa depositi e prestiti viene costituito un plafond che sarà utilizzato dalla medesima Cassa per fornire, fino al 31 dicembre 2016, provvista alle banche per la concessione dei suddetti finanziamenti). I finanziamenti di cui al comma 1 hanno durata massima di 5 anni dalla data di stipula del contratto e sono accordati per un valore massimo complessivo non superiore a 2 milioni di euro per ciascuna impresa beneficiaria. L'importo massimo dei finanziamenti è di 2,5 miliardi di euro incrementabili, sulla base delle risorse disponibili ovvero che si renderanno disponibili con successivi provvedimenti legislativi, fino al limite massimo di 5 miliardi di euro secondo gli esiti del monitoraggio sull'andamento dei finanziamenti effettuato dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A., comunicato trimestralmente al Ministero dello sviluppo economico ed al Ministero dell'economia e delle finanze. Accanto ai finanziamenti alle stesse imprese il Ministero dello sviluppo economico concede inoltre un contributo, rapportato agli interessi calcolati sui finanziamenti, nella misura massima e con le modalità stabilite con decreto ministeriale. I contributi sono concessi nel rispetto della disciplina comunitaria applicabile. Per far fronte agli oneri derivanti dalla concessione dei contributi statali, è autorizzata la spesa di 7,5 milioni di euro per l'anno 2014, di 21 milioni di euro per l'anno 2015, di 35 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2016 al 2019, di 17 milioni di euro per l'anno 2020 e di 6 milioni di euro per l'anno 2021.
Si ricorda però, che per diventare operativo, il meccanismo dei finanziamenti e contributi per gli investimenti ha bisogno del decreto ministeriale di attuazione, previsto dal citato art. 2 del 69/13. Il decreto ministeriale, alla data del 16 dicembre 2013, non è ancora stato adottato.
Si ricorda infine, con riguardo agli enti di certificazione, che ACCREDIA – Ente Italiano di Accreditamento – è l'unico organismo nazionale autorizzato dallo Stato a svolgere attività di accreditamento. Esitono poi altri attori del sistema di accreditamento e certificazione, che svolgono le attività di prova, certificazione e ispezione all'interno di Laboratori e Organismi che operano come valutatori esterni e consulenti.

L'articolo 5 demanda ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, le disposizioni attuative delle disposizioni della proposta di legge in esame. Inoltre, sempre con lo stesso decreto, è demandata l'istituzione, presso la Direzione generale per la lotta alla contraffazione – Ufficio italiano brevetti e marchi del Dipartimento per l'impresa e l'internazionalizzazione del Ministero dello sviluppo economico, del Registro nazionale dei fabbricanti di prodotti interamente realizzati in Italia, al quale possono iscriversi le imprese produttrici che hanno aderito alla certificazione della propria filiera e all'introduzione del relativo codice a barre.

L'articolo 6 reca le sanzioni in caso di false indicazioni nell'origine dei prodotti, eventualmente contenute nei codici a barre.

Si osserva che la disciplina sanzionatoria di tutela del made in Italy e, più in generale, di contrasto della contraffazione, dell'alterazione di marchi nonché relativa al commercio di prodotti con segni falsi o mendaci è contenuta nel codice penale (cfr., ad esempio, artt. 473, 474, 517 c.p.). Si tratta di delitti fatti oggetto di novelle e di rilevanti inasprimenti sanzionatori nel corso della XVI legislatura.

Il comma 1 prevede che se la falsa indicazione di origine attiene a prodotti dichiarati made in Italy, al contravventore si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 250.000 euro (comma 49-bis, art. 4, L. 350/2003) e il prodotto o la merce sono confiscati (comma 49-ter, art. 4, L. 350/2003). La disposizione aggiunge che in caso di contraffazione si applicano le pene di cui all'art. 517 c.p., aumentate di un terzo (tale è la conseguenza del rinvio all'art. 16, comma 4, del decreto-legge 135/2009).

In particolare, l'art. 16 del decreto-legge n. 135 del 2009 (come convertito dalla legge ) dispone che: «4. Chiunque fa uso di un'indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale "100% made in Italy", "100% Italia", "tutto italiano", in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione, al di fuori dei presupposti previsti nei commi 1 e 2, e' punito, ferme restando le diverse sanzioni applicabili sulla base della normativa vigente, con le pene previste dall'articolo 517 del codice penale, aumentate di un terzo».
Si ricorda che ai sensi dell'art. 4, comma 49, della legge finanziaria 2004 (legge n. 350/2003) «l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell'articolo 517 del codice penale». L'art. 517 c.p. punisce – salvo che il fatto costituisca più grave reato - con la reclusione fino a 2 anni e la multa fino a 20.000 euro chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali , con nomi, marchi o segni distintivi atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto.
La Suprema Corte di Cassazione (Cass. Sez. III°, 24 maggio 2012, n° 19650) ha affermato che attualmente costituiscono infrazioni penalmente irrilevanti (integranti solo un illecito amministrativo) le condotte di "indicazioni fallaci" da cui possono derivare situazioni di incertezza indotte dalla "carenza di indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto".Costituiscono delitto, invece, le sole ipotesi di uso del marchio e della denominazione di provenienza o di origine con "false indicazioni" idonee da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Ciò perché mentre "fallace" e ciò che può illudere e/o ingannare, "falso" è ciò che risulta contrario al vero per contraffazione o alterazione dolosa. In sostanza risulta configurabile una fattispecie di reato solo quando oltre al proprio marchio o all'indicazione della località in cui l'azienda ha sede, l'imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione.

In ordine alla formulazione del testo si osserva che il comma 1 punisce con pene di specie diversa (sanzioni amministrative e sanzioni penali) due ipotesi che non paiono poter essere distinte, ovvero "la contraffazione dei prodotti dichiarati made in Italy" e "la contraffazione".

Occorre inoltre precisare il rapporto tra le "false indicazioni nell'origine dei prodotti" e il successivo richiamo alla "contraffazione".

Occorre poi chiarire cosa si intenda per "eventualmente contenute nei codici a barre di cui alla presente legge", ovvero se il legislatore intenda sostituire l'attuale disciplina sanzionatoria della falsificazione dei segni distintivi ovvero intenda applicare queste sanzioni esclusivamente alle false indicazioni contenute nei codici a barre.

Il comma 2 precisa che, se le suddette violazioni sono commesse in modo sistematico o, comunque, reiterate, ovvero attraverso attività criminali a tale scopo organizzate, si applica l'articolo 517 del codice penale.

Si ricorda che l'art. 474-ter del codice penale prevede una circostanza aggravante laddove i delitti di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.) e di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.), se non ricorre l'ipotesi di associazione per delinquere, siano commessi «in modo sistematico ovvero attraverso l'allestimento di mezzi e attività organizzate» (reclusione da 2 a 6 anni e multa da 5.000 a 50.000 euro).

Si osserva che la disposizione trasforma, in presenza di alcuni presupposti, un illecito amministrativo in un illecito penale a carattere delittuoso.

Inoltre, la pena prevista in questi casi è individuata nell'art. 517 c.p., che prevede la reclusione fino a due anni e la multa fino a 20.000 euro; si rileva che il comma 2 prevede dunque per le ipotesi di contraffazione reiterata una pena inferiore rispetto a quella prevista per la contraffazione dal comma 1 (pene di cui all'art. 517 c.p. aumentate fino a un terzo).

Il comma 3 dispone che, qualora si accerti la falsificazione dei codici a barre, il prodotto dovrà essere confiscato (art. 4, comma 49-ter, legge n. 350/2003). Si precisa che "la mancata regolarizzazione comporta la confisca definitiva dei prodotti".

In merito si ricorda che la confisca amministrativa è disciplinata dalla legge n. 689 del 1981, che all'art. 20 prevede che le autorità amministrative possano disporre la confisca amministrativa delle cose che servirono o furono destinate a commettere la violazione e debbono disporre la confisca delle cose che ne sono il prodotto, sempre che le cose suddette appartengano a una delle persone cui è ingiunto il pagamento della sanzione amministrativa. E' sempre disposta la confisca amministrativa delle cose, la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione delle quali costituisce violazione amministrativa, anche se non venga emessa l'ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa.

Si osserva che la confisca è un provvedimento ablatorio a carattere definitivo. Pertanto, se la disposizione persegue l'obiettivo di consentire lo svincolo dei prodotti occorre fare riferimento nel primo periodo al sequestro.

Si osserva peraltro che la confisca amministrativa ai sensi dell'art. 4, comma 49-ter, della legge finanziaria 2004 è prevista anche al comma 1 della disposizione in commento.

L'articolo 7 stabilisce l'entrata in vigore della legge.



Relazioni allegate o richieste

La proposta di legge, di iniziativa parlamentare, è corredata della sola relazione illustrativa.



Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite

Si evidenzia come la disciplina introdotta dalla proposta di legge in esame sia essenzialmente volta a prevenire ed a reprimere atti di concorrenza sleale e la materia della tutela della concorrenza risulti di esclusiva competenza dello Stato ai sensi del secondo comma, lettera e), dell'art. 117 della Costituzione.

Inoltre va considerata la riconducibilità della disciplina del marchio, contenuta nel codice civile (2569-2572) e nel citato codice della proprietà industriale, alla materia dell'ordinamento civile, di esclusiva competenza dello Stato ai sensi del secondo comma, lettera l), dell'art. 117 Cost.

Infine, si rileva che l'art. 117 Cost., al comma secondo, lettera r), attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di "opere dell'ingegno". Il marchio, in quanto segno distintivo - volto cioè a distinguere i prodotti o servizi di un'impresa da quelli di altre imprese - è istituto connesso alla materia delle opere dell'ingegno essendo comunemente utilizzato per identificare e tutelare queste ultime.



Compatibilità comunitaria

I codici a barre, la cui introduzione è il presupposto per ottenere incentivi economici, assolvono alla funzione di garantire ai consumatori la possibilità di identificare i prodottiil cui processo produttivo è realizzato interamente o prevalentemente in Italia.

Si ricorda che l'articolo 28 TCE vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all'importazione e le misure di effetto equivalente. Tuttavia, secondo l'articolo 30 del medesimo Trattato, le restrizioni all'importazione giustificate, tra l'altro, da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale sono autorizzate, qualora non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri. In base all'interpretazione dalla Corte di giustizia di tale normativa, i requisiti cui le normative nazionali assoggettano la concessione di denominazioni nazionali di qualità, a differenza di quanto accade per le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza (dei prodotti agroalimentari), possono riguardare solo le caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa all'origine o alla provenienza geografica degli stessi.

In particolare, si osserva che esiste una giurisprudenza risalente e costante della Corte di Giustizia in materia di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici; che ritiene incompatibile con il mercato unico, sulla base dell'art. 28 del Trattato, la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, "la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri" (cfr. la sentenza della Corte UE del 12 ottobre 1978, causa 13/78, Eggers Sohn et Co. contro Città di Brema); a tale principio fanno eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza.

Nella medesima prospettiva si pone, altresì, la decisione del 5 novembre 2002 (causa C-325/00), nella quale la Corte di Giustizia UE ha censurato la Repubblica Federale di Germania, per aver violato l'art. 28 del Trattato con la concessione del marchio di qualità "Markenqualität aus deutschen Landen" (qualità di marca della campagna tedesca), in quanto il messaggio pubblicitario, evidenziando la provenienza tedesca dei prodotti interessati, "può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che portano il marchio (…) escludendo i prodotti importati (…)". Nella stessa sentenza si rileva, inoltre, come il fatto che l'uso del suddetto marchio sia facoltativo – come previsto anche per il marchio oggetto delle proposte di legge – non elimina il potenziale effetto distorsivo sugli scambi tra gli Stati membri, posto che l'uso del marchio "favorisce, o è atto a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non possono fregiarsene" (punto 24).

Anche in materia di marchi regionali, si ricorda la decisione 6 marzo 2003 (causa C-6/02), nella quale la Corte ha affermato la responsabilità della Repubblica Francese, la quale "non avendo posto fine, entro il termine fissato nel parere motivato, alla protezione giuridica nazionale concessa alla denominazione "Salaisons d'Auvergne" nonché ai marchi regionali "Savoie", "Franche-Comté", "Corse", "Midi-Pyrénées", "Normandie", "Nord-Pas-de-Calais", "Ardennes de France", "Limousin", "Languedoc-Roussillon" e "Lorraine" (…) è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 28 TCE"; in tale causa, la Commissione europea ha sostenuto che le disposizioni francesi che istituiscono le suddette denominazioni possono avere effetti sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri, in quanto, in particolare, esse favoriscono la commercializzazione delle merci di origine nazionale a detrimento delle merci importate e dunque la loro applicazione creerebbe di per sé una disparità di trattamento tra queste due categorie di merci.

Più recentemente, si ricorda, ancora, la sentenza della Corte del 17 giugno 2004 (causa c-255/03), Commissione contro il Regno del Belgio, avente ad oggetto il ricorso diretto a far dichiarare che il Regno del Belgio, avendo adottato e mantenuto in vigore una normativa che concede il "marchio di qualità Vallone" a prodotti finiti di una determinata qualità fabbricati o trasformati in Vallonia, è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell'art. 28 TCE, in quanto tra le condizioni per ottenere il suddetto marchio figura l'obbligo di trasformazione o di fabbricazione in Vallonia, mentre i presupposti che danno accesso ad una denominazione di qualità dovrebbero riferirsi esclusivamente alle caratteristiche intrinseche del prodotto, escludendo qualsiasi riferimento alla sua origine geografica.



Documenti all'esame delle istituzioni dell'Unione europea

(a cura dell'Ufficio Rapporti con l'Unione europea)

Si ricorda che nel dicembre 2005 la Commissione europea aveva presentato una proposta di regolamento sull'obbligo di indicazione dell'origine per alcuni prodotti importati da paesi extra-Ue (c.d. "made in"), facendo seguito ad una sollecitazione del Governo italiano e di alcuni europarlamentari italiani. Obiettivo della proposta era quello di rendere più trasparenti per i consumatori le informazioni sull'origine dei prodotti e assicurare parità di condizioni tra i produttori europei e quelli di Paesi terzi che già dispongono di una legislazione analoga.

Nel corso dell'esame della proposta, secondo la procedura legislativa ordinaria, il Parlamento europeo, nell'ottobre del 2010, ha approvato a larghissima maggioranza il testo in prima lettura, mentre in seno al Consiglio non è mai emersa una maggioranza favorevole alla sua adozione.

Dando seguito a quanto preannunciato nel proprio programma di lavoro per il 2013, la Commissione europea ha ritirato la proposta legislativa, non ritenendo che vi fossero le condizioni per una sua approvazione da parte del Consiglio. Ciò, nonostante il Parlamento europeo avesse adottato, il 17 gennaio 2013, una risoluzione con cui invitava la Commissione europea a riconsiderare la propria decisione e la sollecitava, in alternativa, a proporre una nuova legislazione nel settore.

Nel febbraio 2013 la Commissione – in coerenza con le indicazioni formulate dal Consiglio europeo - ha presentato il pacchetto sicurezza dei prodotti e vigilanza del mercato che, oltre ad una proposta di regolamento sulla vigilanza del mercato dei prodotti (COM(2013)75), comprende una proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo e che abroga la direttiva 87/357/UEE del Consiglio e la direttiva 2001/95/UE(COM(2013)78).

In particolare, la proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo - che riguarda i prodotti manifatturieri destinati al consumo e non alimentari - introduce all'articolo 7 il requisito dell'indicazione di origine sui prodotti o sul loro imballaggio, ritenendolo fondamentale per realizzare la tracciabilità utile alle autorità di sorveglianza del mercato, per rafforzare la trasparenza della catena di approvvigionamento e potenziare la fiducia dei consumatori nel mercato unico.

La Commissione per il mercato interno e la tutela dei consumatori (IMCO) del Parlamento europeo il 25 ottobre 2013 ha approvato la relazione sulla proposta in vista dell'esame della plenaria, che è calendarizzato per la sessione dell'11 marzo 2014.

L'esame della proposta in seno al Consiglio non ha portato sinora ad un accordo tra gli Stati membri.

In particolare, è oggetto di controversia il richiamato articolo 7. Nel corso del Consiglio Competitività del 2 dicembre scorso la disposizione è stato oggetto di dibattito tra il Governo italiano e quello tedesco. In particolare, in quella sede la Germania, insieme ad altri Paesi del Nord Europa, avrebbe messo in dubbio che l'indicazione d'origine aiuti a migliorare la sicurezza dei consumatori e contestato il fatto che la proposta si riferisca solo ad alcuni settori merceologici; l'Italia e altri Stati membri hanno invece ribadito l''estrema importanza dell'indicazione obbligatoria dell'origine, quanto meno per alcune categorie di prodotti industriali.





Procedure di informazione

(a cura dell'Ufficio Rapporti con l'Unione europea)

L'obbligo di etichettatura comporta l'espletamento delle procedure di informazione mediante notifica alla Commissione europea come prevede la disciplina dettata dalla direttiva 98/34/UE, nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e dalla direttiva 2000/13/UE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità.

In base a tale procedura:

· gli Stati membri devono notificare alla Commissione ogni progetto di regola tecnica o di modifica, indicando i motivi che lo rendono necessario e, se del caso, il testo delle disposizioni legislative e regolamentari di modifica;

· la Commissione deve comunicare agli altri Stati membri il progetto notificatole in modo che, nella stesura definitiva della regola tecnica, si tenga conto, per quanto possibile, delle osservazioni degli altri Stati membri;

· gli Stati membri rinviano l'adozione di un progetto di regola tecnica:

- di tre mesi a decorrere dalla data in cui la Commissione ha ricevuto la comunicazione;

- di sei mesi quando gli Stati membri e/o la Commissione formulano un parere circostanziato, secondo il quale la misura proposta potrebbe creare ostacoli alla libera circolazione delle merci;

- di dodici mesi qualora la Commissione desideri adottare un atto legislativo applicabile allo stesso settore, oppure se il progetto verte su una materia che forma già oggetto di proposta da parte della Commissione; qualora, entro questo termine, il Consiglio adotti una posizione comune, il periodo di status quo è prorogato di sei mesi (18 mesi in tutto);

· lo Stato membro dovrà riferire alla Commissione il seguito che intende dare al parere prima di adottare il testo definitivo del provvedimento;

· la Commissione dovrà commentare la reazione dello Stato membro.





Formulazione del testo

L'articolo 6 della proposta di legge in esame è formulato in modo tale da rendere difficoltosa l'individuazione delle fattispecie cui si applicano le norme sanzionatorio. Le disposizioni introdotte inoltre non appaiono coerenti con il quadro sanzionatorio vigente in materia (si veda al riguardo il paragrafo di illustrazione del contenuto).