Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Le pari opportunità tra donne e uomini
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 23
Data: 04/06/2013
Descrittori:
PARITA' TRA SESSI     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni
XI-Lavoro pubblico e privato

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Le pari opportunità tra donne e uomini

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 23

 

 

 

4 giugno 2013

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Istituzioni

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( 066760-2233* st_bilancio@camera.it

 

 

 

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File: AC0159.doc

 



Il quadro internazionale

In ambito internazionale, lo strumento fondamentale per la tutela dei diritti delle donne è la Convenzione delle Nazioni Unite per la eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, adottata dall’Assemblea Generale nel 1979 ed entrata in vigore il 3 settembre 1981.

L'Italia ha ratificato la Convenzione con la legge 14 marzo 1985, n 132.

La Convenzione è stata ratificata da ben 187 Paesi (gli Stati uniti sono l’unico paese occidentale che non ha ratificato la Convenzione).

 

La Convenzione – universalmente riconosciuta come una sorta di Carta dei diritti delle donne – va oltre la nozione di discriminazione utilizzata in numerose norme e standard giuridici nazionali ed internazionali. Mentre le suddette norme e standard vietano la discriminazione basata sul sesso e proteggono sia gli uomini sia le donne da qualsiasi trattamento basato su distinzioni arbitrarie, ingiuste e/o ingiustificabili, la Convenzione verte essenzialmente sulla discriminazione contro le donne, sottolineando che queste ultime hanno patito e continuano a patire varie forme di discriminazione in quanto donne.

 

La Convenzione prevede l'istituzione di un Comitato per l'eliminazione della discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) che ha il compito di sorvegliare lo stato di applicazione delle norme da parte degli Stati firmatari (art. 17). L’attività di questo comitato ha ampiamente contribuito ad un’interpretazione dinamica della Convenzione.

 

Come chiarito nella raccomandazione generale n. 25 (1999) del Comitato, tre obblighi sono al centro delle azioni degli Stati volte all’eliminazione della discriminazione contro le donne. L’adempimento di tali obblighi deve avvenire in modo integrato e andare oltre il mero obbligo formale di un pari trattamento delle donne e degli uomini.

In primo luogo, gli Stati hanno l’obbligo di garantire che nelle loro leggi non vi sia alcuna discriminazione diretta od indiretta contro le donne e che queste ultime siano protette, nel settore pubblico e privato, da qualsiasi forma di discriminazione – commessa da autorità pubbliche, dalla magistratura, da organizzazioni, da imprese o da privati – grazie all’esistenza di tribunali competenti, di sanzioni e di altri mezzi di tutela. Può esservi discriminazione indiretta contro le donne quando una legge, una politica o un programma si basano su criteri apparentemente neutri rispetto al genere ma che in realtà si ripercuotono negativamente sulle donne. Leggi, politiche e programmi neutri rispetto al genere possono infatti senza volerlo perpetuare gli effetti di una passata discriminazione, in quanto possono essere inavvertitamente modellati su stili di vita maschili e dunque non riuscire a tener conto di aspetti dell’esperienza della vita delle donne che possono essere diversi da quelli degli uomini.

In secondo luogo, gli Stati Parti hanno l’obbligo di migliorare la condizione di fatto della donna con politiche e programmi concreti ed efficaci.

Il terzo obbligo degli Stati Parti è affrontare i rapporti prevalenti tra i generi e il permanere di stereotipi basati sul genere che influiscono negativamente sulle donne e che si manifestano non solo attraverso comportamenti individuali ma anche nella legge, nelle istituzioni e nelle strutture giuridiche e sociali.

Secondo il Comitato, un approccio giuridico o programmatico puramente formale non è sufficiente a raggiungere la parità di fatto tra l’uomo e la donna, che il Comitato interpreta come una parità sostanziale. La Convenzione richiede inoltre che alle donne siano date pari opportunità di partenza e che mediante un ambiente favorevole esse abbiano la possibilità di raggiungere la parità di risultati.

La parità di risultati è il logico corollario della parità di fatto o sostanziale. Tali risultati possono essere di natura quantitativa e/o qualitativa: vale a dire che vi sia un numero di donne praticamente pari a quello degli uomini che goda dei propri diritti in vari settori, che le donne abbiano il loro stesso livello di reddito, godano della parità nella presa di decisioni e abbiano la stessa influenza politica e che le donne siano al riparo dalla violenza.

 

E' stato inoltre adottato nel 1999 un Protocollo opzionale alla Convenzione, cui l’Italia ha aderito. In esso viene tra l'altro prevista la possibilità per i privati e le loro associazioni di adire il Comitato per la eliminazione della discriminazione contro le donne, inviando specifici esposti e lamentele.

 

Gli Stati parte hanno l'obbligo di presentare al Comitato, almeno ogni 4 anni, un rapporto in cui sono illustrate le azioni compiute per dare applicazione alle norme della Convenzione

Il Comitato, nell'ambito della sessione del luglio 2011, ha esaminato il VI rapporto periodico dell’Italia ed ha adottato le osservazioni conclusive, con cui ha rivolto al nostro paese una nutrita serie di raccomandazioni per combattere e superare definitivamente le discriminazione nei confronti delle donne.

 

Alcune delle raccomandazioni auspicano una maggiore consapevolezza del Parlamento nella conoscenza, nella diffusione e nell’attuazione della Convenzione.

 

In particolare «pur riaffermando che il Governo ha la responsabilità primaria ed è particolarmente responsabile per la piena attuazione degli obblighi dello Stato-parte contenuti nella Convenzione, il Comitato sottolinea che la Convenzione è vincolante per tutte le articolazioni del Governo ed invita lo Stato-parte ad incoraggiare il Parlamento, in linea con le proprie procedure, quando appropriato, ad adottare i passi necessari relativamente all’attuazione delle odierne Osservazioni Conclusive e del processo redazionale del prossimo Rapporto dello Stato-parte.» (punto 11).

Il Comitato esorta altresì lo Stato-parte ad «adottare misure operative per accrescere la conoscenza della Convenzione e del Protocollo Opzionale, a tutti i livelli, nazionale, regionale, provinciale e municipale ed in particolare tra i membri della Magistratura e della professione legale, tra i partiti politici, in Parlamento, tra i funzionari governativi e nell’opinione pubblica, al fine di rafforzare l’uso della Convenzione nello sviluppo e nell’attuazione di tutte le misure legislative, politiche e programmi, volti alla realizzazione pratica del principio della uguaglianza tra uomo e donna.» (punto 15, lett. c).

Il quadro europeo

La parità tra uomini e donne è uno dei principi basilari dell’ordinamento europeo. L’azione dell’Unione europea in questo ambito si è sviluppata perseguendo sostanzialmente due obiettivi: garantire la parità di opportunità e di trattamento tra uomini e donne, eliminare le discriminazioni fondate sul sesso.

Per quanto attiene ai principi di parità di trattamento e non discriminazione, rileva l’articolo 19 del Trattato di Lisbona (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - TFUE) che - riprendendo quanto già stabilito dal Trattato della Comunità europea (articolo 13, introdotto dal Trattato di Amsterdam e successivamente modificato dal Trattato di Nizza) – individua, tra i compiti fondamentali dell’Unione, il contrasto alle “discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”.

Accanto a questo articolo fondamentale, se ne possono rinvenire altri, quali:

§  l’articolo 3, ai sensi del quale la promozione della parità tra donne e uomini è considerata uno dei compiti essenziali dell’Unione;

§  l’articolo 8, secondo cui nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne.

§  gli articoli 153 e 157, che affermano il principio della completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa.

Tali principi, già indicati dal Trattato sulla Comunità europea, sono stati ripresi solennemente dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (adottata a Nizza il 12 dicembre 2000), che all’articolo 21, ha riaffermato il divieto di qualsiasi forma di discriminazione, e in particolare di quella fondata sul sesso, e all’articolo 23, ha stabilito che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, segnatamente in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione, sancendo altresì che il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.

 

L’Unione ha adottato, già a partire dagli anni ‘70, numerose direttive volte ad armonizzare gli ordinamenti dei Paesi membri in materia di parità tra i sessi e di non discriminazione.

 

Il primo atto in materia è stato la direttiva 75/117/CEE, relativa al principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, alla quale è seguita la direttiva 76/207/CEE, che ha attuato il principio della parità di trattamento per quanto concerne l'accesso all'occupazione, alla formazione e alla promozione professionale, e le condizioni di lavoro. Il principio di parità di trattamento è stato esteso ai lavoratori che esercitano un'attività autonoma dalla direttiva 86/613/CEE, relativa anche alla tutela della maternità. Tali atti sono stati in seguito sostanzialmente modificati.

Tra gli atti più recenti, che hanno inciso anche su quelli ora citati, si ricordano le direttive 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica e 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. A queste si aggiungono la direttiva 73 del 2002, che completa lo statuto della società cooperativa europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori, e la 113 del 2004, sulla parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura.

Infine, con la direttiva 2006/54/CE, si è inteso rifondere in un unico testo le principali disposizioni in materia, tenendo conto anche dell’evoluzione giurisprudenziale della Corte di giustizia delle Comunità europee.

 

L’Italia ha provveduto ad adeguare la normativa interna al quadro europeo.

 

Le direttive 75/117 e 76/207 sono state attuate dall’Italia con la legge 903/1977[1] e la direttiva 86/613 con la legge 546/1987[2].

La legge 903/1977 è stata successivamente abrogata e le sue disposizioni sono confluite, parte, nel Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 198/2006) e, parte, nel Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.Lgs. 151/2001) che costituiscono i testi normativi principali in materi. Anche la legge 546 è stata abrogata e le sue disposizioni sono state trasfuse nel Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.Lgs. 151/2001).

Il decreto legislativo 215/2003[3], recependo la direttiva 2000/43/CE, ha introdotto disposizioni relative alla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, prevedendo le misure necessarie ad evitare che le differenze di razza o etnia siano causa di discriminazione, diretta e indiretta, anche in considerazione del differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere su donne e uomini e sull’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

Un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro è stato stabilito dal decreto legislativo 216/2003[4], attuativo della direttiva 2000/78/CE, recante disposizioni per la tutela, in questi ambiti, contro ogni forma di discriminazione legata all’orientamento sessuale, alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età.

Con il decreto legislativo 145/2005[5], è stata recepita la normativa comunitaria, di cui alla direttiva 2002/73/CE, sull’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne con riguardo all’accesso al lavoro, alla formazione e promozione professionali e alle condizioni di lavoro. La direttiva in questione ha adeguato il quadro normativo dettato dalla precedente direttiva 76/207/CEE (vedi supra), alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea e alle disposizioni del Trattato CE.

La direttiva 2004/113/CE, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura è stata recepita dal decreto legislativo 196/2007[6].

Si ricorda, da ultimo, che la citata direttiva di rifusione 2006/54CE è stata recepita con il decreto legislativo 5/2010[7] che reca diverse modifiche al Codice delle pari opportunità e al Testo unico a tutela della maternità e paternità.

I principi dell’ordinamento italiano

La tutela delle pari opportunità trova un fondamento a livello costituzionale nel principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3, sia da un punto di vista formale, come uguaglianza davanti alla legge, che da un punto di vista sostanziale, come compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono la realizzazione di condizioni di effettiva parità.

L’articolo 51, primo comma, prevede altresì che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

A seguito di una modifica del 2003 (L. Cost. n. 1/2003), è stato aggiunto un periodo secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

Si è in tal modo segnato un passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento uomo-donna alla prospettiva dinamica delle pari opportunità, nell’ottica del raggiungimento di un’uguaglianza sostanziale, come già riconosciuta dall’art. 3. La disposizione non si rivolge unicamente al legislatore ma profila un’attività di carattere promozionale ad ampio raggio: il riferimento alla “Repubblica” e l’uso del termine “provvedimenti” significa che la promozione delle pari opportunità coinvolge l’insieme dei pubblici poteri.

 

Ulteriori statuizioni si rinvengono nell’articolo 37 Cost., che dispone che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni spettanti al lavoratore. Vi si stabilisce, inoltre, che le condizioni di lavoro devono essere tali da consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione.

Si ricorda, inoltre, l’articolo 117, settimo comma, Cost., come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, che prevede che le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

 

Oltre alle norme costituzionali, le politiche per le pari opportunità si sono arricchite nel tempo di varie norme volte a combattere le discriminazioni ed a promuovere una piena attuazione del principio di uguaglianza, soprattutto in attuazione della disciplina europea (v. supra). Gli interventi del legislatore, tuttavia, sono risultati eterogenei, al punto da rendere opportuno un’operazione di razionalizzazione del panorama legislativo.

Con questo obiettivo, è stato adottato il codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198) che raccoglie la normativa statale vigente sull’uguaglianza di genere nei settori della vita politica, sociale ed economica.

Il Codice si divide in quattro libri: il primo contiene disposizioni generali per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna, mentre nei libri successivi trovano spazio le disposizioni volte alla promozione delle pari opportunità nei rapporti etico-sociali, nei rapporti economici e nei rapporti civili e politici. Tale fonte è stata oggetto di successive modificazioni, le più numerose recate dal D.lgs. 25 gennaio 2010 n.5, che ha dato attuazione alla direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (c.d.rifusione).

Il codice ha ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo (art. 1, comma 1).

 

L’art. 1 del codice delle pari opportunità prevede che:

§  la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione (comma 2).

§  il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (comma 3);

§  l'obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività (comma 4).

 

L’ultima disposizione è volta ad introdurre nel nostro ordinamento il principio del gender mainstreaming, ampiamente diffuso a livello di Unione europea e in diversi Stati europei, in base al quale le politiche pubbliche devono tener conto della dimensione di genere, in modo tale che prima dell’adozione delle decisioni sia valutato il diverso impatto delle misure sulle donne e sugli uomini.

In Italia, il gender mainstreaming non ha peraltro ancora mai trovato applicazione a livello nazionale.

Si ricorda in proposito che la delega al Governo per la riforma del bilancio dello Stato prevede tra i princìpi e criteri direttivi l’introduzione in via sperimentale di un bilancio di genere, per la valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sulle donne e sugli uomini, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito (art. 40, comma 2, lett. g-bis), L. 196/2009). La delega scade il 1° gennaio 2014.

 

Nell’ambito delle pari opportunità nel lavoro, il codice definisce la nozione di discriminazione (v. infra).

 

L’art. 20 del codice prevede la presentazione al Parlamento, almeno ogni due anni, di una relazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, d'intesa con il Ministro per le pari opportunità, contenente i risultati del monitoraggio sull'applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità nel lavoro e sulla valutazione degli effetti delle disposizioni del codice.

La relazione era in precedenza prevista dall’art. 4, comma 6, del D.Lgs. n. 196/2000.

 

Si segnala peraltro che la predetta relazione è stata presentata al Parlamento solo una volta, il 21 marzo 2003, con riferimento al periodo 2000-2002 (Doc. CXC, n. 1, della XIV legislatura).

Gli organismi pubblici a tutela delle pari opportunità

Nel 1996 all’atto della formazione del Governo è stato nominato per la prima volta un Ministro per le pari opportunità, ministro senza portafoglio, al quale sono stati conferiti compiti di proposta, coordinamento e attuazione delle politiche governative in materia.

Da allora nei governi è stato sempre previsto un Ministro per le pari opportunità, con l’eccezione del Governo Monti, nel quale la delega per le pari opportunità è stata affidata al Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Nell’attuale Governo Letta, è stato nominato un unico Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili, Josefa Idem.

 

Nel 1997 è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio il Dipartimento per le pari opportunità: sorto come struttura di supporto per l’attività del Ministro e con compiti di promozione e coordinamento delle politiche di parità, ha ampliato progressivamente le proprie competenze anche nel campo della lotta alla discriminazione razziale e ad altre forme di discriminazione.

 

Presso il Dipartimento operano:

- la Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, organo consultivo e di proposta, con compiti di elaborazione e promozione di iniziative in materia di pari opportunità, ad esclusione della materia del lavoro (D.P.R. n. 115/2007);

- il Comitato per l'imprenditoria femminile (D.P.R. n. 101/2007).

 

Il decreto-legge sulla ‘spendig review(D.L. n. 95/2012, art. 12, comma 20) ha peraltro previsto che, a decorrere dalla data di scadenza degli organismi collegiali operanti presso le pubbliche amministrazioni - in regime di proroga ai sensi del D.L. n. 112/2008 - le attività svolte dagli organismi stessi sono definitivamente trasferite ai competenti uffici delle amministrazioni nell'ambito delle quali operano. Occorre dunque acquisire informazioni circa il permanere dei due citati organismi alla scadenza.

 

Per la promozione delle pari opportunità nel mondo del lavoro presso il Ministero del lavoro, in cui dal 1991 opera il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, organo consultivo del Ministro del lavoro con compiti di studio e di promozione in materia di parità nel settore della formazione professionale e del lavoro (art. 8, D.Lgs. n. 198/2006).

 

A livello nazionale, regionale e provinciale sono inoltre nominati una consigliera o un consigliere di parità, cui sono attribuiti una serie di interventi volti al rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici (artt. 15 e ss. D.Lgs. n. 198/2006).

 

 


 

Le pari opportunità nella vita politica

Quadro normativo

L’ordinamento italiano, sia a livello nazionale che a livello regionale, prevede alcune norme finalizzate alla promozione della partecipazione delle donne alla politica e dell’accesso alle cariche elettive, emanate in attuazione dei già richiamati articoli 51, primo comma, e 117, settimo comma, Cost.

 

Una norma di carattere generale, volta a riequilibrare l’accesso alle candidature nelle elezioni, è contenuta nella legge 6 luglio 2012, n. 96, in materia di finanziamento dei partiti e movimenti politici, che ha ridotto i contributi pubblici e rafforzato i controlli sui bilanci.

Si prevede, infatti, che i contributi pubblici spettanti a ciascun partito o movimento politico siano diminuiti del 5 per cento qualora il partito o il movimento politico abbia presentato nel complesso dei candidati ad esso riconducibili per l'elezione dell'assemblea di riferimento un numero di candidati del medesimo genere superiore ai due terzi del totale, con arrotondamento all'unità superiore (art. 1, comma 7).

La norma è destinata ad avere applicazione nelle elezioni politiche nazionali, nelle elezioni europee e nelle elezioni regionali.

Con riferimento alle elezioni regionali, la normativa appare sovrapporsi alle singole discipline regionali.

 

I partiti e i movimenti politici sono inoltre tenuti a destinare una quota pari almeno al 5 per cento dei rimborsi ricevuti ad iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica; a tal fine introducono una apposita voce all'interno del rendiconto (L. 157/1999, art. 3) In caso di inosservanza dell’obbligo, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari a un ventesimo dell'importo ad essi complessivamente attribuito per l'anno in corso a titolo di rimborso per le spese elettorali e di contributo per il cofinanziamento (L. 96/2012, art. 9, comma 13).

 

A livello di legge elettorale nazionale, non si rinvengono ulteriori specifiche disposizioni, ad eccezione di una norma di principio, contenuta della legge elettorale del Senato, secondo cui il sistema elettorale deve favorire “l’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini” (D.Lgs. n. 533/1993, art. 2).

 

Per le elezioni del Parlamento europeo, l’art. 56 del codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006), che riprende una disposizione della legge elettorale europea del 2004, prevede che nell’insieme delle liste di candidati presentate da ciascun partito, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.

Il computo è effettuato a livello nazionale, sull’insieme delle liste presentate con un medesimo contrassegno nelle diverse circoscrizioni (è quindi possibile una compensazione tra le diverse aree geografiche). Nel computo si tiene conto una sola volta delle candidature plurime (un candidato o una candidata può infatti presentarsi in più circoscrizioni); la cifra risultante è arrotondata all’unità prossima.

In caso di mancato rispetto si applica una riduzione dei rimborsi elettorali, in misura direttamente proporzionale al numero dei candidati in più rispetto a quello massimo consentito; la riduzione non può superare la metà del rimborso elettorale.

Sono, comunque, inammissibili le liste che non prevedono la presenza di candidati di entrambi i sessi.

Un elemento peculiare è la previsione di un meccanismo premiale per i partiti che eleggono candidati di entrambi i sessi: le somme decurtate sono destinate ai partiti che hanno eletto – e non semplicemente candidato - più di un terzo dei candidati di entrambi i sessi.

La disposizione per l’elezione del Parlamento europeo ha tuttavia natura transitoria e si applica solo per le prime 2 elezioni del Parlamento europeo successive alla legge elettorale del 2004 (elezioni del 2004 e del 2009).

Le disposizioni per favorire la partecipazione femminile per le elezioni europee non troveranno pertanto applicazione alle prossime elezioni europee, che si svolgeranno nel 2014 (tra maggio e giugno). Troverà comunque applicazione la disciplina prevista dalla legge n. 96/2012 sul finanziamento ai partiti (v. supra).

 

Dalla modifica costituzionale dell’articolo 51 discendono anche le norme inserite nella legge finanziaria 2008, che, disponendo in tema di organizzazione del Governo, stabiliscono che la sua composizione deve essere coerente con il principio costituzionale delle pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (L. 244/2007, art. 1, commi 376-377).

 

Di grande rilevanza è inoltre l’approvazione della legge 23 novembre 2012, n. 215, recante disposizioni promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.

Per l’elezione dei consigli comunali, nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la legge, riprendendo un modello già sperimentato dalla legge elettorale della Regione Campania, contempla una duplice misura volta ad assicurare il riequilibrio di genere:

§  la previsione della cd. quota di lista: nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi.

E’ previsto l’arrotondamento all’unità superiore per il genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a 0,5.

Il Ministero dell’interno, in sede applicativa, ha peraltro dato una diversa interpretazione della disposizione, applicando comunque il criterio dell’arrotondamento aritmetico (cfr. circolare n. 30/2013).

§  l’introduzione della cd. doppia preferenza di genere, che consente all’elettore di esprimere due preferenze (anziché una, come previsto dalla normativa previgente) purché riguardanti candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza. Resta comunque ferma la possibilità di esprimere una singola preferenza.

In caso di violazione delle disposizioni sulla quota di lista, è peraltro previsto un meccanismo sanzionatorio differenziato, a seconda che la popolazione superi o meno i 15.000 abitanti, che di fatto rende la quota effettivamente vincolante solo nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti.

In particolare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, riduce la lista, cancellando i candidati del genere più rappresentato, partendo dall’ultimo, fino ad assicurare il rispetto della quota; la lista che, dopo le cancellazioni, contiene un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge è ricusata e, dunque, decade.

Nei comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, procede anche in tal caso alla cancellazione dei candidati del genere sovrarappresentato partendo dall’ultimo; la riduzione della lista non può però determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Ne deriva che l’impossibilità di rispettare la quota non comporta la decadenza della lista.

Per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti è comunque previsto che nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Tale disposizione ha particolare rilievo per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, nei quali non si applica la quota di lista.

La disposizione sulla presenza di entrambi i sessi nelle liste risulta peraltro priva di sanzione.

 

Le disposizioni per l’elezione dei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti volte a garantire la parità di accesso di donne e uomini alle cariche elettive si applicano anche alle elezioni dei consigli circoscrizionali, secondo le disposizioni dei relativi statuti comunali.

 

La legge nulla dispone in ordine ai consigli provinciali, in quanto il sistema elettorale per questi organi, che dovrebbero divenire di secondo grado (eletti dai consiglieri comunali), è ancora in via di definizione.

 

Per gli esecutivi degli enti locali, la legge n. 215/2012 ha previsto inoltre che il sindaco e il presidente della provincia nominano la giunta nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi. Uguale disposizione è inserita nell’ordinamento di Roma capitale, per quanto riguarda la nomina della Giunta capitolina.

 

La norma si inserisce in un nutrito filone di giurisprudenza amministrativa che ha più volte annullato le delibere di nomina delle giunte che non rispettavano i principi in materia di parità di genere previsti dai rispettivi statuti.

I giudici amministrativi hanno inoltre riconosciuto il carattere vincolante e non meramente programmatico dei principi di parità di accesso agli uffici pubblici e di pari opportunità sanciti dall’art. 51, primo comma, Cost. e riconosciuti a livello legislativo, dichiarando l’illegittimità delle giunte composte da soli uomini anche in assenza di una specifica disposizione statutaria al riguardo (cfr., fra le altre Tar Sicilia, Palermo, sentenza 15 dicembre 2010, n. 14310; Tar Calabria, Reggio di Calabria, sentenza 27 settembre 2012, n. 589).

Una sentenza del TAR Lazio, fra le prime ad applicare la nuova legge, si è spinta oltre e, dopo aver ribadito il carattere vincolante ed immediatamente precettivo dei principi costituzionali di uguaglianza e di parità di accesso agli uffici pubblici, ha rilevato che “l’effettività della parità non può che essere individuata nella garanzia del rispetto di una soglia quanto più approssimata alla pari rappresentanza dei generi, da indicarsi dunque nel 40 per cento di persone del sesso sotto-rappresentato.” La sentenza ha dunque annullato la delibera di nomina di una giunta comunale, che vedeva la presenza, oltre al sindaco, di una sola donna su sette assessori, pur in assenza di norme dello statuto sulle pari opportunità nella composizione degli organi politici (Tar Lazio, sentenza 21 gennaio 2013, n. 633).

 

Viene inoltre modificata la norma che disciplina il contenuto degli statuti comunali e provinciali con riferimento alle pari opportunità.

In particolare, è previsto che gli statuti stabiliscono norme per “garantire”, e non più semplicemente “promuovere”, la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.

Gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri statuti e regolamenti alle nuove disposizioni entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (ossia entro il 26 giugno 2013).

 

Per le elezioni regionali, la cui disciplina è rimessa alle leggi regionali (v. infra), è introdotto il principio della promozione della parità tra uomini e donne nell'accesso alle cariche elettive attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare l'accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive.

In realtà il principio già esiste a livello costituzionale (art. 117, settimo comma, Cost.), ma, trattandosi di una materia rimessa alle regioni, alla legge statale è consentito intervenire solo per le determinazione dei principi fondamentali.

 

Modificando la legge sulla parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica (cd. legge sulla par condicio), la legge n. 215/2012 sancisce infine il principio secondo cui i mezzi di informazione, nell’ambito delle trasmissioni per la comunicazione politica, sono tenuti al rispetto dei principi di pari opportunità tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione.

 

 

Si ricorda infine che, dopo la modifica degli articoli 122 e 123 della Costituzione, che ha dato avvio al processo di elaborazione di nuovi statuti regionali e di leggi per l’elezione dei consigli nelle regioni a statuto ordinario, tutte le regioni che hanno adottato norme in materia elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche per favorire la parità di accesso alle cariche elettive, in attuazione dell’art. 117, settimo comma, Cost.

 

Le donne nelle istituzioni

Secondo l’analisi annuale del World economic forum sul Global Gender Gap, nella graduatoria diffusa nel 2012, l’Italia si colloca all’80° posto su 134 Paesi (era al 74° nel 2011 e nel 2010, al 72° nel 2009, al 67° posto nel 2008 ed all’84° nel 2007)[8]. L’indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell’economia, dell’istruzione e della salute.

Il World economic forum redige periodicamente anche un rapporto sulla competitività dei paesi a livello globale ed è interessante notare come emerga una correlazione tra il gender gap di un paese e la sua competitività nazionale. Dal momento che le donne rappresentano la metà del talento potenziale di un paese, la competitività nel lungo periodo dipende significativamente dalla maniera in cui ciascun paese educa ed utilizza le sue donne.

 

I dati relativi alla presenza femminile negli organi costituzionali italiani hanno sempre mostrato una presenza contenuta nei numeri e molto limitata quanto alle posizioni di vertice.

In tale contesto, i risultati delle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 presentano un segnale di inversione di tendenza: infatti, la media complessiva della presenza femminile nel Parlamento italiano, storicamente molto al di sotto della soglia del 30%, considerato valore minimo affinché la rappresentanza di genere sia efficace, è salita dal 19,5 della XVI legislatura al 30,1 per cento dei parlamentari eletti nella XVII legislatura.

 

La presenza delle donne in Parlamento

 

Le prime donne elette alla Consulta Nazionale sono state 14; della Consulta faceva parte un numero variabile di membri (circa 400) alcuni di diritto, altri di nomina governativa, su designazione partitica e di altre organizzazioni.

Le donne elette all'Assemblea Costituente, composta da 556 membri, sono state 21 (3,8%).

Nella XII legislatura (la prima con il sistema elettorale maggioritario e con il sistema delle quote dichiarato poi illegittimo dalla Corte costituzionale) le donne elette alla Camera dei deputati sono state 95, di cui 43 elette con la quota maggioritaria e 52 con quella proporzionale, mentre nella XIII legislatura (senza l'applicazione del sistema delle quote) le donne elette alla Camera dei deputati sono state 70 (rispettivamente 42 e 28). Al Senato sono state elette nella XIII legislatura 26 donne.

Nella XIV legislatura le donne elette alla Camera sono state 73. Al Senato le donne elette sono state 25. Le donne elette alla Camera nella XV legislatura sono state 108 (17,1 per cento) e le donne senatrici 44 (13,6 per cento). Nella XVI legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 133 donne, al Senato 58.

Nella XVII legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 198 donne (31,4 per cento), al Senato 92 donne (28,8 per cento).

Tra i senatori a vita, solo una volta, nel 2001, è stata nominata una donna, la prof.ssa Rita Levi Montalcini, recentemente scomparsa.

Quanto alle posizioni di vertice, nessuna donna in Italia ha mai rivestito la carica di Capo dello Stato, di Presidente del Consiglio o di Presidente del Senato.

La carica di Presidente della Camera è stata declinata al femminile nelle legislature VIII, IX e X, con l’elezione di Nilde Iotti, nella XII legislatura con l’elezione di Irene Pivetti e nell’attuale legislatura con l’elezione di Laura Boldrini.

Nonostante il significativo aumento della presenza femminile nei due rami del Parlamento, nella corrente legislatura alla Camera è presieduta da una donna solo una Commissione permanente su 14 (Commissione giustizia, presieduta da Donatella Ferranti); al Senato sono presiedute da una donna 2 Commissioni permanenti su 14 (Commissione Affari costituzionali, presieduta da Anna Finocchiaro, e Commissione Igiene e sanità, presieduta da Emilia Grazia De Biasi).

Nell'attuale Governo, le donne Ministro sono 7 (Emma Bonino, Ministro degli affari esteri; Annamaria Cancellieri, Ministro della giustizia; Nunzia Di Girolamo, Ministro delle politiche agricole; Maria Chiara Carrozza, Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca; Beatrice Lorenzin, Ministro della salute; Cécile Kyenge, Ministro dell’integrazione; Josefa Idem, Ministro delle Pari opportunità, sport e politiche giovanili) su 21 ministri.

Le cariche di viceministro e sottosegretario ricoperte da donne sono 10 su un totale di 41: Sesa Amici (Rapporti con il Parlamento e coordinamento attività di Governo); Sabrina De Camillis (Rapporti con il Parlamento e coordinamento attività Governo); Micaela Biancofiore (Pubblica amministrazione e semplificazione); Marta Dassù (Viceministro degli Esteri); Roberta Pinotti (Difesa); Simona Vicari (Sviluppo economico); Cecilia Guerra (Viceministro del Lavoro e politiche sociali); Jole Santelli (Lavoro e politiche sociali); Simonetta Giordani e Ilaria Borletti Buitoni (Beni, attività culturali e turismo).

 

Per quanto riguarda la composizione della Corte costituzionale, solo una dei quindi giudici costituzionali è donna, Marta Cartabia, professore ordinario, nominata nel 2011.

Nella storia della Consulta ci sono state altre due giudici donne: Fernanda Contri, avvocato, giudice della Corte dal 1996 al 2005, e Maria Rita Saulle, professore ordinario, giudice dal 2005 al 2011.

In tutti e tre i casi, le giudici donne sono state nominate dal Presidente della Repubblica.

 

Nelle elezioni per il rinnovo al Parlamento europeo del 2004, le prime dopo l’introduzione delle quote di lista, il numero delle donne italiane elette è quasi raddoppiato, passando da 8 donne nella V legislatura (1999-2004) a 15 nella VI (2004-2009). Si consideri, inoltre, che il numero dei seggi spettanti all’Italia è diminuito, passando da 87 nella V legislatura a 78, in conseguenza dell’ingresso di 10 nuovi Paesi. In termini percentuali, la componente femminile è passata dunque dal 9,2 per cento al 19,2 per cento. Nelle elezioni del 2009, le donne elette al Parlamento europeo risultano 16 su 72 seggi spettanti all’Italia (pari al 22,2 per cento).

 

Per quanto riguarda gli organi delle regioni, la presenza femminile nelle assemblee regionali si attesta in media intorno al 13%, a fronte del dato medio di presenza femminile nelle stesse assemblee rilevato in ambito UE-27, pari al 31% (dati Commissione UE, 2011).

 

Nelle autorità amministrative indipendenti, al 31 maggio 2013, su un totale di 43 componenti, 8 sono donne (19%).

I dati non considerano la COVIP, per cui è in corso la nomina di 2 dei 3 componenti, tra cui il Presidente.

Si ricorda altresì che è in corso di istituzione l’Autorità di regolazione dei trasporti.

Su 10 Autorità, solo 1, la CIVIT, è attualmente presieduta da una donna.

Non sono presenti donne nell’Autorità garante per la vigilanza sui contratti pubblici (7 componenti), nell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni (5 componenti), nell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (3 componenti), nella CONSOB (5 componenti) e nell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (che però è organo monocratico).

Nell’Autorità garante per la privacy, si registra una maggioranza di donne (3 su 4).

 

 


Le pari opportunità nel lavoro

Quadro normativo

Il legislatore ha provveduto, nel corso degli anni, a creare una serie di strumenti per garantire le pari opportunità sul luogo di lavoro, contrastare le discriminazioni e promuovere l’occupazione femminile, in attuazione dei principi sanciti a livello costituzionale ed europeo (v. supra).

 

Nell’ambito delle pari opportunità nel lavoro il codice delle pari opportunità (D.Lgs. n. 198/2006) definisce la nozione di discriminazione (art. 25).

In particolare, costituisce discriminazione diretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga (comma 1).

Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purchè l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (comma 2).

Costituisce discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti (comma 2-bis).

 

Sono inoltre considerate come discriminazioni (art. 26):

- le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo;

- le molestie sessuali, quando i comportamenti indesiderati assumono connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

- i trattamenti meno favorevoli subiti per aver rifiutato le molestie o per esservisi sottomessi; gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro delle vittime di molestie sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione;

- i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

 

È inoltre vietata qualsiasi discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro (art. 27), relativamente alle condizioni retributive (art. 28), nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera (art. 29).

 

Particolare rilievo assumono ai fini della realizzazione di una parità sostanziale le azioni positive, introdotte nel nostro ordinamento dalla legge n. 125/1991 e ora disciplinate dagli artt. 44 e ss. del codice delle pari opportunità.

Le azioni positive hanno in particolare lo scopo di:

a) eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;

b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare attraverso l'orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione;

c) favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;

d) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;

e) promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità;

f) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi;

f-bis) valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile.

 

Gli oneri connessi all’attuazione di progetti di azioni positive possono essere ammessi al rimborso totale o parziale da parte del Ministero del lavoro, sulla base di un programma-obiettivo elaborato dal Comitato Nazionale di parità, con priorità per i progetti di azioni concordate dai datori di lavoro con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

 

Per il programma-obiettivo 2012 è stata aperta la procedura per la presentazione della domanda di ammissione al finanziamento (ottobre-novembre 2012).

Successivamente il programma-obiettivo è stato, per la prima volta, bloccato a causa della mancanza di risorse (Decreto Direttoriale n. 15 del 7 febbraio 2013).

 

Inoltre, una quota del fondo per le politiche per la famiglia è destinata annualmente alla promozione di azioni volte a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro (art. 9 della legge n. 53/2000).

Detta quota è in particolare finalizzata all’erogazione di contributi in favore di datori di lavoro privati e di aziende sanitarie pubbliche che attuino accordi contrattuali che prevedano le seguenti tipologie di azione positiva:

a) progetti articolati per consentire alle lavoratrici e ai lavoratori di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, quali part time reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, banca delle ore, orario flessibile in entrata o in uscita, sui turni e su sedi diverse, orario concentrato, con specifico interesse per i progetti che prevedano di applicare, in aggiunta alle misure di flessibilità, sistemi innovativi per la valutazione della prestazione e dei risultati;

b) programmi ed azioni volti a favorire il reinserimento delle lavoratrici e dei lavoratori dopo un periodo di congedo parentale o per motivi comunque legati ad esigenze di conciliazione;

c) progetti che promuovano interventi e servizi innovativi in risposta alle esigenze di conciliazione dei lavoratori.

I benefici per il telelavoro possono essere riconosciuti anche in caso di telelavoro nella forma di contratto a termine o reversibile (art. 22, comma 5, lett. a), L. 183/2011).

Destinatari dei progetti sono lavoratrici o lavoratori, inclusi i dirigenti, con figli minori, con priorità nel caso di disabilità ovvero di minori fino a dodici anni di età, o fino a quindici anni in caso di affidamento o di adozione, ovvero con a carico persone disabili o non autosufficienti, ovvero persone affette da documentata grave infermità.

Il D.P.C.M. 23 dicembre 2010, n. 277, reca il regolamento che determina criteri e modalità per la concessione dei contributi.

 

Nel 2012 non è peraltro stato adottato il bando per l’accesso ai contributi.

 

Il codice delle pari opportunità (art. 46) prevede inoltre l’obbligo per le aziende pubbliche e private che occupano oltre 100 dipendenti di redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. In caso di inosservanza dell’obbligo è prevista una diffida da parte della Direzione provinciale del lavoro, su segnalazione delle rappresentanze sindacali aziendali o della consigliera regionale di parità; in caso di inadempimento alla diffida, si applica una sanzione amministrativa (da lire duecentomila a lire un milione) e nei casi più gravi può essere disposta la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente spettanti.

 

I contratti collettivi possono prevedere misure specifiche, ivi compresi codici di condotta, linee guida e buone prassi, per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale (art. 50-bis del codice delle pari opportunità).

 

Il codice delle pari opportunità appresta infine contro le discriminazioni forme specifiche di tutela giurisdizionale, che consentono l’adozione di provvedimenti in via d’urgenza (art. 38 e ss.).

Inoltre, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione (art. 40).

 

La legge sulla parità di accesso agli organi delle società quotate in borsa e delle società pubbliche

Con la legge 12 luglio 2011, n. 120 sono state apportate significative modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, allo scopo di tutelare la parità di genere nell'accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati e nelle società pubbliche.

La legge, preso atto della situazione di cronico squilibrio nella rappresentanza dei generi nelle posizioni di vertice delle predette imprese, intende riequilibrare a favore delle donne l'accesso agli organi apicali.

 

A tal fine è previsto un “doppio binario” normativo:

  • per le società quotate in borsa, la disciplina in materia di equilibrio di genere è recata puntualmente dalle disposizioni di rango primario;
  • per le società a controllo pubblico, i principi applicabili rimangono quelli di legge, mentre la disciplina di dettaglio è affidata ad un apposito regolamento, con la finalità di garantire una disciplina uniforme per tutte le società interessate. Tale regolamentazione è contenuta nel D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251.

 

L'articolo 1 della legge (che introduce il comma 1-ter all’articolo 147-ter del testo unico dell’intermediazione finanziaria – TUIF, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) impone che lo statuto societario preveda un riparto degli amministratori da eleggere effettuato in base a un criterio che assicuri l'equilibrio tra i generi, dovendo il genere meno rappresentato ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti.

E’ prevista un’articolata procedura per l’ipotesi in cui il consiglio di amministrazione eletto non rispetti i predetti criteri di equilibrio dei generi. In particolare, la Consob diffida la società inottemperante affinché si adegui entro il termine massimo di quattro mesi. L’inottemperanza alla diffida comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa (da 100.000 euro a 1 milione di euro) e la fissazione di un ulteriore termine di tre mesi per adempiere. Solo all’inosservanza di tale ultima diffida consegue la decadenza dei membri del consiglio di amministrazione.

Le norme proposte affidano allo statuto societario la disciplina delle modalità di formazione delle liste e dei casi di sostituzione in corso di mandato, al fine di garantire l’equilibrio dei generi.

 

Le disposizioni in materia di equilibrio di genere sono estese (inserendo, all'articolo 147-quater del TUIF, il comma 1-bis) anche al consiglio di gestione, ove costituito da almeno tre membri; è affidato all'atto costitutivo della società il compito di disciplinare il riparto dei membri del collegio sindacale (a tal fine inserendo il comma 1-bis all'articolo 148 del TUIF) secondo i già commentati criteri di tutela del genere meno rappresentato.

Anche per tale ipotesi si prevede l'attivazione di apposita procedure di diffida da parte della Consob per l'ipotesi di inottemperanza, con eventuale applicazione di una sanzione pecuniaria (da 20.000 a 200.000 euro) e, in ultima istanza, la decadenza dei membri del collegio sindacale della società inottemperante.

Le norme (articolo 2) trovano applicazione dal primo rinnovo degli organi societari interessati successivo al 12 agosto 2012 (ovvero un anno dall'entrata in vigore delle norme stesse).

Sono inoltre previste disposizioni transitorie per il primo mandato degli organi eletti secondo le nuove prescrizioni, al fine di renderne graduale l’applicazione: almeno un quinto degli organi amministrativi e di controllo societario devono essere riservati al genere meno rappresentato.

 

Come già anticipato, le disposizioni in materia di equilibrio di genere (articolo 3 della legge) si applicano anche alle società a controllo pubblico non quotate. Si demanda però a un regolamento la definizione di termini e modalità di attuazione delle prescrizioni in tema di equilibrio dei generi negli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche, con lo scopo di recare una disciplina uniforme per tutte le società interessate.

Al predetto regolamento è affidata la disciplina della vigilanza sull’applicazione delle norme introdotte, nonché delle forme e dei termini dei provvedimenti da adottare e le modalità di sostituzione dei componenti decaduti.

In particolare, il già richiamato DPR n. 251/2012 impone – come avviene per le società private - agli statuti delle società pubbliche non quotate di prevedere modalità di nomina degli organi di amministrazione e di controllo, se a composizione collegiale, secondo modalità tali da garantire che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo. Anche in tali ipotesi gli statuti disciplinano le formazione delle liste in applicazione del criterio di riparto tra generi, prevedendo modalità di elezione e di estrazione dei singoli componenti idonee a garantire il rispetto delle previsioni di legge.

Tuttavia, il DPR n. 251 del 2012 vieta agli statuti delle società pubbliche di prevedere il rispetto del criterio di riparto tra generi, ove le liste presentino un numero di candidati inferiore a tre. Inoltre gli statuti disciplinano l'esercizio dei diritti di nomina, ove previsti, affinché non contrastino con quanto previsto dal regolamento stesso.

Anche in tale ipotesi, per il primo mandato degli organi apicali la quota riservata al genere meno rappresentato deve essere pari ad almeno un quinto del numero dei componenti dell'organo.

La vigilanza sul rispetto delle disposizioni in materia di parità di genere al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità, con presentazione al Parlamento di apposita relazione triennale.

A tal fine, le società sono obbligate a comunicare la composizione degli organi sociali entro quindici giorni dalla data di nomina degli stessi o dalla data di sostituzione, ove avvenuta. L’organo di amministrazione e quello di controllo comunicano altresì la mancanza di equilibrio tra i generi, anche in corso di mandato. Tale segnalazione può essere altresì fatta pervenire da chiunque vi abbia interesse.

Ove si accerti il mancato rispetto della quota di un terzo nella composizione degli organi sociali, si prevede una diffida alla società a ripristinare l'equilibrio tra i generi entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza alla diffida, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità fissano un nuovo termine di sessanta giorni ad adempiere, con l'avvertimento che, decorso inutilmente detto termine, ove la società non provveda, i componenti dell'organo sociale interessato decadono e si provvede alla ricostituzione dell'organo nei modi e nei termini previsti dalla legge e dallo statuto.

Rispetto, dunque, alla disciplina delle società private, non è prevista alcuna sanzione pecuniaria in caso di inottemperanza alla prima diffida.

 

Per il monitoraggio sull’attuazione della nuova disciplina nelle società pubbliche è stato istituito, con decreto del Ministro delle pari opportunità del 12 febbraio 2013, un apposito gruppo di lavoro.

 

Il Dipartimento per le Pari Opportunità ha altresì attivato la casella di posta elettronica monitoraggioquotedigenere@governo.it, attraverso la quale le società ricadenti nell’ambito di applicazione del DPR comunicano la composizione degli organi sociali entro 15 giorni dalla data di nomina degli stessi o dalla data di sostituzione.

Chiunque vi abbia interesse può altresì segnalare alla medesima casella di posta elettronica la carenza di equilibrio tra i generi nella composizione degli organi sociali.

 

Si ricorda infine che il 14 novembre 2012 la Commissione europea, su impulso della Vice-Presidente Viviane Reding, ha adottato una proposta di direttiva volta a raggiungere l’obiettivo di una presenza pari ad almeno il 40% del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa.

 

Alcuni interventi recenti per il sostegno dell’occupazione femminile e la tutela della genitorialità

Il Fondo per l’occupazione giovanile e femminile

 

Il decreto-legge n. 201/2011 (art. 4, comma 27) ha disposto l’istituzione, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di un Fondo per il finanziamento di interventi a favore dell'incremento in termini quantitativi e qualitativi dell'occupazione giovanile e delle donne, finanziandolo con 200 milioni di euro per l'anno 2012, con 300 milioni di euro annui per ciascuno degli anni 2013 e 2014 e con 240 milioni di euro per l’anno 2015. I criteri e le modalità istitutive del Fondo sono stati peraltro integralmente rimessi a decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze.

 

In attuazione della predetta disposizione è stato emanato il D.M. 5 ottobre 2012, che ha destinato le risorse del Fondo – integralmente per l’anno 2012 (196,1 milioni di euro al netto di tagli lineari nel frattempo intervenuti) e per 36 milioni di euro per il 2013 – ai seguenti interventi:

§  incentivi alla trasformazione dei contratti a tempo determinato di giovani e di donne, in contratti a tempo indeterminato, nonché all'incentivazione delle stabilizzazioni, con contratto a tempo indeterminato, di giovani e di donne, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità di progetto, o delle associazioni in partecipazione con apporto di lavoro.

Per tale incentivo L'I.N.P.S. corrisponde un incentivo del valore di 12.000 euro per ogni trasformazione o stabilizzazione, che è riconosciuto, nei limiti delle risorse indicate per i contratti stipulati con giovani di età fino a 29 anni e con donne, indipendentemente dall'età anagrafica, fino ad un massimo di dieci contratti per ciascun datore di lavoro;

§  incentivi per ogni assunzione a tempo determinato di giovani e di donne con orario normale di lavoro di cui al D.Lgs. 66/2003, con incremento della base occupazionale.

Per tale incentivo di durata non inferiore a 12 mesi, di giovani fino a 29 anni e di donne, indipendentemente dall'età anagrafica, fino ad un massimo di dieci contratti per ciascun datore di lavoro, l'INPS corrisponde, nei limiti delle risorse richiamate, un incentivo del valore di 3.000 euro. Il contributo è elevato a 4.000 euro, se la durata del contratto a tempo determinato supera i 18 mesi, per le assunzioni a tempo determinato avvenute a partire dal 17 ottobre 2012 (data di pubblicazione del D.M. sulla G.U.) e sino al 31 marzo 2013; oppure a 6.000 euro, se la durata del contratto a tempo determinato supera i 24 mesi, per le assunzioni a tempo determinato sempre avvenute a partire dal 17 ottobre 2012 e sino al 31 marzo 2013.

Con riferimento a questo secondo beneficio, appare opportuno un chiarimento circa le ragioni che hanno indotto al riconoscimento dell’incentivo solo per le assunzioni a tempo determinato e non anche per quelle a tempo indeterminato.

 

La circolare INPS n. 122 del 17 ottobre 2012, che ha dato attuazione al decreto ministeriale, fa peraltro riferimento solo al primo dei due incentivi indicati nel decreto (trasformazione di contratti da tempo determinato a indeterminato e stabilizzazioni).

La legge di stabilità 2013 ha infine previsto che “resta confermato, in materia di incentivi per l'incremento in termini quantitativi e qualitativi dell'occupazione giovanile e delle donne, quanto disposto dal decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 5 ottobre 2012 […], che resta pertanto confermato in ogni sua disposizione”.

 

Occorre in proposito acquisire informazioni circa l’attuazione della disciplina sugli incentivi all’occupazione giovanile e femminile, richiedendo dati - possibilmente disaggregati per età, genere e territorio - sul numero di soggetti che hanno fruito del beneficio, sul numero di lavoratrici e lavoratori interessati, sulle tipologie di assunzioni o stabilizzazioni effettuate, sugli effetti in termini di aumento dell’occupazione giovanile e femminile e sulla stabilità di detti effetti, nonché sull’utilizzo delle risorse stanziate.

 

Le restanti risorse del Fondo, pari a 264 milioni di euro per il 2013, 300 milioni di euro per il 2014 e 240 milioni di euro per il 2015, sono state utilizzate con le seguenti finalità:

§  incentivo al lavoro autonomo per i titolari dell'assicurazione sociale per l'impiego (ASPI): 20 milioni per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015 (art. 2, comma 19, L. 92/2012);

§  esclusione di una decurtazione contributiva per alcuni lavoratori impiegati in attività stagionali o in altre attività individuate dalle parti sociali: 7 milioni per ciascuno degli anni 2013, 2014, 2015 (art. 2, comma 29, lett. b), L. 92/2012);

§  esclusione dal datore di lavoro dall’obbligo di contribuire all’ASPI in determinati casi (cambio appalto con continuità per il lavoratore; nel settore edile chiusura cantiere): 12 milioni per il 2013, 38 milioni per ciascuno degli anni 2014 e 2015 (art. 2, comma 34, L. 92/2012);

§  estensione dell’ASPI ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali: 20 milioni per ciascuno degli anni 2013, 2014 e  2015 (art. 3, comma 17, L. 92/2012);

§  introduzione del congedo di paternità: 65 milioni per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015 (art. 2, comma 24, lett. a), L. 92/2012);

§  contributo per l’acquisto di servizi di baby-sitting o di servizi per l'infanzia (cd. voucher): 20 milioni per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015 (art. 2, comma 24, lett. b), L. 92/2012 e DM 22/12/2012);

§  integrazione di un’indennità ai collaboratori coordinati e continuativi: 60 milioni per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015 (art. 2, comma 56, L. 92/2012 e DM 22/12/2012);

§  riduzione degli aumenti contributivi disposti dalle di riforma del mercato del lavoro 46 milioni per il 2013, 38 milioni per il 2014 (art. 46-bis, comma 3, DL 83/2012).

 

Il Fondo è stato altresì oggetto di una serie di riduzioni conseguenti a tagli lineari delle voci di spesa.

In particolare il Fondo è stato ridotto:

§  dall’articolo 13, comma 1-quinquies del D.L. n. 16/2012 (legge n. 44/2012), per un importo pari a 3,8 milioni per il 2012, a 2,5 milioni per il 2013 e il 2014 e a 2,3 milioni per il 2015;

§  dall’articolo 69, comma 2, lettera b), del D.L: n. 83/2012, per un importo di 2,1 milioni per il 2014 e di 4,7 milioni nel 2015;

§  dall’articolo 7, comma 12 del D.L. n. 95/2012 (legge n. 135/2012) , che ha inciso sul Fondo per un importo pari a 10,7 milioni di euro nel 2013, a 8,5 milioni nel 2014 e 3 milioni di euro nel 2015.

 

A seguito dei richiamati interventi, risultano allo stato ancora disponibili sul Fondo 0,8 milioni di euro per il 2013 e 18,9 milioni di euro per il 2014.

 

In conclusione, si rileva per gli anni 2013, 2014 e 2015 sono stati destinati ad interventi riconducibili alla specifica finalità del Fondo, ossia al sostegno dell’occupazione femminile e giovanile, 56 milioni nel 2013, 20 milioni nel 2014 e 20 milioni nel 2015, a fronte di una dotazione iniziale del Fondo di 300 milioni per il 2013, 300 milioni per il 2014 e 240 milioni per il 2015.

In particolare, sono stati destinati alla predetta finalità 36 milioni nel 2013 per gli incentivi all’assunzione di giovani e donne previsti dal DM 5 ottobre 2012 (v. supra) e 20 milioni per ciascuno dei 3 anni per il contributo all’acquisto di servizi all’infanzia da parte delle madri lavoratrici (v. infra).

Le restanti risorse sono state destinate ad interventi di sostegno all’occupazione non rivolti a donne e giovani ed all’introduzione del congedo di paternità.

 

Il congedo di paternità ed il contributo per l’acquisto di servizi all’infanzia (cd. voucher)

La legge di riforma del mercato del lavoro (L. 92/2012, art. 4, commi 24-26), al fine di sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all'interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ha introdotto, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, due nuovi istituti:

- il congedo di paternità;

- il contributo per l’acquisto di servizi all’infanzia (cd. voucher).

 

Questi due istituti non sono stati peraltro ritenuti applicabili ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in quanto l’applicazione al pubblico impiego della legge di riforma del mercato del lavoro è subordinata all’approvazione di apposita normativa su iniziativa del Ministro della pubblica amministrazione (L. 92/2012, art. 1, commi 7-8).

E’ stata così introdotta una asimmetria tra disciplina dei dipendenti privati e disciplina dei dipendenti pubblici sul piano degli istituti di tutela della genitorialità.

Si ricorda inoltre che la relazione tecnica al provvedimento, presentata nel corso dell’esame parlamentare, considerava la normativa applicabile anche ai pubblici dipendenti.

 

Scendendo nel dettaglio della disciplina, è stato introdotto per i padri lavoratori dipendenti un giorno di congedo di paternità obbligatorio, cui possono aggiungersi due giorni di congedo facoltativo. Questi ultimi sono peraltro fruiti in sostituzione di altrettanti giorni del congedo obbligatorio post-partum spettante alla madre, previo accordo di quest’ultima, con conseguente anticipazione del termine finale del congedo post-partum. Il congedo di paternità, sia obbligatorio che facoltativo, deve essere fruito entro i primi 5 mesi di vita del figlio o della figlia e dà diritto ad un’indennità pari al 100% della retribuzione. La relativa richiesta di congedo deve essere presentata con almeno 15 giorni di anticipo.

E’ stata inoltre riconosciuta alla madre lavoratrice la possibilità di fruire di un contributo per l'acquisto di servizi di baby-sitting o di servizi per l'infanzia (cd. voucher). Tale possibilità è peraltro alternativa al congedo parentale, è limitata agli undici mesi successivi al congedo di maternità ed è riconosciuta nei limiti delle risorse stanziate.

 

L’attuazione della disciplina sul congedo di paternità e sui voucher è stata rimessa ad un decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia, cui è tra l’altro rimessa la determinazione delle risorse da destinare alla misura, nell’ambito di quelle del Fondo per l’occupazione femminile e giovanile.

Nonostante la legge prevedesse il termine di un mese, peraltro ordinatorio, per l’emanazione del decreto (cioè il 18 agosto 2012), alla nuova disciplina è stata data attuazione con il D.M. 22 dicembre 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 febbraio 2013.

 

Nonostante la legge configuri per il padre lavoratore dipendente un obbligo di astensione di un giorno, il decreto attuativo non prevede alcun meccanismo per assicurare l’osservanza dell’obbligo. La fruizione del congedo rimane dunque di fatto rimessa alla richiesta del padre.

 

Piuttosto articolata è la disciplina che il decreto detta per il contributo per l’acquisto dei servizi per l’infanzia.

Il decreto specifica che il contributo è pari a 300 euro mensili, per un massimo di 6 mesi, in base alla richiesta della lavoratrice interessata, che rinuncia per altrettante mensilità al congedo parentale; la rinuncia può anche essere parziale (artt. 4 e 5).

 

Le lavoratrici iscritte alla gestione separata INPS possono fruire dei benefici per un massimo di tre mesi (art. 7, comma 3).

Tale riduzione appare connessa alla durata massima del congedo parentale delle lavoratrici iscritte alla gestione separata, pari a tre mesi, anziché a sei mesi come per le dipendenti.

Si ricorda peraltro che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 297/2012, ha rilevato che - nonostante tra lavoratrici dipendenti e lavoratrici iscritte alla gestione separata sussistano differenze che rendono le due categorie non omogenee - sul piano degli istituti di tutela della maternità le due lavoratrici vengono a trovarsi in posizione di uguaglianza, stante l’identità del bene da tutelare, ossia il preminente interesse del minore (nel caso di specie la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni che, per le lavoratrici iscritte alla gestione separata che avessero adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore, prevedevano l’indennità di maternità per un periodo di tre mesi anziché di cinque mesi).

 

Il contributo per il servizio di baby sitting è erogato attraverso il sistema dei buoni lavoro, mentre in caso di fruizione dei servizi pubblici o privati accreditati per l’infanzia, il beneficio consiste in un pagamento diretto alla struttura prescelta. La fruizione può peraltro aver luogo solo nelle strutture pubbliche e private accreditate che abbiano volontariamente aderito alla sperimentazione, presentando all’INPS domanda di iscrizione nell’apposito elenco (art. 8).

Il 16 maggio 2013 l’INPS ha pubblicato il bando per l’istituzione del predetto elenco.

 

Per accedere ai benefici la madre lavoratrice presenta domanda in via telematica all’INPS, che indicherà, per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015, i termini iniziali e finali di presentazione (per il 2014 e 2015 potrà essere previsto un frazionamento della procedura).

Nella domanda la madre lavoratrice indica a quale delle due opzioni – baby sitting o struttura per l’infanzia – intende accedere e per quante mensilità, con conseguente pari riduzione del congedo parentale; nel caso di scelta per i servizi dell’infanzia la lavoratrice è tenuta a verificare la disponibilità dei posti presso le strutture interessate.

Il beneficio è riconosciuto sulla base di una graduatoria nazionale, pubblicata dall’INPS entro 15 giorni dalla scadenza del bando, attribuendo priorità ai nuclei familiari con ISEE di valore inferiore.

Il beneficio è riconosciuto nei limiti di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015.

Nell’ipotesi in cui tutte le interessate richiedano il contributo per il massimo consentito (6 mensilità), potranno dunque fruire dei benefici circa 11.100 lavoratrici.

 

In materia è altresì intervenuta la circolare INPS n. 48 del 28 marzo 2013. La circolare chiarisce, tra l’altro, la rinunciabilità del beneficio dopo l’ammissione, con conseguente possibilità di poter riutilizzare il congedo parentale (profilo su cui il decreto ministeriale non forniva invece indicazioni).

 

Occorre in proposito valutare se la complessa procedura per la fruizione del beneficio e, soprattutto, l’incertezza sull’accesso al contributo non possano in parte compromettere la finalità di sostegno all’occupazione femminile che la normativa intende perseguire.

La previsione di termini rigidi per la presentazione delle domande potrebbe creare difficoltà soggettive, legate alla necessità di effettuare con anticipo scelte complesse (la domanda può essere presentata a partire da quattro mesi prima del parto), come l’indicazione obbligatoria dell’opzione cui si intende accedere (baby sitting o struttura per l’infanzia).

Alcuni elementi della domanda, in particolare l’obbligo di verifica dell’esistenza di posti disponibili presso le strutture dell’infanzia, potrebbero addirittura non rientrare nella disponibilità della lavoratrice (si pensi agli asili nido pubblici, per i quali le graduatorie di accesso sono redatte dai comuni con cadenza annuale). L’adesione puramente volontaria alla sperimentazione da parte delle strutture dell’infanzia potrebbe inoltre limitare l’accesso al contributo per i servizi all’infanzia, escludendo di fatto le madri che intendano iscrivere i figli a strutture pubbliche o private accreditate che non abbiano aderito.

 

Il protrarsi dei tempi per l’emanazione dei provvedimenti attuativi sembra inoltre incidere sulla fruibilità del beneficio, soprattutto per l’anno in corso: a inizio giugno non è stato ancora emanato il bando per la presentazione delle domande da parte delle lavoratrici (si ricorda che il beneficio ha natura sperimentale e si applica solo per tre anni).

Si segnala altresì che la rinuncia al congedo parentale comporta risparmi dal punto di vista della spesa pubblica (il congedo parentale è infatti retribuito al 30%), liberando risorse che potrebbero essere riutilizzate per le medesime finalità di sostegno all’occupazione femminile.

 

Il decreto “salva-infrazioni”: congedi di maternità e congedi parentali

In materia di congedi di maternità e congedi parentali è inoltre intervenuto alla fine del 2012 il cd. decreto “salva-infrazioni” (art. 3 D.L. n. 216/2012), il cui contenuto è successivamente confluito nella legge di stabilità 2013 (L. 228/2012, art. 1, commi 336-339).

Le nuove disposizioni:

- estendono alle pescatrici autonome della piccola pesca gli istituti dell’indennità di maternità e del congedo parentale previsti per le lavoratrici autonome;

- introducono la possibilità di fruizione del congedo parentale su base oraria, rimettendo peraltro alla contrattazione collettiva la determinazione delle relative modalità;

Occorre acquisire informazioni circa il recepimento della disposizione da parte della contrattazione collettiva. Dopo 5 mesi dall’entrata in vigore la disposizione non sembra infatti aver avuto attuazione in nessuno dei principali settori lavorativi:

- prevedono che il lavoratore e il datore di lavoro concordano, ove necessario, adeguate misure di ripresa dell'attività lavorativa al termine del periodo di congedo parentale;

- attribuiscono agli organismi di parità il compito di scambiare le informazioni disponibili con gli organismi europei corrispondenti.

 

La delega per l’occupazione femminile

Si ricorda infine che il 24 novembre 2012 è scaduta la delega per la revisione della disciplina in materia di occupazione femminile, prevista dall’articolo 1, comma 81, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (cd. collegato-lavoro).

Sulla mancato esercizio della delega ha inciso il mancato stanziamento di risorse per l’attuazione della stessa (art. 1, comma 93, L. 247/2007).

 

I princìpi e criteri direttivi erano i seguenti:

§  previsione di incentivi e sgravi contributivi mirati a sostenere i regimi di orari flessibili legati alle necessità della conciliazione tra lavoro e vita familiare e a favorire l’aumento dell’occupazione femminile;

§  revisione della vigente normativa in materia di congedi parentali, con particolare riferimento all’estensione della durata di tali congedi e all’incremento della relativa indennità al fine di incentivarne l’utilizzo;

§  rafforzamento degli istituti di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, con particolare riferimento al lavoro a tempo parziale e al telelavoro;

§  rafforzamento dell’azione dei diversi livelli di governo e delle diverse amministrazioni competenti, con riferimento ai servizi per l’infanzia e agli anziani non autosufficienti, in funzione di sostegno dell’esercizio della libertà di scelta da parte delle donne nel campo del lavoro;

§  orientamento dell’intervento legato alla programmazione dei Fondi comunitari, a partire dal Fondo sociale europeo (FSE) e dal Programma operativo nazionale (PON), in via prioritaria per l’occupazione femminile, a supporto non solo delle attività formative, ma anche di quelle di accompagnamento e inserimento al lavoro, con destinazione di risorse alla formazione di programmi mirati alle donne per il corso della relativa vita lavorativa;

§  rafforzamento delle garanzie per l’applicazione effettiva della parità di trattamento tra donne e uomini in materia di occupazione e di lavoro;

§  realizzazione di sistemi di raccolta ed elaborazione di dati in grado di far emergere e rendere misurabili le discriminazioni di genere anche di tipo retributivo;

§  potenziamento delle azioni intese a favorire lo sviluppo dell’imprenditoria femminile;

§  previsione di azioni e interventi che agevolino l’accesso e il rientro nel mercato del lavoro delle donne, anche attraverso formazione professionale mirata con conseguente certificazione secondo le nuove strategie dell’Unione europea.

§  definizione degli adempimenti dei datori di lavoro in materia di attenzione al genere.

 

I dati sull’occupazione femminile

Secondo i dati del rapporto ISTAT 2013 (presentato il 22 maggio 2013), la quota di donne occupate in Italia rimane di gran lunga inferiore a quella dell’Unione europea: nel 2012 il tasso di occupazione femminile si attesta al 47,1 per cento contro un 58,6 per cento della media Ue27.

Negli anni della crisi, l’occupazione femminile ha comunque registrato una maggiore tenuta di quella maschile. In particolare, il 2012 ha segnato un aumento dell’1,2% (+110.000 unità) rispetto al 2011, ma questo dato quantitativo deve essere letto alla luce di tre considerazioni relative alla qualità del lavoro:

§  la ripresa dell’occupazione femminile è in buona parte ascrivibile alla crescita delle occupate straniere (+76 mila, +7,9 per cento), impiegate quasi esclusivamente in lavori non qualificati;

§  la crescita dell’occupazione femminile italiana è riconducibile all’incremento delle occupate ultra 49enni (+148 mila, +6,8 per cento), che ha più che compensato il protrarsi della rilevantissima riduzione dei valori per le più giovani. Ciò verosimilmente si deve ai mutamenti nel sistema pensionistico, che ha innalzato l’età di pensionamento Si sta dunque attuando, come già negli anni precedenti, una ricomposizione dell’occupazione per età che vede una maggiore presenza delle classi più anziane;

§  l’aumento dell’offerta di lavoro femminile è anche il risultato di nuove strategie familiari per affrontare le ristrettezze economiche indotte dalla crisi.

 

Sempre sul piano qualitativo, nel 2012 persistono fenomeni di segmentazione occupazionale e di minore rendimento del capitale umano, rispetto alla componente maschile. Dall’inizio della crisi, il ritmo di crescita dell’occupazione femminile nelle professioni non qualificate è infatti più che doppio rispetto a quello degli uomini ed il peggioramento delle condizioni generali del mercato del lavoro ha intensificato il fenomeno della segregazione di genere (intendendosi per tale una distribuzione non casuale delle donne occupate fra le varie categorie professionali).

Nel 2012 l’incidenza delle donne sovraistruite, ossia impiegate in professioni per le quali il titolo di studio richiesto è inferiore a quello posseduto, continua a essere maggiore di circa 3 punti percentuali di quella degli uomini (23,3 per cento contro 20,6 per cento) e tale differenza di genere è più accentuata e in crescita per coloro che possiedono un titolo universitario.

Anche nel caso del lavoro atipico l’incidenza femminile resta più elevata (4 punti percentuali), soprattutto nel Mezzogiorno. Nell’ultimo biennio la trasformazione dei contratti atipici in rapporti di lavoro permanenti è avvenuta molto più frequentemente per gli uomini: su 100 donne che avevano un lavoro atipico nel primo trimestre del 2011, soltanto 12 (in confronto a 20 uomini) sono riuscite un anno dopo a passare ad un lavoro a tempo indeterminato.

Nel corso del 2012, cresce inoltre l’occupazione femminile part time (+199 mila), con correlativa diminuzione dei contratti a tempo pieno, proseguendo la dinamica degli ultimi quattro anni; continua inoltre ad aumentare la quota del part time involontario, che raggiunge il 54,1 per cento.

Rilevante è anche il dato della disparità salariale femminile (cd. gender pay gap). In media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento a quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro), anche se il divario si dimezza considerando i soli impieghi a tempo pieno (11,5 per cento, rispettivamente 1.279 e 1.444 euro); fra questi, le differenze si mantengono rilevanti per le laureate. Le donne dichiarano con minore frequenza degli uomini di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario.

In una carriera spesso contraddistinta, oltre che dalla maggiore presenza dei fenomeni di sovraistruzione, anche da episodi di discontinuità dovuti alla nascita dei figli, il differenziale salariale a sfavore delle donne aumenta con l’età, soprattutto per le laureate.

L’effetto di genere lungo la distribuzione delle retribuzioni mostra inoltre che il gender pay gap cresce all’aumentare delle retribuzioni, con un’accelerazione finale quando si prendono in considerazione le retribuzioni più alte (in particolare il differenziale negativo passa, tra il primo ed il nono decile, dal -6,6 al -16,1 per cento; la crescita è abbastanza uniforme fino all’ottavo decile per poi accelerare quando si passa alle retribuzioni più alte, con un aumento di circa tre punti percentuali). Questo risultato suggerisce la presenza di un “soffitto di cristallo”. Le differenze di genere relative alle retribuzioni orarie si ampliano inoltre se si passa all’analisi delle retribuzioni medie annuali che tengono conto anche di premi, benefits e mensilità aggiuntive, nonché dell’input di lavoro nel corso dell’anno.

 

Nel marzo 2013, inoltre, l’ISTAT e il CNEL hanno diffuso il primo rapporto sul benessere equo e sostenibile (BES), sviluppando una serie di indicatori sullo stato di salute del paese che vanno oltre il Pil.

Nella parte relativa al lavoro ed alla conciliazione dei tempi di vita, emergono alcune significative differenze di genere.

Per quanto riguarda la qualità del lavoro, diversi risultano gli elementi che determinano la soddisfazione per uomini e donne: per i primi il guadagno è l’aspetto che raccoglie più giudizi positivi, mentre le seconde sono più soddisfatte degli aspetti relazionali, dell’orario e della distanza casa-lavoro.

Secondo il rapporto BES 2013, la qualità dell’occupazione di un Paese si misura anche sulla possibilità che le donne, e in particolare quelle con figli piccoli, riescano a conciliare il lavoro retribuito con le attività di cura familiare. Guardando al rapporto tra il tasso di occupazione delle donne (da 25 a 49 anni) con figli in età prescolare e quello delle donne senza figli, pari a circa il 70%, non si nota alcuna modificazione dal 2004 al 2011: ciò significa che le donne con figli piccoli hanno una probabilità di lavorare inferiore del 30% rispetto alle donne senza figli.

Il livello d’istruzione ha un forte impatto nella mancata partecipazione delle donne con responsabilità familiari: infatti, il gap rispetto alle donne senza figli si riduce progressivamente al crescere del titolo di studio. Rilevante è anche la ripartizione del lavoro familiare tra i coniugi: la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di lavoro familiare svolto dalla coppia in cui entrambi siano occupati è, nel 2008-2009 del 72%. Si nota comunque una lenta diminuzione dell’asimmetria dei ruoli: nel 1988-1989 la percentuale era dell’80% e nel 2002-2003 del 74%. Nelle coppie con figli, inoltre, l’indice di asimmetria è più elevato.

Alla diseguale ripartizione del lavoro familiare si aggiunge la mancanza di adeguati servizi: ciò provoca un sovraccarico di impegni lavorativi per la donna occupata, privandola della possibilità di avere del tempo libero per la cura personale e per attività espressive e relazionali. Nel 2008 (e non si notano significative differenze rispetto al 2002) quasi il 64% delle donne italiane occupate è impegnato per più di 60 ore settimanali in attività lavorative, retribuite o no (percentuale che sale al 68% quando vi sono dei figli cui badare e scende al 57% quando non vi sono figli). Per gli uomini le percentuali sono inferiori di oltre 10 punti, tranne che per le persone che non vivono in coppia, la cui percentuale è di pochissimo inferiore a quella delle donne nella stessa posizione.

 

 

 


 

Le pari opportunità nelle pubbliche amministrazioni

Quadro normativo

Il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sul pubblico impiego, presta grande attenzione al tema delle pari opportunità.

Le finalità della disciplina dell'organizzazione degli uffici e dei rapporti di impiego sono infatti l’accrescimento dell'efficienza delle amministrazioni, la razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e la realizzazione della migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti e garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori.

In particolare, i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali tengono conto delle condizioni di pari opportunità (art. 19, commi 4-bis e 5-ter).

Le amministrazioni pubbliche curano la formazione e l'aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifiche dirigenziali, garantendo altresì l'adeguamento dei programmi formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere della pubblica amministrazione. (art. 7, comma 4).

Infine, le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità tra uomini e donne:

§   riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso;

§   adottano propri atti regolamentari per assicurare pari opportunità fra uomini e donne sul lavoro, conformemente alle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica (art. 57);

§   garantiscono la partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni, adottando modalità organizzative atte a favorirne la partecipazione, consentendo la conciliazione fra vita professionale e vita familiare;

§   possono finanziare programmi di azioni positive e l’attività dei Comitati unici di garanzia (CUG).

 

In recepimento di direttive comunitarie, il legislatore ha infatti previsto (art. 21, L. 183/2010) che le pubbliche amministrazioni costituiscano al proprio interno il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG), che sostituisce, unificando le competenze in un solo organismo, i comitati per le pari opportunità e i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione collettiva, dei quali assume tutte le funzioni previste dalla legge, dai contratti collettivi relativi al personale delle amministrazioni pubbliche o da altre disposizioni. Nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza, il CUG esercita prevalentemente compiti propositivi, consultivi e di verifica sui risultati delle attività intraprese.

 

Il codice per le pari opportunità prevede inoltre l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di adottare piani di azioni positive (art. 48).

In particolare, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le province, i comuni e gli altri enti pubblici non economici, sentite le organizzazioni sindacali e gli organismi preposti alla tutela delle pari opportunità, predispongono piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne. Detti piani, fra l'altro, al fine di promuovere l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono sottorappresentate, favoriscono il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore a due terzi.

A tale scopo, in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un'esplicita ed adeguata motivazione.

I piani hanno durata triennale.

In caso di mancato adempimento, le pubbliche amministrazioni non possono procedere all’assunzione di personale.

 

Per quanto riguarda l’attuazione della norma, l’adozione del piano di azioni positive non appare rispettato da oltre la metà delle pubbliche amministrazioni, come risulta dai dati del rapporto della Presidenza del Consiglio (Dipartimenti funzione pubblica e pari opportunità) sulle misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche del 2012 (su dati 2011).

Per quanto riguarda in particolare i ministeri, solo i Ministeri degli affari esteri, della giustizia, della salute, dello sviluppo economico hanno adottato i piani (dati 2011).

 

Occorre in proposito verificare l’effettiva applicazione della sanzione prevista (divieto di assunzione di personale) per il caso di inadempimento dell’obbligo di adottare il piano di azioni positive.

 

La Presidenza del Consiglio – Dipartimenti della funzione pubblica e delle pari opportunità ha adottato il 23 maggio 2007 una direttiva recante misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche. La direttiva, oltre a ribadire la necessità di una piena applicazione disposizioni vigenti in materia di parità nel pubblico impiego, fornisce nuove indicazioni per una piena attuazione del principio di pari opportunità.

 

Con riferimento all'organizzazione del lavoro, la direttiva rileva la necessità che essa sia progettata e strutturata con modalità che favoriscano, per i lavoratori e per le lavoratrici, la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita. Inoltre, é necessario valorizzare le competenze delle lavoratrici che rappresentano la maggioranza del personale delle amministrazioni pubbliche, ma non sono proporzionalmente presenti nelle posizioni di vertice.

A questo scopo le amministrazioni pubbliche devono:

§  favorire la diffusione del telelavoro, attraverso la progettazione e la relativa sperimentazione, evitando che lo strumento si traduca in fattore di discriminazione dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte;

§  attivare progetti di miglioramento organizzativo volti alla valorizzazione delle competenze attraverso, ad esempio, la mappatura delle competenze professionali;

§  favorire il reinserimento del personale assente dal lavoro per lunghi periodi (maternità, congedi parentali ecc.) mediante l'adozione di misure di accompagnamento (ad esempio istituzionalizzare/migliorare i flussi informativi tra amministrazione e lavoratore o lavoratrice durante l'assenza) che assicurino il mantenimento delle competenze dei lavoratori e delle lavoratrici, il loro accesso alla possibilità di formazione oltre che la garanzia del proseguimento della carriera.

Le politiche di gestione del personale devono inoltre rimuovere i fattori che ostacolano le pari opportunità e promuovere la presenza delle lavoratrici nelle posizioni apicali. Occorre, in particolare, evitare penalizzazioni nell'assegnazione degli incarichi, siano essi riferiti alle posizioni organizzative, alla preposizione agli uffici di livello dirigenziale o ad attività rientranti nei compiti e doveri d'ufficio, e nella corresponsione dei relativi emolumenti. A questo scopo le amministrazioni pubbliche, fra l’altro, devono:

§  curare che i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali tengano conto del principio di pari opportunità;

§  individuare e rimuovere eventuali aspetti discriminatori nei sistemi di valutazione privilegiando i risultati rispetto alla mera presenza;

§  monitorare gli incarichi conferiti sia al personale dirigenziale che a quello non dirigenziale, le indennità e le posizioni organizzative al fine di individuare eventuali differenziali retributivi tra donne e uomini e promuovere le conseguenti azioni correttive;

§  adottare iniziative per favorire il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussista un divario fra generi non inferiore a due terzi.

Con riferimento alla formazione e cultura organizzativa delle amministrazioni, la direttiva sottolinea che deve essere orientata alla valorizzazione del contributo di donne e uomini. Occorre, pertanto, che le culture organizzative superino gli stereotipi (la "neutralità" non sempre è sinonimo di equità) e adottino modelli organizzativi che rispettino e valorizzino le donne e gli uomini. A questo scopo le amministrazioni pubbliche devono:

§  curare che la formazione e l'aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifica dirigenziale, contribuiscano allo sviluppo della "cultura di genere" innanzi tutto attraverso la diffusione della conoscenza della normativa a tutela delle pari opportunità e sui congedi parentali, inserendo moduli a ciò strumentali in tutti i programmi formativi;

§  avviare azioni di sensibilizzazione e formazione della dirigenza sulle tematiche delle pari opportunità;

§  produrre tutte le statistiche sul personale ripartite per genere. La ripartizione per genere non deve interessare solo alcune voci, ma tutte le variabili considerate (comprese quelle relative ai trattamenti economici e al tempo di permanenza nelle varie posizioni professionali) devono essere declinate su tre componenti: uomini, donne e totale;

§  utilizzare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminatorio;

§  promuovere analisi di bilancio che mettano in evidenza quanta parte e quali voci del bilancio di una amministrazione siano (in modo diretto o indiretto) indirizzate alle donne, quanta parte agli uomini e quanta parte a entrambi. Si auspica pertanto che i bilanci di genere diventino pratica consolidata nelle attività di rendicontazione sociale delle amministrazioni.

Inoltre, le scuole di formazione per le amministrazioni pubbliche devono inserire moduli obbligatori sulle pari opportunità in tutti i corsi di gestione del personale da esse organizzati, ivi compreso nei corsi per la formazione di ingresso alla dirigenza.

Per ciò che attiene ai Comitati per le pari opportunità (ora CUG), le pubbliche amministrazioni devono inoltre:

§  rafforzare il ruolo del Comitato per le pari opportunità all'interno dell'amministrazione, attraverso la nomina, come componenti di parte dell'amministrazione, di dirigenti/funzionari dotati di potere decisionale;

§  nell'ambito dei vari livelli di relazioni sindacali previsti per le diverse materie, tenere in adeguata considerazione le proposte formulate dal Comitato per le pari opportunità, per individuare le misure idonee a favorire effettive pari opportunità nelle condizioni di lavoro e di sviluppo professionale;

§  valorizzare e pubblicizzare con ogni mezzo, nell'ambito lavorativo, i risultati del lavoro svolto dal comitato.

Entro il 20 febbraio di ogni anno la direzione del personale, in collaborazione con il comitato pari opportunità, redige una relazione di sintesi delle azioni effettuate nell'anno precedente e di quelle previste per l'anno in corso per l’attuazione della direttiva.

 

Sull’attuazione delle direttiva la Presidenza del consiglio redige annualmente una relazione di sintesi.

 

La promozione delle pari opportunità è inoltre uno degli obiettivi del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, in materia produttività del lavoro pubblico (cd. ‘decreto Brunetta’), che ha introdotto un nuovo sistema di misurazione e valutazione della performance delle pubbliche amministrazioni, sia livello organizzativo che a livello individuale (art. 1).

Il Sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa concerne infatti , tra l’altro, il raggiungimento degli obiettivi di promozione delle pari opportunità (art. 8). Nella valutazione di performance individuale, valida ai fini delle progressioni di carriera e del riconoscimento di incentivi con criteri di selettività, non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale (art. 9).

Tra i compiti della neoistituita Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT) figura quello di favorire la cultura delle pari opportunità con relativi criteri e prassi applicative (art. 13).

Gli organismi indipendenti di valutazione della performance, di cui ogni amministrazione deve dotarsi, provvedono inoltre alla verifica dei risultati e delle buone pratiche di promozione delle pari opportunità (art. 14).

 

I nuovi principi hanno però trovato scarsa applicazione nella pratica: secondo i dati del 2011, su 62 piani di performance che la CIVIT ha raccolto solo 3 ministeri (lavoro, esteri e difesa) e 8 enti hanno presentato obiettivi di pari opportunità.

 

Le donne ai vertici della pubblica amministrazione

Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministeri

I dati della dirigenza generale e apicale dello Stato centrale, considerando Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministeri, mettono in evidenza che su un totale di 370 dirigenti generali le donne sono 132 (il 36/%), mentre delle 44 posizioni dirigenziali apicali soltanto 10 sono ricoperte da donne (il 23%)(dati maggio 2012[9]).

 

Magistratura ordinaria, amministrativa e contabile

Magistratura ordinaria - I magistrati ordinari in servizio sono 8722, di cui il 46% sono donne (dati maggio 2012[10]). Negli uffici giudicanti le donne magistrato sfiorano la perfetta parità: sono il 49%, ma la situazione cambia radicalmente quando si considerano gli incarichi direttivi e semidirettivi: tra i semidirettivi giudicanti le donne sono il 28 per cento e tra i direttivi il 17 per cento. La situazione delle donne è peggiore negli uffici requirenti, dove le donne complessivamente sono meno presenti (il 39% del totale) e le percentuali di quelle che ricoprono incarichi semidirettivi e direttivi è rispettivamente del 14% e dell’11%.

Magistratura amministrativa: I magistrati amministrativi nel plesso della magistratura amministrativa sono 461, di cui 94 donne, ossia il 20% del totale (dati maggio 2012[11]). Le donne magistrato di T.A.R. sono il 25% su un totale di 334, mentre le donne Consigliere di Stato sono 10 (l’8%del totale). Nessuna donna è Presidente di un T.A.R. o Presidente, Presidente aggiunto o di sezione del Consiglio di Stato. Solo 5 donne con qualifica di Consigliere di T.A.R. hanno incarichi semidirettivi (Presidente di sezione interna o staccata di T.A.R.), mentre 43 hanno la qualifica di Consigliere di T.A.R., senza però ricoprire incarichi semidirettivi.

Magistratura contabile: I magistrati contabili in servizio sono 455, di cui 132 donne (29%) (dati maggio 2012[12]). La presenza femminile in posizione direttiva è particolarmente contenuta: 7 donne su 63 posizioni totali, prevalentemente concentrate nelle sezioni regionali; questi valori scontano la bassa presenza di donne nelle coorti più anziane di magistrati, tra i quali sono cooptati i titolari di incarichi direttivi. Basso anche il numero di donne procuratore regionale (3 su un totale di 22), mentre sono 3 su 8 le donne alle quali è attribuita la funzione di consigliere delegato al controllo sui Ministeri e sulla Regione Siciliana.

 

Carriera diplomatica

Ai vertici della carriera diplomatica[13] le presenza femminile è esigua: su 914 diplomatici di carriera, le donne sono soltanto 168 (dati aprile 2012).

Le donne ambasciatore sono 2: una nominata nel 2008 (Governo Prodi) e l’altra nel 2012 (Governo Monti), a fronte di 32 ambasciatori di sesso maschile; le donne ambasciatore sono dunque meno del 6%.

Sono donne solo il 7% (13 in tutto) dei Capi missione all’estero su una rete di oltre 180 uffici tra ambasciate bilaterali, rappresentanze permanenti presso organismi multilaterali e consolati generali.

 

Carriera prefettizia

Appartengono alla carriera prefettizia 1348 unità di personale (dati maggio 2012). Nel complesso le donne sono più della metà (718 contro 630 uomini); le percentuali sono simili nel grado di viceprefetto e viceprefetto aggiunto (le donne sono il 57% del totale). La situazione è diversa  quando si considera il grado di prefetto: le donne sono soltanto 70 su 214 (il 33%). Le donne titolari di prefettura sono 28, su un totale di 106, e rappresentano circa il 28%.

 


Il Fondo per le pari opportunità

Con l’intento di promuovere le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, l’articolo 19, comma 3, del D.L. n. 223/2006 ha istituito, presso la Presidenza del Consiglio, un Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, dotandolo di 3 milioni di euro per l’anno 2006 e di 10 milioni di euro a decorrere dall’anno 2007.

Le risorse sono allocate – a bilancio statale - nel capitolo 2108 (Programma 17.4, Promozione dei diritti e delle pari opportunità) dello stato di previsione del Ministero dell’economia, rubricato “somme da corrispondere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per le politiche delle pari opportunità”. Sul bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Fondo è iscritto sul programma “coordinamento delle politiche relative ai diritti e le pari opportunità”, Centro di responsabilità 8 “Diritti e pari opportunità”, capitolo 493.

in milioni di euro

 

 

Cap. 2108/MEF

Cap. 493/PCM

 

Previsioni iniziali

Previsioni definitive

Previsioni iniziali

Previsioni definitive*

Economie*

2006

3,0

3,0

3,0

3,7

3,7

2007

50,0

50,0

50,0

53,7

45,7

2008

64,4

64,4

50,0

93,0

77,5

2009

29,9

32,8

24,9

105,3

91,3

2010

4,3

4,2

3,5

94,1

44,2

2011

18,1

15,2

2,3

53,5

32,6

2012

11,0

10,8

4,5

34,7

11,1

2013

11,4

n.d

4,0

n.d

n.d

 

La Tabella precedente illustra gli stanziamenti – iniziali e definitivi - del Fondo presenti sul capitolo 2108 dello stato di previsione del Ministero dell’economia e finanze del Bilancio di previsione dello Stato. Illustra altresì gli stanziamenti del medesimo Fondo iscritti sul capitolo 493 della Presidenza su cui le risorse del detto Fondo affluiscono.

Per ciò che concerne gli stanziamenti iniziali, iscritti sul bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio, si osservi che essi attengono alle previsioni di legge e sono formulati a metà dicembre dell’anno precedente a quello cui si riferiscono, sulla base della legislazione vigente in quel momento, cioè prima della legge di approvazione del bilancio di previsione dello Stato per lo stesso esercizio previsionale.

Dunque, di regola, gli stanziamenti non sono ‘tarati’ su quelli che poi risulteranno a bilancio statale, ma vengono adeguati ad esso successivamente.

*Negli stanziamenti definitivi del bilancio della Presidenza sono incluse – oltre che le variazioni da fattore legislativo – anche i ccdd. riporti relativi alle economie[14] dell’anno finanziario precedente (ai sensi dell’art. 11, comma 2, D.P.C.M. 9 dicembre 2002), nonché le riassegnazioni di residui passivi perenti nonché le variazioni in aumento derivanti dal Fondo di riserva e le cd. “eventuali e diverse” (flessibilità).

 

Si ricorda che la dotazione del Fondo è stata oggetto di una serie di interventi legislativi che si sono susseguiti nel corso degli anni.

 

In particolare, lo stanziamento originario è stato incrementato di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 dalla legge finanziaria 2007 (legge n. 296/2006) articolo 1, comma 1261.

La disposizione ha inoltre stabilito che una quota parte dell’incremento sia destinata al Fondo nazionale contro la violenza sessuale e di genere, successivamente istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità, a sua volta finalizzato in quota parte all’istituzione di un Osservatorio nazionale e in parte ad un Piano d’azione nazionale.

 

Le risorse sono state poi rideterminate annualmente nella Tabella C della legge finanziaria,ora legge di stabilità.

In particolare:

§  la legge finanziaria 2008 (legge n. 244/2007) ha rideterminato lo stanziamento per il Fondo in 44,4 milioni per il 2008, a 44,4 milioni per il 2009 e a 4,9 milioni per il 2010.

Inoltre, si ricorda che l’articolo 2, comma 463, della legge n. 244/2007 (legge finanziaria 2008) ha istituito, per il solo anno 2008, un fondo con una dotazione di 20 milioni di euro, destinato a un Piano contro la violenza alle donne, le cui risorse sono confluite nel citato cap. 2108 dello stato di previsione del Ministero dell’economia, ma tali risorse, nel bilancio della Presidenza del Consiglio, sono state poi allocate sul capitolo n. 496.

Pertanto, la legge di bilancio 2008 (legge n. 245/2007) espone sul capitolo 2108 uno stanziamento pari a 64,4 milioni per il 2008;

§  la legge finanziaria 2009 (legge n. 203/2008), ha rideterminato lo stanziamento del Fondo nella misura di circa 29,9 milioni nel 2009, di 3,3 milioni nel 2010 e di 2,5 milioni nel 2011.

Pertanto, la legge di bilancio 2009 (legge n. 204/2008) espone sul capitolo 2108 uno stanziamento pari a 30,0 milioni per il 2009.

Si ricorda inoltre che l’articolo 10, comma 5 del D.L. n. 39/2009 ha destinato 3 milioni di euro del Fondo pari opportunità per l’anno 2009 al sostegno alla ricostruzione di centri di accoglienza per le donne e le madri in situazioni di difficoltà nelle zone dell’aquilano colpite dal sisma dell’aprile 2009.

Inoltre, l’articolo 13, comma 3 del D.L. n. 11/2009[15] (legge n. 38/2009), autorizza la spesa di 1 milione di euro a decorrere dal 2009 per l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio - Dipartimento pari opportunità del numero verde per le vittime degli atti persecutori disponendo che si provveda mediante l’utilizzo del Fondo pari opportunità.

Infine, l’articolo 6, comma 2 del medesimo D.L. n. 11/2009 (legge n. 38/2009) ha disposto un rifinanziamento del Fondo di 3 milioni di euro per il 2009 al sostegno e alla diffusione sul territorio dei progetti di assistenza alle vittime di violenza sessuale e di genere (articolo 1, comma 1261, legge n. 296/2006);

§  La legge finanziaria 2010 (legge n. 191/2009), ha rideterminato lo stanziamento per il 2010 in 3,3 milioni per il 2010, per il 2011 in 2,4 milioni e per il 2012 in 2,4 milioni.

La legge n. 192/2009 (legge di bilancio 2010) espone sul capitolo 2108 uno stanziamento pari a 4,3 milioni per il 2010.

 

§   la legge di stabilità 2011 (legge n. 220/2010), ha ridefinito le risorse del Fondo in circa 17,2 milioni per ciascuno degli anni 2011, 2012 e 2013.

La legge n. 221/2010 (legge di bilancio 2011) espone sul capitolo 2108 uno stanziamento pari a 18,1 milioni per il 2011, per il 2012 e per il 2013.

 

Inoltre, si ricorda che, nel corso del 2011, l'articolo 7 della legge n. 112/2011, ha disposto, al comma 1, una riduzione del Fondo di 750 mila euro per il 2011 a parziale copertura dell’onere derivante dall’istituzione del l'Ufficio dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, e, al comma 2, una riduzione del Fondo di 200 mila euro a decorrere dal 2011 a copertura dell'indennità di carica prevista per il titolare della predetta Autorità garante.

Inoltre, nel corso del 2012 è stata operata sul capitolo 2108 una riduzione di circa 1,9 milioni di euro per il 2011, determinata ai sensi del combinato disposto dell’articolo 1, comma 13 legge n. 220/2010 e dell’articolo 40, comma 1-bis del D.L. n. 98/2011 e dell’articolo 7, comma 1, lettera b) del D.L. n. 95/2012 (legge n. 135/2012).

 

§  la legge di stabilità 2012 (L. n. 183/2011) ha rideterminato le risorse del Fondo in circa 10,5 milioni per il 2012, in 11,6 milioni per il 2013 e in 12,8 milioni per il 2014.

A legge di bilancio 2012 (legge n. 184/2012), le risorse stanziate sul capitolo 2108 sono pari a circa 11 milioni di euro nel 2012, a 12,2 milioni nel 2013 e a 13,5 milioni nel 2014.

 

§  infine, la legge di stabilità 2013 (legge n. 228/2012) ridetermina lo stanziamento del Fondo in 10,8 milioni per il 2013, in 11,6 milioni per il 2014 e in 11,7 milioni per il 2013.

A legge di bilancio 2013 (legge n. 229/2012) le risorse del Fondo sono pari a 11,4 milioni per il 2013 a 12,3 milioni per il 2014 e a 12,4 milioni per il 2015.

 

Sugli stanziamenti a legislazione vigente del Fondo hanno altresì agito una serie di tagli lineari o generalizzati alle dotazioni di spesa rimodulabili del bilancio statale.

Si tratta, in particolare:

§  della riduzione – pari a 2,6 milioni di euro per l’anno 2008 – operata dall’articolo 1, comma 507 della legge n. 296/2006, e dall’articolo 60, comma 10 del D.L. n. 112/2008;

§  del definanziamento – pari a 2 milioni di euro sempre per l’anno 2008- ai sensi dell’articolo 5 e allegato 1, del D.L. n. 93/2008 (L. n. 126/2008);

§  delle riduzioni per il triennio 2009-2011, di circa il 20 percento delle dotazioni a legislazione vigente operate dall’articolo 60, commi 1-2 del D.L. n. 112/2008;

§  della riduzione ai sensi dell’articolo 7, comma 1, lett. b) del D.L. n. 95/2012 (misura di contenimento delle spese per le strutture di missione e degli stanziamenti per le politiche dei singoli Ministri senza portafoglio e Sottosegretari), pari per il 2012 a circa 1 milione di euro e per il 2013  a circa 1,4 milioni

 

 

 


 



[1]     Legge 9 dicembre 1977 n. 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.

[2]     Legge 29 dicembre 1987 n. 546, Indennità di maternità per le lavoratrici autonome.

[3]     Decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

[4]     Decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

[5]     Decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 145, Attuazione della direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne, per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro; reca modificazioni ed integrazioni alla legge 903/1977 e al citato Testo unico a tutela della maternità e paternità.

[6]     D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 196, Attuazione della direttiva 2004/113/CE che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura.

[7]     Decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 5, Attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).

[8]     World economic forum, The Global Gender Gap Report 2011, Ginevra 2012 (http://www.weforum.org/reports/global-gender-gap-report-2012).

[9] Fonte: Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dati riferiti al maggio 2012.

[10] Fonte: Dati CPO ANM.

[11] Fonte: Dati CPO Magistratura amministrativa.

[12] Fonte: Dati CPO Magistratura contabile.

[13] Fonte:  Dati Ministero Affari  esteri.

[14]    Nell’ordinamento contabile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per economie si intende la differenza tra previsioni definitive e l’impegnato nell’anno.

[15]    D.L. 23 febbraio 2009 n. 11 Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori.