Allegato B
Seduta n. 398 del 19/11/2010

TESTO AGGIORNATO AL 27 GENNAIO 2011

...

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA
DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interpellanza:

La sottoscritta chiede di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, per sapere - premesso che:
le ultime calamità alluvionali abbattutesi sulla Calabria hanno provocato ingenti danni sull'intero territorio ed hanno, altresì, procurato un morto accertato;
ingenti sono stati i danni all'agricoltura calabrese; diversi i torrenti ed i fiumi straripati; numerosissimi i danni alla rete stradale in tutta la regione, dove molti centri piccoli risultano in parte isolati o in condizioni molto difficili di collegamento; numerose strutture turistiche, commerciali ed imprenditoriali risultano in ginocchio;
la piaga del dissesto idrogeologico per l'intera regione Calabria sta assumendo contorni realmente preoccupanti;

secondo i dati dell'indagine «Ecosistema Rischio 2010», 409 comuni calabresi, ovvero il 100 per cento del totale, è a rischio frane o alluvioni;
è decisamente individuabile l'uso dissennato ed incontrollato del territorio; non vi è stata un'oculata difesa del suolo; spesso è venuta meno la valutazione sull'impatto ambientale sia per la realizzazione delle infrastrutture sia per lo smaltimento dei materiali da riporto; molte opere di difesa sono risultate inadeguate; fiumi e torrenti non sono mai stati messi in sicurezza;
nessun piano contro il dissesto idrogeologico dell'intera regione Calabria è stato mai decretato;
il governatore della Calabria ha comunicato nei giorni scorsi di aver avuto garanzia circa l'emissione di un decreto governativo per un contributo di 15 milioni di euro a favore della regione, sicuramente non sufficiente per far fronte all'entità dei danni provocati dalle recenti alluvioni, anche alla luce del fatto che ancora non sono stati elargiti tutti i finanziamenti utili a far fronte ai danni alluvionali che hanno investito la Calabria nell'inverno dello scorso anno;
è stata, altresì, preannunciata la destinazione di ulteriori 70 milioni di euro nell'ambito di un accordo di programma quadro ambiente, ma non si conoscono i tempi di tale destinazione -:
quali provvedimenti urgenti intenda adottare il Governo per far fronte alla grave emergenza creatasi in Calabria a seguito della lunga e violenta ultima ondata di maltempo;
se non ritengano necessario ed urgente promuovere un monitoraggio utile a verificare i danni reali causati dall'ultima alluvione nell'intera Calabria ed attribuire gli adeguati finanziamenti su di una definita lista dei danni e su un'adeguata programmazione di interventi;
se non ritengano di fornire ogni elemento utile in merito agli interventi fatti, in occasione di quest'ultimo evento calamitoso abbattutosi sulla Calabria, da parte della Protezione civile regionale;
quali urgenti iniziative intendano assumere per favorire la definizione di un'oculata pianificazione del territorio e di un adeguato piano di riassesto idrogeologico del territorio.
(2-00893) «Angela Napoli».

Interrogazioni a risposta scritta:

DI STANISLAO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro degli affari esteri. - Per sapere - premesso che:
a livello internazionale, l'Italia è membro del DAC (Development assistance committee), il comitato di coordinamento della cooperazione internazionale dell'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che riunisce i Paesi «donatori» di aiuto pubblico allo sviluppo (APS). In quanto Paese donatore, l'Italia ha sottoscritto una serie di impegni in termini di quantità e qualità degli aiuti. In merito alla quantità, la dichiarazione del millennio delle Nazioni Unite impegna i Paesi donatori ad aumentare progressivamente i fondi destinati all'APS, fino a devolvere, entro il 2015, lo 0,7 per cento del proprio prodotto interno lordo (PIL) alla cooperazione internazionale. Per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, l'Unione europea ha stabilito una serie di «tappe intermedie»: nel marzo 2002, i Governi dell'Unione europea decisero che avrebbero concesso, collettivamente, lo 0,39 per cento del proprio PIL all'APS entro il 2006, fissando anche, per la stessa scadenza, la quota minima individuale per ciascun Paese (0,33 per cento). Questo impegno è stato rinnovato ed esteso nel 2005, quando i Governo europei convennero sulla necessità di fornire un contributo pari allo 0,51 per cento di APS/PIL entro il 2010. Tali impegni sono stati ribaditi e ampliati nel corso delle principali conferenze delle Nazioni Unite sul finanziamento per lo sviluppo;

per quel che riguarda la qualità e l'efficacia degli aiuti, l'Italia si è impegnata, inoltre, a rispettare la dichiarazione di Parigi sull'efficacia degli aiuti e l'Agenda for Action di Acera (entrambe elaborate in ambito OCSE), che definiscono un set di obiettivi misurabili e di indicatori per raggiungere standard accettabili di efficacia e una migliore armonizzazione delle politiche di cooperazione internazionale;
secondo i dati forniti dal DAC l'Italia continua a non rispettare gli impegni assunti a livello internazionale. Nel 2009, infatti, le risorse che l'Italia ha dichiarato di aver destinato all'APS ammontano complessivamente a 2,4 miliardi di euro, pari solo allo 0,16 per cento del PIL, molto lontano non solo dallo 0,51 per cento che, in base agli accordi assunti in ambito europeo, rappresenta la soglia minima individuale che ciascun Paese si è impegnato a raggiungere entro il 2010, ma anche da quello 0,33 per cento che l'Italia avrebbe già dovuto raggiungere nel 2006;
l'Italia, altresì, ha un rapporto APS/PIL pari a meno di un terzo della media europea, ed è tra i soli quattro Stati (insieme ad Austria, Portogallo e Grecia) a non aver raggiunto l'obiettivo minimo individuale dello 0,33 per cento. Al contrario, i quattro Paesi più «virtuosi» (Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Paesi Bassi) hanno già superato anche l'obiettivo dello 0,7 per cento fissato per il 2015;
nel marzo 2010 sono state formulate le nuove linee guida per la cooperazione italiana per il triennio 2010-2012 dalla direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (DGCS) del Ministero degli affari esteri. Nel capitolo 3.1 relativo al volume delle risorse totali disponibili, dopo aver premesso che «l'ammontare delle risorse stanziate per la Cooperazione allo sviluppo dalla legge finanziaria e dalla legge di bilancio 2010 è fortemente influenzato dalla grave crisi finanziaria internazionale in atto e dagli obblighi di rientro dal deficit pubblico assunti dall'Italia in sede europea», la DGCS rende noto che la legge finanziaria per il 2010 prevede, per il prossimo triennio, i seguenti stanziamenti per la cooperazione: 326,96 milioni di euro per l'anno 2010 e 210,94 milioni di euro per ciascuno degli anni 2011 e 2012. Se si tiene conto, inoltre, della cifra relativa agli impegni pluriennali che riguardano iniziative già avviate (pari circa a 110 milioni di euro), per l'anno 2010 le risorse di cui la DGCS può complessivamente disporre ammontano a 274 milioni di euro, corrispondente a circa un decimo dell'APS stanziato nel 2009 -:
se il Governo ritenga ancora validi e realizzabili gli impegni assunti a livello internazionale per la cooperazione alla sviluppo e, in caso affermativo, come intenda rispettarli, considerando il grave ritardo nel raggiungimento degli obiettivi passati e la totale assenza, ad avviso dell'interrogante, di prospettive per il raggiungimento degli obiettivi futuri.
(4-09548)

JANNONE e CARLUCCI. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. - Per sapere - premesso che:
le alluvioni dei giorni scorsi hanno scosso profondamente il legame che teneva uniti cittadini e territorio, specialmente in regioni, come la Toscana, in cui si presta molta attenzione alla cura dell'ambiente. Negli ultimi anni, le frane sono divenute sempre più frequenti, provocando anche numerose vittime, sei soltanto nell'ultimo mese. Il metereologo Giampiero Maracchi afferma che in Toscana la convivenza tra uomo e natura è più difficile che altrove: «Perché la Toscana, come la Liguria, è regione ad alto rischio meteorologico: l'85-90 per cento delle perturbazioni arriva da Ovest e quando le masse d'aria incontrano le Alpi Apuane, le Alpi Marittime, sono costrette a scavalcarle creando barriere di nubi che si scaricano violentemente». Maracchi ricorda come questo oggi accada con più violenza e più frequenza per effetto dei cambiamenti climatici. Le «bombe di pioggia» sono storia recente, ma le montagne che si sgretolano sono un vecchio fenomeno. «Le frane ci

sono sempre state», dice Nicola Gasagli, docente di geologia all'università di Firenze. «La Toscana, negli anni '80, è stata tra i primi ad adottare leggi di tutela del territorio: tuttavia negli ultimi anni si è fatto molto poco per adattare il vecchio e introdurre una cultura di autoprotezione.». Duro Mario Tozzi, geologo e presidente del Parco dell'arcipelago toscano: «Gli ha governato i lavori pubblici in Toscana ha fatto un piano paesaggistico bello dal punto di vista teorico e tragico da quello pratico, ha delegato troppo ai Comuni. E i Comuni, che campano sulle rendite delle concessioni edilizie, non hanno tutelato il territorio»;
anche la città del Palladio, Vicenza, è diventata il simbolo della grande alluvione di inizio novembre 2010, flagellata dalla pioggia, dai fiumi che esondano, a causa anche dello scioglimento dei nevai. Una furia che si è abbattuta anche al Sud, ma che ha preso di mira particolarmente il Veneto, con epicentro a Vicenza. Venezia, invece, la città più fragile, dove si aggira da oltre quarant'anni lo spettro dell'acqua alta eccezionale del 1966, sembra aver passato il pericolo indenne. La marea ha toccato appena i 101 centimetri sul medio mare. Il fiume esondato a Vicenza è il Bacchiglione; l'acqua è entrata ovunque, anche negli scantinanti Teatro Olimpico, fiore all'occhiello del capoluogo berico. Il centro storico è diventato un lago. Circa 1.000 uomini, tra militari dell'esercito, vigili del fuoco ed altrettanti volontari lavorano per riconquistare la normalità spazzata via in poche ore. Il sindaco Achille Variati, in prima linea, assicura ai suoi cittadini la richiesta dello stato di calamità. Il Presidente della regione del Veneto, Luca Zaia, annuncia di aver stanziato due milioni per fronteggiare l'emergenza maltempo che ha colpito la regione;
se, infatti, Vicenza rende l'immagine più forte dell'alluvione, i comuni colpiti, in modo più o meno grave, sono 121. Disagi, paralisi, scuole chiuse, negozi chiusi, gente bloccata in casa. La circolazione stradale, anche nei territori che non sono stati toccati dalla tempesta ha subito, di riflesso, gravosi rallentamenti. L'autostrada A4, chiusa per molte ore, in alcuni tratti, ha diviso il Veneto a metà. L'inondazione ha colpito il territorio di quasi tutte le province della regione: Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Treviso. Il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, afferma che «la situazione è grave ma sotto controllo»; sorvolando in elicottero le zone disastrate ha constatato che anche il Veneto necessitava di interventi preventivi seri, che però non sono stati attuati. Il bollettino dell'alluvione veneta racconta, in cifre, quanto segue: un disperso nell'area di Vicenza, un altro nella provincia di Rovigo, 2.500 sfollati nel Veronese, 1.500 a Galdogno, un migliaio in provincia di Padova dove si teme lo straripamento del Bacchiglione, come nel Vicentino. Un secondo corso d'acqua ha messo in allarme la popolazione, il Livenza. Nel paese Motta di Livenza 100 degenti di un ospedale sono stati evacuati insieme ad altri 80 ospiti di una casa di riposo;
il maltempo ha paralizzato anche la Calabria. Fiumi e torrenti straripati, frane che hanno abbattuto case e strade ridotte a voragini. La situazione più drammatica si è registrata in provincia di Reggio Calabria. Duecento abitanti del quartiere Vallomena di Gioia Tauro sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Saranno ospitati in alberghi cittadini. Il torrente Budello è straripato inondando l'intero quartiere. Dieci persone che si erano rifugiate sui tetti delle loro case sono state tratte in salvo da un elicottero della polizia. Oppido Mamertina è isolata. L'ospedale del piccolo centro della Piana di Gioia Tauro si è allagato e il sindaco ha disposto il trasferimento dei malati dal piano terra al primo piano;
anche Rizziconi, altro centro del comprensorio, è irraggiungibile. Le scuole, in questi due comuni rimarranno chiuse. Sono state interrotte la strada statale 18 in direzione di Rosarno e la strada statale 182 delle Serre ed è stato chiuso il raccordo che conduce al porto di Gioia Tauro. Situazione critica anche nel Casentino. A San Giovanni in Fiore quattro

famiglie sono state evacuate perché c'è il rischio che le loro case possano essere travolte da una frana. A Cosenza i sottopassaggi sono allagati e la circolazione è ferma. Chiusa per tutto il pomeriggio la linea ferroviaria Catanzaro Lido-Lamezia. A Soverato è esondato il Beltrame, lo stesso che dieci anni fa travolse e uccise tredici persone. Il maltempo però ha provocato danni anche in Sicilia e Puglia. Per alcune ore è stata chiusa al traffico l'autostrada Messina-Palermo a causa dell'esondazione di alcuni torrenti. I danni maggiori si sono registrati sul versante occidentale dell'isola. Lo smottamento di alcuni costoni ha imposto la chiusura di alcune arterie provinciali. Pioggia e vento hanno bloccato l'intera città di Bari. A Trani sono stati allagati il cimitero e le biblioteca comunale -:
se si intenda tempestivamente dichiarare lo stato di calamità naturale per le zone colpite drammaticamente dalle recenti alluvioni;
quali iniziative si intendano adottare al fine di definire una normativa nazionale di tutela ambientale, riguardante le foreste, i laghi, gli argini dei fiumi, nonché tutti gli elementi a protezione naturale del territorio, al fine di evitare i gravosi incidenti occorsi nei giorni scorsi.
(4-09583)

JANNONE e CARLUCCI. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della gioventù. - Per sapere - premesso che:
il bullismo è un fenomeno in preoccupante crescita non soltanto all'interno di gruppi di adolescenti, o di coetanei, ma purtroppo anche nelle famiglie. Episodi di violenze di figli contro genitori stanno emergendo sempre più cospicuamente, come dimostra la testimonianza riportata dal quotidiano «Repubblica», nella quale si legge: «vivo nella paura di mia figlia. La prima volta, Giorgia aveva 17 anni. Io sapevo che fumava erba, ma un giorno scopro che ha preso un acido. "Basta", le urlo. "Basta con quel tuo ragazzo: è un balordo, lo capisci? Ti sta rovinando, non devi più vederlo!". Mi giro e lei mi tira un cazzotto in mezzo alla schiena, io barcollo, cado, mi manca il respiro...». La mamma di Giorgia ha una figlia che sembra odiarla e che la insulta, la minaccia e a volte la picchia. È una donna poco più che quarantenne, vive nei pressi di Roma con un marito affettuoso e un figlio più piccolo: si direbbe una famiglia come tante, di piccola borghesia. E invece è una famiglia devastata dall'infelicità, dalla rabbia e dalla delusione: sentimenti che prevalgono sull'amore, in questi casi estremi;
a supporto di questi fenomeni, lo psichiatra Gustavo Charmet afferma: «sempre più spesso incontro madri che con vergogna ammettono di essere saltuariamente picchiate dalle figlie. Mi sorprende, ma non tantissimo, perché mi sono abituato all'idea che alle pari opportunità corrispondano uguali rischi. Ragazze che si emancipano picchiando. E poi la madre non è più la guardiana della verginità, la riduzione del conflitto appanna il suo potere sacro». I bulli in famiglia sono spesso ex bambini impotenti e ora onnipotenti che ingaggiano una loro guerra crudele in casa - una nuova versione dell'inferno domestico scarsamente quantificabile, perché raramente i genitori denunciano i loro figli. Una delle tante voci che si sono espresse a riguardo è quella di Francesco Mele, terapeuta di formazione lacaiana che - oltre all'attività privata - è in trincea con i ragazzi più in difficoltà, dirigendo l'«Istituto della famiglia» legato al nome di don Picchi. Il suo ultimo libro si chiama «Mio caro nemico», un titolo anche spiritoso per il supplizio della «guerra quotidiana in famiglia». Mele non teme l'allarmismo: «La situazione è molto grave. Credo che ormai siano intorno al 10 per cento i ragazzi pronti al «ceffone di ritorno». La vittima preferita è la madre, anche per l'eclissi non solo simbolica della figura paterna. Ma non vengono risparmiati gli stessi padri, i fratelli e addirittura i nonni. Tanto che ormai sarebbe necessario un Telefono Azzurro per familiari maltrattati dagli

adolescenti, un call center che almeno li informi su quello che possono fare per difendersi»;
si possono azzardare alcune ipotesi sulle figure genitoriali che, in teoria, favorirebbero l'aggressività dei figli: i genitori libertari che non vietano mai; quelli che non si assumono responsabilità e invertono i ruoli; quelli conflittuali che spingono l'adolescente nel ruolo del «giustiziere»; quelli violenti che insegnano a regolare i conflitti in modi brutali. E poi i genitori «incestuosi», picchiati perché nell'adolescenza il legame si rompe e il figlio non trova altri modi per uscirne. Isabella Mastropasqua dirige l'ufficio studi del dipartimento di giustizia minorile presso il Ministero ed è lei a dire: «A tutt'oggi le uniche statistiche disponibili, che si basano sull'elaborazione dei dati Istat, fotografano una realtà di piccoli numeri, ma allarmanti. Sono solo la punta dell'iceberg di un fenomeno senz'altro più diffuso, vissuto in gran segreto. Il prossimo anno, con la modernizzazione del nostro sistema informativo, potremo dire chi sono esattamente le vittime di questi reati»;
in attesa che il dato venga «scorporato», le relazioni in famiglia sembrano precipitare a un punto molto basso. Per il terapeuta della famiglia Luigi Cancrini è credibile che i ragazzi «maneschi» siano tra il 5 e il 10 per cento: «Principini molto sedotti e manipolati nell'infanzia, sono rimasti invischiati in un rapporto di terribile dipendenza che non riescono a spezzare. Nella medio-alta borghesia, diventa poi sempre più esplosiva la negligenza affettiva coniugata al consumismo». E Luigi Onnis, studioso e clinico di prim'ordine, conferma: «Almeno il 5 per cento degli adolescenti va oltre l'aggressività verbale, che è invece all'ordine del giorno. Sono ragazzi che non hanno una guida -:
quali misure il Ministro intenda adottare, al fine di contrastare il fenomeno del bullismo in famiglia, non con una repressione violenta, ma tramite terapie di recupero dei minori coinvolti, che vedano la presenza attiva anche degli stessi genitori.
(4-09586)

DI STANISLAO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della difesa. - Per sapere - premesso che:
il giorno 15 novembre 2010 sul sito www.altreconomia.it viene pubblicato un articolo dal titolo: «Tutti possono vendere armi», sottotitolo «Eludere i controlli sull'export militare è facile. La legge ha 20 anni ma la sua riforma è a rischio»;
le argomentazioni su cui si fonda l'articolo scaturiscono da informazioni ricevute da Altreconomia da una fonte interna all'area spedizioni di una grande azienda di produzione militare italiana, la cui identità è lasciata anonima;
tutto parte da semplici operazioni di spedizione merce, come succede ogni giorno in milioni di imprese italiane. La fonte dichiara «Poiché il materiale cui non si applica la legge 185 viaggia con una semplice lettera di vettura e senza necessità di licenze, basta che il magazzino autocertifichi che l'imballo non contiene parti d'arma e il gioco è fatto»;
sempre la fonte prosegue «Nella lettera di vettura è sufficiente elencare codice e quantità e non serve nemmeno una descrizione testuale del contenuto. Utilizzando una codifica dei materiali particolare («parlante» solo per il mittente e destinatario) e non allegando disegno tecnico, nessun controllore potrà mai verificare che quei pezzi sarebbero dovuti rientrare nelle prescrizioni di spedizione previste dalla legge»;
ciò è possibile perché mancano controlli seri, da effettuare su tutto quanto proviene da una industria bellica a prescindere dai documenti di accompagnamento. Basta infatti far circolare la merce senza disegno tecnico (unico elemento in grado di far discriminare se ci si trova o meno davanti ad una parte di arma di

natura militare): non c'è nessuna possibilità di verificare appieno spostamenti e corrispondenza alle autorizzazioni;
per la legge n. 185 del 1990 qualsiasi esportazione di materiale d'armamento (o sue componenti) deve ricevere un'autorizzazione preventiva che ne definisca quantità e controvalore, oltre a individuare precisamente mittente e destinatario del trasporto. Invece, come viene denunciato nell'articolo in questione, «basta chiamare con un termine qualsiasi una parte di elicottero o di cannone per renderla del tutto simile ai pacchi di riviste che spediamo ogni mese alle botteghe del commercio equo»;
emerge, altresì, un altro stratagemma di occultamento, più raffinato, il ricorso sistematico alla figura tecnica del «kit». Sotto questo nome vengono classificati materiali di uso comune diversi dalle parti d'arma, e cioè viti, perni, dadi, rondelle, molle, bulloni, guarnizioni, oli e grassi o altri materiali di consumo. L'elenco dei «kit» serve ovviamente a diminuire il numero di pacchi per cui si chiede la licenza, e così a velocizzare autorizzazioni e controlli e in merito a ciò sempre la fonte in questione dichiara: «La legge 185 (anche dopo le modifiche del 2003, ndr) non definisce i kit e non ne limita la possibilità di utilizzo. Per cui come kit si fa passare, quando serve, tutto il materiale da spedire. Anche parti d'arma con relativo disegno tecnico per le quale non si hanno licenze residue e non si potrebbe aspettare ulteriormente un mese, tempo medio di attesa di nuove licenze»;
viene denunciato, pertanto, che le aziende possono così allentare le maglie del controllo ogni volta ce ne sia la necessità o il vantaggio, aiutate in questo dalla mancanza di criteri di sorteggio o rotazione dei funzionari di dogana e dal fatto che nessun ufficio tecnico statale sia chiamato a valutare se effettivamente un materiale trasportato, per cui si chiede licenza, costituisca o meno parte d'arma cui applicare la legge n. 185;
a queste dichiarazioni seguono le osservazioni dell'Osservatorio permanente sulle armi: «La realtà è che non c'è quasi bisogno di aggirare la legge, basta semplicemente che il mittente non voglia dichiarare una spedizione come pertinente alla legge n. 185»;
viene ricordato l'episodio dello scorso agosto nel porto di Gioia Tauro, Calabria, dove sono state sequestrate sette tonnellate di esplosivo T4 (tra i più potenti al mondo e usato anche per gli attentati a Falcone e Borsellino) forse diretto alla volta della Siria per finire poi nelle mani delle organizzazioni paramilitari Hamas ed Hezbollah. Nello stesso scalo portuale furono intercettati nell'aprile 2004 circa 8000 fucili mitragliatori tipo Kalashnikov stipati in tre container insieme a caricatori e mitragliatrici pesanti: la nave battente bandiera turca proveniva dalla Romania con destinazione ignota. Nessuna segnalazione obbligatoria per legge era state effettuata, perché le armi da fuoco (con un semplice procedimento poi revocabile da qualsiasi armaiolo) avevano subito una modifica per eliminare il sistema di sparo a raffica;
da tener conto che recentemente il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega sulla riforma del sistema di controllo delle esportazioni militari (legge n. 185 del 1990) e dopo la sua approvazione da parte del Parlamento, sarà necessaria l'emanazione di uno o più decreti legislativi, dei relativi regolamenti esecutivi e di funzionamento, oltre che di circolari applicative. Questi passaggi devono essere completati entro la fine di giugno 2011, se si vogliono rispettare le scadenze fissate dalla direttiva europea n. 43 del 2009 sui trasferimenti intra-comunitari;
tra l'altro nella proposta elaborata dal Governo rimane l'esclusione delle armi leggere, un aspetto decisamente negativo e da modificare, in quanto sono proprio pistole e fucili le armi maggiormente intermediate e trafficate perché le più richieste nelle aree di conflitto e dalla criminalità;
il recepimento della direttiva europea 43/2009 e di conseguenza la riforma del

sistema di controllo delle esportazioni militari è un'occasione molto importante, ma aumenta esponenzialmente il rischio senza rafforzare adeguatamente meccanismi e strutture di controllo -:
se il Governo sia a conoscenza delle informazione citate in premessa relative alla stupefacente facilità necessaria per eludere i controlli sull'export militare;
come il Governo, in virtù del percorso intrapreso per la riforma del sistema di controllo delle esportazioni militari (legge n. 185 del 1990), intenda rafforzare adeguatamente meccanismi di strutture e controlli e se intenda intervenire per inserire nella proposta di riforma anche le armi piccole o leggere.
(4-09591)

MAURIZIO TURCO, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e ZAMPARUTTI. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze. - Per sapere - premesso che:
nel corso della seduta della Camera dei deputati del 17 novembre 2010 è emersa la questione dell'obbligo di rendicontazione dei fondi riservati, sostenendosi che per tali fondi è chiara l'insussistenza dell'obbligo di rendicontazione -:
per quali uffici o funzioni sia prevista la possibilità di utilizzare fondi riservati e quale sia il loro ammontare annuo;
se e chi nel corso dell'anno 2009 non abbia utilizzato detti fondi o lo abbia fatto parzialmente e, in questo caso, per quale importo.
(4-09597)

ROSSA, BRESSA e RUBINATO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dello sviluppo economico. - Per sapere - premesso che:
la tragedia del Vajont, avvenuta in un indimenticabile 9 ottobre del 1963, rappresenta, senza ombra di dubbio, una delle pagine più drammatiche e funeste della storia dell'Italia repubblicana: è la storia di una montagna, di una valle e dei paesi ma soprattutto delle persone che l'abitavano, è la storia di una diga e della società che l'aveva costruita;
nella catena di monti che, in provincia di Belluno, fanno da confine naturale tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia, c'era il monte Toc, che nel dialetto locale significa proprio marcio, friabile;
la sera del 9 ottobre 1963 il monte Toc precipitava dentro il lago sollevando un'ondata d'acqua di dimensioni bibliche, fino a superare il bordo della diga, che si rigettava a valle schiantandosi su Longarone e cancellandolo letteralmente dal suolo su cui poggiava fino a pochi istanti prima;
in tutto si conteranno 2.100 morti a Longarone, Erto e Casso e in altre piccole frazioni del bellunese;
la tragedia del Vajont ci ha consegnato una lezione di storia per la quale si è reso evidente che non si possono stravolgere gli equilibri del territorio. Gli abusi contro la natura sono stati pagati dai cittadini innocenti che hanno perso la vita;
il Vajont ha ottenuto nel 2008 (Anno internazionale del Pianeta Terra) un riconoscimento significativo dall'Onu: quello di essere stata la più grande tragedia al mondo che si poteva evitare, provocata dall'incuria umana, cioè dall'uomo e non dalla natura, esempio negativo del fallimento di ingegneri e geologi, entrando così al primo posto di una graduatoria mondiale che, per quanto «negativa», lancia un monito a lavorare tutti per evitare che tragedie simili si ripetano;
a distanza di quarantasette anni dal disastro del Vajont del 9 ottobre 1963, si sta nuovamente decidendo di sfruttare il torrente che sgorga a valle della diga per mezzo di una centralina idroelettrica, aggirando la gigantesca frana finita nell'invaso;

risulta agli interroganti che un accordo, seppure preliminare, ci sarebbe già, e coinvolgerebbe alcune società private, la società En&En, la ditta zoldano-friulana Martini e Franchi con i comuni di Longarone, Castellavazzo ed Erto e Casso;
pare che la regione Friuli Venezia Giulia abbia già concesso alle due società private l'autorizzazione allo sfruttamento delle acque, e non ci sarebbe neanche bisogno del consenso delle amministrazioni comunali (anche se un evidente aspetto morale nei confronti della popolazione del territorio lo impone);
dalla stampa si apprende inoltre che le giunte dei tre comuni coinvolti avrebbero già deliberato di essere pronte a una partecipazione all'opera, attraverso la Bim Gestione servizi pubblici, la società che gestisce il servizio idrico integrato, ma, riferiscono, non prima di avere sentito che cosa ne pensano gli abitanti nati prima di quel terribile 9 ottobre 1963;
la questione dello sfruttamento delle acque del Vajont e dell'installazione di una centralina idroelettrica proprio nei luoghi della tragedia solleva, evidentemente, questioni di estrema delicatezza che vanno ovviamente al di là della semplice costruzione di un impianto che, peraltro, non potrà non notarsi, visto che il necessario salto dell'acqua si potrà scorgere esattamente davanti alla diga, a quell'imponente muraglia grigia, simbolo di morte e distruzione;
la storia del Vajont ha lasciato a tutto il Paese un'inesauribile testimonianza, quella di chi ha denunciato gli scempi perpetrati nei confronti del territorio sia prima che dopo la tragedia, e non è pensabile non tenerne conto nelle gestione odierna dello stesso territorio;
tale vicenda pone, evidentemente, oltre a problemi di tipo «morale» relativi all'enorme impatto sulla popolazione di un'operazione del genere, anche seri problemi di impatto ambientale, e, non ultimi, quelli legati alla sicurezza degli impianti in questione -:
se il Governo non ritenga di doversi attivare, per quanto di competenza, al fine di valutare in via preventiva e monitorare il progetto suddetto in tutte le sue fasi, un progetto la cui realizzazione non può, evidentemente, essere lasciata in toto nelle mani dei privati, e se non ritengano necessario tutelare con tutti gli strumenti di competenza la memoria di un territorio che ha subito, e che ancora subisce, l'impatto di una immane tragedia ambientale causata dall'uomo, nonché la sua sicurezza e tutela ambientale.
(4-09598)

DI STANISLAO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'economia e delle finanze. - Per sapere - premesso che:
uno dei principali compiti del Parlamento deve essere quello di garantire il diritto al lavoro ed una piena attuazione della legge n. 68 del 1999 sul collocamento obbligatorio delle persone disabili;
in particolare si fa riferimento all'articolo 5 del decreto-legge n. 102 del 2010 che ha ridotto i posti di lavoro per i disabili a vantaggio di altre categorie e rischia di compromettere irrimediabilmente un diritto già fortemente condizionato da gravi ritardi e inadempienze nell'applicazione della legge n. 68 del 1999;
l'aiuto necessario e doveroso verso altri soggetti in difficoltà (orfani e vedove dei caduti per il terrorismo e morti sul lavoro) non può e non deve essere attuato a scapito dei disabili. In questo modo, ad avviso dell'interrogante, si compromette nei fatti un fondamentale diritto costituzionale, quello al lavoro, per soggetti ancora più gravemente penalizzati dalle proprie condizioni personali;
i drastici tagli apportati alle risorse per il diritto al lavoro dei disabili sono un ulteriore affondo alla situazione di tutti i disabili, delle loro famiglie e delle associazioni che li rappresentano;

le risorse del Fondo per le non autosufficienze risultano azzerate obbligando i parenti dei pazienti non autosufficienti a provvedere da sé alle cure del malato o a ricorrere al «badantato», i cui costi sono comunque a carico delle famiglie;
il compito del Governo è garantire e proteggere i diritti dei disabili -:
se il Governo intenda assumere iniziative normative volte a porre rimedio immediatamente a queste ingiustizie, ripristinando la dotazione del Fondo per le non autosufficienze, almeno ai livelli del 2010, e la quota del 7 per cento garantita ai disabili nelle amministrazioni pubbliche e nelle imprese private come previsto dall'articolo 3 della legge n. 68 del 1999.
(4-09602)