PROPOSTE DI LEGGE DI CUI SI PROPONE L'ASSEGNAZIONE A COMMISSIONE IN SEDE LEGISLATIVA

alla VII Commissione (Cultura):
APREA: «Norme per l'autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti» (953);
ANGELA NAPOLI: «Disciplina del sistema nazionale di istruzione» (806);
ANGELA NAPOLI: «Disciplina degli organismi di partecipazione e di responsabilità e delle strutture di supporto all'autonomia didattica, di ricerca e sviluppo delle istituzioni scolastiche» (808);
ANGELA NAPOLI: «Disposizioni in materia di stato giuridico degli insegnanti e di rappresentanza sindacale nelle istituzioni scolastiche» (813);
FRASSINETTI: «Norme concernenti gli organi collegiali di autogoverno delle istituzioni scolastiche» (1199);
DE TORRE ed altri: «Disciplina del governo partecipato della scuola dell'autonomia» (1262);
DE PASQUALE ed altri: «Disposizioni concernenti il governo partecipato della scuola dell'autonomia, la formazione degli insegnanti e il loro reclutamento» (1468);
COTA ed altri: «Nuove norme per il reclutamento regionale del personale docente» (1710);
CARLUCCI ed altri: «Norme generali sullo stato giuridico degli insegnanti delle istituzioni scolastiche e formative» (4202);
CAPITANIO SANTOLINI: «Disposizioni concernenti l'autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché la riforma dello stato giuridico dei docenti» (4896).
(La Commissione ha elaborato un testo unificato).

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN RELAZIONE AL PIANO NAZIONALE DI ASSEGNAZIONE DELLE FREQUENZE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL'EMITTENZA LOCALE

   La Camera,
   premesso che:
    l'intero settore dell'emittenza televisiva e radiofonica locale versa attualmente in una condizione di grave criticità;
    numerosissime emittenti, presso le quali lavorano oggi oltre diecimila addetti, già indebolite dal passaggio al digitale terrestre e provate dalla critica situazione economica del Paese che ha determinato il crollo delle risorse pubblicitarie, rischiano ora la chiusura totale;
    a breve, infatti, tali emittenti saranno chiamate a liberare i canali dal 61 al 69 per doverli consegnare alle compagnie telefoniche aggiudicatarie dell'asta del dividendo digitale esterno. Tutto questo a fronte, peraltro, di un indennizzo da parte dello Stato che è stato progressivamente diminuito rispetto alle previsioni inizialmente sancite dalla legge e che, oggi, nella maggior parte dei casi, non risulta nemmeno sufficiente a coprire gli investimenti effettuati dalle aziende per il passaggio alla nuova tecnologia diffusiva;
    tale situazione non è altro che la drammatica conseguenza di una serie di errori che, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, furono compiuti durante il precedente Governo Berlusconi e che origina, innanzi tutto, dal mancato rispetto sia della legge n. 249 del 1997, sia della delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 181/09/CONS che prevedono espressamente che il piano nazionale di assegnazione delle frequenze (pnaf) riservi almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale;
    come noto, infatti, in data 28 giugno 2010, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha pubblicato la delibera n. 300/10/CONS relativa al piano nazionale di assegnazione delle frequenze che, nel prevedere la realizzazione di 25 reti nazionali, determina una tipologia di assegnazione delle frequenze tale da non garantire il rispetto della riserva di almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale, e ciò nonostante che la riserva di almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale risulti prevista espressamente per legge e non esista, al contrario, alcun atto normativo di rango primario o secondario che disponga che le reti nazionali debbano essere necessariamente in numero di 25;
    questa situazione era stata denunciata a suo tempo puntualmente dal gruppo dell'Italia dei Valori attraverso la presentazione di numerosi atti di sindacato ispettivo, quali, ad esempio, l'interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3-01165 presentata dall'onorevole Antonio Di Pietro già in data 6 luglio 2010, nell'ambito della quale si chiedeva al Ministro dello sviluppo economico pro tempore, Paolo Romani, di assumere adeguate iniziative a tutela dell'emittenza locale;
    da allora ad oggi nessuna iniziativa concreta al riguardo è stata adottata in tal senso e le emittenti televisive e radiofoniche locali, tra le quali in particolare il Coordinamento associazioni radio tv (Car tv), chiedono con insistenza un confronto urgente con l'attuale Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, al fine di risolvere le annose questioni che stanno mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'unica soluzione praticabile che potrebbe consentire la sopravvivenza delle emittenti locali consiste nella riduzione del numero dei multiplex (e quindi delle frequenze) attualmente assegnati – in via provvisoria e in attesa del completamento della fase di transizione al digitale – all'emittenza nazionale, il che comporterebbe, inevitabilmente, la riscrittura del piano di assegnazione nazionale delle frequenze dell'Autorità delle garanzie nelle comunicazioni in modo da ridurre il numero di reti nazionali e locali nella proporzione aurea di due terzi per le emittenti nazionali e di un terzo per le emittenti locali;
    si segnala, inoltre, che in un recente rapporto dell’Open Society Foundations, redatto da Gianpietro Mazzoleni, Giulio Vigevani e Sergio Splendore, si rileva, con tutta evidenza, come persino nell'era digitale i mezzi di informazione italiani operano in un clima di pesanti pressioni politiche. In particolare, la ricerca sottolinea come, di fronte alle sfide della digitalizzazione, le politiche messe in atto dal precedente Governo Berlusconi appaiono «orientate al mantenimento del duopolio Rai-Mediaset nella televisione in chiaro, così come nel mercato pubblicitario». Consumo, società, servizio pubblico, giornalismo, tecnologia, business e politiche connesse ai media digitali sono i principali capitoli in cui è diviso il lavoro. «La digitalizzazione non ha prodotto un significativo impatto sulla proprietà dei mezzi di comunicazione» scrivono gli autori. Il mercato televisivo è ancora caratterizzato dal tradizionale duopolio Rai-Mediaset, che discende dall'assenza di un'adeguata normativa che regoli la concorrenza nel settore. I due giganti dell'emittenza continuano a controllare insieme circa l'80 per cento dell’audience, contro circa il 10 per cento di Sky. Si indeboliscono le emittenti locali, peggiorando conseguentemente la libertà di informazione nel nostro Paese;
    oltre alla citata questione relativa alla necessità di garantire alle emittenti locali almeno un terzo delle risorse frequenziali disponibili, il Coordinamento associazioni radio tv (Car tv), nell'ambito di una lettera inviata in data 31 gennaio 2012 al Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, ha sollevato due ulteriori ordini di problemi relativi, rispettivamente, alla necessità di rivedere la delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 366/10/CONS relativa al piano di numerazione dei programmi televisivi, e agli effetti dei segnali per la telefonia mobile di quarta generazione sugli attuali impianti d'antenna televisivi;
    con riferimento alla questione relativa alla revisione della citata delibera n. 366/10/CONS si segnala come, su tale argomento, il gruppo dell'Italia dei Valori sia intervenuto il 14 settembre 2011 attraverso la presentazione di un'interrogazione a risposta scritta, e segnatamente la n. 4-13203, nell'ambito della quale si legge: «le associazioni di categoria delle tv locali hanno denunciato, inoltre, i criteri con i quali l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha attribuito la numerazione dei canali digitali; l'articolo 32 del testo unico dei servizi media audiovisivi (decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, come modificato dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) e dal decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44) prevede espressamente al comma 2: “Fermo il diritto di ciascun utente di riordinare i canali offerti sulla televisione digitale nonché la possibilità per gli operatori di offerta televisiva a pagamento di introdurre ulteriori e aggiuntivi servizi di guida ai programmi e di ordinamento canali, l'Autorità, al fine di assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie, adotta un apposito piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre, in chiaro e a pagamento, e stabilisce con proprio regolamento le modalità di attribuzione dei numeri ai fornitori di servizi di media audiovisivi autorizzati alla diffusione di contenuti audiovisivi in tecnica digitale terrestre, sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi in ordine di priorità: a) garanzia della semplicità d'uso del sistema di ordinamento automatico dei canali; b) rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti, con particolare riferimento ai canali generalisti nazionali e le emittenti locali”; l'Agcom, diversamente da quanto previsto dalla legge, secondo quanto denunciato dalle associazioni di categoria delle tv locali, ha previsto l'assegnazione alle emittenti locali della numerazione a partire dai numero 10, essendo i primi nove tasti riservati alla emittenza nazionale, sulla base di graduatorie che fanno riferimento a criteri (quali il fatturato, il numero dei giornalisti assunti o altro) che nulla hanno a chiedere con le finalità previste dal citato testo unico dei servizi media audiovisivi: testo unico che fa, invece, riferimento al principio della preferenza degli utenti e quindi all'audience delle emittenti televisive; alla luce di tutto ciò dette associazioni hanno presento ricorso al Tar del Lazio che ha annullato gli atti emanati dall'Agcom relativi al piano di numerazione dei canali della televisione digitale terrestre ed in particolare la delibera con cui l'Autorità garante delle comunicazioni fissava la numerazione, la cosiddetta lcn (logistic channel number). Una pronuncia immediatamente esecutiva, cui però la stessa Agcom ha immediatamente replicato con un ricorso d'urgenza al Consiglio di Stato per ottenere – quanto meno nell'immediato – la sospensiva della decisione del tribunale amministrativo di primo grado; successivamente, il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospendere l'esecuzione di quanto stabilito dal Tar del Lazio ovvero l'annullamento della delibera n. 366 dei 2010 che, come si è detto, assegnava in automatico i numeri lcn sui tasti dei telecomandi dei televisori, lasciando al momento la questione aperta»;
    recentissimamente, la predetta questione sollevata dalle emittenti locali ha avuto ulteriori sviluppi. Infatti, il 26 gennaio 2012 il Tar del Lazio, accogliendo un ricorso presentato da Sky ha annullato il piano di numerazione automatica dei canali della tv digitale terrestre in chiaro e a pagamento, la cosiddetta lcn (logistic channel number), contenuto nella citata delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dell'agosto 2010. Lo ha deciso con sentenza la terza sezione del Tar che, su richiesta delle emittenti Canale 34 e Più Blu Lombardia, si era già pronunciato sulla delibera in questione, annullando, il 1o agosto 2011, la parte del provvedimento che assegnava i numeri dal 9 al 19 alle emittenti locali. La sentenza del Tar era stata poi sospesa, il 30 agosto 2011, dal Consiglio di Stato. La nuova sentenza del Tar Lazio, a differenza della precedente, annulla l'intero provvedimento dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che adesso dovrà emanare un nuovo regolamento sulla numerazione automatica dei canali della tv digitale terrestre in chiaro e a pagamento, seguendo le indicazioni fornite dal Tar, salvo che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni non presenti un ricorso al Consiglio di Stato per ottenere la sospensiva dell'ulteriore decisione del giudice amministrativo di primo grado;
    alla luce di quanto precede, considerato che la possibile assegnazione dei numeri del telecomando, priva di un regolamento, rischia nella migliore delle ipotesi di generare un vero e proprio caos digitale, tra canali introvabili sui decoder (per i conflitti di numerazione), e di far scoppiare cause e ricorsi tra emittenti, che andrebbero nuovamente a contendersi il numero più alto nelle liste, sembra dunque quanto mai urgente che l'Esecutivo ponga in essere ogni atto di competenza volto alla revisione del contenuto della citata delibera 366/10/CONS;
    con riferimento alla questione relativa agli effetti dei segnali per la telefonia mobile di quarta generazione sugli attuali impianti d'antenna televisivi, si segnala che nell'ambito del rapporto (Rai – Centro ricerche e innovazione tecnologica-elettronica e telecomunicazioni n. 3 dicembre 2011) si legge che: «Le simulazioni al calcolatore e le misure di laboratorio utilizzate hanno permesso di analizzare il comportamento degli amplificatori a banda larga degli impianti centralizzati di antenna in presenza di segnali lte. Simulazioni e misure, effettuate in condizioni realistiche e non eccessivamente pessimistiche, hanno concordemente mostrato che, in alcune situazioni, l'impatto dei segnali lte sull'intermodulazione dei semplificatori potrebbe essere serio, a conferma dei risultati pubblicati in ambito internazionale. Gli effetti più evidenti si hanno sui canali adiacenti (in particolare sul canale 60) ma tutti i canali nella banda uhf possono essere degradati fino alla mancanza di ricezione (pagina 52)». E ancora che: «Per ridurre gli effetti dell'interferenza dei segnali lte sui segnali ddt è quindi necessario prevedere tecniche di mitigazione, eventualmente da applicarsi in combinazione tra loro. Queste tecniche, che hanno nel loro complesso costi piuttosto elevati, ricadono sotto la responsabilità di diversi degli attori della catena trasmissiva (operatori di telefonia mobile, broadcaster, costruttori di apparati, costruttori di ricevitori DVB T/T2, utenti finali (pagina 37)»;
    sotto tale profilo, alla luce di quanto precede, non può che ritenersi fondata la preoccupazione espressa dai Coordinamento associazioni radio tv nell'ambito della già citata lettera inviata al Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, sui costi che le tecniche di mitigazione potrebbero comportare nei confronti delle famiglie e delle imprese, nell'ipotesi in cui queste ultime si vedrebbero costrette a sostenere (anche solo in parte) le spese derivanti dall'implementazione delle tecniche di mitigazione causate dagli effetti dei segnali per la telefonia mobile di quarta generazione sugli attuali impianti d'antenna televisivi;
    nel mese di dicembre 2011 il Governo ha accolto tre ordini del giorno presentati rispettivamente dai gruppi parlamentari dell'Italia dei Valori, della Lega Nord e del Partito Democratico, con i quali si chiedeva di annullare la procedura del beauty contest (ovvero il bando ed il disciplinare di gara relativi all'assegnazione dei diritti d'uso delle frequenze in banda televisiva, segnatamente le 5 frequenze DVB-T e la frequenza in DVB-H o T2, per i sistemi di radiodiffusione digitale e terrestre) per assegnare le frequenze liberate dal passaggio della trasmissione analogica al digitale ed interessate da tale procedura con una vera e propria asta competitiva;
    nel mese di gennaio 2012, la citata procedura del beauty contest è stata sospesa per 90 giorni – sino al prossimo 19 aprile 2012 per la precisione – ma ad oggi non risulta ancora chiaro se, quando e con quali criteri verrà indetta una nuova asta competitiva per l'assegnazione delle frequenze interessate da tale procedura,

impegna il Governo:

   a convocare con la massima urgenza, presso il Ministero dello sviluppo economico, le rappresentanze delle emittenti radiofoniche e televisive locali per discutere delle problematiche che stanno mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza e soffocando l'esercizio della loro attività economica;
   a porre in essere ogni iniziativa di competenza finalizzata a dare attuazione a quanto previsto sia dalla legge n. 249 del 1997, sia dalla delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 181/09/CONS, che prevedono espressamente che il piano nazionale di assegnazione delle frequenze (pnaf) riservi almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale;
   ad adottare le opportune iniziative, anche normative, tese a prevedere la riduzione del numero dei multiplex attualmente assegnati – in via provvisoria e in attesa del completamento della fase di transizione al digitale – alle emittenti nazionali in modo da ridurre il numero di reti nazionali e locali nella proporzione aurea di due terzi per le emittenti nazionali e di un terzo per le emittenti locali;
   a porre in essere ogni atto di competenza teso a evitare che si generi un vero e proprio caos digitale, tra canali introvabili sui decoder per i conflitti di numerazione, ovvero il proliferare di cause e ricorsi tra emittenti televisive, che andrebbero nuovamente a contendersi il numero più alto nelle liste;
   a fornire quanto prima elementi di chiarificazione circa gli effetti dei segnali per la telefonia mobile di quarta generazione sugli attuali impianti d'antenna televisivi descritti dal citato rapporto Rai – Centro ricerche e innovazione tecnologica-elettronica e telecomunicazioni n. 3 del dicembre 2011, con particolare riguardo ai rischi connessi ai costi che le tecniche di mitigazione potrebbero comportare nei confronti delle famiglie e delle imprese;
   a rendere noti con la massima sollecitudine e chiarezza i tempi e i criteri con i quali verrà indetta la nuova asta competitiva per l'assegnazione delle frequenze che il precedente Esecutivo avrebbe voluto assegnare attraverso la già richiamata procedura del beauty contest.
(1-00866)
(Nuova formulazione) «Borghesi, Di Pietro, Donadi, Evangelisti, Barbato, Cimadoro, Di Giuseppe, Di Stanislao, Favia, Aniello Formisano, Messina, Monai, Mura, Leoluca Orlando, Paladini, Palagiano, Palomba, Piffari, Porcino, Rota, Zazzera».
(14 febbraio 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    l'emittenza televisiva e radiofonica locale si trova in una situazione di crisi dovuta a un insieme di fattori: la nuova difficile situazione economica del Paese, il mantenimento del duopolio Rai-Mediaset nella televisione in chiaro e nel mercato pubblicitario ed il passaggio al digitale terrestre;
    numerose emittenti televisive e radiofoniche locali saranno ben presto costrette alla chiusura, con effetti negativi per i lavoratori attualmente occupati nel settore;
    non sono stati rispettati i termini della legge n. 249 del 1997 e della delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 181/09/CONS, che prevedono la riserva di almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale;
    la delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 300/10/CONS relativa al piano nazionale di assegnazione delle frequenze, assegnando le frequenza per la realizzazione di 25 reti nazionali, non consente di garantire il rispetto della riserva di almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale;
    la delibera n. 366/10/CONS, che stabilisce il piano di numerazione dei programmi televisivi, rischia di generare un caos digitale con conseguenti innumerevoli ricorsi; inoltre essa, che si occupa degli effetti dei segnali per la telefonia mobile di quarta generazione, comporterà un incremento dei costi che ricadranno in larga parte sui bilanci delle famiglie e delle imprese,

impegna il Governo:

   ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché le problematiche descritte in premessa non mettano a rischio la sopravvivenza delle emittenti locali, con effetti negativi sull'esercizio della loro attività economica;
   a ridurre il numero dei multiplex (e quindi delle frequenze) attualmente assegnati – in via provvisoria e in attesa del completamento della fase di transizione al digitale – all'emittenza nazionale, dando attuazione a quanto previsto sia dalla legge n. 249 del 1997, sia dalla delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 181/09/CONS, che prevedono espressamente che il piano nazionale di assegnazione delle frequenze (pnaf) riservi almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza televisiva locale;
   a fornire chiarimenti sugli effetti dei segnali per la telefonia mobile di quarta generazione e sugli attuali impianti d'antenna televisivi, con particolare riguardo ai rischi connessi ai costi che le tecniche di mitigazione potrebbero comportare nei confronti delle famiglie e delle imprese.
(1-00990)
«Terranova, Misiti, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Pittelli, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    in Italia l'emittenza locale, con circa mille e cinquecento aziende tra televisioni e radio, ha raggiunto uno sviluppo che non ha eguali in altri Paesi;
    l'emittenza locale garantisce il pluralismo e un'informazione indipendente e legata al territorio, consente alle piccole e medie imprese di promuovere le proprie attività e favorisce lo sviluppo dell'occupazione nel settore;
    recentemente sono stati stipulati due contratti di lavoro con altrettante associazioni di categoria (Aeranti-Corallo e Frt tv locali) per la valorizzazione sia delle professionalità tecniche che di quelle giornalistiche, che in questi anni di grave crisi hanno trovato proprio nell'emittenza locale l'occasione di formarsi e lavorare;
    negli ultimi anni l'emittenza locale è stata colpita da una significativa riduzione delle misure di sostegno – le provvidenze all'editoria e i contributi diretti – operata, peraltro, con il sistema dei tagli lineari, che colpiscono indiscriminatamente tutti i destinatari;
    i tagli lineari hanno creato un pregiudizio maggiore proprio alle aziende televisive e radiofoniche locali che esercitano realmente l'attività di impresa, garantendo occupazione e realizzando prodotti di qualità legati al territorio;
    la riduzione delle misure di sostegno è arrivata in un momento di grande difficoltà soprattutto per le televisioni locali, che per adeguare gli impianti alla tecnologia digitale terrestre sono state costrette a realizzare cospicui investimenti, nonostante la crisi economica abbia fatto crollare gli introiti derivanti dal mercato pubblicitario;
    nelle regioni in cui si è già passati alla tecnologia digitale terrestre, gli ascolti delle televisioni locali hanno fatto registrare rilevanti contrazioni, con ulteriori conseguenze negative sulla raccolta pubblicitaria;
    numerose emittenti, dunque, rischiano di chiudere i battenti e migliaia di lavoratori rischiano di trovarsi disoccupati;
    diverse emittenti televisive locali, poi, sono state private delle frequenze, assegnate con un'asta alle compagnie telefoniche;
    tali emittenti saranno risarcite con un indennizzo che, nel tempo, ha subito adeguamenti al ribasso e che oggi non sarà neppure sufficiente a coprire gli investimenti sostenuti per l'adeguamento degli impianti alla tecnologia digitale terrestre;
    la sottrazione all'emittenza locale delle frequenze 61-69 mette a rischio il rispetto di quanto stabilito dalla legge n. 249 del 1997 e dalla delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 181/09/CONS, che prevedono espressamente che il piano nazionale di assegnazione delle frequenze riservi almeno un terzo dei programmi irradiabili all'emittenza locale;
    il precedente Governo aveva stabilito di assegnare sei nuovi multiplex all'emittenza nazionale attraverso il cosiddetto beauty contest, ma il Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, ha stabilito di bloccare tale procedura;
    dopo l'emanazione di una delibera dell'Autorità per la garanzie nelle comunicazioni nell'agosto del 2010 per determinare la posizione delle reti televisive digitali terrestri sul telecomando, si sono susseguiti diversi ricorsi all'autorità giudiziaria e sentenze del tribunale amministrativo regionale del Lazio e del Consiglio di Stato;
    da qualche anno le emittenti locali lamentano una scarsa attenzione nei loro confronti da parte del Governo e auspicano un maggiore coinvolgimento delle associazioni di categoria nei processi decisionali,

impegna il Governo:

   a valutare la possibilità di assumere iniziative volte a ripristinare i contributi e le provvidenze nella misura precedente ai tagli operati nel corso dell'ultimo triennio esclusivamente per le emittenti che possiedano determinati requisiti, da fissarsi con apposito decreto del Ministro dello sviluppo economico e in una misura non inferiore al doppio di quanto precedentemente stabilito in merito alle ore di programmazione di interesse locale prodotta e al personale occupato;
   a verificare che alle televisioni locali sia effettivamente riservato un terzo delle frequenze e, in caso contrario, a ripristinare quanto prima il rapporto stabilito dalla legge n. 249 del 1997 e dalla delibera dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 181/09/CONS;
   qualora dovesse rendersi nuovamente necessaria l'assegnazione di ulteriori frequenze al mercato della telefonia mobile, a reperirle senza far scendere la quota delle emittenti locali al di sotto della quota di un terzo;
   a valutare la possibilità di attribuire all'emittenza locale parte delle frequenze che il precedente Governo aveva stabilito di assegnare per mezzo del cosiddetto beauty contest;
   a farsi promotore di un accordo con le regioni per prevedere l'erogazione di contributi per l'adeguamento degli impianti alla tecnologia digitale terrestre che sia, al contempo, omogenea su tutto il territorio nazionale e rispondente alle esigenze dei diversi territori;
   ad intervenire nella questione della posizione delle reti televisive digitali terrestri sul telecomando per fare definitiva chiarezza, confermando quanto stabilito dalla delibera del 2010 dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che è stata peraltro accettata dalla maggioranza delle emittenti e delle associazioni di categoria;
   a convocare le associazioni di categoria delle emittenti locali per discutere delle difficoltà del settore e delle iniziative necessarie ad evitare la possibile chiusura di tante aziende e il conseguente licenziamento di migliaia di lavoratori.
(1-00991)
«Rao, Briguglio, Galletti, Della Vedova, Compagnon, Mereu, Bonciani, Carlucci, Enzo Carra, Adornato, Capitanio Santolini, Ciccanti, Naro, Volontè, Raisi, Scanderebech, Perina, Di Biagio».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    la situazione di difficoltà in cui versa l'emittenza locale è un tema serio, da affrontare con intelligenza costruttiva, senza cedere alla facile demagogia e senza indulgere ai particolarismi interessati di un settore molto variegato, in cui operano realtà profondamente diverse tra di loro;
    nel panorama e nella storia della televisione italiana, le emittenti locali hanno avuto e hanno ancora un ruolo importante, per non dire fondamentale. Lo stretto legame con il territorio, l'informazione di servizio a diretto contatto con i cittadini e l'offerta pluralistica rappresentano una risorsa fondamentale per la democrazia e per il sistema delle comunicazioni del nostro Paese;
    il Parlamento e l'azione dei diversi Governi del passato, con particolare riferimento a quello precedente, hanno sempre ritenuto prioritaria la tutela di questo settore. Il rispetto della norma che prevede l'assegnazione di un terzo della capacità trasmissiva (programmi irradiabili) ha consentito negli ultimi tre anni di portare avanti un processo di digitalizzazione e di assegnazione delle frequenze il più possibile condiviso e, comunque, attuato in modo garantistico anche nelle gare post assegnazione dei canali da 61 a 69; la tutela delle televisioni italiane nella fase di coordinamento internazionale con gli Stati confinanti, il mantenimento di risorse per i contributi ex legge n. 448 del 1998 (ammontanti a oltre 1,2 miliardi di euro in 12 anni) su livelli significativi e un'importante collocazione sul telecomando del digitale terrestre sono state le altre iniziative che hanno caratterizzato l'azione del Governo negli ultimi 3 anni, portata avanti, in tutti i passaggi della transizione, attraverso un confronto continuo con le associazioni dell'emittenza locale. Il digitale terrestre, con la sua moltiplicazione dei canali, se, da un lato, ha in alcuni casi aperto nuove prospettive al settore, dall'altro, non ha, però, consentito quel cambio di mentalità nella cultura televisiva, che con il must carry (l'obbligo di trasporto dei fornitori di contenuti privi di frequenza, peraltro disciplinato anche nei costi dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e la condivisione di uno stesso multiplex fra più soggetti, avrebbe favorito una razionalizzazione del radiospettro e un notevole contenimento di costi per gli stessi operatori anche attraverso la creazione di sinergie, evitando quell'uso inefficiente della capacità trasmissiva che rischia di riflettersi negativamente sull'intero settore;
    la logica della conversione delle frequenze 1 a 1, ostinatamente perseguita dalla totalità delle tv locali nel passaggio al digitale, ha mostrato tutti i suoi limiti di un approccio frutto di una mentalità ancora analogica; ma se con l'analogico 600 frequenze equivalevano a 600 programmi, con il digitale le stesse frequenze hanno portato a 3600 gli spazi per la diffusione dei contenuti. Scorrendo i telecomandi, gli spazi vuoti, le duplicazioni, le triplicazioni e così via degli stessi programmi diffusi, insieme agli spostamenti continui di posizione e il mancato rispetto delle regole, danneggiano soprattutto un'utenza disaffezionata e disorientata, con ricadute negative sull'acquisizione delle risorse pubblicitarie, già peraltro complicata dal momento di crisi economica generale;
    difendere questo inefficiente e dispersivo uso delle frequenze sta diventando peraltro impossibile, nel momento in cui la tendenza europea è quella della valorizzazione della risorsa spettrale e la spinta verso un suo uso più neutrale e più flessibile. Pretendere poi che il già rispettato vincolo di garantire un terzo della capacità trasmissiva in favore dell'emittenza locale, ampiamente considerato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in ogni sua delibera di pianificazione (a fronte di 21 reti nazionali sono 18 le reti locali in ogni regione), riducendo gli spazi degli altri operatori televisivi, significherebbe andare, oltre che contro la logica e gli interessi degli utenti, in contrasto con la legislazione nazionale ed europea;
    in questo contesto si inserisce il tema dell'ordinamento automatico dei canali (lcn), una funzione fondamentale per la sintonia sul telecomando, in alternativa a quella manuale autonoma, sempre possibile;
    per le tv locali, avere una numerazione adeguata e comunque certa nelle lcn (logical channel number) è ancora più importante rispetto alle televisioni nazionali, rappresentando forse il vero valore di avviamento d'impresa, molto più della risorsa frequenziale;
    nella fase di recepimento della direttiva comunitaria, detta tv senza frontiere, poi realizzato attraverso il decreto legislativo n. 44 del 2010, il Parlamento chiese al Governo pro tempore di introdurre una norma di sistema per rendere vincolante l'ordinamento automatico; il Governo pro tempore fu ben lieto di accogliere tale condizione, che demandava la regolamentazione puntuale all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la quale è intervenuta con tempestività ed efficacia attraverso la sua delibera n. 366/10/CONS che ha garantito all'emittenza locale un posizionamento importante – 10 numeri successivi ai primi 9 riservati alle tv nazionali ed analogiche e antecedenti ai 50 numeri riservati ai nuovi canali nazionali per poi proseguire con le numerazioni dal 70 in poi, e così in ogni seguente blocco di 100 – coerente con le posizioni consolidatesi negli anni. Oggi in tutte le regioni italiane 200 tv locali hanno o avranno un numero tra il 10 e il 19 sui telecomandi tale da garantire loro una pre-sintonia di notevole valore commerciale, mentre le altre hanno comunque un numero certo a partire dal 71 in poi;
    la decisione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che ha individuato criteri oggettivi già disponibili per l'attribuzione ai diversi soggetti (le graduatorie Corecom basate su fatturati e occupazione) sono state giudizialmente contestate da alcuni soggetti, ma ad oggi il sistema sembra ancora tenere e anzi andrebbe forse consolidato, dando forza di legge alla delibera n. 366/10/CONS dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
    in ogni caso si auspica che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e il Ministero competente siano in grado di tutelare adeguatamente in giudizio, attraverso l'Avvocatura dello Stato, l'attuale ordinamento dei canali che, se sconvolto, rischia di gettare nel panico e nel caos soprattutto la sintonia delle emittenti locali rispetto a quella di una diffusione nazionale più consolidata e che, in ogni caso, verrebbe autonomamente risintonizzata dall'utenza; la riprova di ciò è la preoccupazione delle associazioni veramente rappresentative delle emittenti locali rispetto alle decisioni assunte in primo grado dal Tar del Lazio (oggi sospese), contro le quali si sono prontamente costituite in giudizio;
    da ultimo, il percorso di generale razionalizzazione del comparto delle comunicazioni, tale da portare a una contiguità tra le bande in cui viene diffuso il segnale televisivo con quello dei servizi di comunicazione mobile conseguenti al rilascio dei canali da 61 a 69 oggetto della gara di ottobre 2011, comporta una serie di processi tecnico-operativi piuttosto complicati. Il Ministero dello sviluppo economico, con il passato Governo, stava iniziando ad affrontare il problema con studi e approfondimenti ed è auspicabile che tale problematica sia oggetto della dovuta attenzione anche da parte dell'attuale Esecutivo per individuare e far introdurre tutti gli accorgimenti tecnici necessari,

impegna il Governo:

   ad affrontare con urgenza le problematiche dell'emittenza locale, coinvolgendo le associazioni rappresentative degli operatori del settore;
   a mantenere il rispetto della normativa vigente sulla base di quanto previsto dal piano nazionale di ripartizione delle frequenze per un'adeguata riserva dei programmi irradiabili in favore dell'emittenza televisiva locale;
   ad adottare gli opportuni interventi al fine di garantire un uso efficiente della risorsa radioelettrica;
   a porre in essere ogni atto di competenza, anche in sede giudiziale, finalizzato a evitare conflitti di numerazione sul telecomando della tv digitale terrestre, anche attraverso una legificazione della delibera n. 366/10/CONS dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
   ad adottare ogni opportuna iniziativa al fine di evitare l'interferenza dei segnali della telefonia mobile sugli attuali impianti di diffusione televisiva.
(1-00992) «Romani, Saglia, Baldelli».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    l'emittenza televisiva locale è di fondamentale importanza in un sistema radiotelevisivo ispirato ai principi della libera manifestazione del pensiero e del pluralismo informativo, sociale e culturale;
    la capacità delle televisioni locali di operare come aziende di comunicazione, oltre che editoriali, ha portato all'ottimizzazione dello spettro radioelettrico dedicato alle trasmissioni televisive consentendo lo sviluppo di una rete di aziende produttrici di apparati di trasmissione che costituiscono, ancora oggi, un comparto fra i primi cinque al mondo;
    il tribunale amministrativo regionale del Lazio ha congelato l'attribuzione delle misure compensative finalizzate al volontario rilascio di porzioni di spettro funzionali alla liberazione delle frequenze nella banda 790-862 megahertz e con tre differenti provvedimenti cautelari i giudici amministrativi hanno sospeso il decreto del Ministro dello sviluppo economico del 23 gennaio 2012, che dava il via libera all'assegnazione dei canali 61-69 uhf acquistati dalle telco nell'asta lte (long term evolution) pubblica del settembre 2011;
    le compensazioni di natura economica previste dal comma 9 dell'articolo 1 della legge 13 dicembre 2010, n. 220 (175 milioni di euro per lasciare volontariamente i multiplex digitali occupati) sono insufficienti se commisurate al reale valore delle frequenze e ai relativi investimenti, non proporzionate agli incassi della gara (che ha fruttato allo Stato 3,9 miliardi di euro) e non prevedono alcuna defiscalizzazione degli indennizzi;
    a tal proposito il Governo ha accolto come raccomandazione l'ordine del giorno Caparini n. 9/4612/154 contenente l'impegno a «definire un congruo compenso per la cessione delle risorse frequenziali»;
    il ritardo nella pubblicazione da parte del Ministero dello sviluppo economico dei decreti di fissazione delle date relative agli switch-off 2012, oltre che nell'emanazione da parte dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del piano di assegnazione delle frequenze per le regioni Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia con conseguente differimento nell'emanazione dei bandi per l'assegnazione dei diritti di uso delle frequenze e per l'attribuzione delle numerazioni lcn (logical channel number) da parte del Ministero dello sviluppo economico, impedisce la transizione nelle sopra citate regioni nei tempi calendarizzati;
    250 milioni di euro previsti dall'articolo 10 della legge n. 422 del 1993, da prelevare dalle risorse derivanti dal canone Rai, destinati alle emittenti locali nel 2008 sono stati ridotti a 152 milioni di euro, nel 2009 a 95 milioni di euro e nel 2010 a 66 milioni di euro. Sono riduzioni sistematiche e con effetto retroattivo che nel 2011 ammonteranno ai due terzi del dovuto;
    la Camera dei deputati ha approvato l'ordine del giorno Caparini n. 9/5025/127 che ha impegnato il Governo a valutare l'opportunità di varare nei prossimi mesi norme a tutela delle tv locali quali: norme in favore del fondo per l'emittenza locale recuperando i tagli e riportando, così, la sua capienza a 150 milioni l'anno a partire già dal 2011 e ad attuare una capienza di 270 milioni dal 2014 secondo quanto previsto dall'articolo 10 della legge n. 422 del 1993; norme per consentire alle tv locali, già autorizzate nell'analogico, a continuare a diversificare parzialmente la programmazione per zone; norme per riequilibrare le percentuali di pubblicità degli enti pubblici da destinare ai vari mezzi di comunicazione (l'attuale normativa prevede che alle tv e radio locali vada solo il 15 per cento contro il 50 per cento della carta stampata) ed, infine, ad assegnare le numerazioni lcn nazionali e di genere (informazione, sport eccetera) a quelle tv locali che rispondono agli stessi requisiti delle reti nazionali, in termini di copertura, patrimonio netto e numero di dipendenti, abolendo il privilegio sinora assicurato alle sole tv nazionali di ottenere numeri favoriti sul telecomando;
    il rigetto dell'istanza di riesame, presentata alla direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica e di radiodiffusione del Ministero dello sviluppo economico da Aeranti-Corallo e dalla associazione tv locali Frt, relative alle risposte rese ai quesiti n. 35 e 113 (contraddittorie rispetto alle risposte rese con riferimento ai quesiti 36 e 111) ha contribuito alla già notevole incertezza regolamentare dell'attuale quadro giuridico, in quanto, secondo il Ministero dello sviluppo economico, in base alle risposte ai quesiti 35 e 113, chi rilascia volontariamente una frequenza ponendo contemporaneamente in essere un accordo di carattere societario con altro soggetto al fine di condividere lo stesso multiplex, conserva la qualificazione giuridica di operatore di rete, mentre, al contrario, nelle risposte ai quesiti 35 e 113, il medesimo Ministero ha affermato che il soggetto partecipante al volontario rilascio che diffonde il proprio marchio/palinsesto ex analogico attraverso un operatore di rete di una società controllante, controllata o collegata, perde la qualificazione giuridica di operatore di rete (in base alla quale è, peraltro, possibile accedere ai contributi di cui alla legge n. 448 del 1998);
    l'articolo 32 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, come modificato dal decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44, al comma 2, prevede che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, al fine di assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie, adotti un apposito piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre, in chiaro e a pagamento, e stabilisca con proprio regolamento le modalità di attribuzione dei numeri ai fornitori di servizi di media audiovisivi autorizzati alla diffusione di contenuti audiovisivi in tecnica digitale terrestre, anche nel rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti, con particolare riferimento ai canali generalisti nazionali e alle emittenti locali;
    sulla base del decreto del Ministro delle comunicazioni, assunto di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, 5 novembre 2004, n. 292, «Regolamento recante nuove norme per la concessione alle emittenti televisive locali dei benefici previsti dall'articolo 45, comma 3, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive modifiche e integrazioni», i contributi erogati alle emittenti televisive locali sono annualmente assegnati nella misura di un quinto in parti uguali a tutti i richiedenti che ne abbiano titolo e per i restanti quattro quinti sulla base delle graduatorie regionali, al primo 37 per cento dei collocati in graduatoria, arrotondato all'unità superiore;
    la sopra citata graduatoria viene, allo stato, stilata sulla base di una particolare formula di calcolo che considera due elementi di valutazione meramente quantitativi: la media dei fatturati realizzati nel triennio precedente e il personale dipendente applicato all'attività televisiva. Criteri che escludono ogni forma di analisi qualitativa del servizio effettivamente erogato;
    sembra opportuno modificare il meccanismo di calcolo con cui oggi vengono distribuiti i finanziamenti pubblici alle televisioni locali introducendo una maggiore progressività di erogazione e una maggiore attenzione all'aspetto qualitativo, considerando la natura e le finalità dei contenuti;
    l'articolo 490 del codice di procedura civile prevede, per la pubblicità delle aste giudiziarie, solo la carta stampata e internet: tale previsione sembra incompleta, tralasciando il mezzo televisivo, che ha invece un livello di diffusione molto più elevato. L'inclusione del mezzo televisivo potrebbe far crescere e aumentare le offerte per le aste giudiziarie, dando loro maggiore trasparenza, oltre ad assicurare entrate per le tv locali e, indirettamente, benefici a tutto il sistema delle pubbliche e medie imprese;
    l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in applicazione di quanto previsto dall'articolo 5, comma 8, del decreto legislativo 9 gennaio 2008, n. 9, può irrogare sanzioni per violazioni dei regolamenti di attuazione delle norme in materia di diritto di cronaca, da un minimo edittale di circa 10.300 euro ad un massimo di circa 258.000 euro senza che sia fatta alcuna distinzione tra l'ambito locale o nazionale di esercizio dell'attività radiotelevisiva da parte del soggetto che ha commesso la violazione accertata. Si tratta di un'equiparazione che evidentemente non tiene conto del ridotto bacino di utenza delle tv locali, che comporta nei fatti una minore incisività della violazione, oltre che delle minori capacità economiche delle stesse;
    la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nell'emissione dei provvedimenti sanzionatori nei confronti delle televisioni locali, applica il principio del cumulo materiale delle violazioni riscontrate, anziché quello del cumulo giuridico, con l'effetto di determinare, all'esito di un controllo periodico, le sanzioni stesse attraverso la moltiplicazione dell'importo edittalmente previsto per le singole violazioni per il numero delle stesse, anche in caso di un unico controllo e di un'unica contestazione;
    il Governo ha accolto l'ordine del giorno Comaroli n. 9/4940-A/60, che ha impegnato il Governo a valutare l'opportunità di ridurre il trattamento sanzionatorio nei confronti dell'emittenza locale, al fine di ripristinare la condizione di parità di trattamento tra le sanzioni applicabili nei confronti delle emittenti radiotelevisive operanti in ambito locale e quelle nazionali;
    l'attuale normativa impone limiti e restrizioni alla crescita del settore quali: la limitazione a due canali per ogni multiplex affittabili ai fornitori di contenuti nazionali, il contenimento in 12 ore la durata delle trasmissioni in contemporanea tra emittenti e i requisiti minimi di capitale sociale (6,2 milioni di euro) e dipendenti (20) per il rilascio dell'autorizzazione di fornitore di servizi di media audiovisivi nazionali;
    partendo da una migliore utilizzazione delle frequenze televisive assegnate e da un quadro normativo stabile, gli operatori di rete potrebbero costituire un'importante risorsa per le centinaia di migliaia di piccole e medie imprese che, per la loro competitività, sono bisognose di accesso alla banda larga;
    l'ordine del giorno Caparini 9/4086/15 che impegnava il Governo pro tempore a «valutare l'opportunità di intervenire tempestivamente, con gli appositi strumenti normativi, affinché il Ministero dello sviluppo economico nella definizione delle prescrizioni per i titolari dei diritti d'uso delle radiofrequenze destinate alla diffusione di servizi di media audiovisivi l'operatore di rete televisiva su frequenze terrestri in tecnica digitale in ambito locale possa concedere capacità trasmissiva ai fornitori di servizi di media, ai fornitori di servizi di media audiovisivi lineari, ai fornitori di servizi di media audiovisivi a richiesta, ai fornitori di contenuti audiovisivi e di dati ed ai fornitori di servizi media radiofonici autorizzati in ambito nazionale» è stato accolto dal Governo pro tempore;
    una nuova asta di assegnazione di ulteriori frequenze, da realizzarsi nel prossimo triennio, dovrà essere orientata alla neutralità tecnologica, così come previsto dalla direttiva europea, in modo da riscuotere interessi anche di nuovi soggetti oltre a quelli già scontati degli operatori di telecomunicazioni mobili,

impegna il Governo:

   ad intervenire per sostenere l'emittenza locale, reintegrando di almeno 150 milioni di euro le risorse previste per l'anno appena concluso e per quello in corso, creando le condizioni affinché, a partire dall'anno 2014, le risorse a disposizione del comparto raggiungano i 270 milioni di euro previsti dall'articolo 1 della legge n. 422 del 1993 (poi resa operativa dalla legge n. 488 del 1998);
   ad assumere iniziative normative per innalzare a 400 milioni di euro il capitolo di spesa per delle compensazioni di natura economica previste dal comma 9 dell'articolo 1 della legge 13 dicembre 2010, n. 220, per le emittenti televisive locali che hanno ceduto le proprie frequenze a favore degli operatori dei servizi mobili in banda larga che hanno partecipato all'asta lte;
   a prevedere misure di defiscalizzazione delle compensazioni di natura economica previste dal comma 9 dell'articolo della legge 13 dicembre 2010, n. 220, affinché la plusvalenza derivante dall'incasso della misura economica non concorra alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte dirette in quanto esente;
   ad adottare le iniziative di competenza affinché si assegnino le numerazioni lcn nazionali e di genere alle emittenti locali che rispondono agli stessi requisiti delle reti nazionali in termini di copertura, patrimonio netto e numero di dipendenti;
   a chiarire che un operatore di rete che rilascia volontariamente una frequenza, ponendo contemporaneamente in essere un accordo di carattere societario con altro soggetto al fine di condividere lo stesso multiplex, conserva la qualificazione giuridica;
   ad assumere le iniziative di competenza per aumentare da 2 a 4 i canali per ogni multiplex per cui è possibile la cessione della banda a fornitori di contenuti nazionali;
   ad assumere le iniziative normative per innalzare da 12 a 18 ore il limite di interconnessione tra emittenti locali;
   ad assumere le iniziative di competenza, anche normative, affinché possano essere modificati i requisiti per accedere alla licenza di fornitore di servizi media audiovisivi nazionale, riducendo da 6,2 a 2 milioni di euro il capitale sociale minimo e da 20 a 10 i dipendenti richiesti;
   a rispettare quanto previsto dall'articolo 4 del decreto del Ministro dello sviluppo economico del 10 settembre 2008, come modificato dal decreto dello stesso Ministro in data 19 novembre 2010 e dall'articolo 10, comma 4, della deliberazione n. 366/10/CONS dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che prevede l'attribuzione della numerazione lcn almeno 15 giorni prima dello switch-off di ogni area tecnica;
   a riservare un adeguato ruolo agli operatori di rete in ambito locale quali aziende di telecomunicazione in ambito televisivo per i nuovi servizi in banda larga, nell'ambito delle frequenze a loro assegnate, improntati sulla neutralità tecnologica, al fine di ottimizzare l'utilizzo dello spettro elettromagnetico;
   ad intervenire con le apposite iniziative normative affinché le sanzioni irrogate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ai sensi dell'articolo 5, comma 8, del decreto legislativo 9 gennaio 2008, n. 9, siano ridotte di un decimo per le emittenti locali, in ragione del minore bacino di utenza e della minore capacità economica;
   ad intervenire con le apposite iniziative normative affinché le sanzioni irrogate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in caso di un unico controllo e di un'unica contestazione alle tv locali vengano determinate con l'applicazione del principio del cumulo giuridico e non del cumulo materiale;
   ad assumere le iniziative di competenza dirette a riequilibrare l'accesso alla pubblicità degli enti pubblici tra i diversi media e le emittenti locali;
   ad assumere le iniziative di competenza per modificare il meccanismo di calcolo per la ripartizione dei finanziamenti pubblici alle televisioni locali introducendo una migliore progressività di erogazione con particolare attenzione all'aspetto qualitativo del segnale televisivo quanto alla natura e finalità dei contenuti;
   a prevedere la possibilità per l'emittenza locale di pubblicizzare le vendite e le aste giudiziarie, come previsto dall'articolo 490 del codice di procedura civile.
(1-00994)
«Caparini, Fava, Crosio, Comaroli, Negro, Munerato, Rainieri, Lanzarin, Fugatti, Fedriga, Stucchi, Volpi, Pini, Consiglio, Bitonci».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    la legge 6 agosto 1990, n. 223, «Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato», comunemente conosciuta come «legge Mammì», che ha disciplinato in modo definitivo il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, nel prevedere due distinte discipline specifiche, la prima dedicata alla radiodiffusione privata e la seconda relativa alla società concessionaria del servizio pubblico, detta principi fondamentali secondo i quali la diffusione di programmi radiotelevisivi ha carattere di preminente interesse generale ed il pluralismo, l'obbiettività, la completezza, l'imparzialità dell'informazione e l'apertura alle diverse opinioni socioculturali, politiche e religiose, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, devono rappresentare gli scopi principali e fondamentali del sistema radiotelevisivo;
    con la sentenza n. 102 del 1990, la Corte costituzionale ha stabilito che per l'esercizio di impianti radiotelevisivi, che comporta l'utilizzazione di un bene comune, l'etere, naturalmente limitato, si rende necessario un provvedimento di assegnazione della banda di frequenza;
    il piano nazionale delle frequenze proposto dal Ministro dello sviluppo economico regola la ripartizione delle frequenze utilizzabili dai vari servizi di telecomunicazione e, dopo aver suddiviso il territorio nazionale in «bacini di utenza», tenendo conto dell'entità numerica della popolazione servita, delle condizioni geografiche, urbanistiche, socioeconomiche e culturali, determina le zone di servizio in modo da consentire la ricezione dei programmi delle varie emittenti senza disturbi;
    a partire dal 2004, con la cosiddetta legge Gasparri, che ha, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, sostanzialmente legalizzato e rafforzato il duopolio Rai-Mediaset, rendendo impossibile l'ingresso di altri operatori sul mercato dell'emittenza televisiva e nel mercato pubblicitario, la legislazione ha, di fatto, marginalizzato il ruolo e la funzione delle emittenti televisive locali, realtà diffusa su tutto il territorio nazionale e presidio del pluralismo informativo;
    l'articolo 8, comma 2, del testo unico della radiotelevisione, di cui al decreto legislativo n. 177 del 2005, riserva comunque all'emittenza locale un terzo della capacità trasmissiva stabilita dal piano di assegnazione delle frequenze;
    il 28 giugno 2011 l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con delibera n. 300/10/CONS, al fine di consentire la progressiva digitalizzazione del territorio nazionale, secondo il calendario nazionale di switch-off, ha dettato i criteri generali per la definizione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze per il servizio di radiodiffusione televisiva in tecnica digitale, prevedendo 25 reti nazionali e non tenendo conto della riserva di un terzo delle frequenze per le emittenti locali;
    in data 28 luglio 2011, le commissioni tecniche regionali sull'emittenza radiotelevisiva hanno approvato un documento nel quale si evidenzia che nella suddetta delibera n. 300/10/CONS dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, relativa al piano di assegnazione delle frequenze per il servizio di radiodiffusione televisiva terrestre in tecnica digitale, nel prevedere la realizzazione di 25 reti nazionali, non è stato rispettato il vincolo della riserva di un terzo dei canali irradiabili previsto dalla legge n. 249 del 1997, lasciando le emittenti locali in una situazione di assoluta incertezza riguardo alle possibili interferenze ed all'effettivo utilizzo delle frequenze stesse. Nello stesso documento si sollecitano il Ministero dello sviluppo economico e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni a rivedere l'assegnazione delle frequenze;
    il decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, ha poi inferto un ulteriore colpo al pluralismo informativo, sottraendo numerose frequenze attualmente a disposizione delle emittenti locali per destinarle alle compagnie telefoniche e lasciando invariato il numero di frequenze occupate da Rai e Mediaset;
    infatti, a seguito dell'applicazione dell'articolo 4 del suddetto decreto-legge, che ha disposto la riduzione delle risorse frequenziali ad esclusivo discapito delle emittenze locali e, per converso, a vantaggio delle multinazionali telefoniche, dislocando le frequenze da 790 a 862 MHz (canali UHF 61-69) a favore della telefonia mobile di quarta generazione (LTE), la cosidetta banda larga mobile, si assisterà alla prevedibile conseguenza di generare forti interferenze nelle centraline di ricezione dell'utenza e un sensibile aumento dei campi elettromagnetici nei centri abitati;
    la potenza di trasmissione diffusa dalle stazioni di telecomunicazioni di Tim, Vodafone, 3 Italia e della stessa Wind potrebbe avere un effetto di saturazione dei filtri delle antenne televisive riceventi situate nelle vicinanze e potrebbe provocare l'oscuramento o il disturbo dei canali tv e migliaia di famiglie potrebbero essere costrette a fare interventi per riposizionare l'impianto di ricezione e per applicare filtri che evitino le interferenze del potentissimo segnale LTE. Il costo peserà, dunque, sull'utente finale;
    inoltre, il suddetto «esproprio» delle frequenze ai danni esclusivamente delle emittenze locali verrà compensato mediante la corresponsione di indennizzi, peraltro inadeguati rispetto agli investimenti da queste affrontati, a carico dello Stato;
    in molte regioni, poi, la pessima gestione della numerazione automatica dei canali ha provocato altri gravi danni alle tv locali, a causa dell'assegnazione tardiva delle posizioni sul telecomando avvenuta a distanza di oltre un anno dal passaggio alla tecnologia digitale e del mancato rispetto delle preferenze degli utenti. Ciò ha causato un crollo degli indici d'ascolto delle stesse emittenti, non più facilmente visibili come lo erano con il sistema analogico, con conseguente perdita del loro valore di avviamento;
    i suddetti provvedimenti, riducendo l'offerta televisiva, rappresentano una violazione del pluralismo dell'informazione e penalizzano quelle imprese della comunicazione che fanno del proprio radicamento sul territorio un elemento qualificante;
    i problemi dell'emittenza locale non possono essere affrontati come una semplice crisi di settore che investe alcune aziende. La sopravvivenza delle emittenti locali nel passaggio dal sistema analogico al sistema digitale terrestre rappresenta, oltre che un'esigenza fondamentale nei confronti degli utenti, anche un'espressione del valore costituzionale del diritto al pluralismo informativo (articolo 21 della Costituzione);
    in data 8 luglio 2011, il Ministero dello sviluppo economico ha indetto una procedura selettiva in modalità beauty contest per l'assegnazione di diritti d'uso di sei frequenze in banda televisiva per sistemi di radiodiffusione in digitale terrestre, procedura ancora in corso;
    le procedure di aggiudicazione in modalità beauty contest si caratterizzano per essere aperte solo a quegli operatori interessati che rispettino le caratteristiche individuate dall'ente aggiudicatore, con conseguente restrizione sotto il profilo concorrenziale e senza che sia garantita l'effettiva competitività;
    l'assegnazione delle dette frequenze avverrebbe sostanzialmente a titolo gratuito ed esclusivamente a favore di operatori nazionali,

impegna il Governo:

   a promuovere azioni per favorire il pluralismo informativo tutelando le emittenti locali;
   ad impegnarsi affinché venga garantito il rispetto della riserva all'emittenza locale di un terzo della capacità trasmissiva stabilita dal piano di assegnazione delle frequenze;
   a tutelare, nel processo di digitalizzazione, le emittenti locali dal rischio di perdere le proprie frequenze televisive e comunque ad assumere iniziative normative per defiscalizzare gli indennizzi per il rilascio dei canali da parte delle stesse;
   a garantire che la numerazione dei canali digitali sul territorio regionale avvenga in ossequio alle vigenti disposizioni di legge, ovvero secondo le preferenze degli utenti;
   a revocare o rivedere la procedura di assegnazione delle frequenze attraverso il beauty contest e di procedere verso la «procedura aperta», stabilendo le condizioni economiche di assegnazione delle suddette frequenze tramite asta pubblica, nel rispetto del principio del libero mercato.
(1-00995)
«Oliveri, Lo Monte, Lombardo, Commercio, Brugger».
(2 aprile 2012)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL DISARMO E LA NON PROLIFERAZIONE NUCLEARE IN VISTA DEL PROSSIMO VERTICE NATO

   La Camera,
   premesso che:
    il rischio della proliferazione nucleare e di un uso di armi nucleari, anche su scala regionale, rappresenta a tutt'oggi una minaccia ancora presente nel contesto internazionale, non solo in considerazione della condotta di alcuni Stati che minacciano di mettere a repentaglio il regime di progressivo disarmo, non proliferazione ed uso pacifico del nucleare codificato dal trattato di non proliferazione nucleare, ma anche alla luce di nuove minacce di natura asimmetrica come quella rappresentata dal terrorismo internazionale;
    nel corso degli ultimi anni, proprio la consapevolezza di tale scenario ha prodotto numerose iniziative assunte per incoraggiare la comunità internazionale a procedere concretamente verso l'obiettivo di un mondo libero da armi nucleari, superando progressivamente la logica della deterrenza, attraverso trattati internazionali per la riduzione degli armamenti, dichiarazioni di principio, revisioni delle concezioni strategiche e delle dottrine nucleari di singoli Paesi e di alleanze militari internazionali;
    in questo ambito di grande rilievo ed impulso per l'intera comunità internazionale è stata la nuova politica adottata dall'amministrazione Usa, inaugurata con il discorso pronunciato dal Presidente Obama il 5 aprile 2009 a Praga, nel quale è stato indicato alla comunità internazionale l'obiettivo di «un mondo senza armi nucleari», da conseguire attraverso la riduzione degli arsenali nucleari, la messa al bando globale dei test nucleari – anche attraverso una ratifica del Trattato per il bando totale delle esplosioni nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty – Ctbt) da parte statunitense, la moratoria della produzione dei materiali fissili utilizzati per la costruzione di armi nucleari, il rafforzamento dell'autorità preposta alle ispezioni internazionali, il ripensamento della cooperazione nucleare a scopi civili;
    il 23 giugno 2009, la Camera dei deputati e il 17 dicembre 2009 il Senato della Repubblica hanno approvato mozioni parlamentari sostenute da larghissimo consenso, che incoraggiano il Governo italiano a lavorare, in ogni sede internazionale multilaterale, per raggiungere l'obiettivo di un mondo libero da armi nucleari;
    il 26 febbraio 2010 i Ministri degli affari esteri di Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Norvegia hanno inviato una lettera al Segretario generale della Nato per richiedere l'apertura di un ampio dibattito in seno all'Alleanza atlantica, con particolare riferimento alla prospettiva di una riduzione e di un ritiro delle armi nucleari tattiche statunitensi presenti sul territorio europeo;
    il Parlamento europeo ha approvato con voto bipartisan il 10 marzo 2010 una risoluzione che «richiama l'attenzione sull'anacronismo strategico delle armi tattiche nucleari e sulla necessità che l'Europa contribuisca alla loro riduzione ed eliminazione dal proprio territorio nel contesto di un dialogo di più ampio respiro con la Russia; prende atto in tale contesto della decisione adottata il 24 ottobre 2009 dal Governo di coalizione tedesco di adoperarsi per il ritiro delle armi nucleari dalla Germania nell'ambito del processo globale di conseguimento di un mondo denuclearizzato; si compiace della lettera inviata il 26 febbraio 2010 dai Ministri degli affari esteri di Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Norvegia al Segretario generale della Nato, in cui si chiede l'avvio di un ampio dibattito in seno all'Alleanza sulle modalità di conseguimento dell'obiettivo politico generale di un mondo senza armi nucleari». Nella stessa risoluzione si ribadisce come «nell'ambito degli accordi di condivisione nucleare o degli accordi bilaterali in ambito Nato sono a tutt'oggi schierate in cinque Paesi membri non nucleari dell'Alleanza 150-200 armi tattiche nucleari (Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia)»;
    il Consiglio dell'Unione europea nella decisione 2010/212/CFSP del 29 marzo 2010, relativa alla posizione dell'Unione europea nella Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare, del 2010, con esplicito riferimento alle armi nucleari non-strategiche ha esortato «tutti gli Stati che posseggono tali armi ad includerle nei rispettivi processi generali di controllo degli armamenti e di disarmo, in vista della loro riduzione ed eliminazione secondo modalità verificabili e irreversibili»;
    nella nuclear posture Review pubblicata dal Dipartimento della difesa degli Usa il 6 aprile 2010, l'amministrazione statunitense ridefinisce la sua dottrina strategica, a partire da una riduzione del ruolo e del numero delle armi nucleari nella politica di sicurezza nazionale e afferma che: «sebbene le armi nucleari abbiano dimostrato di essere una componente chiave delle assicurazioni americane agli alleati e partner, gli Stati Uniti hanno fatto sempre più affidamento su elementi non-nucleari per rafforzare le architetture di sicurezza regionali, tra cui una presenza avanzata di forze convenzionali americane ed efficaci difese di teatro contro i missili balistici. Con la progressiva riduzione del ruolo delle armi nucleari nella strategia di sicurezza nazionale statunitense, questi elementi non nucleari assumeranno una quota maggiore degli oneri di deterrenza. Inoltre, un elemento indispensabile di un'efficace deterrenza regionale è non solo di tipo non-nucleare, ma anche non militare – i solidi legami politici di fiducia tra gli Stati Uniti e i loro alleati e partner»;
    l'8 aprile 2010 a Praga è stato sottoscritto dal Presidente americano Obama e da quello russo Medvedev il nuovo Trattato sulla riduzione degli arsenali nucleari (New Strategic Arms Reductm-Treaty – New Start), ratificato il 22 dicembre 2010 dal Senato Usa e il 25 e 26 gennaio 2011 dalla Duma e dal Consiglio federale della Federazione russa;
    il 28 maggio 2010 si è conclusa a New York la Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare con l'approvazione di un documento finale consensuale che contiene un piano d'azione in 64 punti. Dopo il fallimento della Conferenza di riesame del 2005, si è così raggiunto un accordo unanime su misure concrete: rilancio delle «garanzie negative di sicurezza»; invito a ratificare il Trattato per il bando totale delle esplosioni nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty – Ctbt); sollecitazione a concludere un trattato per il bando della produzione di materiali fissili e la riduzione di quelli esistenti (Fissile Majerial Cutoff Treaty – Fmct) sotto il controllo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Iaea); convocazione di una conferenza internazionale nel 2012 per realizzare una zona priva di armi di distruzione di massa e dei rispettivi vettori in Medio Oriente;
    il 3 giugno 2010 la Camera dei deputati ha approvato una nuova mozione parlamentare, con consenso unanime, che impegna, tra le altre cose, il Governo italiano «ad approfondire con gli alleati, nel quadro del nuovo concetto strategico della Nato di prossima approvazione, il ruolo delle armi nucleari sub-strategiche, e a sostenere l'opportunità di addivenire – tramite passi misurati, concreti e comunque concertati tra gli alleati – ad una loro progressiva ulteriore riduzione, nella prospettiva della loro eliminazione»;
    il 19 novembre 2010 è stato adottato a Lisbona il nuovo «Concetto strategico per la difesa e sicurezza dei membri della Nato» dal titolo «Active Engagement, Modem Defence», che assume l'impegno «a realizzare un mondo più sicuro per tutti e a creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari, conformemente agli obiettivi del Trattato di non proliferazione nucleare, in modo da promuovere la stabilità internazionale sulla base del principio di una sicurezza immutata per tutti»;
    nel nuovo concetto strategico della Nato, i Paesi Alleati affermano inoltre che «con i cambiamenti nel contesto della sicurezza dopo la fine della Guerra fredda, abbiamo ridotto drasticamente il numero di armi nucleari presenti in Europa e la nostra dipendenza dalle armi nucleari nell'ambito della strategia della Nato. Ci adopereremo per creare le condizioni per ulteriori riduzioni in futuro», sulla base del principio che «il controllo degli armamenti, il disarmo e la non proliferazione contribuiscono alla pace, alla sicurezza e alla stabilità internazionale, garantendo una sicurezza immutata per tutti i membri dell'Alleanza»;
    nell'ambito della stessa revisione strategica che si è compiuta in sede Nato, il ruolo delle armi nucleari tattiche è stato derubricato, in relazione al fatto che «la garanzia suprema della sicurezza degli Alleati è assicurata dalle forze nucleari strategiche, in particolare quelle degli Usa; le forze nucleari strategiche indipendenti di Gran Bretagna e Francia, che hanno un loro proprio ruolo deterrente, contribuiscono alla complessiva deterrenza e sicurezza degli Alleati»;
    così come stabilito dalla dichiarazione del summit di Lisbona del 20 novembre 2010, l'adozione del nuovo concetto strategico della Nato ha dato avvio alla «Nato's Defence and Deterrence Posture Review», un processo di revisione dell'intera posizione dell'Alleanza in materia nucleare, convenzionale e missilistica, che si concluderà nel vertice previsto nel maggio 2012 negli Usa a Chicago;
    il 14 aprile 2011 è stato sottoscritto al vertice dei ministri degli esteri Nato a Berlino, da parte di Polonia, Norvegia, Germania e Paesi Bassi, un «non-paper sul rafforzamento della trasparenza e della fiducia in relazione alle armi nucleari tattiche in Europa» indirizzato al Segretario generale della Nato. Il documento ha ricevuto il sostegno di Belgio, Repubblica Ceca, Ungheria, Islanda, Lussemburgo e Slovenia. Tale iniziativa ha inteso sollecitare un più sistematico dialogo tra Nato e Federazione russa, con l'adozione di una serie di misure di trasparenza reciproca tra Usa e Russia che possano favorire una progressiva riduzione e una successiva definitiva eliminazione delle armi nucleari tattiche dal territorio europeo;
    il 27 maggio 2011 è stata approvata la «Dichiarazione sulla non proliferazione e sul disarmo» al vertice G8 di Deauville, in Francia. In essa, è stato riaffermato il sostegno incondizionato al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) come pietra angolare del regime internazionale di non proliferazione; è stato rivolto un appello «a tutti gli Stati non ancora parti del trattato di non proliferazione (Tnp), della Convenzione sulle armi chimiche (Cwc) e della Convenzione sulle armi biologiche e tossiche (Btwc), ad aderire senza indugio»; è stato riaffermato l'impegno a dare attuazione alle decisioni della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare del 2010 per quanto riguarda la «costituzione in Medio Oriente di una zona libera dalle armi nucleari e dalle altre armi di distruzione di massa», facendo tutti gli sforzi necessari alla preparazione della conferenza che si terrà nel 2012; è stato confermato l'impegno per la «cessazione definitiva di tutti i test sulle armi nucleari, attraverso una rapida entrata in vigore del “Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty” (Ctbt) e una sua universalizzazione» e ribadito il «sostegno per il lavoro svolto dal “Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization” (Ctbto), nella costruzione di tutti gli elementi del regime di verifica, in particolare il Sistema di monitoraggio internazionale (Ims) e le ispezioni in loco»; è stato rivolto un invito a tutti gli Stati partecipanti alla Conferenza sul disarmo affinché avviino immediatamente negoziati internazionali per giungere alla conclusione di un trattato sulla messa al bando della produzione di materiale fissile;
    nel dicembre 2011, la «Nuclear Threat Initiative» ha pubblicato il rapporto «Reducing Nuclear Risks in Europe: A Framework for Action», accompagnato da 10 obiettivi concreti (10 per il 2012) indicati dall'ex senatore americano Sam Nunn in vista del vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, che mirano a sottolineare tra l'altro la necessità di cambiare lo status delle armi nucleari tattiche in Europa, assumendo l'obiettivo di completarne il rientro in territorio statunitense nell'arco dei prossimi cinque anni, definendo i passaggi intermedi e la tempistica definitiva dell'implementazione di questo obiettivo in base agli sviluppi del più ampio contesto politico e di sicurezza nelle relazioni tra Nato e Federazione russa,

impegna il Governo:

   a svolgere un ruolo attivo a sostegno delle misure di disarmo e di non proliferazione nucleare in tutte le sedi internazionali proprie e, in particolare, in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, a sostenere nell'ambito della «Defence and Deterrence Posture Review» l'assunzione di una «declaratory policy» della Nato che indichi come scopo fondamentale delle sue armi nucleari la deterrenza dell'uso di armi nucleari da parte di altri, in linea con le «declaratory policies» di Usa e Gran Bretagna, e che incoraggi contestualmente la riduzione del valore e della centralità attribuita agli arsenali tattici per la deterrenza nucleare;
   a sostenere, nell'ambito della «Defence and Deterrence Posture Review» e in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, l'opportunità di misure di trasparenza da parte della Nato, superando in particolare la «secrecy policy» («neither-confirm-nor-deny») e giungendo, quindi, ad annunciare il numero esatto delle armi nucleari tattiche presenti in Europa e i Paesi che le ospitano, in coerenza con la politica più trasparente in materia di arsenali nucleari adottata con la recente «Nuclear Posture Review» degli Usa e approvata dal nuovo concetto strategico della Nato;
   a sostenere, nell'ambito della «Defence and Deterrence Posture Review» e in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, in linea con gli orientamenti già assunti dalle istituzioni italiane, l'opportunità di ridurre ulteriormente il numero di armi nucleari tattiche in Europa, nella prospettiva della loro eliminazione, anche tramite il sostegno alla proposta di annunciare l'obiettivo di completarne il rientro in territorio statunitense nell'arco dei prossimi cinque anni, definendo i passaggi intermedi e la tempistica definitiva dell'implementazione di questo obiettivo in base agli sviluppi del più ampio contesto politico e di sicurezza nelle relazioni tra Nato e Federazione russa;
   a sostenere in occasione del vertice Nato del maggio 2012, l'obiettivo di approfondire le consultazioni e di rafforzare il dialogo tra la Nato e la Federazione russa, a partire dal rilancio delle attività del Consiglio Nato-Russia (NRC), sull'insieme delle questioni relative alla sicurezza euro-atlantica – dalla difesa missilistica alle armi convenzionali e nucleari, includendo misure per aumentare i tempi di allarme e di decisione di natura politica e militare e per limitare il timore della prospettiva di uno «short warning» rispetto ad un attacco convenzionale – per consolidare la fiducia reciproca e per favorire l'adozione, su base volontaria, di misure di trasparenza, di sicurezza, di monitoraggio e di progressiva riduzione delle armi nucleari tattiche in Europa, nella prospettiva della loro eliminazione;
   a contribuire nelle sedi internazionali proprie, in coerenza con gli obiettivi già indicati dal vertice G8 dell'Aquila, alla piena realizzazione degli impegni assunti a conclusione della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare del maggio 2010, operando per il rafforzamento del regime internazionale di non proliferazione, per l'attuazione del sistema delle «garanzie negative di sicurezza», per l'entrata in vigore del Trattato per la messa al bando delle sperimentazioni, per l'avvio di negoziati per la messa al bando della produzione di materiale fissile (Fmct), per la realizzazione di una zona priva di armi di distruzione di massa e dei rispettivi vettori in Medio Oriente e per l'adozione universale del protocollo aggiuntivo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, con l'obiettivo di consolidare le capacità ispettive dell'agenzia;
   a promuovere l'educazione al disarmo nel quadro delle Nazioni Unite, dell'Unione europea e sul piano nazionale, con particolare riferimento, in quest'ultimo caso, alla formazione professionale dei funzionari diplomatici e degli ufficiali delle Forze armate.
(1-00971)
«Mogherini Rebesani, La Malfa, Boniver, Pezzotta, Paglia, Mosella, Commercio, Baccini, Boccuzzi, Bossa, Brandolini, Cambursano, Marco Carra, Coscia, De Biasi, D'Incecco, Farinone, Grassi, Marchi, Mattesini, Melandri, Menia, Moles, Motta, Nicco, Peluffo, Pistelli, Porta, Rosato, Rubinato, Rugghia, Sbrollini, Servodio, Siragusa».
(26 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    nel corso del 2011 è entrato in vigore il nuovo Trattato sulla riduzione degli arsenali nucleari (New Strategic Arms Reductm-Treaty – New Start), firmato nell'aprile 2010 dai Presidenti Barack Obama e Dimitri Medvedev, che preannunciava «un mondo più sicuro» e una «nuova era» nelle relazioni tra le due superpotenze ex-nemiche durante la guerra fredda e proclamava il superamento di tensioni e diffidenze ancora recenti;
    già il 26 febbraio 2010 i Ministri degli affari esteri di Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Norvegia avevano inviato una lettera al Segretario generale della Nato per richiedere l'apertura di un dibattito proprio nel corso della conferenza dei Ministri degli affari esteri dell'Alleanza atlantica tenutasi poi il 22 aprile 2010 a Tallin, in Estonia, sul ritiro delle armi nucleari tattiche statunitensi presenti sul territorio europeo. L'istanza avanzata dai cinque Paesi europei sembrava collocarsi all'interno di una prospettiva coerente con la nuova strategia anticipata dal Presidente Obama;
    il 28 maggio 2010, infatti, dopo quasi un mese di lavori, si concludeva a New York, sotto l'egida dell'Onu, la conferenza quinquennale di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (Npt – non-proliferation Treaty) che ha ormai quarant'anni di vita. In quell'occasione i 189 Paesi membri hanno approvato un documento finale di 28 pagine nel quale sono stati precisati i passi successivi nella strada verso il disarmo globale. In sostanza, le cinque potenze nucleari riconosciute (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) si sono impegnate ad accelerare la riduzione degli arsenali, a diminuire l'importanza strategica delle armi nucleari e a presentare un rapporto sui progressi di tali iniziative nel 2014;
    in quella sede, inoltre, è stata indetta per il 2012 una Conferenza internazionale «per la denuclearizzazione del Medio Oriente» e l'eliminazione dalla regione di altre armi di distruzione di massa;
    uno dei principi fondamentali del Trattato di non proliferazione nucleare stabilisce che i Paesi non nucleari aderenti al Trattato rinuncino all'acquisizione di armi atomiche a fronte di un progressivo disarmo nucleare da parte di quelli a cui il Trattato di non proliferazione nucleare inizialmente riconosce il diritto di possedere tali armi; va detto, però, in generale, che nessuna delle cinque potenze nucleari che aderiscono al Trattato (gli Stati Uniti, tra l'altro, risultano ancora in possesso di 5.113 testate nucleari funzionanti) si è conformata all'articolo VI dello stesso, che prevede lo smantellamento dei propri arsenali atomici;
    anche a causa di ciò, le richieste dei Paesi occidentali di adottare misure più restrittive per impedire la proliferazione (l'adozione di un «protocollo aggiuntivo» che renda più severe le ispezioni, ovvero l'applicazione di misure punitive per chi volesse avvalersi dell'articolo X del Trattato di non proliferazione nucleare che prevede di poter ritirare l'adesione al trattato) sono state percepite da quei Paesi non nucleari come misure ingiustamente penalizzanti nei loro confronti, visto che i primi ancora non ottemperano, appunto, ai loro obblighi;
    non mancano contraddizioni ancora irrisolte: tre potenze nucleari non hanno mai aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (Israele, India e Pakistan) e per ciascuno di questi Paesi si è da più parti sottolineata la presenza di un trattamento di favore da parte di Washington; squilibri e disparità di trattamento che hanno ovviamente suscitato risentimenti e irritazione di diversi Paesi a livello mondiale, soprattutto di quelli come Turchia e Egitto che insistono fortemente affinché si arrivi a un Medio Oriente privo di armi di distruzione di massa;
    l'Italia, per conciliare gli obblighi derivanti dal Trattato di non proliferazione nucleare con la presenza di armi atomiche, ricorre al sistema della «doppia chiave». Le armi nucleari restano in possesso degli Stati Uniti e sotto il suo stretto controllo e solo gli Usa potranno decidere se ricorrere all'arma nucleare. Tuttavia, l'uso è consentito solo dopo l'autorizzazione dello Stato territoriale, cioè dell'Italia. In questo modo, solo formalmente l'Italia non esercita alcun controllo sulle testate nucleari degli Usa e, quindi, la loro presenza non è incompatibile con il Trattato di non proliferazione nucleare. Tuttavia, non sono pubblici i dettagli del sistema connesso alla «doppia chiave»;
    la risoluzione n. 1887, adottata nel mese di settembre 2009 dal Consiglio di sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), già prefigurava un mondo senza armi atomiche, esortando i Paesi a rafforzare il Trattato di non proliferazione nucleare. Il documento «chiede a tutti gli Stati che non fanno parte del Trattato di non proliferazione nucleare di entrare nel Trattato come Stati non nucleari, in modo da raggiungere l'universalità in una data prossima»;
    il Trattato di non proliferazione nucleare è stato senza dubbio il principale argine alla diffusione dell'arma nucleare anche se ha perso «peso specifico» con l'entrata in scena di nuovi protagonisti e non appare più così scontato che l'effetto deterrente, che aveva una sua ratio e anche una qualche efficacia in un mondo bipolare, possa contribuire a evitare futuri conflitti di fronte a un aumentato numero di Paesi possessori di armi nucleari;
    in questo scenario, il Governo di coalizione tedesca ha elaborato la proposta di rimuovere le armi atomiche attualmente esistenti in Germania, mentre ad assumere la leadership per l'eliminazione delle armi nucleari in Europa sono poi stati i Paesi del Benelux, primo fra tutti il Belgio, sostenuti dalla Norvegia, che tuttavia non ospita armi nucleari sul suo territorio. Anche l'Olanda ha avviato un dibattito in merito. La Corte internazionale di giustizia, nel parere del 1996 sulle armi nucleari, ha affermato che il loro uso è contrario al diritto internazionale umanitario;
    l'Italia ha ratificato tutti i più importanti strumenti di diritto umanitario, ma, avendo sul proprio suolo (ad Aviano), armi nucleari, è stata costretta a effettuare una dichiarazione secondo cui il protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra non si applica alle armi nucleari. Il parere della Corte internazionale di giustizia, inoltre, ha confermato che il possesso delle armi nucleari e la stessa deterrenza nucleare non sono contrari al diritto internazionale. Il parere in questione, però, ha stabilito che l'uso dell'arma nucleare è sottoposto alle regole del diritto internazionale umanitario. L'Italia dovrebbe, pertanto, ritirare la riserva interpretativa al I protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che stabilisce che il I protocollo non si applica alle armi nucleari. Inoltre, c’è l'obbligo di uno Stato non nucleare, aderente al Trattato di non proliferazione nucleare, di non possedere o ricevere armi nucleari. Per aggirare l'ostacolo è stato escogitato il sistema per cui l'ordigno nucleare può essere impiegato dallo Stato nucleare, purché non vi sia l'opposizione dello Stato non nucleare sul cui territorio le armi sono stanziate, rischiando di andare contro lo scopo e l'oggetto del Trattato di non proliferazione nucleare;
    durante il vertice di Lisbona tenutosi nel mese di novembre 2010, è stato concepito un nuovo «Concetto strategico per la difesa e la sicurezza dei membri della Nato» che vedrà la conclusione nel previsto summit di maggio 2012 a Chicago, con la previsione che i Paesi Occidentali aggiornino la propria posizione nel campo della difesa e della deterrenza; in quella sede è stata da più parti riaffermata la necessità di procedere a un più stretto controllo degli armamenti, al disarmo e alla non proliferazione intesi come base fondamentale per la pace, la sicurezza e la stabilità internazionali; tuttavia, malgrado l'esplicito impegno di «creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari», il nuovo concetto strategico della Nato ha, comunque, ribadito che «fintantoché ci sono armi nucleari nel mondo, la Nato rimarrà un'Alleanza nucleare»;
    va ricordato che, sebbene non vi siano dati ufficiali, alcuni Paesi europei, tra cui l'Italia, ancora ospitano armi nucleari tattiche (ant): Belgio (10-20), Germania (10-20), Olanda (10-20) e Turchia (circa 50), mentre da un rapporto dell'associazione ambientalista americana natural resources defense Council emerge che gli Stati Uniti mantengono in Italia 90 bombe nucleari: 50 ad Aviano (Pordenone) e 40 a Ghedi Torre (Brescia). Tre di questi Paesi che ospitano – Belgio, Germania e Olanda – si sono espressamente dichiarati a favore della rimozione dai loro territori delle armi nucleari tattiche, mentre il nostro Paese mantiene una posizione ambivalente sostenendo, da un lato, una posizione a favore del disarmo nucleare globale e, dall'altra, ampia fedeltà alla Nato;
    altresì, un recente rapporto dell'Ican (la Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari) dimostra che la proliferazione nucleare si basa sul contributo fondamentale di gruppi assicurativi e bancari, compresi quelli italiani;
    il rapporto in questione sui finanziamenti globali ai produttori di armi nucleari mostra che molti dei principali gruppi bancari e assicurativi internazionali finanziano e favoriscono la proliferazione nucleare. La metà di questi grandi gruppi d'investimento, che comprendono banche, fondi pensione e compagnie assicurative, ha sede negli Stati Uniti e un terzo, invece, in Europa. Sono molti sono gli istituti bancari italiani che sono in prima linea: spiccano Intesa Sanpaolo e Unicredit, affiancate da Banca Leonardo, dalla Monte dei paschi di Siena, da Banca popolare di Milano, Banca popolare di Sondrio, Banca popolare dell'Emilia Romagna, Banca popolare di Vicenza, Credito emiliano, Banco Popolare, Gruppo Carige, Mediobanca e Ubi Banca. Sono tutte in diversa misura coinvolte nei finanziamenti ai colossi della produzione mondiale di armamenti. Emerge anche Finmeccanica, il cui capitale è detenuto per il 30,2 per cento dal Ministero dell'economia e delle finanze. Il principale gruppo industriale italiano nel settore dell'alta tecnologia e tra i primi dieci player mondiali nel settore dell'aerospazio, della difesa e della sicurezza, detiene, infatti, il 25 per cento delle azioni di Mbda, una joint venture (impresa in partecipazione) che vanta un fatturato annuale di 2,7 miliardi di euro e un portafoglio commesse di 11,9 miliardi di euro, un'impresa leader nella costruzione di missili e sistemi missilistici, impegnata anche nella costruzione di missili nucleari per l'aeronautica francese. In generale, i grandi gruppi della finanza mondiale sopra citati investono ingenti somme di denaro nelle società che producono armamenti nucleari, fornendo prestiti ma anche attraverso l'acquisto di azioni e obbligazioni. Giocano, quindi, un ruolo chiave nella proliferazione dell'industria militare nucleare e nello sviluppo di alcune delle più pericolose e distruttive armi che l'uomo abbia mai inventato;
    il presidente Obama ha più volte comunicato che intendeva fare del disarmo nucleare globale uno dei pilastri della politica estera degli Stati Uniti; la nuclear posture Review, pubblicata nel 2011, ha, infatti, riaffermato la necessità di diminuire il ruolo delle armi nucleari, alla luce anche delle crescenti capacità delle armi convenzionali. Lo stesso documento ribadiva che le armi nucleari tattiche ancora presenti in Europa continuano a svolgere l'importante funzione politica di contribuire alla coesione dell'alleanza e di rassicurare gli alleati che si sentono esposti a minacce regionali;
    nel frattempo, il 26 marzo 2012 si è tenuto a Seul il secondo vertice sulla sicurezza nucleare che ha visto riuniti 53 leader mondiali e che ha confermato l'impegno comune per il disarmo, la non proliferazione e l'utilizzo pacifico dell'energia nucleare, ma anche una forte riaffermazione dei rischi alla sicurezza legati al terrorismo nucleare; il summit è stato concepito come il seguito di quello sopra citato, organizzato nel 2010, con lo scopo più generale di favorire la denuclearizzazione internazionale; intervenendo al summit, il Presidente americano Obama ha, tra l'altro, significativamente affermato che con oltre 1.500 armi nucleari e 5.000 testate nucleari gli Stati Uniti hanno «più armi di quelle necessarie»;
    la questione più delicata rimane la convocazione di una conferenza sulla creazione di una zona priva di armi di distruzione di massa in Medio Oriente (che dovrebbe tenersi a Helsinki sotto l'egida del Segretario generale delle Nazioni Unite), una regione per la quale tale progetto risulta ancor più ambizioso, visto che la proibizione non riguarderebbe solo le armi nucleari, ma anche quelle chimiche e biologiche, tenendo in debito conto la cronica tensione politico-militare ivi esistente e che nessuno dei principali Paesi coinvolti – Iran, Israele, Siria ed Egitto – ha tutte le carte in regola in fatto di armi di distruzione di massa;
    a Bruxelles si discute in questi giorni su come dare attuazione concreta al nuovo concetto strategico della Nato del 2010 e, soprattutto, su quali proposte convergere affinché emergano elementi evolutivi per una nuova dottrina sull'uso dell'arma nucleare,

impegna il Governo:

   a sostenere con determinazione, nelle opportune sedi internazionali, in particolare proprio in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012, un'intesa sul disarmo nucleare che sia giuridicamente vincolante come lo sono i trattati che già proibiscono le armi chimiche e biologiche;
   a sostenere gli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite nel delicato compito di portare allo stesso tavolo negoziale, attraverso la convocazione della citata conferenza, tutti i Paesi di un'area ad alta tensione, come quella mediorientale, per affrontare un tema altamente controverso come quello delle armi nucleari, chimiche e biologiche;
   a valutare se l'attuale regime delle basi e delle istallazioni americane sopra citate sia ancora compatibile con il mutato assetto dei rapporti internazionali, soprattutto dopo le dichiarazioni del Presidente Obama al recente vertice di Seul;
   a rendere noto il sistema della «doppia chiave» e a ritirare la riserva interpretativa al I protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che stabilisce che il I protocollo non si applica alle armi nucleari;
   a farsi portavoce e promotore durante il summit a Chicago della necessità, riaffermata da più parti, di procedere a un più stretto controllo degli armamenti, al disarmo e alla non proliferazione intesi come base fondamentale per la pace, la sicurezza e la stabilità internazionali, valutando la possibilità di avviare maggiori e mirati controlli sulle banche, sulle società di intermediazione mobiliare (sim), sulle società di gestione del risparmio, sulle società di investimento a capitale variabile (sicav), nonché sugli intermediari finanziari iscritti nell'elenco speciale di cui all'articolo 107, comma 1, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, sulle fondazioni bancarie e sui fondi pensione che finanziano la produzione e il commercio di armi nucleari.
(1-00987)
«Di Stanislao, Di Pietro, Donadi».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    la diffusione di armi nucleari rappresenta oggi una delle più grandi minacce alla pace e alla sicurezza internazionale;
    la presenza e il ruolo di tali armi negli ultimi anni sono stati oggetto di un vivace dibattito sull'opportunità o meno di una loro ulteriore riduzione o completa distruzione;
    il disarmo nucleare è previsto dall'articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) che prevede: «ognuna delle Parti si impegna a perseguire quanto prima negoziati in buona fede sulle misure effettive sulla cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare, e per un Trattato sul disarmo generale e completo sotto controllo internazionale rigoroso ed effettivo»;
    il 26 febbraio 2010 Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Norvegia hanno richiesto alla Nato di discutere la riduzione e il ritiro di tutte le armi nucleari tattiche statunitensi presenti sul territorio europeo;
    l'8 aprile 2010 a Praga il Presidente Obama e il Presidente Medvedev hanno stipulato il nuovo Trattato sulla riduzione degli arsenali nucleari (New Strategic Arms Reductm-Treaty – New Start), considerato il più importante accordo degli ultimi 20 anni, in quanto riguarda la riduzione del limite massimo del numero di testate nucleari e di vettori di lancio operativi che ciascun Paese può possedere;
    le conferenze di revisione del Trattato si sono svolte ogni cinque anni, a partire dall'anno in cui il Trattato è entrato in vigore nel 1970, nel tentativo di trovare un accordo per raggiungere una dichiarazione finale per l'attuazione delle disposizioni del Trattato, emanando raccomandazioni sulle misure da intraprendere per rafforzarlo;
    la conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare del 28 maggio 2010 ha approvato un piano di azione di 64 punti, tra cui: l'universalità del Trattato, il disarmo nucleare; la non proliferazione nucleare, inclusi la promozione ed il rafforzamento dei controlli di sicurezza; misure per promuovere l'uso pacifico e sicuro dell'energia nucleare; il disarmo e la non proliferazione a livello regionale; l'attuazione della risoluzione del 1995 sul Medio Oriente; le misure per scongiurare il ritiro dal Trattato; le misure volte a rafforzare ulteriormente il processo di revisione; le modalità promuovere l'impegno con la società civile nel rafforzamento delle norme del Trattato di non proliferazione nucleare, promuovendo anche l'educazione al disarmo;
    l'Unione europea si è attivamente impegnata a contribuire all'attuazione del piano d'azione adottato alla conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare nel 2010, comprese le intese raggiunte per quanto riguarda il Medio Oriente;
    il 27 maggio 2011 è stata approvata la «Dichiarazione sulla non proliferazione e sul disarmo» al vertice G8 di Deauville, in Francia, in cui è stato riaffermato il sostegno incondizionato al Trattato di non proliferazione come pietra miliare del regime internazionale di non proliferazione;
    il 26 marzo 2012 i 53 Capi di Stato e di Governo si sono riuniti a Seul per il secondo summit sulla sicurezza nucleare, impegnandosi al disarmo, alla non proliferazione e all'utilizzo pacifico dell'energia nucleare,

impegna il Governo:

   a sostenere, nel prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, l'opportunità dell'adozione di misure da parte della Nato che portino a una concreta riduzione del numero di armi nucleari tattiche presenti in Europa, valutando anche la prospettiva di una loro eliminazione;
   a contribuire affinché l'Unione europea diventi punto di riferimento internazionale per il disarmo e la riduzione dell'armamento nucleare, sostenendo con determinazione la strategia contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa.
(1-00988)
«Misiti, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Pittelli, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    la complessa tematica del disarmo e della non proliferazione nucleare, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, è ben chiara ai Paesi ed alle organizzazioni internazionali fin dai primi anni dell'era nucleare, tanto che una risoluzione per l'utilizzo del nucleare esclusivamente a scopi pacifici e per lo stop ad ulteriori acquisizioni di armamenti venne votata dall'Onu già nel gennaio del 1946;
    le armi nucleari, per la loro stessa natura, sono in grado di determinare distruzioni gravissime, ma non è possibile preventivarne la dismissione unilaterale senza considerare le conseguenze che una loro riduzione non bilanciata può provocare sugli equilibri internazionali;
    un vero disarmo nucleare è conseguentemente possibile solo in un contesto davvero mondiale, che veda una pari assunzione di impegno da parte di tutti i Paesi già dotati di armi atomiche o che aspirino ad acquisirne. Qualunque iniziativa asimmetrica vanificherebbe ogni effetto deterrente con la conseguenza perversa di rafforzare proprio la posizione di chi non accetta le regole condivise;
    dopo la corsa agli armamenti del periodo della Guerra fredda, si è da tempo avviata una stagione internazionale di dialogo positivo sul tema, a partire proprio dalle due principali potenze che hanno contributo fattivamente alla conclusione del Trattato di non proliferazione nucleare del 1968 e, oggi, stanno conducendo una revisione ciascuna delle proprie prospettive strategiche, firmando tra loro il nuovo Trattato sulla riduzione degli arsenali nucleari (New Strategic Arms Reductm-Treaty – New Start) l'8 aprile 2010 a Praga;
    anche l'Alleanza atlantica sta rivedendo la propria politica riguardo alle armi nucleari, con un processo di revisione iniziato nel 2010 a Lisbona, che si concluderà al vertice del prossimo maggio 2012 a Chicago;
    se Occidente e Federazione russa hanno assunto impegni forti e coerenti in direzione del disarmo, si rischia, invece, che altri Stati mantengano o sviluppino armi nucleari al di fuori del Trattato di non proliferazione nucleare e di qualunque dialogo internazionale. Si ricorda che non aderiscono al Trattato di non proliferazione nucleare Israele, India, Pakistan e Corea del Nord, Paesi destinati ad avere peso ed ambizioni crescenti nello scenario internazionale, nei quali forti sono le infiltrazioni di matrice terroristica, basso il controllo democratico e l'influenza della moral suasion internazionale;
    un problema aggiuntivo è rappresentato dalla circostanza che le conoscenze tecnologiche richieste per produrre ordigni nucleari sono le stesse indispensabili alla produzione di energia elettronucleare, cosa che rende difficile determinare chi possa allestire programmi nucleari a destinazione civile e a chi, invece, tale facoltà vada negata; proprio per questo è importante il regime di penetranti controlli che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica garantisce a nome e per conto delle Nazioni Unite, in ottemperanza alle previsioni del Trattato di non proliferazione nucleare;
    appare conseguentemente necessario attribuire maggiori poteri di accesso e di intervento all'organismo deputato dalle Nazioni Unite a verificare l'impiego di materiale nucleare a scopo militare, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, attribuendo un vero potere di ingresso e di ispezione anche non concordata con gli Stati interessati, seppure questa fattispecie abbia dimostrato difficoltà di attuazione, prefigurando, altresì, un'estensione dei suoi poteri anche ai Paesi non firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare,

impegna il Governo:

   a farsi promotore di una strategia di disarmo nucleare che includa negoziati e politiche di disarmo da parte di tutti i Paesi, a livello mondiale, che sono dotati od in procinto di dotarsi di armi nucleari, in un'azione veramente globale, altrimenti non efficace;
   a sostenere in sede Onu la necessità di rafforzare ed espandere il numero di soggetti membri del Trattato di non proliferazione nucleare e di incrementare concretamente le possibilità di intervento dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica;
   ad indirizzare in ambito Nato la politica di disarmo in maniera concertata con gli altri membri e nel quadro negoziale con la Federazione russa sul controllo degli armamenti.
(1-00989)
«Dozzo, Stefani, Allasia, Gidoni, Chiappori, Molgora, Fugatti, Fedriga, Fogliato, Lussana, Montagnoli, Bitonci».
(2 aprile 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    il 14 aprile 2011 si è tenuto a Berlino il vertice dei Ministri degli esteri; in quell'occasione è stato sottoscritto da parte di Polonia, Norvegia, Germania e Paesi Bassi un «non-paper sul rafforzamento della trasparenza e della fiducia in relazione alle armi nucleari tattiche in Europa» indirizzato al Segretario generale della Nato. Il documento ha ricevuto il sostegno di Belgio, Repubblica Ceca, Ungheria, Islanda, Lussemburgo e Slovenia. L'iniziativa era finalizzata evidentemente a stimolare un sistematico dialogo tra Nato e Federazione russa, con l'adozione di una serie di misure di trasparenza reciproca, in particolare tra Usa e Russia, che possano favorire una progressiva riduzione e una successiva definitiva eliminazione delle armi nucleari tattiche dal territorio europeo;
    il 27 maggio 2011 al vertice del G8 di Deauville, in Francia è stata approvata la «Dichiarazione sulla non proliferazione e sul disarmo» con la quale si è riaffermato il sostegno incondizionato al Trattato di non proliferazione (Tnp) ed è stato rivolto un appello «a tutti gli Stati non ancora parti del trattato di non proliferazione (Tnp), della Convenzione sulle armi chimiche (Cwc) e della Convenzione sulle armi biologiche e tossiche (Btwc) ad aderire senza indugio». Sempre allo stesso vertice si è poi focalizzato l'attenzione alla «costituzione in Medio Oriente di una zona libera dalle armi nucleari e dalle altre armi di distruzione di massa». Inoltre, al vertice si erano focalizzati i passaggi necessari alla preparazione della conferenza che si terrà nel 2012. È stato ribadito l'impegno per la «cessazione definitiva di tutti i test sulle armi nucleari, attraverso una rapida entrata in vigore del “Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty” (Ctbt) e una sua universalizzazione» e confermato il «sostegno per il lavoro svolto dal “Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization” (Ctbto). Infine, è stato rivolto un invito a tutti gli Stati partecipanti alla Conferenza sul disarmo affinché avviino immediatamente negoziati internazionali per giungere alla conclusione di un trattato sulla messa al bando della produzione di materiale fissile;
    nel dicembre 2011, la «Nuclear Threat initiative» ha pubblicato il rapporto «Reducing Nuclear Risks in Europe: A Framework for Action»; il rapporto è stato correlato da 10 obiettivi concreti (10 per il 2012) indicati dall'ex senatore americano Sam Nunn in vista del vertice Nato di maggio 2012 a Chicago;
    pochi giorni fa, però, il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen ha reso noto che non si terrà il summit fra la Federazione russa e la Nato previsto per maggio 2012 a Chicago;
    appare evidente che la decisione americana di proseguire il programma missilistico di difesa europeo ed anche le divergenze emerse tra Stati uniti e Russia durante la crisi mediorientale stiano influendo i rapporti tra le due superpotenze;
    Rasmussen a riguardo ha dichiarato: «Ho personalmente discusso la questione con il neoeletto Presidente Putin, con il quale abbiamo convenuto che la data prevista per il summit di Chicago Nato-Russia risulta attualmente problematica, in quanto al momento il calendario politico russo è già fitto di impegni riguardanti la politica nazionale. Confermo, invece, che ci sarà il prossimo mese un incontro con il Ministro degli affari esteri russo, a dimostrazione che continuiamo a credere nel dialogo e in un'effettiva collaborazione. Cosa che proseguirà tanto prima quanto dopo il summit di Chicago, poiché il dialogo con la Russia continuerà anche nel futuro»;
    da parte sua, il segretario stampa di Putin ha affermato che «al momento non sono in atto preparativi per il summit di Chicago». In effetti già nel 2011 Dmitrij Rogozin, l'allora ambasciatore russo presso la Nato, aveva rimarcato il problema relativo alla presenza di Putin al suddetto summit, facendo intendere che la partecipazione del Presidente al vertice era stata messa in dubbio dalla situazione d’impasse creatasi per via delle discussioni fra Russia e America sul sistema missilistico che va formandosi in Europa. La medesima posizione è stata, poi, ribadita da diversi altri diplomatici russi;
    come detto, la crisi sulla questione del sistema missilistico va di pari passo con l'attiva opposizione di Mosca circa la politica della Nato in Medio Oriente, che riguarda sia le operazioni in Libia, sia il blocco sugli interventi nella questione siriana, che la differenza di principi per quanto riguarda l'approccio sul problema iraniano. Infine, è da ricordare che un altro punto che va contro il favore della Russia e si somma a quelli già esposti è la presenza, attualmente senza un mandato Onu, del contingente Nato in Afghanistan dopo il 2014. Ovviamente quanto successo in occasione delle ultime elezioni presidenziali in Russia non facilita i rapporti;
    appare evidente che la strada del disarmo nucleare non può prescindere dai rapporti tra Usa e Federazione russa e, quindi, tra la Nato e quest'ultima; solo perseguendo la strada del miglioramento di tali rapporti si può realisticamente pensare ad un progressivo quanto necessario disarmo nucleare su scala mondiale;
    in questo quadro assume particolare importanza l'incontro di Pratica di Mare del 2002, che aprì la strada alla nascita del Consiglio Nato-Russia, che nel 2010 al vertice di Lisbona è stato celebrato da tutti i leader europei;
    al summit Nato si incontreranno, quindi, delegazioni provenienti da diversi Paesi, ognuno dei quali con differenti posizioni per quanto riguarda i rapporti con la Russia e la questione della sicurezza internazionale. Prima di questo summit a Camp David si terrà un incontro con otto potenze internazionali;
    al momento Washington e i suoi alleati, a quanto pare, hanno bisogno di tempo per valutare il corso del nuovo Governo russo, mentre Mosca è interessata a capire come reagirà l'Occidente alla sua nuova impostazione in politica estera,

impegna il Governo:

   a svolgere un ruolo attivo a sostegno delle misure di disarmo e di non proliferazione nucleare in tutte le sedi internazionali proprie e, in particolare, in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago;
   a rilanciare lo spirito di Pratica di Mare, facilitando la collaborazione ed il dialogo tra Nato e Federazione russa, nell'ottica di un progressivo ed efficace programma di disarmo nucleare, a partire dal rilancio delle attività del Consiglio Nato-Russia (NRC);
   a sostenere, nell'ambito della «Defence & Deterrence Posture Review» e in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, l'opportunità di misure di trasparenza da parte della Nato in un quadro di reciprocità con la Federazione russa;
   a sostenere, sempre nell'ambito della «Defence & Deterrence Posture Review» e in vista del prossimo vertice Nato di maggio 2012 a Chicago, l'assunzione di una «declaratory policy» della Nato che indichi come scopo fondamentale delle sue armi nucleari la deterrenza dell'uso di armi nucleari da parte di altri, in linea con le «declaratory policy» di Usa e Gran Bretagna, incoraggiando contestualmente la riduzione del ruolo degli arsenali tattici per la deterrenza nucleare;
   a sostenere l'opportunità di ridurre ulteriormente il numero di armi nucleari tattiche in Europa, nella prospettiva della loro progressiva eliminazione, definendo i passaggi intermedi e la tempistica definitiva dell'implementazione di questo obiettivo in base agli sviluppi del più ampio contesto politico e di sicurezza nelle relazioni tra Nato e Federazione russa;
   a contribuire nelle sedi internazionali proprie, in coerenza con gli obiettivi già indicati dal vertice G8 dell'Aquila, alla piena realizzazione degli impegni assunti a conclusione della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione del maggio 2010.
(1-00993) «Pianetta, Baldelli, Frattini».
(2 aprile 2012)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN ORDINE ALLE MODALITÀ DI AMMISSIONE ALLE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN MEDICINA

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto ministeriale 6 marzo 2006, n. 172, che regola le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina, prevede ai fini dell'iscrizione al concorso per i laureati in medicina e chirurgia l'obbligo di superare l'esame di Stato prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande;
    il calendario delle prove è predisposto dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e in modo da poter adeguatamente pubblicizzare, con congruo anticipo, la data, nonché il numero dei posti di specializzazione assegnati a ciascun ateneo, e in modo che le università possano pubblicare i relativi bandi almeno 60 giorni prima;
    ogni anno migliaia di neolaureati in medicina attendono con trepidazione di sapere quali saranno i tempi per poter continuare il proprio percorso formativo, tempi che si allungano di anno in anno sempre più, determinando così un ulteriore ritardo in un progetto di vita che già di per sé risulta essere molto lungo e gli effetti di tale situazione sono gravi e molteplici: tanti neolaureati perderanno almeno un anno;
    dal concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione dell'area medica vengono esclusi tutti i laureati da novembre in poi, iscritti al tirocinio ai fini dell'esame di Stato;
    il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha più volte precisato che non è possibile armonizzare le sessioni di laurea, che normalmente sono tre in ogni anno accademico, con le sessioni degli esami di Stato, che si svolgono due volte l'anno e con il concorso di ammissione alle scuole di specializzazione, che viene bandito per ciascun anno accademico;
    tale problema si è accavallato nel corso degli anni, tanto che nei precedenti anni accademici il Ministro pro tempore Moratti aveva previsto una deroga, una disposizione transitoria per la quale si permetteva di concorrere comunque alla prova per l'accesso alla specializzazione con riserva di abilitarsi entro la prima sessione utile. Si permetteva, comunque, agli studenti di sostenere l'esame di ingresso alle scuole di specializzazione, in attesa di avere superato l'esame di abilitazione,

impegna il Governo

ad individuare in tempi brevi una soluzione adeguata che permetta di sanare l'attuale situazione, in previsione di una calendarizzazione capace di ovviare alle disfunzioni sopra richiamate, relative ai concorsi per l'ammissione alle scuole di specializzazione in medicina, per consentire ai giovani di programmare la propria vita ed i tempi della propria formazione individuale.
(1-00855)
«Vincenzo Antonio Fontana, Palumbo, Di Virgilio, Barani, Mussolini, Giammanco, De Nichilo Rizzoli, Mancuso, Scandroglio, Ciccioli, Germanà, Garofalo, Vignali, Pelino, Marinello, Gioacchino Alfano».
(8 febbraio 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha determinato per il 2011-2012 un aumento pari a 9.501 posti per le facoltà di medicina e chirurgia, nonostante le regioni e il Ministero della salute, con il pieno auspicio dell'ordine dei medici ne avessero sollecitati almeno 10.566. Si tratta di mille posti in meno, con un'evidente disparità di valutazione del fabbisogno dei medici nei prossimi anni;
    la cosa appare tanto più grave in quanto l'argomentazione utilizzata dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca è che il numero dei potenziali studenti di medicina è risultato superiore alla capacità formativa complessiva degli atenei. Evidentemente l'ampliamento dell'offerta formativa, che in questi ultimi 5 anni è cresciuta del 30 per cento, è ancora inadeguata a coprire i bisogni effettivi del nostro servizio sanitario nazionale. Negli ultimi dieci anni l'85 per cento degli immatricolati a medicina arriva alla laurea, come ha evidenziato Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale;
    entro il 2015, infatti, a fronte dei prossimi pensionamenti nella categoria, verranno meno circa 17.000 medici e dal 2013 è ipotizzabile un saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni;
    l'Italia ha un numero di medici professionalmente attivi superiore alla media europea, pari a 4,1 medici per mille abitanti contro una media dell'Unione europea di 3,4 per mille abitanti; ma a breve la situazione è destinata a cambiare ed è necessario aumentare le immatricolazioni, migliorando al contempo la qualità dell'offerta formativa per garantire al nostro servizio sanitario nazionale almeno 10 mila medici l'anno, necessari per essere a regime nel 2018;
    oltre ad aumentare il numero delle immatricolazioni degli studenti in medicina e chirurgia, però, diventa sempre più urgente garantire a quanti si laureano la possibilità di accedere ad una scuola di specializzazione, facendo coincidere il numero dei laureati con il numero dei potenziali specialisti. Nei prossimi 10 anni si prospetta una mancanza di circa 30.000 specialisti che svolgano funzioni non delegabili ad altre professioni sanitarie;
    oggi uno studente che si immatricola a medicina e chirurgia, superando la selezione iniziale, pur laureandosi regolarmente in corso, corre il rischio di dover attendere altri due o tre anni prima di accedere alla scuola di specializzazione, portando il suo iter formativo a 13-15 anni. Ritardando pesantemente il suo ingresso nel mondo della professione, che avverrebbe intorno ai 35 anni di età, con pesanti ricadute anche sotto il profilo pensionistico;
    il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione è disciplinato dal nuovo «Regolamento concernente le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina» del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca del 6 marzo 2006, n. 172. Il decreto prevede:
     a) la ridefinizione della data di inizio dell'anno accademico («è, altresì, indicata la data di inizio delle attività didattiche delle scuole di specializzazione»), che avrà luogo successivamente all'espletamento delle selezioni, e quindi subito dopo la pubblicazione delle graduatorie;
     b) l'introduzione, quale requisito necessario per l'ammissione alla prova, del conseguimento dell'abilitazione alla professione («Al concorso possono partecipare i laureati in medicina e chirurgia in data anteriore al termine di scadenza fissato dal bando per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, con obbligo di superare l'esame di Stato prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso medesimo»);
    gli studenti di medicina fin dagli inizi sono ben consapevoli che, nonostante la lunghezza del loro iter formativo, sei anni sono del tutto insufficienti ad avere assicurata la competenza necessaria per essere buoni professionisti, e proprio per questo diventa per loro impossibile trovare lavoro senza un'ulteriore specializzazione. Si crea così un'ansia da prestazione che li spinge a cercare di ottenere i titoli necessari per entrare nella scuola di specializzazione scelta, sacrificando la fondamentale preparazione generale e investendo il loro tempo in tirocini specifici, dedicandosi, soprattutto, agli esami che influiscono sul punteggio di accesso alla specializzazione, cercando di collaborare all'attività scientifica nell'area di riferimento, per poter avere qualche pubblicazione che dia punteggio;
    lo scollamento che si crea tra preparazione generale e preparazione specifica fin dai primi anni non contribuisce a dare loro una preparazione armonica e completa; sembrano spesso dei minispecialisti fin dai primi anni; in tal senso non sono aiutati dalle attuali modalità di accesso alle scuole di specializzazione, che esigono a priori obiettivi che dovrebbero rappresentare il core curriculum proprio della scuola di specializzazione. L'eccessiva specificità dei titoli di accesso alla scuola di specializzazione obbliga gli studenti a sacrificare la preparazione generale in una rincorsa prematura verso obiettivi che comunque raggiungeranno una volta entrati nella scuola scelta;
    inoltre, accade che gli studenti una volta laureati incontrino una situazione penalizzante nell'accesso alle scuole di specializzazione, sia quelli che si laureano a luglio (i primi, spesso i più motivati e brillanti, devono attendere almeno 9 mesi), sia quelli che si laureano nell'ultima sessione in corso (devono attendere almeno 12 mesi prima di poter sostenere l'esame di accesso alla scuola di specializzazione);
    in relazione a tali problematiche sono stati presentati atti di sindacato ispettivo rimasti in parte senza risposta, come, ad esempio, l'interrogazione n. 3-01876;
    il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha evidenziato come è solo in parte possibile armonizzare le tre sessioni di laurea di ciascun anno accademico con le due sessioni annuali dell'esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio della professione medica e con il concorso per l'ammissione alle scuole di specializzazione mediche che si tiene una volta l'anno;
    si rende necessario progettare un cambiamento di passo in coloro che attualmente si occupano della formazione dei medici. Cogliere le nuove sfide formative è la responsabilità a cui non ci si può sottrarre se si vuole continuare a garantire un'assistenza di qualità ai malati, tenendo conto delle nuove competenze indispensabili per un corretto esercizio della professione medica, in ospedale come sul territorio, nell'area della prevenzione, come in quella della cura e della riabilitazione, con una nuova responsabilità sul piano economico-organizzativo;
    sarebbe opportuno, inoltre, assumere iniziative per ridurre il tempo che intercorre tra la tesi di laurea e l'esame di abilitazione, riportando il tirocinio valutativo di tre mesi nell'arco dei sei anni previsti dal piano di studi della facoltà di medicina e anticipando la prova finale, con domande a scelta multipla, sull'intero curriculum prima della difesa della tesi. In tal modo gli studenti potrebbero laurearsi e abilitarsi all'esercizio della professione nella stessa sessione di esami. Diventerebbe così più agevole l'iscrizione ai concorsi per l'ammissione alle scuole di specializzazione in medicina, che potrebbe essere collocata nell'ottobre dell'anno di laurea, evitando dispersioni di tempo e consentendo ai medici di completare il loro iter formativo, già lungo in undici anni, sei anni per laurearsi più cinque anni per specializzarsi. In tal modo l'ingresso effettivo nella professione potrebbe avvenire per i più diligenti intorno ai 30 anni,

impegna il Governo:

   ad aumentare il numero di posti disponibili per accedere alla facoltà di medicina e chirurgia, visto il numero crescente di immatricolazioni e di richiesta di iscrizioni;
   a ripensare i criteri di selezione degli aspiranti medici, in modo da non delegare l'onere della prova solo ai quiz con domande a scelta multipla;
   a valutare la possibilità di inserire una graduatoria regionale (che potrebbe ridurre i costi di tipo logistico a carico delle famiglie) tra coloro che affrontano gli esami di ammissione per evitare che vengano esclusi in una sede quanti a parità di punteggio sono ammessi in altra sede;
   a favorire l'accesso alle scuole di specializzazione attraverso un effettivo ampliamento dei posti disponibili e una comunicazione più chiara e tempestiva dei posti rimasti vacanti, permettendo ai giovani medici di inserirsi nelle graduatorie che restano incomplete, così come più volte richiesto in atti di sindacato ispettivo;
   ad attuare un'urgente revisione delle procedure che istruiscono la programmazione dei posti di specializzazione da mettere a bando, definita dal Ministero della salute, sentita la Conferenza Stato-regioni, che dovrebbe essere quanto più aderente alle reali esigenze di professionalità nel territorio nazionale, al fine di non incorrere in un futuro prossimo nella spiacevole situazione in cui versano alcuni Paesi dell'Unione europea, Gran Bretagna in testa, che necessitano di reperire professionalità mediche in altri Paesi;
   ad assumere le iniziative di competenza per ridurre il tempo che intercorre tra la tesi di laurea e l'esame di abilitazione, riportando il tirocinio valutativo di tre mesi nell'arco dei sei anni previsti dal piano di studi della facoltà di medicina e anticipando la prova finale, con domande a scelta multipla, sull'intero curriculum prima della difesa della tesi.
(1-00927)
«Binetti, Calgaro, Nunzio Francesco Testa, De Poli, Anna Teresa Formisano, Mondello, D'Ippolito Vitale, Delfino, Compagnon, Ciccanti, Volontè, Tassone».
(13 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    il numero complessivo di medici che operano a vario titolo in sanità (pubblica e privata) è in Italia di circa 300.000, per una popolazione di 59 milioni di abitanti (dati Istat): un medico ogni 196 abitanti. Nella seconda metà degli anni ’70 e negli anni ’80, il numero sempre crescente di laureati in medicina ha prodotto in molti casi una sottooccupazione medica ed ha contribuito in alcuni casi a trovare aree occupazionali che hanno tolto spazio alle altre professioni sanitarie, fenomeno specificamente italiano, mentre negli altri Paesi europei il ruolo medico è caratterizzato da una maggiore appropriatezza di compiti;
    dopo l'introduzione del numero programmato, presente in Italia da almeno 15 anni, si è giunti ad un progressivo riequilibrio ed ora in molti settori i neolaureati in medicina trovano lavoro subito dopo il completamento del percorso di laurea o di specializzazione;
    vi sono ora previsioni che nei prossimi anni, a seguito dei pensionamenti previsti, il servizio sanitario nazionale si troverà in crisi per carenza di medici;
    la stima è che entro il 2015 diciassettemila medici lasceranno ospedali e strutture territoriali per aver raggiunto l'età della pensione. La forbice tra chi esce e chi entra tenderà ad allargarsi anche per penuria di nuovi professionisti usciti dalle scuole di specializzazione. Squilibrio ancora più evidente nelle regioni in deficit, che devono gestire rigidi piani di rientro;
    dal 2012 al 2014 è prevista una carenza di 18 mila medici, che diventeranno 22 mila dal 2014 al 2018. Legato a questo il problema degli specializzandi in medicina veterinaria, odontoiatria, farmacia, biologia, chimica, fisica e psicologia, che oggi non ricevono borse di studio. Per la loro formazione viene indicata una copertura per 800-1.000 contratti;
    lo squilibrio tra necessità e programmazione nelle scuole di specializzazione è un fenomeno già presente che si sta aggravando, anche perché il numero di posti nelle scuole non viene adattato alle esigenze di mercato. Alcune specialità sono in uno stato di sofferenza cronica. Anestesia, radiologia, pediatria, nefrologia, geriatria, con la popolazione che invecchia, e tutta la chirurgia;
    le capacità formative dell'università sono pari a circa 5 mila specialisti per anno, di cui solo 3.500 sceglieranno di lavorare come dipendenti del servizio sanitario nazionale. Nei prossimi 10 anni, quindi, si prospetta una carenza di circa 30 mila specialisti, che svolgono funzioni non delegabili ad altre professioni sanitarie;
    di fronte all'uscita dal mondo della sanità pubblica di un grande numero di specialisti e di fronte all'evidente carenza quantitativa e qualitativa del sistema formativo universitario, urge aumentare il numero di specialisti;
    il decreto ministeriale del 23 novembre 2011, che ha aumentato i posti nei corsi di laurea in medicina e chirurgia, rappresenta un palliativo certamente insufficiente,

impegna il Governo:

   ad aumentare, coerentemente con i fabbisogni reali della sanità italiana e per garantire sempre un miglior servizio, i posti disponibili per l'accesso alla facoltà di medicina e chirurgia;
   a rivedere, con urgenza, il meccanismo regolamentare per l'accesso alle scuole di specializzazione, al fine di rendere più veloce l'accesso alle stesse, e, nello stesso tempo, a redigere una nuova programmazione, al fine di rendere le medesime più aderenti ai reali fabbisogni del Paese.
(1-00958)
«Iannaccone, Belcastro, Porfidia, Brugger».
(23 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo le stime che vengono fatte, quando sarà esaurita la «bolla» di super-iscrizioni degli anni ’70-’80, l'Italia allineerà il rapporto dei medici per abitanti a quello più basso dei Paesi Ocse e si passerà così dalla pletora del passato alla carenza di medici del futuro;
    le previsioni parlano di un'inversione di tendenza a partire dal 2015, che porterà nel giro di dieci anni il numero di medici da 350 mila a circa 250 mila, anche se già oggi si avverte una carenza strutturale di circa 5.000 medici tra radiologi, anestesisti e personale dell'area emergenza;
    nello stesso piano sanitario nazionale 2011-2013 si afferma che «si attende una carenza dal 2012 al 2018 di 18.000 unità di personale medico nel servizio sanitario nazionale e di circa 22.000 medici dal 2014 al 2018 in totale (si passerà da 3,7 medici “attivi” per 1000 abitanti a 3,5 medici “attivi” per 1000 abitanti, contro una media europea di 3,1 medici attivi per 1000 abitanti);
    oltre ad assumere meno personale medico per carenza di fondi e vincoli di bilancio (un gran numero di regioni sono sottoposte a piani di rientro dove vige il blocco del turnover), si continua a formare il personale senza tenere conto dell'andamento della curva demografica del nostro Paese, che invecchia, e, quindi, dei reali bisogni assistenziali del territorio;
    attualmente l'articolo 35, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 368 del 1999 prevede una cadenza triennale del rilevamento del fabbisogno di medici specialistici del servizio sanitario nazionale sulla base di un'approfondita analisi della situazione occupazionale, dopodiché il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca scientifica, acquisito il parere del Ministro della salute, determina il numero dei posti da assegnare a ciascuna scuola di specializzazione, tenuto conto della capacità ricettiva e del volume assistenziale delle strutture sanitarie inserite nella rete formativa della scuola stessa;
    per formare un medico oggi in Italia si richiede un tempo relativamente lungo: 6 anni di laurea in medicina, cui occorre aggiungere in media un anno per l'abilitazione, cioè per l'esame di Stato, più 5 anni di specializzazione, oppure 3 anni per le scuole regionali di medicina generale. Insomma 10-12 anni, visto che la legge n. 502 del 1992 non consente ai medici di entrare nel servizio sanitario nazionale senza avere una specializzazione. I «giovani» medici, dunque, entrano a pieno titolo nel mondo del lavoro solo dopo i trent'anni, almeno ufficialmente, anche se, nella realtà, già oggi, molti laureati senza specializzazione sono inseriti con contratti atipici nelle strutture, territoriali e ospedaliere, di molte regioni;
    il decreto ministeriale 6 marzo 2006, n. 172, recante il «Regolamento concernente modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina», che disciplina le modalità di accesso dei medici alle scuole di specializzazione in medicina e chirurgia di cui al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, prevede, all'articolo 2, che l'ammissione a dette scuole possa avvenire con «concorso annuale per titoli ed esami, indetto con decreto del rettore dell'università, per il numero di posti determinati con decreto del Ministro, di cui all'articolo 35, comma 2, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368. Al concorso possono partecipare i laureati in medicina e chirurgia in data anteriore al termine di scadenza fissato dal bando per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, con obbligo di superare l'esame di Stato entro il termine fissato per l'inizio delle attività didattiche delle scuole. Nel bando sono, altresì, indicate la sede e la data della prova di esame, i posti disponibili presso ciascuna scuola e le necessarie disposizioni organizzative»;
    per poter, quindi, accedere alle scuole di specializzazione, così come previsto dall'articolo 2 del decreto, non solo bisogna essere laureati in medicina, ma bisogna già aver superato l'esame di Stato o comunque superarlo entro l'inizio di ogni anno; quindi, i neolaureati in medicina per poter continuare il proprio percorso formativo devono sperare che tutte le scadenze siano sincronizzate, altrimenti si vedono costretti a perdere un anno per concludere la loro formazione;
    a partire dal 1995 è stato introdotto il titolo di formazione specifico necessario per poter esercitare la professione di medico di famiglia, guardia medica o medico del 118 in convenzione con il servizio sanitario nazionale e tale titolo viene rilasciato dalle regioni dopo un corso di tre anni;
    i medici di medicina generale «titolati» non sono attualmente sufficienti per coprire il fabbisogno del territorio, a causa dell'alto costo richiesto alla regione per la formazione, per la bassa disponibilità di tutoring presso le strutture sanitarie, nonché per il fatto che molti abbandonano il corso in favore dell'ingresso nelle scuole di specializzazione, che garantisce loro un periodo più lungo di occupazione (4 anni invece che 3) e uno stipendio più alto (2000 euro a fronte di 800), tant’è che le aziende sanitarie locali (ma anche i medici di base, privatamente) da anni si «servono» in maniera continuativa e strutturata di medici privi del titolo di formazione specifica, addirittura «specializzandi» o neolaureati,

impegna il Governo:

   a promuovere, al fine di attenuare la carenza strutturale di personale medico, un sistema di rilevamento (criteri ed analisi) del fabbisogno formativo della facoltà di medicina e chirurgia, nonché dei corsi di laurea in area sanitaria, che tenga conto a livello territoriale della reale necessità di personale medico, predisponendo un numero programmato di ingressi alla facoltà di medicina e chirurgia;
   al fine di limitare il più possibile l'abbandono durante il corso di studi intrapreso, ad intervenire sulle modalità di ingresso, predisponendo un test nazionale attinente esclusivamente al corso di studi prescelto, nonché modalità di valutazione uniforme per tutte le scuole di specializzazione, al fine di evitare percorsi «facilitati» in talune realtà territoriali, con conseguenti inique sperequazioni;
   ad individuare tutte le misure normative necessarie affinché i posti nelle scuole di specializzazione medica a livello nazionale siano distribuiti tra le regioni tenendo conto del reale fabbisogno di specialisti di ciascuna regione, al fine di assicurare la qualità del servizio sanitario;
   ad intervenire affinché si possa pervenire ad un'armonizzazione cronologica delle date relative al conseguimento della laurea, dell'abilitazione e dell'ingresso nelle scuole di specializzazione, onde evitare perdite di tempo nel già complesso e lungo iter di formazione di un medico;
   ad assumere, con il coinvolgimento delle regioni, tutte le iniziative normative ed economiche necessarie affinché i medici di medicina generale in possesso della formazione specifica possano essere formati in un numero sufficiente al fabbisogno del territorio.
(1-00959)
«Miotto, Lenzi, Argentin, Bossa, Bucchino, Burtone, D'Incecco, Grassi, Murer, Pedoto, Sarubbi, Sbrollini, Livia Turco».
(23 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo il piano sanitario nazionale 2011-2013, entro il 2018 in Italia è prevista una carenza di 22.000 medici, non solo per un rilevante numero di pensionamenti, ma anche per un'errata programmazione del numero chiuso alle facoltà di medicina e chirurgia e, soprattutto, dei posti disponibili nelle scuole di specializzazione;
    il corso di studi di uno specialista, costituito dalla laurea in medicina e dalla successiva specializzazione, risulta essere nel mondo tra i più lunghi, senza garantire, al tempo stesso, una formazione specialistica adeguata, come avviene nella maggior parte dei Paesi occidentali;
    attualmente, nel nostro Paese si iscrivono a medicina circa 9.500 giovani l'anno, mentre i posti alle scuole di specializzazione sono significativamente più bassi. Annualmente, infatti, conseguono il diploma di specializzazione circa 5 mila professionisti medici, a fronte di un fabbisogno stimato dalle regioni di 8.850 nuovi specializzati l'anno;
    una ricerca del luglio 2011, effettuata dal sindacato ospedaliero «Anaao Assomed», ha confermato che nei prossimi dieci anni in Italia andranno in pensione più medici di quanti ne saranno specializzati nelle università. E per alcune discipline ci sarà un concreto rischio di crisi;
    come segnala la suddetta ricerca, l'Italia sta per entrare nella «gobba pensionistica», perché circa la metà dei medici ospedalieri italiani, nati dal 1950 al 1959, andranno in pensione tra il 2012 e il 2021 e lasceranno un «buco» di 63 mila posti, che dovrebbe essere colmato da 50 mila specializzandi. Di questi circa il 70 per cento, ossia 35 mila, entreranno nella sanità pubblica. La crisi peggiore interesserà i pediatri, per i quali si prevede un'uscita di 5.700 unità, a fronte di 2.300 in entrata, con un saldo negativo di 2.400 specialisti. Anche gli internisti subiranno una cospicua riduzione numerica, con un saldo negativo di 1.950 medici. In diminuzione anche i chirurghi generali, i ginecologi e gli anestesisti. In controtendenza sarebbero, invece, i radiologi;
    la procedura per l'avvio dei concorsi annuali di ammissione alle scuole di specializzazione è contenuta all'articolo 35 del decreto legislativo n. 368 del 1999, come successivamente modificato, il quale prevede che «con cadenza triennale ed entro il 30 aprile del terzo anno, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, tenuto conto delle relative esigenze sanitarie e sulla base di un'approfondita analisi della situazione occupazionale, individuano il fabbisogno dei medici specialisti da formare comunicandolo al Ministero della sanità ed a quello dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica. Entro il 30 giugno del terzo anno il Ministro della sanità, di concerto con il Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica e con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, determina il numero globale degli specialisti da formare annualmente, per ciascuna tipologia di specializzazione, tenuto conto delle esigenze di programmazione delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano con riferimento alle attività del servizio sanitario nazionale»;
    in particolare, il comma 2 del suddetto articolo 35 prevede che il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, acquisito il parere del Ministero della salute, determina il numero dei posti da assegnare a ciascuna scuola di specializzazione in medicina e chirurgia;
    il decreto ministeriale 6 marzo 2006, n. 172, ha definito le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina. All'articolo 2 si prevede che: «Alle scuole si accede con concorso annuale per titoli ed esami, indetto con decreto del rettore dell'università, per il numero di posti determinati con decreto del Ministro, di cui all'articolo 35, comma 2, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368. Al concorso possono partecipare i laureati in medicina e chirurgia in data anteriore al termine di scadenza fissato dal bando per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, con obbligo di superare l'esame di Stato prima dell'iscrizione alla scuola»;
    questa procedura determina un ritardo notevole per tutti gli studenti che, laureatisi entro la sessione autunnale del sesto anno di corso, dovranno aspettare l'anno solare successivo per svolgere il tirocinio propedeutico all'esame di Stato, superarne la prova e poter accedere al concorso per la scuola di specializzazione;
    a detta dello stesso Ministero, non è materialmente possibile armonizzare le sessioni di laurea, che normalmente sono tre in ogni anno accademico, con le sessioni degli esami di Stato, che si svolgono due volte l'anno, e con il concorso di ammissione alla scuola di specializzazione, che viene bandito una sola volta per ciascun anno accademico,

impegna il Governo:

   ad individuare idonee modalità volte a rendere coerenti le date per il concorso alla scuola di specializzazione medica con la calendarizzazione delle sessioni di laurea e delle sessioni per l'esame di Stato, al fine di non penalizzare i neolaureati spesso obbligati a lunghi tempi di attesa prima di poter esercitare la professione medica a conclusione del loro iter formativo;
   a valutare l'opportunità - nel rispetto dell'autonomia universitaria - di considerare il mese di marzo quale data di scadenza prevista dal bando per la domanda di ammissione al concorso per l'ingresso alle scuole di specializzazione;
   a valutare l'opportunità di considerare tirocinio abilitante quello svolto durante il corso di laurea, dal momento che esso prevede anche l'attività di pronto soccorso;
   a valutare la possibilità che l'esame di abilitazione possa essere effettuato dopo ogni seduta di laurea;
   a riconsiderare la reale necessità di un corso di studi che, tra laurea e specializzazione, abbia una durata così lunga, valutando l'opportunità di adeguarla, invece, agli standard internazionali, garantendo al tempo stesso un controllo più stringente sulla partecipazione degli specializzandi alla pratica clinica necessaria per acquisire il titolo;
   a rendere coerente il numero chiuso ai fini dell'accesso ai corsi di laurea in medicina e chirurgia con le reali necessità del Paese, secondo le previsioni relative alla disponibilità futura di personale medico;
   ad aumentare il numero di posti delle scuole di specializzazione, ridefinendoli in relazione al fabbisogno reale del sistema sanitario e alle necessità demografiche ed epidemiologiche della popolazione, coinvolgendo a tal fine le amministrazioni locali e le università.
(1-00962)
«Palagiano, Zazzera, Donadi, Borghesi, Evangelisti».
(23 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    il piano sanitario nazionale 2011-2013 affronta la questione riguardante l'imminente calo del numero dei medici del servizio sanitario nazionale;
    dall'attuale distribuzione per età dei medici impiegati nel servizio sanitario nazionale (fonte Inpdap, dati sugli iscritti alla cassa pensione sanitari, anno 2006), si evince una forte concentrazione di personale nella fascia di età superiore o uguale a 60 anni. Presumibilmente è possibile stimare che circa 17.000 medici lasceranno il servizio sanitario nazionale entro il 2015;
    considerando il numero medio di laureati in medicina e chirurgia per anno accademico e la quota di questi che viene immessa annualmente nel servizio sanitario nazionale, ci si aspetta, a partire dal 2012, un saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni. Si stima che la forbice tra uscite ed entrate nel servizio sanitario nazionale tenderà ad allargarsi negli anni a seguire, data la struttura per età e tenuto conto del numero di immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia. Verosimilmente, tale scenario risulterà ancora più marcato nelle regioni impegnate con i piani di rientro a causa del blocco delle assunzioni;
    le previsioni contenute nel piano sanitario nazionale hanno fatto sì che il Ministero della salute abbia richiesto un ampliamento dell'offerta formativa, ossia del numero delle immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia, a 10.566 unità già a partire dall'anno accademico 2011/2012. Con questa richiesta il Ministero della salute ha tenuto conto del fatto che il percorso formativo di un medico si completa in circa 10 anni; quindi bisognerà attendere il 2019, affinché il maggior numero di laureati/specializzati sia disponibile sul mercato del lavoro;
    il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha, invece, determinato per il 2011/2012 un aumento pari a 9.501 posti: praticamente mille in meno rispetto al fabbisogno dei prossimi anni previsto dal Ministero della salute;
    è prevedibile una carenza dal 2012 al 2018 di 18.000 unità di personale medico nel servizio sanitario nazionale e di circa 22.000 medici dal 2014 al 2018 in totale;
    nonostante i dati sopra riportati, il 27 settembre 2011 il Ministro della salute pro tempore Ferruccio Fazio, nel rispondere ad un'interrogazione a risposta immediata (n. 3-01849) presentata dal gruppo Misto-Movimento per la Autonomie-Alleati per il Sud, ha sostenuto che, nonostante il numero di medici che andrà in pensione, il fenomeno possa essere in equilibrio con un numero di immatricolati compreso tra le 9.000 e le 10.000 unità;
    a breve si dovrà necessariamente, comunque, aumentare l'offerta formativa per compensare nel medio periodo i pensionamenti ed impedire una forte carenza di personale medico;
    risulta, peraltro, non ragionevole affidare gli accessi alle immatricolazioni esclusivamente a quiz con domande a risposta multipla, determinando differenziazioni a parità di punteggio tra diverse università;
    oltre ad un aumento dell'offerta formativa, sarà necessario sempre di più garantire ai neolaureati la possibilità di frequentare una scuola di specializzazione, aumentando i posti disponibili;
    un neolaureato in medicina e chirurgia rischia, peraltro, a causa della normativa attuale, di ritardare dopo la laurea il proprio accesso alla professione di un altro anno per accedere alla scuola di specializzazione;
    il regolamento per il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione prevede, infatti, quale requisito necessario per l'ammissione alla prova, il conseguimento dell'abilitazione alla professione prima del termine per la presentazione delle domande di partecipazione allo stesso concorso,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a un concreto incremento dell'offerta formativa dei corsi di laurea in medicina e chirurgia;
   a rivedere i criteri di selezione, evitando di affidarli esclusivamente a quiz con domande a risposta multipla;
   a far sì che vengano aumentati significativamente i posti disponibili nelle scuole di specializzazione;
   ad assumere ogni iniziativa per ridurre i tempi di attesa tra la laurea e gli esami di abilitazione e tra questi e l'accesso alle scuole di specializzazione.
(1-00964)
«Lo Monte, Commercio, Lombardo, Oliveri, Brugger».
(26 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    per l'anno accademico 2011/2012 la programmazione dei corsi di laurea della facoltà di medicina e chirurgia risulta inferiore all'effettivo fabbisogno formativo;
    ai sensi dell'articolo 3, comma l, lettera a) della legge n. 264 del 1999, il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca stabilisce il numero dei posti «sulla base della valutazione dell'offerta potenziale del sistema universitario, tenendo anche conto del fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo»;
    dalle tabelle predisposte dal Ministero della salute il 27 aprile 2011, il fabbisogno formativo di medici chirurghi, suddiviso per regioni e province autonome, risultava di 10.566 unità, superiore alle previsioni del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca che avrebbe autorizzato la disponibilità di 9.501 posti per l'accesso al corso di laurea magistrale in medicina e chirurgia;
    il piano sanitario nazionale ha evidenziato, tra le criticità del sistema attuale, la distribuzione per età dei medici impiegati nel servizio sanitario nazionale, da cui si evince una forte concentrazione di personale nella fascia di età superiore o uguale a 60 anni;
    a decorrere dal 2012, si registrerà un saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni;
    tale divario risulta ancora più marcato nelle regioni impegnate con il piano di rientro, a causa del blocco delle assunzioni;
    il 16 marzo 2012, in sede di conferenza Stato-regioni, sarebbe stato sancito l'accordo tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, concernente la determinazione del «fabbisogno di medici specialisti» da formare nelle scuole di specializzazione di area sanitaria per il triennio accademico 2011/2012, 2012/2013 e 2013/2014 e la ripartizione dei contratti di formazione specialistica a carico dello Stato per l'anno accademico 2011/2012;
    stante l'evidente insufficienza del numero dei posti assegnati dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca rispetto al reale fabbisogno formativo, è opportuno prevedere un ampliamento dell'attuale ripartizione, obiettivamente insufficiente, anche in considerazione della necessità di far coincidere il numero dei laureati con il numero dei potenziali specialisti;
    con apposito decreto, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha previsto l'istituzione di una commissione di esperti che, oltre ad aggiornare e monitorare le aggregazioni delle scuole di specializzazione di area sanitaria, ai fini di una corretta razionalizzazione, dovrà esprimere un parere sull'attribuzione su base nazionale della dotazione di contratti ministeriali alle scuole di specializzazione di area sanitaria da mettere a concorso per il corrente anno accademico 2011/2012;
    il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione è disciplinato dal nuovo «Regolamento concernente le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina», del Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca del 6 marzo 2006, n. 172;
    dette modalità, penalizzano sia coloro che si laureano a luglio 2012 (che attendono almeno 9 mesi) sia quelli che si laureano nell'ultima sessione in corso (costretti ad attendere almeno 12 mesi prima di poter sostenere l'esame di accesso alla scuola di specializzazione);
    il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha evidenziato l'impossibilità di armonizzare in maniera omogenea le tre sessioni di laurea di ciascun anno accademico con le due sessioni annuali dell'esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio della professione medica e con il concorso per l'ammissione alle scuole di specializzazione mediche (che si tiene appunto una volta l'anno),

impegna il Governo:

   ad adottare iniziative che attenuino la carenza strutturale di personale medico, anche al fine di evitare il ricorso a personale proveniente da altri Stati per coprire i posti in organico vacanti nelle aziende sanitarie ed ospedaliere presenti sul territorio nazionale, sia pubbliche che private, prevedendo a tale fine un aumento almeno del 15 per cento, per l'anno accademico 2012/2013, delle immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia;
   anche sulla base delle numerosissime proposte di legge d'iniziativa parlamentare, a valutare l'opportunità di rivedere il sistema dell'accesso programmato alla facoltà di medicina e chirurgia, rivedendo i criteri di selezione, alla luce del convincimento che l'appartenenza all'Unione europea non impone l'adozione di sistemi di contingentamento quanto, piuttosto, una qualità della formazione di tali medici da raggiungersi anche attraverso una riorganizzazione dei percorsi di specializzazione, tenendo anzitutto conto che vi sono ambiti in cui si registra un eccesso di percorsi formativi ed aree fondamentali caratterizzate da croniche carenze (ad esempio, anestesia e rianimazione);
   a valutare la possibilità di inserire una graduatoria regionale tra coloro che affrontano gli esami di ammissione per evitare che vengano esclusi in una sede e quanti, a parità di punteggio, sono ammessi in altra sede, anche al fine di ridurre i costi di tipo logistico a carico delle famiglie;
   a riprendere l’iter di riforma del percorso formativo pre e post laurea in medicina, iniziato dal precedente Governo, valutando la necessità di attuare in tempi rapidi la riforma del percorso di studi riguardante: la formazione degli specializzandi; il dottorato di ricerca; la laurea magistrale, attraverso:
    a) la riduzione dell'eccessiva durata del percorso che porta uno studente a diventare medico professionista (attualmente 12 o 13 anni: 6 di università, uno di attesa per l'esame di Stato per entrare nella scuola di specializzazione, 5 o 6 di scuola di specializzazione);
    b) l'assunzione di iniziative volte a valorizzare il ruolo dei giovani medici in formazione all'interno del sistema sanitario nazionale, al fine di allineare i tempi di accesso alla professione e di acquisizione della piena maturità professionale a quelli degli altri Paesi dell'Unione europea, equiparando la durata della specializzazione a quella prevista dal modello europeo con la direttiva 2005/36/CE, consentendo allo specializzando all'ultimo anno di poter svolgere contemporaneamente anche il dottorato di ricerca, accorciando così di un ulteriore anno l'ingresso dello studente nel mondo del lavoro;
    c) la previsione del ruolo abilitante della laurea, conglobando all'interno del percorso di studi il tirocinio di tre mesi (indispensabile per poter partecipare all'esame di Stato), ma che attualmente viene svolto dopo il conseguimento del titolo;
   a valutare, altresì, l'opportunità di effettuare una reale implementazione delle reti formative delle facoltà di medicina e delle scuole di specializzazione di area sanitaria, allargandole al sistema ospedale-territorio ed alle eccellenze del servizio sanitario pubblico, anche al fine di superare le difficoltà organizzative e di budget, ma anche per qualificare al meglio le attività delle scuole di specializzazione, nel rispetto della centralità dell'università, che detiene il primato della metodologia della ricerca e della didattica.
(1-00967)
«Laura Molteni, Rondini, Martini, Fabi, Goisis, Rivolta, Cavallotto, Grimoldi, Fugatti, Fedriga, Fogliato, Lussana, Montagnoli, Bitonci».
(26 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    come si evince dal piano sanitario nazionale 2011-2013, la forbice tra uscite ed entrate nel servizio sanitario nazionale tenderà ad allargarsi negli anni a seguire, data la struttura per età e tenuto conto del numero di immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia;
    sulla base di tali previsioni, il Ministero della salute ha richiesto un ampliamento dell'offerta formativa, portando il numero delle immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia a 10.566 unità già a partire dall'anno accademico 2011/2012;
    il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha, invece, stabilito per lo stesso anno accademico un numero di posti pari a 9.501 per le facoltà medicina e chirurgia; tale decisione comporterà una carenza dal 2012 al 2018 di 18.000 unità di personale medico nel servizio sanitario nazionale e di circa 22.000 medici dal 2014 al 2018 in totale;
    la forbice tra chi esce e chi entra tenderà ad allargarsi anche per penuria di nuovi professionisti usciti dalle scuole di specializzazione;
    un neolaureato in medicina e chirurgia rischia di ritardare dopo la laurea il proprio accesso alla professione di un altro anno; infatti, il regolamento per il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione prevede, quale requisito necessario per l'ammissione alla prova, il conseguimento dell'abilitazione alla professione prima del termine per la presentazione delle domande di partecipazione allo stesso concorso;
    il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione è disciplinato dal «regolamento concernente le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina», del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca del 6 marzo 2006, n. 172, che penalizza sia coloro che si laureano a luglio 2012 (che attendono almeno 9 mesi) sia quelli che si laureano nell'ultima sessione in corso (costretti ad attendere almeno 12 mesi prima di poter sostenere l'esame di accesso alla scuola di specializzazione),

impegna il Governo:

   a valutare, nel rispetto dell'autonomia degli atenei, la possibilità di aumentare il numero di posti disponibili per accedere alla facoltà di medicina e chirurgia, considerando il numero crescente di immatricolazioni e di richiesta di iscrizioni;
   a valutare la possibilità di assumere iniziative volte a rivedere il calendario dei concorsi per l'accesso alle scuole di specializzazione, al fine di ovviare alle disfunzioni richiamate in premessa.
(1-00981)
«Stagno d'Alcontres, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Misiti, Pittelli, Pugliese, Soglia, Terranova».
(29 marzo 2012)

MOZIONI CONCERNENTI MISURE A FAVORE DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE IN MATERIA DI ACCESSO AL CREDITO E PER LA TEMPESTIVITÀ DEI PAGAMENTI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema delle piccole e medie imprese costituisce il motore dell'intera economia italiana, costituendo il 99 per cento del sistema imprenditoriale, impiegando circa l'80 per cento degli addetti totali e generando quasi il 72 per cento del valore aggiunto complessivo;
    è in corso un drammatico fenomeno di restrizione del credito per tutte le imprese, aggravato dal fatto che quel poco credito erogato ha raggiunto costi altissimi, soprattutto per le piccole e medie imprese; secondo recenti dati forniti di Banca d'Italia, il tasso di crescita su base annua del credito al sistema industriale è in forte rallentamento: a maggio 2011 era del 6,1 per cento, a ottobre 2011 del 5,8 per cento, a novembre 2011 del 4,9 per cento, mentre a dicembre 2011 del 3,1 per cento; ma il dato più preoccupante è che, mentre fino a novembre 2011 lo stock di credito erogato alle imprese non finanziarie era comunque aumentato, se pur ad un tasso decrescente, a dicembre 2011, in termini assoluti, ha mostrato una contrazione di circa 20 miliardi di euro;
    purtroppo, il credit crunch ha radici ormai lontane: è dal 2008, infatti, data nella quale la crisi si è manifestata in tutta la sua drammaticità, che le imprese devono affrontare il tema della restrizione del credito, in una prima fase a causa «soltanto» della crisi del sistema finanziario e bancario, in un seconda fase a causa anche del rallentamento dell'economia reale;
    dall'autunno 2011 la crisi dei debiti sovrani ha ulteriormente penalizzato il sistema bancario, indebolendone la capacità di raccolta e la posizione finanziaria, e gli interventi delle autorità bancarie europee hanno definitivamente messo in ginocchio tutto il sistema, rendendo difficile ottenere prestiti dalle banche, ad un prezzo, oltretutto, altissimo: lo spread sull'euribor a tre mesi pagato dalle imprese nel 2007 era pari allo 0,6 per cento, mentre a fine 2011 ha raggiunto il 2,75 per cento; addirittura, le piccole e medie imprese pagano un differenziale pari a 3,6 punti; il costo complessivo delle nuove operazioni può, quindi, raggiungere il 3,8 per cento per le grandi e il 5 per cento per le piccole imprese;
    la restrizione del credito al sistema produttivo comporta, quindi, l'aumento dei margini di interesse, la richiesta di sempre maggiori garanzie reali da parte delle banche, l'accorciamento della durata dei finanziamenti;
    la genesi della pesante crisi economico-finanziaria aveva aperto la discussione sulla patrimonializzazione degli istituti di credito e sugli eccessivi livelli di rischio che questi ultimi assumono; il crac di Lehman brothers di quattro anni fa ha fatto drammaticamente emergere l'abuso della leva finanziaria da parte degli istituti di credito e il problema della qualità degli strumenti finanziari detenuti dalle banche stesse;
    il Comitato dei governatori delle banche centrali europee ha riscritto l'accordo cosiddetto Basilea 2 per arrivare al «Basilea 3», che mira a rafforzare il patrimonio delle banche, al fine di dare stabilità al sistema finanziario per scongiurare il pericolo di nuove catastrofi finanziarie; il prezzo da pagare, però, è un ulteriore rallentamento dell'economia: già il comitato di Basilea ed il Fondo monetario internazionale avevano stimato che ad ogni punto in più di capitale richiesto corrisponde una riduzione media del prodotto interno lordo pari allo 0,04 per cento;
    successivamente agli accordi di «Basilea 3», l'Eba-European banking authority, nell'autunno 2011, ha imposto requisiti patrimoniali più stringenti per le banche, accrescendone le difficoltà e accelerando il processo di riduzione del proprio indebitamento a seguito della necessità di una forte ricapitalizzazione; l'effetto è stato generalizzato in tutta l'Unione europea, ma in Italia lo è stato ancora di più a causa dell'introduzione dei nuovi criteri per il calcolo dei requisiti patrimoniali che prevedono la valutazione a prezzi di mercato dei titoli del debito pubblico, superando le disposizioni precedenti che prevedevano la contabilizzazione dei titoli iscritti nel portafoglio bancario al valore di acquisto; il risultato è una pesante crisi di fiducia verso le banche e una forte crisi di liquidità che sta penalizzando, in particolare, le piccole e medie imprese;
    per le piccole e medie imprese il credito bancario rappresenta la principale fonte di finanziamento e Prometeia stima che siano 25.000 le piccole e medie imprese a rischio chiusura proprio per le difficoltà a reperire finanziamenti bancari e per la congiuntura economica negativa;
    la revisione dei requisiti patrimoniali di «Basilea 3» ed Eba sta portando ad un aumento del capitale di vigilanza delle banche pari al 31,25 per cento, con una distribuzione su tutti le posizioni attive bancarie e, quindi, anche sui portafogli crediti erogati alle piccole e medie imprese; secondo Confindustria, però, i portafogli crediti delle piccole e medie imprese risultano sicuramente meno rischiosi rispetto a quelli delle grandi imprese, grazie alla minore correlazione, dimostrata da analisi empiriche, tra gli attivi delle piccole e medie imprese e l'andamento economico generale; sarebbe, perciò, opportuno introdurre meccanismi correttivi, tali da permettere un trattamento prudenziale da parte delle banche meno stringente per le piccole e medie imprese; tali correttivi consentirebbero alle banche di accantonare meno capitale a fronte dei crediti erogati alle piccole e medie imprese in modo da recuperare liquidità, limitando gli effetti restrittivi nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese stesse; la proposta di Confindustria, condivisa dalle altre organizzazioni imprenditoriali europee, ha portato la Commissione europea ed Eba a prendere in considerazione l'introduzione di alcuni meccanismi correttivi, impegnandosi a monitorare gli effetti dell'applicazione dell'accordo di «Basilea 3» sulle piccole e medie imprese;
    in questa fase economica, al fine di limitare la prociclicità di «Basilea 3», è necessario vigilare sul livello di credito erogato alle imprese, intervenendo a livello europeo per armonizzare i criteri ed i modelli di valutazione dei rischi, oggi molto diversi tra loro; tali differenze provocano distorsioni della concorrenza tra banche di diversi Paesi e rischiano di vanificare il raggiungimento dell'obiettivo della stabilità del sistema finanziario e, conseguentemente, del sistema industriale; tali criteri penalizzano decisamente gli istituti di credito italiani più concentrati sulle attività tradizionali, che, però, a livello europeo vengono considerate ad alto assorbimento di capitale;
    in Italia, poi, il tema della corretta valutazione del merito del credito verso le imprese ha assunto assoluta importanza; si assiste ad una valutazione sempre più rigida del rating aziendale a scapito della valutazione degli elementi più qualitativi che possono qualificare in positivo l'attività imprenditoriale: affidabilità del management, contratti, organizzazione aziendale sono alcuni degli elementi che le nostre banche potrebbero considerare nell'analisi complessiva dell'affidabilità aziendale;
    non secondario è il tema dei ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni: attanagliati dalle morse del patto di stabilità, i tempi dei pagamenti delle forniture degli enti locali, delle aziende sanitarie, delle aziende ospedaliere si sono allungati all'inverosimile, appesantendo la posizione finanziaria delle piccole e medie imprese; molte sono le imprese che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico e se fino a quindici anni fa lavorare per il pubblico era per un'azienda garanzia di affidabilità e solvibilità, oggi è sinonimo di difficoltà finanziaria e di alta esposizione bancaria; una delle proposte della Lega Nord è quella di favorire la compensazione tra debiti e crediti tra le piccole e medie imprese e pubblica amministrazione, includendo non solo quelli commerciali, ma anche e soprattutto quelli tributari; la crisi sta evidenziando molte situazioni nelle quali l'imprenditore non riesce a pagare le imposte, pur avendo presentato nei tempi e nei modi previsti le dichiarazioni fiscali; la compensazione di questi debiti costituirebbe sicuramente una boccata di ossigeno per tutte le piccole e medie imprese; l'alternativa sarebbe quella di garantire una rateazione del debito tributario più lunga e flessibile ad un costo ragionevole per il debitore, in modo da contemperare le esigenze dell'erario con quelle dell'imprenditore;
    è ormai indispensabile un decisivo intervento dello Stato nei confronti del sistema bancario italiano che sappia limitare il fenomeno del credit crunch, introducendo innovativi sistemi di garanzia degli affidamenti o, addirittura, incentivi fiscali per le banche che sappiano mettere a disposizione delle piccole e medie imprese in tempi certi e rapidi linee di credito agevolato,

impegna il Governo:

   ad intervenire a livello europeo chiedendo l'attuazione rapida dei correttivi chiesti dalle organizzazioni imprenditoriali alla regolamentazione relativa ai requisiti prudenziali per le banche, al fine di riservare un trattamento meno stringente per le piccole e medie imprese, che possa consentire alle banche di recuperare liquidità da utilizzare per erogare crediti alle piccole e medie imprese stesse;
   ad intervenire a livello europeo per rendere omogenei i criteri e le metodologie per ponderare i rischi degli attivi bancari, in modo da garantire effettiva concorrenza tra le banche dei differenti Paesi e da non penalizzare l'attività delle banche italiane, sicuramente meno rischiosa, ma considerata ad alto assorbimento di capitale;
   ad intervenire rapidamente, nell'ambito delle proprie competenze, per ridurre significativamente i tempi dei pagamenti dello Stato, degli enti locali e delle aziende pubbliche, posto che gli attuali tempi, dettati dai vincoli di bilancio europei, non sono più sostenibili per le piccole e medie imprese e, soprattutto, per le piccole e medie imprese che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico, favorendo linee di credito a basso costo per quelle imprese che vantano crediti verso la pubblica amministrazione garantiti direttamente dallo Stato con l'emissione di titoli di Stato o con le proprie riserve auree ciò sino all'effettivo incasso delle somme stesse, permettendo così ai piccoli e medi imprenditori di poter continuare a sviluppare la propria attività e a pagare lo stipendio dei propri dipendenti, favorendo così un circolo virtuoso nell'economia;
   ad assumere iniziative normative per prevedere degli sgravi fiscali per quegli istituti di credito che si impegnino a garantire linee di credito agevolato alle imprese di piccole dimensioni in tempi rapidi;
   ad aiutare le piccole e medie imprese nell'assolvimento dei propri debiti tributari e contributivi, introducendo rateazioni più lunghe e più flessibili;
   ad aiutare il sistema creditizio, tramite il rafforzamento dei sistemi di garanzia, e a cambiare l'approccio troppo prudente verso le piccole e medie imprese, considerato che l'eccessiva prudenza nell'erogazione del credito rischia di impedire alle imprese di continuare ad operare, con conseguenze drammatiche per l'intero sistema economico.
(1-00896)
«Montagnoli, Dozzo, Fugatti, Forcolin, Comaroli, Fogliato, Lussana, Fedriga, Alessandri, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Callegari, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fabi, Fava, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lanzarin, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pastore, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Vanalli, Volpi».
(28 febbraio 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    le piccole e medie imprese, pur costituendo la spina dorsale dell'economia italiana, rappresentando il 98 per cento del totale delle aziende italiane e dando lavoro al 74,8 per cento del totale degli addetti, stanno vivendo un momento estremamente difficile, strette da una parte dal cosiddetto credit crunch e dall'altra dalla mancata riscossione dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione;
    i problemi connessi alla crisi dei debiti sovrani e gli interventi regolamentari, che hanno imposto alle banche di procedere ad ingenti ricapitalizzazioni, contribuiscono notevolmente all'acutizzarsi delle difficoltà nell'accesso al credito;
    i più alti requisiti di capitale imposti dall'accordo cosiddetto Basilea 3 e dall'Eba-European banking authority non stanno diffondendo quella fiducia che era nelle intenzioni dei proponenti. Al contrario, accrescono le difficoltà delle banche che hanno avviato un processo di riduzione dell'indebitamento. A tal proposito, interessanti appaiono quelle proposte avanzate nei mesi scorsi dall'Abi in ordine all'introduzione di specifici coefficienti (quali il Pmi supporting factor da applicare all'ammontare destinato a riserva secondo i parametri di «Basilea 3») per fare in modo che le difficoltà degli istituti bancari nel fronteggiare i più rigidi requisiti patrimoniali richiesti, non abbiano effetti restrittivi ulteriori nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
    sono auspicabili misure dirette ad una maggiore elasticità nella concessione di finanziamenti nel breve periodo, attraverso un ampliamento del sistema di garanzia pubblico, tramite il rafforzamento del fondo di garanzia e di altri strumenti quali il fondo italiano d'investimento;
    la crescita vertiginosa dello spread nei mesi passati ha appesantito la stretta creditizia di 1,5 per cento negli ultimi tre mesi e del 2,2 per cento nel solo mese di dicembre 2011. Il sistema produttivo è stato gravato da un costo aggiuntivo nei tassi d'interesse di 3,7 miliardi di euro, mentre le insolvenze hanno superato gli 80 miliardi di euro (più 36 per cento rispetto al 2010);
    il credit crunch, quella condizione di calo significativo o di inasprimento improvviso delle condizioni dell'offerta di credito da parte del sistema bancario, produce un avvitamento finanziario che danneggia la fisiologia interna delle piccole e medie imprese, poiché ne mina la residua base patrimoniale;
    d'altra parte il nostro sistema bancario non concede anticipazioni o apre linee di credito allo scopo di finanziare progetti, ma si muove nella logica esclusiva delle garanzie. È evidente allora che le difficoltà di accesso al credito, già in essere per le piccole e medie imprese italiane, legate a questo modus operandi delle banche e alla minore capacità delle imprese più piccole di fornire solide garanzie, si accentueranno a tal punto che si paventa il rischio concreto di una paralisi degli investimenti, del sistema produttivo e, quindi, dell'economia tutta;
    la crisi economica ha fatto diminuire del 30 per cento il fatturato delle piccole aziende, inducendo gli istituti di credito a chiedere loro un piano di rientro dai fidi in tempi ristrettissimi;
    è pari al 43,3 per cento il numero di piccole e medie imprese con meno di venti dipendenti che negli ultimi tre mesi ha avuto problemi di accesso a un finanziamento bancario e, nella maggioranza dei casi, per il 57,1 per cento la richiesta di credito serve a colmare una carenza di liquidità;
    recentemente il Governo si è fatto promotore di una moratoria di 12 mesi sui prestiti bancari alle piccole e medie imprese in bonis, cioè senza debiti in sofferenza, incagliati, ristrutturati o esposizioni scadute da oltre 90 giorni, con lo scopo di assicurare loro liquidità e traghettarle oltre la crisi economica. Ne potranno beneficiare le imprese con meno di 250 dipendenti, fatturato inferiore a 50 milioni di euro, oppure con un attivo di bilancio fino a 43 milioni;
    presso il Ministero dello sviluppo economico è istituito il fondo centrale di garanzia che ha lo scopo di favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, attraverso il rilascio di una garanzia pubblica sui finanziamenti erogati dalle banche. Grazie alle risorse disponibili nel fondo, infatti, lo Stato si fa garante del rimborso del prestito da parte dell'impresa, consentendo così una più facile erogazione del finanziamento, il cui plafond complessivo è stato progressivamente incrementato e portato, nel 2009, a circa 2 miliardi di euro, ancora insufficienti e disponibili soltanto fino a tutto il 2012;
    per quanto riguarda l'altro elemento di difficoltà, considerato una tra le piaghe peggiori che gravano sul sistema produttivo italiano, relativo ai ritardi di pagamento dalla pubblica amministrazione, che ha portato quest'ultima a contrarre circa 70 miliardi di euro di debiti nei confronti delle aziende private, provocando il fallimento di una su tre di esse, i dati numerici divulgati dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture hanno restituito un'immagine preoccupante: i tempi di pagamento oscillano in un range compreso tra un minimo di 92 giorni ed un massimo di 664 giorni. L'entità dei ritardi mediamente accumulati è circa doppia rispetto a quanto si registra nel resto dell'Unione europea: mediamente 128 giorni contro i 65 che si computano a livello europeo;
    la complessità dell'organizzazione delle procedure amministrative e dei criteri per il trasferimento dei fondi tra le varie strutture burocratiche (tra questi i vincoli del patto di stabilità) e l'ampio potere di mercato della pubblica amministrazione sono fattori determinanti che contribuiscono all'allungamento delle tempistiche di pagamento. La principale conseguenza di questi ritardi è la mancanza di liquidità nelle casse delle imprese fornitrici. Ne consegue, anzitutto, la difficoltà nell'onorare i pagamenti ai propri fornitori e, in subordine, l'impossibilità di porre in essere gli investimenti necessari;
    a tutto ciò si aggiunga che, inevitabilmente, non solo è limitata la capacità di queste aziende di prevenire il ritardo dei pagamenti in sede di contrattazione con le pubbliche amministrazioni, ma è ridotta anche la possibilità di ricorrere alla tutela giurisdizionale, in ragione dei costi economici e sociali che questa comporta;
    il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione, fenomeno che ha ormai raggiunto e superato i livelli di guardia, finisce, quindi, con il trasferire alle imprese fornitrici il problema di liquidità del settore pubblico;
    nonostante sia in difetto, lo Stato non manca di chiedere alle imprese massima regolarità nel pagamento dei contributi previdenziali, la qual cosa per molte aziende risulta quasi impossibile a causa della mancanza di liquidità, aggravata proprio dal ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, e paradossalmente richiede, per ricevere il pagamento dei crediti accumulati con gli enti pubblici, la presentazione del durc (documento unico di regolarità contributiva);
    con l'approvazione del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, è possibile compensare i crediti che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione, ma ciò vale solo per i debiti iscritti a ruolo e per i crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, e comunque con procedure molto complesse;
    anche il decreto-legge sulle liberalizzazioni, appena approvato dal Senato della Repubblica, rappresenta un tiepido segnale di apertura del Governo al problema, prevedendo, all'articolo 35, lo sblocco di circa 6 miliardi di euro attraverso un incremento delle dotazioni dei fondi speciali (somma certo rilevante, ma ancora inadeguata rispetto ai 70 miliardi di euro di debiti), a cui va affiancato lo statuto delle imprese, che, all'articolo 10, anticipa la scadenza per il recepimento della direttiva europea 2011/7/UE sui ritardi di pagamento;
    la suddetta direttiva europea rientra nello Small business act ed obbliga le pubbliche amministrazioni a pagare i fornitori entro 30 giorni e, in casi eccezionali, entro 60 giorni per forniture sanitarie e per imprese a capitale pubblico; superato tale termine, nelle transazioni commerciali, la pubblica amministrazione dovrà versare interessi di mora pari all'8 per cento maggiorati del tasso di riferimento della Banca centrale europea. Tra imprese private, la scadenza è fissata a 60 giorni a meno di diverse intese stipulate tra le parti e a condizione che non si tratti di patti bilaterali iniqui;
    lo stesso anticipato recepimento della direttiva non risolverà comunque immediatamente il problema dell'enorme debito pregresso della pubblica amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese, in quanto è evidente che le pubbliche amministrazioni non sono in grado in un breve lasso di tempo di onorare i debiti già assunti;
    nessuna ipotesi di uscita dalla recessione è immaginabile senza una tempestiva riattivazione di flussi di finanziamento verso le piccole e medie imprese, le sole che finora hanno sfidato la grave congiuntura economica senza alcun paracadute,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative dirette ad introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo di compensazione dei crediti vantati nei confronti di amministrazioni pubbliche dalle piccole e medie imprese con i propri debiti e relativi accessori dovuti nei confronti della pubblica amministrazione, tramite un rinvio dei pagamenti senza interessi da effettuare attraverso la semplice certificazione da parte di consulenti del lavoro;
   ad assumere iniziative normative per incrementare, al fine di renderlo operativo per i prossimi anni, il fondo centrale di garanzia, la cui dotazione è insufficiente e disponibile soltanto fino a tutto il 2012.
(1-00901)
«Lombardo, Commercio, Lo Monte, Oliveri, Brugger».
(5 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi finanziaria che ha preso avvio nel 2007 sta generando impatti rilevanti sia sui mercati finanziari sia sull'economia reale: in particolare, l'Italia, oltre a subire pressioni sul mercato del debito sovrano, presenta un tasso di crescita potenziale troppo contenuto ed è entrata in una fase recessiva;
    le cause di questa fase di forte instabilità sono riconducibili sia ad aspetti relativi all'economia reale sia a profili relativi all'economia finanziaria, a cui le autorità monetarie, di vigilanza e politiche hanno cercato di far fronte, nel corso dell'ultimo triennio, con un ampio spettro di normative;
    in particolare, la normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3» prevede un generalizzato inasprimento dei requisiti patrimoniali per le banche, che se, per un verso, è necessario per ripristinare la fiducia nella solvibilità delle banche, rischia, tuttavia, di tradursi in maggiori costi e difficoltà di accesso al credito per il sistema produttivo, in particolare per le piccole e medie imprese;
    sebbene la piena applicazione dei nuovi requisiti entrerà a regime solo nel 2019, l'annuncio delle nuove regole ha generato pressioni da parte degli investitori e delle controparti affinché le banche si adeguino prima dei tempi previsti, accumulando riserve di capitale e di liquidità nonostante l'attuale difficile situazione di mercato e del sistema produttivo;
    il 9 dicembre 2011 l'Autorità bancaria europea (Eba) ha adottato una raccomandazione che prevede la creazione, in via eccezionale e temporanea, entro la fine di giugno 2012, di una riserva supplementare di fondi propri da parte delle banche;
    l'8 dicembre 2011, la Banca centrale europea ha lanciato due rifinanziamenti straordinari (ltro, long term refinancing operation) della durata di 36 mesi a favore delle banche, allo scopo di garantire l'accesso alle liquidità agli istituti di credito: le due aste, che si sono tenute il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012, hanno assegnato alle banche, rispettivamente, 489,19 miliardi di euro e 529,53 miliardi di euro a tasso fisso, con l'opzione di ripagare, in tutto o in parte, l'ammontare dopo un anno e successivamente secondo scadenze prefissate; secondo una nota diffusa dalla Banca d'Italia, le banche italiane hanno partecipato alla seconda operazione ltro per una quota pari a 139 miliardi di euro lordi, pari a circa 80 miliardi di euro al netto del riassorbimento di operazioni di scadenza più breve;
    è stato il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ad invitare gli istituti di credito ad approfittare dell'offerta, senza alcun timore di suscitare sospetto, per evitare il credit crunch in atto e riparare i bilanci e i mercati, abbreviando i tempi della ripresa;
    anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento al 18o congresso Assiom Forex del 18 febbraio 2012, ha affermato che: «a distanza di pochi anni le imprese si trovano nuovamente a fronteggiare un inasprimento delle condizioni creditizie; anche in questa occasione sarà essenziale la capacità delle banche di valutare attentamente il merito di credito, senza far mancare il sostegno finanziario ai clienti solvibili e meritevoli. Un adeguato e stabile volume di finanziamenti è essenziale per l'attività delle stesse banche»;
    l'analisi annuale per la crescita 2012, presentata dalla Commissione europea il 23 novembre 2011 (COM(2011)815 def.), prevede espressamente, nell'ambito dell'obiettivo «ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia», l'esigenza di «garantire che le banche rafforzino i propri coefficienti patrimoniali consolidando le proprie posizioni patrimoniali e non limitando indebitamente l'erogazione di prestiti all'economia reale» e di «rivedere le norme prudenziali per evitare che penalizzino indebitamente l'erogazione di prestiti alle piccole e medie imprese»,

impegna il Governo:

   ad assumere, per quanto di competenza, tutte le iniziative necessarie affinché la liquidità ottenuta dalle banche italiane nelle operazioni long term refinancing operation si traduca effettivamente in un sostegno all'economia reale e all'accesso al credito delle imprese e delle famiglie;
   ad adoperarsi in sede europea affinché:
    a) le nuove regole siano coerenti con l'attuale fase ciclica dell'economia europea e italiana, facendo sì che le nuove regole sui requisiti di capitale siano un fattore di stabilizzazione dei mercati di lungo periodo e non un freno per le banche nel sostegno alle imprese e alle famiglie, evitando che le proposte, le loro modalità di attuazione ed i relativi tempi determinino indesiderati effetti prociclici;
    b) siano introdotti nella normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3» accorgimenti regolamentari che incentivino, riducendone il costo, i prestiti in favore delle piccole e medie imprese, in particolare prevedendo misure che, di fatto, sterilizzino gli incrementi di capitale, a fronte dei prestiti erogati alle piccole e medie imprese, che si determinerebbero nel caso di applicazione indifferenziata delle nuove regole sul capitale;
    c) si provveda a chiarire che, nei casi in cui un finanziamento è supportato dalla garanzia di un consorzio di garanzia collettiva fidi, il criterio di assorbimento patrimoniale relativo all'accantonamento richiesto al confidi non possa risultare superiore al risparmio di capitale ottenuto dalla banca in conseguenza dell'intervento del confidi stesso;
   a proseguire nell'impegno, già assunto in sede di approvazione alla Camera dei deputati della risoluzione n. 6-00097, sottoscritta da esponenti di tutti i gruppi parlamentari, a far sì che l'attuazione delle misure che dovrebbero essere adottate dalle banche europee per colmare il deficit di capitale eventualmente emerso a seguito dell'esercizio dell'Autorità bancaria europea sia dilazionata nel tempo, in maniera da ridurne gli effetti prociclici e metterle in fase con la congiuntura economica.
(1-00910)
«Fluvi, Causi, Albini, Carella, D'Antoni, Fogliardi, Graziano, Marchignoli, Piccolo, Pizzetti, Sposetti, Strizzolo, Vaccaro, Verini, Vico».
(9 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    l'economia italiana è fondata su un sistema di piccole e medie imprese, che costituisce il fulcro del sistema imprenditoriale complessivo;
    la crisi del 2007 ha ristretto il credito per le piccole e medie imprese con effetti negativi sul prodotto interno lordo;
    la crisi dei debiti sovrani ha penalizzato il sistema bancario, indebolendone la capacità di raccolta del risparmio e la posizione finanziaria;
    l'accordo «Basilea 3», varato dal Comitato dei governatori delle banche centrali dei Paesi europei, ha come primo obiettivo il rafforzamento del patrimonio bancario, al fine di dare stabilità al sistema ed evitare il rischio di una nuova crisi finanziaria, con conseguenze però penalizzanti per le grandi banche italiane, che hanno dovuto introdurre nuovi criteri per il calcolo dei requisiti patrimoniali basati sulla valutazione a prezzi di mercato dei titoli del debito pubblico;
    tuttora il tasso di crescita annuo del credito al sistema industriale è in forte rallentamento, nonostante i provvedimenti della Banca centrale europea riguardanti gli acquisti di titoli e la concessione alle banche italiane di oltre 230 milioni di euro con tasso di interesse all'1 per cento;
    il restringimento del credito ha pesanti ripercussioni sull'aumento dei margini di interesse, sulla richiesta di sempre maggiori garanzie reali da parte delle banche, nonché sulla riduzione della durata dei finanziamenti erogati;
    il patto di stabilità, poiché incide anche sui tempi dei pagamenti delle forniture delle pubbliche amministrazioni alle imprese e soprattutto alle piccole e medie, va mantenuto attenuandone gli effetti attraverso la compensazione fra debiti e crediti, commerciali e tributari, tra le piccole e medie imprese e la pubblica amministrazione,

impegna il Governo:

   a valutare la possibilità di intervenire, a livello europeo, al fine di ottenere:
    a) l'unificazione dei criteri e delle metodologie per ponderare i rischi delle attività bancarie, per proteggere le banche italiane;
    b) correttivi tendenti a mettere le banche in condizione di poter riservare un trattamento meno stringente per i crediti alle piccole e medie imprese;
    c) una riduzione dei tempi, a livelli medi europei, di liquidazione dei crediti delle imprese verso lo Stato e le pubbliche amministrazioni.
(1-00911)
«Misiti, Iapicca, Miccichè, Fallica, Grimaldi, Mario Pepe (Misto-R-A), Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova».
(9 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    gli istituti bancari svolgono il ruolo di raccogliere fondi dai risparmiatori e trasferirli a imprese e privati che ne hanno bisogno per le proprie esigenze personali o aziendali. Oltre a concedere prestiti a imprese e famiglie, le banche svolgono anche attività finanziarie di varia natura: ad esempio, comprano titoli di aziende e Stati, concedono finanziamenti ad altri intermediari finanziari. Si tratta di un'attività fondamentale per l'economia moderna, senza la quale l'intero sistema economico attuale non potrebbe esistere. Un'attività quella del credito che mantiene la qualità fondamentale di servizio;
    la principale legge italiana che regola il funzionamento dell'attività bancaria è il testo unico bancario, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, con tutte le successive modificazioni e integrazioni. Secondo questo testo unico, l'attività bancaria è definita come l'esercizio congiunto dell'attività di raccolta di risparmio tra il pubblico e dell'attività di concessione del credito (articolo 10). In Italia ci sono circa 800 banche, delle quali circa il 30 per cento ha la forma di società per azioni. Poco meno di 50 le banche popolari, più di 400 le banche «di credito cooperativo» e circa 80 le succursali delle banche estere;
    il ruolo della banca è senza alcun dubbio cruciale per ogni economia avanzata, e non solo; la storia d'Europa e il suo sviluppo evidenziano in maniera esemplare come il ruolo del credito rappresenti uno dei pilastri fondamentali delle economie più sviluppate. Senza il ricorso al credito, aziende e persone dovrebbero occuparsi personalmente di trovare finanziatori per le proprie attività, con costi elevati e scarse probabilità di successo. Attraverso le banche, invece, possono accedere al risparmio di altri soggetti, reso disponibile attraverso il sistema bancario. Allo stesso modo, senza le banche i risparmiatori dovrebbero valutare da soli gli investimenti e verificare il regolare andamento dei pagamenti degli interessi e la restituzione del capitale prestato. In ragione di questa importanza, le leggi italiane, comunitarie e internazionali regolano l'attività bancaria con norme specifiche, diverse da quelle che riguardano gli altri intermediari finanziari;
    la costituzione di un'impresa bancaria è sottoposta ad autorizzazioni da parte della Banca d'Italia, che svolge anche un importante ruolo di controllo durante l'attività bancaria;
    nell'ultima indagine trimestrale, la Banca d'Italia, in oltre metà delle imprese, ha dichiarato di vedere un peggioramento della situazione economica nei prossimi mesi ed è quasi raddoppiata, al 28,6 per cento dal 15,2 per cento della precedente inchiesta, la quota delle imprese per le quali le condizioni di accesso al credito sono peggiorate;
    le ragioni di queste difficoltà sono di due tipi. In primo luogo, c’è da parte delle banche un problema di liquidità, soprattutto per quanto riguarda gli impieghi a medio termine. L'instabilità dello scenario finanziario ha inaridito molti dei tradizionali canali di finanziamento, da quelli più semplici, come l'interbancario, a quelli più complessi, riferibili alle operazioni sovranazionali in valuta. Le banche si trovano così nell'esigenza di garantire la copertura delle operazioni correnti e devono ridurre gli spazi per i finanziamenti alle imprese;
    in secondo luogo, c’è un problema di costi. Per le banche è sempre più oneroso aumentare la propria raccolta e ottenere capitali per il forte rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato italiani. C’è in questo periodo una vera e propria rincorsa ad offrire condizioni sempre più appetibili a chi deposita i propri soldi in banca: un anno fa era già un successo spuntare un tasso dell'1 per cento sui depositi, mentre ora, con un vincolo di un anno, si supera tranquillamente quota 4 per cento. I risparmiatori sono avvantaggiati, ma chi chiede soldi in prestito deve accettare tassi decisamente più elevati;
    per le piccole e medie imprese le prospettive rischiano, poi, di essere ancora più difficili, perché il sistema bancario continua ad essere fortemente impegnato verso i grandi gruppi, che non attraversano anch'essi un momento favorevole;
    le imprese, quindi, hanno di fronte un credito difficile e più caro proprio in un momento come questo in cui sarebbero necessari forti investimenti per rinnovare gli impianti, accrescere la competitività, finanziare la ricerca;
    anche il mercato immobiliare risente delle crisi; infatti, l'andamento del mercato del credito alle famiglie continuerà a essere comunque influenzato dal contesto economico internazionale e la richiesta di finanziamenti, attualmente in calo, è determinata anche dalle prospettive di sacrificio previste per gli italiani dalle recenti manovre e dall'impennata dei tassi per i prodotti di credito. Per i prossimi mesi, quindi, ci si attende ancora una contrazione dei mutui e quindi degli acquisti;
    il ruolo delle banche negli ultimi trent'anni è profondamente mutato. Infatti, gli istituti bancari nel dopoguerra hanno svolto un ruolo cruciale per lo sviluppo economico del sistema capitalista, incentrato a quell'epoca sulla relazione virtuosa tra il settore bancario e le imprese che producono beni e servizi non-finanziari: le linee di credito concesse dalle banche a tali imprese – i cui obiettivi erano definiti con riferimento al medio-lungo periodo – permisero la produzione di valore aggiunto attraverso la remunerazione dei lavoratori delle imprese, i quali potevano disporre della loro capacità di acquisto sui mercati dei prodotti, al fine di avere un tenore di vita dignitoso senza dover ricorrere all'indebitamento personale;
    la finanziarizzazione dell'economia, iniziata negli anni ’80 del secolo scorso, ha trasformato i nostri sistemi economici radicalmente, marginalizzando poco alla volta il ruolo delle banche commerciali, inducendo queste ultime a diventare delle società finanziarie attive su scala globale e operanti a 360 gradi sui mercati finanziari (una sorta di «supermercati finanziari» alla ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile);
    il 21 dicembre 2011 le banche europee hanno ottenuto circa 500 miliardi di euro di nuovi fondi, in occasione della prima asta di rifinanziamento organizzata dalla Banca centrale europea, in base alle nuove regole volute dalle autorità dell'Unione europea per combattere il credit crunch; di questi, gli istituti italiani hanno ricevuto 116 miliardi di euro al tasso dell'1 per cento;
    la Banca centrale europea ha più volte dichiarato che tali risorse erano vincolate ad una precisa finalizzazione: dare credito all'economia reale in modo da permettere alle banche di avere più liquidità ad un costo basso da mettere a disposizione di imprese e famiglie;
    le imprese e le famiglie italiane vedono sempre più ristretta la possibilità di accedere al credito; convenzioni e confidi vengono disdetti e gli interessi arrivano al 12 per cento;
    appare evidente come il rilancio dello sviluppo del sistema sia collegato alla capacità effettiva di credito, che gli istituti bancari possono e dovrebbero concedere alle imprese, in particolare alle piccole e medie imprese; senza il rafforzamento delle linee di credito appare estremamente complicato ipotizzare che si possa davvero procedere ad un rilancio dello sviluppo del sistema, per il quale, specie in Italia, il ruolo delle piccole imprese è determinante, sia in termine di produzione che di impiego di forza lavoro;
    inoltre, si aggiunge il problema del ritardo con cui la pubblica amministrazione provvede al pagamento dei corrispettivi inerenti all'esecuzione dei contratti pubblici, che suscita, ormai da anni, l'interesse (ma soprattutto l'allarme) degli imprenditori che operano nel mercato italiano;
    tale problematica è particolarmente avvertita dalle piccole e medie imprese, che, soprattutto nell'attuale congiuntura economica di difficile accesso al credito bancario, risentono in maniera grave della mancanza di liquidità;
    il ritardo nei pagamenti non incide solo sul contraente privato che si trova a sostenere un'attesa ingiustificata nella percezione dei corrispettivi dovuti da parte dell'amministrazione appaltante, ma ridonda in termini negativi anche sull'indotto a valle dell'appalto, investendo le imprese subappaltatrici e subfornitrici, sulle quali i ritardi vengono sovente ulteriormente ribaltati,

impegna il Governo:

   ad istituire un tavolo permanente tecnico con rappresentanti dell'Associazione bancaria italiana, della Banca d'Italia, delle principali associazioni di categoria e dei consumatori e dell'Istat, al fine di avanzare proposte operative per il sostegno del credito a favore delle imprese e delle famiglie, e, in particolare, ad adoperarsi, nell'ambito delle proprie competenze, affinché la seconda tranche di prestiti che la Banca centrale europea ha messo a disposizione delle banche vada a sostegno delle imprese e delle famiglie e ad adottare iniziative che agevolino con tassi d'interesse favorevoli l'accesso al credito per le imprese e le famiglie;
   ad adoperarsi, altresì, nelle competenti sedi decisionali dell'Unione europea, in modo da:
    a) sospendere l'entrata in vigore delle misure volte a fissare livelli più elevati per i coefficienti patrimoniali delle banche e introdurre un nuovo schema internazionale per la liquidità (accordo «Basilea 3»);
    b) eliminare la valutazione a prezzi di mercato che l'Eba applica ai titoli di Stato italiani, comportando una loro sottovalutazione nel patrimonio delle banche italiane, che detengono bot e btp per un valore di 160 miliardi di euro;
    c) intervenire in merito ai requisiti patrimoniali delle banche affinché siano introdotti meccanismi correttivi per la ponderazione del rischio di credito relativo ai prestiti alle piccole e medie imprese, in modo da compensare l'incremento quantitativo del requisito patrimoniale minimo;
   ad assumere iniziative normative volte a prevedere forme di compensazione per le imprese che vantino crediti nei confronti di amministrazioni statali, con i debiti gravanti a loro carico, relativi ad obbligazioni tributarie;
   ad adottare iniziative normative volte ad accelerare il pagamento dei crediti della pubblica amministrazione, al fine di recepire la nuova direttiva europea 2011/7/UE concernente il contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
(1-00913)
«Crosetto, Vignali, Bernardo, Berardi, Del Tenno, Laboccetta, Leo, Misuraca, Pagano, Antonio Pepe, Savino, Ventucci».
(12 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    le attuali difficoltà che le famiglie e le aziende, ed in particolare le piccole e le medie imprese, incontrano nell'accesso al credito dipendono da più cause e, dunque, per essere affrontate necessitano di una politica complessiva che deve agire su più fronti;
    il credito bancario al settore privato non finanziario – secondo i dati forniti dalla Banca d'Italia – continua a risentire sia di una ridotta domanda di finanziamenti da parte delle imprese, a causa della difficile congiuntura economica, sia di un orientamento ancora restrittivo dei criteri di offerta da parte del pubblico. Le indagini sulle condizioni di accesso al credito, condotte presso le banche e presso le imprese, hanno rilevato che permane elevata la quota di imprese che dichiara di non ottenere l'ammontare di finanziamenti desiderati;
    i nuovi accordi di «Basilea 3» hanno modificato i criteri già stabiliti con «Basilea 1» (1998) e «Basilea 2» (2008): essi fissano, alzandoli, i requisiti minimi di capitale delle banche proporzionalmente ai rischi che assumono, prevedono una serie di «cuscinetti» (liquidità) di capitale aggiuntivi (pari al 2,5 per cento, ma che potrebbero aumentare fino al 5) nelle fasi economiche a rischio, prevedono sanzioni nel caso di violazione delle nuove regole, quale il divieto di pagare bonus ai manager o cedole ai soci;
    l'allineamento alle regole di Basilea 3 comporta dei costi, in quanto la migliore qualità ed una maggiore quantità di capitale di garanzia potrà essere raggiunto solo attraverso un rimodellamento della struttura di ciascun istituto. Il rischio maggiore è quello di un inasprimento del costo del denaro;
    l'Autorità bancaria europea (European Banking Authority – Eba) ha chiesto di aumentare il «Core Tier 1» delle banche entro giugno 2012 al 9 per cento;
    per la valutazione del rischio, l'Autorità bancaria europea ha usato il criterio mark to market, ossia l'attribuzione non del valore nominale o cedolare dei titoli ma il prezzo corrente di mercato, che ha messo in moto per i btp, già in crisi di spread, un meccanismo deleterio per le banche che, qualora volessero evitare la ricapitalizzazione, dovrebbero vendere i titoli, deprezzati del 15-20 per cento del valore nominale, con effetti dirompenti sia sui mercati che sulle fortissime minusvalenze dei conti;
    il sistema creditizio italiano, tra i suoi asset, ha titoli di Stato italiani per 160 miliardi di euro e titoli di Stato degli altri Paesi «Pigs» per 3 miliardi di euro. A fronte di questo, le banche italiane hanno titoli «tossici» (essenzialmente mutui subprime) per una quota pari al 6,8 per cento del patrimonio di vigilanza, contro una media europea del 65,3 per cento. Secondo le nuove norme di valutazione degli asset stabilite dall'Autorità bancaria europea, si è al paradosso: i titoli di Stato in portafoglio vengono considerati «tossici» per le banche italiane, peggio di quanto non lo siano i subprime per le banche straniere;
    questa decisione dell'Autorità bancaria europea, invece di dimostrare equilibrio ed equità, ha finito per penalizzare il sistema bancario italiano che ha meno titoli tossici e strumenti derivati rispetto alle banche francesi o tedesche;
    queste circostanze hanno reso ancor più difficile l'accesso al credito per molte piccole e medie imprese;
    si deve, comunque, considerare che la Banca centrale europea ha fornito un'enorme liquidità alle banche che usufruiscono del notevole differenziale tra i tassi di approvvigionamento dei fondi (dalla Banca centrale europea all'1 per cento e dai privati con un tasso di poco superiore) e quelli a cui li offrono a prestito. Il 29 febbraio 2012 la Banca centrale europea ha prestato 530 miliardi di euro per tre anni alle banche europee, una somma simile a quella già elargita nel dicembre 2011. Soldi che non serviranno, l'esperienza del prestito della Banca centrale europea precedente lo attesta, a finanziare le imprese e le famiglie. Infatti, quell'operazione è servita sopratutto a sostenere la domanda di titoli di Stato;
    l'operazione a tre anni del 21 dicembre 2011 vide una richiesta di prestiti per 489 miliardi di euro, che furono tutti assegnati. I prestiti sono andati in parte a sostituire altre operazioni di politica monetaria, ragion per cui l'incremento netto di finanziamenti concessi dalla Banca centrale europea al sistema bancario europeo è stato, in realtà, molto inferiore: 193 miliardi di euro. Con riferimento al nostro Paese, le banche italiane usufruirono di un finanziamento di 116 miliardi di euro in quell'operazione, ma l'incremento netto di liquidità fornita dalla Banca d'Italia nel mese di dicembre 2011 è stato della metà, 57 miliardi di euro;
    le banche italiane hanno in buona parte utilizzato i soldi presi a prestito dalla Banca centrale europea per acquistare titoli di Stato, contribuendo alla riduzione dei tassi d'interesse sul debito pubblico italiano. Nello stesso tempo, le banche hanno stretto l'offerta di credito, sia riducendo la quantità sia aumentando il costo dei finanziamenti;
    le somme ricevute dalla Banca centrale europea sono state usate anche per rimborsare obbligazioni bancarie, un'operazione che sarebbe stata troppo costosa rinnovare ai tassi di mercato. Nel bimestre dicembre 2011-gennaio 2012, le banche italiane hanno anche acquistato titoli di Stato per 32,6 miliardi di euro. Nello stesso periodo, i prestiti bancari alle imprese e alle famiglie italiane si sono ridotti di 20 miliardi di euro;
    le banche italiane, come rilevano le associazioni dei consumatori, continuano ad applicare tassi di interesse più elevati dello 0,67 per cento sui mutui, in Italia al 4,6 per cento, contro il 3,93 per cento della media dell'Unione europea. Nel gennaio 2012, in Italia il costo dei finanziamenti alle imprese (nuove operazioni) era di 1,3 punti percentuali più alto rispetto allo stesso mese del 2011 (passando dal 2,7 per cento al 4 per cento), a parità di tasso di politica monetaria (1 per cento). Nello stesso periodo, il tasso d'interesse sui mutui immobiliari è salito di un punto percentuale (dal 3,15 per cento al 4,15 per cento). Sempre nello stesso periodo, il differenziale tra il tasso medio sui prestiti a imprese e famiglie e il tasso medio sulla raccolta è aumentato di mezzo punto percentuale (dal 2,2 per cento al 2,7 per cento);
    va, inoltre, ricordato che l'articolo 8 del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (la cosiddetta manovra Monti «Salva-Italia») ha fornito alle banche la garanzia dello Stato sui prestiti ottenuti (in larga misura dalla Banca centrale europea), garanzia che ha consentito loro di sopportare con qualche patema d'animo in meno la situazione difficile dei mercati finanziari;
    il 28 febbraio 2012 Governo, Confindustria, l'Associazione bancaria italiana e altre associazioni imprenditoriali hanno firmato l'accordo su «Le nuove misure per il credito alle Pmi». L'accordo ha validità fino al 31 dicembre 2012 e individua interventi finanziari a favore delle piccole e medie imprese «in bonis». L'accordo prevede le seguenti operazioni: sospensione per 12 mesi del pagamento della quota capitale delle rate dei finanziamenti a medio-lungo termine (anche i mutui assistiti da contributo pubblico in conto capitale e/o interessi) e della quota capitale implicita nei canoni di operazioni di leasing immobiliare (6 mesi per il leasing mobiliare); allungamento della durata dei finanziamenti a medio-lungo termine (anche i mutui assistiti da contributo pubblico in conto capitale e/o interessi); allungamento delle scadenze delle anticipazioni su crediti verso clienti fino a un massimo di 270 giorni;
    l'articolo 11, comma 4, del decreto-legge n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 2 del 2009, ha introdotto la garanzia dello Stato sugli interventi del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, quale garanzia di ultima istanza. Di conseguenza, in relazione al requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito, alle esposizioni assistite dal fondo nella forma della garanzia diretta e della controgaranzia a prima richiesta, si applica il fattore di ponderazione associato allo Stato italiano («ponderazione zero»), in quanto più favorevole di quello del soggetto debitore, nei limiti dell'importo che il fondo di garanzia è tenuto a versare in caso di inadempimento del debitore principale ovvero del confido garantito;
    nel caso della garanzia diretta, il fondo interviene nella misura massima del 60 per cento dell'importo di ciascuna operazione finanziaria. Tale percentuale è elevata fino all'80 per cento in casi particolari (per le piccole e medie imprese a prevalente partecipazione femminile, per le piccole e medie imprese ubicate nelle zone 87.3.a) del Trattato dell'Unione europea, (per le piccole e medie imprese aderenti alla programmazione negoziata). Nel caso di controgaranzia, il fondo interviene invece nella misura massima del 90 per cento della garanzia prestata dai confidi o dagli altri fondi di garanzia. Il moltiplicatore calcolato sul «finanziato», dato dal rapporto è pari a circa 16. Con un euro di dotazione del fondo sono, dunque, attivabili 16 euro di finanziamenti. Il moltiplicatore calcolato sul «garantito» è invece pari a circa 8. Un euro di dotazione del fondo consente, pertanto, di attivare circa 8 euro di garanzia;
    il fondo è stato finanziato per un miliardo e mezzo di euro per il quadriennio 2009-2012. L'importo garantito dal fondo di garanzia per le piccole e medie imprese è stato innalzato, con decreto del Ministro dello sviluppo economico del 9 aprile 2009, da 500 mila euro a un milione e mezzo di euro. L'intervento del fondo, inoltre, è stato esteso, per la prima volta, alle imprese artigiane, estendendo notevolmente la platea dei potenziali beneficiari. I circa 250 confidi dell'artigianato contano, infatti, circa 700 mila imprese associate;
    dai dati citati appare evidente come l'entità dei finanziamenti a disposizione, il tetto dell'importo garantito, le percentuali su cui si applica la garanzia, siano del tutto insufficienti e non consentono di fornire uno sostegno adeguato alle piccole e medie imprese, incluse le imprese artigiane, in particolare in questa fase di crisi;
    la peculiarità del tessuto produttivo ed economico del nostro Paese, la fortissima presenza di piccole imprese, la forte vocazione manifatturiera, rendono le banche il canale principale di erogazione delle risorse;
    è, comunque, innegabile che, specie in Italia, le aziende devono essere aiutate a fare passi in avanti nella loro aggregazione. L'Italia è un Paese che deve la sua ossatura produttiva alle piccole e medie imprese, ma che ha un sistema economico molto chiuso, carente di quella capacità di innovare che è la molla necessaria per la competitività. L'ovvia conseguenza è che le piccole e medie imprese italiane risultano avere un livello di capitalizzazione basso. Per le imprese italiane, storicamente sottocapitalizzate e ancora basate sul pluriaffidamento bancario a breve, quello di capitalizzazione sarà l'indicatore che darà più preoccupazioni nella determinazione del rating aziendale. Le imprese italiane, soprattutto quelle di minori dimensioni, non sono adeguatamente trasparenti. Regole severe con sanzioni effettive per chi nasconde e occulta i dati contabili consentirebbero alle banche di rischiare di più e chiedere meno garanzie;
    la crisi del credito per le piccole e medie imprese è ulteriormente aggravata dai dati sui tempi di pagamento alle piccole imprese che fanno emergere attese anche di 600 giorni, per recuperare i crediti vantati nei confronti degli enti pubblici. Il tempo medio di attesa per riscuotere un credito da una pubblica amministrazione si attesta sui 128 giorni contro i 67 della media dell'Unione europea, ma anche le aziende private saldano i propri fornitori in 88 giorni. Questi ritardi costano 934 milioni di euro l'anno e a farne le spese sono proprio le piccole e medie imprese che hanno molte difficoltà nell'accesso al credito. Secondo alcune stime, i crediti vantati dalle imprese nei confronti di amministrazioni centrali ed enti sanitari locali superano i 70 miliardi di euro;
    allo scopo di ricondurre il problema a dimensioni fisiologiche è stata adottata la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2000/35/CE del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, recepita nell'ordinamento interno, in attuazione dell'articolo 26 della legge 1o marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001), dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231. Tale direttiva fissa a 30 giorni il termine massimo dei pagamenti della pubblica amministrazione, con sanzioni del 5 per cento per ogni giorno di ritardo;
    tale situazione non è nuova. Nella metà degli anni Ottanta la necessità di una politica restrittiva in termini di cassa aveva posto al legislatore il problema (derivato) di garantire alle imprese il puntuale pagamento dei crediti vantati. Infatti, decine di migliaia di imprese erano costrette ad indebitarsi con il sistema bancario in attesa di ricevere quanto dovuto ed erano sull'orlo del fallimento. La soluzione, saggia anche se transitoria, fu il ricorso ad una normativa di compensazione-cessione dei crediti vantati verso la pubblica amministrazione, recata dal comma 9 dell'articolo 1 del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 gennaio 1986, n. 11;
    al fine di accelerare il pagamento dei crediti commerciali esistenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 1 del 2012 (cosiddetto «decreto liberalizzazioni») connessi a transazioni commerciali per l'acquisizione di servizi e forniture, certi, liquidi ed esigibili, corrispondenti a residui passivi del bilancio dello Stato, con le disposizioni di cui all'articolo 35 del medesimo decreto, il Governo ha messo a disposizione complessivamente 5,7 miliardi di euro. Una somma molto al di sotto del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle aziende fornitrici di beni e servizi;
    si tratta di una somma che potrà essere spesa in parte per cassa, in parte con l'assegnazione di titoli del debito pubblico se, a chiedere questa misura alternativa di pagamento saranno i creditori (fino ad un massimo di 2 miliardi di euro, inclusi nel totale complessivo dei 5,7 miliardi di euro già citato);
    slitta, invece, la norma che sanziona i futuri ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese e che prevedeva l'introduzione di un interesse di mora pari all'8 per cento. La misura era stata messa a punto dal Ministro per le politiche comunitarie al fine di recepire la direttiva europea per il contrasto ai ritardi dei pagamenti;
    il rispetto del patto di stabilità, inoltre, aggrava la situazione mettendo a rischio pagamenti, cantieri in corso e manutenzioni indispensabili per garantire la sicurezza dei cittadini. Tra il 2009 e il 2012, il blocco delle entrate si è tradotto in una riduzione di circa nove miliardi di euro, difficilmente sostenibile per i comuni che hanno dovuto far fronte alla crescente domanda di servizi sociali. I comuni hanno subito il taglio di due miliardi e mezzo di euro di trasferimenti erariali e la fissazione del loro contribuito al risanamento della finanza pubblica per una somma pari a 4 miliardi e mezzo di euro. Tutto ciò ha generato un blocco generalizzato dei pagamenti, in particolare di quelli in conto capitale;
    la procedura dei rimborsi dell'iva, che le società maturano trimestralmente nei confronti dell'erario, attualmente risulta troppo articolata e molto onerosa per le aziende. La vigente legislazione in materia di crediti iva, infatti, prevede, in virtù dell'articolo 8, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 542 del 1999, la possibilità di compensare il proprio credito iva con le altre imposte dovute. Il limite di compensazione ammesso, già dall'anno 2001 e tuttora vigente, ha un plafond di 516.456,90 euro fissato dall'articolo 34 della legge n. 388 del 2000;
    inoltre, a seguito di recenti introduzioni legislative entrate in vigore dal 1o gennaio 2010, detta procedura è stata resa ancora più onerosa, sia in termini di costi che in termini di tempi rendendoli ancora più diluiti, obbligando le aziende con crediti iva superiori a 15 mila euro alla certificazione del credito da parte di professionisti abilitati i quali, al fine di rilasciare detta certificazione, debbono acquisire in azienda un grande volume di documenti fiscali da controllare. In sintesi, per i crediti iva maturati nel corso dell'anno, l'attuale normativa consente di utilizzare in compensazione solo fino al tetto citato, mentre la differenza viene chiesta a rimborso la cui liquidazione, una volta completata la presentazione della documentazione prevista, corredata di apposita ed onerosa polizza fideiussoria atta a garantire il credito chiesto a rimborso, genera tempi di attesa enormi che attualmente si aggirano intorno ai 18-24 mesi, tempi che penalizzano fortemente le aziende costringendole ad anticipare le proprie risorse finanziarie, o a dover ricorrere al credito bancario per far fronte agli impegni gestionali;
    un altro elemento che penalizza fortemente le piccole e medie imprese in termini di liquidità disponibile concerne il pagamento dell'iva su fatture emesse ma non effettivamente riscosse. Occorre, dunque, rendere permanente per i piccoli operatori economici il pagamento dell'iva al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo modificando l'articolo 7 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, che prevedeva la sospensione del pagamento dell'iva solo per un anno, ed aumentare il volume d'affari massimo (200 mila euro) previsto per l'applicazione della norma,

impegna il Governo:

   per quanto concerne l'accesso al credito da parte delle piccole e medie imprese:
    a) a farsi promotore nelle debite sedi di proposte volte al coordinamento, almeno europeo, nell'applicazione omogenea delle nuove regole dell'accordo «Basilea 3» nei Paesi membri, ed a intervenire in tutte le sedi europee necessarie per ottenere la revisione del criterio che vede l'attribuzione ai titoli di Stato non del valore nominale o cedolare, ma del loro prezzo corrente di mercato, criterio che penalizza pesantemente gli istituti di credito italiani;
    b) ad adottare le opportune iniziative normative al fine di prevedere che gli istituti di credito, che beneficiano della garanzia di cui all'articolo 8 decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, forniscano opportune garanzie in merito alla concessione del credito alle piccole e medie imprese ed alle famiglie, monitorandone l'attività;
    c) ad aprire un confronto con gli istituti di credito e le loro associazioni rappresentative al fine di ottenere che una percentuale dei prestiti ricevuti dagli istituti di credito nazionali da parte della Banca centrale europea con tasso agevolato dell'uno per cento sia impiegata per erogare finanziamenti alle famiglie e alle piccole e medie imprese;
    d) ad adottare le opportune iniziative normative volte ad assicurare la continuità negli anni e l'estensione dell'attività di garanzia del fondo rivolto alle piccole e medie imprese, di cui all'articolo 15 della legge n. 266 del 1997, valutando la possibilità di incrementare in maniera consistente le risorse a disposizione del fondo di garanzia, il tetto dell'importo del credito garantito e le percentuali sulle quali si applica la garanzia;
   per quanto concerne il ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni:
    a) a fornire periodicamente al Parlamento i necessari elementi per un monitoraggio della situazione;
    b) a dare definitiva attuazione nel nostro ordinamento ai principi sanciti a livello comunitario in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, con particolare riguardo alle pubbliche amministrazioni;
    c) a valutare la possibilità di consentire alla Cassa depositi e prestiti, in considerazione del suo ruolo di soggetto finanziatore delle amministrazioni pubbliche, e in particolare di quelle locali, l'effettuazione di operazioni di cessione dei crediti scaduti ed esigibili, anche mediante cartolarizzazione degli stessi, con costi ed oneri finanziari a carico delle amministrazioni debitrici;
    d) ad adottare le opportune iniziative normative volte a consentire ai creditori della pubblica amministrazione di potere richiedere alle amministrazioni debitrici la certificazione delle somme dovute e, conseguentemente, cedere il relativo credito ad un istituto di credito che ne assume la piena titolarità, previo pagamento dell'intero ammontare del credito;
    e) ad ampliare il ricorso a soluzioni tecnico-giuridiche che permettano di utilizzare, per il pagamento almeno di parte del debito delle pubbliche amministrazioni, previa opzione del creditore, titoli del debito pubblico facilmente liquidabili;
    f) a prevedere che una quota significativa delle risorse per il rifinanziamento del fondo residui perenti venga destinata, in via prioritaria, al pagamento dei residui in conto trasferimenti delle regioni e degli enti locali al fine di consentire agli stessi di procedere al pagamento dei crediti commerciali certi, liquidi ed esigibili vantati dalle imprese nei loro confronti, derivanti dall'acquisizione di beni e servizi, elaborando, altresì, parametri di individuazione delle priorità di pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili vantati dalle imprese verso gli enti locali (ad esempio, anzianità del credito, esigenze di liquidità dell'impresa e altro);
   per quanto concerne le misure fiscali, ad adottare le opportune iniziative normative al fine di:
    a) provvedere ad una riforma strutturale di tutta la procedura dei rimborsi dei crediti iva, disciplinata dall'articolo 38-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 e successive modificazioni, prendendo in considerazione l'ipotesi di aumentare considerevolmente l'attuale limite della compensazione almeno per quelle imprese che abitualmente, proprio in virtù del meccanismo suddetto, si trovano sistematicamente con un credito iva infrannuale da chiedere come rimborso o in compensazione, oppure, in alternativa, consentendo alle aziende di compensare, per tutto l'anno, il credito iva vantato nei confronti dell'erario con tutto ciò che gli adempimenti fiscali impongono di pagare mensilmente, in particolar modo tutte le imposte erariali ed i contributi, concorrendo in tal modo ad operare anche una semplificazione fiscale, in quanto si eviterebbe il sovrapporsi di domande di rimborso da erogare e si richiederebbe la presentazione di una sola polizza fideiussoria alla fine dell'anno ove si evidenzierebbe il residuo credito iva al netto delle compensazioni effettuate nell'anno stesso;
    b) rendere permanente, per i piccoli operatori economici, il pagamento dell'iva al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo, modificando l'articolo 7 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, che prevedeva la sospensione del pagamento dell'iva solo per un anno, ed aumentare il volume d'affari massimo di 200 mila euro previsto per l'applicazione della norma.
(1-00916)
«Borghesi, Barbato, Messina, Di Stanislao, Donadi, Cimadoro, Piffari».
(12 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    le piccole e medie imprese costituiscono la struttura portante della realtà industriale italiana e una risorsa essenziale per il ruolo strategico che ricoprono nel sistema economico del Paese;
    sono consapevoli, queste imprese, di rappresentare un riferimento macroeconomico unitario, tanto che cinque confederazioni nazionali, circa 600 associazioni locali e 2 milioni e mezzo di artigiani e commercianti si sono uniti nella « Rete Imprese Italia» per affermare la loro soggettività imprenditoriale in un mercato che pretende riduzione dei costi e competitività nella salvaguardia di sempre più stringenti principi di concorrenza;
    un recente studio della Commissione europea condotto sulle piccole e medie imprese ne conferma l'importanza per la loro capacità di puntare sull'innovazione e di creare nuova occupazione. Mentre il rapporto Rehn, nella prospettiva della competizione di sistema, ammonisce sulla stringente esigenza di un dimensionamento aziendale e produttivo capace di sopportare le sfide dei mercati globali, dallo studio della Commissione europea è emerso come, tra il 2002 e il 2010, l'85 per cento dei nuovi posti di lavoro è stato creato dalle piccole e medie imprese; nello specifico sono le microimprese che hanno contribuito con più forza alla crescita dell'occupazione. Tuttavia, nel periodo compreso tra il 2009 e il 2010 la crisi ha prodotto effetti dannosi, soprattutto per le piccole imprese che hanno subito un calo medio annuo dei posti di lavoro del 2,4 per cento rispetto alla riduzione dello 0,95 per cento di quelle di grandi dimensioni; un puntuale riscontro si ricava dal dato del decremento del numero delle piccole imprese italiane nella misura di 30.000 unità proprio nell'anno 2009;
    così come, secondo la valutazione di Unioncamere, mentre l'affidabilità complessiva delle piccole e medie imprese si attesta al 34 per cento, quella delle sole imprese di medie dimensioni si colloca oltre il 50 per cento;
    in Italia, su un totale di 4,5 milioni di imprese dell'industria e dei servizi, il 95 per cento di esse sono rappresentate da aziende con meno di 10 addetti, garantendo l'occupazione al 47 per cento dei lavoratori del settore, pari a circa 17,5 milioni;
    date le particolari caratteristiche strutturali di tali aziende, un elemento essenziale da sottolineare è rappresentato da un forte vincolo di dipendenza dal credito bancario. Nel caso delle piccole e medie imprese, infatti, circa il 40 per cento delle loro passività è costituito dal debito nei confronti delle banche;
    secondo i dati della Banca d'Italia, le forti pressioni esercitate sul mercato dei titoli italiani, ma anche la crisi sui debiti sovrani di molti Stati, hanno prodotto conseguenze negative sulle operazioni di raccolta delle banche che, a loro volta, hanno inciso profondamente sulle condizioni di offerta di credito all'economia reale;
    ne è derivata una forte contrazione dei prestiti alle famiglie e un deciso rallentamento dei finanziamenti alle imprese che, di conseguenza, ne penalizza la competitività determinando minori investimenti e ridotte possibilità di crescita, a fronte di un dato secondo il quale le piccole e medie imprese, anche nel corso di questa crisi prolungata, mantengono una propensione all'investimento nella misura dell'80 per cento, contando per il 53 per cento su mezzi propri e per il 39,1 per cento sul credito bancario;
    in un'indagine condotta dalla Banca d'Italia, in collaborazione con Il Sole 24 ore, nel mese di dicembre 2011, la quota di imprese che segnala un peggioramento delle condizioni di accesso al credito è pari al 49,7 per cento, rispetto al 28,6 per cento registrato a settembre 2011: un valore superiore a quello raggiunto nel 2008 al culmine della crisi finanziaria;
    sempre secondo le statistiche di Banca d'Italia, a gennaio 2012 il tasso di crescita sui dodici mesi dei prestiti al settore privato è sceso all'1,6 per cento dal 2,3 per cento di dicembre 2011. Su tali dati ha inciso in particolar modo la riduzione dei prestiti alle società non finanziarie scesa all'1,3 per cento dal 2,6 per cento, mentre il tasso di crescita dei prestiti alle famiglie si è ridotto al 3,1 per cento dal 3,4 per cento;
    le difficoltà di raccolta e di liquidità delle banche italiane, che hanno portato alla stretta creditizia, il cosiddetto credit crunch, si sono ulteriormente aggravate alla fine del 2011;
    i ripetuti interventi della Banca centrale europea hanno evitato che la stretta sul credito producesse effetti ancor più devastanti sull'economia reale. L'obiettivo, infatti, è stato quello di immettere nel sistema bancario liquidità illimitata e a basso prezzo, per dare fiato alle imprese e nuovo slancio ai bilanci bancari. Ciò nonostante, i risultati ottenuti sono stati di gran lunga inferiori rispetto alle aspettative;
    le banche italiane, infatti, in occasione dell'operazione realizzata dalla Banca centrale europea nel dicembre 2011, hanno utilizzato buona parte del prestito di 116 miliardi di euro per acquistare titoli di Stato, cosa che ha sì garantito una riduzione dei tassi d'interesse sul debito pubblico italiano, ma, nello stesso periodo, ha prodotto un calo dei prestiti bancari ad imprese e famiglie di 20 miliardi di euro, a fronte di un aumento a gennaio 2012 del costo dei finanziamenti alle imprese stesse dell'1,3 per cento rispetto allo stesso mese del 2011;
    nel 2011 ben il 71 per cento dell'afflusso di risorse è derivato dalla Banca centrale europea con un apporto pari a 159 miliardi di euro, mentre solo l'11 per cento da depositi e obbligazioni, per un ammontare pari a 24 miliardi di euro;
    recentemente la Banca centrale europea ha avviato un'altra operazione di rifinanziamento all'1 per cento per tre anni, assegnando alle banche un prestito pari a circa 530 miliardi di euro, ancora una volta con lo scopo di porre un freno alla stretta del credito, sostenere il debito sovrano degli Stati e dare nuovo respiro alle imprese europee. Gli istituti italiani avrebbero chiesto circa 139 miliardi di euro;
    i ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione aggravano ulteriormente i problemi di liquidità di molte imprese italiane. La Confindustria stima che nel 2011, per la liquidazione delle fatture, le imprese hanno atteso in media 180 giorni a fronte dei 128 giorni nel 2009. Secondo stime ufficiose, il debito della pubblica amministrazione ammonterebbe a circa 70 miliardi di euro: condizione di sofferenza accentuata e aggravata dal fatto che le imprese sovente ricorrono al credito bancario esclusivamente per il circolante, cioè per garantire la loro sopravvivenza in un tempo in cui l'incasso delle fatture commerciali è divenuto del tutto aleatorio;
    è di fine febbraio 2012 l'accordo contenente le «Nuove misure per il credito alle piccole e medie imprese» sottoscritto dall'Associazione bancaria italiana, alcune associazioni di categoria, il Ministro dello sviluppo economico ed il Viceministro dell'economia e delle finanze. L'accordo prevede diverse tipologie di interventi finanziari a favore delle piccole e medie imprese in modo da garantire loro adeguate risorse e di sostenere la ripresa dell'economia reale;
    è il momento di non indugiare in abusati quanto pleonastici peana in favore delle piccole e medie imprese del sistema Italia per garantire loro il sostegno attivo consentito dalla cornice legislativa comunitaria e dallo sforzo finanziario di tutto il Paese; peraltro, gli interventi mirati qualitativamente e quantitativamente al consolidamento del potenziale produttivo e occupazionale delle piccole e medie imprese entrano a pieno diritto nel novero del rilancio economico dell'intero Paese;
    è condivisibile il discusso sentimento secondo il quale quello delle medie imprese può e deve costituire un modello efficace da sostenere, favorire e irrobustire,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative al fine di aumentare le possibilità di accesso al credito delle piccole e medie imprese, finalizzato ad investimenti in miglioramenti dell'efficienza tecnologica e organizzativa, anche attraverso sistemi più trasparenti nella gestione delle informazioni aziendali e nelle modalità di determinazione dei rating delle aziende da parte delle banche, come presupposto per la costituzione di un fondo finanziato annualmente, a valere sul bilancio del Ministero dello sviluppo economico, che si faccia carico delle spese di accesso al credito delle piccole e medie imprese presso il sistema bancario, nei casi documentati di crediti a bilancio nei confronti di pubbliche amministrazioni centrali e territoriali e dei loro enti di riferimento, nonché di crediti commerciali;
   ad assumere iniziative normative che dispongano di privilegiare, negli interventi a favore delle piccole e medie imprese, quelli che sviluppino in maniera documentata progetti produttivi fondati sul valore della prossimità territoriale, in particolare nei distretti industriali, implementino i processi di economie di filiera e evidenzino efficienti programmazioni di riduzione della delocalizzazione produttiva;
   ad assumere iniziative di semplificazione e di vantaggio per i processi di condivisione tra le piccole e medie imprese delle attività di ricerca e sviluppo, nella logica imprenditoriale condivisa della costruzione di sinergie territoriali, dando priorità alle aziende che avviino concreti progetti interregionali;
   a dare immediata esecuzione all'accordo sottoscritto a fine febbraio 2012, al fine di sostenere le piccole e medie imprese e garantire la ripresa dell'economia reale;
   ad assumere ogni altra iniziativa volta a recuperare le risorse necessarie per risolvere l'annosa questione dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione e ridurre in tal modo il debito non più tollerabile nei confronti delle piccole e medie imprese, senza traslazione di oneri sui bilanci delle famiglie.
(1-00924)
«Mosella, Fabbri, Lanzillotta, Pisicchio, Tabacci, Versace, Vernetti, Brugger».
(13 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    il tessuto imprenditoriale italiano è composto da 4,5 milioni di aziende, di cui il 99,8 per cento sono classificabili come micro, piccole e medie imprese, con una quota degli occupati pari circa all'81,7 per cento del totale, con un livello del valore aggiunto prodotto che si attesta intorno al 72,5 per cento del valore complessivo;
    sul totale delle micro, piccole e medie imprese, le statistiche mostrano che le microimprese (meno di 10 addetti) costituiscono la stragrande maggioranza, con una quota pari al 94,8 per cento;
    appare necessario, stante la grave crisi che coinvolge soprattutto le micro, piccole e medie imprese, attuare manovre e applicare norme che consentano alle stesse di usufruire di un po’ di ossigeno per non rischiare che entrino nel tunnel della chiusura definitiva della propria attività, con le conseguenze facilmente immaginabili per l'occupazione e per l'economia del Paese;
    le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale prospettano un rischio recessione per la l'economia, con un calo del prodotto interno lordo del 2,2 per cento nel 2012;
    ciò pone la classe dirigente del Paese, la politica e il Governo davanti all'urgenza di scelte immediate e non più rinviabili, stante l'assunto da tutti riconosciuto che senza una ripresa dello sviluppo si è condannati al fallimento;
    la crisi ha, comunque, accentuato le difficoltà – invero presenti da numerosi anni – per il cuore del sistema economico italiano, le piccole e medie imprese, di reperire le risorse necessarie per continuare ad operare e crescere in un mercato dominato da una logica di profitto a breve termine, in cui i capitali vengono attirati dalle attività più speculative, determinando un preoccupante e dannoso deficit di risorse per il settore, che rappresenta la maggior parte dell'occupazione in Italia e che contraddistingue un tessuto economico basato sull'innovazione, la flessibilità e la solidarietà;
    infatti, dagli anni Novanta è iniziata una commistione tra le attività finanziarie ordinarie, rappresentate dai depositi, i mutui, i prestiti alle imprese, e le attività speculative che, negli ultimi anni in particolare, hanno mostrato la loro vera natura minacciando di gettare il mondo in una depressione economica senza paragoni. Di fronte a questa prospettiva, Governi e le banche centrali hanno attuato numerosi salvataggi, caricando sui contribuenti ulteriori debiti prodotti da chi ha speculato per conto proprio;
    è necessario garantire che il sistema finanziario sia al servizio dell'economia reale, a differenza della tendenza degli ultimi anni in cui le attività puramente speculative hanno preso il sopravvento sul resto dell'economia, provocando anche un forte deficit di investimenti nei beni e servizi necessari per mantenere e accrescere il tenore di vita della popolazione;
    la Commissione europea, già nel 2008, pubblicò lo small business Act che stabiliva i 10 principi che si sarebbero dovuti adottare dai Governi per garantire il sostegno delle piccole e medie imprese, ovvero: dar vita a un contesto in cui imprenditori e imprese familiari possano prosperare e che sia gratificante per lo spirito imprenditoriale; far sì che imprenditori onesti, che abbiano sperimentato l'insolvenza, ottengano rapidamente una seconda possibilità; formulare regole conformi al principio «pensare anzitutto in piccolo»; rendere le pubbliche amministrazioni permeabili alle esigenze delle piccole e medie imprese; adeguare l'intervento pubblico alle esigenze delle piccole e medie imprese; facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici e usare meglio le possibilità degli aiuti di Stato per le piccole e medie imprese; agevolare l'accesso delle piccole e medie imprese al credito e sviluppare un contesto giuridico ed economico che favorisca la puntualità dei pagamenti nelle transazioni commerciali; aiutare le piccole e medie imprese a beneficiare delle opportunità offerte dal mercato unico; promuovere l'aggiornamento delle competenze nelle piccole e medie imprese e ogni forma di innovazione; permettere alle piccole e medie imprese di trasformare le sfide ambientali in opportunità; incoraggiare e sostenere le piccole e medie imprese perché beneficino della crescita dei mercati;
    l'Italia ha dato attuazione alla comunicazione della Commissione europea del 2008 con la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 4 maggio 2010 sullo small business Act;
    dai monitoraggi effettuati nel corso degli anni, è risultato che l'Italia è il Paese dell'Unione europea con il maggior numero di imprese di piccole dimensioni. Infatti, più di una piccola e media impresa europea su cinque è italiana e le piccole e medie imprese nel loro insieme rappresentano il 99,8 per cento del totale delle imprese europee. Più di nove su dieci hanno meno di dieci dipendenti e in esse trovano occupazione due terzi dei lavoratori europei. Le aziende artigiane, inoltre, sono 5 milioni e la microimpresa italiana crea il 31,5 per cento del valore aggiunto del Paese, mentre in altri Paesi come Inghilterra e Germania il dato è circa la metà;
    nonostante la grave crisi economica e finanziaria che ha colpito il nostro Paese, le piccole e medie imprese costituiscono ancora il volano dell'occupazione italiana;
    le difficoltà che le micro, piccole e medie imprese sono chiamate ad affrontare in un periodo di grave crisi economica sono di carattere legislativo, creditizio e finanziario;
    la crisi economica e finanziaria ha ridotto drasticamente la possibilità delle piccole e medie imprese di accedere al credito. Ciò le priva, in molti casi, di quell'ossigeno necessario alla sopravvivenza e impedisce alle stesse imprese di programmare nuovi investimenti;
    l'origine finanziaria della crisi globale ha evidenziato la necessità di intervenire, nell'ottica di patrimonializzare, sugli istituti di credito e sugli eccessivi livelli di rischio che essi assumono;
    al fine di scongiurare il verificarsi di una nuova crisi finanziaria si è intervenuti apportando significative modifiche all'accordo noto con il nome di «Basilea 2», stilando il testo del «Basilea 3». In base agli accordi raggiunti, il requisito minimo per il common equity – la componente di capitale con la maggiore capacità di assorbire le perdite – sarà innalzato dall'attuale livello del 2 per cento al 4,5 per cento;
    il nuovo coefficiente sarà introdotto con gradualità entro il 1o gennaio 2015;
    il requisito per il patrimonio di base, che, oltre al common equity, comprenderà altri strumenti finanziari computabili sulla base di criteri più stringenti rispetto agli attuali, sarà elevato dal 4 al 6 per cento nell'arco dello stesso periodo;
    è stato, altresì, stabilito che il capital conservation buffer (cuscinetto di protezione del patrimonio), aggiuntivo rispetto ai requisiti minimi regolamentari, sia calibrato al 2,5 per cento e costituito da common equity al netto delle deduzioni e sarà applicato a seconda delle specifiche situazioni nazionali;
    lo scopo del nuovo buffer di capitale è quello di assicurare che le banche mantengano un cuscinetto di capitale da poter impiegare per assorbire le perdite durante i periodi di stress finanziario ed economico. Da un lato, le banche potranno attingere a tale risorsa in situazioni di stress, dall'altro, quanto più i loro coefficienti patrimoniali regolamentari si avvicineranno al requisito minimo, tanto maggiori saranno i vincoli posti alla distribuzione degli utili. Tali coefficienti patrimoniali sono integrati da un indice di leva finanziaria non basato sul rischio, che funge da supporto ai coefficienti descritti in precedenza basati sul rischio;
    inoltre, è stato deciso di sperimentare un coefficiente minimo di leva finanziaria per il patrimonio di base del 3 per cento durante il corrispondente periodo di sperimentazione;
    a seconda dei risultati della fase sperimentale, gli eventuali aggiustamenti definitivi saranno apportati nella prima metà del 2017, con l'obiettivo di trasformarlo, a partire dal 1o gennaio 2018, in requisito minimo nell'ambito del primo pilastro del regime di «Basilea 2», subordinatamente a un'appropriata revisione delle regole di calcolo e alla fissazione del livello di calibrazione;
    sono state previste disposizioni transitorie per l'applicazione dei nuovi standard, fatto che contribuirà ad assicurare che il settore bancario sia in grado di rispettare coefficienti patrimoniali più elevati, attraverso ragionevoli politiche di accantonamento degli utili e di aumenti di capitale, assicurando in pari tempo il credito all'economia;
    in aggiunta, dopo un periodo di osservazione che prenderà avvio nel 2011, l'indice di copertura della liquidità a breve sarà introdotto il 1o gennaio 2015. L'indicatore strutturale dell'equilibrio finanziario sarà trasformato in requisito minimo il 1o gennaio 2018;
    in sintesi: i principali timori di «Basilea 3» sono riconducibili, da un lato, all'utilità e all'efficacia dell'accordo e, dall'altro, alle conseguenze che esso potrebbe avere sulle imprese e, più in generale, sull'economia reale;
    ad essere maggiormente penalizzati sono i Paesi con modelli di business come l'Italia, fondati, cioè, sul canale del credito bancario per il finanziamento alle imprese;
    le lentezze di ordine burocratico e i tempi ormai incredibilmente lunghi della giustizia civile costituiscono degli ulteriori ostacoli per le piccole e medie imprese che ne escono fortemente penalizzate per la difficoltà di veder soddisfatti i propri crediti in tempi ragionevoli,

impegna il Governo:

   a verificare e, se necessario, ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché sia assicurata l'erogazione del credito, al fine di prevenire e scongiurare che le stesse imprese e le famiglie debbano pagare le eventuali conseguenze negative dell'applicazione dei nuovi parametri patrimoniali previsti da «Basilea 3»;
   a migliorare il rapporto tra pubblica amministrazione e aziende, potenziando, se necessario, il fondo di garanzia al fine di rendere meno difficoltoso l'accesso al credito dei piccoli e medi imprenditori;
   a promuovere un quadro organico di interventi a favore delle micro, piccole e medie imprese, asse portante dell'economia italiana;
   a promuovere le necessarie iniziative normative per ovviare ai ritardi nei pagamenti delle transazioni, in particolar modo quelle che interessano le pubbliche amministrazioni;
   ad attivare politiche tese a ridurre la pressione fiscale, in particolare sulle imprese di piccole e medie dimensioni e sulle famiglie;
   a sostenere l'internazionalizzazione, l'innovazione e la ricerca, la cooperazione in reti, oltre che la tutela del made in Italy, presupposto indispensabile per mantenere in vita molte imprese artigiane;
   a verificare la possibilità di assumere iniziative per una proroga dei pagamenti dovuti all'erario per le imprese colpite, a vario titolo, dagli ultimi eventi atmosferici disastrosi a partire dalla zone dove è stato riconosciuto lo stato di calamità.
(1-00929)
«Polidori, Moffa, Calearo Ciman, Catone, D'Anna, Grassano, Gianni, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Razzi, Romano, Ruvolo, Scilipoti, Siliquini, Stasi, Taddei».
(15 marzo 2012)

   La Camera,
   premesso che:
    i problemi connessi alla crisi dei debiti sovrani e gli interventi regolamentari che hanno imposto alle banche di procedere ad ingenti ricapitalizzazioni contribuiscono all'acutizzarsi delle difficoltà nell'accesso al credito;
    conseguentemente, le piccole e medie imprese, che costituiscono la spina dorsale del tessuto economico e produttivo del nostro Paese e che, nel loro complesso, rappresentano i tre quarti della forza lavoro dipendente ed il 98 per cento delle aziende italiane, stanno correndo un grossissimo rischio, quello di vedersi chiudere totalmente i «rubinetti» del credito. Tutto ciò va ad aggiungersi ai ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni;
    la normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3», prevede un generale inasprimento dei requisiti patrimoniali per le banche che, se da una parte accresce la fiducia nella solvibilità delle banche medesime, dall'altra rischia di tradursi in maggiori costi per il sistema produttivo, specialmente per le piccole e medie imprese che sono da sempre «banco-centriche», mentre le poche grandi aziende italiane si rivolgono direttamente al mercato;
    la crisi economica ha fatto diminuire il fatturato delle piccole e medie imprese italiane del 30 per cento, inducendo le banche a chiedere loro il rientro dai fidi concessi in tempi ristretti e il numero percentuale delle piccole e medie imprese che negli ultimi mesi ha avuto problemi di accesso ad un finanziamento bancario è pari al 43 per cento;
    l'Autorità bancaria europea (european banking Authority) ha adottato una raccomandazione che prevede la creazione, entro il prossimo mese di giugno 2012, di una riserva supplementare di fondi propri da parte delle banche, chiedendo di aumentare il «Core Tier 1» delle banche stesse, portandolo al 9 per cento minimo. Tali requisiti non stanno diffondendo la fiducia che l'Autorità bancaria europea si proponeva;
    per la valutazione del rischio, l'Autorità bancaria europea ha usato il criterio market to market, ossia l'attribuzione non del valore nominale o cedolare dei titoli ma il prezzo corrente di mercato, che per i titoli sovrani italiani detenuti dalle banche italiane ha significato un deprezzamento di oltre il 15 per cento del valore nominale, con effetti pesanti sui mercati e sulle minusvalenze dei conti;
    l'Associazione bancaria italiana ha proposto l'introduzione di specifici coefficienti, per esempio, il pmi supporting factor da applicare all'ammontare destinato a riserva secondo i parametri di «Basilea 3» per far sì che i rigidi requisiti patrimoniali richiesti non si traducano una restrizione ulteriore di erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
    la Banca centrale europea ha attivato, l'8 dicembre 2011, due finanziamenti straordinari (il long term refinancing operation-ltro), della durata di 36 mesi a favore delle banche, allo scopo di garantire l'accesso alla liquidità agli istituti di credito, per oltre 1.000 miliardi di euro e più precisamente, il 21 dicembre 2011, la prima asta ha visto assegnare oltre 489 miliardi di euro e la seconda, il 29 febbraio 2012, quasi 530 miliardi di euro, al tasso fisso dell'1 per cento. Le banche italiane hanno fatto ricorso a questo finanziamento rispettivamente per 116 miliardi di euro la prima volta e per 139 di euro miliardi la seconda, che in parte sono andati al riassorbimento di operazioni in scadenze a breve;
    il governatore della Banca d'Italia, in suo recente intervento all'Assiom Forex, ha detto che: «le imprese si trovano a dover fronteggiare un inasprimento delle condizioni creditizie» ed ha invitato le banche a «valutare attentamente il merito di credito, senza far mancare il sostegno finanziario ai clienti solvibili e meritevoli»;
    presso il Ministero dello sviluppo economico è istituito il fondo centrale di garanzia con lo scopo di favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, attraverso il rilascio di una garanzia pubblica sui finanziamenti erogati dalle banche;
    l'analisi annuale per la crescita 2012, presentata dalla Commissione europea il 23 novembre 2011 (COM(2011)815 def.) prevede espressamente di «ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia» e pone «l'esigenza di garantire che le banche rafforzino i propri coefficienti patrimoniali consolidando le proprie posizioni patrimoniali e non limitando indebitamente l'erogazione di prestiti all'economia reale» e di «rivedere le norme prudenziali per evitare che penalizzino indebitamente l'erogazione di prestiti alle piccole e medie imprese»;
    altro fattore di forte criticità per le imprese è dato dai ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione: l'ammontare complessivo viene stimato intorno ai 70 miliardi di euro e l'entità dei ritardi accumulati ammonta mediamente a 128 giorni, contro una media europea di 65 giorni, con un range che va da un minimo di 92 ad un massimo di 664 giorni,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative al fine di aumentare le possibilità di accesso al credito delle piccole e medie imprese, finalizzato ad investimenti per l'innovazione dei prodotti e dei processi;
   ad adoperarsi in sede europea al fine di:
    a) sospendere l'entrata in vigore delle misure volte a fissare livelli più elevati per i coefficienti patrimoniali delle banche;
    b) intervenire in merito ai requisiti patrimoniali delle banche affinché siano introdotti meccanismi correttivi per la ponderazione del rischio di credito relativo ai prestiti alle piccole e medie imprese;
   ad adottare iniziative normative volte a rendere più veloci i pagamenti dei crediti della pubblica amministrazione, accellerando il recepimento e l'applicazione della direttiva 2011/7/UE;
   ad assumere iniziative volte a istituire un fondo presso la Cassa depositi e prestiti, atto ad accollarsi l'onere della parte di debiti, delle autonomie locali, verso le piccole e medie imprese garantiti da disponibilità a bilancio ma non utilizzabili per i vincoli del rispetto del patto di stabilità interno.
(1-00948)
«Cambursano, Giulietti, Giorgio Merlo, Barbi, Zampa, Mario Pepe (PD), Portas, Marmo, La Forgia, Santagata, Recchia».
(21 marzo 2012).

   La Camera,
   premesso che:
    sebbene sia stata innescata dai crack finanziari di soggetti privati internazionali prima e dai rischi di insolvenza dei debiti sovrani in seguito, la crisi che sta attraversando l'Italia ha origini più antiche ed interne poiché l'Italia registrava bassi tassi di sviluppo già dall'inizio degli anni 2000;
    le piccole e medie imprese rappresentano un patrimonio di fondamentale importanza per l'economia italiana e uno dei principali elementi di vitalità del nostro Paese, ma rappresentano altresì il settore che sta maggiormente soffrendo dell'attuale contingenza economica;
    nell'attuale scenario, oltre al calo della domanda interna ed estera, le difficoltà incontrate dalle piccole e medie imprese sono di ordine finanziario e possono essere principalmente ricondotte a due ordini di problemi: le difficoltà di accesso al credito e di rientro dei prestiti ricevuti dalle banche; i ritardi dei pagamenti dei crediti vantati nei confronti sia della pubblica amministrazione, sia dei clienti privati;
    in tema di credito non ha certo giovato l'introduzione dei nuovi requisiti patrimoniali per gli istituti bancari, previsti dall'accordo «Basilea 3», per garantire la stabilità del sistema che ha determinato effetti restrittivi nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
    oltre agli effetti derivanti dall'accordo «Basilea 3», le banche italiane devono scontare anche le conseguenze derivanti dalla richiesta dell'Autorità bancaria europea alle banche europee di aumentare la propria capitalizzazione, al fine di rafforzare la fiducia dei mercati nella capacità degli istituti di credito di fronteggiare gli shock provenienti dal fronte dei debiti sovrani;
    la seconda long term refinancing operation (ltro) della Banca centrale europea ha assegnato 529,53 miliardi di euro in asta a 36 mesi al tasso dell'1 per cento e segue quella di 489 miliardi di euro collocati a dicembre 2011, entrambe finalizzate a stimolare la concessione di prestiti da parte delle banche;
    in questa delicata fase, i consorzi di garanzia collettiva dei fidi hanno continuato a svolgere un'importante funzione e a rappresentare uno strumento efficace nel migliorare le condizioni di accesso ai prestiti e nell'aumentare la qualità del credito bancario alle imprese, soprattutto di minore dimensione, consentendo, in particolare, a quelle associate a consorzi di garanzia di ottenere linee di credito a tassi d'interesse più bassi rispetto a quelle non associate;
    in tal senso, infatti, l'Italia rappresenta un caso di successo in termini di penetrazione della garanzia sul totale dei finanziamenti concessi alle imprese;
    tuttavia, mentre i Paesi esteri si caratterizzano per la presenza di schemi di filiera della garanzia semplici e strettamente correlati alle politiche economiche e industriali «centrali», nonché per l'assenza di capillarità distributiva e contribuzione privata alla formazione delle risorse a sostegno della filiera stessa, l'Italia, al contrario, presenta un modello distributivo molto sviluppato e con forti legami sul territorio, basato essenzialmente sul soggetto confidi quale attore principale della garanzia diretta e di primo livello, ma, al contempo, la filiera è lunga e complessa, con molte sovrapposizioni tra i diversi attori, istituzionali e non, e una minore focalizzazione di politica economica;
    si segnala, tuttavia, che è stato recentemente sottoscritto il nuovo accordo tra i rappresentanti dell'Associazione bancaria italiana e le associazioni d'impresa con il Ministro dello sviluppo economico ed il Viceministro dell'economia e delle finanze Vittorio Grilli: la moratoria riguarderà tutte le linee di credito aperte dalle imprese, così da consentire a tutte le piccole e medie imprese di beneficiare della sospensione delle rate di mutui e leasing;
    in tema di ritardo nei pagamenti dalla pubblica amministrazione in Italia (che costano alle piccole e medie imprese 3,7 miliardi di euro di oneri finanziari), è stato stimato che, al termine contrattuale di 90 giorni, si somma un ritardo medio di altri 90 giorni, per un totale di 180 giorni, il che rende la pubblica amministrazione italiana il peggiore pagatore d'Europa. Tuttavia, sebbene nel Mezzogiorno il cliente prevalente delle imprese è la pubblica amministrazione, nel Nord e nel Centro, invece, i clienti sono soprattutto privati e anche qui la situazione è difficilissima, anche perché le azioni legali sono costose per la lunghezza dei tempi della giustizia e spesso inefficaci;
    la scarsa liquidità e l'insolvibilità non spiegano da sole la crisi che sta attraversando il mondo delle piccole e medie imprese. Esistono anche altri fattori che hanno determinato questa situazione legati alla redditività e alla capacità delle imprese di restare competitive,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative presso le competenti sedi europee al fine di mitigare gli effetti, in particolare con riferimento all'accesso al credito delle piccole e medie imprese, derivanti dall'applicazione delle nuove regole stabilite dall'Unione europea in materia di coefficenti patrimoniali e di capitalizzazione delle banche italiane;
   a promuovere iniziative che agevolino la destinazione delle due tranche di prestiti che la Banca centrale europea ha erogato in favore degli istituti bancari, principalmente a finanziamenti rivolti all'economia reale, in particolare alle aziende piccole e medie;
   ad adottare iniziative volte a rafforzare il ruolo e l'operatività dei consorzi di garanzia collettiva fidi;
   a ridefinire e semplificare la filiera italiana delle garanzie oggetto di finanziamento ai privati (retail), preservandone la natura fortemente sussidiaria e basata sullo strumento dei confidi;
   ad adottare iniziative, anche di carattere normativo, finalizzate a disciplinare una reale compensazione tra i crediti commerciali verso la pubblica amministrazione e i debiti tributari.
(1-00970)
«Ciccanti, Galletti, Anna Teresa Formisano, Ruggeri, Pezzotta, Occhiuto, Compagnon, Naro, Volontè, Poli, Libè».
(26 marzo 2012).

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   BARBIERI e SCALERA. — Al Ministro per i beni e le attività culturali. — Per sapere – premesso che:
   recentemente vi sono stati ulteriori danneggiamenti del sito archeologico di Pompei, con il distacco di un pezzo di intonaco rosso pompeiano di circa un metro e mezzo nella Casa di Venere in conchiglia, situata a circa trenta metri dalla Schola armaturarum, nonché il distacco di un pezzo di intonaco grezzo di circa un metro dal paramento esterno della parete orientale del Tempio di Giove;
   sono stati stanziati 105 milioni di euro dal Commissario europeo Johannes Hahn per gli interventi stabiliti dal Ministero per i beni e le attività culturali per il restauro delle cinque domus più a rischio;
   da notizie di stampa si apprende che la pubblicazione del primo avviso di gara per la realizzazione degli interventi di restauro avrà luogo il 5 aprile 2012 a Napoli, con una cerimonia ufficiale alla quale parteciperanno i Ministri competenti;
   analoghe informazioni di stampa indicano che sarà affidato ad un prefetto ad hoc il compito di vigilare che gli stanziamenti assegnati dall'Unione europea siano finalizzati alla realizzazione degli interventi programmati –:
   quali iniziative intenda adottare per assicurare in tempi certi la realizzazione degli interventi di restauro programmati del sito archeologico di Pompei. (3-02185)
(3 aprile 2012)

   DOZZO, BOSSI, LUSSANA, FOGLIATO, MONTAGNOLI, FEDRIGA, FUGATTI, ALESSANDRI, ALLASIA, BITONCI, BONINO, BRAGANTINI, BUONANNO, CALLEGARI, CAPARINI, CAVALLOTTO, CHIAPPORI, COMAROLI, CONSIGLIO, CROSIO, D'AMICO, DAL LAGO, DESIDERATI, DI VIZIA, DUSSIN, FABI, FAVA, FOLLEGOT, FORCOLIN, GIDONI, GIANCARLO GIORGETTI, GOISIS, GRIMOLDI, ISIDORI, LANZARIN, MAGGIONI, MARONI, MARTINI, MERONI, MOLGORA, LAURA MOLTENI, NICOLA MOLTENI, MUNERATO, NEGRO, PAOLINI, PASTORE, PINI, POLLEDRI, RAINIERI, REGUZZONI, RIVOLTA, RONDINI, SIMONETTI, STEFANI, STUCCHI, TOGNI, TORAZZI, VANALLI e VOLPI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   con più di un atto di sindacato ispettivo la Lega Nord aveva sollevato la problematica dei lavoratori cosiddetti esodati, ovvero di coloro che avevano concluso una trattativa, in base alla previgente normativa, per andare in pensione ed ora non possono più farlo perché son cambiate le regole di accesso ed i requisiti richiesti, ma purtroppo sono al contempo rimasti senza posto di lavoro e, quindi, ovviamente senza stipendio;
   a titolo di memoria, si citano l'interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3-02000 e gli ordini del giorno n. 9/4865-AR/99, accolto dal Governo in data 26 gennaio 2012, e n. 9/04865-B/41, accolto dal Governo in data 23 febbraio 2012;
   il Ministro interrogato ha dichiarato – e ribadito – che avrebbe monitorato la problematica e che nessuno dei lavoratori in mobilità alla data del 31 dicembre 2011 sarebbe rimasto senza copertura reddituale, perché le risorse indicate erano sufficienti per garantire tutti i lavoratori che a tale data si fossero trovati in mobilità;
   secondo l'articolo di stampa de Il Corriere della Sera di venerdì 30 marzo 2012, invece, le risorse sono insufficienti perché il Governo aveva calibrato la salvaguardia su 65 mila lavoratori, mentre le stime approssimative quantificano il dato in 350 mila lavoratori;
   ancora secondo notizie di stampa, il Ministro interrogato si sarebbe impegnato a risolvere la questione entro il 30 giugno 2012, preannunciando la presentazione di un apposito decreto-legge che dovrà prevedere anche nuove risorse, destinate a fornire una sorta di «mini-sussidio» ai lavoratori che dovessero rimanere fuori dalla possibilità di andare in pensione con le vecchie regole e che correrebbero il rischio di rimanere per qualche anno senza stipendio e senza pensione, dichiarando, peraltro (si veda il convegno de Il Sole 24 ore del 19 marzo 2012), l'intento di salvaguardare nell'immediato alcuni lavoratori «più deboli», mentre altri «più forti» potranno vedere maturare il loro diritto alla pensione con un differimento di un anno ed altri ancora saranno esclusi;
   se corrispondesse al vero che il Governo stia riconsiderando la platea dei cosiddetti lavoratori esodati – come individuati prima dal decreto-legge n. 214 del 2011 e successivamente dal decreto-legge n. 216 del 2011 – vorrebbe dire che persevera nel proposito di creare cittadini di serie A, di serie B e persino di serie C, contravvenendo ad ogni principio di equità sociale;
   il Sottosegretario per l'economia e le finanze, Gianfranco Polillo, nel corso della trasmissione In Onda su La7, di lunedì 2 aprile 2012, ha ipotizzato come soluzione alternativa la previsione di rendere nulli gli accordi ovvero di rivedere quelli che vietano a chi ha siglato l'accordo con l'azienda di cercare un altro lavoro, proposte non piaciute al Ministro interrogato –:
   quali siano realmente le ipotesi allo studio del Governo per risolvere la questione dei lavoratori cosiddetti esodati e se lo stesso Governo possa garantire che le nuove ed ulteriori risorse necessarie per la salvaguardia di tutti i lavoratori interessati – nessuno escluso – non siano reperite attraverso un aumento della pressione fiscale ovvero del costo del lavoro, ricordando il tentativo fatto in occasione dell'esame del «decreto-legge milleproroghe» di aumentare le aliquote contributive per artigiani e commercianti a copertura degli oneri. (3-02186)
(3 aprile 2012)

   PEZZOTTA, GALLETTI, POLI, CICCANTI, COMPAGNON, NARO, VOLONTÈ, CERA, DELFINO e CALGARO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   sono circa 350 mila le persone (con le famiglie si arriva a oltre un milione) che, per effetto della recente riforma previdenziale e per aver sottoscritto accordi individuali o collettivi di mobilità o uscita incentivata dalle aziende dove lavoravano (Poste italiane, Ibm e molte aziende private), si trovano senza più lavoro, né pensione;
   si tratta di persone che oggi sono costrette a vivere nell'incertezza, a ridurre le loro condizioni di vita e a comprimere radicalmente tutte le spese per la famiglia, comprese quelle destinate all'istruzione dei figli e alla cura parentale, e che vantano lunghi anni di onorato lavoro e, in moltissimi casi, più di trent'anni di contributi;
   oggi queste persone vivono una drammatica e umanamente intollerabile situazione di insicurezza –:
   come intenda affrontare la questione e con quali tempi, in modo da garantire a queste persone un reddito adeguato alle necessità e al lavoro svolto. (3-02187)
(3 aprile 2012)

   MADIA, MARAN, LENZI, QUARTIANI, GIACHETTI, DAMIANO, BELLANOVA, BERRETTA, BOBBA, BOCCUZZI, CODURELLI, GATTI, GNECCHI, MATTESINI, MIGLIOLI, MOSCA, RAMPI, SANTAGATA e SCHIRRU. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   dopo le note e più che giustificate polemiche sulla così detta «clausola 10» dei contratti di consulenza predisposti e sottoposti alla sottoscrizione da parte della concessionaria pubblica di emittenza televisiva, il direttore generale della Rai Lorenza Lei dichiarò di non avere alcuna difficoltà a togliere la contestata clausola sulla maternità;
   è stata salutata con soddisfazione tale disponibilità, così come l'impegno del Ministro interrogato di incontrare la dirigenza Rai al fine di addivenire rapidamente al superamento di una situazione che oggettivamente rappresenta un segnale preoccupante – oltre che un evidente pregiudizio per la condizione delle tante lavoratrici e dei lavoratori coinvolti – circa la conciliazione della prestazione lavorativa con la condizione di maternità, di malattia o di infortunio, soprattutto per alcune figure contrattuali cui troppo spesso si ricorre per prestazioni e mansioni che non sempre sembrano corrispondere all'effettiva attività svolta –:
   quali iniziative il Ministro interrogato abbia già assunto o intenda assumere al fine di assicurare che la concessionaria televisiva pubblica riveda definitivamente tale pratica all'interno dei contratti applicati per il personale a termine. (3-02188)
(3 aprile 2012)

   PORCINO, CIMADORO, DONADI, BORGHESI, EVANGELISTI, BARBATO, MESSINA e ANIELLO FORMISANO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   i livelli raggiunti da benzina e gasolio oggi sono da record. Dopo gli ultimi rincari annunciati da Q8 ed Esso, la benzina, a livello di media nazionale, si avvicina ormai inesorabilmente a quota 1,80 euro al litro, una soglia, tra l'altro, ampiamente superata in alcune aree del Centro, dove si arriva a sfiorare la quota di 1,87 euro al litro. Il diesel, da parte sua, è ormai mediamente oltre 1,73 euro al litro, con picchi al Sud superiori a 1,77 euro al litro;
   ormai la direzione è quella dei 2 euro, tanto che si sono registrate punte massime, per la verde, di 1,95 euro nei distributori del Centro Italia (dove la benzina sembra costare qualcosa di più che nel resto del Paese). Una situazione davvero insostenibile per le famiglie italiane e che rischia di aggravarsi ulteriormente se il Governo deciderà di attuare la modifica dell'iva al 23 per cento, come deciso nel decreto-legge n. 201 del 2011;
   i rincari maggiori sono stati effettuati sul gasolio (non a caso la quota di vetture diesel era aumentata negli ultimi anni), che ora arriva quasi a sfiorare il prezzo della benzina verde. Non a caso si registrano punte di 1,85 euro al litro e una media nazionale che si aggira tra 1,76 e 1,80 euro al litro;
   il costo della benzina verde è aumentato in 12 anni di quasi l'80 per cento, passando da 1,08 euro al litro a oltre 1,80 euro al litro. Sorte peggiore è toccata al gasolio, che è aumentato del 95 per cento, passando da 0,89 euro al litro a 1,75 euro e oltre;
   negli ultimi mesi i prezzi della benzina verde e del gasolio si stanno, dunque, avvicinando a quota 2 euro al litro, con conseguenze pesanti per i budget familiari, non solo relativamente al costo del trasporto, ma anche di riflesso sui prezzi di tutti i generi di prima necessità;
   il settore dei carburanti è un settore in cui non c’è vera concorrenza e chi controlla tutta la filiera, dai pozzi petroliferi alla pompa, ossia le grandi compagnie, può fare il bello e il cattivo tempo;
   il Governo può e deve intervenire con diversi strumenti:
    a) tenendo conto che sul prezzo della benzina incide «una tassa sulla tassa», si può agire ristabilendo l'accisa mobile: un meccanismo previsto dalla legge finanziaria per il 2008 del Governo Prodi, che prevedeva una riduzione trimestrale delle accise compensata dalle maggiori entrate dell'iva che lo Stato incassa ad ogni aumento del prezzo dei prodotti petroliferi;
    b) dando piena attuazione alle norme previste sulla liberalizzazione della distribuzione dei carburanti, superando con un'azione di Governo decisa ed attenta tutte le prevedibili resistenze che le compagnie petrolifere metteranno in atto per impedire l'attuazione di tali disposizioni;
    c) creando una borsa dei carburanti, che può innescare meccanismi di concorrenza e di ribasso dei prezzi;
    d) monitorando le difficoltà tecnico-burocratiche che oggi, di fatto, continuano a scoraggiare i gruppi della grande distribuzione organizzata ad aprire nuovi impianti presso gli ipermercati ed i supermercati –:
   quali concrete misure ed iniziative intenda assumere il Governo al fine di calmierare gli aumenti dei prezzi dei carburanti. (3-02189)
(3 aprile 2012)

   CATONE. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   la tangenziale di Napoli, nell'attraversare il tratto Vomero-Fuorigrotta, incide fortemente per circa 1,2 chilometri nel tratto abitato con immissioni rumorose superiori ai 75 decibel, come risulta dalle verifiche effettuate dall'Arpac, causando l'invivibilità della medesima fascia di abitazioni che abbraccia oltre 3.000 persone, con tutti i problemi legati, oltre che al mancato riposo, alle conseguenze che questo comporta: stress, difficoltà di concentrazione nello studio e nel lavoro, diffusione di malattie respiratorie come asma, tumori;
   le normative vigenti in tema di inquinamento acustico prevedono un limite di emissioni per le zone residenziali pari a 65 decibel;
   la tangenziale costruita negli anni ’70, ovvero successivamente all'edificazione delle zone interessate risalente agli anni ’50 e ’60, attraversa in quel tratto aree prettamente residenziali, non essendoci insediamenti industriali o produttivi, ma addirittura scuole, case di cura, limitate attività commerciali ed aree a verde, dove è obbligatorio rispettare per legge (si fa riferimento a tutta la normativa di settore oltre al dettato costituzionale) tutte le disposizioni normative per il contenimento e la prevenzione dell'inquinamento acustico ed ambientale del traffico veicolare, nonché il piano di zonizzazione acustica esistente;
   la Tangenziale di Napoli spa, concessionaria dell'Anas, a giudizio dell'interrogante, non rispetta in modo più assoluto i limiti di immissione imposti dalla legge n. 447 del 1995 e successive, non solo mancando di opere recenti di adeguamento alle mutate normative, ma anche non adottando nemmeno le più elementari cautele dovute al sempre crescente aumento dei passaggi che sfiora le 500 mila unità giornaliere; non viene previsto, almeno nelle more di provvedimenti definitivi, quantomeno il rispetto dei limiti di velocità propri dei tratti urbani, al fine di evitare, con tutti i dispositivi necessari, che le auto vadano ad oltre 80 chilometri all'ora, di giorno e di notte –:
   quali iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, si intendano adottare, anche intervenendo nei confronti della società Tangenziale di Napoli spa, concessionaria dell'Anas, affinché siano rispettate le norme vigenti in materia di inquinamento acustico e sia tutelato il diritto alla salute dei cittadini residenti in prossimità della tangenziale. (3-02190)
(3 aprile 2012)

   PORFIDIA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   l'aeroporto Grazzanise in provincia di Caserta è stato costruito dopo la seconda metà degli anni ’60 ed è stato intitolato alla memoria di Carlo Romagnoli, asso dell'Aeronautica militare italiana. Si tratta di un aeroporto militare aperto al traffico civile autorizzato dal 25 novembre 2004, che consta di una sola pista in conglomerato bituminoso e di una pista di rullaggio parallela a questa;
   nel febbraio 2008 è stato firmato un protocollo d'intesa tra il presidente della regione Campania e il Ministro dei trasporti pro tempore per la realizzazione del nuovo aeroporto di Napoli-Grazzanise;
   in tal modo il traffico aereo in eccesso dell'aeroporto di Napoli verrebbe «delocalizzato» su Grazzanise, creando un sistema aeroportuale integrato, che comprenderà anche l'aeroporto di Salerno-Pontecagnano;
   nel luglio 2009 è stato firmato un accordo tra Enac, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e la regione Campania per affidare a Gesac la realizzazione e la gestione del nuovo aeroporto;
   una volta realizzato, rappresenterebbe, per la prima volta nella storia della Campania, un sistema aeroportuale integrato e nella fattispecie il più grande aeroporto che si realizzerà nei prossimi anni in Italia. Un'infrastruttura importante anche sotto il profilo territoriale ed economico, per il riequilibrio dei pesi insediativi nell'area metropolitana di Napoli e Caserta, fornendo, altresì, opportunità di sviluppo e occupazione;
   i ritardi sin qui accumulati sull’iter di pianificazione dell'opera, oltre ad aver prodotto un considerevole spreco di denaro pubblico, ha anche causato notevoli ritardi allo sviluppo dell'intero territorio regionale –:
   se e quali iniziative di competenza intenda assumere per dar seguito agli impegni presi dal suo predecessore in merito alla costruzione dell'aeroporto civile di Grazzanise. (3-02191)
(3 aprile 2012)

   BARBARO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   con la delibera del consiglio comunale del 17 maggio 2004, il comune di Pontinia (Latina) ha dichiarato il dissesto finanziario ai sensi e per gli effetti dell'articolo 244 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267;
   a causa del dichiarato dissesto finanziario e non potendo disporre di aumenti di spesa corrente, gli amministratori in carica hanno continuato a percepire fino alla cessazione anticipata del mandato amministrativo (2006) le indennità di funzione, secondo quanto stabilito dalla tabella A del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'interno 4 aprile 2000, n. 119, ridotte del 50 per cento, secondo la delibera della giunta comunale 21 febbraio 2000, n. 32;
   la legge n. 266 del 2005 ha stabilito, all'articolo 1, comma 54, che «per esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sono rideterminati in riduzione nella misura del 10 per cento rispetto all'ammontare risultante alla data del 30 settembre 2005» gli emolumenti di cui all'articolo 82 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267;
   il 21 novembre del 2005 il Ministero dell'interno ha approvato il bilancio comunale riequilibrato, mentre la giunta comunale ha confermato la riduzione del 50 per cento delle indennità di funzione, stabilendo, quindi, una decurtazione superiore al 10 per cento, che è assorbita nella riduzione del 50 per cento delle indennità, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge finanziaria per il 2006;
   con atto del consiglio comunale 20 aprile 2007, n. 29, di approvazione del bilancio di previsione dell'esercizio 2007, i nuovi amministratori, entrati in carica a seguito delle elezioni amministrative del 2006, hanno deliberato le indennità di sindaco, assessori e consiglieri nella loro misura massima prevista dal decreto del Ministero dell'interno n. 199 del 2000, decurtate del 10 per cento, aumentando la spesa corrente dell'ente dissestato;
   come stabilite dalla nuova amministrazione, a partire dal 2006 le indennità risultano raddoppiate rispetto a quanto disposto con la delibera della giunta comunale 21 febbraio 2000, n. 32, confermata nel 2005, in aperta violazione di quanto stabilito dall'articolo 1, comma 54, della legge finanziaria per il 2006 e dall'articolo 82 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, come modificato dall'articolo 2, comma 25, della legge n. 244 del 2007;
   da allora nessuna contestazione è stata avanzata dal revisore contabile del comune e né dal responsabile del settore finanziario;
   recentemente (8 luglio 2011) la Corte dei conti ha inviato al segretario comunale una nota richiedendo di mettere in mora sia quanti concorsero all'approvazione della delibera n. 29 del 20 aprile 2007, sia il segretario comunale, il responsabile del settore finanziario e il revisore dei conti dal 2007 la 2011 e di quantificare in modo analitico le somme erogate in più a titolo di indennità dal 2007 ad oggi –:
   se il Governo sia a conoscenza dell'aumento delle indennità da parte degli amministratori subentrati nel 2006 al comune di Pontinia e se questo aumento sia compatibile con le prescrizioni eventualmente disposte ai sensi dell'articolo 261 del decreto legislativo n. 267 del 2000, tenuto conto della dichiarazione di dissesto finanziario, e quali iniziative di carattere normativo intenda adottare anche al fine di prevenire abusi in tale ambito.
(3-02192)
(3 aprile 2012)