MOZIONI CONCERNENTI MISURE A FAVORE DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE IN MATERIA DI ACCESSO AL CREDITO E PER LA TEMPESTIVITÀ DEI PAGAMENTI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
La Camera,
premesso che:
il sistema delle piccole e medie imprese costituisce il motore dell'intera economia italiana, costituendo il 99 per cento del sistema imprenditoriale, impiegando circa l'80 per cento degli addetti totali e generando quasi il 72 per cento del valore aggiunto complessivo;
è in corso un drammatico fenomeno di restrizione del credito per tutte le imprese, aggravato dal fatto che quel poco credito erogato ha raggiunto costi altissimi, soprattutto per le piccole e medie imprese; secondo recenti dati forniti di Banca d'Italia, il tasso di crescita su base annua del credito al sistema industriale è in forte rallentamento: a maggio 2011 era del 6,1 per cento, a ottobre 2011 del 5,8 per cento, a novembre 2011 del 4,9 per cento, mentre a dicembre 2011 del 3,1 per cento; ma il dato più preoccupante è che, mentre fino a novembre 2011 lo stock di credito erogato alle imprese non finanziarie era comunque aumentato, se pur ad un tasso decrescente, a dicembre 2011, in termini assoluti, ha mostrato una contrazione di circa 20 miliardi di euro;
purtroppo, il credit crunch ha radici ormai lontane: è dal 2008, infatti, data nella quale la crisi si è manifestata in tutta la sua drammaticità, che le imprese devono affrontare il tema della restrizione del credito, in una prima fase a causa «soltanto» della crisi del sistema finanziario e bancario, in un seconda fase a causa anche del rallentamento dell'economia reale;
dall'autunno 2011 la crisi dei debiti sovrani ha ulteriormente penalizzato il sistema bancario, indebolendone la capacità di raccolta e la posizione finanziaria, e gli interventi delle autorità bancarie europee hanno definitivamente messo in ginocchio tutto il sistema, rendendo difficile ottenere prestiti dalle banche, ad un prezzo, oltretutto, altissimo: lo spread sull'euribor a tre mesi pagato dalle imprese nel 2007 era pari allo 0,6 per cento, mentre a fine 2011 ha raggiunto il 2,75 per cento; addirittura, le piccole e medie imprese pagano un differenziale pari a 3,6 punti; il costo complessivo delle nuove operazioni può, quindi, raggiungere il 3,8 per cento per le grandi e il 5 per cento per le piccole imprese;
la restrizione del credito al sistema produttivo comporta, quindi, l'aumento dei margini di interesse, la richiesta di sempre maggiori garanzie reali da parte delle banche, l'accorciamento della durata dei finanziamenti;
la genesi della pesante crisi economico-finanziaria aveva aperto la discussione sulla patrimonializzazione degli istituti di credito e sugli eccessivi livelli di rischio che questi ultimi assumono; il crac di Lehman brothers di quattro anni fa ha fatto drammaticamente emergere l'abuso della leva finanziaria da parte degli istituti di credito e il problema della qualità degli strumenti finanziari detenuti dalle banche stesse;
il Comitato dei governatori delle banche centrali europee ha riscritto l'accordo cosiddetto Basilea 2 per arrivare al «Basilea 3», che mira a rafforzare il patrimonio delle banche, al fine di dare stabilità al sistema finanziario per scongiurare il pericolo di nuove catastrofi finanziarie; il prezzo da pagare, però, è un ulteriore rallentamento dell'economia: già il comitato di Basilea ed il Fondo monetario internazionale avevano stimato che ad ogni punto in più di capitale richiesto corrisponde una riduzione media del prodotto interno lordo pari allo 0,04 per cento;
successivamente agli accordi di «Basilea 3», l'Eba-European banking authority, nell'autunno 2011, ha imposto requisiti patrimoniali più stringenti per le banche, accrescendone le difficoltà e accelerando il processo di riduzione del proprio indebitamento a seguito della necessità di una forte ricapitalizzazione; l'effetto è stato generalizzato in tutta l'Unione europea, ma in Italia lo è stato ancora di più a causa dell'introduzione dei nuovi criteri per il calcolo dei requisiti patrimoniali che prevedono la valutazione a prezzi di mercato dei titoli del debito pubblico, superando le disposizioni precedenti che prevedevano la contabilizzazione dei titoli iscritti nel portafoglio bancario al valore di acquisto; il risultato è una pesante crisi di fiducia verso le banche e una forte crisi di liquidità che sta penalizzando, in particolare, le piccole e medie imprese;
per le piccole e medie imprese il credito bancario rappresenta la principale fonte di finanziamento e Prometeia stima che siano 25.000 le piccole e medie imprese a rischio chiusura proprio per le difficoltà a reperire finanziamenti bancari e per la congiuntura economica negativa;
la revisione dei requisiti patrimoniali di «Basilea 3» ed Eba sta portando ad un aumento del capitale di vigilanza delle banche pari al 31,25 per cento, con una distribuzione su tutti le posizioni attive bancarie e, quindi, anche sui portafogli crediti erogati alle piccole e medie imprese; secondo Confindustria, però, i portafogli crediti delle piccole e medie imprese risultano sicuramente meno rischiosi rispetto a quelli delle grandi imprese, grazie alla minore correlazione, dimostrata da analisi empiriche, tra gli attivi delle piccole e medie imprese e l'andamento economico generale; sarebbe, perciò, opportuno introdurre meccanismi correttivi, tali da permettere un trattamento prudenziale da parte delle banche meno stringente per le piccole e medie imprese; tali correttivi consentirebbero alle banche di accantonare meno capitale a fronte dei crediti erogati alle piccole e medie imprese in modo da recuperare liquidità, limitando gli effetti restrittivi nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese stesse; la proposta di Confindustria, condivisa dalle altre organizzazioni imprenditoriali europee, ha portato la Commissione europea ed Eba a prendere in considerazione l'introduzione di alcuni meccanismi correttivi, impegnandosi a monitorare gli effetti dell'applicazione dell'accordo di «Basilea 3» sulle piccole e medie imprese;
in questa fase economica, al fine di limitare la prociclicità di «Basilea 3», è necessario vigilare sul livello di credito erogato alle imprese, intervenendo a livello europeo per armonizzare i criteri ed i modelli di valutazione dei rischi, oggi molto diversi tra loro; tali differenze provocano distorsioni della concorrenza tra banche di diversi Paesi e rischiano di vanificare il raggiungimento dell'obiettivo della stabilità del sistema finanziario e, conseguentemente, del sistema industriale; tali criteri penalizzano decisamente gli istituti di credito italiani più concentrati sulle attività tradizionali, che, però, a livello europeo vengono considerate ad alto assorbimento di capitale;
in Italia, poi, il tema della corretta valutazione del merito del credito verso le imprese ha assunto assoluta importanza; si assiste ad una valutazione sempre più rigida del rating aziendale a scapito della valutazione degli elementi più qualitativi che possono qualificare in positivo l'attività imprenditoriale: affidabilità del management, contratti, organizzazione aziendale sono alcuni degli elementi che le nostre banche potrebbero considerare nell'analisi complessiva dell'affidabilità aziendale;
non secondario è il tema dei ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni: attanagliati dalle morse del patto di stabilità, i tempi dei pagamenti delle forniture degli enti locali, delle aziende sanitarie, delle aziende ospedaliere si sono allungati all'inverosimile, appesantendo la posizione finanziaria delle piccole e medie imprese; molte sono le imprese che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico e se fino a quindici anni fa lavorare per il pubblico era per un'azienda garanzia di affidabilità e solvibilità, oggi è sinonimo di difficoltà finanziaria e di alta esposizione bancaria; una delle proposte della Lega Nord è quella di favorire la compensazione tra debiti e crediti tra le piccole e medie imprese e pubblica amministrazione, includendo non solo quelli commerciali, ma anche e soprattutto quelli tributari; la crisi sta evidenziando molte situazioni nelle quali l'imprenditore non riesce a pagare le imposte, pur avendo presentato nei tempi e nei modi previsti le dichiarazioni fiscali; la compensazione di questi debiti costituirebbe sicuramente una boccata di ossigeno per tutte le piccole e medie imprese; l'alternativa sarebbe quella di garantire una rateazione del debito tributario più lunga e flessibile ad un costo ragionevole per il debitore, in modo da contemperare le esigenze dell'erario con quelle dell'imprenditore;
è ormai indispensabile un decisivo intervento dello Stato nei confronti del sistema bancario italiano che sappia limitare il fenomeno del credit crunch, introducendo innovativi sistemi di garanzia degli affidamenti o, addirittura, incentivi fiscali per le banche che sappiano mettere a disposizione delle piccole e medie imprese in tempi certi e rapidi linee di credito agevolato,
impegna il Governo:
ad intervenire a livello europeo chiedendo l'attuazione rapida dei correttivi chiesti dalle organizzazioni imprenditoriali alla regolamentazione relativa ai requisiti prudenziali per le banche, al fine di riservare un trattamento meno stringente per le piccole e medie imprese, che possa consentire alle banche di recuperare liquidità da utilizzare per erogare crediti alle piccole e medie imprese stesse;
ad intervenire a livello europeo per rendere omogenei i criteri e le metodologie per ponderare i rischi degli attivi bancari, in modo da garantire effettiva concorrenza tra le banche dei differenti Paesi e da non penalizzare l'attività delle banche italiane, sicuramente meno rischiosa, ma considerata ad alto assorbimento di capitale;
ad intervenire rapidamente, nell'ambito delle proprie competenze, per ridurre significativamente i tempi dei pagamenti dello Stato, degli enti locali e delle aziende pubbliche, posto che gli attuali tempi, dettati dai vincoli di bilancio europei, non sono più sostenibili per le piccole e medie imprese e, soprattutto, per le piccole e medie imprese che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico, favorendo linee di credito a basso costo per quelle imprese che vantano crediti verso la pubblica amministrazione garantiti direttamente dallo Stato con l'emissione di titoli di Stato o con le proprie riserve auree ciò sino all'effettivo incasso delle somme stesse, permettendo così ai piccoli e medi imprenditori di poter continuare a sviluppare la propria attività e a pagare lo stipendio dei propri dipendenti, favorendo così un circolo virtuoso nell'economia;
ad assumere iniziative normative per prevedere degli sgravi fiscali per quegli istituti di credito che si impegnino a garantire linee di credito agevolato alle imprese di piccole dimensioni in tempi rapidi;
ad aiutare le piccole e medie imprese nell'assolvimento dei propri debiti tributari e contributivi, introducendo rateazioni più lunghe e più flessibili;
ad aiutare il sistema creditizio, tramite il rafforzamento dei sistemi di garanzia, e a cambiare l'approccio troppo prudente verso le piccole e medie imprese, considerato che l'eccessiva prudenza nell'erogazione del credito rischia di impedire alle imprese di continuare ad operare, con conseguenze drammatiche per l'intero sistema economico.
(1-00896)
«Montagnoli, Dozzo, Fugatti, Forcolin, Comaroli, Fogliato, Lussana, Fedriga, Alessandri, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Callegari, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fabi, Fava, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lanzarin, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pastore, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Vanalli, Volpi».
(28 febbraio 2012)
La Camera,
premesso che:
le piccole e medie imprese, pur costituendo la spina dorsale dell'economia italiana, rappresentando il 98 per cento del totale delle aziende italiane e dando lavoro al 74,8 per cento del totale degli addetti, stanno vivendo un momento estremamente difficile, strette da una parte dal cosiddetto credit crunch e dall'altra dalla mancata riscossione dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione;
i problemi connessi alla crisi dei debiti sovrani e gli interventi regolamentari, che hanno imposto alle banche di procedere ad ingenti ricapitalizzazioni, contribuiscono notevolmente all'acutizzarsi delle difficoltà nell'accesso al credito;
i più alti requisiti di capitale imposti dall'accordo cosiddetto Basilea 3 e dall'Eba-European banking authority non stanno diffondendo quella fiducia che era nelle intenzioni dei proponenti. Al contrario, accrescono le difficoltà delle banche che hanno avviato un processo di riduzione dell'indebitamento. A tal proposito, interessanti appaiono quelle proposte avanzate nei mesi scorsi dall'Abi in ordine all'introduzione di specifici coefficienti (quali il Pmi supporting factor da applicare all'ammontare destinato a riserva secondo i parametri di «Basilea 3») per fare in modo che le difficoltà degli istituti bancari nel fronteggiare i più rigidi requisiti patrimoniali richiesti, non abbiano effetti restrittivi ulteriori nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
sono auspicabili misure dirette ad una maggiore elasticità nella concessione di finanziamenti nel breve periodo, attraverso un ampliamento del sistema di garanzia pubblico, tramite il rafforzamento del fondo di garanzia e di altri strumenti quali il fondo italiano d'investimento;
la crescita vertiginosa dello spread nei mesi passati ha appesantito la stretta creditizia di 1,5 per cento negli ultimi tre mesi e del 2,2 per cento nel solo mese di dicembre 2011. Il sistema produttivo è stato gravato da un costo aggiuntivo nei tassi d'interesse di 3,7 miliardi di euro, mentre le insolvenze hanno superato gli 80 miliardi di euro (più 36 per cento rispetto al 2010);
il credit crunch, quella condizione di calo significativo o di inasprimento improvviso delle condizioni dell'offerta di credito da parte del sistema bancario, produce un avvitamento finanziario che danneggia la fisiologia interna delle piccole e medie imprese, poiché ne mina la residua base patrimoniale;
d'altra parte il nostro sistema bancario non concede anticipazioni o apre linee di credito allo scopo di finanziare progetti, ma si muove nella logica esclusiva delle garanzie. È evidente allora che le difficoltà di accesso al credito, già in essere per le piccole e medie imprese italiane, legate a questo modus operandi delle banche e alla minore capacità delle imprese più piccole di fornire solide garanzie, si accentueranno a tal punto che si paventa il rischio concreto di una paralisi degli investimenti, del sistema produttivo e, quindi, dell'economia tutta;
la crisi economica ha fatto diminuire del 30 per cento il fatturato delle piccole aziende, inducendo gli istituti di credito a chiedere loro un piano di rientro dai fidi in tempi ristrettissimi;
è pari al 43,3 per cento il numero di piccole e medie imprese con meno di venti dipendenti che negli ultimi tre mesi ha avuto problemi di accesso a un finanziamento bancario e, nella maggioranza dei casi, per il 57,1 per cento la richiesta di credito serve a colmare una carenza di liquidità;
recentemente il Governo si è fatto promotore di una moratoria di 12 mesi sui prestiti bancari alle piccole e medie imprese in bonis, cioè senza debiti in sofferenza, incagliati, ristrutturati o esposizioni scadute da oltre 90 giorni, con lo scopo di assicurare loro liquidità e traghettarle oltre la crisi economica. Ne potranno beneficiare le imprese con meno di 250 dipendenti, fatturato inferiore a 50 milioni di euro, oppure con un attivo di bilancio fino a 43 milioni;
presso il Ministero dello sviluppo economico è istituito il fondo centrale di garanzia che ha lo scopo di favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, attraverso il rilascio di una garanzia pubblica sui finanziamenti erogati dalle banche. Grazie alle risorse disponibili nel fondo, infatti, lo Stato si fa garante del rimborso del prestito da parte dell'impresa, consentendo così una più facile erogazione del finanziamento, il cui plafond complessivo è stato progressivamente incrementato e portato, nel 2009, a circa 2 miliardi di euro, ancora insufficienti e disponibili soltanto fino a tutto il 2012;
per quanto riguarda l'altro elemento di difficoltà, considerato una tra le piaghe peggiori che gravano sul sistema produttivo italiano, relativo ai ritardi di pagamento dalla pubblica amministrazione, che ha portato quest'ultima a contrarre circa 70 miliardi di euro di debiti nei confronti delle aziende private, provocando il fallimento di una su tre di esse, i dati numerici divulgati dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture hanno restituito un'immagine preoccupante: i tempi di pagamento oscillano in un range compreso tra un minimo di 92 giorni ed un massimo di 664 giorni. L'entità dei ritardi mediamente accumulati è circa doppia rispetto a quanto si registra nel resto dell'Unione europea: mediamente 128 giorni contro i 65 che si computano a livello europeo;
la complessità dell'organizzazione delle procedure amministrative e dei criteri per il trasferimento dei fondi tra le varie strutture burocratiche (tra questi i vincoli del patto di stabilità) e l'ampio potere di mercato della pubblica amministrazione sono fattori determinanti che contribuiscono all'allungamento delle tempistiche di pagamento. La principale conseguenza di questi ritardi è la mancanza di liquidità nelle casse delle imprese fornitrici. Ne consegue, anzitutto, la difficoltà nell'onorare i pagamenti ai propri fornitori e, in subordine, l'impossibilità di porre in essere gli investimenti necessari;
a tutto ciò si aggiunga che, inevitabilmente, non solo è limitata la capacità di queste aziende di prevenire il ritardo dei pagamenti in sede di contrattazione con le pubbliche amministrazioni, ma è ridotta anche la possibilità di ricorrere alla tutela giurisdizionale, in ragione dei costi economici e sociali che questa comporta;
il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione, fenomeno che ha ormai raggiunto e superato i livelli di guardia, finisce, quindi, con il trasferire alle imprese fornitrici il problema di liquidità del settore pubblico;
nonostante sia in difetto, lo Stato non manca di chiedere alle imprese massima regolarità nel pagamento dei contributi previdenziali, la qual cosa per molte aziende risulta quasi impossibile a causa della mancanza di liquidità, aggravata proprio dal ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, e paradossalmente richiede, per ricevere il pagamento dei crediti accumulati con gli enti pubblici, la presentazione del durc (documento unico di regolarità contributiva);
con l'approvazione del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, è possibile compensare i crediti che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione, ma ciò vale solo per i debiti iscritti a ruolo e per i crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, e comunque con procedure molto complesse;
anche il decreto-legge sulle liberalizzazioni, appena approvato dal Senato della Repubblica, rappresenta un tiepido segnale di apertura del Governo al problema, prevedendo, all'articolo 35, lo sblocco di circa 6 miliardi di euro attraverso un incremento delle dotazioni dei fondi speciali (somma certo rilevante, ma ancora inadeguata rispetto ai 70 miliardi di euro di debiti), a cui va affiancato lo statuto delle imprese, che, all'articolo 10, anticipa la scadenza per il recepimento della direttiva europea 2011/7/UE sui ritardi di pagamento;
la suddetta direttiva europea rientra nello Small business act ed obbliga le pubbliche amministrazioni a pagare i fornitori entro 30 giorni e, in casi eccezionali, entro 60 giorni per forniture sanitarie e per imprese a capitale pubblico; superato tale termine, nelle transazioni commerciali, la pubblica amministrazione dovrà versare interessi di mora pari all'8 per cento maggiorati del tasso di riferimento della Banca centrale europea. Tra imprese private, la scadenza è fissata a 60 giorni a meno di diverse intese stipulate tra le parti e a condizione che non si tratti di patti bilaterali iniqui;
lo stesso anticipato recepimento della direttiva non risolverà comunque immediatamente il problema dell'enorme debito pregresso della pubblica amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese, in quanto è evidente che le pubbliche amministrazioni non sono in grado in un breve lasso di tempo di onorare i debiti già assunti;
nessuna ipotesi di uscita dalla recessione è immaginabile senza una tempestiva riattivazione di flussi di finanziamento verso le piccole e medie imprese, le sole che finora hanno sfidato la grave congiuntura economica senza alcun paracadute,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative normative dirette ad introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo di compensazione dei crediti vantati nei confronti di amministrazioni pubbliche dalle piccole e medie imprese con i propri debiti e relativi accessori dovuti nei confronti della pubblica amministrazione, tramite un rinvio dei pagamenti senza interessi da effettuare attraverso la semplice certificazione da parte di consulenti del lavoro;
ad assumere iniziative normative per incrementare, al fine di renderlo operativo per i prossimi anni, il fondo centrale di garanzia, la cui dotazione è insufficiente e disponibile soltanto fino a tutto il 2012.
(1-00901)
«Lombardo, Commercio, Lo Monte, Oliveri, Brugger».
(5 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
la crisi finanziaria che ha preso avvio nel 2007 sta generando impatti rilevanti sia sui mercati finanziari sia sull'economia reale: in particolare, l'Italia, oltre a subire pressioni sul mercato del debito sovrano, presenta un tasso di crescita potenziale troppo contenuto ed è entrata in una fase recessiva;
le cause di questa fase di forte instabilità sono riconducibili sia ad aspetti relativi all'economia reale sia a profili relativi all'economia finanziaria, a cui le autorità monetarie, di vigilanza e politiche hanno cercato di far fronte, nel corso dell'ultimo triennio, con un ampio spettro di normative;
in particolare, la normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3» prevede un generalizzato inasprimento dei requisiti patrimoniali per le banche, che se, per un verso, è necessario per ripristinare la fiducia nella solvibilità delle banche, rischia, tuttavia, di tradursi in maggiori costi e difficoltà di accesso al credito per il sistema produttivo, in particolare per le piccole e medie imprese;
sebbene la piena applicazione dei nuovi requisiti entrerà a regime solo nel 2019, l'annuncio delle nuove regole ha generato pressioni da parte degli investitori e delle controparti affinché le banche si adeguino prima dei tempi previsti, accumulando riserve di capitale e di liquidità nonostante l'attuale difficile situazione di mercato e del sistema produttivo;
il 9 dicembre 2011 l'Autorità bancaria europea (Eba) ha adottato una raccomandazione che prevede la creazione, in via eccezionale e temporanea, entro la fine di giugno 2012, di una riserva supplementare di fondi propri da parte delle banche;
l'8 dicembre 2011, la Banca centrale europea ha lanciato due rifinanziamenti straordinari (ltro, long term refinancing operation) della durata di 36 mesi a favore delle banche, allo scopo di garantire l'accesso alle liquidità agli istituti di credito: le due aste, che si sono tenute il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012, hanno assegnato alle banche, rispettivamente, 489,19 miliardi di euro e 529,53 miliardi di euro a tasso fisso, con l'opzione di ripagare, in tutto o in parte, l'ammontare dopo un anno e successivamente secondo scadenze prefissate; secondo una nota diffusa dalla Banca d'Italia, le banche italiane hanno partecipato alla seconda operazione ltro per una quota pari a 139 miliardi di euro lordi, pari a circa 80 miliardi di euro al netto del riassorbimento di operazioni di scadenza più breve;
è stato il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ad invitare gli istituti di credito ad approfittare dell'offerta, senza alcun timore di suscitare sospetto, per evitare il credit crunch in atto e riparare i bilanci e i mercati, abbreviando i tempi della ripresa;
anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento al 18o congresso Assiom Forex del 18 febbraio 2012, ha affermato che: «a distanza di pochi anni le imprese si trovano nuovamente a fronteggiare un inasprimento delle condizioni creditizie; anche in questa occasione sarà essenziale la capacità delle banche di valutare attentamente il merito di credito, senza far mancare il sostegno finanziario ai clienti solvibili e meritevoli. Un adeguato e stabile volume di finanziamenti è essenziale per l'attività delle stesse banche»;
l'analisi annuale per la crescita 2012, presentata dalla Commissione europea il 23 novembre 2011 (COM(2011)815 def.), prevede espressamente, nell'ambito dell'obiettivo «ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia», l'esigenza di «garantire che le banche rafforzino i propri coefficienti patrimoniali consolidando le proprie posizioni patrimoniali e non limitando indebitamente l'erogazione di prestiti all'economia reale» e di «rivedere le norme prudenziali per evitare che penalizzino indebitamente l'erogazione di prestiti alle piccole e medie imprese»,
impegna il Governo:
ad assumere, per quanto di competenza, tutte le iniziative necessarie affinché la liquidità ottenuta dalle banche italiane nelle operazioni long term refinancing operation si traduca effettivamente in un sostegno all'economia reale e all'accesso al credito delle imprese e delle famiglie;
ad adoperarsi in sede europea affinché:
a) le nuove regole siano coerenti con l'attuale fase ciclica dell'economia europea e italiana, facendo sì che le nuove regole sui requisiti di capitale siano un fattore di stabilizzazione dei mercati di lungo periodo e non un freno per le banche nel sostegno alle imprese e alle famiglie, evitando che le proposte, le loro modalità di attuazione ed i relativi tempi determinino indesiderati effetti prociclici;
b) siano introdotti nella normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3» accorgimenti regolamentari che incentivino, riducendone il costo, i prestiti in favore delle piccole e medie imprese, in particolare prevedendo misure che, di fatto, sterilizzino gli incrementi di capitale, a fronte dei prestiti erogati alle piccole e medie imprese, che si determinerebbero nel caso di applicazione indifferenziata delle nuove regole sul capitale;
c) si provveda a chiarire che, nei casi in cui un finanziamento è supportato dalla garanzia di un consorzio di garanzia collettiva fidi, il criterio di assorbimento patrimoniale relativo all'accantonamento richiesto al confidi non possa risultare superiore al risparmio di capitale ottenuto dalla banca in conseguenza dell'intervento del confidi stesso;
a proseguire nell'impegno, già assunto in sede di approvazione alla Camera dei deputati della risoluzione n. 6-00097, sottoscritta da esponenti di tutti i gruppi parlamentari, a far sì che l'attuazione delle misure che dovrebbero essere adottate dalle banche europee per colmare il deficit di capitale eventualmente emerso a seguito dell'esercizio dell'Autorità bancaria europea sia dilazionata nel tempo, in maniera da ridurne gli effetti prociclici e metterle in fase con la congiuntura economica.
(1-00910)
«Fluvi, Causi, Albini, Carella, D'Antoni, Fogliardi, Graziano, Marchignoli, Piccolo, Pizzetti, Sposetti, Strizzolo, Vaccaro, Verini, Vico».
(9 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
l'economia italiana è fondata su un sistema di piccole e medie imprese, che costituisce il fulcro del sistema imprenditoriale complessivo;
la crisi del 2007 ha ristretto il credito per le piccole e medie imprese con effetti negativi sul prodotto interno lordo;
la crisi dei debiti sovrani ha penalizzato il sistema bancario, indebolendone la capacità di raccolta del risparmio e la posizione finanziaria;
l'accordo «Basilea 3», varato dal Comitato dei governatori delle banche centrali dei Paesi europei, ha come primo obiettivo il rafforzamento del patrimonio bancario, al fine di dare stabilità al sistema ed evitare il rischio di una nuova crisi finanziaria, con conseguenze però penalizzanti per le grandi banche italiane, che hanno dovuto introdurre nuovi criteri per il calcolo dei requisiti patrimoniali basati sulla valutazione a prezzi di mercato dei titoli del debito pubblico;
tuttora il tasso di crescita annuo del credito al sistema industriale è in forte rallentamento, nonostante i provvedimenti della Banca centrale europea riguardanti gli acquisti di titoli e la concessione alle banche italiane di oltre 230 milioni di euro con tasso di interesse all'1 per cento;
il restringimento del credito ha pesanti ripercussioni sull'aumento dei margini di interesse, sulla richiesta di sempre maggiori garanzie reali da parte delle banche, nonché sulla riduzione della durata dei finanziamenti erogati;
il patto di stabilità, poiché incide anche sui tempi dei pagamenti delle forniture delle pubbliche amministrazioni alle imprese e soprattutto alle piccole e medie, va mantenuto attenuandone gli effetti attraverso la compensazione fra debiti e crediti, commerciali e tributari, tra le piccole e medie imprese e la pubblica amministrazione,
impegna il Governo:
a valutare la possibilità di intervenire, a livello europeo, al fine di ottenere:
a) l'unificazione dei criteri e delle metodologie per ponderare i rischi delle attività bancarie, per proteggere le banche italiane;
b) correttivi tendenti a mettere le banche in condizione di poter riservare un trattamento meno stringente per i crediti alle piccole e medie imprese;
c) una riduzione dei tempi, a livelli medi europei, di liquidazione dei crediti delle imprese verso lo Stato e le pubbliche amministrazioni.
(1-00911)
«Misiti, Iapicca, Miccichè, Fallica, Grimaldi, Mario Pepe (Misto-R-A), Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova».
(9 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
gli istituti bancari svolgono il ruolo di raccogliere fondi dai risparmiatori e trasferirli a imprese e privati che ne hanno bisogno per le proprie esigenze personali o aziendali. Oltre a concedere prestiti a imprese e famiglie, le banche svolgono anche attività finanziarie di varia natura: ad esempio, comprano titoli di aziende e Stati, concedono finanziamenti ad altri intermediari finanziari. Si tratta di un'attività fondamentale per l'economia moderna, senza la quale l'intero sistema economico attuale non potrebbe esistere. Un'attività quella del credito che mantiene la qualità fondamentale di servizio;
la principale legge italiana che regola il funzionamento dell'attività bancaria è il testo unico bancario, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, con tutte le successive modificazioni e integrazioni. Secondo questo testo unico, l'attività bancaria è definita come l'esercizio congiunto dell'attività di raccolta di risparmio tra il pubblico e dell'attività di concessione del credito (articolo 10). In Italia ci sono circa 800 banche, delle quali circa il 30 per cento ha la forma di società per azioni. Poco meno di 50 le banche popolari, più di 400 le banche «di credito cooperativo» e circa 80 le succursali delle banche estere;
il ruolo della banca è senza alcun dubbio cruciale per ogni economia avanzata, e non solo; la storia d'Europa e il suo sviluppo evidenziano in maniera esemplare come il ruolo del credito rappresenti uno dei pilasti fondamentali delle economie più sviluppate. Senza il ricorso al credito, aziende e persone dovrebbero occuparsi personalmente di trovare finanziatori per le proprie attività, con costi elevati e scarse probabilità di successo. Attraverso le banche, invece, possono accedere al risparmio di altri soggetti, reso disponibile attraverso il sistema bancario. Allo stesso modo, senza le banche i risparmiatori dovrebbero valutare da soli gli investimenti e verificare il regolare andamento dei pagamenti degli interessi e la restituzione del capitale prestato. In ragione di questa importanza, le leggi italiane, comunitarie e internazionali regolano l'attività bancaria con norme specifiche, diverse da quelle che riguardano gli altri intermediari finanziari;
la costituzione di un'impresa bancaria è sottoposta ad autorizzazioni da parte della Banca d'Italia, che svolge anche un importante ruolo di controllo durante l'attività bancaria;
nell'ultima indagine trimestrale, la Banca d'Italia, in oltre metà delle imprese, ha dichiarato di vedere un peggioramento della situazione economica nei prossimi mesi ed è quasi raddoppiata, al 28,6 per cento dal 15,2 per cento della precedente inchiesta, la quota delle imprese per le quali le condizioni di accesso al credito sono peggiorate;
le ragioni di queste difficoltà sono di due tipi. In primo luogo, c’è da parte delle banche un problema di liquidità, soprattutto per quanto riguarda gli impieghi a medio termine. L'instabilità dello scenario finanziario ha inaridito molti dei tradizionali canali di finanziamento, da quelli più semplici, come l'interbancario, a quelli più complessi, riferibili alle operazioni sovranazionali in valuta. Le banche si trovano così nell'esigenza di garantire la copertura delle operazioni correnti e devono ridurre gli spazi per i finanziamenti alle imprese;
in secondo luogo, c’è un problema di costi. Per le banche è sempre più oneroso aumentare la propria raccolta e ottenere capitali per il forte rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato italiani. C’è in questo periodo una vera e propria rincorsa ad offrire condizioni sempre più appetibili a chi deposita i propri soldi in banca: un anno fa era già un successo spuntare un tasso dell'1 per cento sui depositi, mentre ora, con un vincolo di un anno, si supera tranquillamente quota 4 per cento. I risparmiatori sono avvantaggiati, ma chi chiede soldi in prestito deve accettare tassi decisamente più elevati;
per le piccole e medie imprese le prospettive rischiano, poi, di essere ancora più difficili, perché il sistema bancario continua ad essere fortemente impegnato verso i grandi gruppi, che non attraversano anch'essi un momento favorevole;
le imprese, quindi, hanno di fronte un credito difficile e più caro proprio in un momento come questo in cui sarebbero necessari forti investimenti per rinnovare gli impianti, accrescere la competitività, finanziare la ricerca;
anche il mercato immobiliare risente delle crisi; infatti, l'andamento del mercato del credito alle famiglie continuerà a essere comunque influenzato dal contesto economico internazionale e la richiesta di finanziamenti, attualmente in calo, è determinata anche dalle prospettive di sacrificio previste per gli italiani dalle recenti manovre e dall'impennata dei tassi per i prodotti di credito. Per i prossimi mesi, quindi, ci si attende ancora una contrazione dei mutui e quindi degli acquisti;
il ruolo delle banche negli ultimi trent'anni è profondamente mutato. Infatti, gli istituti bancari nel dopoguerra hanno svolto un ruolo cruciale per lo sviluppo economico del sistema capitalista, incentrato a quell'epoca sulla relazione virtuosa tra il settore bancario e le imprese che producono beni e servizi non-finanziari: le linee di credito concesse dalle banche a tali imprese – i cui obiettivi erano definiti con riferimento al medio-lungo periodo – permisero la produzione di valore aggiunto attraverso la remunerazione dei lavoratori delle imprese, i quali potevano disporre della loro capacità di acquisto sui mercati dei prodotti, al fine di avere un tenore di vita dignitoso senza dover ricorrere all'indebitamento personale;
la finanziarizzazione dell'economia, iniziata negli anni ’80 del secolo scorso, ha trasformato i nostri sistemi economici radicalmente, marginalizzando poco alla volta il ruolo delle banche commerciali, inducendo queste ultime a diventare delle società finanziarie attive su scala globale e operanti a 360 gradi sui mercati finanziari (una sorta di «supermercati finanziari» alla ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile);
il 21 dicembre 2011 le banche europee hanno ottenuto circa 500 miliardi di euro di nuovi fondi, in occasione della prima asta di rifinanziamento organizzata dalla Banca centrale europea, in base alle nuove regole volute dalle autorità dell'Unione europea per combattere il credit crunch; di questi, gli istituti italiani hanno ricevuto 116 miliardi di euro al tasso dell'1 per cento;
la Banca centrale europea ha più volte dichiarato che tali risorse erano vincolate ad una precisa finalizzazione: dare credito all'economia reale in modo da permettere alle banche di avere più liquidità ad un costo basso da mettere a disposizione di imprese e famiglie;
le imprese e le famiglie italiane vedono sempre più ristretta la possibilità di accedere al credito; convenzioni e confidi vengono disdetti e gli interessi arrivano al 12 per cento;
appare evidente come il rilancio dello sviluppo del sistema sia collegato alla capacità effettiva di credito, che gli istituti bancari possono e dovrebbero concedere alle imprese, in particolare alle piccole e medie imprese; senza il rafforzamento delle linee di credito appare estremamente complicato ipotizzare che si possa davvero procedere ad un rilancio dello sviluppo del sistema, per il quale, specie in Italia, il ruolo delle piccole imprese è determinante, sia in termine di produzione che di impiego di forza lavoro;
inoltre, si aggiunge il problema del ritardo con cui la pubblica amministrazione provvede al pagamento dei corrispettivi inerenti all'esecuzione dei contratti pubblici, che suscita, ormai da anni, l'interesse (ma soprattutto l'allarme) degli imprenditori che operano nel mercato italiano;
tale problematica è particolarmente avvertita dalle piccole e medie imprese, che, soprattutto nell'attuale congiuntura economica di difficile accesso al credito bancario, risentono in maniera grave della mancanza di liquidità;
il ritardo nei pagamenti non incide solo sul contraente privato che si trova a sostenere un'attesa ingiustificata nella percezione dei corrispettivi dovuti da parte dell'amministrazione appaltante, ma ridonda in termini negativi anche sull'indotto a valle dell'appalto, investendo le imprese subappaltatrici e subfornitrici, sulle quali i ritardi vengono sovente ulteriormente ribaltati,
impegna il Governo:
ad istituire un tavolo permanente tecnico con rappresentanti dell'Associazione bancaria italiana, della Banca d'Italia, delle principali associazioni di categoria e dei consumatori e dell'Istat, al fine di avanzare proposte operative per il sostegno del credito a favore delle imprese e delle famiglie, e, in particolare, ad adoperarsi, nell'ambito delle proprie competenze, affinché la seconda tranche di prestiti che la Banca centrale europea ha messo a disposizione delle banche vada a sostegno delle imprese e delle famiglie e ad adottare iniziative che agevolino con tassi d'interesse favorevoli l'accesso al credito per le imprese e le famiglie;
ad adoperarsi ,altresì, nelle competenti sedi decisionali dell'Unione europea, in modo da:
a) sospendere l'entrata in vigore delle misure volte a fissare livelli più elevati per i coefficienti patrimoniali delle banche e introdurre un nuovo schema internazionale per la liquidità (accordo «Basilea 3»);
b) eliminare la valutazione a prezzi di mercato che l'Eba applica ai titoli di Stato italiani, comportando una loro sottovalutazione nel patrimonio delle banche italiane, che detengono bot e btp per un valore di 160 miliardi di euro;
c) intervenire in merito ai requisiti patrimoniali delle banche affinché siano introdotti meccanismi correttivi per la ponderazione del rischio di credito relativo ai prestiti alle piccole e medie imprese, in modo da compensare l'incremento quantitativo del requisito patrimoniale minimo;
ad assumere iniziative normative volte a prevedere forme di compensazione per le imprese che vantino crediti nei confronti di amministrazioni statali, con i debiti gravanti a loro carico, relativi ad obbligazioni tributarie;
ad adottare iniziative normative volte ad accelerare il pagamento dei crediti della pubblica amministrazione, al fine di recepire la nuova direttiva europea 2011/7/UE concernente il contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
(1-00913)
«Crosetto, Vignali, Bernardo, Berardi, Del Tenno, Laboccetta, Leo, Misuraca, Pagano, Antonio Pepe, Savino, Ventucci».
(12 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
le attuali difficoltà che le famiglie e le aziende, ed in particolare le piccole e le medie imprese, incontrano nell'accesso al credito dipendono da più cause e, dunque, per essere affrontate necessitano di una politica complessiva che deve agire su più fronti;
il credito bancario al settore privato non finanziario – secondo i dati forniti dalla Banca d'Italia – continua a risentire sia di una ridotta domanda di finanziamenti da parte delle imprese, a causa della difficile congiuntura economica, sia di un orientamento ancora restrittivo dei criteri di offerta da parte del pubblico. Le indagini sulle condizioni di accesso al credito, condotte presso le banche e presso le imprese, hanno rilevato che permane elevata la quota di imprese che dichiara di non ottenere l'ammontare di finanziamenti desiderati;
i nuovi accordi di «Basilea 3» hanno modificato i criteri già stabiliti con «Basilea 1» (1998) e «Basilea 2» (2008): essi fissano, alzandoli, i requisiti minimi di capitale delle banche proporzionalmente ai rischi che assumono, prevedono una serie di «cuscinetti» (liquidità) di capitale aggiuntivi (pari al 2,5 per cento, ma che potrebbero aumentare fino al 5) nelle fasi economiche a rischio, prevedono sanzioni nel caso di violazione delle nuove regole, quale il divieto di pagare bonus ai manager o cedole ai soci;
l'allineamento alle regole di Basilea 3 comporta dei costi, in quanto la migliore qualità ed una maggiore quantità di capitale di garanzia potrà essere raggiunto solo attraverso un rimodellamento della struttura di ciascun istituto. Il rischio maggiore è quello di un inasprimento del costo del denaro;
l'Autorità bancaria europea (European Banking Authority-Eba) ha chiesto di aumentare il «Core Tier 1» delle banche entro giugno 2012 al 9 per cento;
per la valutazione del rischio, l'Autorità bancaria europea ha usato il criterio mark to market, ossia l'attribuzione non del valore nominale o cedolare dei titoli ma il prezzo corrente di mercato, che ha messo in moto per i btp, già in crisi di spread, un meccanismo deleterio per le banche che, qualora volessero evitare la ricapitalizzazione, dovrebbero vendere i titoli, deprezzati del 15-20 per cento del valore nominale, con effetti dirompenti sia sui mercati che sulle fortissime minusvalenze dei conti;
il sistema creditizio italiano, tra i suoi asset, ha titoli di Stato italiani per 160 miliardi di euro e titoli di Stato degli altri Paesi «Pigs» per 3 miliardi di euro. A fronte di questo, le banche italiane hanno titoli «tossici» (essenzialmente mutui subprime) per una quota pari al 6,8 per cento del patrimonio di vigilanza, contro una media europea del 65,3 per cento. Secondo le nuove norme di valutazione degli asset stabilite dall'Autorità bancaria europea, si è al paradosso: i titoli di Stato in portafoglio vengono considerati «tossici» per le banche italiane, peggio di quanto non lo siano i subprime per le banche straniere;
questa decisione dell'Autorità bancaria europea, invece di dimostrare equilibrio ed equità, ha finito per penalizzare il sistema bancario italiano che ha meno titoli tossici e strumenti derivati rispetto alle banche francesi o tedesche;
queste circostanze hanno reso ancor più difficile l'accesso al credito per molte piccole e medie imprese;
si deve, comunque, considerare che la Banca centrale europea ha fornito un'enorme liquidità alle banche che usufruiscono del notevole differenziale tra i tassi di approvvigionamento dei fondi (dalla Banca centrale europea all'1 per cento e dai privati con un tasso di poco superiore) e quelli a cui li offrono a prestito. Il 29 febbraio 2012 la Banca centrale europea ha prestato 530 miliardi di euro per tre anni alle banche europee, una somma simile a quella già elargita nel dicembre 2011. Soldi che non serviranno, l'esperienza del prestito della Banca centrale europea precedente lo attesta, a finanziare le imprese e le famiglie. Infatti, quell'operazione è servita sopratutto a sostenere la domanda di titoli di Stato;
l'operazione a tre anni del 21 dicembre 2011 vide una richiesta di prestiti per 489 miliardi di euro, che furono tutti assegnati. I prestiti sono andati in parte a sostituire altre operazioni di politica monetaria, ragion per cui l'incremento netto di finanziamenti concessi dalla Banca centrale europea al sistema bancario europeo è stato, in realtà, molto inferiore: 193 miliardi di euro. Con riferimento al nostro Paese, le banche italiane usufruirono di un finanziamento di 116 miliardi di euro in quell'operazione, ma l'incremento netto di liquidità fornita dalla Banca d'Italia nel mese di dicembre 2011 è stato della metà, 57 miliardi di euro;
le banche italiane hanno in buona parte utilizzato i soldi presi a prestito dalla Banca centrale europea per acquistare titoli di Stato, contribuendo alla riduzione dei tassi d'interesse sul debito pubblico italiano. Nello stesso tempo, le banche hanno stretto l'offerta di credito, sia riducendo la quantità sia aumentando il costo dei finanziamenti;
le somme ricevute dalla Banca centrale europea sono state usate anche per rimborsare obbligazioni bancarie, un'operazione che sarebbe stata troppo costosa rinnovare ai tassi di mercato. Nel bimestre dicembre 2011-gennaio 2012, le banche italiane hanno anche acquistato titoli di Stato per 32,6 miliardi di euro. Nello stesso periodo, i prestiti bancari alle imprese e alle famiglie italiane si sono ridotti di 20 miliardi di euro;
le banche italiane, come rilevano le associazioni dei consumatori, continuano ad applicare tassi di interesse più elevati dello 0,67 per cento sui mutui, in Italia al 4,6 per cento, contro il 3,93 per cento della media dell'Unione europea. Nel gennaio 2012, in Italia il costo dei finanziamenti alle imprese (nuove operazioni) era di 1,3 punti percentuali più alto rispetto allo stesso mese del 2011 (passando dal 2,7 per cento al 4 per cento), a parità di tasso di politica monetaria (1 per cento). Nello stesso periodo, il tasso d'interesse sui mutui immobiliari è salito di un punto percentuale (dal 3,15 per cento al 4,15 per cento). Sempre nello stesso periodo, il differenziale tra il tasso medio sui prestiti a imprese e famiglie e il tasso medio sulla raccolta è aumentato di mezzo punto percentuale (dal 2,2 per cento al 2,7 per cento);
va, inoltre, ricordato che l'articolo 8 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (la cosiddetta manovra Monti «Salva-Italia») ha fornito alle banche la garanzia dello Stato sui prestiti ottenuti (in larga misura dalla Banca centrale europea), garanzia che ha consentito loro di sopportare con qualche patema d'animo in meno la situazione difficile dei mercati finanziari;
il 28 febbraio 2012 Governo, Confindustria, l'Associazione bancaria italiana e altre associazioni imprenditoriali hanno firmato l'accordo su «Le nuove misure per il credito alle Pmi». L'accordo ha validità fino al 31 dicembre 2012 e individua interventi finanziari a favore delle piccole e medie imprese «in bonis». L'accordo prevede le seguenti operazioni: sospensione per 12 mesi del pagamento della quota capitale delle rate dei finanziamenti a medio-lungo termine (anche i mutui assistiti da contributo pubblico in conto capitale e/o interessi) e della quota capitale implicita nei canoni di operazioni di leasing immobiliare (6 mesi per il leasing mobiliare); allungamento della durata dei finanziamenti a medio-lungo termine (anche i mutui assistiti da contributo pubblico in conto capitale e/o interessi); allungamento delle scadenze delle anticipazioni su crediti verso clienti fino a un massimo di 270 giorni;
l'articolo 11, comma 4, del decreto-legge n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 2 del 2009, ha introdotto la garanzia dello Stato sugli interventi del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, quale garanzia di ultima istanza. Di conseguenza, in relazione al requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito, alle esposizioni assistite dal fondo nella forma della garanzia diretta e della controgaranzia a prima richiesta, si applica il fattore di ponderazione associato allo Stato italiano («ponderazione zero»), in quanto più favorevole di quello del soggetto debitore, nei limiti dell'importo che il fondo di garanzia è tenuto a versare in caso di inadempimento del debitore principale ovvero del confido garantito;
nel caso della garanzia diretta, il fondo interviene nella misura massima del 60 per cento dell'importo di ciascuna operazione finanziaria. Tale percentuale è elevata fino all'80 per cento in casi particolari (per le piccole e medie imprese a prevalente partecipazione femminile, per le piccole e medie imprese ubicate nelle zone 87.3.a) del Trattato dell'Unione europea, (per le piccole e medie imprese aderenti alla programmazione negoziata). Nel caso di controgaranzia, il fondo interviene invece nella misura massima del 90 per cento della garanzia prestata dai confidi o dagli altri fondi di garanzia. Il moltiplicatore calcolato sul «finanziato», dato dal rapporto è pari a circa 16. Con un euro di dotazione del fondo sono, dunque, attivabili 16 euro di finanziamenti. Il moltiplicatore calcolato sul «garantito» è invece pari a circa 8. Un euro di dotazione del fondo consente, pertanto, di attivare circa 8 euro di garanzia;
il fondo è stato finanziato per un miliardo e mezzo di euro per il quadriennio 2009-2012. L'importo garantito dal fondo di garanzia per le piccole e medie imprese è stato innalzato, con decreto del Ministro dello sviluppo economico del 9 aprile 2009, da 500 mila euro a un milione e mezzo di euro. L'intervento del fondo, inoltre, è stato esteso, per la prima volta, alle imprese artigiane, estendendo notevolmente la platea dei potenziali beneficiari. I circa 250 confidi dell'artigianato contano, infatti, circa 700 mila imprese associate;
dai dati citati appare evidente come l'entità dei finanziamenti a disposizione, il tetto dell'importo garantito, le percentuali su cui si applica la garanzia, siano del tutto insufficienti e non consentono di fornire uno sostegno adeguato alle piccole e medie imprese, incluse le imprese artigiane, in particolare in questa fase di crisi;
la peculiarità del tessuto produttivo ed economico del nostro Paese, la fortissima presenza di piccole imprese, la forte vocazione manifatturiera, rendono le banche il canale principale di erogazione delle risorse;
è, comunque, innegabile che, specie in Italia, le aziende devono essere aiutate a fare passi in avanti nella loro aggregazione. L'Italia è un Paese che deve la sua ossatura produttiva alle piccole e medie imprese, ma che ha un sistema economico molto chiuso, carente di quella capacità di innovare che è la molla necessaria per la competitività. L'ovvia conseguenza è che le piccole e medie imprese italiane risultano avere un livello di capitalizzazione basso. Per le imprese italiane, storicamente sottocapitalizzate e ancora basate sul pluriaffidamento bancario a breve, quello di capitalizzazione sarà l'indicatore che darà più preoccupazioni nella determinazione del rating aziendale. Le imprese italiane, soprattutto quelle di minori dimensioni, non sono adeguatamente trasparenti. Regole severe con sanzioni effettive per chi nasconde e occulta i dati contabili consentirebbero alle banche di rischiare di più e chiedere meno garanzie;
la crisi del credito per le piccole e medie imprese è ulteriormente aggravata dai dati sui tempi di pagamento alle piccole imprese che fanno emergere attese anche di 600 giorni, per recuperare i crediti vantati nei confronti degli enti pubblici. Il tempo medio di attesa per riscuotere un credito da una pubblica amministrazione si attesta sui 128 giorni contro i 67 della media dell'Unione europea, ma anche le aziende private saldano i propri fornitori in 88 giorni. Questi ritardi costano 934 milioni di euro l'anno e a farne le spese sono proprio le piccole e medie imprese che hanno molte difficoltà nell'accesso al credito. Secondo alcune stime, i crediti vantati dalle imprese nei confronti di amministrazioni centrali ed enti sanitari locali superano i 70 miliardi di euro;
allo scopo di ricondurre il problema a dimensioni fisiologiche è stata adottata la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2000/35/CE del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, recepita nell'ordinamento interno, in attuazione dell'articolo 26 della legge 1o marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001), dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231. Tale direttiva fissa a 30 giorni il termine massimo dei pagamenti della pubblica amministrazione, con sanzioni del 5 per cento per ogni giorno di ritardo;
tale situazione non è nuova. Nella metà degli anni Ottanta la necessità di una politica restrittiva in termini di cassa aveva posto al legislatore il problema (derivato) di garantire alle imprese il puntuale pagamento dei crediti vantati. Infatti, decine di migliaia di imprese erano costrette ad indebitarsi con il sistema bancario in attesa di ricevere quanto dovuto ed erano sull'orlo del fallimento. La soluzione, saggia anche se transitoria, fu il ricorso ad una normativa di compensazione-cessione dei crediti vantati verso la pubblica amministrazione, recata dal comma 9 dell'articolo 1 del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 gennaio 1986, n. 11;
al fine di accelerare il pagamento dei crediti commerciali esistenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 1 del 2012 (cosiddetto «decreto liberalizzazioni») connessi a transazioni commerciali per l'acquisizione di servizi e forniture, certi, liquidi ed esigibili, corrispondenti a residui passivi del bilancio dello Stato, con le disposizioni di cui all'articolo 35 del medesimo decreto, il Governo ha messo a disposizione complessivamente 5,7 miliardi di euro. Una somma molto al di sotto del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle aziende fornitrici di beni e servizi;
si tratta di una somma che potrà essere spesa in parte per cassa, in parte con l'assegnazione di titoli del debito pubblico se, a chiedere questa misura alternativa di pagamento saranno i creditori (fino ad un massimo di 2 miliardi di euro, inclusi nel totale complessivo dei 5,7 miliardi di euro già citato);
slitta, invece, la norma che sanziona i futuri ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese e che prevedeva l'introduzione di un interesse di mora pari all'8 per cento. La misura era stata messa a punto dal Ministro per le politiche comunitarie al fine di recepire la direttiva europea per il contrasto ai ritardi dei pagamenti;
il rispetto del patto di stabilità, inoltre, aggrava la situazione mettendo a rischio pagamenti, cantieri in corso e manutenzioni indispensabili per garantire la sicurezza dei cittadini. Tra il 2009 e il 2012, il blocco delle entrate si è tradotto in una riduzione di circa nove miliardi di euro, difficilmente sostenibile per i comuni che hanno dovuto far fronte alla crescente domanda di servizi sociali. I comuni hanno subito il taglio di due miliardi e mezzo di euro di trasferimenti erariali e la fissazione del loro contribuito al risanamento della finanza pubblica per una somma pari a 4 miliardi e mezzo di euro. Tutto ciò ha generato un blocco generalizzato dei pagamenti, in particolare di quelli in conto capitale;
la procedura dei rimborsi dell'iva, che le società maturano trimestralmente nei confronti dell'erario, attualmente risulta troppo articolata e molto onerosa per le aziende. La vigente legislazione in materia di crediti iva, infatti, prevede, in virtù dell'articolo 8, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 542 del 1999, la possibilità di compensare il proprio credito iva con le altre imposte dovute. Il limite di compensazione ammesso, già dall'anno 2001 e tuttora vigente, ha un plafond di 516.456,90 euro fissato dall'articolo 34 della legge n. 388 del 2000;
inoltre, a seguito di recenti introduzioni legislative entrate in vigore dal l o gennaio 2010, detta procedura è stata resa ancora più onerosa, sia in termini di costi che in termini di tempi rendendoli ancora più diluiti, obbligando le aziende con crediti iva superiori a 15 mila euro alla certificazione del credito da parte di professionisti abilitati i quali, al fine di rilasciare detta certificazione, debbono acquisire in azienda un grande volume di documenti fiscali da controllare. In sintesi, per i crediti iva maturati nel corso dell'anno, l'attuale normativa consente di utilizzare in compensazione solo fino al tetto citato, mentre la differenza viene chiesta a rimborso la cui liquidazione, una volta completata la presentazione della documentazione prevista, corredata di apposita ed onerosa polizza fideiussoria atta a garantire il credito chiesto a rimborso, genera tempi di attesa enormi che attualmente si aggirano intorno ai 18-24 mesi, tempi che penalizzano fortemente le aziende costringendole ad anticipare le proprie risorse finanziarie, o a dover ricorrere al credito bancario per far fronte agli impegni gestionali;
un altro elemento che penalizza fortemente le piccole e medie imprese in termini di liquidità disponibile concerne il pagamento dell'iva su fatture emesse ma non effettivamente riscosse. Occorre, dunque, rendere permanente per i piccoli operatori economici il pagamento dell'iva al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo modificando l'articolo 7 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, che prevedeva la sospensione del pagamento dell'iva solo per un anno, ed aumentare il volume d'affari massimo (200 mila euro) previsto per l'applicazione della norma,
impegna il Governo:
per quanto concerne l'accesso al credito da parte delle piccole e medie imprese:
a) a farsi promotore nelle debite sedi di proposte volte al coordinamento, almeno europeo, nell'applicazione omogenea delle nuove regole dell'accordo «Basilea 3» nei Paesi membri, ed a intervenire in tutte le sedi europee necessarie per ottenere la revisione del criterio che vede l'attribuzione ai titoli di Stato non del valore nominale o cedolare, ma del loro prezzo corrente di mercato, criterio che penalizza pesantemente gli istituti di credito italiani;
b) ad adottare le opportune iniziative normative al fine di prevedere che gli istituti di credito, che beneficiano della garanzia di cui all'articolo 8 decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, forniscano opportune garanzie in merito alla concessione del credito alle piccole e medie imprese ed alle famiglie, monitorandone l'attività;
c) ad aprire un confronto con gli istituti di credito e le loro associazioni rappresentative al fine di ottenere che una percentuale dei prestiti ricevuti dagli istituti di credito nazionali da parte della Banca centrale europea con tasso agevolato dell'uno per cento sia impiegata per erogare finanziamenti alle famiglie e alle piccole e medie imprese;
d) ad adottare le opportune iniziative normative volte ad assicurare la continuità negli anni e l'estensione dell'attività di garanzia del fondo rivolto alle piccole e medie imprese, di cui all'articolo 15 della legge n. 266 del 1997, valutando la possibilità di incrementare in maniera consistente le risorse a disposizione del fondo di garanzia, il tetto dell'importo del credito garantito e le percentuali sulle quali si applica la garanzia;
per quanto concerne il ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni:
a) a fornire periodicamente al Parlamento i necessari elementi per un monitoraggio della situazione;
b) a dare definitiva attuazione nel nostro ordinamento ai principi sanciti a livello comunitario in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, con particolare riguardo alle pubbliche amministrazioni;
c) a valutare la possibilità di consentire alla Cassa depositi e prestiti, in considerazione del suo ruolo di soggetto finanziatore delle amministrazioni pubbliche, e in particolare di quelle locali, l'effettuazione di operazioni di cessione dei crediti scaduti ed esigibili, anche mediante cartolarizzazione degli stessi, con costi ed oneri finanziari a carico delle amministrazioni debitrici;
d) ad adottare le opportune iniziative normative volte a consentire ai creditori della pubblica amministrazione di potere richiedere alle amministrazioni debitrici la certificazione delle somme dovute e, conseguentemente, cedere il relativo credito ad un istituto di credito che ne assume la piena titolarità, previo pagamento dell'intero ammontare del credito;
e) ad ampliare il ricorso a soluzioni tecnico-giuridiche che permettano di utilizzare, per il pagamento almeno di parte del debito delle pubbliche amministrazioni, previa opzione del creditore, titoli del debito pubblico facilmente liquidabili;
f) a prevedere che una quota significativa delle risorse per il rifinanziamento del fondo residui perenti venga destinata, in via prioritaria, al pagamento dei residui in conto trasferimenti delle regioni e degli enti locali al fine di consentire agli stessi di procedere al pagamento dei crediti commerciali certi, liquidi ed esigibili vantati dalle imprese nei loro confronti, derivanti dall'acquisizione di beni e servizi, elaborando, altresì, parametri di individuazione delle priorità di pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili vantati dalle imprese verso gli enti locali (ad esempio, anzianità del credito, esigenze di liquidità dell'impresa e altro);
per quanto concerne le misure fiscali, ad adottare le opportune iniziative normative al fine di:
a) provvedere ad una riforma strutturale di tutta la procedura dei rimborsi dei crediti iva, disciplinata dall'articolo 38-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 e successive modificazioni, prendendo in considerazione l'ipotesi di aumentare considerevolmente l'attuale limite della compensazione almeno per quelle imprese che abitualmente, proprio in virtù del meccanismo suddetto, si trovano sistematicamente con un credito iva infrannuale da chiedere come rimborso o in compensazione, oppure, in alternativa, consentendo alle aziende di compensare, per tutto l'anno, il credito iva vantato nei confronti dell'erario con tutto ciò che gli adempimenti fiscali impongono di pagare mensilmente, in particolar modo tutte le imposte erariali ed i contributi, concorrendo in tal modo ad operare anche una semplificazione fiscale, in quanto si eviterebbe il sovrapporsi di domande di rimborso da erogare e si richiederebbe la presentazione di una sola polizza fideiussoria alla fine dell'anno ove si evidenzierebbe il residuo credito iva al netto delle compensazioni effettuate nell'anno stesso;
b) rendere permanente, per i piccoli operatori economici, il pagamento dell'iva al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo, modificando l'articolo 7 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, che prevedeva la sospensione del pagamento dell'iva solo per un anno, ed aumentare il volume d'affari massimo di 200 mila euro previsto per l'applicazione della norma.
(1-00916)
«Borghesi, Barbato, Messina, Di Stanislao, Donadi, Cimadoro, Piffari».
(12 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
le piccole e medie imprese costituiscono la struttura portante della realtà industriale italiana e una risorsa essenziale per il ruolo strategico che ricoprono nel sistema economico del Paese;
sono consapevoli, queste imprese, di rappresentare un riferimento macroeconomico unitario, tanto che cinque confederazioni nazionali, circa 600 associazioni locali e 2 milioni e mezzo di artigiani e commercianti si sono uniti nella «Rete Imprese Italia» per affermare la loro soggettività imprenditoriale in un mercato che pretende riduzione dei costi e competitività nella salvaguardia di sempre più stringenti principi di concorrenza;
un recente studio della Commissione europea condotto sulle piccole e medie imprese ne conferma l'importanza per la loro capacità di puntare sull'innovazione e di creare nuova occupazione. Mentre il rapporto Rehn, nella prospettiva della competizione di sistema, ammonisce sulla stringente esigenza di un dimensionamento aziendale e produttivo capace di sopportare le sfide dei mercati globali, dallo studio della Commissione europea è emerso come, tra il 2002 e il 2010, l'85 per cento dei nuovi posti di lavoro è stato creato dalle piccole e medie imprese; nello specifico sono le microimprese che hanno contribuito con più forza alla crescita dell'occupazione. Tuttavia, nel periodo compreso tra il 2009 e il 2010 la crisi ha prodotto effetti dannosi, soprattutto per le piccole imprese che hanno subito un calo medio annuo dei posti di lavoro del 2,4 per cento rispetto alla riduzione dello 0,95 per cento di quelle di grandi dimensioni; un puntuale riscontro si ricava dal dato del decremento del numero delle piccole imprese italiane nella misura di 30.000 unità proprio nell'anno 2009;
così come, secondo la valutazione di Unioncamere, mentre l'affidabilità complessiva delle piccole e medie imprese si attesta al 34 per cento, quella delle sole imprese di medie dimensioni si colloca oltre il 50 per cento;
in Italia, su un totale di 4,5 milioni di imprese dell'industria e dei servizi, il 95 per cento di esse sono rappresentate da aziende con meno di 10 addetti, garantendo l'occupazione al 47 per cento dei lavoratori del settore, pari a circa 17,5 milioni;
date le particolari caratteristiche strutturali di tali aziende, un elemento essenziale da sottolineare è rappresentato da un forte vincolo di dipendenza dal credito bancario. Nel caso delle piccole e medie imprese, infatti, circa il 40 per cento delle loro passività è costituito dal debito nei confronti delle banche;
secondo i dati della Banca d'Italia, le forti pressioni esercitate sul mercato dei titoli italiani, ma anche la crisi sui debiti sovrani di molti Stati, hanno prodotto conseguenze negative sulle operazioni di raccolta delle banche che, a loro volta, hanno inciso profondamente sulle condizioni di offerta di credito all'economia reale;
ne è derivata una forte contrazione dei prestiti alle famiglie e un deciso rallentamento dei finanziamenti alle imprese che, di conseguenza, ne penalizza la competitività determinando minori investimenti e ridotte possibilità di crescita, a fronte di un dato secondo il quale le piccole e medie imprese, anche nel corso di questa crisi prolungata, mantengono una propensione all'investimento nella misura dell'80 per cento, contando per il 53 per cento su mezzi propri e per il 39,1 per cento sul credito bancario;
in un'indagine condotta dalla Banca d'Italia, in collaborazione con Il Sole 24 ore, nel mese di dicembre 2011, la quota di imprese che segnala un peggioramento delle condizioni di accesso al credito è pari al 49,7 per cento, rispetto al 28,6 per cento registrato a settembre 2011: un valore superiore a quello raggiunto nel 2008 al culmine della crisi finanziaria;
sempre secondo le statistiche di Banca d'Italia, a gennaio 2012 il tasso di crescita sui dodici mesi dei prestiti al settore privato è sceso all'1,6 per cento dal 2,3 per cento di dicembre 2011. Su tali dati ha inciso in particolar modo la riduzione dei prestiti alle società non finanziarie scesa all'1,3 per cento dal 2,6 per cento, mentre il tasso di crescita dei prestiti alle famiglie si è ridotto al 3,1 per cento dal 3,4 per cento;
le difficoltà di raccolta e di liquidità delle banche italiane, che hanno portato alla stretta creditizia, il cosiddetto credit crunch, si sono ulteriormente aggravate alla fine del 2011;
i ripetuti interventi della Banca centrale europea hanno evitato che la stretta sul credito producesse effetti ancor più devastanti sull'economia reale. L'obiettivo, infatti, è stato quello di immettere nel sistema bancario liquidità illimitata e a basso prezzo, per dare fiato alle imprese e nuovo slancio ai bilanci bancari. Ciò nonostante, i risultati ottenuti sono stati di gran lunga inferiori rispetto alle aspettative;
le banche italiane, infatti, in occasione dell'operazione realizzata dalla Banca centrale europea nel dicembre 2011, hanno utilizzato buona parte del prestito di 116 miliardi di euro per acquistare titoli di Stato, cosa che ha sì garantito una riduzione dei tassi d'interesse sul debito pubblico italiano, ma, nello stesso periodo, ha prodotto un calo dei prestiti bancari ad imprese e famiglie di 20 miliardi di euro, a fronte di un aumento a gennaio 20121 del costo dei finanziamenti alle imprese stesse dell'1,3 per cento rispetto allo stesso mese del 2011;
nel 2011 ben il 71 per cento dell'afflusso di risorse è derivato dalla Banca centrale europea con un apporto pari a 159 miliardi di euro, mentre solo l'11 per cento da depositi e obbligazioni, per un ammontare pari a 24 miliardi di euro;
recentemente la Banca centrale europea ha avviato un'altra operazione di rifinanziamento all'1 per cento per tre anni, assegnando alle banche un prestito pari a circa 530 miliardi di euro, ancora una volta con lo scopo di porre un freno alla stretta del credito, sostenere il debito sovrano degli Stati e dare nuovo respiro alle imprese europee. Gli istituti italiani avrebbero chiesto circa 139 miliardi di euro;
i ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione aggravano ulteriormente i problemi di liquidità di molte imprese italiane. La Confindustria stima che nel 2011, per la liquidazione delle fatture, le imprese hanno atteso in media 180 giorni a fronte dei 128 giorni nel 2009. Secondo stime ufficiose, il debito della pubblica amministrazione ammonterebbe a circa 70 miliardi di euro: condizione di sofferenza accentuata e aggravata dal fatto che le imprese sovente ricorrono al credito bancario esclusivamente per il circolante, cioè per garantire la loro sopravvivenza in un tempo in cui l'incasso delle fatture commerciali è divenuto del tutto aleatorio;
è di fine febbraio 2012 l'accordo contenente le «Nuove misure per il credito alle piccole e medie imprese» sottoscritto dall'Associazione bancaria italiana, alcune associazioni di categoria, il Ministro dello sviluppo economico ed il Viceministro dell'economia e delle finanze. L'accordo prevede diverse tipologie di interventi finanziari a favore delle piccole e medie imprese in modo da garantire loro adeguate risorse e di sostenere la ripresa dell'economia reale;
è il momento di non indugiare in abusati quanto pleonastici peana in favore delle piccole e medie imprese del sistema Italia per garantire loro il sostegno attivo consentito dalla cornice legislativa comunitaria e dallo sforzo finanziario di tutto il Paese; peraltro, gli interventi mirati qualitativamente e quantitativamente al consolidamento del potenziale produttivo e occupazionale delle piccole e medie imprese entrano a pieno diritto nel novero del rilancio economico dell'intero Paese;
è condivisibile il discusso sentimento secondo il quale quello delle medie imprese può e deve costituire un modello efficace da sostenere, favorire e irrobustire,
impegna il Governo:
ad adottare le opportune iniziative al fine di aumentare le possibilità di accesso al credito delle piccole e medie imprese, finalizzato ad investimenti in miglioramenti dell'efficienza tecnologica e organizzativa, anche attraverso sistemi più trasparenti nella gestione delle informazioni aziendali e nelle modalità di determinazione dei rating delle aziende da parte delle banche, come presupposto per la costituzione di un fondo finanziato annualmente, a valere sul bilancio del Ministero dello sviluppo economico, che si faccia carico delle spese di accesso al credito delle piccole e medie imprese presso il sistema bancario, nei casi documentati di crediti a bilancio nei confronti di pubbliche amministrazioni centrali e territoriali e dei loro enti di riferimento, nonché di crediti commerciali;
ad assumere iniziative normative che dispongano di privilegiare, negli interventi a favore delle piccole e medie imprese, quelli che sviluppino in maniera documentata progetti produttivi fondati sul valore della prossimità territoriale, in particolare nei distretti industriali, implementino i processi di economie di filiera e evidenzino efficienti programmazioni di riduzione della delocalizzazione produttiva;
ad assumere iniziative di semplificazione e di vantaggio per i processi di condivisione tra le piccole e medie imprese delle attività di ricerca e sviluppo, nella logica imprenditoriale condivisa della costruzione di sinergie territoriali, dando priorità alle aziende che avviino concreti progetti interregionali;
a dare immediata esecuzione all'accordo sottoscritto a fine febbraio 2012, al fine di sostenere le piccole e medie imprese e garantire la ripresa dell'economia reale;
ad assumere ogni altra iniziativa volta a recuperare le risorse necessarie per risolvere l'annosa questione dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione e ridurre in tal modo il debito non più tollerabile nei confronti delle piccole e medie imprese, senza traslazione di oneri sui bilanci delle famiglie.
(1-00924)
«Mosella, Fabbri, Lanzillotta, Pisicchio, Tabacci, Versace, Vernetti, Brugger».
(13 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
il tessuto imprenditoriale italiano è composto da 4,5 milioni di aziende, di cui il 99,8 per cento sono classificabili come micro, piccole e medie imprese, con una quota degli occupati pari circa all'81,7 per cento del totale, con un livello del valore aggiunto prodotto che si attesta intorno al 72,5 per cento del valore complessivo;
sul totale delle micro, piccole e medie imprese, le statistiche mostrano che le microimprese (meno di 10 addetti) costituiscono la stragrande maggioranza, con una quota pari al 94,8 per cento;
appare necessario, stante la grave crisi che coinvolge soprattutto le micro, piccole e medie imprese, attuare manovre e applicare norme che consentano alle stesse di usufruire di un po’ di ossigeno per non rischiare che entrino nel tunnel della chiusura definitiva della propria attività, con le conseguenze facilmente immaginabili per l'occupazione e per l'economia del Paese;
le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale prospettano un rischio recessione per la l'economia, con un calo del prodotto interno lordo del 2,2 per cento nel 2012;
ciò pone la classe dirigente del Paese, la politica e il Governo davanti all'urgenza di scelte immediate e non più rinviabili, stante l'assunto da tutti riconosciuto che senza una ripresa dello sviluppo si è condannati al fallimento;
la crisi ha, comunque, accentuato le difficoltà – invero presenti da numerosi anni – per il cuore del sistema economico italiano, le piccole e medie imprese, di reperire le risorse necessarie per continuare ad operare e crescere in un mercato dominato da una logica di profitto a breve termine, in cui i capitali vengono attirati dalle attività più speculative, determinando un preoccupante e dannoso deficit di risorse per il settore, che rappresenta la maggior parte dell'occupazione in Italia e che contraddistingue un tessuto economico basato sull'innovazione, la flessibilità e la solidarietà;
infatti, dagli anni Novanta è iniziata una commistione tra le attività finanziarie ordinarie, rappresentate dai depositi, i mutui, i prestiti alle imprese, e le attività speculative che, negli ultimi anni in particolare, hanno mostrato la loro vera natura minacciando di gettare il mondo in una depressione economica senza paragoni. Di fronte a questa prospettiva, Governi e le banche centrali hanno attuato numerosi salvataggi, caricando sui contribuenti ulteriori debiti prodotti da chi ha speculato per conto proprio;
è necessario garantire che il sistema finanziario sia al servizio dell'economia reale, a differenza della tendenza degli ultimi anni in cui le attività puramente speculative hanno preso il sopravvento sul resto dell'economia, provocando anche un forte deficit di investimenti nei beni e servizi necessari per mantenere e accrescere il tenore di vita della popolazione;
la Commissione europea, già nel 2008, pubblicò lo small business Act che stabiliva i 10 principi che si sarebbero dovuti adottare dai Governi per garantire il sostegno delle piccole e medie imprese, ovvero: dar vita a un contesto in cui imprenditori e imprese familiari possano prosperare e che sia gratificante per lo spirito imprenditoriale; far sì che imprenditori onesti, che abbiano sperimentato l'insolvenza, ottengano rapidamente una seconda possibilità; formulare regole conformi al principio «pensare anzitutto in piccolo»; rendere le pubbliche amministrazioni permeabili alle esigenze delle piccole e medie imprese; adeguare l'intervento pubblico alle esigenze delle piccole e medie imprese; facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici e usare meglio le possibilità degli aiuti di Stato per le piccole e medie imprese; agevolare l'accesso delle piccole e medie imprese al credito e sviluppare un contesto giuridico ed economico che favorisca la puntualità dei pagamenti nelle transazioni commerciali; aiutare le piccole e medie imprese a beneficiare delle opportunità offerte dal mercato unico; promuovere l'aggiornamento delle competenze nelle piccole e medie imprese e ogni forma di innovazione; permettere alle piccole e medie imprese di trasformare le sfide ambientali in opportunità; incoraggiare e sostenere le piccole e medie imprese perché beneficino della crescita dei mercati;
l'Italia ha dato attuazione alla comunicazione della Commissione europea del 2008 con la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 4 maggio 2010 sullo small business Act;
dai monitoraggi effettuati nel corso degli anni, è risultato che l'Italia è il Paese dell'Unione europea con il maggior numero di imprese di piccole dimensioni. Infatti, più di una piccola e media impresa europea su cinque è italiana e le piccole e medie imprese nel loro insieme rappresentano il 99,8 per cento del totale delle imprese europee. Più di nove su dieci hanno meno di dieci dipendenti e in esse trovano occupazione due terzi dei lavoratori europei. Le aziende artigiane, inoltre, sono 5 milioni e la microimpresa italiana crea il 31,5 per cento del valore aggiunto del Paese, mentre in altri Paesi come Inghilterra e Germania il dato è circa la metà;
nonostante la grave crisi economica e finanziaria che ha colpito il nostro Paese, le piccole e medie imprese costituiscono ancora il volano dell'occupazione italiana;
le difficoltà che le micro, piccole e medie imprese sono chiamate ad affrontare in un periodo di grave crisi economica sono di carattere legislativo, creditizio e finanziario;
la crisi economica e finanziaria ha ridotto drasticamente la possibilità delle piccole e medie imprese di accedere al credito. Ciò le priva, in molti casi, di quell'ossigeno necessario alla sopravvivenza e impedisce alle stesse imprese di programmare nuovi investimenti;
l'origine finanziaria della crisi globale ha evidenziato la necessità di intervenire, nell'ottica di patrimonializzare, sugli istituti di credito e sugli eccessivi livelli di rischio che essi assumono;
al fine di scongiurare il verificarsi di una nuova crisi finanziaria si è intervenuti apportando significative modifiche all'accordo noto con il nome di «Basilea 2», stilando il testo del «Basilea 3». In base agli accordi raggiunti, il requisito minimo per il common equity – la componente di capitale con la maggiore capacità di assorbire le perdite – sarà innalzato dall'attuale livello del 2 per cento al 4,5 per cento;
il nuovo coefficiente sarà introdotto con gradualità entro il 1o gennaio 2015;
il requisito per il patrimonio di base, che, oltre al common equity, comprenderà altri strumenti finanziari computabili sulla base di criteri più stringenti rispetto agli attuali, sarà elevato dal 4 al 6 per cento nell'arco dello stesso periodo;
è stato, altresì, stabilito che il capital conservation buffer (cuscinetto di protezione del patrimonio), aggiuntivo rispetto ai requisiti minimi regolamentari, sia calibrato al 2,5 per cento e costituito da common equity al netto delle deduzioni e sarà applicato a seconda delle specifiche situazioni nazionali;
lo scopo del nuovo buffer di capitale è quello di assicurare che le banche mantengano un cuscinetto di capitale da poter impiegare per assorbire le perdite durante i periodi di stress finanziario ed economico. Da un lato, le banche potranno attingere a tale risorsa in situazioni di stress, dall'altro, quanto più i loro coefficienti patrimoniali regolamentari si avvicineranno al requisito minimo, tanto maggiori saranno i vincoli posti alla distribuzione degli utili. Tali coefficienti patrimoniali sono integrati da un indice di leva finanziaria non basato sul rischio, che funge da supporto ai coefficienti descritti in precedenza basati sul rischio;
inoltre, è stato deciso di sperimentare un coefficiente minimo di leva finanziaria per il patrimonio di base del 3 per cento durante il corrispondente periodo di sperimentazione;
a seconda dei risultati della fase sperimentale, gli eventuali aggiustamenti definitivi saranno apportati nella prima metà del 2017, con l'obiettivo di trasformarlo, a partire dal 1o gennaio 2018, in requisito minimo nell'ambito del primo pilastro del regime di «Basilea 2», subordinatamente a un'appropriata revisione delle regole di calcolo e alla fissazione del livello di calibrazione;
sono state previste disposizioni transitorie per l'applicazione dei nuovi standard, fatto che contribuirà ad assicurare che il settore bancario sia in grado di rispettare coefficienti patrimoniali più elevati, attraverso ragionevoli politiche di accantonamento degli utili e di aumenti di capitale, assicurando in pari tempo il credito all'economia;
in aggiunta, dopo un periodo di osservazione che prenderà avvio nel 2011, l'indice di copertura della liquidità a breve sarà introdotto il 1o gennaio 2015. L'indicatore strutturale dell'equilibrio finanziario sarà trasformato in requisito minimo il 1o gennaio 2018;
in sintesi: i principali timori di «Basilea 3» sono riconducibili, da un lato, all'utilità e all'efficacia dell'accordo e, dall'altro, alle conseguenze che esso potrebbe avere sulle imprese e, più in generale, sull'economia reale;
ad essere maggiormente penalizzati sono i Paesi con modelli di business come l'Italia, fondati, cioè, sul canale del credito bancario per il finanziamento alle imprese;
le lentezze di ordine burocratico e i tempi ormai incredibilmente lunghi della giustizia civile costituiscono degli ulteriori ostacoli per le piccole e medie imprese che ne escono fortemente penalizzate per la difficoltà di veder soddisfatti i propri crediti in tempi ragionevoli,
impegna il Governo:
a verificare e, se necessario, ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché sia assicurata l'erogazione del credito, al fine di prevenire e scongiurare che le stesse imprese e le famiglie debbano pagare le eventuali conseguenze negative dell'applicazione dei nuovi parametri patrimoniali previsti da «Basilea 3»;
a migliorare il rapporto tra pubblica amministrazione e aziende, potenziando, se necessario, il fondo di garanzia al fine di rendere meno difficoltoso l'accesso al credito dei piccoli e medi imprenditori;
a promuovere un quadro organico di interventi a favore delle micro, piccole e medie imprese, asse portante dell'economia italiana;
a promuovere le necessarie iniziative normative per ovviare ai ritardi nei pagamenti delle transazioni, in particolar modo quelle che interessano le pubbliche amministrazioni;
ad attivare politiche tese a ridurre la pressione fiscale, in particolare sulle imprese di piccole e medie dimensioni e sulle famiglie;
a sostenere l'internazionalizzazione, l'innovazione e la ricerca, la cooperazione in reti, oltre che la tutela del made in Italy, presupposto indispensabile per mantenere in vita molte imprese artigiane;
a verificare la possibilità di assumere iniziative per una proroga dei pagamenti dovuti all'erario per le imprese colpite, a vario titolo, dagli ultimi eventi atmosferici disastrosi a partire dalla zone dove è stato riconosciuto lo stato di calamità.
(1-00929)
«Polidori, Moffa, Calearo Ciman, Catone, D'Anna, Grassano, Gianni, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Razzi, Romano, Ruvolo, Scilipoti, Siliquini, Stasi, Taddei».
(15 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
i problemi connessi alla crisi dei debiti sovrani e gli interventi regolamentari che hanno imposto alle banche di procedere ad ingenti ricapitalizzazioni contribuiscono all'acutizzarsi delle difficoltà nell'accesso al credito;
conseguentemente, le piccole e medie imprese, che costituiscono la spina dorsale del tessuto economico e produttivo del nostro Paese e che, nel loro complesso, rappresentano i tre quarti della forza lavoro dipendente ed il 98 per cento delle aziende italiane, stanno correndo un grossissimo rischio, quello di vedersi chiudere totalmente i «rubinetti» del credito. Tutto ciò va ad aggiungersi ai ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni;
la normativa europea di recepimento dell'accordo di «Basilea 3», prevede un generale inasprimento dei requisiti patrimoniali per le banche che, se da una parte accresce la fiducia nella solvibilità delle banche medesime, dall'altra rischia di tradursi in maggiori costi per il sistema produttivo, specialmente per le piccole e medie imprese che sono da sempre «banco-centriche», mentre le poche grandi aziende italiane si rivolgono direttamente al mercato;
la crisi economica ha fatto diminuire il fatturato delle piccole e medie imprese italiane del 30 per cento, inducendo le banche a chiedere loro il rientro dai fidi concessi in tempi ristretti e il numero percentuale delle piccole e medie imprese che negli ultimi mesi ha avuto problemi di accesso ad un finanziamento bancario è pari al 43 per cento;
l'Autorità bancaria europea (european banking Authority) ha adottato una raccomandazione che prevede la creazione, entro il prossimo mese di giugno 2012, di una riserva supplementare di fondi propri da parte delle banche, chiedendo di aumentare il «Core Tier 1» delle banche stesse, portandolo al 9 per cento minimo. Tali requisiti non stanno diffondendo la fiducia che l'Autorità bancaria europea si proponeva;
per la valutazione del rischio, l'Autorità bancaria europea ha usato il criterio market to market, ossia l'attribuzione non del valore nominale o cedolare dei titoli ma il prezzo corrente di mercato, che per i titoli sovrani italiani detenuti dalle banche italiane ha significato un deprezzamento di oltre il 15 per cento del valore nominale, con effetti pesanti sui mercati e sulle minusvalenze dei conti;
l'Associazione bancaria italiana ha proposto l'introduzione di specifici coefficienti, per esempio, il pmi supporting factor da applicare all'ammontare destinato a riserva secondo i parametri di «Basilea 3» per far sì che i rigidi requisiti patrimoniali richiesti non si traducano una restrizione ulteriore di erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
la Banca centrale europea ha attivato, l'8 dicembre 2011, due finanziamenti straordinari (il long term refinancing operation-ltro), della durata di 36 mesi a favore delle banche, allo scopo di garantire l'accesso alla liquidità agli istituti di credito, per oltre 1.000 miliardi di euro e più precisamente, il 21 dicembre 2011, la prima asta ha visto assegnare oltre 489 miliardi di euro e la seconda, il 29 febbraio 2012, quasi 530 miliardi di euro, al tasso fisso dell'1 per cento. Le banche italiane hanno fatto ricorso a questo finanziamento rispettivamente per 116 miliardi di euro la prima volta e per 139 di euro miliardi la seconda, che in parte sono andati al riassorbimento di operazioni in scadenze a breve;
il governatore della Banca d'Italia, in suo recente intervento all'Assiom Forex, ha detto che: «le imprese si trovano a dover fronteggiare un inasprimento delle condizioni creditizie» ed ha invitato le banche a «valutare attentamente il merito di credito, senza far mancare il sostegno finanziario ai clienti solvibili e meritevoli»;
presso il Ministero dello sviluppo economico è istituito il fondo centrale di garanzia con lo scopo di favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, attraverso il rilascio di una garanzia pubblica sui finanziamenti erogati dalle banche;
l'analisi annuale per la crescita 2012, presentata dalla Commissione europea il 23 novembre 2011 (COM(2011)815 def.) prevede espressamente di «ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia» e pone «l'esigenza di garantire che le banche rafforzino i propri coefficienti patrimoniali consolidando le proprie posizioni patrimoniali e non limitando indebitamente l'erogazione di prestiti all'economia reale» e di «rivedere le norme prudenziali per evitare che penalizzino indebitamente l'erogazione di prestiti alle piccole e medie imprese»;
altro fattore di forte criticità per le imprese è dato dai ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione: l'ammontare complessivo viene stimato intorno ai 70 miliardi di euro e l'entità dei ritardi accumulati ammonta mediamente a 128 giorni, contro una media europea di 65 giorni, con un range che va da un minimo di 92 ad un massimo di 664 giorni,
impegna il Governo:
ad adottare le opportune iniziative al fine di aumentare le possibilità di accesso al credito delle piccole e medie imprese, finalizzato ad investimenti per l'innovazione dei prodotti e dei processi;
ad adoperarsi in sede europea al fine di:
a) sospendere l'entrata in vigore delle misure volte a fissare livelli più elevati per i coefficienti patrimoniali delle banche;
b) intervenire in merito ai requisiti patrimoniali delle banche affinché siano introdotti meccanismi correttivi per la ponderazione del rischio di credito relativo ai prestiti alle piccole e medie imprese;
ad adottare iniziative normative volte a rendere più veloci i pagamenti dei crediti della pubblica amministrazione, accellerando il recepimento e l'applicazione della direttiva 2011/7/UE;
ad assumere iniziative volte a istituire un fondo presso la Cassa depositi e prestiti, atto ad accollarsi l'onere della parte di debiti, delle autonomie locali, verso le piccole e medie imprese garantiti da disponibilità a bilancio ma non utilizzabili per i vincoli del rispetto del patto di stabilità interno.
(1-00948)
«Cambursano, Giulietti, Giorgio Merlo, Barbi, Zampa, Mario Pepe (PD), Portas, Marmo, La Forgia, Santagata, Recchia».
(21 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
sebbene sia stata innescata dai crack finanziari di soggetti privati internazionali prima e dai rischi di insolvenza dei debiti sovrani in seguito, la crisi che sta attraversando l'Italia ha origini più antiche ed interne poiché l'Italia registrava bassi tassi di sviluppo già dall'inizio degli anni 2000;
le piccole e medie imprese rappresentano un patrimonio di fondamentale importanza per l'economia italiana e uno dei principali elementi di vitalità del nostro Paese, ma rappresentano altresì il settore che sta maggiormente soffrendo dell'attuale contingenza economica;
nell'attuale scenario, oltre al calo della domanda interna ed estera, le difficoltà incontrate dalle piccole e medie imprese sono di ordine finanziario e possono essere principalmente ricondotte a due ordini di problemi: le difficoltà di accesso al credito e di rientro dei prestiti ricevuti dalle banche; i ritardi dei pagamenti dei crediti vantati nei confronti sia della pubblica amministrazione, sia dei clienti privati;
in tema di credito non ha certo giovato l'introduzione dei nuovi requisiti patrimoniali per gli istituti bancari, previsti dall'accordo «Basilea 3», per garantire la stabilità del sistema che ha determinato effetti restrittivi nell'erogazione del credito alle piccole e medie imprese;
oltre agli effetti derivanti dall'accordo «Basilea 3», le banche italiane devono scontare anche le conseguenze derivanti dalla richiesta dell'Autorità bancaria europea alle banche europee di aumentare la propria capitalizzazione, al fine di rafforzare la fiducia dei mercati nella capacità degli istituti di credito di fronteggiare gli shock provenienti dal fronte dei debiti sovrani;
la seconda long term refinancing operation (ltro) della Banca centrale europea ha assegnato 529,53 miliardi di euro in asta a 36 mesi al tasso dell'1 per cento e segue quella di 489 miliardi di euro collocati a dicembre 2011, entrambe finalizzate a stimolare la concessione di prestiti da parte delle banche;
in questa delicata fase, i consorzi di garanzia collettiva dei fidi hanno continuato a svolgere un'importante funzione e a rappresentare uno strumento efficace nel migliorare le condizioni di accesso ai prestiti e nell'aumentare la qualità del credito bancario alle imprese, soprattutto di minore dimensione, consentendo, in particolare, a quelle associate a consorzi di garanzia di ottenere linee di credito a tassi d'interesse più bassi rispetto a quelle non associate;
in tal senso, infatti, l'Italia rappresenta un caso di successo in termini di penetrazione della garanzia sul totale dei finanziamenti concessi alle imprese;
tuttavia, mentre i Paesi esteri si caratterizzano per la presenza di schemi di filiera della garanzia semplici e strettamente correlati alle politiche economiche e industriali «centrali», nonché per l'assenza di capillarità distributiva e contribuzione privata alla formazione delle risorse a sostegno della filiera stessa, l'Italia, al contrario, presenta un modello distributivo molto sviluppato e con forti legami sul territorio, basato essenzialmente sul soggetto confidi quale attore principale della garanzia diretta e di primo livello, ma, al contempo, la filiera è lunga e complessa, con molte sovrapposizioni tra i diversi attori, istituzionali e non, e una minore focalizzazione di politica economica;
si segnala, tuttavia, che è stato recentemente sottoscritto il nuovo accordo tra i rappresentanti dell'Associazione bancaria italiana e le associazioni d'impresa con il Ministro dello sviluppo economico ed il Viceministro dell'economia e delle finanze Vittorio Grilli: la moratoria riguarderà tutte le linee di credito aperte dalle imprese, così da consentire a tutte le piccole e medie imprese di beneficiare della sospensione delle rate di mutui e leasing;
in tema di ritardo nei pagamenti dalla pubblica amministrazione in Italia (che costano alle piccole e medie imprese 3,7 miliardi di euro di oneri finanziari), è stato stimato che, al termine contrattuale di 90 giorni, si somma un ritardo medio di altri 90 giorni, per un totale di 180 giorni, il che rende la pubblica amministrazione italiana il peggiore pagatore d'Europa. Tuttavia, sebbene nel Mezzogiorno il cliente prevalente delle imprese è la pubblica amministrazione, nel Nord e nel Centro, invece, i clienti sono soprattutto privati e anche qui la situazione è difficilissima, anche perché le azioni legali sono costose per la lunghezza dei tempi della giustizia e spesso inefficaci;
la scarsa liquidità e l'insolvibilità non spiegano da sole la crisi che sta attraversando il mondo delle piccole e medie imprese. Esistono anche altri fattori che hanno determinato questa situazione legati alla redditività e alla capacità delle imprese di restare competitive,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative presso le competenti sedi europee al fine di mitigare gli effetti, in particolare con riferimento all'accesso al credito delle piccole e medie imprese, derivanti dall'applicazione delle nuove regole stabilite dall'Unione europea in materia di coefficenti patrimoniali e di capitalizzazione delle banche italiane;
a promuovere iniziative che agevolino la destinazione delle due tranche di prestiti che la Banca centrale europea ha erogato in favore degli istituti bancari, principalmente a finanziamenti rivolti all'economia reale, in particolare alle aziende piccole e medie;
ad adottare iniziative volte a rafforzare il ruolo e l'operatività dei consorzi di garanzia collettiva fidi;
a ridefinire e semplificare la filiera italiana delle garanzie oggetto di finanziamento ai privati (retail), preservandone la natura fortemente sussidiaria e basata sullo strumento dei confidi;
ad adottare iniziative, anche di carattere normativo, finalizzate a disciplinare una reale compensazione tra i crediti commerciali verso la pubblica amministrazione e i debiti tributari.
(1-00970)
«Ciccanti, Galletti, Anna Teresa Formisano, Ruggeri, Pezzotta, Occhiuto, Compagnon, Naro, Volontè, Poli, Libè».
(26 marzo 2012).
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI USO E SVILUPPO DELLE AGROENERGIE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AGLI IMPIANTI ALIMENTATI A BIOMASSE
La Camera,
premesso che:
le biomasse costituiscono un'importante fonte energetica rinnovabile, il cui ruolo potrebbe essere determinante per il raggiungimento degli obiettivi fissati con il Protocollo di Kyoto, con il successivo «pacchetto clima-energia», per il rispetto dei molteplici impegni assunti dal nostro Paese, a partire dall'attuazione del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il quale prevede la definizione del contributo delle varie fonti per conseguire gli obiettivi stabiliti in ambito comunitario per il 2020, ossia 17 per cento di produzione di energia da fonti energetiche rinnovabili sul consumo totale di energia e 10 per cento sul consumo totale di carburanti; in sostanza, per quanto riguarda le biomasse è previsto, sempre al 2020, un obiettivo di 18,8 terawattore di energia elettrica e 5,7 megawatt di energia termica; questi valori indicano che il 45 per cento del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili sarà realizzato grazie alle biomasse;
il 13 febbraio 2012 la Commissione europea ha adottato una strategia per la bioeconomia in Europa che considera le biomasse quale elemento centrale per definire un'economia post-petrolio in Europa;
con le agroenergie è possibile contribuire a valorizzare le filiere agroalimentari presenti sul territorio, integrando il reddito dei produttori primari e in molti casi anche contribuendo a risolvere problemi di natura ambientale legati alla valorizzazione di sottoprodotti e di biomasse agricole e al miglioramento della sostenibilità delle pratiche agricole (rotazioni, effluenti zootecnici e direttiva nitrati, difesa dei suoli dall'erosione ed altro);
la direttiva comunitaria n. 28 del 2009, in materia di promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, definisce come biomassa la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura, dalla silvicultura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
il principio di funzionamento delle centrali alimentate a biomasse si basa sulla conversione dell'energia termica, ottenuta con la combustione (ovvero pirolisi o gassificazione) della biomassa o con la combustione del biogas, derivante dalla digestione anaerobica della biomassa stessa, in energia meccanica e successivamente in energia elettrica;
si ricorda che le biomasse sono l'unica fonte rinnovabile, programmabile, a base carbonica utilizzabile non solo come energia di riserva a supporto della generazione elettrica da fonti non programmabili, ma in futuro in grado di fornire carbonio non di origine fossile per lo sviluppo di una chimica capace di produrre biomateriali;
gli impianti possono essere alimentati da biomasse solide come legna, cippato, pellet, ma anche con rifiuti solidi urbani, biogas (derivanti dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani, da fanghi, deiezioni animali, ma anche da attività agricole) e bioliquidi (oli vegetali grezzi o altri bioliquidi); in totale, attualmente ci sono oltre 400 impianti, per una potenza installata superiore a 500 megawatt per circa 2 gigawattora di energia prodotta;
il biogas – costituito prevalentemente da metano e da anidride carbonica – nasce dalla fermentazione anaerobica di materiale organico di origine animale e vegetale e la normativa individua la molteplicità di matrici organiche da cui può essere prodotto: rifiuti conferiti in discarica ovvero frazione organica dei rifiuti urbani, fanghi di depurazione, deiezioni animali, scarti di macellazione, scarti organici agroindustriali, residui colturali, colture energetiche dedicate; i combustibili di origine biologica allo stato liquido sono distinti, in base al decreto legislativo n. 28 del 2011, in bioliquidi, combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa e in biocarburanti, carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa;
negli ultimi anni si è assistito ad un consistente sviluppo di queste fonti energetiche rinnovabili, anche grazie ai meccanismi incentivanti introdotti con recenti disposizioni normative, dando vita ad alcune preoccupazioni per le possibili conseguenze negative legate alla crescita dell'utilizzo delle biomasse;
il citato decreto legislativo n. 28 del 2011, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili», prevede che l'incentivo per biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili debba essere finalizzato, tra l'altro, a promuovere l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, di biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agroalimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e di biogas da filiere corte;
appare evidente la necessità di promuovere e valorizzare forme di produzione dell'energia che utilizzino sostanze di origine biologica, in modo da ridurre il consumo di combustibili fossili e l'emissione di gas climalteranti, acidificanti e potenzialmente tossici, ma senza dare vita ad effetti distorsivi per l'economia agricola o addirittura inefficaci per quanto riguarda il saldo delle emissioni; in particolare, risulta essenziale favorire le filiere più efficienti nell'uso del suolo agricolo, nella riduzione delle emissioni di carbonio e capaci di generare la massima ricaduta occupazionale in ambito locale; questi aspetti possono essere verificati tramite studi dedicati di analisi del ciclo di vita (life cycle assesment) normati dalla serie ISO 14040;
il biogas è un vettore energetico polivalente e particolarmente idoneo al contesto italiano, con un'elevata densità di popolazione e un'estesa e capillare rete del gas; la filiera biogas-biometano si caratterizza, quindi, per le sue qualità plurifunzionali: elevata efficienza negli usi finali, costi di produzione competitivi rispetto alle altre fonti energetiche rinnovabili, con limitati costi di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, in quanto consente il massimo utilizzo delle superfici agricole in termini di energia prodotta; è una fonte programmabile e conservabile mediante l'utilizzo della rete e degli stoccaggi del gas naturale ed è una filiera con un rilevante impatto sull'economia agricola e industriale;
tra le energie rinnovabili da biomassa, il biogas sembra, quindi, rappresentare un'apprezzabile potenzialità per alcune intrinseche caratteristiche positive della sua filiera: l'elevata intensità di lavoro che è in grado di produrre; l'utilizzo prevalente di biomasse prodotte dalle aziende agricole italiane; la nascente filiera tecnologica italiana di produzione di impianti a biogas, con tutte le importanti potenziali ricadute sull'indotto e gli effetti positivi derivanti dal reinvestimento dei profitti (garantiti dagli incentivi) nello sviluppo tecnologico di questo settore all'interno del sistema Paese; la valorizzazione di parametri come l'efficienza e il riciclaggio di gran parte degli scarti della produzione agricola e zootecnica; l'agevole localizzazione degli impianti in prossimità dei luoghi di produzione delle biomasse, con la contestuale riduzione dei costi (economici ed ambientali) del trasporto delle biomasse stesse; il possibile utilizzo in ambito cogenerativo;
tra le criticità emerse nella diffusione delle bioenergie si sottolineano le seguenti: la realizzazione di impianti di medie e grandi dimensioni comporta, inevitabilmente, un aumento della distanza coperta dai materiali necessari per il funzionamento degli impianti, con conseguente incremento della mobilità di mezzi pesanti e del relativo impatto ambientale; in alcune province dell'Italia si sta verificando un'eccessiva concentrazione di impianti che, in assenza di una programmazione territoriale, determina effetti in contrasto con gli obiettivi che in tutti questi anni hanno determinato il sostegno allo sviluppo degli impianti agroenergetici di piccole dimensioni nell'ottica esclusiva della multifunzionalità dell'agricoltura; occorre, quindi, che la governance delle regioni o, quando delegate, delle province sui territori sia ben organizzata e studiata nell'intera sua complessità, senza permettere la concessione di autorizzazioni quando non sono presenti tutte le corrette rassicurazioni per la sostenibilità delle filiere tradizionali;
una delle principali preoccupazioni, che andrebbe comunque confrontata con i dati Istat relativi all'ultimo censimento agricolo in merito alla cessazione delle attività agricole, riguarda il pericolo di trasformazione delle colture agricole attualmente destinate all'alimentazione umana (food) e alla zootecnia (feed) in colture finalizzate alla produzione di energia (fuel), con immaginabili alterazioni del mercato dei prodotti agricoli e zootecnici, rischiando di trasformare la finalità originaria delle agroenergie – di attività integrativa del reddito in agricoltura – in attività sostitutiva dell'agricoltura;
a riguardo si rammenta come siano stati emanati due provvedimenti cogenti: un decreto contenente le linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili ed il decreto burden sharing, ovvero la ripartizione tra le regioni e le province autonome dello sforzo per raggiungere il target europeo di energia verde fissato per l'Italia al 2020; tali provvedimenti, se applicati correttamente e tempestivamente, permetterebbero una corretta programmazione in ambito locale degli interventi;
è auspicabile promuovere la realizzazione di impianti che siano compatibili con le esigenze di vivibilità dei territori, con la salvaguardia delle produzioni agricole, specie quelle orientate alla qualità del prodotto (ad esempio, le colture biologiche o da serricoltura), stabilendo criteri per lo sfruttamento prevalente delle biomasse locali; in particolare, sarebbe opportuno prevedere meccanismi disincentivanti per l'importazione di materiale dall'estero e, in maniera diversa, l'impiego di colture dedicate quando non da filiera corta; bisogna, altresì, favorire le biomasse da rifiuti, da scarti agricoli, del verde urbano e forestali, premiando l'efficienza energetica del ciclo, ponendo attenzione alle dinamiche di mercato che potrebbero determinare effetti distorsivi connessi al costo delle matrici organiche di scarto;
è necessario apportare dei correttivi all'attuale sistema, in modo da garantire uno sviluppo sostenibile delle filiere agroenergetiche; in particolare, è importante: una razionalizzazione delle tariffe; un miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza degli incentivi che determinino lo sviluppo di filiere industriali e l'incremento del reddito e dell'occupazione, con biomasse provenienti da filiere corte e comunque circoscritte al territorio locale; la tutela del paesaggio; un controllo del consumo dei terreni agricoli; un monitoraggio dei prezzi delle derrate alimentari e degli affitti dei terreni agricoli; un corretto inserimento degli impianti nel tessuto urbanistico e rurale in rapporto alle caratteristiche tecniche e di produzione energetica, tenendo in adeguata considerazione l'impatto sul traffico stradale, sia per quanto riguarda le emissioni inquinanti e i problemi di congestione, sia per quanto riguarda l'inquinamento acustico della zona;
sarebbe opportuno, tra l'altro, che si procedesse ad emanare tempestivamente le direttive sulle caratteristiche chimiche e fisiche del biometano di cui all'articolo 20 del decreto legislativo n. 28 del 2011,
impegna il Governo:
ad adottare nel più breve tempo possibile i decreti attuativi previsti dagli articoli 21, 24 e 28 del decreto legislativo n. 28 del 2011, diretti a favorire l'utilizzo del biometano e la produzione di energia elettrica e termica da impianti alimentati da fonti rinnovabili;
a verificare l'applicazione sul territorio nazionale delle linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e del burden sharing e ad adottare ogni iniziativa di competenza per una regolamentazione ottimale in merito alla localizzazione degli impianti di piccole dimensioni, con l'obiettivo di incentivare il settore delle agroenergie e le connesse potenzialità in termini di green economy e, contemporaneamente, di salvaguardare la funzione primaria dell'agricoltura, il paesaggio agrario e l'equilibrio urbanistico, evitando distorsioni di mercato, come descritto in premessa, che potrebbero minarne le reali possibilità di sviluppo, essendo noto che gli scarti della filiera agroindustriale raramente sono nella disponibilità degli agricoltori;
a differenziare il sistema degli incentivi sulla base dei principi espressi nel penultimo capoverso della premessa e sulla base dell'efficienza energetica dell'impianto, con l'obiettivo di sfruttare innanzitutto le risorse locali nel rispetto della vocazione agricola del territorio, premiando la virtuosità della filiera e dell'efficienza energetica di tutto il ciclo, utilizzando, oltre a quelli già esistenti, come possibile ulteriore strumento adatto a questo tipo di monitoraggio la già citata analisi del ciclo di vita;
a favorire un protagonismo dell'imprenditoria agricola italiana, al fine di incentivare l'opzione agroenergetica come fonte integrativa di reddito capace di irrobustire la capacità reddituale dell'azienda agricola nel suo complesso, rafforzando in tal modo anche la sua capacità di produrre in modo competitivo alimenti e foraggi, differenziando le varietà colturali e mitigando il rischio associato alla stagionalità ed alle fluttuazioni dei prezzi di mercato;
a provvedere ad uniformare la legislazione relativa alla definizione di sottoprodotto ed al ciclo integrato dei rifiuti, al fine di consentire l'utilizzo del materiale organico presente nel rifiuto o quale effluente di processi industriali o substrato ideale per la produzione di energia sia attraverso combustione diretta che attraverso la produzione di biogas, risolvendo le attuali problematiche e controversie circa l'identificazione di sottoprodotti da utilizzare in ambiente agricolo.
(1-00869)
(Nuova formulazione) «Servodio, Bratti, Mariani, Oliverio, Lulli, Boccia, Margiotta, Zucchi, Froner, Agostini, Benamati, Bocci, Braga, Brandolini, Marco Carra, Cenni, Colaninno, Cuomo, Dal Moro, Esposito, Fadda, Fiorio, Ginoble, Iannuzzi, Marantelli, Marchioni, Marrocu, Martella, Mastromauro, Morassut, Motta, Peluffo, Mario Pepe (PD), Pizzetti, Portas, Quartiani, Realacci, Sanga, Sani, Scarpetti, Federico Testa, Trappolino, Vico, Viola, Zunino».
(15 febbraio 2012)
La Camera,
premesso che:
la società odierna e i relativi stili di vita sono caratterizzati da elevati consumi in campo energetico, oltre che da relazioni con l'ambiente tali da compromettere l'equilibrio sostenibile tra necessità di sviluppo ed il contesto biologico globale;
i combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) coprono oltre l'80 per cento dei consumi energetici del pianeta, ma al loro consumo è, tuttavia, collegata una parte del problema dell'emissione di anidride carbonica, la cui concentrazione in atmosfera è considerata la causa principale dei cambiamenti climatici;
dopo una lunga fase di espansione, con ritmi di crescita economica senza precedenti, che hanno interessato anche quei Paesi che oggi sono definiti emergenti, ci si trova di fronte ad una recessione altrettanto unica, che rischia di bloccare i processi di sviluppo del commercio e delle produzioni globali;
per fronteggiare la crisi e creare le condizioni per una rapida ripresa delle economie mondiali, i Paesi stanno adottando piani volti a sostenere la domanda e gli investimenti, declinando misure diversificate a seconda delle necessità e delle emergenze dei singoli Paesi;
le biomasse costituiscono un'importante fonte energetica rinnovabile, il cui ruolo potrebbe essere determinante per il raggiungimento degli obiettivi fissati con il Protocollo di Kyoto e per il rispetto dei molteplici impegni assunti dal nostro Paese, a partire dall'attuazione del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il quale prevede la definizione del contributo delle varie fonti per conseguire gli obiettivi stabiliti in ambito comunitario per il 2020, ossia 17 per cento di produzione da fonti energetiche rinnovabili sul consumo totale di energia e 10 per cento sul consumo totale di carburanti;
in sostanza, per quanto riguarda le biomasse è previsto, sempre al 2020, un obiettivo di 18,8 terawattore di energia elettrica e 5,7 mtep;
l'Unione europea, di fronte al costante aumento della domanda di energia a livello mondiale, è stata spinta a rivedere le proprie strategie energetiche, puntando all'adozione di un modello di sviluppo che prevede per il 2020 il raggiungimento di quattro importanti obiettivi: ridurre del 20 per cento i gas climalteranti, aumentare del 20 per cento l'efficienza energetica, incrementare del 20 per cento il peso delle energie rinnovabili, sostituire il 10 per cento dell'attuale consumo di carburanti per veicoli con biocombustibili;
in Europa, la fornitura principale di energia proviene in proporzione: dal petrolio (36,7 per cento), dal gas (24 per cento), dal carbone e da altri combustibili solidi (17,8 per cento), dal nucleare (14,2 per cento), dalla biomassa (5,1 per cento), dall'energia idroelettrica (1,5 per cento), dall'energia geotermica, solare ed eolica (0,8 per cento);
nel febbraio 2012 l'Europa ha adottato una politica strategica per la bioeconomia in Europa, che considera le biomasse quale elemento centrale per definire un'economia post-petrolio in Europa;
la direttiva comunitaria 2009/28/CE stabilisce un quadro comune per la promozione dell'energia da fonti rinnovabili e fissa al 20 per cento la quota minima di energia da fonti rinnovabili da consumare nell'Unione europea entro il 2020, assegnando a ciascuno Stato membro un obiettivo nazionale da raggiungere entro tale data;
al fine di consentire tale obiettivo, gli Stati membri sono autorizzati ad adottare, tra l'altro, regimi di sostegno atti a promuovere l'uso di tali forme di energia e per l'Italia la quota di consumo di energia da fonti rinnovabili da raggiungere entro il 2020 è del 17 per cento;
se l'Italia sarà in grado di rispettare gli obiettivi fissati dalla direttiva 2009/28/CE la produzione delle rinnovabili nelle campagne è destinata a triplicare nei prossimi dieci anni, creando circa 100.000 posti di lavoro;
il settore agricolo è, quindi, chiamato a promuovere l'uso di energia proveniente dalle biomasse, utilizzando i più avanzati processi, ad adottare tecniche di coltivazione sostenibili – nel rispetto delle prescrizioni e delle norme sulla politica agricola comune – ed a sviluppare la ricerca e la sperimentazione sulle colture dedicate e sulle migliori e più convenienti tecnologie applicabili agli allevamenti zootecnici;
per dare un futuro alle agroenergie nel nostro Paese occorre arrivare in tempi brevi ad un nuovo sistema di incentivi che garantisca il raggiungimento degli obiettivi fissati per il biogas e le biomasse;
per il biogas, probabilmente, gli obiettivi fissati al 2020 a 1200 megawatt devono essere ritoccati con la revisione del piano di azione sulle energie rinnovabili. Per il biogas agricolo occorre assicurare almeno 1000 megawatt. In tale contesto è sempre più indispensabile disporre di un piano energetico nazionale, la cui emanazione è prevista da più di 4 anni,
impegna il Governo:
ad assumere ogni iniziativa di competenza per garantire un quadro normativo stabile e certezze per i prossimi 5 anni, con incentivi per gli imprenditori agricoli che si mettono in gioco nelle agro energie, al fine di consentire programmazione, investimenti e accesso al credito;
a favorire un protagonismo dell'imprenditoria agricola italiana, al fine di incentivare l'opzione agroenergetica come fonte integrativa di reddito capace di irrobustire la capacità reddituale dell'azienda agricola nel suo complesso, rafforzando in tal modo anche la sua capacità di produrre in modo competitivo alimenti e foraggi, differenziando le varietà colturali e mitigando il rischio associato alla stagionalità ed alle fluttuazioni dei prezzi di mercato.
(1-00905)
«Delfino, Dionisi, Mondello, Bonciani, Galletti, Libè, Compagnon, Naro, Ciccanti, Volontè».
(9 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
nell'ambito delle strategie di diversificazione delle energie rinnovabili la promozione di energia termica, che già rappresenta oltre il 45 per cento dei consumi finali dell'energia prodotta nella somma tra fonti tradizionali e rinnovabili, assume sempre maggior rilievo a fronte delle potenzialità ed opportunità, in termini di efficienza, di valorizzazione delle filiere produttive e di sostenibilità ambientale, che essa comporta;
il piano d'azione nazionale per l'energia da fonti rinnovabili, predisposto in attuazione della direttiva comunitaria n. 2009/28/CE, assegna all'energia termica generata da biomasse legnose e al biogas- biometano un ruolo di primo piano;
la produzione termica da biomasse è un sistema molto articolato in cui sono presenti tecnologie diversificate, quali apparecchi domestici, caldaie centralizzate e teleriscaldamento, a dimostrazione che l'intero settore è in grado di esprimere un potenziale ancora maggiore di quello stimato, come evidenziato negli obiettivi da conseguire entro il 2020 che attribuiscono alle biomasse la produzione del 54 per cento dei 10,5 mtep da fonti energetiche rinnovabili;
l'attivazione di un sistema incentivante, basato su una strategia di filiera, costituisce lo strumento indispensabile per lo sviluppo della termica da biomasse e, più in generale, per uno sviluppo economico a basso impatto ambientale;
il legno è, infatti, una fonte energetica rinnovabile e abbondante posto che, ogni anno, la superficie boschiva italiana, pari a 10 milioni di ettari, incrementa il capitale legnoso disponibile grazie al costante accrescimento del volume degli alberi per metro cubo e che le produzioni legnose, da destinare a scopo energetico, possono provenire anche da altre fonti, quali le potature delle colture arboree, in primis vigneti e uliveti, che trovano così utile valorizzazione;
l'interesse crescente all'approvvigionamento di biomasse legnose ad uso energetico comporta, inoltre, la riqualificazione della filiera legno-energia e dei suoi operatori, a partire dalle imprese boschive e dalle cooperative forestali che svolgono un ruolo fondamentale nella gestione sostenibile delle risorse legnose locali, nel mantenimento dell'equilibrio tra uso industriale ed energetico del legno e nella corretta implementazione della certificazione e della tracciabilità dei combustibili solidi;
per quanto concerne il settore del biogas, la filiera bioenergetica ad esso connessa rappresenta una delle strategie più utili allo sviluppo delle imprese agricole sia per la maggior capacità produttiva in termini di energia primaria per ettaro di superficie agricola utilizzata, che per la maggior capacità di ridurre le emissioni di anidride carbonica;
la digestione anaerobica permette, infatti, di sfruttare, con elevata efficienza, biomasse vegetali e/o animali, di scarto e/o dedicate, umide e/o secche prevalentemente di origine locale, dando luogo ad un sottoprodotto che può trovare collocazione agronomica nelle vicinanze degli impianti con conseguente riciclo virtuoso degli elementi fertilizzanti;
la previsione di crescita per il settore del biogas è di circa 900 megawatt rispetto alla potenza installata nel 2005 e l'obiettivo per il 2020, fissato a 1.200 megawatt, evidenzia un ulteriore potenziale di sviluppo rispetto ai circa 600 impianti presenti sul territorio italiano e rappresenta un importante stimolo alla predisposizione di ulteriori siti, anche a fronte dell'incremento che tali nuove realizzazioni comporterebbero in termini di giro di affari, pari a circa il 4 per cento del prodotto interno lordo dell'agricoltura italiana e di risparmio dei costi per l’import di gas naturale;
stime recenti evidenziano, infatti, considerati i quantitativi disponibili di biomasse di scarto e di origine zootecnica utilizzabili in codigestione con biomasse vegetali provenienti da coprodotti e sottoprodotti agricoli e da circa 200.000 di ettari di colture dedicate, un potenziale produttivo pari a circa 6,5 miliardi di metri cubi di gas metano equivalenti, pari a circa l'8 per cento del consumo attuale di gas naturale in Italia;
il biogas rappresenta un'opportunità unica per il nostro Paese in ragione della plurifunzionalità della filiera: è realizzabile a livello decentrato con biomasse di origine locale in impianti ad elevata efficienza, con costi di produzione aventi margini di miglioramento sia nella fase agricola che di conversione energetica; è una fonte programmabile e, una volta raffinato a biometano, è in grado sfruttare la possibilità di accumulo rappresentata dalla rete e dagli stoccaggi del gas naturale;
sebbene il potenziale del biogas agricolo sia significativo in tutto il territorio italiano, il maggiore potenziale, per quanto riguarda la digestione anaerobica in codigestione, con particolare riferimento all'utilizzo degli effluenti zootecnici, è localizzato nelle regioni del Nord Italia, ove, per contro, minore è il potenziale dell'energia solare e molto ridotta è l'energia ricavabile dalla fonte eolica; pertanto, l'introduzione di un adeguato sistema di incentivazione rappresenta un importante fattore da valutare nell'ambito degli obblighi derivanti alle regioni del Nord nell'ambito del cosiddetto burden sharing;
il decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, recante attuazione della direttiva europea sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, nell'enunciare regole e principi per la promozione e lo sviluppo delle energie «verdi», assegna ad una serie di decreti attuativi, in via di predisposizione, la definizione dell'operatività degli strumenti necessari al conseguimento degli obiettivi concordati a livello comunitario;
sarebbe, peraltro, opportuna una rapida emanazione delle direttive previste dall'articolo 20 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, relativamente alle condizioni tecniche ed economiche per l'erogazione del servizio di connessione di impianti per la produzione di biometano alle reti del gas naturale, i cui gestori hanno l'obbligo di connessione di terzi,
impegna il Governo:
ad emanare con urgenza i decreti attuativi di cui al decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, al fine di rendere operativi i sistemi incentivanti previsti per la produzione di energia termica di cui all'articolo 28 e di energia elettrica da fonti rinnovabili di cui all'articolo 24 e, prioritariamente, quelli previsti dagli articoli 21 e 22, relativi agli incentivi per il biometano immesso nella rete del gas naturale e alla costituzione del fondo di garanzia per la realizzazione delle reti di teleriscaldamento, provvedendo, in particolare, a:
a) stabilire che l'obbligo di quote crescenti di energia termica da fonti rinnovabili negli edifici di prossima costruzione, previsto dall'articolo 22 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, sia applicato integralmente e da subito, senza la previsione di eventuali proroghe;
b) riconoscere agli impianti a biogas di piccola e media taglia (0-300 kilowatt e 300-600 kilowatt), che costituiscono le dimensioni più adatte alla scala delle aziende agricole italiane, tariffe incentivanti adeguate a stimolare gli investimenti e ripagare i costi di gestione;
c) chiarire i criteri di rilascio dei certificati bianchi, anche in considerazione dei provvedimenti recentemente emanati in materia da parte dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas.
(1-00912)
«Bossi, Callegari, Lanzarin, Dozzo, Alessandri, Rainieri, Dussin, Togni, Negro, Montagnoli, Fugatti, Comaroli, Fogliato, Lussana, Fedriga, Volpi, Allasia, Bitonci, Bonino, Bragantini, Buonanno, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, D'Amico, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Fabi, Fava, Forcolin, Follegot, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Paolini, Pastore, Polledri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Torazzi, Vanalli».
(9 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
secondo quanto stabilito dalla direttiva 2009/28/CE, nel 2020 l'Italia dovrà coprire il 17 per cento dei consumi finali di energia mediante fonti rinnovabili. Prendendo a riferimento lo scenario efficiente, questo significa che nel 2020 il consumo finale di energie rinnovabili dovrà attestarsi a 22,31 megawatt di energia termica;
gli obiettivi e l'ampiezza della direttiva 2009/28/CE impongono un rinnovato impegno, con criteri che assicurino uno sviluppo equilibrato dei vari settori che concorrono al raggiungimento di detti obiettivi e tenendo conto del rapporto costi-benefici;
sono già disponibili numerosi meccanismi di sostegno, che assicurano la remunerazione degli investimenti in diversi settori delle energie rinnovabili e dell'efficienza energetica, e favoriscono la crescita di filiere industriali;
secondo la definizione contenuta nel decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, di attuazione della direttiva 2009/28/CE, per biomassa si intende la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfaldi e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
trarre energia dalle biomasse consente di eliminare rifiuti prodotti dalle attività umane, produrre energia elettrica e ridurre la dipendenza dalle fonti di natura fossile come il petrolio. Si tratta di una fonte di energia pulita su cui l'Unione europea ha deciso di investire;
la Commissione europea è sempre più convinta che le biomasse agroforestali, tra le fonti «verdi», possano svolgere un ruolo importante sia per la sicurezza dell'approvvigionamento energetico sia nella lotta contro il cambiamento climatico;
l'agricoltura può contribuire al contenimento delle emissioni di gas serra in termini di fissazione temporanea di carbonio nei suoli, nelle produzioni vegetali ed arboree e, soprattutto, nella produzione di biomasse agroforestali da impiegare ai fini energetici, con effetti sostitutivi dei combustibili fossili e riduzione delle emissioni di anidride carbonica;
gli impianti di produzione di energia elettrica possono essere alimentati da biomasse solide come legna, cippato, pellet, ma anche con rifiuti solidi urbani, biogas (derivanti dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani, da fanghi, deiezioni animali, ma anche da attività agricole) e bioliquidi (oli vegetali grezzi o altri bioliquidi);
i biocombustibili sono un'energia pulita a tutti gli effetti, in quanto liberano nell'ambiente le sole quantità di carbonio che hanno assimilato le piante durante la loro formazione ed una quantità di zolfo e di ossidi di azoto nettamente inferiore a quella rilasciata dai combustibili fossili;
i combustibili di origine biologica allo stato liquido sono distinti, in base al decreto legislativo n. 28 del 2011, in: bioliquidi (combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento prodotti dalla biomassa) e biocarburanti (carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa);
in particolare, riguardo alla produzione dei biocarburanti, l’input lanciato dalla Commissione europea agli Stati membri («Strategia Ue per i biocarburanti», COM 34/2006) è di riflettere su dove allestire le colture energetiche, affinché si inseriscano in maniera ottimale nella rotazione delle colture, al fine di evitare ripercussione negative sulla biodiversità, l'inquinamento idrico, il degrado del suolo e la distruzione di habitat e di specie di elevata importanza naturale;
il biogas, costituito prevalentemente da metano e da anidride carbonica, nasce dalla fermentazione anaerobica di materiale organico di origine animale e vegetale e vi sono una molteplicità di matrici organiche da cui può essere prodotto: rifiuti conferiti in discarica ovvero frazione organica dei rifiuti urbani, fanghi di depurazione, deiezioni animali, scarti di macellazione, scarti organici agroindustriali, residui colturali, colture energetiche dedicate;
il settore della biomassa deve essere promosso in maniera organica, individuando misure volte ad incrementarne la disponibilità e lo sfruttamento, indirizzandone gli impieghi non alla sola generazione elettrica, ma a forme più convenienti ai fini della copertura degli usi finali: produzione di calore per il soddisfacimento di utenze termiche e per la cogenerazione;
lo sviluppo dell'utilizzo della biomassa non può prescindere da considerazioni di carattere ambientale (emissioni, criteri di sostenibilità) e di competitività con altri settori (alimentare, industriale);
negli ultimi anni vi è stato un incremento dello sviluppo delle tecniche di produzione energetica da biomasse e dai suoi prodotti, anche a seguito dell'introduzione di una legislazione di sostegno, che prevede, tra l'altro, meccanismi incentivanti;
l'articolo 24 del decreto legislativo n. 28 del 2011 prevede un regime di incentivazione di biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili, che deve tener conto della tracciabilità e della provenienza della materia prima ed è finalizzato a promuovere l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, da biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agroalimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e biogas da filiere corte, contratti quadro e da intese di filiera;
un impulso decisivo allo sviluppo sul territorio delle biomasse è stato dato dal decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, del 10 settembre 2010, in materia di «Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili», che disciplina le modalità di autorizzazione dei diversi impianti e l'adeguamento delle regioni alla normativa in materia;
in particolare, nella parte che dispone che «le regioni possono indicare aree e siti non idonei all'installazione di specifiche tipologie di impianti. L'individuazione delle aree non idonee è operata dalle regioni attraverso un'apposita istruttoria che prenda in considerazione le disposizioni volte alla tutela dell'ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico ed artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale»;
se da tale ricognizione emergessero obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, si determinerebbe un'elevata probabilità di esito negativo in sede di autorizzazione. Gli esiti dell'istruttoria dovranno contenere, per ciascuna area individuata come non idonea, la descrizione delle incompatibilità riscontrate;
le regioni conciliano le politiche di tutela dell'ambiente e del paesaggio con quelle di sviluppo e valorizzazione delle energie rinnovabili attraverso atti di programmazione congruenti con la quota minima di produzione di energia da fonti rinnovabili loro assegnata (burden sharing), assicurando uno sviluppo equilibrato delle diverse fonti;
le aree non idonee sono, dunque, individuate dalle regioni nell'ambito dell'atto di programmazione con cui sono definite le misure e gli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi di burden sharing fissati. Con tale atto, la regione individua le aree non idonee, tenendo conto di quanto eventualmente già previsto dal piano paesaggistico e in congruenza con lo specifico obiettivo assegnatole;
impegna il Governo:
a promuovere una revisione della normativa vigente al fine di valorizzare le cosiddette agroenergie, rispettando la tipicità dell'economia italiana ed evitando distorsioni del mercato nel settore agroalimentare;
a valutare l'opportunità di sviluppare, in accordo con le regioni, nel rispetto delle proprie ed altrui competenze, la programmazione, su scala regionale, della coltivazione dei prodotti agricoli ad uso energetico;
ad assumere iniziative volte a chiarire il quadro normativo in materia di identificazione degli scarti di origine agroindustriale, allorché si tratti di risorse per la produzione di energia e, quindi, impiegabili in impianti di produzione energetica;
ad elaborare i dettagli di meccanismi di supporto più ambiziosi per lo sviluppo e lo sfruttamento delle biomasse a fini energetici e, allo stesso tempo, ad orientare la domanda verso comportamenti più rispettosi dell'ambiente e più sensibili alla questione del risparmio energetico;
ad accelerare i tempi di adozione dei decreti attuativi relativi ai meccanismi di incentivazione delle fonti rinnovabili, al fine di un rilancio economico del Paese, in quanto possono rappresentare un volano determinante per gli investimenti e per la creazione di occupazione green.
(1-00914)
«Beccalossi, Paolo Russo, Aracri, Baldelli, Cannella, Catanoso, De Corato, De Camillis, Di Caterina, Dima, Faenzi, Tommaso Foti, Ghiglia, Laffranco, Nastri, Nola, Saglia».
(12 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
con la direttiva 2009/28/CE, che supera le precedenti direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE, rispettivamente in materia di elettricità da fonti rinnovabili e di biocarburanti, l'Unione europea ha implementato la propria politica in materia di riduzione dei gas serra, attraverso l'incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili. In particolare, la citata direttiva mira ad istituire un quadro comune per la promozione dell'energia prodotta da fonti rinnovabili e, per ciascuno Stato membro, fissa un obiettivo per la quota di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia entro il 2020;
il nuovo quadro normativo comunitario è finalizzato a concentrare lo sforzo in funzione del raggiungimento del già individuato obiettivo del cosiddetto «20-20-20», che prevede, entro il 2020: la riduzione del 20 per cento delle emissioni di gas serra, il risparmio energetico del 20 per cento, l'innalzamento al 20 per cento del livello di consumo di energia da fonti rinnovabile;
la direttiva comunitaria 2009/28/CE, «Promozione dell'uso delle energie da fonti rinnovabili», ha ripartito l'obiettivo generale del 20 per cento da fonte rinnovabile tra tutti gli Stati membri secondo il principio del burden sharing, già utilizzato con il protocollo di Kyoto. La Commissione europea ha, infatti, fissato i singoli obiettivi nazionali, giuridicamente vincolanti, tenendo conto della situazione economica di ogni Stato. Con l'Italia è stata concordata una quota del 17 per cento di energia da fonti energetiche rinnovabili da raggiungere entro il 2020;
nel quadro delle politiche e delle misure nazionali finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica stabiliti nel Protocollo di Kyoto, è necessario individuare alcuni strumenti strategici per lo sviluppo e l'integrazione di filiere di produzione e di distribuzione di energie rinnovabili che siano in grado di produrre energia «pulita», limitando l'emissione in atmosfera di anidride carbonica e di altri gas ad effetto serra risultante dall'uso dei combustibili fossili;
nell'ambito del piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili, il settore delle biomasse riveste un ruolo di primaria importanza. Sommando gli obiettivi di energia da fonti rinnovabili per il 2020, ripartiti in elettricità, calore/raffrescamento e trasporti, a tutte le biomasse solide (in larga parte biomasse legnose), gassose (biogas e biometano) e liquide (biocarburanti), viene richiesto di produrre il 44 per cento di tutta l'energia da fonti rinnovabili a fine decennio;
la scelta di investire sulle energie rinnovabili, soprattutto sulle biomasse, non è soltanto una scelta ambientale per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica; gli impianti di energia da biomasse, e in modo spiccato le biomasse forestali, il biogas ed in parte i biocarburanti, hanno la caratteristica di essere forme di produzione diffusa di energia la cui ricaduta economica sui territori è forte e continuativa. Il petrolio ed il carbone, ma anche l'uranio, rastrellano ricchezza dai Paesi di consumo e la trasferiscono ai luoghi di estrazione, lasciando l'inquinamento nelle zone di raffinazione e consumo. Viceversa, l'indotto generato sui territori dalle fonti rinnovabili è stabile e significativo. In Germania è stato valutato che le fonti rinnovabili di energia, incluso l'eolico, abbiano generato 450.000 nuovi posti di lavoro;
biomassa è un termine che riunisce tipi diversi di materiali, di natura estremamente eterogenea. In forma generale, si può dire che sono biomassa tutti quei materiali che hanno una matrice organica e che vengono prodotti in modo ciclico (rinnovabili) attraverso processi naturali (foreste e legno) o produttivi (agricoltura). Le biomasse possono essere costituite dai residui delle coltivazioni destinate all'alimentazione umana o animale (ad esempio, residui delle potature, paglia ed altro), da colture espressamente condotte per scopi energetici (ad esempio, produzione di biodiesel o alcol), da materiali legnosi e residui di origine forestale, da scarti di attività dell'industria agroalimentare o del legno (ad esempio, le vinacce dell'industria della vinificazione, la sansa dell'industria dell'olio, i trucioli o la segatura dell'industria del legno), da scarti delle aziende zootecniche (deiezioni solide e liquide), dalla parte organica dei rifiuti urbani o dai materiali di risulta delle operazioni di cura del verde (ad esempio, potatura siepi e viali alberati urbani, manutenzione aree ripariali);
non vi è una definizione univoca di biomassa, per la legge italiana. Solo nell'ambito dell'impiego delle biomasse per la produzione di energia elettrica vengono utilizzate definizioni più specifiche. L'articolo 2 del decreto legislativo n. 387 del 2003 riprende la direttiva 2001/77/CE e stabilisce che «per biomassa si intende la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani». La definizione di biomassa ai sensi del decreto legislativo n. 387 del 2003 è stata ampliata dal decreto legislativo n. 28 del 2011, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE». L'articolo 2, lettera e), definisce la biomassa come «la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani.» Quest'ultima è la definizione utile ai fini autorizzativi ed alla quale si attengono le normative locali;
ai fini energetici le biomasse si distinguono in:
a) bioliquidi: i «combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa»;
b) biocarburanti: i «carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa»;
c) biometano: il «gas ottenuto a partire da fonti rinnovabili avente caratteristiche e condizioni di utilizzo corrispondenti a quelle del gas metano e idoneo all'immissione nella rete del gas naturale»;
ciascuna delle biomasse sopra elencate porta con sè impatti ambientali che devono necessariamente essere valutati quando si scende dall'ambito delle scelte strategiche e si definiscono i criteri per effettuare le scelte migliori rispetto alle biomasse da impiegare e le tecnologie da utilizzare; i criteri in questione possono essere riassumibili in alcuni punti:
a) le biomasse devono generare ricchezza sul luogo di realizzazione dell'impianto, evitando che l'approvvigionamento della biomassa abbia un impatto ambientale insostenibile, anche in termini di incremento della viabilità;
b) a valutazione di compatibilità ambientale dell'impianto a biomassa deve tenere conto dell'intero ciclo produttivo;
c) gli impianti devono avere dimensioni proporzionate alla capacità produttiva del luogo di installazione (filiera corta), di cui sia garantita la tracciabilità e la compatibilità ambientale del trasporto;
d) devono essere privilegiati, attraverso semplificazioni autorizzative, tutti quegli impianti che utilizzano l'energia termica senza disperderla nell'ambiente;
il contributo delle biomasse alla produzione di energie da fonte rinnovabile è importante in quel mix energetico sostenibile che l'Italia dovrà utilizzare, contestualmente alle politiche di risparmio ed efficienza, per sostituire gradualmente le fonti fossili; ma il loro uso, in un'ottica di sostenibilità, non dovrà dare vita ad effetti distorsivi per l'economia agricola, negativi per gli equilibri ambientali e paesaggistici, o addirittura inefficaci per quanto riguarda il saldo delle emissioni dei gas serra;
uno sviluppo corretto delle agroenergie dovrebbe essere innanzitutto decentralizzato e integrato con le economie agricole locali e i contesti territoriali. Tuttavia, bisognerà evitare che tale decentramento produca, da una parte, un puzzle di norme e di criteri di valutazione e, dall'altra, una proliferazione di impianti che nulla hanno a che fare con l'agricoltura locale e con le risorse del territorio. A tale scopo, è utile che i criteri di calcolo della quota di produzione di energia da biomasse che ogni regione dovrà garantire per il rispetto degli obiettivi nazionali (cosiddetta burden sharing) siano basati sulle potenzialità effettive e sulle vocazioni agricole e forestali dei diversi territori, sia in termini di colture che di processi di produzione/trasformazione dedicati;
bisogna, quindi, favorire filiere che siano efficienti nell'uso del suolo agricolo e nella riduzione delle emissioni di carbonio gas serra, sostenibili dal punto di vista ambientale e paesaggistico e capaci di generare la massima ricaduta occupazionale in ambito locale, sia dal punto di vista delle imprese agroforestali che dal punto di vista dell'imprenditoria in generale; questi aspetti possono essere verificati tramite studi dedicati di analisi del ciclo di vita della biomassa (life cycle assesment) normati dalla serie ISO 14040; in questa prospettiva, la produzione dedicata di biomasse dal settore agricolo dovrebbe essere realizzata prestando attenzione ad aspetti di risparmio energetico e di uso razionale degli input produttivi. Il ricorso a tecniche agronomiche a basso input energetico e rispettose dell'uso del suolo, come, ad esempio, i sistemi di agricoltura conservativa, possono rappresentare una possibile via per la produzione sostenibile di biomasse agricole, specie se accompagnati da sistemi di agricoltura di precisione che consentono di impiegare in modo oculato e razionale i diversi input colturali necessari (fertilizzanti, fitofarmaci ed altro);
al fine di rispettare i principi di sostenibilità ed economicità, è necessario che si instauri un'interazione positiva tra impresa energetica e azienda agricola, evitando innanzitutto un meccanismo competitivo che vedrebbe crescere l'una a discapito dell'altra e garantendo, al contempo, una migliore gestione degli aspetti ambientali. Ad esempio, per gli impianti di piccole dimensioni che per proprie caratteristiche rispondono meglio ai principi di sostenibilità sociale, ambientale e paesaggistica, le possibilità di raggiungere un'adeguata efficienza economica sono legate alla capacità di radicarsi nel contesto produttivo locale e di creare un circolo virtuoso grazie all'abbattimento dei costi di produzione, recupero e trasporto della biomassa;
oltre alla combustione si possono avere altri usi energetici delle biomasse: ad esempio, la trasformazione chimica, in appositi digestori anaerobici, del materiale organico in biogas, ossia metano, da utilizzare per qualunque uso (produzione di calore ed elettricità o come carburante da trazione). Questa trasformazione è particolarmente efficace per tutti gli scarti e reflui di origine zootecnica, agricola ed alimentare ed è particolarmente adatta per i contesti agricoli intensivi di pianura caratterizzati da alta produttività;
esperienze già in atto nel contesto italiano stanno dimostrando come questi impianti riescano ad essere tecnologicamente ed economicamente sostenibili solo se riescono a superare determinate dimensioni strutturali. Questo comporta in diversi casi delicate implicazioni connesse all'approvvigionamento della biomassa, sia dal punto di vista della logistica (raggio di approvvigionamento) che del tipo di biomassa da impiegare. Spesso, infatti, l'alimentazione degli impianti richiede di estendere il raggio di approvvigionamento, cosa che solleva problemi di pressione sul traffico stradale e di emissioni e consumi energetici connessi all'uso dei mezzi di trasporto;
le biomasse residuali impiegate nell'alimentazione degli impianti di gassificazione vengono spesso integrate con massicce dosi di prodotti agricoli come il mais o altri cereali altamente energetici, che, in questo modo, vengono sottratti alla loro tradizionale funzione di alimentazione umana (food) o animale (feed). Tale situazione ricrea negli areali di produzione una competizione fra la funzione energetica (biomassa) e la funzione alimentare (food e feed) di prodotti come i cereali; competizione che si traduce in forti distorsioni di mercato che si ripercuotono sul costo di produzione di altre importanti derrate, come il latte e la carne;
di conseguenza, in alcune aree della penisola numerosi allevatori riscontrano notevoli difficoltà nell'approvvigionamento dei foraggi a prezzi competitivi. Questa situazione rischia, da un lato, di esercitare una pressione eccessiva sugli allevamenti e, dall'altro, di generare inaccettabili incrementi dei prezzi al consumo di diversi prodotti alimentari. Appare chiara, dunque, la necessità di prevenire questi problemi attraverso la predisposizione di appositi strumenti normativi che permettano di regolare il mercato delle produzioni agricole che possono essere destinate sia alla filiera energetica che a quella agroalimentare;
altra fonte di energie rinnovabili può essere rappresentata anche dai biocombustibili, da impiegarsi sia per la produzione di energia (bioliquidi) che per l'autotrazione (biocarburanti). Tali biocombustibili possono essere ottenuti anche attraverso la coltivazione di colture oleaginose come il girasole o il colza. Tali colture, per caratteristiche agronomiche, possono risultare particolarmente adatte in molti contesti agricoli marginali del nostro Paese, in quanto richiedono input energetici ridotti e cure colturali moderate. Come detto in precedenza, il piano nazionale d'azione per le energie rinnovabili dispone che entro il 2020 l'84 per cento dell'energia utilizzata per i trasporti debba derivare da biomasse. Già ad oggi, nel 2012, vige in Italia l'obbligo di miscelare al 4,5 per cento i carburanti di origine fossile con carburanti di origine agricola;
non è ben chiaro quale strategia seguirà l'Italia per approvvigionarsi di questi ingenti volumi di biocarburanti, ma di sicuro questo rappresenterebbe un mercato in cui le (seppur modeste) quantità di biocombustibili prodotte nel nostro Paese potrebbero trovare facile collocazione. L'estrazione a freddo dell'olio dai semi di girasole o colza può essere oggi realizzata in modo facile ed efficiente. A tale proposito, la nascita di piccoli impianti consortili di estrazione potrebbe favorire la creazione di piccoli distretti energetici che troverebbero mercato nell'autoconsumo a livello locale o nella fornitura di prodotto energetico a strutture di consumo, come i già citati edifici di interesse pubblico;
in diversi contesti del territorio italiano le comunità locali si dimostrano ancora poco propense ad accettare impianti di conversione energetica delle biomasse. Tale preclusione è legata in parte alla disinformazione che porta a considerare questi impianti come fonti di inquinamento atmosferico e, in parte, al ragionevole timore di uso improprio delle strutture a fini di smaltimento dei rifiuti. Questa evidenza dovrebbe invitare ad ipotizzare delle campagne di educazione e sensibilizzazione che avvicinino i cittadini al tema delle energie da biomassa. Gli impianti, da parte loro, dovrebbero essere realizzati secondo criteri di sostenibilità economica, ambientale, sociale, paesaggistica e tecnica. Tali criteri, seppur di valore universale, hanno necessità di essere calati nelle molteplici realtà locali ritrovabili a livello nazionale. In tale ottica, maggiore ricerca e innovazione tecnologica sarebbero necessarie per trasformare in contributo reale alla crescita le potenzialità teoriche racchiuse nel concetto di biomasse e bioenergie,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative volte a differenziare le misure di sostegno, privilegiando le biomasse di scarto o a filiera corta entro 70 chilometri dall'impianto di produzione dell'energia/calore;
ad assumere iniziative volte a prevedere particolari incentivi per le aziende agricole che decidono di utilizzare per proprio consumo le biomasse autoprodotte, specie in quei contesti ad alte esigenze energetiche, come le serre, gli allevamenti zootecnici o gli impianti aziendali di trasformazione dei prodotti alimentari;
a costruire degli strumenti di controllo delle produzioni di biomasse agricole e delle relative filiere di conversione energetica per evitare che si verifichino deleterie distorsioni di mercato che potrebbero avere ripercussioni sulla competitività di alcune filiere agroalimentari e sui prezzi al consumo dei prodotti;
a mettere in atto iniziative volte ad evitare il rischio di abbandono delle pratiche agricole tradizionali, prevedendo che la produzione di biomasse o di energia da biomassa rappresenti per l'azienda agricola un'integrazione e non una fonte sostitutiva di reddito aziendale;
a favorire la realizzazione di piccoli distretti o reti energetiche nelle aree rurali, favorendo la partecipazione attiva delle imprese e delle aziende agricole;
a rafforzare gli strumenti di controllo della sostenibilità ambientale ed energetica dei processi di produzione delle biomasse e dell'impatto paesaggistico/ambientale degli impianti.
(1-00915)
«Di Giuseppe, Donadi, Borghesi, Rota, Messina, Di Stanislao, Piffari».
(12 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
il recente decreto legislativo n. 28 del 2011 – «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE» – all'articolo 2, lettera e), definisce la biomassa come «la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani»;
le biomasse rappresentano una fondamentale fonte di energia rinnovabile, ricavata dal recupero di scarti vegetali ed altre fonti derivanti da processi industriali ed agricoli e presentano grandi potenzialità di sviluppo, specialmente nel territorio italiano naturalmente adatto ad accogliere impianti a biomasse per le sue caratteristiche;
la filiera biogas-biometano ha un rilevante impatto sull'economia agricola e industriale, ma presenta anche molteplici ulteriori aspetti positivi come: l'elevata efficienza negli usi (energia elettrica e termica, carburanti da biomasse, biodiesel e bioetanolo) e costi di produzione competitivi; inoltre, limita l'inquinamento di atmosfera e falde acquifere, migliora il ciclo della vita dei prodotti combustibili; ed infine, le biomasse rappresentano una fonte programmabile e conservabile attraverso l'utilizzo della rete e degli stoccaggi del gas naturale;
dal punto di vista degli impianti vi è una pluralità di soluzioni: la combustione diretta della biomassa, in forni appositi, ne comporta un'ossidazione totale ad alta temperatura; gassificazione, pirolisi e carbonizzazione, invece, sono processi che comportano un'ossidazione parziale della biomassa, in modo da ottenere sottoprodotti solidi, liquidi e gassosi, più puri rispetto alla fonte di partenza, che possono poi essere combusti completamente in un passaggio successivo;
le centrali termoelettriche alimentate da biomasse solide o liquide effettuano la conversione dell'energia termica, contenuta nel combustibile biomassa, in energia meccanica e successivamente in energia elettrica;
il fatto che le suddette centrali si basino, soprattutto, sugli scarti di produzione rappresenta un vantaggio economico e sociale rilevante, in quanto il settore riutilizza e smaltisce rifiuti in modo corretto, produce energia elettrica e riduce la dipendenza dalle fonti di natura fossile;
in futuro le biomasse potranno essere applicate per lo sviluppo di una chimica capace di produrre biomateriali,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative volte ad incentivare l'opzione agroenergetica per l'imprenditoria agricola italiana, sottolineandone l'importanza come fonte alternativa di reddito e salvaguardando la funzione primaria dell'agricoltura;
a favorire, per quanto di competenza, le proposte di uniformare la normativa relativa alla definizione di sottoprodotto ed al ciclo integrato di rifiuti, in modo da superare le attuali difficoltà date dalle diverse fonti normative;
ad assumere iniziative finalizzate a differenziare il sistema degli incentivi al fine di determinare lo sviluppo di filiere industriali, favorendo così l'incremento del reddito e dell'occupazione;
a monitorare e vigilare sul corretto inserimento degli impianti nel tessuto urbanistico e rurale, preservando il paesaggio.
(1-00918)
«Misiti, Iapicca, Miccichè, Fallica, Grimaldi, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova, Mario Pepe (Misto-R-A)».
(12 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
la produzione di energia derivante dall'utilizzo delle biomasse e dai suoi prodotti attraverso processi di conversione in energia di tipo termochimico e biochimico rappresenta, senza dubbio, una delle prospettive più concrete nel panorama dell'incentivazione e della promozione dell'energia rinnovabile in Italia;
secondo la definizione introdotta dalla direttiva 2003/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003, si intende per biomassa la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani;
le dinamiche produttive caratterizzanti l'utilizzazione energetica delle biomasse fanno riferimento alla combustione diretta, alla trasformazione di queste in combustibili liquidi, alla produzione di gas combustibile e alla produzione di biogas;
secondo uno studio condotto dall'Osservatorio agro energia, attualmente dai sottoprodotti, intesi come scarti biologici delle lavorazioni agricole, sarebbe possibile ottenere oltre 10 mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) di energia all'anno, pari al 49 per cento della produzione da fonti rinnovabili e il 5 per cento dei consumi italiani. Tale comparto risulta al momento fortemente limitato, tra l'altro, dal quadro normativo di riferimento che non consente una chiara individuazione di sottoprodotto a fini energetici;
come specificato anche dall'articolo 3 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, la quota complessiva di energia da fonti rinnovabili che l'Italia dovrà conseguire sul consumo finale lordo di energia nel 2020 è pari a 17 per cento;
nel giugno 2010 il Ministero dello sviluppo economico ha definito il piano d'azione nazionale per le energie rinnovabili (pan) ai sensi della direttiva 2009/28/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 che rappresenta uno degli step più importanti dello sviluppo della strategia energetica nazionale sostenibile;
il comparto energetico derivante dalle biomasse rappresenta un punto molto importante del piano, poiché sulla base degli obiettivi di energia da fonti rinnovabili per il 2020, ripartiti in macroaree come elettricità, calore/raffrescamento e trasporti, al complesso delle biomasse solide, gassose e liquide, è attribuito l'obiettivo di produrre il 44 per cento di tutta l'energia da fonti rinnovabili. In questa prospettiva, il riferimento produttivo alle biomasse rappresenta un tassello importante nel progetto del raggiungimento degli obiettivi energetici sopra citati;
in data 13 febbraio 2012, con la comunicazione «l'innovazione per una crescita sostenibile: una bioeconomia per l'Europa» della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni, ha delineato la strategia dell'Europa per ridurre la dipendenza energetica dalle risorse non rinnovabili. In tale contesto, è stato evidenziato che «la strategia per la bioeconomia sosterrà l'iniziativa per una »crescita blu«, le direttive sull'energia rinnovabile e sulla qualità del combustibile, nonché il piano strategico europeo per le tecnologie energetiche, mettendo a disposizione migliori conoscenze di base e stimolando l'innovazione per la produzione di biomasse di qualità (ad esempio, attraverso colture di piante industriali) a prezzi competitivi e senza compromettere la sicurezza alimentare o incrementare la pressione sulla produzione primaria e sull'ambiente o creare distorsioni di mercato a favore dell'utilizzo di energia»;
negli ultimi 4 anni il panorama economico italiano ha assistito ad un incremento dello sviluppo delle tecniche di produzione energetica da biomasse e dai suoi prodotti, anche a seguito dell'introduzione di una legislazione di sostegno, che prevede, tra l'altro, meccanismi incentivanti;
nello specifico, il decreto legislativo citato, all'articolo 24 prevede che per biogas, biomasse e bioliquidi sostenibili, l'incentivo è finalizzato a promuovere, «l'uso efficiente di rifiuti e sottoprodotti, di biogas da reflui zootecnici o da sottoprodotti delle attività agricole, agro-alimentari, agroindustriali, di allevamento e forestali, di prodotti ottenuti da coltivazioni dedicate non alimentari, nonché di biomasse e bioliquidi sostenibili e biogas da filiere corte, contratti quadri e da intese di filiera»;
i prodotti delle biomasse – bioliquidi e biocombustibili – rappresentano delle importanti risorse rispettivamente sul versante della produzione energetica e quello dei trasporti che stanno acquistando una rilevante configurazione produttiva negli ultimi anni in Italia;
per quanto possa essere apprezzabile ed auspicabile la valorizzazione delle cosiddette filiere corte, segnatamente sul versante dell'utilizzo dei bioliquidi e dei biocombustibili, è altrettanto importante evidenziare quanto la limitatezza delle potenzialità colturali italiane possa condizionare questa prospettiva;
in questo scenario complesso si inserisce il decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, del 23 gennaio 2012, n. 2, concernente il sistema nazionale di certificazione per biocarburanti e bioliquidi, finalizzato a fornire le specifiche attuative per il nostro Paese relativamente a quanto previsto nei decreti legislativi di recepimento delle direttive comunitarie 2009/28/CE e 2009/30/CE;
biocarburanti e bioliquidi, in quanto prodotti delle biomasse, sono risorse che stanno acquisendo una particolare rilevanza nel panorama nazionale e internazionale in virtù delle importanti prospettive di impiego che essi già manifestano nel settore dei trasporti e, soprattutto, in ambito energetico nella produzione di energia da fonti rinnovabili, una voce ormai non trascurabile nella copertura del fabbisogno energetico globale;
negli ultimi dieci anni la produzione di energia da impianti alimentati a «biocombustibili» è cresciuta quasi del 18 per cento in Italia, portando tali risorse a coprire quasi l'11 per cento della produzione elettrica da fonti rinnovabili. Nello specifico, la produzione da bioliquidi si è sviluppata principalmente negli ultimi anni, consentendo tuttavia il conseguimento di ottimi risultati;
i dati del Gestore dei servizi energetici sugli impianti attivi in Italia per la sola produzione di energia elettrica da bioliquidi – oli vegetali grezzi e altro – mostrano che il numero di impianti attivi di potenza superiore a 1 megawatt è più che raddoppiato dal 2009 al 2010, passando da 42 a 97. Tali impianti hanno conseguito, a fine 2010, una potenza di 601 megawatt e una produzione lorda di 3.078 gigawatt orari, raddoppiando la produzione rispetto al 2009 (1.447 gigawatt orari) e superando in tal modo la produzione energetica da biogas (2.054 gigawatt orari per il 2010);
il decreto 23 gennaio 2012, n. 2, fornisce specifiche indicazioni relative alla certificazione della sostenibilità di biocarburanti e bioliquidi, istituendo, all'articolo 3, un sistema nazionale di certificazione che include la definizione di un organismo di accreditamento che accredita tutti gli organismi di certificazione ai sensi della norma UNI CEI EN 45011:1999, ai fini del rilascio di certificati di conformità e di sostenibilità dell'azienda;
alla luce della suddetta disposizione, il coinvolgimento diretto di tutti gli attori della filiera, indipendentemente da come questa si struttura, legittima la sussistenza di vincoli stringenti sull'operatività e le possibilità della stessa, legittimando una sorta di celato protezionismo suscettibile di alterare gravemente l'equilibrio della concorrenza e mortificare completamente il settore;
come evidenziato, la capacità di soddisfare la domanda di materie prime degli impianti energetici attivi, usufruendo delle sole colture oleaginose nazionali, è pressoché irrisoria. Infatti, la superficie agricola utilizzata (sau) in Italia nel 2010 ammontava a 12,7 milioni di ettari (dati Ispra). Uno studio dell'Ente nazionale per la meccanizzazione agricola (Enama) relativo a fine 2010 riferiva che per alimentare i sopra citati impianti sarebbero stati necessari 300.000 ettari/anno di superficie coltivata a oleaginose e interamente destinata alla produzione di oli per il settore energetico. Secondo la medesima fonte, alla fine del 2010 la superficie agricola italiana coltivata a oleaginose ammontava a 280.000 ettari/anno – 2 per cento della superficie agricola utilizzata – di cui meno di un quinto erano destinati al settore energetico;
i dati sopra citati evidenziano come nel settore considerato sia fondamentale la dipendenza italiana dai partner internazionali, per l'impossibilità di supplire al necessario quantitativo di materia prima con le sole produzioni interne, anche in considerazione del carattere deleterio di una potenziale trasformazione delle colture agricole attualmente destinate all'alimentazione umana e alla zootecnia in colture finalizzate all'utilizzo energetico;
il decreto interministeriale citato risponde a dinamiche attuative di direttive comunitarie, che però, nello specifico, non fanno riferimento ad alcun sistema di certificazione nazionale, dalla struttura e dalla complessità come quello inaugurato in Italia. Infatti, la direttiva 2009/30/CE parla di rispetto dei criteri di sostenibilità per i biocarburanti, con conseguente riconoscimento dell'obbligo in capo agli operatori di dimostrare la sostenibilità di quanto da loro utilizzato. Non si fa, pertanto, riferimento alla strutturazione di un sistema di certificazione che includa anche la definizione di un organismo di accreditamento che accrediti tutti gli organismi di certificazione ai sensi della norma UNI CEI EN 45011:1999;
la configurazione stessa della certificazione introdotta mal si concilia con le caratteristiche della filiera italiana e pone delle serie criticità in capo ai contratti di fornitura già in esercizio alla data di entrata in vigore dei menzionati decreti, in relazione all'inevitabile lievitazione dei costi di fornitura e alla sopravvivenza stessa del comparto interessato;
in uno scenario più vasto di sviluppo e implementazione si collocano anche le disposizioni introdotte dal decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con i Ministeri dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e delle politiche agricole e forestali 10 settembre 2010 in materia di «Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili», che disciplina le modalità di autorizzazione dei diversi impianti e l'adeguamento delle regioni alla normativa in materia. A tale provvedimento si aggiunge il cosiddetto decreto «burden sharing» attraverso il quale saranno delineati gli obiettivi per il 2020 per le regioni sulle fonti rinnovabili e che, attraverso l'autonomia, consentirà a queste di individuare gli strumenti e i meccanismi di efficientamento energetico finalizzati ad ottenere i risultati nazionali;
si evidenzia, tra l'altro, la particolare attenzione riservata di recente dal Governo al comparto, attraverso l'introduzione nel cosiddetto decreto-legge semplificazioni, di specifici interventi semplificativi sul fronte degli adempimenti e di riduzione degli oneri, a vantaggio anche degli impianti di lavorazione e di stoccaggio destinati di oli vegetali ad uso energetico: una prospettiva che evidenzia la volontà di consentire lo sviluppo e l'implementazione di un comparto produttivo dalle notevoli potenzialità;
i provvedimenti sopra indicati si configurano come strumenti indiscutibili di implementazione e valorizzazione delle dinamiche di efficientamento energetico nel pieno rispetto degli obbiettivi sanciti a livello internazionale,
impegna il Governo:
a definire opportune iniziative volte alla valorizzazione delle cosiddette agroenergie e delle potenzialità di queste in termini di green economy, tutelando, nel contempo, la caratterizzazione dell'economia italiana, evitando potenziali limiti allo sviluppo e distorsioni del mercato nel settore agroalimentare;
a promuovere una revisione della normativa vigente al fine di facilitare l'utilizzo di materiale organico derivante dai rifiuti o dai processi industriali come risorsa per la produzione di energia, consentendo in tal modo di rettificare e chiarire il contesto normativo in materia di identificazione degli scarti di origine agroindustriale, quando sono impiegabili in un impianto di produzione energetica;
a predisporre in tempi celeri un'iniziativa normativa volta a modificare l'attuale configurazione del sistema di certificazione al fine di adeguare la norma in materia alla reale caratterizzazione del sistema produttivo italiano, rispettando le reali esigenze degli operatori e tutelandone in tal modo le esigenze produttive, economiche e professionali;
a predisporre ulteriori iniziative – anche di carattere normativo – che, in ottemperanza agli obblighi contratti a livello internazionale, supportino ed incentivino il comparto della produzione energetica da bioliquidi, indipendentemente dalla provenienza di questi ultimi, ferma restando l'esigenza di garantire la sostenibilità di questi e delle materie prime di derivazione, ai sensi delle direttive comunitarie del 2009.
(1-00921)
«Di Biagio, Della Vedova, Briguglio, Giorgio Conte, Patarino, Moroni, Consolo, Proietti Cosimi».
(12 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
la grave crisi energetica che colpisce l'economia mondiale, sommata all'allarme dovuto al cambiamento climatico prodotto dall'immissione in atmosfera di crescenti quantitativi di diossido di carbonio (di gran lunga il principale «gas-serra»), sta attirando una crescente attenzione sul ruolo delle fonti rinnovabili;
le strategie di sviluppo economico e di tutela del territorio sono influenzate, e sempre più nel futuro saranno condizionate, dalle politiche energetiche. Una qualificazione della politica energetica in termini di sviluppo tecnologico e di gestione sostenibile delle risorse territoriali passa per una chiara visione del ruolo delle energie rinnovabili e, in primis, delle bioenergie;
il controllo del consumo di energia europeo e il maggiore ricorso all'energia da fonti rinnovabili, congiuntamente ai risparmi energetici e ad un aumento dell'efficienza energetica, costituiscono parti importanti del pacchetto di misure necessarie per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e per rispettare il Protocollo di Kyoto della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e gli ulteriori impegni assunti a livello comunitario e internazionale per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra oltre il 2012. Tali fattori hanno un'importante funzione anche nel promuovere la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, nel favorire lo sviluppo tecnologico e l'innovazione e nel creare posti di lavoro e sviluppo;
le stime sulla quantità di energia ricavabile dalla biomassa (bioenergia) sono variabili, ma entro il 2050 essa potrebbe arrivare a coprire il 50 per cento del fabbisogno energetico mondiale. Una parte di questa verrà utilizzata per la produzione di biocarburanti, più ancora per produrre biogas e il rimanente per alimentare le centrali energetiche;
il decreto legislativo n. 28 del 2011, attuativo della direttiva europea 2009/28/CE, ha previsto per l'Italia l'obbligo di utilizzare al 2020 il 17 per cento di energia da fonti rinnovabili sul totale dell'energia consumata (energia elettrica, termica e per i trasporti). L'obiettivo per l'Italia è di arrivare al 2020 a una produzione energetica nazionale da rinnovabili pari al 14,3 per cento (vale a dire il 17 per cento meno la quota importata), partendo da una produzione attuale dell'8,2 per cento;
la conferenza Stato-regioni nella riunione del 22 febbraio 2012 ha dato il via libera allo schema di decreto (Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare) sul burden sharing, cioè sulla ripartizione tra le regioni e le province autonome della quota minima di incremento dell'energia prodotta con fonti rinnovabili;
l’Intergovernmental panel on climate change ha sottolineato come il settore agricolo, più degli altri, possa fornire un contributo attivo alla mitigazione dell'effetto serra, sia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, ma anche per l'accumulo di sostanza organica nei suoli agricoli (carbon sink), nelle foreste e nelle coltivazioni agricole;
il ruolo dell'agricoltura potrebbe divenire fondamentale nella soluzione delle problematiche ambientali ed energetiche di questo secolo, avendo ora l'opportunità di partecipare attivamente al raggiungimento di tali obiettivi, dal momento che la produzione di biogas in Italia ha presentato negli ultimi anni un incremento, arrivando a rappresentare quasi il 4 per cento dell'energia prodotta da fonti rinnovabili;
la produzione di biogas concorre alla diversificazione energetica e, pertanto, può non solo fornire in misura crescente un contributo alla sicurezza, alla competitività e alla sostenibilità dell'approvvigionamento energetico, ma anche aprire nuove prospettive di reddito per gli agricoltori;
l'impiego di biogas, in particolare per la produzione di calore ed elettricità, potrebbe incrementare significativamente le possibilità di conseguire l'obiettivo vincolante, per cui entro il 2020 le fonti energetiche rinnovabili dovranno coprire il 20 per cento del fabbisogno energetico totale dell'Unione europea,
impegna il Governo:
a sfruttare l'enorme potenziale delle agroenergie, in particolare del biogas, favorendo un sistema di incentivi per gli imprenditori agricoli che intendono investire in tale energia alternativa attraverso strumenti di accesso al credito;
ad adottare, nel più breve tempo possibile, i decreti attuativi previsti dal decreto legislativo n. 28 del 2011 e ad assumere, nel contempo, iniziative per uniformare la normativa italiana in materia di energia da fonti rinnovabili alla normativa comunitaria, soprattutto con riferimento alla produzione di biogas.
(1-00925)
«Commercio, Lo Monte, Lombardo, Oliveri, Brugger».
(13 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
il biogas è l'unica filiera che utilizza prevalentemente biomasse prodotte dalle aziende agricole italiane e che vede una qualificata presenza italiana nelle tecnologie: questo dà sostanza alla possibilità di sviluppo economico per le imprese agricole e industriali con una positiva ricaduta sui livelli occupazionali, cosa quanto mai opportuna in un periodo di gravissima crisi economica;
il biogas rappresenta una filiera che fa perno sul riciclo e utilizza in maniera efficace ed efficiente il territorio, in quanto in grado di utilizzare non solo biomasse vegetali ma anche effluenti zootecnici, sottoprodotti agricoli e agroindustriali;
il biogas è un'energia flessibile nell'uso finale, in quanto può essere utilizzata nei luoghi di produzione in motori cogenerativi per produrre energia elettrica e termica oppure raffinata a biometano;
lo sviluppo delle biomasse può dare un contributo sostanziale nell'ambito dello sviluppo delle fonti di energia rinnovabile allo scopo di ottemperare agli impegni e agli obiettivi fissati nel Protocollo di Kyoto e dal piano nazionale per le energie rinnovabili;
pur nella condivisione dell'utilizzo di biomasse finalizzate allo sviluppo di fonti rinnovabili, va segnalato il pericolo che le aziende trasformino l'attività agricola passando da colture destinate alla produzione di alimenti a colture finalizzate alla produzione di energia, producendo un'evidente alterazione del mercato e una penalizzazione della produzione agricola e zootecnica;
è necessario procedere all'attuazione di un piano di sviluppo della produzione di biogas che porti alla riduzione di biomasse di primo raccolto per megawatt generato, dando priorità all'utilizzo crescente, ad esempio, di effluenti zootecnici residui, di sottoprodotti agricoli e agroindustriali, di colture di secondo raccolto e di colture derivanti da terreni marginali;
appare, altresì, necessario procedere:
a) alla regolamentazione di impianti di produzione di biogas e biometano in relazione alle «Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili»;
b) alla definizione di un nuovo sistema incentivante in relazione a quanto previsto dall'articolo 24 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28;
c) alla definizione del sistema regolatorio e di incentivazione per il biometano ai fini di cui agli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28;
è fondamentale procedere ad una programmazione che sia in armonia con i distretti agroenergetici per lo sviluppo degli impianti di biogas, al fine di ridurre la competizione tra l'uso del suolo agricolo e quello utilizzato per la produzione di biomasse a discapito del primo;
sussiste un'urgenza di carattere strategico, ossia la necessità di procedere all'emanazione di tutti i decreti attuativi previsti dal decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, in quanto la mancanza di indirizzi precisi e chiari per lo sviluppo della filiera porterebbe al blocco degli investimenti,
impegna il Governo:
ad incentivare l'agroenergia sia come opzione strategica al fine di raggiungere e ottemperare agli impegni derivanti dal Protocollo di Kyoto e dal piano nazionale per le energie rinnovabili, sia come fattore di integrazione del reddito per le aziende agricole e sia come volano occupazionale in relazione alla capacità tecnologica delle industrie di settore;
a contrastare le trasformazioni delle aziende agricole che comportino il passaggio da colture per alimenti a colture finalizzate alla produzione di energia, cosa che altererebbe il mercato e penalizzerebbe la produzione agricola e zootecnica, attraverso l'attuazione di un piano di sviluppo della produzione di biogas che porti alla riduzione di biomasse di primo raccolto per megawatt generato, dando priorità all'utilizzo crescente, ad esempio, di effluenti zootecnici residui, di sottoprodotti agricoli e agroindustriali, di colture di secondo raccolto e di colture derivanti da terreni marginali;
ad assumere iniziative volte:
a) alla regolamentazione di impianti di produzione di biogas e biometano in relazione alle «Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili»;
b) alla definizione di un nuovo sistema incentivante in relazione a quanto previsto dall'articolo 24 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28;
c) alla definizione di un sistema regolatorio e di incentivazione per il biometano ai fini di cui all'articolo 21 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28;
a procedere all'adozione, in tempi certi e più brevi possibili, di tutti i decreti attuativi previsti dal decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, in quanto la mancanza di indirizzi precisi e chiari per lo sviluppo della filiera potrebbe provocare il blocco degli investimenti.
(1-00926)
«Ruvolo, Moffa, Calearo Ciman, Catone, Cesario, D'Anna, Gianni, Grassano, Guzzanti, Lehner, Marmo, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Scilipoti, Siliquini, Stasi, Taddei».
(13 marzo 2012)
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A FINANZIARE LE OPERE E GLI INTERVENTI PREVISTI DAL PIANO STRATEGICO PER IL TERRITORIO INTERESSATO DALLA DIRETTRICE TORINO-LIONE
La Camera,
premesso che:
il 20 ottobre 2010 la Camera dei deputati ha approvato all'unanimità quattro mozioni che impegnavano il Governo, tra l'altro,
a) a confermare la valenza strategica della realizzazione della nuova linea Torino-Lione come asse decisivo per i collegamenti europei, attraverso l'adozione di tutte le misure e gli atti necessari anche, sulla base del lavoro condotto dall'Osservatorio;
b) a garantire un adeguato piano finanziario con programmazione pluriennale che copra l'intero ammontare dell'opera;
c) a confermare i fondi – circa 200 milioni di euro – previsti nel primo atto aggiuntivo all'intesa generale quadro dell'11 aprile 2009, necessari a realizzare gli interventi prioritari di prima fase e, cioè, il trasferimento modale e il potenziamento e ammodernamento del trasporto locale, avviando, al contempo, iniziative per l'assegnazione di risorse immediate per incentivare il trasporto modale e combinato;
d) ad assumere iniziative per garantire un primo stanziamento per la realizzazione delle opere previste dal Piano strategico approvato dalla provincia di Torino e dalla regione Piemonte parallelamente all'avanzamento dell'opera;
nel mese di giugno 2011 nella località di Chiomonte, in Valle di Susa, sono iniziati i lavori per l'installazione del cantiere di realizzazione della galleria geognostica, destinata a diventare la «discenderia» della Torino-Lione sul versante italiano;
i lavori nel cantiere proseguono nel pieno rispetto del cronoprogramma, grazie al presidio delle forze dell'ordine che con efficacia e senso di responsabilità fino ad oggi hanno respinto gli attacchi condotti da frange minoritarie violente del movimento No Tav;
il 3 agosto 2011 il Cipe ha approvato il progetto preliminare della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, progetto che prevede il cosiddetto «fasaggio», ovvero la realizzazione per fasi dell'infrastruttura, con un rilevante risparmio sui costi. Si prevede, infatti, la realizzazione del tunnel di base, della stazione internazionale di Susa e l'interconnessione con la linea storica da Bussoleno ad Avigliana, rinviando in questo modo per alcuni anni i lavori di realizzazione del tunnel dell'Orsiera, nonché tutti gli interventi relativi al «nodo» di Torino (interconnnesione con l'interporto di Orbassano, la gronda merci di Corso Marche, il sistema ferroviario metropolitano);
nel mese di settembre 2011 si è svolta la riunione del comitato intergovernativo tra Italia e Francia per la firma del nuovo accordo internazionale sulla ripartizione delle spese, con la riduzione della quota a carico dell'Italia dal 63 al 60 per cento; con la ratifica di tale accordo tutte le condizioni richieste dall'Unione europea saranno rispettate;
entro il 31 dicembre 2013 è prevista la conclusione dell’iter di approvazione del progetto definitivo, con un'ulteriore valutazione di impatto ambientale, così da consentire l'apertura del cantiere entro il mese di novembre del 2013,
impegna il Governo
ad assumere iniziative volte a stanziare 100 milioni di euro per finanziare le opere e gli interventi previsti dal «Piano strategico per il territorio interessato dalla direttrice Torino-Lione» definito dalla provincia di Torino, in particolare gli interventi relativi al «nodo» di Torino previsti dall'accordo Stato-regione del 28 giugno 2008 (cosiddetto accordo di Pracatinat) e dall'atto aggiuntivo del 23 gennaio 2009.
(1-00711)
«Esposito, Fiano, Giorgio Merlo, Rossomando, Portas, Boccuzzi, Cilluffo, Fiorio, Lucà, Calgaro, Cambursano, Di Biagio, Porcino, Vernetti, Scanderebech».
(15 settembre 2011)
La Camera,
premesso che:
nel mese di ottobre 2011 la Commissione europea ha inserito la nuova linea ferroviaria Torino-Lione tra le dieci infrastrutture prioritarie, dando il via libera ai finanziamenti comunitari 2014/2020 per le reti TEN-T;
tra Italia e Francia si è giunti a un accordo sulla ripartizione dei costi, con la riduzione della quota a carico dell'Italia dal 63 al 60 per cento;
il 20 ottobre 2010 la Camera dei deputati ha approvato all'unanimità quattro mozioni che impegnavano il Governo:
a) a confermare la valenza strategica della realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione come asse decisivo per i collegamenti europei;
b) a garantire un adeguato piano finanziario con programmazione pluriennale che copra l'intero ammontare dell'opera;
c) a confermare i fondi – circa 200 milioni di euro – previsti nel primo atto aggiuntivo all'intesa generale quadro dell'11 aprile 2009, necessari a realizzare gli interventi prioritari di prima fase;
d) ad assumere iniziative per garantire un primo stanziamento per la realizzazione delle opere previste dal Piano strategico approvato dalla provincia di Torino e dalla regione Piemonte;
il 3 agosto 2011 il Cipe ha approvato il progetto preliminare della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, prevedendo il cosiddetto «fasaggio», ovvero la realizzazione per fasi dell'infrastruttura (tunnel di base, stazione internazionale a Susa, interconnessione con la linea storica a Bussoleno, interventi sul «nodo» di Torino), con un rilevante risparmio sui costi;
entro il 31 dicembre 2012 è prevista la conclusione dell’iter di approvazione del progetto definitivo, con un'ulteriore valutazione di impatto ambientale, così da consentire l'apertura del cantiere del tunnel di base entro il 2013;
nel mese di giugno 2011 nella località di Chiomonte, in Valle di Susa, sono iniziati i lavori per l'installazione del cantiere di realizzazione del tunnel geognostico;
nonostante i periodici violenti assalti condotti da frange fanatiche dei comitati che si oppongono alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione abbiano provocato centinaia di feriti e contusi tra le forze dell'ordine, i lavori nel cantiere proseguono nel pieno rispetto del cronoprogramma e nelle prossime settimane Lyon Turin Ferroviaire (LTF) avvierà le procedure di esproprio di diversi appezzamenti di terreno, al termine delle quali l'estensione del cantiere passerà dagli attuali 4.5 ettari ai futuri 7 ettari;
nel mese di novembre 2011 il cantiere di Chiomonte è stato dichiarato «sito strategico di interesse nazionale»: la normativa è diventata operativa a partire dal gennaio 2012, per cui il cantiere continua ad essere presidiato dalle forze dell'ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza e guardia forestale), con immutate regole di ingaggio, ma con un inasprimento delle pene nei confronti degli eventuali assalitori;
nonostante in Valle di Susa si registri una ancora diffusa contrarietà alla realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, è oramai sempre più netta ed evidente la separazione tra i gruppi antagonisti, composti in larga parte da persone estranee al territorio, e la maggioranza della popolazione valsusina e, in particolare, si registra un malcontento da parte dei settori economici, imprenditoriali e commerciali che stanno subendo gravi conseguenze dall'operato dei No Tav, soprattutto nell'ambito del turismo,
impegna il Governo
ad assumere iniziative volte a stanziare 100 milioni di euro per finanziare le opere e gli interventi previsti dal «Piano strategico per il territorio interessato dalla direttrice Torino-Lione» definito dalla provincia di Torino, in particolare gli interventi relativi al «nodo» di Torino previsti dall'accordo Stato-regione del 28 giugno 2008 (cosiddetto accordo di Pracatinat) e dall'atto aggiuntivo del 23 gennaio 2009.
(1-00804)
«Osvaldo Napoli, Ghiglia, Saltamartini, Laffranco, Bianconi, Bernardo, Aracu, Bertolini, Gregorio Fontana, Cicu, Santelli, Picchi, Pianetta, Marsilio».
(12 gennaio 2012)
La Camera,
premesso che:
il corridoio Est-Ovest, di cui la Torino-Lione è componente essenziale, rientra nell'obiettivo di crescita inclusiva e sostenibile proprio dell'Unione europea, essendo fondamentale per la coesione fra gli Stati membri e, quindi, per la riduzione della marginalità fra i cittadini;
la decisione di riconfermare la Torino-Lione fra le opere strategiche sottolinea il complesso processo decisionale avviato negli scorsi anni e portato a compimento con l'accordo firmato a Roma, il 30 gennaio 2012, tra i Governi italiano e francese; tale accordo è solo l'ultimo di una serie di tasselli posti dal 1996 fino ad oggi per la realizzazione del progetto;
la decisione 1962/96/CE del 23 luglio 1996, con cui la Comunità europea ha delineato gli orientamenti per lo sviluppo di una rete di trasporto transeuropea (TEN-T), rappresenta un fondamentale e primo passo verso il raggiungimento del suddetto obiettivo;
nel 2001 Italia e Francia hanno siglato un primo accordo per la realizzazione di una nuova linea ferroviaria Torino-Lione, successivamente ratificato dal Parlamento italiano e da quello francese. Nel 2003 il progetto preliminare viene consegnato dalla «società per azioni semplificata» agli organi italiani competenti;
il progetto preliminare approvato dal Cipe prevede una realizzazione per fasi funzionali dell'infrastruttura, ossia la realizzazione del tunnel di base e gli interventi di adeguamento del nodo di Torino, e solo in una seconda fase, qualora le dinamiche del traffico dovessero evidenziarne l'effettiva necessità, la tratta in bassa Valle di Susa;
l'importo dello opere verrà corrisposto per il 42,1 per cento dalla Francia e per il 57,9 per cento dall'Italia, mentre l'Unione europea potrebbe erogare fino al 40 per cento del costo complessivo;
l'opera è stata concertata con il territorio, tramite l'Osservatorio che in sei anni ha tenuto 183 sessioni di lavoro e 300 audizioni;
la tratta costituisce un investimento strategico per il futuro dell'Italia in termini di maggiore competitività, di abbattimento delle distanze e di prospettive di sviluppo, in quanto il progetto porterà vantaggi economici agli operatori individuali e alle imprese, tanto che si stima che l'insieme dei benefici netti generati compenserà il costo dell'investimento e della gestione dell'opera;
la Francia è più avanti dell'Italia sui lavori di scavo, dove sono state realizzate le discenderie di 9 chilometri di lunghezza;
l'attuale collegamento ferroviario Italia-Francia, che raggiunge quota 1250 metri sul livello del mare, risulta essere una linea fuori mercato;
i cantieri per la nuova linea comporteranno duemila assunzioni dirette e quattromila occupati indiretti, nonché a regime cinquecento posti di lavoro stabile in Italia;
la riduzione annuale di emissioni di anidride carbonica corrisponde alle emissioni di una città di trecentomila abitanti;
il suolo occupato a regime dalla nuova tratta è metà di quello consumato dal comune di Vaie, il 30 per cento di quello consumato dal comune di Bussoleno e il 25 per cento meno di quello consumato dal comune di Susa e corrisponde alla quantità media consumata in un anno dal comune di Avigliana;
sono stati eseguiti 220 sondaggi per un totale di 64 mila metri, con risultati che escludono pericoli per la salute, in quanto la presenza di radioattività o di amianto risulta essere dello stesso ordine di grandezza di quanto trovato già in altre gallerie, come il Gottardo, e le misure di sicurezza saranno dello stesso tipo;
tutti gli 87 comuni francesi e la stragrande maggioranza di quelli italiani non si sono opposti all'opera, eccetto i due contrari di Chiusa San Michele e Sant'Ambrogio di Torino, con 6.500 abitanti;
nel 2006, con il proposito di assicurare una più ampia partecipazione alle comunità locali, viene deciso di stralciare il procedimento dalla «legge obiettivo», riconducendolo alla procedura ordinaria dell'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, relativo alle opere di interesse statale, come si evince da un comunicato ufficiale di Palazzo Chigi del 29 giugno 2006, consentendo così che, da quella data in poi, ogni comunità locale avrebbe potuto impedire la costruzione della linea ferroviaria nel proprio territorio,
impegna il Governo:
a valutare la possibilità di applicare le norme contenute nella legge 21 dicembre 2001, n. 443, per facilitare la realizzazione dell'opera voluta dall'intera regione e dal Paese nel suo insieme;
a reperire i fondi necessari per realizzare gli investimenti relativi al nodo di Torino, previsti dall'accordo Stato-regioni del 28 giugno 2008 e dall'atto aggiuntivo del 23 gennaio 2009.
(1-00944)
«Misiti, Fallica, Grimaldi, Iapicca, Miccichè, Pittelli, Pugliese, Soglia, Stagno d'Alcontres, Terranova».
(19 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
in data 28 giugno 2008, è stato sottoscritto il cosiddetto accordo di Pracatinat relativo a «Punti di accordo per la progettazione della nuova linea e per le nuove politiche di trasporto per il territorio», integrato poi in data 23 gennaio 2009, con il «Primo atto aggiuntivo all'intesa generale quadro» tra il Governo nazionale e la regione Piemonte, che richiama e declina in scelte operative e finanziarie sia l'accordo di Pracatinat che il «Patto per lo sviluppo sostenibile del Piemonte»;
nel medesimo anno è stato avviato, su iniziativa della provincia di Torino, un piano strategico per il territorio interessato dalla direttrice Torino-Lione, con l'obiettivo di creare un efficace sistema di governance territoriale intorno ad una visione condivisa, al fine dell'elaborazione di efficaci strategie di coesione sociale e di sviluppo economico;
è doveroso rispettare quanto previsto nei suddetti accordi ed è necessario che l'intervento sulla direttrice ferroviaria sia accompagnato dall'attuazione del Piano strategico redatto dalla provincia di Torino e dalla disponibilità immediata di risorse finalizzate a garantire gli interventi relativi al nodo di Torino previsti dall'accordo Stato-regione;
il 20 ottobre 2010 la Camera dei deputati ha approvato la mozione presentata dal gruppo Lega Nord n. 1-00457, in riferimento alla nuova linea Torino-Lione, impegnandosi a predisporre per il Piemonte un piano di sviluppo sia infrastrutturale che intermodale per il completo utilizzo della nuova opera, nonché a garantire gli impegni presi fino alla realizzazione dell'opera, con particolare riferimento alla copertura finanziaria che richiede l'immediata erogazione di 20 milioni di euro quale anticipo per la copertura degli interventi di prima fase per la realizzazione della linea dei treni ad alta velocità. Inoltre, si è impegnato a monitorare tutte le fasi della realizzazione dell'opera, sia preliminari che definitive, affinché la salute dei cittadini e la tutela del territorio vengano preservate. Nella medesima seduta, sono state approvate anche altre quattro mozioni presentate dai gruppi che oggi compongono la maggioranza politica del Parlamento;
il Governo precedente ha rispettato le date di avvio e di prosecuzione dei lavori, comprendendo la necessità di dotare il Paese di un'infrastruttura che, oltre all'ammodernamento del sistema Paese, porta indubbi benefici per i territori in cui si colloca, considerando l'aumento della competitività del Piemonte e delle regioni attraversate e i nuovi posti di lavoro derivanti da nuovi insediamenti industriali e dallo sviluppo della logistica. A giugno 2011 sono iniziati i lavori del cantiere per il tunnel geognostico nella località di Chiomonte, in Valle di Susa, dove proseguono grazie al presidio attento e responsabile delle forze dell'ordine e nonostante gli attacchi troppo frequenti di alcuni violenti oppositori No Tav;
il Cipe ha approvato, ad agosto 2011, il progetto di realizzazione dei lavori, che saranno divisi in più fasi: si prevede la realizzazione della galleria di base e una modernizzazione della linea «storica» per consentire il passaggio della Tav senza realizzare per ora una seconda linea e rimandando invece il tutto al 2023, quando sarà valutata la necessità di realizzare una seconda linea in valle oppure mantenerne una sola mista, anche sulla base della reale crescita del traffico merci. Questa scelta di procedere per fasi comporta una serie di vantaggi economici: operando in questo modo, nell'arco di un decennio l'Italia dovrebbe investire poco meno di 3 miliardi di euro;
la firma del nuovo accordo internazionale fra Italia e Francia sulla ripartizione delle spese, che dovrebbe svolgersi il prossimo autunno, porterà l'Italia a ratificare una riduzione della quota a carico dell'Italia, rispondendo alle richieste dell'Unione europea,
impegna il Governo
a mettere in atto tutte le azioni necessarie, anche attraverso un congruo e immediato finanziamento di 100 milioni di euro, per realizzare gli interventi previsti dal «Piano strategico per il territorio interessato dalla direttrice Torino-Lione», in particolare quelli relativi al nodo di Torino previsti dall'accordo Stato-regione del 28 giugno 2008 (cosiddetto accordo di Pracatinat) e dall'atto aggiuntivo del 23 gennaio 2009.
(1-00961)
«Allasia, Cavallotto, Buonanno, Fogliato, Pastore, Simonetti, Dozzo, Lanzarin, Alessandri, Dussin, Togni, Crosio, Di Vizia, Montagnoli, Lussana, Fugatti, Fedriga, Bitonci, Bonino, Bragantini, Callegari, Caparini, Chiappori, Comaroli, Consiglio, D'Amico, Dal Lago, Fabi, Fava, Follegot, Gidoni, Goisis, Grimoldi, Isidori, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rondini, Rivolta, Stefani, Stucchi, Torazzi, Vanalli, Volpi».
(23 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
il Consiglio europeo, nella riunione del 9-10 dicembre 1994 a Essen, esaminò e condivise un elenco di 14 progetti prioritari nel settore dei trasporti, i cui lavori erano già iniziati o avrebbero dovuto iniziare entro la fine del 1996. Tra gli stessi, al n. 6 dell'allegato I al documento conclusivo della riunione, figura il «6. Treno ad alta velocità/trasporto combinato Francia-Italia F/I Lione-Torino-Torino-Milano-Venezia-Trieste». Nel 2005, poi, la Commissione europea ha compilato un ulteriore elenco di 30 progetti prioritari e il cui varo veniva fissato entro il 2010. Tra gli assi o progetti prioritari figura: «6-Asse ferroviario Lione-Trieste-Divaca/Kope-Divac-Lubiana-Budapest-confine ucraino», quale rete transeuropea;
con decisione n. 884/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'Unione europea del 29 aprile 2004, con riguardo alla politica Trans european network-trasport (TEN-T), fu deciso, tra l'altro, lo spostamento alla fine del 2020 del termine, inizialmente individuato nel 2010, per l'attuazione dei progetti prioritari e la presentazione di un nuovo elenco di 30 progetti prioritari, anche tenendo conto dell'allargamento dell'Unione europea, che includeva i 14 assi o progetti prioritari già precedentemente individuati, tra i quali l'asse ferroviario «Lione-frontiera ucraina», TEN-T n. 6, all'interno del cui progetto sono collocate le tratte Lione-Torino e Torino-Trieste;
il progetto TEN-T n. 6 è una declinazione dell'arteria a rete multimodale rappresentata dal corridoio europeo n. 5, che collegherà Lisbona a Kiev, rispetto alla quale il ruolo dell'Italia è strategico. L'allargamento a oriente dell'Unione europea rende fondamentale per l'Italia svolgere quel ruolo, scongiurando l'alternativa, restando ai margini del corridoio 5, di collocarsi ai bordi dell'Europa stessa. Con il corridoio 5, in effetti, l'area mediterranea dell'Europa acquisisce una centralità rilevante nei processi di sviluppo, ponendosi, oltretutto, anche come alternativa alle direttrici nordiche, quale quella Rotterdam-Kiev, lungo l'asse ovest-est. La direttrice ferroviaria transpadana costituisce il fulcro dell'attraversamento meridionale del territorio dell'Unione europea;
il tratto transpadano del progetto prioritario recherà il beneficio del drastico abbattimento dei tempi di percorrenza complessivi, tra distanze che oggi richiedono tempi per la loro copertura di circa il doppio rispetto a quelli che, mediamente, residueranno dopo la realizzazione delle opere del TEN-T n. 6. Soprattutto, recherà il beneficio, riguardato con favore unanime, dell'implementazione della modalità di trasporto ferroviario, decisiva per abbattere i volumi di traffico stradale per il trasporto delle merci, in particolare, e anche per conseguire l'ulteriore beneficio ambientale, con la riduzione, conseguente alla variazione dei volumi trasportati in mutata modalità, degli inquinamenti, atmosferico e acustico. In proposito, è opportuno soggiungere che il progetto non vulnera l'ambiente nel quale è collocato, anche perché la sua realizzazione si sviluppa quasi interamente in galleria, dunque sotto terra, per oltre il 90 per cento del tracciato, circa 8 chilometri in superficie sui complessi circa 80 in territorio italiano. La sicurezza è l'altro aspetto in positivo rilievo con la realizzazione del progetto. Anche la competitività delle imprese è un tema in stretta connessione con i profili economici rivenienti dalla realizzazione delle tratte della dorsale padana del progetto prioritario n. 6, per il miglioramento sensibile dei fattori, in termini di tempo e di costi, che incidono sui trasporti delle merci;
il 29 gennaio 2001, sulla base della proposta della Commissione intergovernativa italo-francese, istituita a Parigi il 15 gennaio 1996 per la preparazione della realizzazione della linea ferroviaria fra Torino e Lione, è stato firmato a Torino un «Accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese per la realizzazione di una nuova linea ferroviaria Torino-Lione», ratificato successivamente dal Parlamento francese con legge 28 febbraio 2002, n. 2002-91, e dal Parlamento italiano con legge 27 settembre 2002, n. 228, ed entrato in vigore il 1o maggio 2003;
la Commissione europea, con la decisione C(2008) 7733 del 5 dicembre 2008, ha approvato la concessione di un contributo finanziario a favore del progetto «Nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione, sezione internazionale, parte comune italo-francese»;
il collegamento Lione-Torino è compreso nell'intesa generale quadro tra Governo e regione Piemonte, sottoscritta l'11 aprile 2003, tra le «infrastrutture di preminente interesse nazionale» che interessano il territorio regionale e che rivestono carattere strategico per la medesima regione Piemonte e nella rimodulazione dell'intesa generale quadro tra Governo e regione Piemonte, approvata con deliberazione della giunta regionale in data 7 giugno 2011, ed è, altresì, incluso nell'aggiornamento 2009 del contratto di programma 2007-2011 tra Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Rete ferroviaria italiana s.p.a.;
al fine di assicurare l'opportuno coinvolgimento del territorio nella fasi di progettazione e realizzazione dell'opera, venne istituito, nel 2006, con le comunità locali, un Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione;
il 28 giugno 2008, nell'ambito delle attività dell'Osservatorio, venne raggiunto l'accordo cosiddetto di Pracatinat, nel quale hanno preso corpo le istanze e gli impegni dei soggetti coinvolti nel processo di intese, di confronto, di partecipazione e di osservazioni, di ascolti, in primo luogo di tutti i comuni interessati, a cominciare da quelli di Susa e Chiomonte, direttamente coinvolti da cantieri o da attività esecutive, di prospettazioni e di condivisione; l'attività volta alla concertazione e condivisione della soluzione progettuale è stata contrassegnata da circostanze, iniziative e momenti significativi. Nel 2007, per esempio, il Governo, proprio sulla scorta dell'impulso del territorio e dell'esito di lavori dell'Osservatorio, decise l'abbandono del progetto che prevedeva il tracciato dell'opera in sinistra Dora; sono stati pubblicati sette quaderni che affrontano e analizzano profili e questioni rilevanti dell'opera, illustrano le posizioni dell'Osservatorio e i punti con contrasto di opinioni; centinaia sono state le riunioni e le audizioni svolte. Conclusivamente, sul punto, si richiama il dato dei 112 comuni, di entrambi i Paesi, 87 quelli francesi, i cui territori sono interessati ai lavori della Nuova linea Torino-Lione (NlTL). Tra i comuni italiani, una dozzina avversano l'opera, ma tra quelli interessati dalla realizzazione di tratte in superficie e/o da cantieri, solo due, Chiusa San Michele e Sant'Ambrogio di Torino, per un totale di circa 6.500 abitanti, hanno manifestato contrarietà per i lavori. Si può, comunque, con tutta evidenza, anche alla stregua delle reiterate riprogettazioni del tracciato, sostenere che le scelte siano state partecipate, discusse, vagliate e condivise con la popolazione e con gli enti locali interessati e con ogni altro soggetto istituzionale, civile e sociale coinvolto; dunque, con un attento ascolto del territorio;
il Cipe, nella seduta del 3 agosto 2011, ha approvato il progetto preliminare del «Nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione, sezione internazionale, parte comune italo-francese, tratta in territorio italiano»;
il 28 settembre 2011, a Parigi, Italia e Francia hanno siglato un accordo per la ripartizione della spesa che prevede un accollo per l'Italia pari al 57,9 per cento dei costi e per la Francia al 42,1 per cento; la ripartizione, considerando l'intera parte comune del tracciato, è sostanzialmente equilibrata in parti eguali; la ripartizione dei costi è stata confermata dal nuovo accordo Torino-Lione del 30 gennaio 2012, firmato dalle autorità politiche italiana e francese, nel quale si è anche stabilito di procedere, come già disposto in sede Cipe, per fasi funzionali di esecuzione del progetto. Il costo complessivo della fase 1, pari a oltre 8 miliardi di euro, dovrebbe comportare un finanziamento per l'Italia di meno di 3 miliardi di euro e ottenere un finanziamento comunitario del 40 per cento,
impegna il Governo:
a porre in essere ogni opportuna iniziativa e ogni verifica, promuovendo in particolare l'acquisizione, in sede comunitaria, di riscontri e garanzie volte a ottenere la definitiva conferma della disponibilità dell'Unione europea al sostegno finanziario preventivato per la realizzazione dell'opera transfrontaliera e l'indicazione delle risorse dedicate;
ad assicurare i mezzi economici necessari per dare attuazione alla parte del progetto attinente al cosiddetto nodo di Torino previsti nell'accordo di Pracatinat e nell'atto aggiuntivo del 23 gennaio 2009.
(1-00965)
«Toto, Proietti Cosimi, Della Vedova».
(26 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
nel quadro di sviluppo infrastrutturale delle reti di trasporto merci e passeggeri transeuropea TEN-T, il corridoio est-ovest costituisce uno degli assi principali di tutto il progetto e il segmento Torino-Lione ne rappresenta il cuore strategico ed essenziale;
l'Unione europea ha recentemente deciso di riconfermare la Torino-Lione fra le opere strategiche prioritarie per lo sviluppo infrastrutturale, economico e sociale dell'Europa occidentale, auspicandone il completamento dell’iter realizzativo nel tempo più spedito possibile;
l'opera è stata concertata con il territorio, attraverso una lunghissima anche se difficilissima (considerate le note e tristi vicende che ruotano da sempre attorno al tracciato) campagna di sensibilizzazione, ascolto e coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali e civici interessati, che nella stragrande maggioranza dei casi hanno considerato come la realizzazione dell'opera costituisca un investimento strategico per il futuro dell'Italia in termini di maggiore competitività, di abbattimento delle distanze e di prospettive di sviluppo;
il progetto preliminare approvato dal Cipe prevede una realizzazione per fasi funzionali dell'infrastruttura, con l'importo suddiviso per quote di competenza tra lo Stato italiano e quello francese;
nonostante le manovre di disturbo operate da sparute ma aggressive frange di movimenti No Tav, protagoniste di attacchi violenti e quasi eversivi contro la realizzazione dell'opera (il cui iter, comunque, rimane costantemente garantito dall'esemplare lavoro del presidio delle forze dell'ordine dislocate nel territorio interessato), i lavori sono iniziati nel mese di giugno 2011 e si attende la conclusione dell’iter di approvazione del progetto definitivo, con un'ulteriore valutazione di impatto ambientale, così da consentire l'apertura del cantiere entro il mese di novembre 2013;
ad ottobre 2010 la Camera dei deputati ha approvato all'unanimità quattro mozioni che impegnavano il Governo:
a) a confermare la valenza strategica della realizzazione della Nuova linea Torino-Lione (NlTL) come asse decisivo per i collegamenti europei, attraverso l'adozione di tutte le misure e gli atti necessari anche sulla base del lavoro condotto dall'osservatorio;
b) a garantire un adeguato piano finanziario con programmazione pluriennale che copra l'intero ammontare dell'opera;
c) a confermare i fondi – circa 200 milioni di euro – previsti nel primo atto aggiuntivo all'intesa generale quadro dell'11 aprile 2009, necessari a realizzare gli interventi prioritari di prima fase, avviando, al contempo, iniziative per l'assegnazione di risorse immediate per incentivare il trasporto modale e combinato;
d) ad assumere iniziative per garantire un primo stanziamento per la realizzazione delle opere previste dal piano strategico approvato dalla provincia di Torino e dalla regione Piemonte parallelamente all'avanzamento dell'opera;
il 3 agosto 2011 il Cipe ha approvato il progetto preliminare della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, progetto che prevede il cosiddetto fasaggio, ovvero la realizzazione per fasi dell'infrastruttura, con un rilevante risparmio sui costi. Si prevede, infatti, la realizzazione del tunnel di base, della stazione internazionale di Susa e l'interconnessione con la linea storica da Bussoleno ad Avigliana, rinviando in questo modo per alcuni anni i lavori di realizzazione del tunnel dell'Orsiera, nonché tutti gli interventi relativi al «nodo» di Torino (interconnnesione con l'interporto di Orbassano, la gronda merci di Corso Marche, il sistema ferroviario metropolitano);
è notizia di questi giorni l'ipotesi di una nuova convocazione del Cipe per sbloccare una parte dei fondi non ancora elargiti da destinare alla realizzazione delle opere accessorie necessarie previste dal piano strategico per la direttrice in questione e di misure per le compensazioni ambientali per i territori coinvolti, nonché per il potenziamento dei servizi e dei trasporti pubblici collegati all'opera;
il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dello sviluppo economico e delle infrastrutture e dei trasporti Passera hanno indicato, tra le priorità dell'azione del Governo, lo sviluppo infrastrutturale del Paese, annunciando con chiarezza il sostegno prioritario, chiaro e incondizionato del Governo alla realizzazione del corridoio Tav Torino-Lione e promettendo l'impegno massimo per mettere a disposizione tutte le risorse e i mezzi necessari per il completamento dell'opera in tempi certi,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative volte a sbloccare i fondi necessari per finanziare le opere e gli interventi previsti dal piano strategico per il territorio interessato dalla direttrice Torino-Lione;
a definire un quadro complessivo chiaro della destinazione delle risorse sulle opere cofinanziate dagli altri organi istituzionali coinvolti nella realizzazione del progetto;
ad impegnarsi sul piano della comunicazione per diffondere e far crescere tra le popolazioni interessate la consapevolezza dei vantaggi e le ricadute in termini occupazionali ed economici che la realizzazione dell'opera comporterà inevitabilmente;
a prevedere misure e provvedimenti che tutelino le aziende locali, nel senso di favorirne maggiormente la partecipazione alla realizzazione dell'opera, garantendo l'affidamento dei lavori a chi opera sul territorio;
ad adottare iniziative al fine di evitare strumentalizzazioni della protesta dei cittadini, adottando fermamente ogni forma di repressione consentita nei confronti di quei gruppi di facinorosi che disturbano con atti violenti e dimostrativi l'azione quotidiana di avanzamento dell’iter realizzativo dell'opera.
(1-00966)
«Delfino, Calgaro, Galletti, Mereu, Compagnon, Libè, Occhiuto, Naro, Ciccanti, Volontè, Tassone».
(26 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
la linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione è un progetto strategico non solo per il nostro Paese ma per i collegamenti tra il sud e il nord dell'Europa;
l'infrastruttura si rende necessaria per il trasporto di merci e persone in modo da rendere l'economia italiana, già vessata dalla crisi economica globale, più competitiva sullo scenario internazionale;
l'opera si configura come volano dell'economia nazionale in un quadro di estrema recessione;
anche sulla base di quanto concordato da intese bilaterali in ambito dell'Unione europea, è necessario che il nostro Paese rispetti il calendario dei lavori, ricordando che parte del progetto è finanziato dall'Unione Europea,
impegna il Governo:
a presentare il cronoprogramma preciso dell'opera comprendente un dettagliato elenco delle fonti di finanziamento;
ad assumere tutte le iniziative che, anche alla luce delle violente proteste delle scorse settimane in Val di Susa, garantiscano la fattibilità dell'opera d'interesse nazionale e trans-nazionale, nonché la tutela delle imprese e delle maestranze impegnate nei cantieri della Tav della linea ferroviaria Torino-Lione.
(1-00977)
«Marmo, Siliquini, Grassano, Moffa, Calearo Ciman, D'Anna, Gianni, Guzzanti, Lehner, Milo, Mottola, Orsini, Pionati, Pisacane, Polidori, Razzi, Romano, Ruvolo, Scilipoti, Stasi, Taddei».
(28 marzo 2012)
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN ORDINE ALLE MODALITÀ DI AMMISSIONE ALLE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN MEDICINA
La Camera,
premesso che:
il decreto ministeriale 6 marzo 2006, n. 172, che regola le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina, prevede ai fini dell'iscrizione al concorso per i laureati in medicina e chirurgia l'obbligo di superare l'esame di Stato prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande;
il calendario delle prove è predisposto dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e in modo da poter adeguatamente pubblicizzare, con congruo anticipo, la data, nonché il numero dei posti di specializzazione assegnati a ciascun ateneo, e in modo che le università possano pubblicare i relativi bandi almeno 60 giorni prima;
ogni anno migliaia di neolaureati in medicina attendono con trepidazione di sapere quali saranno i tempi per poter continuare il proprio percorso formativo, tempi che si allungano di anno in anno sempre più, determinando così un ulteriore ritardo in un progetto di vita che già di per sé risulta essere molto lungo e gli effetti di tale situazione sono gravi e molteplici: tanti neolaureati perderanno almeno un anno;
dal concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione dell'area medica vengono esclusi tutti i laureati da novembre in poi, iscritti al tirocinio ai fini dell'esame di Stato;
il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha più volte precisato che non è possibile armonizzare le sessioni di laurea, che normalmente sono tre in ogni anno accademico, con le sessioni degli esami di Stato, che si svolgono due volte l'anno e con il concorso di ammissione alle scuole di specializzazione, che viene bandito per ciascun anno accademico;
tale problema si è accavallato nel corso degli anni, tanto che nei precedenti anni accademici il Ministro pro tempore Moratti aveva previsto una deroga, una disposizione transitoria per la quale si permetteva di concorrere comunque alla prova per l'accesso alla specializzazione con riserva di abilitarsi entro la prima sessione utile. Si permetteva, comunque, agli studenti di sostenere l'esame di ingresso alle scuole di specializzazione, in attesa di avere superato l'esame di abilitazione,
impegna il Governo
ad individuare in tempi brevi una soluzione adeguata che permetta di sanare l'attuale situazione, in previsione di una calendarizzazione capace di ovviare alle disfunzioni sopra richiamate, relative ai concorsi per l'ammissione alle scuole di specializzazione in medicina, per consentire ai giovani di programmare la propria vita ed i tempi della propria formazione individuale.
(1-00855)
«Vincenzo Antonio Fontana, Palumbo, Di Virgilio, Barani, Mussolini, Giammanco, De Nichilo Rizzoli, Mancuso, Scandroglio, Ciccioli, Germanà, Garofalo, Vignali, Pelino, Marinello, Gioacchino Alfano».
(8 febbraio 2012)
La Camera,
premesso che:
il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha determinato per il 2011-2012 un aumento pari a 9.501 posti per le facoltà di medicina e chirurgia, nonostante le regioni e il Ministero della salute, con il pieno auspicio dell'ordine dei medici ne avessero sollecitati almeno 10.566. Si tratta di mille posti in meno, con un'evidente disparità di valutazione del fabbisogno dei medici nei prossimi anni;
la cosa appare tanto più grave in quanto l'argomentazione utilizzata dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca è che il numero dei potenziali studenti di medicina è risultato superiore alla capacità formativa complessiva degli atenei. Evidentemente l'ampliamento dell'offerta formativa, che in questi ultimi 5 anni è cresciuta del 30 per cento, è ancora inadeguata a coprire i bisogni effettivi del nostro servizio sanitario nazionale. Negli ultimi dieci anni l'85 per cento degli immatricolati a medicina arriva alla laurea, come ha evidenziato Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale;
entro il 2015, infatti, a fronte dei prossimi pensionamenti nella categoria, verranno meno circa 17.000 medici e dal 2013 è ipotizzabile un saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni;
l'Italia ha un numero di medici professionalmente attivi superiore alla media europea, pari a 4,1 medici per mille abitanti contro una media dell'Unione europea di 3,4 per mille abitanti; ma a breve la situazione è destinata a cambiare ed è necessario aumentare le immatricolazioni, migliorando al contempo la qualità dell'offerta formativa per garantire al nostro servizio sanitario nazionale almeno 10 mila medici l'anno, necessari per essere a regime nel 2018;
oltre ad aumentare il numero delle immatricolazioni degli studenti in medicina e chirurgia, però, diventa sempre più urgente garantire a quanti si laureano la possibilità di accedere ad una scuola di specializzazione, facendo coincidere il numero dei laureati con il numero dei potenziali specialisti. Nei prossimi 10 anni si prospetta una mancanza di circa 30.000 specialisti che svolgano funzioni non delegabili ad altre professioni sanitarie;
oggi uno studente che si immatricola a medicina e chirurgia, superando la selezione iniziale, pur laureandosi regolarmente in corso, corre il rischio di dover attendere altri due o tre anni prima di accedere alla scuola di specializzazione, portando il suo iter formativo a 13-15 anni. Ritardando pesantemente il suo ingresso nel mondo della professione, che avverrebbe intorno ai 35 anni di età, con pesanti ricadute anche sotto il profilo pensionistico;
il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione è disciplinato dal nuovo «Regolamento concernente le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina» del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca del 6 marzo 2006, n. 172. Il decreto prevede:
a) la ridefinizione della data di inizio dell'anno accademico («è, altresì, indicata la data di inizio delle attività didattiche delle scuole di specializzazione»), che avrà luogo successivamente all'espletamento delle selezioni, e quindi subito dopo la pubblicazione delle graduatorie;
b) l'introduzione, quale requisito necessario per l'ammissione alla prova, del conseguimento dell'abilitazione alla professione («Al concorso possono partecipare i laureati in medicina e chirurgia in data anteriore al termine di scadenza fissato dal bando per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, con obbligo di superare l'esame di Stato prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso medesimo»);
gli studenti di medicina fin dagli inizi sono ben consapevoli che, nonostante la lunghezza del loro iter formativo, sei anni sono del tutto insufficienti ad avere assicurata la competenza necessaria per essere buoni professionisti, e proprio per questo diventa per loro impossibile trovare lavoro senza un'ulteriore specializzazione. Si crea così un'ansia da prestazione che li spinge a cercare di ottenere i titoli necessari per entrare nella scuola di specializzazione scelta, sacrificando la fondamentale preparazione generale e investendo il loro tempo in tirocini specifici, dedicandosi, soprattutto, agli esami che influiscono sul punteggio di accesso alla specializzazione, cercando di collaborare all'attività scientifica nell'area di riferimento, per poter avere qualche pubblicazione che dia punteggio;
lo scollamento che si crea tra preparazione generale e preparazione specifica fin dai primi anni non contribuisce a dare loro una preparazione armonica e completa; sembrano spesso dei minispecialisti fin dai primi anni; in tal senso non sono aiutati dalle attuali modalità di accesso alle scuole di specializzazione, che esigono a priori obiettivi che dovrebbero rappresentare il core curriculum proprio della scuola di specializzazione. L'eccessiva specificità dei titoli di accesso alla scuola di specializzazione obbliga gli studenti a sacrificare la preparazione generale in una rincorsa prematura verso obiettivi che comunque raggiungeranno una volta entrati nella scuola scelta;
inoltre, accade che gli studenti una volta laureati incontrino una situazione penalizzante nell'accesso alle scuole di specializzazione, sia quelli che si laureano a luglio (i primi, spesso i più motivati e brillanti, devono attendere almeno 9 mesi), sia quelli che si laureano nell'ultima sessione in corso (devono attendere almeno 12 mesi prima di poter sostenere l'esame di accesso alla scuola di specializzazione);
in relazione a tali problematiche sono stati presentati atti di sindacato ispettivo rimasti in parte senza risposta, come, ad esempio, l'interrogazione n. 3-01876;
il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha evidenziato come è solo in parte possibile armonizzare le tre sessioni di laurea di ciascun anno accademico con le due sessioni annuali dell'esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio della professione medica e con il concorso per l'ammissione alle scuole di specializzazione mediche che si tiene una volta l'anno;
si rende necessario progettare un cambiamento di passo in coloro che attualmente si occupano della formazione dei medici. Cogliere le nuove sfide formative è la responsabilità a cui non ci si può sottrarre se si vuole continuare a garantire un'assistenza di qualità ai malati, tenendo conto delle nuove competenze indispensabili per un corretto esercizio della professione medica, in ospedale come sul territorio, nell'area della prevenzione, come in quella della cura e della riabilitazione, con una nuova responsabilità sul piano economico-organizzativo;
sarebbe opportuno, inoltre, assumere iniziative per ridurre il tempo che intercorre tra la tesi di laurea e l'esame di abilitazione, riportando il tirocinio valutativo di tre mesi nell'arco dei sei anni previsti dal piano di studi della facoltà di medicina e anticipando la prova finale, con domande a scelta multipla, sull'intero curriculum prima della difesa della tesi. In tal modo gli studenti potrebbero laurearsi e abilitarsi all'esercizio della professione nella stessa sessione di esami. Diventerebbe così più agevole l'iscrizione ai concorsi per l'ammissione alle scuole di specializzazione in medicina, che potrebbe essere collocata nell'ottobre dell'anno di laurea, evitando dispersioni di tempo e consentendo ai medici di completare il loro iter formativo, già lungo in undici anni, sei anni per laurearsi più cinque anni per specializzarsi. In tal modo l'ingresso effettivo nella professione potrebbe avvenire per i più diligenti intorno ai 30 anni,
impegna il Governo:
ad aumentare il numero di posti disponibili per accedere alla facoltà di medicina e chirurgia, visto il numero crescente di immatricolazioni e di richiesta di iscrizioni;
a ripensare i criteri di selezione degli aspiranti medici, in modo da non delegare l'onere della prova solo ai quiz con domande a scelta multipla;
a valutare la possibilità di inserire una graduatoria regionale (che potrebbe ridurre i costi di tipo logistico a carico delle famiglie) tra coloro che affrontano gli esami di ammissione per evitare che vengano esclusi in una sede quanti a parità di punteggio sono ammessi in altra sede;
a favorire l'accesso alle scuole di specializzazione attraverso un effettivo ampliamento dei posti disponibili e una comunicazione più chiara e tempestiva dei posti rimasti vacanti, permettendo ai giovani medici di inserirsi nelle graduatorie che restano incomplete, così come più volte richiesto in atti di sindacato ispettivo;
ad attuare un'urgente revisione delle procedure che istruiscono la programmazione dei posti di specializzazione da mettere a bando, definita dal Ministero della salute, sentita la Conferenza Stato-regioni, che dovrebbe essere quanto più aderente alle reali esigenze di professionalità nel territorio nazionale, al fine di non incorrere in un futuro prossimo nella spiacevole situazione in cui versano alcuni Paesi dell'Unione europea, Gran Bretagna in testa, che necessitano di reperire professionalità mediche in altri Paesi;
ad assumere le iniziative di competenza per ridurre il tempo che intercorre tra la tesi di laurea e l'esame di abilitazione, riportando il tirocinio valutativo di tre mesi nell'arco dei sei anni previsti dal piano di studi della facoltà di medicina e anticipando la prova finale, con domande a scelta multipla, sull'intero curriculum prima della difesa della tesi.
(1-00927)
«Binetti, Calgaro, Nunzio Francesco Testa, De Poli, Anna Teresa Formisano, Mondello, D'Ippolito Vitale, Delfino, Compagnon, Ciccanti, Volontè, Tassone».
(13 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
il numero complessivo di medici che operano a vario titolo in sanità (pubblica e privata) è in Italia di circa 300.000, per una popolazione di 59 milioni di abitanti (dati Istat): un medico ogni 196 abitanti. Nella seconda metà degli anni ’70 e negli anni ’80, il numero sempre crescente di laureati in medicina ha prodotto in molti casi una sottooccupazione medica ed ha contribuito in alcuni casi a trovare aree occupazionali che hanno tolto spazio alle altre professioni sanitarie, fenomeno specificamente italiano, mentre negli altri Paesi europei il ruolo medico è caratterizzato da una maggiore appropriatezza di compiti;
dopo l'introduzione del numero programmato, presente in Italia da almeno 15 anni, si è giunti ad un progressivo riequilibrio ed ora in molti settori i neolaureati in medicina trovano lavoro subito dopo il completamento del percorso di laurea o di specializzazione;
vi sono ora previsioni che nei prossimi anni, a seguito dei pensionamenti previsti, il servizio sanitario nazionale si troverà in crisi per carenza di medici;
la stima è che entro il 2015 diciassettemila medici lasceranno ospedali e strutture territoriali per aver raggiunto l'età della pensione. La forbice tra chi esce e chi entra tenderà ad allargarsi anche per penuria di nuovi professionisti usciti dalle scuole di specializzazione. Squilibrio ancora più evidente nelle regioni in deficit, che devono gestire rigidi piani di rientro;
dal 2012 al 2014 è prevista una carenza di 18 mila medici, che diventeranno 22 mila dal 2014 al 2018. Legato a questo il problema degli specializzandi in medicina veterinaria, odontoiatria, farmacia, biologia, chimica, fisica e psicologia, che oggi non ricevono borse di studio. Per la loro formazione viene indicata una copertura per 800-1.000 contratti;
lo squilibrio tra necessità e programmazione nelle scuole di specializzazione è un fenomeno già presente che si sta aggravando, anche perché il numero di posti nelle scuole non viene adattato alle esigenze di mercato. Alcune specialità sono in uno stato di sofferenza cronica. Anestesia, radiologia, pediatria, nefrologia, geriatria, con la popolazione che invecchia, e tutta la chirurgia;
le capacità formative dell'università sono pari a circa 5 mila specialisti per anno, di cui solo 3.500 sceglieranno di lavorare come dipendenti del servizio sanitario nazionale. Nei prossimi 10 anni, quindi, si prospetta una carenza di circa 30 mila specialisti, che svolgono funzioni non delegabili ad altre professioni sanitarie;
di fronte all'uscita dal mondo della sanità pubblica di un grande numero di specialisti e di fronte all'evidente carenza quantitativa e qualitativa del sistema formativo universitario, urge aumentare il numero di specialisti;
il decreto ministeriale del 23 novembre 2011, che ha aumentato i posti nei corsi di laurea in medicina e chirurgia, rappresenta un palliativo certamente insufficiente,
impegna il Governo:
ad aumentare, coerentemente con i fabbisogni reali della sanità italiana e per garantire sempre un miglior servizio, i posti disponibili per l'accesso alla facoltà di medicina e chirurgia;
a rivedere, con urgenza, il meccanismo regolamentare per l'accesso alle scuole di specializzazione, al fine di rendere più veloce l'accesso alle stesse, e, nello stesso tempo, a redigere una nuova programmazione, al fine di rendere le medesime più aderenti ai reali fabbisogni del Paese.
(1-00958)
«Iannaccone, Belcastro, Porfidia, Brugger».
(23 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
secondo le stime che vengono fatte, quando sarà esaurita la «bolla» di super-iscrizioni degli anni ’70-’80, l'Italia allineerà il rapporto dei medici per abitanti a quello più basso dei Paesi Ocse e si passerà così dalla pletora del passato alla carenza di medici del futuro;
le previsioni parlano di un'inversione di tendenza a partire dal 2015, che porterà nel giro di dieci anni il numero di medici da 350 mila a circa 250 mila, anche se già oggi si avverte una carenza strutturale di circa 5.000 medici tra radiologi, anestesisti e personale dell'area emergenza;
nello stesso piano sanitario nazionale 2011-2013 si afferma che «si attende una carenza dal 2012 al 2018 di 18.000 unità di personale medico nel servizio sanitario nazionale e di circa 22.000 medici dal 2014 al 2018 in totale (si passerà da 3,7 medici «attivi» per 1000 abitanti a 3,5 medici «attivi» per 1000 abitanti, contro una media europea di 3,1 medici attivi per 1000 abitanti);
oltre ad assumere meno personale medico per carenza di fondi e vincoli di bilancio (un gran numero di regioni sono sottoposte a piani di rientro dove vige il blocco del turnover), si continua a formare il personale senza tenere conto dell'andamento della curva demografica del nostro Paese, che invecchia, e, quindi, dei reali bisogni assistenziali del territorio;
attualmente l'articolo 35, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 368 del 1999 prevede una cadenza triennale del rilevamento del fabbisogno di medici specialistici del servizio sanitario nazionale sulla base di un'approfondita analisi della situazione occupazionale, dopodiché il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca scientifica, acquisito il parere del Ministro della salute, determina il numero dei posti da assegnare a ciascuna scuola di specializzazione, tenuto conto della capacità ricettiva e del volume assistenziale delle strutture sanitarie inserite nella rete formativa della scuola stessa;
per formare un medico oggi in Italia si richiede un tempo relativamente lungo: 6 anni di laurea in medicina, cui occorre aggiungere in media un anno per l'abilitazione, cioè per l'esame di Stato, più 5 anni di specializzazione, oppure 3 anni per le scuole regionali di medicina generale. Insomma 10-12 anni, visto che la legge n. 502 del 1992 non consente ai medici di entrare nel servizio sanitario nazionale senza avere una specializzazione. I «giovani» medici, dunque, entrano a pieno titolo nel mondo del lavoro solo dopo i trent'anni, almeno ufficialmente, anche se, nella realtà, già oggi, molti laureati senza specializzazione sono inseriti con contratti atipici nelle strutture, territoriali e ospedaliere, di molte regioni;
il decreto ministeriale 6 marzo 2006, n. 172, recante il «Regolamento concernente modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina», che disciplina le modalità di accesso dei medici alle scuole di specializzazione in medicina e chirurgia di cui al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, prevede, all'articolo 2, che l'ammissione a dette scuole possa avvenire con «concorso annuale per titoli ed esami, indetto con decreto del rettore dell'università, per il numero di posti determinati con decreto del Ministro, di cui all'articolo 35, comma 2, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368. Al concorso possono partecipare i laureati in medicina e chirurgia in data anteriore al termine di scadenza fissato dal bando per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, con obbligo di superare l'esame di Stato entro il termine fissato per l'inizio delle attività didattiche delle scuole. Nel bando sono, altresì, indicate la sede e la data della prova di esame, i posti disponibili presso ciascuna scuola e le necessarie disposizioni organizzative»;
per poter, quindi, accedere alle scuole di specializzazione, così come previsto dall'articolo 2 del decreto, non solo bisogna essere laureati in medicina, ma bisogna già aver superato l'esame di Stato o comunque superarlo entro l'inizio di ogni anno; quindi, i neolaureati in medicina per poter continuare il proprio percorso formativo devono sperare che tutte le scadenze siano sincronizzate, altrimenti si vedono costretti a perdere un anno per concludere la loro formazione;
a partire dal 1995 è stato introdotto il titolo di formazione specifico necessario per poter esercitare la professione di medico di famiglia, guardia medica o medico del 118 in convenzione con il servizio sanitario nazionale e tale titolo viene rilasciato dalle regioni dopo un corso di tre anni;
i medici di medicina generale «titolati» non sono attualmente sufficienti per coprire il fabbisogno del territorio, a causa dell'alto costo richiesto alla regione per la formazione, per la bassa disponibilità di tutoring presso le strutture sanitarie, nonché per il fatto che molti abbandonano il corso in favore dell'ingresso nelle scuole di specializzazione, che garantisce loro un periodo più lungo di occupazione (4 anni invece che 3) e uno stipendio più alto (2000 euro a fronte di 800), tant’è che le aziende sanitarie locali (ma anche i medici di base, privatamente) da anni si «servono» in maniera continuativa e strutturata di medici privi del titolo di formazione specifica, addirittura «specializzandi» o neolaureati,
impegna il Governo:
a promuovere, al fine di attenuare la carenza strutturale di personale medico, un sistema di rilevamento (criteri ed analisi) del fabbisogno formativo della facoltà di medicina e chirurgia, nonché dei corsi di laurea in area sanitaria, che tenga conto a livello territoriale della reale necessità di personale medico, predisponendo un numero programmato di ingressi alla facoltà di medicina e chirurgia;
al fine di limitare il più possibile l'abbandono durante il corso di studi intrapreso, ad intervenire sulle modalità di ingresso, predisponendo un test nazionale attinente esclusivamente al corso di studi prescelto, nonché modalità di valutazione uniforme per tutte le scuole di specializzazione, al fine di evitare percorsi «facilitati» in talune realtà territoriali, con conseguenti inique sperequazioni;
ad individuare tutte le misure normative necessarie affinché i posti nelle scuole di specializzazione medica a livello nazionale siano distribuiti tra le regioni tenendo conto del reale fabbisogno di specialisti di ciascuna regione, al fine di assicurare la qualità del servizio sanitario;
ad intervenire affinché si possa pervenire ad un'armonizzazione cronologica delle date relative al conseguimento della laurea, dell'abilitazione e dell'ingresso nelle scuole di specializzazione, onde evitare perdite di tempo nel già complesso e lungo iter di formazione di un medico;
ad assumere, con il coinvolgimento delle regioni, tutte le iniziative normative ed economiche necessarie affinché i medici di medicina generale in possesso della formazione specifica possano essere formati in un numero sufficiente al fabbisogno del territorio.
(1-00959)
«Miotto, Lenzi, Argentin, Bossa, Bucchino, Burtone, D'Incecco, Grassi, Murer, Pedoto, Sarubbi, Sbrollini, Livia Turco».
(23 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
secondo il piano sanitario nazionale 2011-2013, entro il 2018 in Italia è prevista una carenza di 22.000 medici, non solo per un rilevante numero di pensionamenti, ma anche per un'errata programmazione del numero chiuso alle facoltà di medicina e chirurgia e, soprattutto, dei posti disponibili nelle scuole di specializzazione;
il corso di studi di uno specialista, costituito dalla laurea in medicina e dalla successiva specializzazione, risulta essere nel mondo tra i più lunghi, senza garantire, al tempo stesso, una formazione specialistica adeguata, come avviene nella maggior parte dei Paesi occidentali;
attualmente, nel nostro Paese si iscrivono a medicina circa 9.500 giovani l'anno, mentre i posti alle scuole di specializzazione sono significativamente più bassi. Annualmente, infatti, conseguono il diploma di specializzazione circa 5 mila professionisti medici, a fronte di un fabbisogno stimato dalle regioni di 8.850 nuovi specializzati l'anno;
una ricerca del luglio 2011, effettuata dal sindacato ospedaliero «Anaao Assomed», ha confermato che nei prossimi dieci anni in Italia andranno in pensione più medici di quanti ne saranno specializzati nelle università. E per alcune discipline ci sarà un concreto rischio di crisi;
come segnala la suddetta ricerca, l'Italia sta per entrare nella «gobba pensionistica», perché circa la metà dei medici ospedalieri italiani, nati dal 1950 al 1959, andranno in pensione tra il 2012 e il 2021 e lasceranno un «buco» di 63 mila posti, che dovrebbe essere colmato da 50 mila specializzandi. Di questi circa il 70 per cento, ossia 35 mila, entreranno nella sanità pubblica. La crisi peggiore interesserà i pediatri, per i quali si prevede un'uscita di 5.700 unità, a fronte di 2.300 in entrata, con un saldo negativo di 2.400 specialisti. Anche gli internisti subiranno una cospicua riduzione numerica, con un saldo negativo di 1.950 medici. In diminuzione anche i chirurghi generali, i ginecologi e gli anestesisti. In controtendenza sarebbero, invece, i radiologi;
la procedura per l'avvio dei concorsi annuali di ammissione alle scuole di specializzazione è contenuta all'articolo 35 del decreto legislativo n. 368 del 1999, come successivamente modificato, il quale prevede che «con cadenza triennale ed entro il 30 aprile del terzo anno, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, tenuto conto delle relative esigenze sanitarie e sulla base di un'approfondita analisi della situazione occupazionale, individuano il fabbisogno dei medici specialisti da formare comunicandolo al Ministero della sanità ed a quello dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica. Entro il 30 giugno del terzo anno il Ministro della sanità, di concerto con il Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica e con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, determina il numero globale degli specialisti da formare annualmente, per ciascuna tipologia di specializzazione, tenuto conto delle esigenze di programmazione delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano con riferimento alle attività del servizio sanitario nazionale»;
in particolare, il comma 2 del suddetto articolo 35 prevede che il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, acquisito il parere del Ministero della salute, determina il numero dei posti da assegnare a ciascuna scuola di specializzazione in medicina e chirurgia;
il decreto ministeriale 6 marzo 2006, n. 172, ha definito le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina. All'articolo 2 si prevede che: «Alle scuole si accede con concorso annuale per titoli ed esami, indetto con decreto del rettore dell'università, per il numero di posti determinati con decreto del Ministro, di cui all'articolo 35, comma 2, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368. Al concorso possono partecipare i laureati in medicina e chirurgia in data anteriore al termine di scadenza fissato dal bando per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, con obbligo di superare l'esame di Stato prima dell'iscrizione alla scuola»;
questa procedura determina un ritardo notevole per tutti gli studenti che, laureatisi entro la sessione autunnale del sesto anno di corso, dovranno aspettare l'anno solare successivo per svolgere il tirocinio propedeutico all'esame di Stato, superarne la prova e poter accedere al concorso per la scuola di specializzazione;
a detta dello stesso Ministero, non è materialmente possibile armonizzare le sessioni di laurea, che normalmente sono tre in ogni anno accademico, con le sessioni degli esami di Stato, che si svolgono due volte l'anno, e con il concorso di ammissione alla scuola di specializzazione, che viene bandito una sola volta per ciascun anno accademico,
impegna il Governo:
ad individuare idonee modalità volte a rendere coerenti le date per il concorso alla scuola di specializzazione medica con la calendarizzazione delle sessioni di laurea e delle sessioni per l'esame di Stato, al fine di non penalizzare i neolaureati spesso obbligati a lunghi tempi di attesa prima di poter esercitare la professione medica a conclusione del loro iter formativo;
a valutare l'opportunità – nel rispetto dell'autonomia universitaria – di considerare il mese di marzo quale data di scadenza prevista dal bando per la domanda di ammissione al concorso per l'ingresso alle scuole di specializzazione;
a valutare l'opportunità di considerare tirocinio abilitante quello svolto durante il corso di laurea, dal momento che esso prevede anche l'attività di pronto soccorso;
a valutare la possibilità che l'esame di abilitazione possa essere effettuato dopo ogni seduta di laurea;
a riconsiderare la reale necessità di un corso di studi che, tra laurea e specializzazione, abbia una durata così lunga, valutando l'opportunità di adeguarla, invece, agli standard internazionali, garantendo al tempo stesso un controllo più stringente sulla partecipazione degli specializzandi alla pratica clinica necessaria per acquisire il titolo;
a rendere coerente il numero chiuso ai fini dell'accesso ai corsi di laurea in medicina e chirurgia con le reali necessità del Paese, secondo le previsioni relative alla disponibilità futura di personale medico;
ad aumentare il numero di posti delle scuole di specializzazione, ridefinendoli in relazione al fabbisogno reale del sistema sanitario e alle necessità demografiche ed epidemiologiche della popolazione, coinvolgendo a tal fine le amministrazioni locali e le università.
(1-00962)
«Palagiano, Zazzera, Donadi, Borghesi, Evangelisti».
(23 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
il piano sanitario nazionale 2011-2013 affronta la questione riguardante l'imminente calo del numero dei medici del servizio sanitario nazionale;
dall'attuale distribuzione per età dei medici impiegati nel servizio sanitario nazionale (fonte Inpdap, dati sugli iscritti alla cassa pensione sanitari, anno 2006), si evince una forte concentrazione di personale nella fascia di età superiore o uguale a 60 anni. Presumibilmente è possibile stimare che circa 17.000 medici lasceranno il servizio sanitario nazionale entro il 2015;
considerando il numero medio di laureati in medicina e chirurgia per anno accademico e la quota di questi che viene immessa annualmente nel servizio sanitario nazionale, ci si aspetta, a partire dal 2012, un saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni. Si stima che la forbice tra uscite ed entrate nel servizio sanitario nazionale tenderà ad allargarsi negli anni a seguire, data la struttura per età e tenuto conto del numero di immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia. Verosimilmente, tale scenario risulterà ancora più marcato nelle regioni impegnate con i piani di rientro a causa del blocco delle assunzioni;
le previsioni contenute nel piano sanitario nazionale hanno fatto sì che il Ministero della salute abbia richiesto un ampliamento dell'offerta formativa, ossia del numero delle immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia, a 10.566 unità già a partire dall'anno accademico 2011/2012. Con questa richiesta il Ministero della salute ha tenuto conto del fatto che il percorso formativo di un medico si completa in circa 10 anni; quindi bisognerà attendere il 2019, affinché il maggior numero di laureati/specializzati sia disponibile sul mercato del lavoro;
il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha, invece, determinato per il 2011/2012 un aumento pari a 9.501 posti: praticamente mille in meno rispetto al fabbisogno dei prossimi anni previsto dal Ministero della salute;
è prevedibile una carenza dal 2012 al 2018 di 18.000 unità di personale medico nel servizio sanitario nazionale e di circa 22.000 medici dal 2014 al 2018 in totale;
nonostante i dati sopra riportati, il 27 settembre 2011 il Ministro della salute pro tempore Ferruccio Fazio, nel rispondere ad un'interrogazione a risposta immediata (n. 3-01849) presentata dal gruppo Misto-Movimento per la Autonomie-Alleati per il Sud, ha sostenuto che, nonostante il numero di medici che andrà in pensione, il fenomeno possa essere in equilibrio con un numero di immatricolati compreso tra le 9.000 e le 10.000 unità;
a breve si dovrà necessariamente, comunque, aumentare l'offerta formativa per compensare nel medio periodo i pensionamenti ed impedire una forte carenza di personale medico;
risulta, peraltro, non ragionevole affidare gli accessi alle immatricolazioni esclusivamente a quiz con domande a risposta multipla, determinando differenziazioni a parità di punteggio tra diverse università;
oltre ad un aumento dell'offerta formativa, sarà necessario sempre di più garantire ai neolaureati la possibilità di frequentare una scuola di specializzazione, aumentando i posti disponibili;
un neolaureato in medicina e chirurgia rischia, peraltro, a causa della normativa attuale, di ritardare dopo la laurea il proprio accesso alla professione di un altro anno per accedere alla scuola di specializzazione;
il regolamento per il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione prevede, infatti, quale requisito necessario per l'ammissione alla prova, il conseguimento dell'abilitazione alla professione prima del termine per la presentazione delle domande di partecipazione allo stesso concorso,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative volte a un concreto incremento dell'offerta formativa dei corsi di laurea in medicina e chirurgia;
a rivedere i criteri di selezione, evitando di affidarli esclusivamente a quiz con domande a risposta multipla;
a far sì che vengano aumentati significativamente i posti disponibili nelle scuole di specializzazione;
ad assumere ogni iniziativa per ridurre i tempi di attesa tra la laurea e gli esami di abilitazione e tra questi e l'accesso alle scuole di specializzazione.
(1-00964)
«Lo Monte, Commercio, Lombardo, Oliveri, Brugger».
(26 marzo 2012)
La Camera,
premesso che:
per l'anno accademico 2011/2012 la programmazione dei corsi di laurea della facoltà di medicina e chirurgia risulta inferiore all'effettivo fabbisogno formativo;
ai sensi dell'articolo 3, comma l, lettera a) della legge n. 264 del 1999, il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca stabilisce il numero dei posti «sulla base della valutazione dell'offerta potenziale del sistema universitario, tenendo anche conto del fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo»;
dalle tabelle predisposte dal Ministero della salute il 27 aprile 2011, il fabbisogno formativo di medici chirurghi, suddiviso per regioni e province autonome, risultava di 10.566 unità, superiore alle previsioni del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca che avrebbe autorizzato la disponibilità di 9.501 posti per l'accesso al corso di laurea magistrale in medicina e chirurgia;
il piano sanitario nazionale ha evidenziato, tra le criticità del sistema attuale, la distribuzione per età dei medici impiegati nel servizio sanitario nazionale, da cui si evince una forte concentrazione di personale nella fascia di età superiore o uguale a 60 anni;
a decorrere dal 2012, si registrerà un saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni;
tale divario risulta ancora più marcato nelle regioni impegnate con il piano di rientro, a causa del blocco delle assunzioni;
il 16 marzo 2012, in sede di conferenza Stato-regioni, sarebbe stato sancito l'accordo tra il Governo, le regioni e le provincie autonome di Trento e Bolzano, concernente la determinazione del «fabbisogno di medici specialisti» da formare nelle scuole di specializzazione di area sanitaria per il triennio accademico 2011/2012, 2012/2013 e 2013/2014 e la ripartizione dei contratti di formazione specialistica a carico dello Stato per l'anno accademico 2011/2012;
stante l'evidente insufficienza del numero dei posti assegnati dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca rispetto al reale fabbisogno formativo, è opportuno prevedere un ampliamento dell'attuale ripartizione, obiettivamente insufficiente, anche in considerazione della necessità di far coincidere il numero dei laureati con il numero dei potenziali specialisti;
con apposito decreto, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha previsto l'istituzione di una commissione di esperti che, oltre ad aggiornare e monitorare le aggregazioni delle scuole di specializzazione di area sanitaria, ai fini di una corretta razionalizzazione, dovrà esprimere un parere sull'attribuzione su base nazionale della dotazione di contratti ministeriali alle scuole di specializzazione di area sanitaria da mettere a concorso per il corrente anno accademico 2011/2012;
il concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione è disciplinato dal nuovo «Regolamento concernente le modalità per l'ammissione dei medici alle scuole di specializzazione in medicina», del Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca del 6 marzo 2006, n. 172;
dette modalità, penalizzano sia coloro che si laureano a luglio 2012 (che attendono almeno 9 mesi) sia quelli che si laureano nell'ultima sessione in corso (costretti ad attendere almeno 12 mesi prima di poter sostenere l'esame di accesso alla scuola di specializzazione);
il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha evidenziato l'impossibilità di armonizzare in maniera omogenea le tre sessioni di laurea di ciascun anno accademico con le due sessioni annuali dell'esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio della professione medica e con il concorso per l'ammissione alle scuole di specializzazione mediche (che si tiene appunto una volta l'anno),
impegna il Governo:
ad adottare iniziative che attenuino la carenza strutturale di personale medico, anche al fine di evitare il ricorso a personale proveniente da altri Stati per coprire i posti in organico vacanti nelle aziende sanitarie ed ospedaliere presenti sul territorio nazionale, sia pubbliche che private, prevedendo a tale fine un aumento almeno del 15 per cento, per l'anno accademico 2012/2013, delle immatricolazioni al corso di laurea in medicina e chirurgia;
anche sulla base delle numerosissime proposte di legge d'iniziativa parlamentare, a valutare l'opportunità di rivedere il sistema dell'accesso programmato alla facoltà di medicina e chirurgia, rivedendo i criteri di selezione, alla luce del convincimento che l'appartenenza all'Unione europea non impone l'adozione di sistemi di contingentamento quanto, piuttosto, una qualità della formazione di tali medici da raggiungersi anche attraverso una riorganizzazione dei percorsi di specializzazione, tenendo anzitutto conto che vi sono ambiti in cui si registra un eccesso di percorsi formativi ed aree fondamentali caratterizzate da croniche carenze (ad esempio, anestesia e rianimazione);
a valutare la possibilità di inserire una graduatoria regionale tra coloro che affrontano gli esami di ammissione per evitare che vengano esclusi in una sede e quanti, a parità di punteggio, sono ammessi in altra sede, anche al fine di ridurre i costi di tipo logistico a carico delle famiglie;
a riprendere l’iter di riforma del percorso formativo pre e post laurea in medicina, iniziato dal precedente Governo, valutando la necessità di attuare in tempi rapidi la riforma del percorso di studi riguardante: la formazione degli specializzandi; il dottorato di ricerca; la laurea magistrale, attraverso:
a) la riduzione dell'eccessiva durata del percorso che porta uno studente a diventare medico professionista (attualmente 12 o 13 anni: 6 di università, uno di attesa per l'esame di Stato per entrare nella scuola di specializzazione, 5 o 6 di scuola di specializzazione);
b) l'assunzione di iniziative volte a valorizzare il ruolo dei giovani medici in formazione all'interno del sistema sanitario nazionale, al fine di allineare i tempi di accesso alla professione e di acquisizione della piena maturità professionale a quelli degli altri Paesi dell'Unione europea, equiparando la durata della specializzazione a quella prevista dal modello europeo con la direttiva 2005/36/CE, consentendo allo specializzando all'ultimo anno di poter svolgere contemporaneamente anche il dottorato di ricerca, accorciando così di un ulteriore anno l'ingresso dello studente nel mondo del lavoro;
c) la previsione del ruolo abilitante della laurea, conglobando all'interno del percorso di studi il tirocinio di tre mesi (indispensabile per poter partecipare all'esame di Stato), ma che attualmente viene svolto dopo il conseguimento del titolo;
a valutare, altresì, l'opportunità di effettuare una reale implementazione delle reti formative delle facoltà di medicina e delle scuole di specializzazione di area sanitaria, allargandole al sistema ospedale-territorio ed alle eccellenze del servizio sanitario pubblico, anche al fine di superare le difficoltà organizzative e di budget, ma anche per qualificare al meglio le attività delle scuole di specializzazione, nel rispetto della centralità dell'università, che detiene il primato della metodologia della ricerca e della didattica.
(1-00967)
«Laura Molteni, Rondini, Martini, Fabi, Goisis, Rivolta, Cavallotto, Grimoldi, Fugatti, Fedriga, Fogliato, Lussana, Montagnoli, Bitonci».
(26 marzo 2012)
INTERPELLANZE URGENTI
A)
I sottoscritti chiedono di interpellare i Ministri per la cooperazione internazionale e l'integrazione e dell'interno, per sapere – premesso che:
la Consulta per l'Islam italiano ha lavorato per nove anni sotto l'egida di tre Ministri dell'interno per un Islam integrato, moderno e tendente alle seconde generazioni;
ha svolto un lavoro di altissimo livello in tema di censimento delle moschee, creazione dell'albo degli imam, regole di trasparenza nel finanziamento delle strutture di culto;
la Consulta è stata, dal presente Esecutivo, totalmente accantonata, messa da parte e di fatto sostituita, per far posto ad una non meglio definita Conferenza permanente delle religioni e della cultura;
allorquando si firmò la Carta dei valori, che soggiaceva alla Consulta, l'Ucoii (Unione comunità islamiche in Italia) non la firmò perché in essa era presente la definizione di uguaglianza fra uomo e donna;
l'Ucoii, per sua affermazione stessa, non è organizzazione rappresentativa dell'Islam italiano, bensì solo dei suoi iscritti;
oggi l'Ucoii, pur non avendo firmato tale Carta, è presente come soggetto predominante nella detta Conferenza;
i moderati, che quella Carta firmarono e sottoscrissero, oggi non vengono nemmeno convocati nella Conferenza, se non dietro comunicato stampa;
la convocazione, tardiva, sarebbe arrivata non con invito ufficiale ma solo con una telefonata;
non si intravede alcuna funzione di tale Conferenza, se non quella di mero organo consultivo e non operativo, né di indirizzo normativo –:
se il Governo non ritenga di assumere adeguate iniziative, al fine di motivare concretamente il perché dell'inclusione dell'Ucoii, organizzazione non rappresentativa dell'Islam italiano e non firmataria della Carta dei valori, nella detta Conferenza e dell'esclusione dei moderati dalla detta Conferenza, visto che nella Consulta per l'Islam italiano avevano svolto un lavoro egregio, i cui risultati erano ormai in via di definizione.
(2-01416)
«Sbai, Mancuso, Lupi, Petrenga, Rampelli, Marsilio, Ronchi, Holzmann, Cosenza, Porfidia, Vincenzo Antonio Fontana, Savino, De Camillis, Renato Farina, Bergamini, Massimo Parisi, Pianetta, Saglia, Lazzari, Vignali, Gottardo, Rosso, Garagnani, Bocciardo, Valentini, Berardi, Scandroglio, Cassinelli, Carlucci, Lehner, Aracri, Ciccioli, D'Alessandro, Minasso, Fucci, Nastri, Buonanno, Simeoni, Saltamartini, Cazzola, Calabria, De Nichilo Rizzoli, Angeli, Gianfranco Conte, Volpi, Fedriga, Munerato, Lanzarin, Negro, Rainieri, Gidoni, Meroni, Grimoldi, Consiglio, D'Amico, Paolini, D'Anna, Togni, Isidori, Crosio, Vanalli, Rivolta, Ceccacci Rubino, Giammanco, Romele, Gelmini, Fitto, Razzi, Sisto, Maroni, Stracquadanio, Biancofiore, Cossiga, Raisi, De Corato, Minardo, Tommaso Foti, Lorenzin, Palumbo, Comaroli, Fallica, Pelino, Marmo, Bertolini, Centemero, Alberto Giorgetti, Fugatti».
(20 marzo 2012)
B)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:
la legge 14 settembre 2011, n. 148, all'articolo 1, stabilisce che «Il Governo (...) è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari al fine di realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza»;
tale riorganizzazione comporterà, secondo il dettato della legge, soppressioni e accorpamenti di uffici giudiziari;
il tribunale di Tolmezzo risulterebbe essere tra gli uffici giudiziari in via di soppressione e/o accorpamento; essendo per così dire «inghiottito» dal tribunale di Udine. La decisione appare, ictu oculi, contravvenire, stante il singolare carattere del circondario e la situazione di confine, al principio inderogabile del buon senso e della logica per il buon funzionamento della giustizia e per la necessità di una presenza visibile dello Stato. La soppressione, ad avviso degli interpellanti, negherebbe oltretutto il presupposto della legge in ordine ai «risparmi di spesa e incremento di efficienza»;
la particolarità territoriale del circondario di Tolmezzo si evidenzia con la presenza di una linea confinaria assai vasta, di circa 110 chilometri, con l'Austria, 60 con la Slovenia, la quale è attraversata da 7 valichi, dei quali 5 stradali di prima categoria, uno autostradale ed uno ferroviario, ed è collocata sulle direttrici dei traffici illeciti verso l'Est Europa. Ciò determina l'accertamento di un elevato numero di reati legati al traffico degli stupefacenti, all'immigrazione clandestina ed alla ricettazione organizzata (cosiddetto riciclaggio) e, necessariamente, una specializzazione della polizia giudiziaria, della magistratura inquirente e di quella giudicante in ordine a tale genere di crimini. È ragionevole ritenere che l'accorpamento delle funzioni in Udine, oltre a determinare maggiori difficoltà di collegamento con la polizia giudiziaria, provocherebbe la necessità di creare una specializzazione sia negli uffici inquirenti che giudicanti in ordine a quelle particolari specie di reati, vanificando così i miglioramenti organizzativi che si prospettano con l'accorpamento. Oltre a ciò sono palesi le conseguenze negative che seguirebbero all'allontanamento del presidio giudiziario (da Tolmezzo a Udine) rispetto ai confini, ove tale genere di reati viene scoperto, sia in termini di collegamento della procura generale con gli uffici della procura, sia di prevenzione nelle zone di confine interessate;
la valutazione di efficienza e produttività espressa dall'ispettorato generale del Ministero della giustizia è assolutamente positiva, ciò che rende superflua qualsiasi riorganizzazione in altra sede delle medesime funzioni. Si sottolineano «impegno e diligenza, con adeguata risposta agli adempimenti demandati»;
la delega conferita al Governo per la revisione della geografia giudiziaria è stata esplicitamente motivata dalla grave crisi economico-finanziaria in cui versa la nazione e dalla necessità di ridurre gli oneri per la finanza pubblica. Nel caso di Tolmezzo un tale risultato non potrà essere raggiunto; anzi, la soppressione porterà ad un sensibile aumento di oneri per la finanza pubblica;
in dettaglio: la soppressione inciderebbe sulle spese «logistiche», ossia su quelle necessarie a mantenere le sedi ove gli uffici sono collocati. È utile ricordare che queste spese vengono interamente anticipate dagli enti locali e rimborsate in parte dall'amministrazione centrale a consuntivo. Esse ammontano per il tribunale di Tolmezzo, con riferimento all'anno 2010, escluse quelle di natura eccezionale relative agli affitti dei locali della procura in attesa dell'ultimazione dei lavori di riatto della sede storica, ad euro 170.169,90 (la media annuale dei tribunali sub-provinciali è pari ad euro 500.000,00 - Commissione Cnf 29 novembre 2011). In caso di soppressione e di accorpamento degli uffici nel tribunale e nella procura di Udine, questa spesa, relativamente modesta, non sarebbe destinata a sparire dal bilancio del Ministero della giustizia, ma verrebbe sostituita da quella necessaria al reperimento in Udine di sedi adeguate, mancando negli attuali locali la necessaria ricettività, tenuto anche conto del fatto che la soppressione delle sedi distaccate di Palmanova e di Cividale del Friuli determinerà l'afflusso del personale distaccato nella sede centrale. Considerato che i costi di acquisto/affitto di immobili in Udine è sensibilmente superiore a quelli in Tolmezzo, è ragionevole concludere che questa spesa aumenterà;
l'aumento della spesa per la finanza pubblica (trasferte): oltre ad altri oneri sulla cui lievitazione occorrerebbe eseguire calcoli più complessi, sicuramente l'accorpamento degli uffici nel capoluogo provinciale determinerebbe per la pubblica finanza l'aumento dei costi legato alle trasferte delle entità dislocate sul territorio del circondario che gravitano intorno agli uffici giudiziari. Esse, infatti, dovranno rapportarsi non più alla sede di Tolmezzo, posta al centro del territorio, bensì scendere sino ad Udine. Per ogni accesso agli uffici giudiziari, limitandoci al costo/automezzo rapportato ad un quinto del costo del carburante per ogni chilometro moltiplicato per il maggior tratto di percorso Tolmezzo/Udine andata/ritorno, pari a circa 100 chilometri, si rilevano i seguenti risultati, riferiti all'anno 2010 per il tribunale ed all'anno 2011 per la procura che ha fornito dati più aggiornati;
tribunale: 22 rogatorie in carcere, 47 interrogatori in carcere, 32 videoconferenze, 211 traduzioni di detenuti negli uffici, 300 trasferte del personale dell'ufficio tavolare di Pontebba, per un costo stimato di 20.196,00 euro;
per la procura: deposito notizie di reato (considerando che dal 1o gennaio 2011 al 30 novembre 2011 sono state depositate 3.430 notizie di reato, che, peraltro, è possibile per la procura generale depositare più notizie di reato con unico accesso) stimati prudenzialmente n. 3.000 accessi; per colloqui con il pubblico ministero e per direttive accessi procura generale stimati in 1.000; ricezione di provvedimenti di convalida perquisizione e/o sequestro da notificare, misure cautelari personali o reali da eseguire e restituzione atti eseguiti stimati in 600; monitoraggio operazioni di intercettazioni telefoniche stimati in 100; trasferte magistrati per interrogatori in carcere stimate in 300. Complessivamente un costo stimato pari a circa 165.000,00 euro;
solo per costo automezzi complessivamente, quindi, 185.196,00 euro;
a questo fattore deve sommarsi quello relativo al costo/tempo del personale impiegato durante la trasferta, tempo stimato in ore 1 e mezza durante il quale il medesimo non potrà occuparsi degli adempimenti d'ufficio. Attenendosi ad un criterio assolutamente minimale, pari ad 30,00/ora euro (si pensi che le traduzioni dal carcere impegnano almeno 4 agenti per volta), si avrebbe un costo stimato pari a 225.000,00 euro;
l'aumento degli oneri di spesa per la finanza pubblica è, quindi, stimabile, per difetto, in circa complessivi 410.196,00 euro annui. Questo onere finanziario è destinato ad aumentare ulteriormente in misura significativa, allo stato non stimabile, per gli effetti che produrrà il cosiddetto decreto-legge «svuota carceri» in via di approvazione, che porterà la polizia giudiziaria a tradurre in aula di udienza, per la celebrazione delle direttissime, gli arrestati che andranno custoditi nell'attesa negli uffici di polizia e non in carcere;
sotto l'aspetto propriamente giudiziario, si sguarnirebbe, altresì, del necessario presidio locale il territorio sul quale è insediata una delle 14 carceri italiane dotate di una sezione cosiddetta di massima sicurezza (per la custodia dei detenuti in regime 41-bis), sulle quali va mantenuta una costante attenzione, atta a scongiurare infiltrazioni della criminalità organizzata legata ai gruppi di appartenenza dei detenuti;
il trasferimento del tribunale sarebbe gravemente dannoso, con conseguenze sullo stesso bilancio dello Stato. Dallo studio sviluppato dalla Cisl Alto Friuli nel 2009 sull'inquadramento economico del territorio emerge che tutti comuni compresi nel circondario sono inclusi nella zona «C», classificata ai sensi della legge regionale Friuli Venezia Giulia n. 13 del 2000 ad «alto svantaggio economico», e che a livello economico/produttivo il territorio presenta un rilevante scarto negativo rispetto ai valori medi regionali riconducibili alle caratteristiche territoriali. Le prospettive di sviluppo socio-economico sono fortemente messe in discussione dalla forte attrattività, anche culturale, esercitata dalla pianura favorita da un sistema infrastrutturale particolarmente robusto, specie nella permanente minaccia di ulteriore riduzione dell'accessibilità ai servizi di base;
non può sfuggire quale impatto devastante sotto il profilo socio/economico avrebbe l'accorpamento del tribunale e anche solo della procura in Udine per il territorio dell'Alto Friuli, né come una tale soluzione si ponga in aperto contrasto con le direttive politiche di supporto allo sviluppo dei territori montani dettate a livello regionale, nazionale ed europeo. Risulta chiarificatore, in tal senso, l'elaborato redatto dall'ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili, il quale evidenzia un rilevante onere economico a carico della comunità (almeno 2 milioni di euro l'anno), dovuto sia alla spesa per maggiori distanze da percorrere da parte dei cittadini dell'Alto Friuli per raggiungere gli uffici giudiziari, che dalla riduzione di introiti per l'indotto della zona –:
quali intendimenti manifesti il Governo riguardo al tribunale di Tolmezzo.
(2-01425)
«Di Centa, Renato Farina, Fabbri, Papa, Luciano Rossi, Pelino, Dima, Castellani, Galli, Scelli, Landolfi, Razzi, Barani, Palumbo, Rotondi, Baccini, Pagano, Garofalo, Vincenzo Antonio Fontana, Scandroglio, Mazzocchi, Nirenstein, Scilipoti, Monai, Compagnon, Pescante, Crimi, Antonio Martino, Malgieri, Aprea, Mussolini, Barbieri, La Russa, Valducci, Gianni, Paglia, Milanato, Contento, Gottardo».
(22 marzo 2012)
C)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, per sapere – premesso che:
l'aeroporto militare «Carlo Romagnoli» di Grazzanise (in provincia di Caserta) – aperto al traffico civile autorizzato dal 25 novembre 2004 – è, da anni, al centro di un progetto di ampliamento che prevede l'apertura dello scalo al traffico internazionale ed intercontinentale, oltre che nazionale, business e turistico, con lo scopo di diventare, a partire dal 2012 (o almeno nelle intenzioni iniziali) lo scalo principale del sistema aeroportuale della Campania;
il progetto è partito nel 2008, con un accordo di programma finalizzato a trasformare Grazzanise da scalo militare ad aeroporto internazionale e creare, così, un sistema aeroportuale integrato che comprenda anche l'aeroporto di Salerno-Pontecagnano;
nell'aprile 2008, vi è stato l'affidamento alla società Gesac – già concessionaria fino al 2043 dell'aeroporto di Capodichino – della gestione del nuovo scalo di Grazzanise;
nell'agosto 2008, è stato sottoscritto un accordo di programma tra regione Campania e Presidenza del Consiglio dei ministri sulle grandi infrastrutture e le grandi opere da finanziare in Campania, sulla base della cosiddetta nuova «legge obiettivo» e, tra le opere destinatarie dei finanziamenti, era compreso anche l'aeroporto di Grazzanise;
nel luglio 2009, è stato sottoscritto tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, l'Enac, la Gesac e l'assessorato ai trasporti della regione Campania, un protocollo per la definizione di tutti i passaggi necessari all'avvio della progettazione, della realizzazione e della gestione del nuovo aeroporto;
nonostante nel tempo si siano susseguite, da parte delle istituzioni interessate, numerose richieste alla Gesac di accelerare, per quanto possibile, i tempi della progettazione, in modo da poter ottenere dal Cipe i fondi per le aree sottoutilizzate già previsti dall'accordo regione-Governo sulla legge obiettivo dell'agosto 2008, e arrivare, così, al più presto all'inizio dei lavori, ad oggi, tuttavia, non è stato ancora raggiunto alcun obiettivo concreto;
la realizzazione dell'aeroporto di Grazzanise, infatti, è una questione ancora aperta che si protrae oramai da troppi anni senza che si sia ancora giunti ad una soluzione chiara e condivisa;
nonostante tale infrastruttura sia anche inserita nel «programma infrastrutture strategiche del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» del settembre 2010, il progetto si trova, tuttavia, in una fase di stallo, resa ancora più grave dalla generale confusione circa la reale volontà dei soggetti protagonisti della vicenda di portare ad effettivo compimento l'opera;
a fronte delle posizioni «bipartisan» favorevoli alla realizzazione di un aeroporto internazionale a Grazzanise, la questione, soprattutto negli ultimi giorni, sta registrando una decisiva battuta d'arresto: da recenti e confuse notizie di stampa, infatti, emerge, che il Governo avrebbe escluso uno stanziamento di fondi per lo scalo casertano;
è arrivata anche la netta chiusura del presidente della regione Campania, Stefano Caldoro, il quale ha chiarito apertamente che per il progetto di Grazzanise «non ci sono fondi, non rientra tra i progetti strategici del governo»;
va ricordato, poi, che il 14 febbraio 2012, la seduta monotematica del consiglio regionale della Campania sul futuro dell'aeroporto di Grazzanise è stata chiusa per mancanza del numero legale: dopo la relazione dell'assessore ai trasporti, Vetrella, e alcuni interventi dei consiglieri dei diversi gruppi che avevano appoggiato la realizzazione dell'aeroporto a Grazzanise, il consiglio, infatti, si è aggiornato prima del voto, ma alla ripresa è stato proposto un emendamento dal titolo «iniziative volte alla realizzazione ed al compimento definitivo dello scalo aeroportuale nel comune di Grazzanise», in cui il consiglio avrebbe impegnato la giunta regionale a «chiedere al governo di prevedere in Campania la realizzazione di un aeroporto internazionale da inserire nel piano per il sud e nella programmazione di settore con una contestuale valorizzazione degli scali di Napoli-Capodichino, Salerno-Pontecagnano e di Capua»; si è, quindi, aperto un nuovo dibattito con gli interventi di alcuni consiglieri che si sono detti contrari a votare l'emendamento e l'assessore Vetrella ha poi precisato che «i soldi necessari ai progetti fanno parte del piano Sud del governo, non sono fondi a disposizione della Regione e quindi bisogna chiederli al governo»; Vetrella ha anche ricordato che «non è la Regione Campania a decidere dove si fa un aeroporto» ma che «nel 2011 abbiamo ottenuto un grande risultato quando l'Enac ha messo per iscritto dove bisogna fare gli aeroporti in Italia, considerando Grazzanise un luogo strategico»; al termine dell'intervento, poi, l'assemblea ha votato con voto elettronico la risoluzione proposta dal consigliere di opposizione, Oliviero, ma la votazione non è risultata valida per la mancanza del numero legale;
la questione riveste, senza dubbio, un'importanza fondamentale per cui, al di là delle inevitabili polemiche politiche, è necessario che tutti gli attori politico-istituzionali coinvolti assumano un atteggiamento responsabile e realistico al fine di definire le opportune strategie di intervento;
alla luce della grave crisi economico-finanziaria che sta investendo il nostro Paese, è opportuno innanzitutto verificare, in maniera approfondita e concreta, la fattibilità e la sostenibilità economica del progetto di realizzazione del nuovo scalo, valutando complessivamente tutti i costi, anche quelli connessi ai necessari adeguamenti infrastrutturali (si è parlato di una spesa di oltre un miliardo e 100 milioni di euro), nonché predisporre adeguati ed efficaci meccanismi di controllo e di monitoraggio delle procedure al fine di garantirne la correttezza, la legittimità e la trasparenza –:
se l'aeroporto di Grazzanise – infrastruttura considerata da più parti di vitale importanza sotto il profilo territoriale ed economico, in considerazione delle possibili e connesse opportunità di sviluppo e di occupazione – sia ancora considerato, nell'ottica di una ridefinizione e razionalizzazione del piano nazionale per gli scali aeroportuali, una delle opere prioritarie strategiche e destinato a diventare lo scalo di riferimento del Mezzogiorno;
se non si ritenga opportuno chiarire, in maniera definitiva ed inequivocabile, quali siano i reali intendimenti del Governo riguardo alla delicata questione espressa in premessa, soprattutto con riferimento alla concessione di eventuali stanziamenti necessari ed, in ogni caso, quali iniziative di competenza intenda assumere al fine di garantire la tempestiva definizione della vicenda.
(2-01368)
«Paglia, Muro, Della Vedova».
(21 febbraio 2012)
D)
I sottoscritti chiedono di interpellare i Ministri degli affari esteri e per gli affari europei per sapere – premesso che:
l'Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza guida la politica estera e di sicurezza comune dell'Unione europea, la attua in qualità di mandatario del Consiglio dell'Unione europea ed è membro ed, ex officio, vicepresidente della Commissione europea;
il Consiglio europeo straordinario del 19 novembre 2009 ha designato a questo ruolo la britannica Catherine Ashton, facendola divenire, di fatto, il primo «Ministro degli esteri» dell'Unione europea;
il ruolo di Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune fu introdotto dal trattato di Amsterdam e, insieme al Ministro degli affari esteri del Paese che ricopre la presidenza del Consiglio dell'Unione europea, rappresenta il Consiglio dei Ministri degli esteri dell'Unione europea. Fino al 2010 parte delle funzioni svolte dall'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza erano svolte da una figura differente, il Commissario europeo per le relazioni esterne, che gestiva la direzione generale della Commissione per le relazioni esterne, ora assorbita dal servizio europeo per l'azione esterna;
la Costituzione europea aveva progettato una riforma che prevedeva, oltre al rafforzamento dell'incarico, la sua ridenominazione come «Ministro degli esteri» dell'Unione europea. Il trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1o dicembre 2009) ha apportato significative modifiche al ruolo dell'Alto rappresentante, ivi comprese: la sua ridenominazione (da «per la politica estera e di sicurezza comune» a «per gli affari esteri e la politica di sicurezza»), la sua separazione dall'incarico di segretario generale del Consiglio europeo, l'ingresso nella Commissione europea come vicepresidente;
con l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, l'Alto rappresentante ha assorbito le funzioni del Commissario per le relazioni esterne, è nominato dal Consiglio europeo con l'accordo del Presidente della Commissione europea e previa consultazione con il Parlamento europeo, partecipa ai lavori del Consiglio europeo, insieme ai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, al Presidente del Consiglio europeo ed a quello della Commissione europea, guida la politica estera e di sicurezza comune dell'Unione europea, contribuisce con le sue proposte all'elaborazione di detta politica e la attua in qualità di mandatario del Consiglio, agisce allo stesso modo per quanto riguarda la politica di sicurezza e di difesa comune, presiede il Consiglio «affari esteri», composto dai Ministri degli esteri degli Stati membri, vigila sulla coerenza dell'azione esterna dell'Unione europea, è responsabile nella Commissione europea delle relazioni esterne e della direzione generale per le relazioni esterne, rappresenta l'Unione europea per le materie che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune, conduce, a nome dell'Unione europea, il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione dell'Unione europea nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze internazionali, può sottoporre al Consiglio questioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e può presentare iniziative o proposte al Consiglio, può proporre al Consiglio la nomina di rappresentanti speciali per problemi specifici, che agiscono sotto l'autorità dell'Alto rappresentante, consulta il Parlamento europeo e provvede affinché le opinioni di questo siano prese in considerazione, può proporre al Consiglio di adottare decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese quelle inerenti all'avvio di una missione di peacekeeping, coordina gli aspetti civili e militari delle missioni di peacekeeping dell'Unione europea, è anche segretario generale dell'Unione europea occidentale e presidente dell'Agenzia europea per la difesa. Insomma, svolge un ruolo che ha un rilievo fondamentale e delicato all'interno dell'Unione europea;
la nomina della Ashton fu promossa, in particolare, dal Primo Ministro britannico Gordon Brown, suo amico e alleato politico. La Ashton dichiarò di essere stata leggermente sorpresa dalla nomina, che suscitò sorpresa anche in molti osservatori a causa della sua relativa inesperienza in politica estera;
durante lo svolgimento del suo mandato la Ashton è stata oggetto di numerose critiche da varie parti. È stata disapprovata per non essersi recata rapidamente ad Haiti dopo il terremoto del gennaio 2010, per non avere presenziato ad un vertice dei Ministri europei della difesa, per la sua mancata conoscenza delle lingue straniere, per l'abitudine di trascorrere lunghi fine settimana a casa a Londra, per alcune nomine da lei fatte per il servizio europeo di azione esterna e, da ultimo, e sicuramente non meno importante, per le sue dichiarazioni in merito all'assassinio di un rabbino e tre bambini della scuola ebraica Ozar HaTorah a Tolosa;
sdegno e condanna per la strage di Tolosa e manifestazioni di solidarietà verso la comunità ebraica sono giunte da tutto il mondo, censurando il forte sentimento antisemita che sarebbe alla base dell'azione del killer Mohammed Merah, di origine franco-algerine, che sembra affiliato ad Al Qaeda;
l'Alto rappresentante Ashton ha fatto un riferimento decisamente non appropriato e fuori luogo, accostando l'omicidio dei bambini ebrei francesi di Tolosa alle morti di Gaza o della Siria;
è da condannare ogni azione violenta contro la vita dei bambini di qualunque religione essi siano ed in qualunque contesto di pace o di guerra in tutto il mondo;
la Ashton si e difesa dalle critiche ritrattando la sua dichiarazione e giustificandosi che non voleva collegare la strage di Tolosa con la situazione di Gaza e ha richiamato, durante un incontro organizzato dall'Unrwa a Bruxelles sui giovani rifugiati palestinesi, una serie di episodi dove i bambini hanno tragicamente perso la vita, esprimendo la sua partecipazione al dolore delle famiglie colpite dall'attentato di Tolosa, come per i congiunti dei bambini belgi morti in un incidente stradale e di quelli norvegesi colpiti a morte da un estremista di destra, menzionando anche quanto succede a Gaza e a Sderot (cittadina ebraica del Neghev spesso bersagliata da razzi palestinesi);
l'inadeguatezza della Ashton è sotto gli occhi di tutti. Durante i negoziati israelo-palestinesi è stata incoerente, come dimostra il tentativo di trovare una posizione unanime tra i 27 Paesi europei sul riconoscimento dello Stato palestinese all'Onu, salvo poi fare marcia indietro, e le posizioni sul nucleare iraniano, dove ha appena accennato di riaprire i negoziati con i mullah, rischiando di far precipitare la situazione con un bombardamento israeliano, e sulla primavera araba in relazione alla quale si è dimostrata del tutto impreparata;
sarebbe stata opportuna da parte della Ashton una ferma condanna dei tragici fatti di Tolosa senza nessun riferimento ad altri contesti e fatti internazionali che potesse ingenerare possibili incomprensioni –:
se il Governo intenda assumere iniziative nelle opportune sedi europee, affinché si pervenga alle dimissioni dell'Alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea, Catherine Ashton, avendo la stessa per l'ennesima volta dimostrato, con quelle che agli interpellanti appaiono inappropriate e spiacevoli dichiarazioni che hanno messo in imbarazzo l'intera Europa, la sua inesperienza in campo diplomatico e l'inadeguatezza a ricoprire il ruolo che le è stato assegnato.
(2-01430)
«Dozzo, Maggioni, Pini, Stucchi, Consiglio».
(27 marzo 2012)
E)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'interno, per sapere – premesso che:
gli incidenti avvenuti in Val di Susa, in Piemonte, ed in particolare la caduta di un manifestante da un traliccio dell'alta tensione sul quale era salito per protestare contro l'ampliamento del cantiere per la realizzazione della tratta ferroviaria dell'alta velocità fra Torino e Lione, hanno provocato scontri a catena in tutta Italia;
sono state occupate stazioni e binari ferroviari a Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Napoli, Palermo e Venezia, impedendo, di fatto, la libera circolazione dei cittadini e danneggiando i treni;
la protesta ha riguardato anche strade ed autostrade, con il blocco, in particolare, dell'autostrada A32, Torino-Bardonecchia, su cui è stata ripristinata la circolazione dopo più di 53 ore;
il capo della polizia Antonio Manganelli, il comandante dei carabinieri Leonardo Gallitelli e i vertici di Aise ed Aisi hanno comunicato al Governo che il livello di scontro di settori dei «No Tav» si sta alzando di giorno in giorno e si alzerà ancora di più quando inizieranno materialmente gli espropri;
il 22 febbraio 2012 il capo della polizia Antonio Manganelli, durante l'audizione in I Commissione alla Camera dei deputati, descrivendo il fenomeno dell'anarco-insurrezionalismo ha dichiarato che «l'anarco-insurrezionalismo (...) ci sta dicendo che sta per fare salti di qualità; nello specifico si parla di assassinio» e che esiste un «cartello» sovranazionale degli anarco-insurrezionalisti capitanato dalla Grecia, di cui fanno parte anche i movimenti italiani. Un accordo criminale che ha già causato morti in altri Paesi e le stesse azioni perpetrate in Italia non hanno portato morti solo per caso. Inoltre, facendo riferimento ai fatti del G8, il prefetto Manganelli ha evidenziato una sostanziale disaggregazione dei movimenti per parteciparono alle manifestazioni di Genova, a causa di una mai trovata sintesi tra i gruppi violenti ed i movimenti per la non violenza, e che la Polizia di Stato ha istituito una scuola per l'ordine pubblico per fronteggiare una violenza civile che nel nostro Paese non si riscontrava dagli anni ’70;
nelle ultime ore sono aumentati gli appelli del Ministro interpellato alle forze dell'ordine al fine di mantenere atteggiamenti e forme di puro contenimento delle proteste;
i manifestanti imputano la responsabilità di quanto è capitato a Luca Abbà (il ragazzo caduto dal traliccio), indipendentemente dalla dinamica tecnica dell'episodio, ai vertici delle forze dell'ordine e alle scelte che queste hanno adottato, con il consenso del Governo, sostenendo che la situazione di tensione creatasi sia stata messa in conto, ed anzi anticipata, dal capo della polizia, «reo» di aver applicato la stessa strategia già sperimentata a Genova durante gli scontri del 2001 in occasione del G8;
le manifestazioni del mese di ottobre 2011 a Roma e adesso quelle della Val di Susa non sono pacifiche manifestazioni di protesta, ma si è lasciato ampio spazio a gruppi violenti strutturati, addestrati all'uso della violenza e della provocazione, mimetizzati e aiutati nell'azione dal tamtam mediatico che si sviluppa su internet;
uno dei leader storici del movimento «No Tav» ha dichiarato: «Quel che faremo lo scoprirete quando l'avremo fatto»;
le aggressioni dei manifestanti non sono state solo verbali, come nei confronti del carabiniere che, insultato e provocato, non ha reagito, e che per questo ha giustamente ricevuto l'encomio solenne del Comandante generale Gallitelli, ma anche reali contro le troupe televisive e i giornalisti; la questura di Torino ha riferito, peraltro, che il bilancio dei feriti tra le forze dell'ordine è di 29 persone, di cui 18 poliziotti e 11 carabinieri;
sulla facciata esterna del quotidiano Roma, a Napoli, è stata disegnata una stella a cinque punte con una scritta contro il direttore del giornale e le parole «No Tav Luca resisti», in riferimento all'attivista del movimento finito in ospedale a Torino;
il sindaco di Chiomonte, Enzo Pinard, che appoggia il progetto Tav, ha dichiarato che «così non possiamo andare avanti, anni e anni di vite blindate, segregate, rallentate, bloccate, ostaggi dei rancori» e che se ciascun cittadino può mettere in discussione ogni decisione pubblica salta il contratto sociale, ma soprattutto è evidente che se «lo Stato non ha la forza di affrontare questo confronto democratico (...) è lo Stato a non fare lo Stato». «Occorre un confronto corale, coordinato da un'istituzione»;
il Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, ha dichiarato che: «Il lavoro è in corso e deve continuare nel modo migliore come previsto»;
il Ministro interpellato ha offerto un'apertura al dialogo, sostenendo, comunque, dopo aver parlato con il prefetto di Torino e con i sindaci, che ci sarà la «massima attenzione, pronti ad ascoltare tutte le esigenze, ma senza mettere in discussione l'opera» e che pensa «che con il dialogo si possano risolvere molti problemi», ma «su certe cose» è «per una fermezza assoluta»;
le dichiarazioni della questura di Torino parlano di «necessario e urgente ripristino della legalità» –:
se non ritenga opportuno chiarire, in maniera definitiva ed inequivocabile, quali siano i reali intendimenti del Governo riguardo alla delicata questione espressa in premessa;
se non si possa anche in Italia realizzare ciò che già esiste in Germania, in Inghilterra e Francia, dove da anni le forze di polizia non consentono ai gruppi più violenti di raggiungere ed unirsi ai cortei di protesta, utilizzando il fermo di polizia o di identificazione;
se non si ritenga opportuno avviare un attento monitoraggio degli strumenti, anche normativi, a disposizione delle forze dell'ordine per valutare se servono ulteriori strumenti, sottolineando che il tema della sicurezza pubblica è prioritario;
se non si ritenga opportuno intraprendere tutte le iniziative opportune per evitare la possibile degenerazione delle manifestazioni, stabilendo precise disposizioni sulle modalità di protesta, il numero dei partecipanti e gli spazi, affinché essi siano compatibili con gli interessi della popolazione.
(2-01389) «Cicchitto, Santelli».
(5 marzo 2012)
F)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'interno, per sapere – premesso che:
l'incubo dei furti in abitazione si estende a macchia d'olio dalla piana del Sele fino alla zona degli Alburni, aree della provincia di Salerno considerate sino ad oggi tranquille e lontane dagli obiettivi della malavita organizzata. Nelle ultime settimane si stanno moltiplicando i furti in appartamenti nei centri urbani, ma, soprattutto, nelle zone agricole, dove, con la complicità del buio e la minore attenzione dei cittadini, i malviventi sempre più spesso si introducono nelle proprietà altrui, facendo razzia di beni di ogni genere. Il fenomeno sta creando allarme tra i cittadini, che temono per la propria incolumità;
il comune più colpito è quello di Postiglione, dove gli episodi delittuosi si stanno verificando con sempre maggiore frequenza nelle ultime due settimane, senza che nessuno degli autori sia stato ancora assicurato alla giustizia. Martedì 13 marzo 2011 una donna è stata aggredita con colpi di spranga nella sua abitazione;
i sindaci della zona hanno deciso di chiedere l'intervento del prefetto e la convocazione urgente del comitato provinciale per la sicurezza e l'ordine pubblico. Inoltre, hanno deciso di coinvolgere la polizia municipale, i carabinieri, le guardie ambientali della comunità montana degli Alburni, che a turno sono impegnati in ronde notturne. «Invitiamo tutti i nostri concittadini – ha affermato il vicesindaco di Postiglione – a collaborare con le forze dell'ordine segnalando auto sospette e/o persone sconosciute che si aggirano per il paese con fare ambiguo»;
tuttavia, la vastità e la scarsa popolazione del territorio non consentono di difendere adeguatamente le abitazioni e le attività produttive isolate; il timore è che le aggressioni sfocino presto in qualcosa di più grave; a tal fine, diversi sindaci hanno da tempo chiesto al Ministro interrogato di accedere alle risorse stanziate per la sicurezza locale, in particolare per l'installazione di telecamere nelle aree sensibili e nelle strade di accesso ai comuni della zona, in modo da poter risalire, in caso di eventi delittuosi, ai possibili autori; tuttavia, nessuno dei progetti presentati ha ottenuto il finanziamento del Ministero dell'interno;
occorre, infine, ricordare la piaga dei furti nei campi, posta in essere a quanto consta agli interpellanti soprattutto da rom e slavi, che sta assumendo contorni endemici e preoccupanti; in tale ambito si registra l'assoluta impotenza delle istituzioni, assolutamente non in grado perseguire numerosi reati di piccola portata in un'area tanto vasta –:
quali provvedimenti intenda adottare per affrontare la situazione esposta in premessa;
se non ritenga opportuno favorire l'accesso dei comuni dell'area degli Alburni e, più in generale, dei comuni del Cilento alle risorse destinate alla sicurezza locale, secondo quanto previsto nei diversi progetti già presentati o in corso di presentazione da parte dei comuni, anche in concorso tra loro, con particolare riferimento all'installazione di telecamere di sorveglianza, collegate con le centrali operative di polizia e carabinieri, nelle strade, nei punti di snodo e nelle aree più sensibili.
(2-01426)
«Mario Pepe (Misto-R-A), Brugger».
(22 marzo 2012)
G)
I sottoscritti chiedono di interpellare i Ministri dell'economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti, per sapere – premesso che:
da notizie assunte presso l'Enac, in merito alle gestioni aeroportuali, risulterebbe che per 17 aeroporti nazionali non è stato ancora perfezionato il procedimento di affidamento della gestione totale;
da tempo per gli aeroporti di Cuneo, Perugia, Ancona, Parma, Rimini, Brescia e Treviso, le convenzioni di affidamento della gestione totale sono state sottoscritte e trasmesse al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che avrebbe adottato i relativi decreti e già da mesi li avrebbe inviati al Ministero dell'economia e delle finanze per l'acquisizione della controfirma;
ad oggi, le procedure per la formalizzazione delle concessioni risultano ancora bloccate presso il Ministero dell'economia e delle finanze, costituendo tale situazione un reale ostacolo per la stabilizzazione delle realtà gestionali, nonché per il pieno e costante sviluppo degli scali, fortemente condizionato da questo elemento di precarietà;
la riscontrata complessità dell’iter decisionale dell'affidamento della gestione aeroportuale e le relative lungaggini stanno incidendo negativamente sulle potenzialità di privatizzazione, in quanto direttamente connessa alla durata della concessione, alle tariffe praticabili e all'invarianza nel medio periodo del quadro regolamentare;
il Ministero dell'economia e delle finanze avrebbe richiesto la predisposizione di linee guida interministeriali che chiariscano il perimetro operativo del ricorso alla deroga dal divieto previsto dal decreto-legge n. 78 del 2010, all'articolo 6, comma 19, al fine di specificare in che modo la stipula di convenzione, contratti di servizio e di programma tra le società di gestione aeroportuali e gli enti locali possa essere assentita solo a determinate condizioni;
al riguardo risulterebbe che il 29 luglio 2011 sarebbe stata trasmessa una bozza di linee guida, inviata poi al gabinetto e all'ufficio legislativo del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nella quale viene sottolineata l'opportunità del riferimento effettuato dall'Enac alla normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato;
ad oggi, però, non risulterebbe ancora definita sull'argomento alcuna proposta;
un ulteriore elemento per il completamento dei procedimenti di affidamento delle «gestioni totali» è costituito dalla nuova scadenza stabilita dal decreto-legge del 29 dicembre 2011, n. 216, al 30 giugno 2012, scadenza che è stata di anno in anno prorogata a decorrere dal 2005, sempre fino al 31 dicembre 2012;
nell'ambito del provvedimento di revisione del codice della navigazione era stato fissato un termine entro il quale avrebbero dovuto essere concluse le istruttorie di affidamento della gestione totale, decorso il quale le società interessate avrebbero potuto chiedere la nomina di un commissario ad acta per il relativo rilascio;
tale scadenza conferma, dunque, che il settore è interessato da previsioni normative, comprese quelle di finanza pubblica direttamente applicabili ai soci pubblici, che non ne facilitano il ruolo e la relativa funzione e che alimentano, invece, lo stato di incertezza in cui versano le società di gestione;
alla luce di quanto premesso, risulta prioritario intervenire sulla complessità dell’iter decisionale che riguarda l'affidamento della gestione aeroportuale e sul conseguente regime di incameramento e aggiornamento del diritti aeroportuali, che incidono in modo significativo sia sulla stabilizzazione delle realtà gestionali, sia sulle potenzialità di privatizzazione –:
quali iniziative di competenza i Ministri interpellati intendano intraprendere per la definitiva approvazione dei decreti di affidamento della gestione totale, ancora sospesi, eliminando così questo grave elemento di precarietà, che, di fatto, impedisce sia la stabilizzazione delle realtà gestionali, sia il pieno sviluppo degli scali.
(2-01419)
«Delfino, Libè, Ciccanti, Galletti».
(20 marzo 2012)
H)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
numerosissime sono le segnalazioni di piccoli investitori che, confortati dal parere di sedicenti esperti o professionisti del settore, fidandosi dell'appartenenza della Grecia all'eurozona e delle rassicurazioni delle istituzioni europee, hanno deciso di investire in titoli di Stato della Repubblica greca nella piena convinzione di non mettere a repentaglio il proprio capitale;
oggi si rileva che l'accordo europeo sul salvataggio della Grecia prevede uno scambio dei titoli di Stato greci in portafoglio agli investitori privati con obbligazioni a più lunga scadenza e interessi minori, tale da ridurre il debito greco di 107 miliardi di euro;
il successo dell'operazione è legato al tasso di partecipazione volontaria dei privati: oltre il 90 per cento (95 per cento circa) di consensi dovrebbe bastare per dimezzare la quota del debito pubblico oggetto dello swap, riducendola da 206 miliardi di euro a poco più di 100 (64,9 miliardi di nuovi titoli greci e oltre 35 miliardi di Efsf-bond con tre durate). Sotto il 75 per cento di consensi, lo swap rischia di essere cancellato;
nel caso di adesioni al di sopra del 75 per cento, ma al di sotto del 90 per cento, la Grecia si riserva la possibilità di introdurre e attivare le clausole di azione collettiva (cac), in base alle quali basterebbe il 50 per cento dei sottoscrittori partecipanti allo swap e una maggioranza pari a due terzi di questo quorum favorevole alla modifica tramite clausole di azione collettiva per imporre i termini su tutti i detentori privati;
gli investitori privati in possesso di 200 miliardi di euro di obbligazioni greche subiranno una perdita del 53,5 per cento del valore nominale e una perdita reale del 73/74 per cento;
il 9 marzo 2012 il Ministro delle finanze greco ha reso noto che ammontano all'85,8 per cento le adesioni volontarie dei creditori privati sotto legislazione greca (pari a 152 miliardi di euro su 177) allo swap obbligazionario sul debito greco, mentre quelli sottoposti a legislazione internazionale hanno consegnato 20 miliardi su 29, pari al 69 per cento del totale: nel primo caso la soglia del 75 per cento è stata superata e ciò significa che su questa quota il Governo greco potrebbe usare le clausole di azione collettiva, in modo da far arrivare le adesioni sul fronte dei bond sotto legislazione greca al 95,7 per cento del totale; nel caso, invece, dei bond greci sotto legislazione internazionale, il Ministro Venizelos ha prolungato la possibilità per i risparmiatori di aderire alla proposta di scambio fino al 23 marzo 2012, pena il mancato pagamento senza applicazione delle clausole di azione collettiva;
i piccoli risparmiatori italiani coinvolti sono decine di migliaia per un investimento complessivo in bond greci di un miliardo di euro: la maggior parte dei titoli erano denominati col codice «isin GR» è sono di diritto greco e sono stati tutti «swappati» anche forzosamente; altri sono «isin XS» e di diritto inglese: per questi sono previste le clausole di azione collettiva al raggiungimento del 75 per cento di adesioni; infine, ci sono le «It»;
si rileva che i piccoli risparmiatori italiani sono stati invogliati e assicurati da nostri operatori finanziari a comprare i titoli di Stato greci, proprio per la garanzia di sicurezza dell'investimento;
nei risparmiatori sta crescendo l'idea di essere stati traditi dall'Unione europea. Lo swap, infatti, è stato iniziato, condotto e concluso (almeno per i bond di diritto ellenico) con una contrattazione che ha visto partecipi i soli investitori istituzionali, riservando ai piccoli investitori la sorpresa di trovarsi forzatamente coinvolti e vincolati ad una determinazione che ha un effetto retroattivo sulla misura dei capitali da loro sottoscritti;
gli investitori istituzionali, in primo luogo le banche, possono già usufruire di appositi vantaggi, quali il prestito dalla Banca centrale europea di circa 1.000 miliardi di euro al tasso agevolato all'1 per cento, al fine di mantenere la stabilità del sistema e la possibilità di dedurre fiscalmente le perdite, vantaggi questi che non sono riconosciuti al piccolo risparmiatore;
è necessario vigilare affinché i prestiti che gli istituti bancari hanno ricevuto dalla Banca centrale europea a tasso agevolato vadano effettivamente al sostegno dell'economia reale;
la legge italiana non prevede l'applicazione delle clausole di azione collettiva; per le controversie relative alle «It», che sono pienamente di diritto italiano e quotate alla borsa di Milano; come da regolamento depositato, è competente solo ed esclusivamente l'autorità giudiziaria di Milano;
non è ammissibile che un Paese membro dell'Unione economica e monetaria decida unilateralmente di non adempiere a obblighi contrattuali garantiti da uno Stato e da una legge come quella italiana;
in gioco non sono solo i risparmi di migliaia di risparmiatori, il che già sarebbe un sufficiente motivo per agire, ma la stessa credibilità delle istituzioni italiane e la sovranità legislativa;
i risparmiatori italiani devono poter scegliere liberamente in merito alla proposta di swap ed è, pertanto, indispensabile garantire il rispetto delle normative italiane che nessun Paese che ha contratto un'obbligazione può mettere in discussione; si tratta di un problema, oltre che economico, anche di sovranità nazionale –:
se esistano obbligazioni emesse dalla Repubblica ellenica ma sottoposte alla legislazione italiana e, in caso di risposta affermativa, come il Governo intenda tutelare i risparmiatori italiani;
di quali elementi disponga in merito al rispetto dell'obbligo, da parte degli intermediari finanziari coinvolti nell'operazione di vendita dei titoli greci, di informare in modo corretto e trasparente gli investitori;
se intenda assumere iniziative normative per promuovere la costituzione di un apposito fondo di garanzia a favore dei piccoli risparmiatori italiani che hanno acquistato i titoli di Stato greci finalizzato ad assicurare l'integrale rimborso in caso di perdita di valore dell'investimento dovuto alla successiva ridefinizione del valore nominale dei crediti.
(2-01420)
«Boccia, Corsaro, Ventura, Pizzolante, Codurelli».
(20 marzo 2012)
I)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
il decreto legislativo n. 23 del 2011, recante «Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale», all'articolo 8 aveva istituto, dal 2014, l'imu (imposta municipale unica) che andrà a sostituire – per la componente immobiliare – l'irpef e le addizionali sui redditi relativi ai beni non locati, escludendo dall'imposizione l'abitazione principale e le relative pertinenze;
il decreto-legge n. 201 del 2011 ha anticipato al 2012 l'istituzione dell'imposta municipale unica (imu), stabilendo, altresì, come la stessa imposta non sostituisca altre imposte, come invece previsto dal decreto legislativo sul federalismo fiscale e prevedendo come il 50 per cento degli introiti provenienti dal gettito imu sulla seconda casa e sugli altri immobili, non definibili come abitazione principale, spetterà allo Stato;
tale normativa prevede, allo stesso tempo, la possibilità da parte del comune di poter modificare le aliquote, sia relativamente alla prima abitazione che sugli immobili diversi dalla prima abitazione, e stabilisce anche come le eventuali modifiche dovranno essere fatte dall'ente locale precedentemente al 16 giugno 2012, quando, così come previsto dalla medesima disposizione, il contribuente dovrà effettuare il versamento della prima tranche dell'imposta;
ad oggi numerosi comuni, sulla base del fatto che il gettito imu nel suo complesso appare di entità incerta e non precisamente definibile, non hanno ancora deliberato le aliquote imu da adottare, così che la predisposizione dei bilanci preventivi 2012 risulta, anche a causa delle continue modifiche normative e alla luce delle recenti riduzioni ai trasferimenti, bloccata in numerosi comuni –:
se non ritenga opportuno, nell'ambito delle proprie competenze, avviare un confronto tecnico con i rappresentanti degli enti locali, al fine di verificare la correttezza del gettito complessivo dell'imposta municipale unica e di permettere ai comuni di valutare, a loro volta, la correttezza delle stime per poter così prevedere le aliquote dell'imposta municipale unica.
(2-01424)
«Negro, Dozzo, Bitonci, Buonanno, Chiappori, D'Amico, Forcolin, Lanzarin, Montagnoli, Vanalli, Alessandri, Allasia, Bonino, Bragantini, Callegari, Caparini, Cavallotto, Comaroli, Consiglio, Crosio, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fabi, Fava, Fedriga, Fogliato, Follegot, Fugatti, Gidoni, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lussana, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Paolini, Pastore, Pini, Polledri, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Simonetti, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Volpi».
(22 marzo 2012)
L)
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
uno dei principali ostacoli sulla strada del possibile rilancio del nostro Paese è rappresentato dal ritardo cronico dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche, che sono erogati solo dopo decreti ingiuntivi e pignoramenti. Le aziende si vedono costrette a chiudere la loro attività, anche a fronte dell'interruzione dei prestiti bancari a causa del credit crunch. Anche la realizzazione di importanti opere pubbliche, necessarie per ammodernare il Paese e riprendere il ciclo dello sviluppo economico, è a rischio per il blocco della liquidità dell'amministrazione pubblica;
puntare sulla ripresa degli investimenti di opere pubbliche sarebbe essenziale, ma, nello stesso tempo, sarebbe resa del tutto inefficace per i troppi vincoli imposti da un rigido patto di stabilità che colpiscono le erogazioni di cassa destinate quegli investimenti. L'idea, dunque, di investire nelle rilancio delle opere pubbliche, ipotesi che potrebbe rappresentare un'opzione non di secondo piano per il rilancio dell'economia e della produttiva del sistema Italia, viene di fatto resa impraticabile;
eppure, privarsi di questa possibilità in più non appare di certo coerente;
gli enti locali in Lombardia pagano mediamente in 120 giorni, in Campania pagano con 365 giorni di ritardo, in Calabria addirittura si raggiunge il tetto di ben 600 giorni. Bisogna, però, tener conto che vi sono pure al Nord realtà in cui è ben evidente questa patologia del rapporto fra le imprese fornitrici di beni e servizi e gli enti locali. Ottenere una commessa per un'impresa privata in queste condizioni può rappresentare una vera e propria iattura per il proprio conto economico;
questa situazione tiene lontani gli investimenti pubblici e privati da un'area come quella del Mezzogiorno, che, non va sottaciuto, rappresenta un mercato di consumo per le imprese del Nord. Le regioni del Sud necessitano in primo luogo di investimenti, sia per quanto riguarda le infrastrutture, il cui ritardo cronico frena in maniera evidente lo sviluppo del Meridione, sia per quanto riguarda la possibilità di sviluppare sul territorio quella serie di piccole e medie imprese private, che potrebbero ridare, con la loro stessa esistenza, linfa all'intero Meridione. Il ritardo dello sviluppo economico del Sud Italia ha molteplici cause, una di queste è certamente rappresentata dalla debolezza dell'iniziativa privata, diffusa e capillare sul territorio. Essa ha contribuito a fare in modo che altre aree del nostro Paese possano essere considerate tra i produttori più importanti del continente;
dove, invece, è mancata questa iniziativa oggi persistono aree in evidente ritardo. Il Sud di Italia è fortemente caratterizzato da tale mancanza e da tale ritardo;
lo Stato, come le regioni e gli enti locali, possono rappresentare un'opzione in più, uno strumento importante per veicolare, attraverso i loro investimenti, diffondere e invogliare l'iniziativa privata sul territorio. Nell'interesse, si badi bene, non solo delle aree eventualmente interessate, ma dell'intero sistema Paese e delle aziende, non certo e non solo locali, che potrebbero essere coinvolte in un piano nazionale di investimenti sul territorio;
resta, ovviamente, in questo quadro, la necessità che le amministrazioni pubbliche nel loro complesso rappresentino un punto di riferimento certo ed affidabile e, dunque, capaci di far fronte ai propri impegni. Purtroppo, così non è. Su questa deficienza cronica si deve intervenire, perché se a Milano come a Torino le imprese private riescono ad avere un rapporto di certezza con gli enti locali e, quindi, a svolgere con continuità la loro attività imprenditoriale, nel Sud le aziende che hanno un rapporto con le amministrazioni pubbliche sono in grande difficoltà per la mancanza di liquidità degli enti locali e il conseguente ritardo dei loro pagamenti. Ciò causa un ulteriore danno non solo all'economia locale, ma indirettamente anche al più generale sistema economico italiano;
fino a qualche anno fa le regioni riuscivano a pagare i fornitori di beni e servizi con più tempestività, perché potevano utilizzare i fondi di riequilibrio, o comunque ricorrevano con maggiore possibilità all'indebitamento. Entrambe le ipotesi oggi non sono più percorribili. Inoltre, è necessario tenere conto del vincolo imposto del patto di stabilità;
in virtù proprio del patto di stabilità si è di fronte ad una situazione particolare per la quale alcune regioni, pur avendo risorse disponibili, non possono utilizzarle, mentre altre non hanno praticamente denaro in cassa;
in queste settimane è stata avanzata autorevolmente l'ipotesi che le risorse finanziarie inutilizzate possano essere rimesse in circolo con l'istituzione di un fondo di garanzia, di cui il Governo nazionale sia garante dei pagamenti anche delle autonomie locali;
non si tratta di utilizzare le risorse finanziarie di alcune regioni a favore di altre, come si è detto in più occasioni. Si deve, infatti, tenere presente che, con riferimento alle risorse accantonate e inutilizzate, la gran parte di queste sono rappresentate da trasferimenti dello Stato, mentre solo una piccola parte di queste provengono dalla finanza locale;
il Governo ha da poco messo a disposizione ben 1 miliardo di euro al di fuori del patto di stabilità e sta lavorando per diminuire l'incidenza dei vincoli esistenti, scelta questa che comporta la spesa di ingenti risorse economiche;
anche di fronte a tale situazione, appare ragionevole e forse doveroso riflettere sull'ipotesi di utilizzare risorse finanziarie che esistono e che restano inutilizzate –:
se non ritenga opportuno intervenire, nei modi e nei tempi che reputerà necessari e nelle sedi opportune, nell'ambito delle proprie e nel rispetto delle altrui competenze, affinché l'ipotesi avanzata possa essere discussa e vagliata come eventuale risorsa aggiuntiva per risolvere il problema cronico dei ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni e contribuire così al rilancio del sistema nel suo complesso, incentivando gli investimenti privati nelle aree depresse del nostro Paese, che non sono solo nelle regioni meridionali.
(2-01427) «Ossorio, Nucara, Brugger».
(23 marzo 2012)