Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento giustizia | ||||
Titolo: | Delega al Governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili - A.C. 5019 - Schede di lettura | ||||
Riferimenti: |
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Serie: | Progetti di legge Numero: 620 | ||||
Data: | 28/03/2012 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | II-Giustizia | ||||
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione per l’esame di |
Delega al Governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili A.C. 5019 |
Schede di lettura |
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n. 620 |
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28 marzo 2012 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Giustizia ( 066760-9559 / 066760-9148 – * st_giustizia@camera.it |
Ha partecipato alla redazione del dossier il seguente Servizio: |
Avvocatura della Camera dei deputati – Osservatorio sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ( 066760-9360 / 066760-4056 – * segreteria_avvocatura@camera.it
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File: gi0718.doc |
INDICE
Schede di lettura
§ Art. 1 (Delega al Governo) 3
§ Art. 2 (Depenalizzazione) 5
§ Art. 3 (Sospensione del procedimento con messa alla prova) 25
§ Art. 4 (Sospensione del processo per assenza dell'imputato) 31
§ Art. 5 (Pene detentive non carcerarie) 39
§ Art. 6 (Disposizioni comuni) 47
§ Art. 7 (Clausola di invarianza finanziaria) 49
Documentazione
§ Tabella n. 1 – Nuovi reati introdotti dal 2000 ad oggi 55
§ Tabella n. 2 – Codice penale – Reati puniti con la sola multa 99
§ Tabella n. 3 – Codice penale – Reati puniti con la sola ammenda 104
L’articolo 1 delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi per:
§ riformare la disciplina sanzionatoria di alcuni reati (depenalizzazione, di cui all’articolo 2);
§ introdurre nel codice di procedura penale l’istituto della messa alla prova (articolo 3);
§ introdurre nel codice di procedura penale l’istituto della sospensione del processo per assenza dell’imputato (articolo 4);
§ introdurre nel codice penale e nelle norme complementari le pene detentive non carcerarie (articolo 5).
I principi ed i criteri direttivi della delega sono enunciati negli articoli da 2 a 5, mentre l’articolo 6 individua le modalità e la procedura per l’esercizio della delega e l’articolo 7 reca la clausola di copertura finanziaria.
L’articolo 2, comma 1, delega il Governo ad attuare una depenalizzazione della quale detta i principi e criteri direttivi.
Ciclicamente il legislatore - ispirato ai principi del “diritto penale minimo”, ovvero di quel modello che riserva l’intervento repressivo dello Stato sul piano penale esclusivamente alla tutela dei valori primari, di cui l’ordinamento non può tollerare l’offesa - rivede il diritto penale con interventi volti a ridurre il numero dei reati attraverso la soppressione di alcune fattispecie vigenti, ritenute anacronistiche, ovvero la trasformazione di alcuni illeciti penali in illeciti amministrativi.
Anche se il primo intervento di depenalizzazione si può far risalire alla legge 24 dicembre 1975, n. 706[1], è soprattutto con la legge 24 novembre 1981, n. 689, che si realizza la prima depenalizzazione di ampio respiro.
La depenalizzazione del 1981
La legge 24 novembre 1981, n. 689, oltre a depenalizzare sia alcuni delitti che alcune contravvenzioni (artt. 32-39), introduceva diverse altre misure volte ad alleggerire il carico complessivo del sistema penale, quali l’introduzione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (artt. 53-76), l’estensione della perseguibilità a querela di determinati reati (artt. 86-99) e l’introduzione di una speciale ipotesi di oblazione (art. 162-bis, c.p.).
L’art. 32 della legge prevedeva l’irrogazione di sanzione amministrativa per tutti i reati puniti soltanto con la multa o l’ammenda (erano esclusi i reati che, nelle ipotesi aggravate, fossero punibili con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria oltre che i delitti punibili a querela); l’art. 35 estendeva il regime della sanzione amministrativa a tutte le violazioni previste da leggi in materia di previdenza e assistenza obbligatoria punite con la sola ammenda e altrettanto prevedeva l’art. 39 per le violazioni finanziarie punite con la sola ammenda. Erano inoltre depenalizzate altre ipotesi di reato[2].
Erano invece escluse dalla depenalizzazione le seguenti fattispecie:
a) i reati che, pur puniti con pena pecuniaria, erano puniti, nelle ipotesi aggravate, con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria;
b) i reati che, pur puniti con la sola pena pecuniaria, erano perseguibili a querela;
c) i reati previsti dal codice penale (salvo i casi espressamente elencati);
d) i reati in tema di armi, munizioni ed esplosivi;
e) i reati in materia di tutela igienico sanitaria degli alimenti, salvo talune eccezioni;
f) i reati in materia di inquinamento;
g) i reati in tema di impiego pacifico dell’energia nucleare;
h) i reati previsti dalla legge edilizia ed urbanistica;
i) i reati previsti dalla legge in materia di lavoro, ivi compresa la normativa antinfortunistica;
l) taluni reati in materia elettorale;
m) i reati in tema di interruzione volontaria della gravidanza.
Nonostante l’intervento del 1981, pochi anni dopo, nel 1988, la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal Prof. Pagliaro, già individuava tra gli obiettivi da perseguire quello della ridefinizione dell’apparato sanzionatorio penale con la riduzione delle fattispecie incriminatici e del peso della legislazione speciale.
Anche il Consiglio superiore della magistratura, con una relazione approvata l’11 giugno 1992, auspicava un intervento legislativo di depenalizzazione sottolineando con forza come la sanzione penale non possa essere utilizzata indiscriminatamente per colpire ogni comportamento non in regola con le norme, ma, come essa debba, al contrario, essere riservata alle esigenze di tutela dei beni primari della collettività e, segnatamente, dei beni di rilevanza costituzionale.
In questo clima, nel corso dell’XI legislatura il legislatore ha approvato i seguenti provvedimenti di depenalizzazione:
§ legge 6 dicembre 1993, n. 499, “Delega al Governo per la riforma dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro”[3];
§ legge 28 dicembre 1993, n. 561, “Trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi”;
§ legge 28 dicembre 1993, n. 562, “Delega al Governo per la riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e delle disposizioni ad esso connesse o complementari”[4].
Nel corso della XII legislatura la Commissione giustizia della Camera calendarizza proposte di legge per la depenalizzazione dei c.d. reati minori e nella XIII legislatura si giunge all’approvazione della legge 25 giugno 1999, n. 205, recante Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario.
La depenalizzazione del 1999
La legge 25 giugno 1999, n. 205 ha conferito al Governo tre distinte deleghe:
§ la prima è volta a trasformare in illeciti amministrativi diverse fattispecie di reato in materia di disciplina degli alimenti, della navigazione, di circolazione stradale e autotrasporto, di leggi finanziarie, tributarie e concernenti i mercati finanziari e mobiliari, di assegni bancari e postali. La legge analiticamente indica i principi della depenalizzazione, specificando per ogni settore quali condotte devono restare penalmente sanzionate. Inoltre, la legge elenca una serie di disposizioni legislative per le quali prefigura la depenalizzazione. All’attuazione di questa delega il Governo ha provveduto con il decreto legislativo n. 507 del 1999;
§ la seconda è relativa alla sostanziale depenalizzazione della disciplina dei reati in materia di imposte sul reddito e sul valore aggiunto, imperniata sulla legge 7 agosto 1982 n. 516 (cd. “manette agli evasori”). La delega è stata attuata con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74;
§ la terza riguarda l’adozione di misure alternative alla detenzione, con la possibilità per il giudice, in relazione alle diverse fattispecie di reato, di optare per la detenzione carceraria o altra misura (lavoro di pubblica utilità non retribuito, lavoro sostitutivo o altre forme prescrittive specifiche). Questa delega è rimasta inattuata.
La legge delega ha previsto infine l’attribuzione della competenza generale sull’opposizione alle ordinanze-ingiunzioni (di norma prefettizie) emesse a seguito dell’accertamento di violazioni amministrative, al giudice di pace, ferma restando, in casi specificamente individuati, la competenza del tribunale in composizione monocratica.
Il decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, con un testo ampio e particolarmente articolato (ben 105 articoli), ha attuato la prima delle deleghe. Analiticamente,
§ il titolo I ha affrontato la riforma della disciplina sanzionatoria in materia di alimenti, agendo tramite la trasformazione in illeciti amministrativi dei reati prima previsti, con eccezione di quelli contenuti nel codice penale e di alcune fattispecie previste dalla legge 283/1962; viene precisata l’entità delle diverse sanzioni amministrative pecuniarie e si introducono misure interdittive dell’attività in casi particolari (come la sospensione o la revoca della licenza), oltre alla chiusura dell’esercizio per mancanza dei requisiti igienico-sanitari;
§ il titolo II ha modificato il sistema sanzionatorio previsto dal codice della navigazione. Sono depenalizzate diverse fattispecie in materia di danni a beni pubblici destinati alla navigazione, di ordinamento e polizia dei porti e degli aerodromi, di assunzione della gente di mare e del personale navigante, di proprietà della nave e dell’aeromobile, di polizia della navigazione. In tal caso, la depenalizzazione, in ossequio a quanto previsto dalla legge delega, ha riguardato soltanto le contravvenzioni, ad esclusione dei delitti previsti dagli artt. 1161, 1176 e 1177; anche in tale settore sono introdotte sanzioni accessorie come la sospensione dei titoli professionali marittimi, la sospensione della professione marittima o aeronautica ecc.;
§ il titolo III è intervenuto sul sistema sanzionatorio in materia di circolazione stradale. L’intervento riguarda il codice della strada (D.Lgs 285/1992), la disciplina dell’autotrasporto (artt. 24 e 26 della legge 298/1974) e la normativa sul blocco stradale (art. 1 del d.lgs. n. 66/194), che viene trasformato in illecito amministrativo, con l’esclusione delle ipotesi di abbandono o deposito sui binari di oggetti di congegni o altri oggetti di qualsiasi specie, che continua ad essere punito con la reclusione da uno a sei anni; di particolare impatto appare l’intervento depenalizzatore di moltissimi illeciti previsti dal codice della strada (ad es. la guida senza patente e le condotte in materia di guida dei veicoli) con alcune significative eccezioni, di particolare gravità.
§ il titolo IV ha disposto in ordine ad alcune violazioni finanziarie abrogando in particolare l’art. 20 della legge 4/1929 che conteneva il principio della cd. ultrattività delle norme penali finanziarie, sancendo il principio dell’irretroattività della norma penale sfavorevole, ma non l’obbligatoria retroattività di quella favorevole sopravvenuta. Alla scomparsa del principio di ultrattività è ricollegato un notevole effetto deflattivo sul carico penale potendo trovare applicazione, anche per le norme penali tributarie, l’art. 2 c.p. L’art. 25 del D.Lgs 507 opera, in particolare, una limitata depenalizzazione di alcune fattispecie di contrabbando previste dal T.U delle leggi doganali (DPR 43/1973) sempre che esse non riguardino tabacchi lavorati esteri.
§ il titolo V affronta la disciplina degli assegni bancari e postali, prevedendo in particolare la depenalizzazione del reato di emissione di assegni a vuoto e senza autorizzazione (art. 1 e 2 della legge 386/1990). Il fulcro del nuovo modello sanzionatorio è la cd. revoca di sistema (art. 35) ovvero un meccanismo automatico per il quale l’emissione di assegni senza provvista o autorizzazione comporta, per sei mesi, la revoca di tutte le autorizzazioni ad emettere assegni e il divieto di stipulare nuove convenzioni di assegno con le banche o uffici postali (a differenza di quanto accadeva in precedenza ove la revoca era solo aziendale). Strumentale al funzionamento dell’indicato meccanismo è l’istituzione di un apposito archivio informatico presso la Banca d’Italia (art. 36);
§ il titolo VI, infine, attua la delega per la parte relativa alla trasformazione in illeciti amministrativi di reati (delitti e contravvenzioni) previsti dal codice penale (Capo I)[5] e da numerose leggi speciali (Capo II). In particolare, il legislatore delegato ha depenalizzato gli illeciti contenuti in 33 leggi speciali, inerenti i più diversi settori (dall’abigeato, alla bonifica di terreni paludosi, ai divieti di importazione e esportazione, al lotto pubblico, alle frodi pensionistiche, all’imposta sugli spettacoli, all’invito al libertinaggio, alla pubblicità sui medicinali di uso umano).
§ Il titolo VII, accorpa in unico contesto le modifiche alla legge di depenalizzazione n. 689/1981, introducendo una disposizione che precisa il concetto di reiterazione delle violazioni amministrative e una deroga al principio di specialità di cui all’art. 9 della legge 689. Inoltre, applicando le previsioni dell’art. 1 della legge delega, il decreto legislativo restituisce al giudice di pace la competenza in materia di opposizione alla ordinanza-ingiunzione di pagamento e all'ordinanza che dispone la sola confisca (artt. 22 e ss. della legge 689/1981);
§ il titolo VIII reca infine le norme relative alla disciplina transitoria che, a fronte dell’elevato numero di procedimenti pendenti per reati oggetto di depenalizzazione, assume particolare rilievo. La norma chiave del titolo è l’art. 100 che, allineandosi alla impostazione dettata dalla legge 689/1981 (artt.40 e 41), ha applicato in pieno il principio del favor rei stabilendo che le norme che sostituiscono le sanzioni penali con sanzioni amministrative possono essere applicate anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 507, facendo ovviamente salva l’intangibilità del giudicato.
Il legislatore è dunque periodicamente intervenuto per sfoltire il diritto penale speciale.
All’indomani della depenalizzazione, peraltro, lo stesso legislatore ha continuato ad introdurre nuove fattispecie penali.
Nella XV legislatura, la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, presieduta da Giuliano Pisapia, ha affermato, nella relazione del 19 novembre 2007, che una riforma del codice deve porsi l'obiettivo di un diritto penale “minimo, equo ed efficace”, in grado di invertire la tendenza “panpenalistica” che mostra, ogni giorno di più, il suo fallimento. L‘inserimento nel nostro ordinamento di sempre nuove fattispecie penali (soprattutto contravvenzionali) – che puniscono condotte per le quali sarebbe ben più efficace una immediata sanzione amministrativa – ha contribuito in modo rilevante a determinare l'attuale stato della nostra giustizia penale, unanimemente considerata al limite del collasso, con milioni di procedimenti penali pendenti e conseguente quotidiana violazione di quella “ragionevole durata del processo”, sancita dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.
Basti pensare che dal decreto legislativo n. 507 del 1999 al febbraio 2012 sono state introdotte nel nostro ordinamento non meno di 310nuove fattispecie penali. Come si evince dalla Tabella allegata alla documentazione, e relativa esclusivamente alle nuove fattispecie di reato[6], il legislatore ha introdotto nell’ordinamento:
- 171 nuove contravvenzioni;
- 139 nuovi delitti.
Tra le nuove fattispecie risaltano per numero e specialità quelle introdotte in attuazione di normativa europea.
In questo contesto, il Governo ritiene che «la progressiva dilatazione della sanzione penale e il conseguente allontanamento della pena dalla sua natura di extrema ratio hanno determinato la perdita della sua capacità general-preventiva anche perché il sistema giudiziario, nel suo complesso, non è in grado di accertare e di reprimere tutti i reati»[7], sostiene che la sanzione penale debba, invece, «operare solo quando non vi siano altri adeguati strumenti di tutela; essa non è giustificata se può essere sostituita con sanzioni amministrative aventi pari efficacia e, anzi, spesso dotate di maggiore effettività in quanto applicabili anche a soggetti diversi dalle persone fisiche, non suscettibili di sospensione condizionale e con tempi di prescrizione più lunghi»[8] e, conseguentemente propone una nuova depenalizzazione.
Si rammenta che, nel momento in cui si procede alla depenalizzazione di alcune fattispecie, occorre considerare la ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, quale risulta a seguito della riforma del titolo V del 2001. La Corte costituzionale ha infatti rilevato in più occasioni che la regolamentazione delle sanzioni (con l’eccezione delle sanzioni penali, che sono riservate alla legislazione statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.) spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina della materia, la cui inosservanza costituisce l'atto sanzionabile. La disciplina delle sanzioni amministrative non costituisce una materia a sé, ma rientra nell'àmbito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono (v. ad esempio sent. 384/2005, 246/2009).
La lettera a) del comma 1 dell’articolo 2 delega il Governo a trasformare in illeciti amministrativi tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, individuando materie per le quali fare eccezione.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 162 del codice penale in caso di contravvenzione punita con la sola ammenda, prima dell’apertura del dibattimento il contravventore è ammesso a pagare una somma pari al terzo del massimo della pena prevista (oltre le spese del procedimento), così estinguendo il reato per oblazione.
Limitando l’analisi ai reati contenuti nel codice penale, sono emersi 21 articoli che prevedono delitti puniti con la sola multa (cfr. Tabella allegata alla documentazione) e 12 articoli che contengono contravvenzioni punite con la sola ammenda (cfr. Tabella allegata alla documentazione). Peraltro, non tutte le disposizioni individuate potranno essere fatte oggetto di depenalizzazione, perché alcune ricadono nelle materie escluse (soprattutto nel titolo relativo ai delitti contro la personalità dello Stato).
Tra le fattispecie che dovranno essere depenalizzate spiccano alcune ipotesi di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), i reati di rissa (art. 588 c.p.) e minaccia (art. 612).
Estremamente ampio è invece il campo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria contenuti nella legislazione speciale, come si può verificare anche solo dall’elenco delle nuove fattispecie di reato introdotte dal 2000 ad oggi (v. Tabella allegata).
Per quanto riguarda le materie escluse dalla depenalizzazione, il disegno di legge prevede:
1) i delitti contro la personalità dello Stato
L’espressione consente una agevole individuazione delle ipotesi escluse in quanto rinvia letteralmente al libro II (Dei delitti in particolare), Titolo I (Dei delitti contro la personalità dello Stato) del codice penale. Si tratta degli articoli da 241 a 313 del codice.
Sono conseguentemente esclusi da depenalizzazione gli articoli 274, 290, 291, 292 e 299 del codice penale, nonostante alcune fattispecie siano punite con la sola pena pecuniaria.
2) i reati in materia edilizia e urbanistica
Nel 1977, nell’ambito del trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni, la materia urbanistica veniva definita come «la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente»[9]. Oggi l’esclusione di questa materia comporta l’impossibilità di depenalizzare le fattispecie penali punite con la sola pena pecuniaria, contenute nel decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
3) i reati in materia di ambiente, territorio e paesaggio
Sono dunque escluse dalla depenalizzazione le fattispecie penali contenute nel Codice del paesaggio (d. lgs. n. 42/2004[10]) e nel Codice dell’ambiente (d. lgs. n. 152/2006[11]). Peraltro, questo principio di delega dovrebbe escludere anche la depenalizzazione degli articoli 727-bis (Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette) e 734 (Distruzione o deturpamento di bellezze naturali) del codice penale.
4) i reati in materia di immigrazione
Il legislatore esclude dalla depenalizzazione le molteplici fattispecie penali contenute nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
5) i reati in materia di alimenti e bevande
L’esclusione di queste fattispecie dalla depenalizzazione è forse motivata dal fatto che già il decreto-legislativo n. 507 del 1999 era espressamente intervenuto operando una ampia depenalizzazione in questo settore[12].
Peraltro, da allora, il legislatore ha inserito fattispecie penali nel
- D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 193, Attuazione della direttiva 2004/41/CE relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore;
- D.Lgs. 21 marzo 2005, n. 70, Disposizioni sanzionatorie per le violazioni del regolamento (CE) n. 1829/2003 e del regolamento (CE) n. 1830/2003, relativi agli alimenti ed ai mangimi geneticamente modificati;
- D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 169, Attuazione della direttiva 2002/46/CE relativa agli integratori alimentari.
6) i reati in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro
In base al n. 6 sono dunque escluse dalla depenalizzazione tutte le fattispecie penali contenute nella legislazione a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Vengono in rilievo soprattutto le recenti numerose previsioni del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), che non potrà essere oggetto di depenalizzazione.
Il disegno di legge, peraltro, consente invece la depenalizzazione delle fattispecie contenute nella legislazione sul mercato del lavoro (d. lgs. n. 276 del 2003[13]).
7) i reati in materia di sicurezza pubblica
L’espressione sicurezza pubblica rimanda immediatamente al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 (TULPS)[14], che all’articolo 1 attribuisce all’autorità di pubblica sicurezza il compito di vigilare sul mantenimento dell'ordine pubblico, sulla sicurezza dei cittadini, sulla loro incolumità e sulla tutela della proprietà. Se appare dunque chiaro che le fattispecie penali contenute nel TULPS non potranno essere depenalizzate, più difficile è definire i confini dell’esclusione operata dal n. 7.
Ad esempio, il TULPS disciplina in parte anche il possesso di armi. La materia ha però una legislazione speciale molto più ampia, che era stata espressamente esclusa dalla depenalizzazione nel 1981 (esclusione dei reati in tema di armi, munizioni ed esplosivi, v. sopra). Non appare chiaro se – con l’impiego dell’ampia espressione “sicurezza pubblica” - il disegno di legge intenda confermare l’esclusione dalla depenalizzazione per questi reati.
Si evidenzia anche che recentemente il legislatore ha intitolato alla tutela della sicurezza pubblica numerose leggi (legge n. 94 del 2009[15]) e decreti-legge (d.l. n. 92 del 2008[16], d.l. n. 11 del 2009[17], d.l. n. 16 del 2005[18]) che, a loro volta, contenevano disposizioni nelle più variegate materie.
Come evidenziato anche dalla dottrina, si osserva che se «tradizionalmente si ravvisa il nucleo costitutivo della nozione di sicurezza pubblica nella finalità di conservazione dello Stato e di mantenimento dell'ordine interno, nell'ordinamento italiano la nozione di sicurezza pubblica è sempre rimasta indefinita, ed il ricorrente accostamento alla materia dell'ordine pubblico impone tuttora di individuare caratteri distintivi che ne permettano una autonoma definizione»[19].
Sulla materia della sicurezza pubblica è inoltre intervenuta la stessa Corte costituzionale a più riprese dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (v. ad esempio le sentt. 6/2004, 95/2005, 226/2010), circoscrivendone l’ambito anche ai fini del corretto riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.
Conseguentemente, si rileva l’opportunità di definire con maggior precisione le materie che il legislatore delegante intende escludere dalla depenalizzazione.
Nella relazione illustrativa si afferma inoltre la volontà di escludere dalla depenalizzazione anche i reati previsti dalla normativa in tema di circolazione stradale. Di tale volontà non c’è traccia espressa dell’articolato (a meno che non si ritenga la circolazione stradale ricompressa nel concetto di sicurezza pubblica).
Peraltro, il Codice della strada (d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285) contiene una sola fattispecie “depenalizzabile” in base alla lettera a): si tratta dell’art. 116 che punisce con la sola pena pecuniaria (ammenda) chiunque guida autoveicoli o motoveicoli senza aver conseguito la patente di guida.
La lettera b) del comma 1 dell’articolo 2 del disegno di legge individua alcune contravvenzioni, attualmente punite con la pena detentiva alternativa alla pena pecuniaria, e ne dispone la trasformazione in illeciti amministrativi.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 162-bis del codice penale in caso di contravvenzione punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, prima dell’apertura del dibattimento il contravventore non recidivo né delinquente abituale o per tendenza, può essere ammesso a pagare una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda prevista (oltre le spese del procedimento), così estinguendo il reato per oblazione. Il giudice può respingere la domanda di oblazione avuto riguardo alla gravità del fatto.
Le contravvenzioni da depenalizzare sono le seguenti, espressamente individuate dal disegno di legge delega:
1) le seguenti contravvenzioni previste dal codice penale:
- l’articolo 652 c.p., Rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto, punisce con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309 chiunque «in occasione di un tumulto o di un pubblico infortunio o di un comune pericolo ovvero nella flagranza di un reato rifiuta, senza giusto motivo, di prestare il proprio aiuto o la propria opera, ovvero di dare le informazioni o le indicazioni che gli siano richieste da un pubblico ufficiale o da una persona incaricata di un pubblico servizio, nell'esercizio delle funzioni o del servizio». Se il colpevole dà informazioni o indicazioni mendaci, è punito con l'arresto da uno a sei mesi ovvero con l'ammenda da euro 30 a euro 619;
- l’articolo 659 c.p., Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, punisce (primo comma) con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309 chiunque «mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici». Il secondo comma, che punisce con la sola ammenda da euro 103 a euro 516 chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'autorità, è depenalizzato dalla lettera a);
- l’articolo 661 c.p., Abuso della credulità popolare, punisce con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 1.032 chiunque «pubblicamente, cerca con qualsiasi impostura, anche gratuitamente, di abusare della credulità popolare», purché dal fatto possa derivare un turbamento dell'ordine pubblico;
- l’articolo 668 c.p., Rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive, punisce con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 309 chiunque «recita in pubblico drammi o altre opere, ovvero dà in pubblico produzioni teatrali di qualunque genere, senza averli prima comunicati all'autorità», ovvero «fa rappresentare in pubblico pellicole cinematografiche, non sottoposte prima alla revisione dell'autorità». Il terzo comma aggiunge che se il fatto è commesso contro il divieto dell'autorità, la pena pecuniaria e la pena detentiva sono applicate congiuntamente e, conseguentemente, non opera la prevista depenalizzazione;
- l’articolo 726 c.p., Atti contrari alla pubblica decenza, punisce con l’ammenda da euro 258 a euro 2.582 chiunque «in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza». La contravvenzione è dunque inclusa nelle ipotesi di depenalizzazione di cui alla precedente lettera a).
Il disegno di legge ha verosimilmente inserito questa contravvenzione nelle depenalizzazioni della lettera b) perché il dato testuale dell’art. 726 c.p. non è stato modificato e prevede ancora la pena dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da euro 10 a euro 206.
In realtà, l’art. 4 del decreto legislativo n. 274 del 2000[20] ha attribuito questa contravvenzione alla competenza del giudice di pace e il successivo articolo 52 dello stesso provvedimento ha previsto che per i reati di competenza del giudice di pace puniti con la pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella della multa o dell'ammenda, si applichi la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 258 a euro 2.582 (se la pena detentiva non supera nel massimo i sei mesi).
2) la contravvenzione prevista dall’art. 11, primo comma, della legge n. 234 del 1931
La disposizione richiamata punisce con l'arresto fino a due anni o con l’ammenda da lire 40.000 a 400.000 le violazioni della legge 8 gennaio 1931, n. 234, che detta Norme per l'impianto e l'uso di apparecchi radioelettrici privati e per il rilascio delle licenze di costruzione, vendita e montaggio di materiali radioelettrici.
3) la contravvenzione prevista dall’art. 171-quater, comma 1, della legge sul diritto d’autore
L’articolo 171-quater della legge n. 633 del 1941[21] punisce con l'arresto sino ad un anno o con l'ammenda da euro 516 a euro 5.164 chiunque abusivamente ed a fini di lucro: a) concede in noleggio o comunque concede in uso a qualunque titolo, originali, copie o supporti lecitamente ottenuti di opere tutelate dal diritto di autore; b) esegue la fissazione su supporto audio, video o audiovideo delle prestazioni artistiche di attori, i cantanti, i musicisti, i ballerini e le altre persone che rappresentano, cantano, recitano, declamano o eseguono in qualunque modo opere dell'ingegno, siano esse tutelate o di dominio pubblico.
4) la contravvenzione prevista dall’art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale n. 506 del 1945
Si fa qui riferimento al D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1945, n. 506, che reca Disposizioni circa la denunzia dei beni che sono stati oggetto di confische, sequestri o altri atti di disposizione adottati sotto l'impero del sedicente governo repubblicano. In particolare, l’articolo 3 punisce con l'arresto non inferiore nel minimo a sei mesi o con l'ammenda non inferiore a lire 2.000.000 chiunque omette di denunciare la detenzione di beni mobili o immobili che siano stati oggetto di confisca o sequestro disposti da qualsiasi organo amministrativo o politico sotto l'impero del sedicente governo della Repubblica sociale italiana. Ove l'omissione risulti colposa la pena è dell'arresto non inferiore a tre mesi o dell'ammenda non inferiore a lire 1.000.000.
5) la contravvenzione prevista per coloro che, legalmente richiesti dall'Ispettorato del lavoro di fornire notizie, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete
Si tratta della contravvenzione prevista dall’art. 4, settimo comma della legge 22 luglio 1961, n. 628 (Modifiche all'ordinamento del Ministero del lavoro e della previdenza sociale). La violazione è punita con l'arresto fino a due mesi o con l'ammenda fino a lire un milione.
6) la contravvenzione prevista dall’articolo 15, secondo comma, della legge n. 1329 del 1965
La legge 28 novembre 1965, n. 1329, recante Provvedimenti per l'acquisto di nuove macchine utensili, punisce all’articolo 15, secondo comma, chiunque ometta di far ripristinare il contrassegno alterato, cancellato, o reso irriconoscibile da altri, apposto su macchina di cui abbia il possesso o la detenzione, ovvero ometta di comunicare al cancelliere del tribunale indicato nel contrassegno, l'alterazione, la cancellazione, o la intervenuta irriconoscibilità del contrassegno. La pena letteralmente prevista dalla disposizione è l'ammenda da lire 150.000 a lire 600.000 o l'arresto fino a tre mesi.
Peraltro, avendo l’articolo 4 del d.lgs n. 274/2000 attribuito la competenza su questa contravvenzione al giudice di pace, la pena è ora dell’ammenda da euro 258 a euro 2.582, ai sensi di quanto disposto dall'articolo 52, comma 2, lettera a), dello stesso decreto legislativo.
Conseguentemente, questa disposizione risulta già oggetto di depenalizzazione in base alla precedente lettera a).
7) la contravvenzione prevista per chiunque partecipi a concorsi, giuochi o scommesse clandestine
L’articolo 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) punisce l’organizzazione di scommesse o concorsi pronostici abusivi e la partecipazione agli stessi; in particolare, il comma 3 punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l'ammenda da euro 51 a euro 516 chiunque partecipa a concorsi, giuochi, scommesse gestiti abusivamente, fuori dei casi di concorso in uno dei reati più gravi, legati all’organizzazione del gioco clandestino.
8) la disposizione prevista dall’art. 16, comma 9, della legge sull’usura
Il disegno di legge del Governo non tiene conto della recente legge n. 3 del 2012[22] che ha novellato l’art. 16, comma 9, della legge sull’usura (legge n. 108 del 1996) prevedendo la reclusione da 2 a 4 anni per chi - nell'esercizio di attività bancaria, di intermediazione finanziaria o di mediazione creditizia - indirizza una persona, per operazioni bancarie o finanziarie, a un soggetto non abilitato all'esercizio dell'attività bancaria o finanziaria.
Si tratta di un delitto sanzionato con la sola pena detentiva che, pertanto, non pare possa essere inserito nelle ipotesi di depenalizzazione.
Il Governo intendeva evidentemente rivolgere la depenalizzazione verso la previgente disposizione dell’art. 16, comma 9, della legge n. 108/96. Fino al 29 febbraio 2012, infatti, la disposizione puniva con l'arresto fino a due anni ovvero con l'ammenda da euro 2.065 a euro 10.329 la condotta ora configurata come delitto.
9) la contravvenzione prevista dalla c.d. “Riforma Biagi” per colui che esige compensi dal lavoratore per avviarlo al lavoro
L’articolo 18, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30) attualmente punisce con la pena alternativa dell'arresto non superiore ad un anno o dell'ammenda da € 2.500 a € 6.000 «chi esiga o comunque percepisca compensi da parte del lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro oggetto di somministrazione». Peraltro, in aggiunta alla sanzione penale è disposta la cancellazione dall'albo.
10) la contravvenzione prevista per la promozione o realizzazione di forme di vendita piramidali e di giochi o catene
La legge 17 agosto 2005, n. 173 (Disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali) vieta la promozione e la realizzazione di attività e di strutture di vendita nelle quali l'incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi soggetti; vieta, altresì, la promozione o l'organizzazione di tutte quelle operazioni, quali giochi, piani di sviluppo, «catene di Sant'Antonio», che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto a reclutare si trasferisce all'infinito previo il pagamento di un corrispettivo. La violazione di queste disposizioni è attualmente punita dall’articolo 7, comma 1, con l'arresto da sei mesi ad un anno o con l'ammenda da 100.000 euro a 600.000 euro.
11) le contravvenzioni previste dal Codice delle pari opportunità tra uomo e donna
Il decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, recante Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della L. 28 novembre 2005, n. 246 prevede le seguenti fattispecie penali:
Articolo |
Condotta |
Sanzione |
37, c. 5 |
Inottemperanza alla sentenza che accerta le discriminazioni |
ammenda fino a 50.000 euro o arresto fino a sei mesi; pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento |
38, c. 4 |
Inottemperanza al decreto che impone la cessazione del comportamento discriminatorio illegittimo e la rimozione degli effetti |
ammenda fino a 50.000 euro o l'arresto fino a sei mesi |
41, c. 2 |
L'inosservanza delle disposizioni sui divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella retribuzione, nella progressione di carriera, e nell’accesso alle prestazioni previdenziali |
ammenda da 250 euro a 1.500 euro |
55-quinquies, c. 9 |
Inottemperanza o elusione di provvedimenti, diversi dalla condanna al risarcimento del danno, resi dal giudice nelle controversie in materia di accesso a beni e servizi e loro fornitura |
ammenda fino a 50.000 euro o arresto fino a tre anni |
Il disegno di legge prevede alla lettera b) la depenalizzazione delle contravvenzioni punite alternativamente con pena detentiva e pena pecuniaria; la precedente lettera a) disponeva la depenalizzazione della fattispecie punita con la sola ammenda. Conseguentemente il Codice risulterà completamente depenalizzato.
Il disegno di legge prevede – tanto per le ipotesi della lettera a) quanto per quelle della lettera b) – l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 15.000 euro.
Si ricorda che le sanzioni amministrative non vengono iscritte nel casellario giudiziario e non incidono sul godimento dei diritti politici; possono colpire anche le persone giuridiche e, quando hanno carattere pecuniario, l'obbligo del loro pagamento si trasmette agli eredi.
La sanzione amministrativa tipica è quella pecuniaria, che consiste nel pagamento di una somma di denaro e costituisce il modello base di sanzione, prevista e disciplinata dalla legge fondamentale in materia (Legge 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale). Tale legge definisce la sanzione amministrativa pecuniaria stabilendo che consiste “nel pagamento di una somma di denaro non inferiore a 6 euro e non superiore a 10.329 euro”, tranne che per le sanzioni proporzionali, che non hanno limite massimo; nel determinarne l'ammontare, l'autorità amministrativa deve valutare la gravità della violazione, l'attività svolta dall'autore per eliminare o attenuarne le conseguenze, le sue condizioni economiche e la sua personalità (artt. 10 e 11)[23].
Appare opportuno valutare l’eventualità di un adeguamento del limite massimo della sanzione amministrativa pecuniaria previsto dalla legge del 1981, immutato dopo più di 30 anni.
La lettera c) prevede esclusivamente che, nel sanzionare le attuali contravvenzioni punite alternativamente con pena detentiva e pecuniaria, il Governo possa eventualmente aggiungere sanzioni amministrative accessorie, prevalentemente interdittive («sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell’amministrazione»).
Per l’applicabilità delle sanzioni accessorie, i principi e criteri direttivi non distinguono quindi le fattispecie attualmente configurate come delitti (anche se puniti con la sola multa) dalle contravvenzioni. Sembra dunque prevalere la considerazione per l’attuale previsione del carattere detentivo della pena (arresto) sull’analisi dell’offensività dell’illecito.
In base alla lettera d) il Governo dovrà commisurare le sanzioni:
- alla gravità della violazione;
- alla reiterazione dell'illecito;
- all'opera svolta per eliminare o per attenuare le sue conseguenze;
- alla personalità dell'agente;
- alle condizioni economiche dell’agente.
Appare opportuno che sia chiarito se i criteri per commisurare le sanzioni debbano indirizzare il Governo nell’esercizio della delega ovvero se tali criteri siano essenzialmente rivolti all’autorità amministrativa chiamata ad irrogare le sanzioni.
La lettera e) invita il Governo a individuare l’autorità competente a irrogare le sanzioni amministrative, rispettando i criteri di riparto indicati nella legge n. 689 del 1981.
Si ricorda che l'applicazione della sanzione amministrativa in base alla legge n. 689 del 1981 avviene secondo il seguente schema:
§ accertamento, contestazione-notifica al trasgressore;
§ pagamento in misura ridotta o inoltro di memoria difensiva all’autorità amministrativa;
§ archiviazione o emanazione di ordinanza ingiunzione di pagamento da parte dell’autorità amministrativa;
§ eventuale opposizione all’ordinanza ingiunzione davanti all’autorità giudiziaria (giudice di pace o tribunale);
§ accoglimento dell’opposizione, anche parziale o rigetto (sentenza ricorribile per cassazione);
§ eventuale esecuzione forzata per la riscossione delle somme.
Dal punto di vista procedimentale, occorre innanzitutto che essa sia accertata dagli organi di controllo competenti o dalla polizia giudiziaria (art. 13). L'attività di accertamento può consistere nell'assunzione di informazioni, nell'ispezione della dimora privata, in rilievi segnaletici, fotografici e nel sequestro cautelare della cosa che è stata utilizzata per commettere l'illecito o che ne costituisce il prezzo o il profitto (come avviene in caso di guida di autoveicolo non coperto da assicurazione obbligatoria o senza documento di circolazione). In particolare, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, oltre che esercitare i poteri indicati, possono procedere, quando non sia possibile acquisire altrimenti gli elementi di prova, a perquisizioni in luoghi diversi dalla privata dimora, previa autorizzazione motivata del competente tribunale territoriale. È fatto salvo l'esercizio degli specifici poteri di accertamento previsti dalle leggi vigenti.
La violazione dev'essere immediatamente contestata o comunque notificata al trasgressore entro 90 giorni (art. 14); entro i successivi 60 giorni l'autore può conciliare pagando una somma ridotta pari alla terza parte del massimo previsto o pari al doppio del minimo (cd. oblazione o pagamento in misura ridotta, art. 16).
Se non è effettuato il pagamento in misura ridotta, il funzionario o l'agente che ha accertato la violazione deve presentare rapporto, con la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni, all'ufficio periferico cui sono demandati attribuzioni e compiti del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in mancanza, al prefetto (art. 17). Nelle materie di competenza delle regioni e negli altri casi, per le funzioni amministrative ad esse delegate, il rapporto è presentato all'ufficio regionale competente. Per le violazioni dei regolamenti provinciali e comunali il rapporto è presentato, rispettivamente, al presidente della giunta provinciale o al sindaco.
L'ufficio territorialmente competente è quello del luogo in cui è stata commessa la violazione.
Entro il termine di trenta giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione l’interessato può presentare scritti difensivi all'autorità competente; quest'ultima, dopo aver esaminato i documenti e le eventuali memorie presentate, se ritiene sussistere la violazione contestata determina l'ammontare della sanzione con ordinanza motivata e ne ingiunge il pagamento (cd. ordinanza-ingiunzione, art. 18).
Entro 30 giorni dalla sua notificazione l'interessato può presentare opposizione all’ordinanza ingiunzione (che, salvo eccezioni, non sospende il pagamento), inoltrando ricorso al giudice di pace (art. 22, 22-bis); fatte salve le diverse competenze stabilite da disposizioni di legge, l’opposizione si propone, invece, davanti al tribunale ratione materiae (materia di lavoro, edilizia, urbanistica ecc.) o per motivi di valore o di natura della sanzione (sanzione superiore nel massimo a 15.493 euro o applicazione di sanzione non pecuniaria, sola o congiunta a quest’ultima, fatta eccezione per violazioni previste da specifiche leggi speciali): l'esecuzione dell'ingiunzione non viene sospesa e il giudizio che con esso si instaura si può concludere o con un'ordinanza di convalida del provvedimento o con sentenza di annullamento o modifica del provvedimento; contro tale sentenza è ammesso solo ricorso per cassazione (art. 23). Il giudice ha piena facoltà sull'atto, potendo o annullarlo o modificarlo, sia per vizi di legittimità che di merito.
In caso di condizioni economiche disagiate del trasgressore, l’autorità che ha applicato la sanzione può concedere la rateazione del pagamento (art. 26)
Decorso il termine fissato dall’ordinanza ingiunzione, in assenza del pagamento, l’autorità che ha emesso il provvedimento procede alla riscossione delle somme dovute con esecuzione forzata in base alle norme previste per l’esazione delle imposte dirette (art. 27). Il termine di prescrizione delle sanzioni amministrative pecuniarie è di 5 anni dal giorno della commessa violazione (art. 28).
La lettera f) stabilisce che i decreti legislativi prevedano – a fronte dell’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria – la possibilità di definire il procedimento mediante il pagamento – anche rateizzato – di un importo pari alla metà della sanzione irrogata.
Si ricorda che l’articolo 16 della legge n. 689 del 1981 attualmente consente il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla somma minore tra:
- la terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa;
- il doppio del minimo della sanzione edittale oltre alle spese del procedimento, entro 60 giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione.
Quanto alla rateizzazione, l’articolo 26 della legge n. 689 prevede che l'autorità giudiziaria o amministrativa che ha applicato la sanzione pecuniaria possa disporre, su richiesta dell'interessato che si trovi in condizioni economiche disagiate, che la sanzione medesima venga pagata in rate mensili da tre a trenta; ciascuna rata non può essere inferiore a euro 15. In ogni momento il debito può essere estinto mediante un unico pagamento. Decorso inutilmente, anche per una sola rata, il termine fissato dall'autorità giudiziaria o amministrativa, l'obbligato è tenuto al pagamento del residuo ammontare della sanzione in un'unica soluzione.
Il disegno di legge delega non contiene alcuna previsione in ordine all’esigenza che il legislatore delegato preveda una apposita disciplina transitoria da accompagnare alla depenalizzazione.
Si ricorda peraltro che, in assenza di una disciplina che disponga l’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative previste per gli illeciti depenalizzati, la giurisprudenza della Cassazione penale esclude che i fatti commessi quando la fattispecie costituiva reato possano essere sanzionati. Non è possibile sanzionarli né in via penale (essendosi verificata una abrogatio criminis ai sensi dell’art. 25 della Costituzione e dell’art. 2, comma 2, del codice penale), né quale illecito amministrativo, in quanto l’articolo 1 della legge n. 689 del 1981 stabilisce che «nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione» (comma 1) e che «le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e nei tempi in esse considerati» (comma 2).
La Cassazione penale ha costantemente affermato[24] che, nel caso in cui le leggi di depenalizzazione non contemplino norme transitorie, il giudice penale deve dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, senza tuttavia rimettere gli atti all’autorità amministrativa competente all’applicazione della sanzione pecuniaria.
Diverso è l’orientamento della Cassazione civile che ritiene le disposizioni transitorie previste dalla legge n. 689 del 1981 – in base alla quale le disposizioni in materia di depenalizzazione contenute nella legge "si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all'entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito" (art. 40) – siano suscettibili di interpretazione analogica, essendo dunque consentita l'applicazione, pur in mancanza di una norma espressa, delle nuove sanzioni amministrative pecuniarie agli illeciti depenalizzati commessi prima della legge di depenalizzazione[25].
Art. 3
(Sospensione del procedimento con messa
alla prova)
Come accennato, una delle deleghe al Governo previste dall’articolo 1 del disegno di legge riguarda l’introduzione nel processo penale ordinario della sospensione del processo con messa alla prova.
Scopo della nuova disciplina – ispirata alla nota probation di origine anglosassone – è quello di estendere il citato istituto, tipico del processo minorile, anche al processo penale per adulti in relazione a reati di minor gravità. Come recita la relazione al d.d.l., l’istituto “offre ai condannati per reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo e, al contempo, svolge una funzione deflattiva dei procedimenti penali in quanto è previsto che l'esito positivo della messa alla prova estingua il reato con sentenza pronunciata dal giudice”.
La disciplina del processo penale minorile (DPR 448/1988)prevede (art. 28) che il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all'esito della prova. Il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione (comma 1). Con l'ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato (comma 2). Contro l'ordinanza possono ricorrere per Cassazione il pubblico ministero, l'imputato e il suo difensore (comma 3).
Con sentenza n. 125/1995, la Corte costituzionale ha invece dichiarato l'illegittimità dell'art. 28, comma 4, nella parte in cui prevede che la sospensione non può essere disposta se l'imputato chiede il giudizio abbreviato o il giudizio immediato) La sospensione è revocata in caso di ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte (comma 5).
Ai sensi del successivo art. 29 del DPR, decorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo. All’esito negativo della prova, il giudice assume, ex artt. 32 e 33, gli opportuni provvedimenti per la prosecuzione del processo.
L’art. 27 del D.L.vo n. 272/1989 (Norme di attuazione del processo minorile) detta la disciplina delle modalità di articolazione dell’intervento dei servizi sociali minorili sia per l’elaborazione del progetto individuale della messa alla prova che dei controlli periodici sul minore e i relativi obblighi di informazione al giudice sull’andamento della prova.
L’articolo 3 del disegno di legge detta i principi e criteri direttivi per l’attuazione della delega per l’introduzione nel processo penale per adulti della sospensione del procedimento con messa alla prova..
Si tratta, come nel processo minorile, di una probation giudiziale in cui, cioè, la messa alla prova non presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna. Ciononostante, anche qui, pur in assenza di una espressa previsione, sembra evidente che presupposto per l’applicazione della misura sia il previo accertamento – pur provvisorio e sommario - della sussistenza del reato e della responsabilità dell’imputato.
Mentre nel processo minorile, la messa alla prova è disposta dal giudice, sentite le parti, qui l’applicazione dell’istituto è richiesta dall’imputato. Il giudice può accoglierla, in presenza dei presupposti (non è richiesto il parere del PM), sempre che pervenga nel termine che l’art. 3 indica nella dichiarazione di apertura del dibattimento.
Tale atto consiste nella espressa dichiarazione in tal senso da parte del giudice (art. 492 c.p.p.) che si colloca temporalmente subito dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti e la decisione su eventuali questioni preliminari.
Si rileva la mancata previsione di una possibile impugnativa da parte degli interessati della decisione del giudice (ordinanza) che ordina la sospensione del processo e la messa alla prova. Nel processo minorile è invece ammesso, in tali casi, il ricorso per cassazione del PM, dell’imputato o del suo difensore.
La sospensione del processo con messa alla prova sarà possibile solo in procedimenti per reati contravvenzionali o per delitti puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva (sola o congiunta a quella pecuniaria) non superiore a 4 anni. Come accennato, nel processo minorile la messa alla prova è sempre ammessa, anche per reati puniti con l’ergastolo.
La messa alla prova consiste nel lavoro di pubblica utilità ovvero una prestazione non retribuita in favore della collettività (di durata minima di 10 giorni) da svolgere presso lo Stato, enti locali territoriali (regione, province, comuni) o altri enti o associazioni di volontariato. Pur se l’impegno lavorativo non deve pregiudicare le esigenze di studio, lavoro famiglia e salute dell’imputato, possono, dal giudice, essere imposte ulteriori prescrizioni di fare o non fare (sempre modificabili dal giudice nel corso della prova) relative ai rapporti col servizio sociale o sanitario, all’eliminazione delle conseguenze del danno, a misure limitative delle libertà personali (di dimora, di movimento, di frequentare determinati locali).
Il lavoro di pubblica utilità è attualmente una delle pene irrogabili dal giudice di pace in sede penale. L’art. 52 del D.Lgs n. 274 del 2000 ne prevede l’applicazione (per un periodo da 1 mese a 6 mesi) per reati puniti con sanzioni diverse dalla sola multa o dalla sola ammenda, quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto congiunta con quella della multa o dell'ammenda (in tali casi, le sanzioni alternative irrogabili sono la pena pecuniaria da 774 a 2.582 euro o la pena della permanenza domiciliare da 20 a 45 giorni). Lo stesso art. 52, con l’esclusione dei caso di attenuanti ritenute prevalenti o equivalenti, prevede l’applicazione del lavoro di pubblica utilità (o della permanenza domiciliare) nei casi di recidiva reiterata infraquinquennale. Tale ultima disposizione non si applica quando il reato è punito con la sola pena pecuniaria nonché quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella della multa o dell'ammenda. Ai sensi dell’art. 54, il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell'imputato. Il lavoro non può essere inferiore a 10 giorni né superiore a 6 mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. L'attività viene svolta nella provincia di residenza del condannato e comporta la prestazione di non più di 6 ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle 6 ore settimanali. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore. Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro. le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono state determinate con DM Giustizia 26 marzo 2001.
Analoga sanzione è inoltre prevista dall’art. 73, comma 5 bis, TU stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) e consiste, anche in tal caso, nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. La sanzione, su richiesta dell'imputato e sentito il pubblico ministero, è applicata dal giudice con la sentenza di condanna o di patteggiamento per i reati previsti dal comma 5 dell’art. 73 (produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità) in alternativa alla pena detentiva e alla pena pecuniaria, con le modalità previste dall’art. 54 del D.Lgs n. 274/2000. La prestazione di lavoro (che può sostituire la pena per non più di due volte) ai sensi del citato DM Giustizia 26 marzo 2001, viene svolta a favore di persone affette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; nel settore della protezione civile, nella tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. Con la sentenza il giudice incarica l'Ufficio locale di esecuzione penale esterna di verificare l'effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L'Ufficio riferisce periodicamente al giudice, anche ai fini dell’eventuale revoca della misura, revoca avverso cui è ammesso ricorso per cassazione (privo di effetto sospensivo). In deroga a quanto disposto dall'articolo 54 del D.Lgs n. 274, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata
Si osserva, in particolare, come non sia fissato un limite temporale massimo della prova. Nel processo minorile, si prevede un limite massimo di un anno di sospensione del processo ovvero di tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni.
Inoltre, nulla è indicato in relazione agli effetti sulla prescrizione del periodo di sospensione del processo (nel processo minorile, il periodo di prova è scomputato dal calcolo della prescrizione).
La messa alla prova non può essere concessa per più di 2 volte ovvero per più diuna volta in caso di reiterazione di reato della stessa indole.
Il giudice può revocare la misura: 1) per gravi e ripetute trasgressioni delle prescrizioni accessorie al lavoro svolto; 2) per rifiuto della prestazione di lavoro; 3) per commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole.
Al termine della messa alla prova:
- se il comportamento dell’imputato è valutato positivamente, il giudice dichiara l’estinzione del reato;
- se la prova è valutata negativamente, il processo riprende il suo corso; si prevede, in tali ipotesi, che ai fini della (eventuale) determinazione della pena, 5 giorni di lavoro di pubblica utilità siano equiparati a un giorno di pena detentiva ovvero a 250 euro di pena pecuniaria.
L’introduzione della messa alla prova nel processo penale ordinario era stata prevista anche nei lavori della cd. Commissione Pisapia. Istituita il 30 luglio 2006 (XV leg) con decreto del Ministro della Giustizia Mastella, la Commissione aveva avuto l'incarico di predisporre uno schema di disegno di legge delega di riforma del codice penale.
La Relazione finale della Commissione Pisapia (19 novembre 2007) così recitava: “La Commissione ha ritenuto di estendere al processo per adulti, in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva e per i reati per cui è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, l'istituto della “messa alla prova”, che, nel processo minorile ha dato risultati positivi in una percentuale, secondo stime del Ministero, attorno all'85%. Tale istituto ….. oltre a consentire di pervenire all'estinzione del reato (laddove la rinnovata sospensione condizionale della pena potrà solo estinguere quest'ultima), avrà sicuramente effetti positivi anche in termini di deflazione del carico giudiziario. Poiché tale istituto si configura come una probation giudiziale con sospensione del procedimento, la sua concessione non poteva non essere ancorata alla tipologia di pena e/o a parametri edittali: in particolare la messa alla prova sarà possibile solo in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva o con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni. In caso di esito positivo della prova, il reato si estingue.
Si è previsto, onde evitare la eccessiva cumulabilità dei benefici, che - se la sospensione del processo con messa alla prova sia stata concessa per reato punito con pena detentiva - una eventuale successiva sospensione condizionale della pena non potrà mai essere concessa più di una volta. La Commissione ha ritenuto che la disciplina concreta dell'Istituto, per il suo carattere fondamentalmente processuale, dovrà trovare spazio nel codice di rito”.
La messa alla prova (introdotta dall’art. 44 dell’articolato della Commissione) è, inoltre, stata prevista dalla stessa Commissione anche in possibile abbinamento alla sospensione condizionale della pena, anch’essa oggetto di intervento nel progetto di legge delega. L’art. 48 dell’articolato (Sospensione condizionale della pena con prescrizioni e misure di controllo) aveva, infatti previsto che la sospensione condizionale potesse, o dovesse, a secondo dei casi, accompagnarsi alla messa alla prova; la norma stabiliva, infatti, che il giudice, nel sospendere l'esecuzione della pena, potesse ordinare la messa alla prova del condannato per il periodo corrispondente, per favorirne il reinserimento sociale e che in caso di seconda concessione la messa alla prova fosse obbligatoria. In caso di messa alla prova: a) il giudice, sentite le parti, determina prescrizioni per il reinserimento sociale che non siano lesive della dignità e dei diritti fondamentali del condannato; che, per le prescrizioni che prevedano obblighi di fare, sia obbligatorio il consenso del condannato e che, in caso di rifiuto, il giudice, ove comunque la conceda, possa subordinare la sospensione ad altre prescrizioni; b) il giudice possa revocare o modificare le prescrizioni; c) il giudice dia, quando necessario, disposizioni per interventi di aiuto, di sostegno e di controllo del condannato; d) la prova decorra dalla condanna, salvo che l'imputato richieda un inizio anticipato; e) il giudice possa dichiarare l'estinzione anticipata del periodo di prova quando ritenga raggiunto il reinserimento sociale dello stesso.
La messa alla prova era inoltre prevista da un disegno di legge del Governo della XV legislatura, in materia di accelerazione del processo penale (A.C. 2664 Disposizioni per l'accelerazione e la razionalizzazione del processo penale, nonchè in materia di prescrizione dei reati, recidiva e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie). Presentato alla Camera dei deputati, l’esame del d.d.l. non ha mai preso avvio.
Il d.d.l. 2664 ancorava l’applicazione della messa alla prova alla richiesta dell'imputato inserendo l'articolo 168-bis nel codice penale (articolo 26), sistematicamente, dopo la sospensione condizionale della pena, fra le cause estintive del reato.
La sua concessione, in assenza di una pena concretamente irrogata dal giudice, era prevista in procedimenti per reati per i quali è comminata in astratto la sola pena pecuniaria (multa o ammenda) ovvero una pena edittale detentiva (reclusione o arresto) non superiore ai due anni, sola o congiunta con pena pecuniaria, onde confinare l'istituto entro un perimetro di reati di non grave allarme sociale e in grado di assorbire in gran parte l'area contravvenzionale. In caso di pene alternative si farà riferimento solo alla pena edittale massima detentiva. Vengono, però, espressamente esclusi dall'applicabilità dell'istituto i reati edilizi testo unico di cui al DPR 380/2001 e quelli finanziaria di cui all’art. 173-bis del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria e dagli articoli 2621 e 2624 del codice civile (reati di false comunicazioni sociali).
L'articolo 27 del disegno di legge prevedeva poi la disciplina processuale dell'istituto, con l'introduzione nel codice di rito degli articoli 420-sexies, 420-septies e 420-octies; in particolare, la concessione del beneficio era subordinata a specifica richiesta da parte dell'imputato, da formulare prima dell'inizio della discussione, nonché alla presentazione da parte del medesimo di un programma di reinserimento sociale concordato con il servizio sociale per adulti, il quale prevedesse:
a) le modalità di coinvolgimento dell'imputato, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario;
b) le prescrizioni comportamentali e gli impegni specifici che l'imputato assume al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato;
c) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la conciliazione dell'imputato con la persona offesa.
Il beneficio era concesso quando il giudice ritenesse che l'imputato si sarebbe astenuto dal commettere ulteriori reati.
Il periodo di sospensione era fissato, nel massimo, in due anni per le pene detentive, e in un anno per quelle pecuniarie.
Si prevedeva che il giudice, nel mettere alla prova il condannato, potesse impartire ulteriori obblighi e prescrizioni comportamentali e, ai fini della concessione del beneficio ovvero al fine di determinare i contenuti del programma, potesse acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le informazioni relative alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato. L'esito positivo della prova estingueva il reato.
Il nuovo articolo 420-octies prevede che, in caso di esito negativo della prova, di grave violazione delle prescrizioni e degli obblighi imposti, nonché in caso di commissione di reati durante il periodo di prova, l'ordinanza di sospensione venisse revocata e il processo riprendesse il suo corso. Il periodo di prova veniva, in tal caso, scomputato dalla pena inflitta, sulla base di un'apposita tabella di conversione (dieci giorni di prova equivalgono a un giorno di pena detentiva o a 150 euro di pena pecuniaria).
Si prevedeva, altresì, la ricorribilità per cassazione da parte del pubblico ministero e dell'imputato contro il provvedimento che decideva sull'istanza di sospensione, nonché la previsione della sospensione del corso della prescrizione per tutta la durata della prova.
L’art. 28 del disegno di legge introduceva poi l’art. 191-bis delle norme di attuazione del codice (articolo 191-bis), che precisava che le funzioni di servizio sociale, in caso di messa alla prova, dovevano essere svolte dagli uffici locali dell'esecuzione penale esterna del Ministero della giustizia. Erano poi disciplinate le modalità di predisposizione del programma di reinserimento sociale, gli obblighi di informazione periodica all'autorità giudiziaria procedente, la relazione finale sulla prova.
Art. 4
(Sospensione del processo per assenza
dell'imputato)
L’articolo 4 detta i principi e criteri direttivi della delega (prevista dall’art. 1) per la disciplina della sospensione del procedimento penale per gli imputati irreperibili.
Come noto, il diritto a presenziare al procedimento penale a proprio carico è consustanziale al diritto di difesa, presupposto indefettibile del giusto processo garantito dall’art. 111 della Costituzione[26].
Come rilevato dalla stessa relazione del Governo al d.d.l., l’intervento appare necessario anche in riferimento alle numerose decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo relative al diritto dell’imputato, ex art. 6 della Convenzione (ratificata con la L. n. 848/1955), ad essere presente al proprio processo e che, censurando l’Italia per la violazione del diritto anzidetto, impongono al nostro Paese un obbligo di conformazione della disciplina nazionale (ex art. 46 CEDU).
L’art. 6, comma 3, lett. a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede il diritto dell’accusato in un processo penale di essere informato nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico.
La giurisprudenza della Corte dei diritti di Strasburgo ha ravvisato varie volte una violazione di questo parametro a carico dell’Italia.
Una statuizione importante a questo proposito si trova nella sentenza Sejdovic c. Italia (Grande Chambre del 1° marzo 2006) secondo la quale l’obbligo di garantire all’accusato il diritto ad essere presente in udienza è uno degli elementi essenziali dell’art. 6 CEDU; ne consegue che il rifiuto di riaprire un processo che si è svolto in contumacia, in assenza di ogni indicazione che l’accusato abbia rinunciato al suo diritto a comparire, è da considerarsi come un flagrante diniego di giustizia, manifestamente contrario ai principi che ispirano il citato art. 6.
In precedenza, la Corte EDU si era pronunziata nel caso Somogy c. Italia (18 maggio 2004), statuendo che, nel caso in cui l’autorità giudiziaria procedente, dinanzi all’allegazione dell’imputato condannato in contumacia, di non avere mai avuto legale conoscenza del procedimento promosso contro di lui, non abbia provveduto a verificare se egli abbia avuto la possibilità di conoscere le accuse rivoltegli e quindi se, al di là di ogni dubbio, abbia, in modo non equivoco, rinunziato a comparire, deve ritenersi violato l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che prevede il diritto dell’imputato ad un processo equo.
Entrambe le pronunce citate si sono ispirate ai principi dettati dalla Corte europea nelle più datate sentenze Colozza c. Italia del 12 febbraio 1985 e Cat Berro c. Italia del 28 agosto 1991, antesignane quindi della Somogy e della Sejdovic[27].
Successivamente e in termini analoghi la Corte EDU si è pronunziata nei casi Kollcaku c. Italia e Pititto c. Italia (8 febbraio 2007) in cui è stato osservato che la notifica delle azioni intentate nei confronti del contumace costituisce un atto giuridico di tale importanza da richiedere condizioni formali e sostanziali idonee a garantire l’esercizio effettivo dei diritti dell’accusato e che una conoscenza vaga e informale non potrebbe a questi fini ritenersi sufficiente. Ciò non può condurre ad escludere, in linea generale, che alcuni fatti possano dimostrare inequivocabilmente la conoscenza da parte di un imputato del processo iniziato nei suoi confronti e della natura e della causa delle accuse, nonché il fatto che egli non abbia intenzione di prender parte al processo o che intenda sottrarvisi. In concreto, però, ad avviso della Corte, non era risultato – nei casi specifici - che i ricorrenti avessero avuto sufficiente conoscenza delle accuse e dell’azione penale, né che essi avessero cercato di sottrarsi alla giustizia o rinunciato con fatti concludenti al diritto a comparire in udienza. Inoltre, sulla base di rilievi analoghi a quelli svolti con riferimento all’eccezione relativa all’obbligo del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, la Corte ha ritenuto che i ricorsi previsti dagli artt. 175 e 670 del codice di procedura penale italiano non possano essere ritenuti rimedi che, con un grado sufficiente di certezza, offrano al condannato la possibilità di avere un nuovo processo nel quale esercitare il proprio diritto alla difesa.
Come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 317 del 2009)[28], la CEDU ha, dalle citate sentenze, enucleato un gruppo di regole di garanzia processuale riferite all’art. 6 della Convenzione: a) l’imputato ha il diritto di esser presente al processo svolto a suo carico; b) lo stesso può rinunciare volontariamente all’esercizio di tale diritto; c) l’imputato deve essere consapevole dell’esistenza di un processo nei suoi confronti; d) devono esistere strumenti preventivi o ripristinatori, per evitare processi a carico di contumaci inconsapevoli, o per assicurare in un nuovo giudizio, anche mediante la produzione di nuove prove, il diritto di difesa che non è stato possibile esercitare personalmente nel processo contumaciale già concluso. La Consulta, ricordando, inoltre, la nota sentenza n. 6026 del 2008 delle Sezioni Unite della Cassazione - che ha valutato l’eventualità del bilanciamento del diritto di difesa del contumace inconsapevole (dell’esistenza del processo a suo carico) con il principio di ragionevole durata del processo di cui al secondo comma dell’art. 111 della Costituzione – ha affermato che “tale eventualità deve essere esclusa, giacché il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie. Ciò che rileva è esclusivamente la durata del «giusto» processo, quale delineato dalla stessa norma costituzionale invocata come giustificatrice della limitazione del diritto di difesa del contumace. Una diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti”.
L’effetto delle sentenze della CEDU che condannano l'Italia per violazione delle regole sul processo equo hanno effetto anche sullo giurisprudenza nazionale di merito. La Corte di appello di Milano, IV sezione penale, nella sentenza 15 giugno 2010, ha dichiarato, infatti, la nullità di una pronuncia di condanna a 21 anni per traffico di droga a carico di un imputato che non aveva partecipato al procedimento perché latitante. I giudici di secondo grado hanno preso atto della sentenza della CEDU del 12 giugno 2007 che aveva bocciato il procedimento interno perché contrario all'articolo 6 della Convenzione che garantisce l'equo processo. La Corte d'appello ha dichiarato nulla la sentenza di primo grado, riaffermando che in forza delle decisioni della Corte costituzionale mentre "il legislatore deve adeguarsi ai principi posti dalla C.E.D.U. nella sua interpretazione giudiziale" (quella espressa nelle decisioni della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo), per altro verso il giudice comune "deve dare alle norme interne un'interpretazione conforme ai precetti convenzionali”.
La giurisprudenza sovranazionale ammette, quindi, che un soggetto possa essere processato in contumacia, purché l’ordinamento interno preveda una sorta di automatismo in forza del quale venga garantito una nuova valutazione nel merito in favore del contumace che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento a suo carico.
Per conformarsi a tale indirizzo interpretativo, il legislatore ha attuato una modifica all’art. 175 c.p.p., in tema di restituzione nel termine per impugnare una sentenza contumaciale (DL 21 febbraio 2005, n. 17 convertito, con modificazioni, dalla L. 22 aprile 2005, n. 60), modifica che – anche rispondendo alla citata pronuncia d’incostituzionalità del 2009 - avrebbe dovuto porre argine alle condanne dell’Italia in tema di processo contumaciale.
In particolare, il novellato art. 175 c.p.p. stabilisce che il PM, le parti private e i difensori sono restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza, se provano di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore. La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro 10 giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore (primo comma). La stessa norma prevede (secondo comma) che ove pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l'imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione. A tale fine l'autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica.
Viste anche le pronunce della CEDU successive alla novella del 2005, l’intervento non è sembrato del tutto esaustivo risultando, in realtà, sintomatico delle difficoltà di individuare il giusto equilibrio tra la necessità di mantenere comunque l’istituto della contumacia e l’esigenza di rispondere ai moniti, giunti a più riprese, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Difficoltà derivanti anche dal ricorso da parte del legislatore nazionale a due presunzioni di segno opposto: per un verso, la presunzione di conoscenza legale che deriva dal perfezionarsi del meccanismo di notificazione che può, in alcuni casi (come il rito per gli irreperibili), anche prescindere dall’effettiva dalla conoscenza dell’atto processuale; per l’altro verso, la citata presunzione di non conoscenza di cui all’art. 175, comma 2, c.p.p., ove viene riconosciuto il diritto alla rimessione in termini “salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione”.
Per quanto riguarda la disciplina processuale della dichiarazione di contumacia, questa, dopo la riforma ad opera della legge n. 479/1999, è stata anticipata all'udienza preliminare. L'istituto assume ancor più centralità sin dall'udienza preliminare con le modifiche apportate dal legislatore nel 2000 (DL n. 82/2000). L'art. 419, comma 1, c.p.p. prevede adesso che l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare contenga "l'avvertimento all'imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia".
La dichiarazione di contumacia è prevista dall’art. 420-quater che stabilisce che il GUP – ma la disciplina è estendibile anche alla fase del giudizio, sia esso ordinario o “speciale” – possa dichiarare la contumacia dell’imputato, nei seguenti casi:
- mancata comparizione,
- accertata validità della citazione;
- mancata prova (che l’assenza dell’imputato è dovuta a mancata conoscenza o ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento).
Ad essi bisogna aggiungere, ex art. 420-quinquies, la mancanza di una manifestazione di volontà dell’imputato di non voler sottoporsi al processo; qualora, infatti, l’imputato, ancorché impedito, manifestasse in modo esplicito, sotto forma di “richiesta”, o implicito sotto forma di “consenso”, la volontà di non partecipare al processo si ricadrebbe nell’ambito di applicazione dell’istituto dell’assenza “in senso stretto” che soggiace a un regime giuridico parzialmente differente e meno favorevole della contumacia, sotto il profilo delle garanzie afferenti, per lo più, ai meccanismi di recupero delle facoltà connesse all’esplicazione della difesa personale.
Si rammenta che lo Statuto della Corte penale internazionale (Legge di ratifica ed esecuzione del 12 luglio 1999, n. 232) citato nella relazione al d.d.l. individua una soluzione intermedia.
Prevede infatti l’art. 61 (par. 1) dello Statuto sulla convalida delle accuse prima del processo che, fatto salvo il paragrafo 2, entro un termine ragionevole dopo la consegna della persona alla Corte o la sua comparizione volontaria, la Camera preliminare tiene un'udienza per convalidare le accuse sulle quali il Procuratore intende basarsi per chiedere il rinvio a giudizio. L'udienza si svolge in presenza del Procuratore e della persona oggetto d'inchiesta o azione giudiziaria, nonché dell'avvocato di quest'ultima. Secondo il citato paragrafo 2, la Camera preliminare, su richiesta del Procuratore o di sua iniziativa, può tenere un'udienza in assenza della persona accusata per convalidare le accuse sulle quali il Procuratore intende basarsi per chiedere il rinvio a giudizio, allorché la persona ha rinunciato al suo diritto di essere presente oppure si é data alla fuga o é introvabile, e tutto quanto era ragionevolmente possibile fare é stato fatto per garantire la sua comparizione ed informarla delle accuse a carico contro di essa e della prossima tenuta di un'udienza per convalidare tali accuse.
I principi e criteri di delega stabiliti dall’articolo 4 ruotano intorno a due diverse discipline, configurabili a seconda che l’assenza dell’imputato al processo sia incolpevole ovvero a lui addebitabile.
Infatti, si prevede nel primo caso:
- che, ove la prima citazione non sia stata notificata all’imputato con modalità che abbiano garantito l’effettiva conoscenza del procedimento (sostanzialmente, non sia stata notificata nelle mani dell’imputato), all’assenza di questi alla prima udienza dibattimentale consegua l’obbligo di rinnovo della citazione, da notificare personalmente all’imputato o, “a mani” di persona con lui convivente (lettera a).
- l’obbligo del giudice di sospendere il processo quando la nuova notificazione non sia risultata possibile (quindi, per irreperibilità dell’imputato o del suo convivente); fa eccezione l’ipotesi di possibile pronuncia, già in tale fase, di sentenza di proscioglimento o di non doversi procedere (lettera b).Dall’ordinanza di sospensione del processo (annotata, ai sensi della successiva lett. g) nella banca dati delle forze di polizia di cui all’art. 8 della L. n. 121/1981) decorre la sospensione della prescrizione per un periodo massimo pari a quello per la prescrizione del reato (lett. f);
Si osserva che, per chiarezza di formulazione del testo della lett. f), potrebbe essere opportuno precisare che la prescrizione è sospesa per un periodo pari a quello di sospensione del processo (con il limite massimo del termine di prescrizione del reato) ovvero che “la prescrizione sia sospesa per un periodo “massimo” pari al termine massimo previsto per la prescrizione del reato”.
Nel secondo caso (ovvero assenza addebitabile all’imputato) – con eccezione del caso in cui l’imputato dimostri di non avere effettivamente avuto conoscenza del procedimento - operano specifiche presunzioni legali di conoscenza del processo che comportano l’esclusione dell’applicazione della citata disciplina di favore sul rinnovo della citazione e sospensione del procedimento (lettera c).
Si tratta delle seguenti:
- l’imputato, nel corso del procedimento in oggetto, è stato arrestato, fermato o sottoposto ad altra misura cautelare (n. 1),
- dagli atti emerge comunque che l’imputato conoscesse l’esistenza del procedimento che lo riguarda e che l’assenza al processo risulti volontaria (n. 2);
- si procede per i delitti di particolare allarme sociale di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di rito penale (n. 3).
Il richiamo all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p riguarda i seguenti delitti previsti dal codice penale: articoli 416, sesto comma (associazione per delinquere finalizzata alla tratta o alla riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù o all’acquisto e vendita di schiavi), 416, associazione per delinquere finalizzata a commettere i delitti di cui agli articoli 473 e 474 (contraffazione e all’introduzione nello Stato e commercio di prodotti contraffatti), 600 (riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e vendita di schiavi), 416-bis (associazione mafiosa) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione); ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni d’intimidazione previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose, nonché dei delitti previsti dall'articolo 74 del DPR 309/1990 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope) e dall'articolo 291-quater del DPR 43/1973 (TU doganale) (associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri).
Il riferimento al successivo comma 3-quater dell’art. 51 c.p.p. è ai delitti con finalità di terrorismo.
In particolare, le presunzioni introdotte dai nn. 1 e 2 si rifanno alle conclusioni della CEDU nelle citate sentenze Somogji contro Italia e Sejdovic contro Italia.
Ulteriori criteri direttivi della delega sulla contumacia riguardano:
§ la previsione che il giudice debba disporre la prosecuzione del processo in assenza dell’imputato se questi non compare alla prima udienza e mancano i presupposti per la sospensione, ovvero quando sia impossibile una citazione notificata di persona all’imputato a al suo convivente (lettera d);
§ la previsione della rinnovazione del dibattimento di appello, se lo richieda l’imputato assente in primo grado che dimostri che la mancata comparizione è avvenuta, senza colpa, per causa di forza maggiore, legittimo impedimento e caso fortuito; in tale caso, prevedere la sua rimessione in termini (lettera e); il contenuto della lettera e) appare modellato su quello dell’art. 420-quater, quarto comma, c.p.p. che prevede, proprio per i motivi indicati, la nullità dell’ordinanza dichiarativa della contumacia in sede di udienza preliminare (v. ante);
§ la previsione che l’ordinanza che dispone la sospensione del processo sia trasmessa alla locale sezione di polizia giudiziaria per l’inserimento nella banca dati di cui all’articolo 8 della legge 1°aprile 1981 (lettera g);
§ la previsione - se la polizia giudiziaria individua l’imputato assente alla prima udienza dibattimentale il cui processo è sospeso (per impossibilità di notificazione personale della citazione) – di una specifica disciplina delle modalità di notificazione dell’ordinanza di sospensione, dell’atto di citazione e della comunicazione dell’avvenuta notifica al giudice procedente (lettera h);
§ l’adozione di un decreto ministeriale attuativo (giustizia-interni) che determini modalità e termini di comunicazione e gestione del complesso dei dati relativi alle ordinanze di sospensione del processo, al dcereto di citazione e alle comunicazioni successive (lettera i).
E’ in fine rimessa alla valutazione del Governo l’opportunità di prevedere l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti con cui il giudice dispone la sospensione del processo e la cancellazione della relativa iscrizione quando il provvedimento è revocato (lettera g).
Art. 5
(Pene detentive non carcerarie)
L’art. 5 prevede l’introduzione nel c.p. e nella normativa complementare delle pene detentive non carcerarie, presso l’abitazione, sulla base di alcuni principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega.
Sono interessati dall’applicazione delle pene detentive non carcerarie i delitti puniti con la reclusione non superiore nel massimo a quattro anni e le contravvenzioni punite con la pena dell’arresto (da cinque giorni a tre anni).
Per tali reati la pena detentiva principale è la reclusione presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora, anche per fasce orarie o per giorni della settimana.
Per i delitti la misura minima è di 15 gg. e quella massima di 4 anni, salvo che si tratti del reato di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p.
In base all’art. 612-bis c.p., salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita (primo comma). La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (secondo comma). La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità ovvero con armi o da persona travisata (terzo comma). Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio (quarto comma).
Per le contravvenzioni, la misura minima della pena detentiva non carceraria è di 5 gg. e quella massima di 3 anni.
Il giudice potrà prescrivere particolari modalità di controllo, esercitate attraverso mezzi elettronici o altri strumenti tecnici.
Le pene detentive non carcerarie non si applicano qualora la reclusione o l'arresto presso l'abitazione o un altro luogo di privata dimora non siano idonei a evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati.
In fine, nella fase dell'esecuzione della pena, il giudice può sostituire le pene detentive non carcerarie con le pene della reclusione o dell'arresto, qualora non risulti disponibile un'abitazione o un altro luogo di privata dimora idoneo ad assicurare la custodia del condannato.
Si ricorda che esistono già nel nostro ordinamento alcuni istituti che, sebbene relativi alla fase di esecuzione della pena, appaiono parzialmente affini alle pene detentive non carcerarie previste dal disegno di legge.
Il d.lgs. n. 274 del 2000 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace) ha introdotto, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, una serie di modifiche al sistema sanzionatorio tra cui la pena della permanenza domiciliare, che riguarda sia i reati puniti con la pena detentiva alternativa a quella pecuniaria sia i reati puniti con la sola pena detentiva sia ancora i reati puniti con la pena detentiva congiunta a quella pecuniaria.
In base all’art. 52 del d.lgs. n. 274, infatti:
- quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella della multa o dell'ammenda, se la pena detentiva è superiore nel massimo a sei mesi, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 258 a euro 2.582 o la pena della permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità per un periodo da dieci giorni a tre mesi;
- quando il reato è punito con la sola pena della reclusione o dell'arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 516 a euro 2.582 o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi;
- quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto congiunta con quella della multa o dell'ammenda, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 774 a euro 2.582 o la pena della permanenza domiciliare da venti giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da un mese a sei mesi;
- nei casi di recidiva reiterata infraquinquennale, il giudice applica la pena della permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità, salvo che sussistano circostanze attenuanti ritenute prevalenti o equivalenti.
In base all’art. 53 del d.lgs. 274, la pena della permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice, avuto riguardo alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente (comma 1). La durata della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni né superiore a quarantacinque; il condannato non è considerato in stato di detenzione (comma 2). Il giudice può altresì imporre al condannato, valutati i criteri di cui all' articolo 133, comma secondo, del codice penale, il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è obbligato alla permanenza domiciliare, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato (comma 3). Il divieto non può avere durata superiore al doppio della durata massima della pena della permanenza domiciliare e cessa in ogni caso quando è stata interamente scontata la pena della permanenza domiciliare (comma 4).
Inoltre, l’art. 55 stabilisce che, quando è violato l'obbligo del lavoro sostitutivo conseguente alla conversione della pena pecuniaria, la parte di lavoro non ancora eseguito si converte nell'obbligo di permanenza domiciliare (un giorno di permanenza domiciliare equivale a euro 25 di pena pecuniaria e la durata della permanenza non può essere superiore a 45 gg.). Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro sostitutivo, le pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità si convertono nell'obbligo di permanenza domiciliare.
In base all’art. 56, il condannato che senza giusto motivo si allontana dai luoghi in cui è obbligato a permanere è punito con la reclusione fino ad un anno. Alla stessa pena soggiace il condannato che viola reiteratamente senza giusto motivo gli obblighi o i divieti inerenti alle pene della permanenza domiciliare.
Prevede l’art. 58 che per ogni effetto giuridico la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria. Quando per qualsiasi effetto giuridico si deve eseguire un ragguaglio, un giorno di pena detentiva equivale a due giorni di permanenza domiciliare.
L’art. 59 disciplina poi il controllo sull'osservanza delle sanzioni dell'obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità: l'ufficio di pubblica sicurezza del luogo di esecuzione della pena o, in mancanza dell'ufficio di pubblica sicurezza, il comando dell'Arma dei carabinieri territorialmente competente effettua il controllo sull'osservanza degli obblighi connessi alla pena dell'obbligo di permanenza domiciliare.
Alle pene irrogate dal giudice di pace (tra cui la permanenza domiciliare) non si applicano le disposizioni relative alla sospensione condizionale della pena.
Parzialmente affini alla detenzione non carceraria prevista dal disegno di legge sono poi alcune misure alternative alla detenzione contenute nell’ordinamento penitenziario e, in particolare, le misure dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare, delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, della detenzione domiciliare speciale.
Si ricorda inoltre che l’art. 656 c.p.p. stabilisce che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni (o sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope), il pubblico ministero ne sospende l'esecuzione ed è possibile ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione.
L’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell’ordinamento penitenziario, legge n. 354/1975) è applicabile ai condannati a pena detentiva non superiore a tre anni , per un periodo uguale a quello della pena da scontare, sempre che, sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, si possa ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione dal pericolo che egli commetta altri reati. L’osservazione in istituto non è necessaria nei casi in cui il condannato, dopo la commissione del reato, ha tenuto un comportamento tale da consentire tale giudizio. L’affidamento in prova è disposto: dal P.M. prima dell’inizio dell’esecuzione della pena, secondo la procedura di cui all’articolo 656, comma 5, c.p.p.; dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, dal magistrato di sorveglianza (che sospende l’esecuzione) e dal Tribunale di sorveglianza (competente a decidere sul merito dell’istanza). La misura, che è revocabile, è accompagnata dalla previsione di prescrizioni – modificabili dal magistrato di sorveglianza - cui il soggetto ammesso alla misura è tenuto in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro. Deve essere anche stabilito che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza. Il servizio sociale svolge funzioni di controllo, di assistenza e riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza.
In caso di esito positivo del periodo di prova si produce l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale.
La detenzione domiciliare (art. 47-ter o.p.) è applicabile alla persona che, al momento dell'inizio dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l'aggravante della recidiva. Non è applicabile per una serie di reati.
La detenzione domiciliare si applica inoltre ai condannati alla pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo di maggior pena, e agli arrestati sempre che si tratti di:
- persone in condizioni di salute particolarmente gravi;
- persone di età superiore a sessant’anni inabili anche parzialmente;
- persone minori di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro, di famiglia;
- indipendentemente dai presupposti di cui sopra, per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati.
A tali soggetti viene consentito di espiare le pene nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
L’applicazione della detenzione domiciliare è disposta dal p.m. prima dell’inizio dell’esecuzione della pena, secondo la procedura di cui all’articolo 656, comma 5, c.p.p.; dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, dal magistrato di sorveglianza (che può disporre l’applicazione provvisoria della misura) e dal Tribunale di sorveglianza (competente a decidere sul merito dell’istanza).
L’applicazione della misura è accompagnata da prescrizioni specifiche ed è revocabile.
La detenzione domiciliare speciale interessa le condannate con prole (art. 47-quinquies dell’o.p.).
L’art. 656 c.p.p., sulla fase dell’esecuzione della condanna, prevede che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni o sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del testo unico sulle tossicodipendenze (DPR 309/1990), il pubblico ministero ne sospende l'esecuzione. Entro trenta giorni il condannato può presentare istanza volta ad ottenere la concessione di una misura alternative alla detenzione (affidamento in prova, detenzione domiciliare, ammissione alla semilibertà). Qualora non sia presentata l'istanza o la stessa sia inammissibile, l'esecuzione della pena ha corso immediato. Sull’istanza decide il tribunale di sorveglianza entro 45 giorni dal ricevimento dell'istanza. Qualora l'istanza non sia tempestivamente presentata, o il tribunale di sorveglianza la dichiari inammissibile o la respinga, il pubblico ministero revoca immediatamente il decreto di sospensione dell'esecuzione. La sospensione dell'esecuzione non può peraltro essere disposta nei confronti dei condannati per taluni delitti (previsti dall'art. 4-bis dell’o.p. nonché da altri articoli del c.p.), nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva, nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva. Se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il pubblico ministero sospende l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardo al tribunale di sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di una delle misure alternative.
Si ricorda inoltre che con la legge n. 199 del 2010 è stata introdotta la possibilità di scontare presso la propria abitazione, o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, la pena detentiva non superiore a diciotto mesi (termine così modificato dal decreto-legge 211/2011, convertito dalla legge 9/2012), anche residua di pena maggiore.
L'istituto è destinato ad operare fino alla completa attuazione del “Piano carceri”, nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione, e comunque non oltre il 31 dicembre 2013.
Spetta al magistrato di sorveglianza la verifica della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura. Tale controllo si esplica in particolare nella valutazione delle seguenti cause ostative: concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga; sussistenza di specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti; insussistenza di un domicilio idoneo ed effettivo, anche in funzione delle esigenze di tutela della persona offesa dal reato.
Il beneficio non è applicabile agli autori dei delitti di particolare allarme sociale di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare in carcere. A differenza, invece, dell’istituto della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter O.P., esso può trovare applicazione anche in caso di recidiva reiterata.
Per quanto riguarda la procedura, il provvedimento distingue due ipotesi a seconda che il condannato sia o meno già detenuto e, in ogni caso, con il richiamo all’art. 69-bis dell’ordinamento penitenziario, prefigura una trattazione dell’istanza da parte del magistrato di sorveglianza particolarmente snella.
E' stata poi inserita una disciplina specifica per i condannati tossicodipendenti o alcoldipendenti sottoposti ad un programma di recupero o che intendano sottoporsi ad esso.
Al fine di disincentivare l’allontanamento dal luogo di espiazione della pena, il provvedimento inasprisce il regime sanzionatorio per il reato di evasione, applicabile – in virtù del rinvio alla disciplina della detenzione domiciliare – anche all'esecuzione domiciliare delle pene; esso, inoltre, prevede come circostanza aggravante comune il fatto che il soggetto abbia commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione.
La legge prevede infine l'assunzione di personale nel ruolo degli agenti e degli assistenti del Corpo di polizia penitenziaria e l'abbreviazione dei corsi di formazione iniziale degli agenti di polizia penitenziaria.
Dati sull’applicazione delle misure alternative alla detenzione - Dati al 29 febbraio 2012
Tipologia |
Numero |
AFFIDAMENTO IN PROVA |
|
Condannati dallo stato di libertà |
4.615 |
Condannati dallo stato di detenzione* |
2.399 |
Condannati tossico/alcooldipendenti dallo stato di libertà |
957 |
Condannati tossico/alcooldipendenti dallo stato di detenzione* |
1.850 |
Condannati tossico/alcooldipendenti in misura provvisoria |
343 |
Condannati affetti da aids dallo stato di libertà |
1 |
Condannati affetti da aids dallo stato di detenzione* |
44 |
Totale |
10.209 |
SEMILIBERTA' |
|
Condannati dallo stato di libertà |
95 |
Condannati dallo stato di detenzione* |
807 |
Totale |
902 |
DETENZIONE DOMICILIARE |
|
Condannati dallo stato di libertà |
2.870 |
Condannati dallo stato di detenzione* |
4.005 |
Condannati in misura provvisoria |
2.067 |
Condannati affetti da aids dallo stato di libertà |
15 |
Condannati affetti da aids dallo stato di detenzione* |
25 |
Condannati madri/padri dallo stato di libertà |
7 |
Condannati madri/padri dallo stato di detenzione* |
16 |
Totale |
9.005 |
* dallo stato di DETENZIONE = provenienti dagli ii.pp. - arresti domiciliari (art. 656 c 10 c.p.p.) - detenzione domiciliare
Detenuti domiciliari ex Legge 199/2010 in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna - Periodo 16 dicembre 2010 - 29 febbraio 2012
§ Condannati in stato di detenzione domiciliare dalla detenzione** 5.007
§ Condannati in stato di detenzione domiciliare dalla libertà 1.238
______________
**Il dato comprende il numero complessivo dei beneficiari, compreso quello di coloro che vi accedono dagli arresti domiciliari, considerato dall'entrata in vigore della stessa
Si osserva che la formulazione dell’articolo non precisa se vi sia piena equivalenza tra il periodo di reclusione o arresto in carcere e quello di reclusione o arresto presso l’abitazione.
Inoltre, dalla formulazione utilizzata non risulta chiaro se l’eccezione relativa al reato di atti persecutori riguardi l’entità della pena ovvero, secondo un’interpretazione sistematica, la stessa applicabilità della pena detentiva non carceraria.
Non è inoltre specificato come debbano essere computate le fasce orarie e i giorni per settimana.
Appare in fine opportuno che venga specificato il richiamo alla “normativa complementare”, in modo da evidenziare l’ambito di intervento della delega legislativa.
Potrebbe in fine rivelarsi utile precisare già nella legge delega quale sia il rapporto tra la nuova disciplina delle pene detentive non carcerarie, da un lato, e, dall’altro, le attuali misure alternative alla detenzione e la permanenza domiciliare per i reati di competenza del giudice di pace. Infatti, il vincolo per i decreti legislativi di contenere le disposizioni necessarie al coordinamento con le altre norme legislative vigenti nella stessa materia, previsto dall’art. 6, comma 3, del disegno di legge, potrebbe rivelarsi fin troppo generico.
L’articolo 6 disciplina il procedimento per l’esercizio della delega, il cui termine è fissato in dodici mesi.
I decreti legislativi sono adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze.
Gli schemi dei decreti legislativi, dopo la deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri, sono trasmessi alle Camere per l'espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia, che sono resi entro il termine di trenta giorni dalla data di trasmissione. Decorso il termine di trenta giorni, i decreti possono essere emanati anche in mancanza dei predetti pareri. Il termine per l’esercizio della delega è prorogato automaticamente di sessanta giorni qualora il termine per l’espressione del parere parlamentare venga a scadere nei trenta giorni antecedenti allo spirare della delega medesima o successivamente.
Nella redazione dei decreti legislativi il Governo tiene conto delle eventuali modificazioni della normativa vigente comunque intervenute fino al momento dell'esercizio della delega.
I decreti legislativi debbono inoltre contenere le disposizioni necessarie al coordinamento con le altre norme legislative vigenti nella stessa materia.
Entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore dell'ultimo dei decreti legislativi di cui al presente articolo possono essere emanati uno o più decreti legislativi correttivi e integrativi, adottati secondo lo stesso procedimento.
In linea generale potrebbe essere valutata, in considerazione del rilievo dell’argomento trattato, l’opportunità di prevedere elementi di maggiore rafforzamento del ruolo del Parlamento – e in particolare delle Commissioni – nel controllo sull’esercizio della delega, stabilendo eventualmente adempimenti aggiuntivi in capo al Governo per il caso in cui non intenda dare seguito ai pareri parlamentari (ad esempio, obbligo di relazione o di nuovo parere parlamentare).
Si osserva che la clausola di proroga automatica del termine per l’esercizio della delega, sebbene già contenuta in alcune leggi di delega, è suscettibile di determinare incertezza in ordine all’effettiva scadenza finale della delega medesima.
Inoltre, la disposizione che, al comma 2, autorizza il Governo a tenere conto, nell’esercizio della delega, delle eventuali modifiche legislative sopravvenute pare assimilabile ad un rinvio in bianco, non essendo circoscritto in alcun modo l’ambito discrezionale del legislatore delegato.
Al comma 4, in fine, appare utile che sia specificato che anche i decreti legislativi correttivi e integrativi debbono attenersi ai principi e criteri direttivi contenuti nella legge.
Art. 7
(Clausola di invarianza finanziaria)
L’art. 7 reca la clausola relativa al divieto di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e all’invarianza finanziaria per le pubbliche amministrazioni.
La tabella contiene - in ordine cronologico decrescente – i provvedimenti che hanno introdotto nell’ordinamento nuove fattispecie penali da gennaio 2000 a febbraio 2012 ad eccezione dei seguenti provvedimenti:
- decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale);
- decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro);
- decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare).
Non sono state considerate le novelle di illeciti già considerati penali prima del gennaio 2000.
[1] La legge aveva disposto, in linea generale, che «tutte le violazioni per la quali è prevista soltanto la pena dell’ammenda» fossero trasformate in illecito amministrativo. Tuttavia erano state sottratte da tale depenalizzazione le numerose contravvenzioni previste dal codice penale e dal testo unico di pubblica sicurezza, dalle leggi in tema di lavoro, in tema di alimenti e bevande, da una serie di leggi poste a tutela della sanità e dell’ambiente, dalle leggi in tema di edilizia e di urbanistica.
[2] Si tratta:
- dei reati previsti dagli artt. 669, 672, 687, 693 e 694 c.p.;
- i reati previsti dagli artt. 121 e 124 TULPS e dagli artt. 121, 180, 181 e 186 del relativo regolamento;
- taluni reati previsti dal codice della strada;
- il reato previsto dall’art. 32 della legge n. 990 del 1969, in tema di assicurazione per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli.
[3] Il Governo ha attuato questa delega con il D.Lgs. 24 marzo 1994, n. 211 (Norme in materia di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali), il D.Lgs. 9 settembre 1994, n. 566 (Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di tutela del lavoro minorile, delle lavoratrici madri e dei lavoratori a domicilio) ed il D.Lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 (Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro).
[4] Il Governo ha attuato la delega con l’emanazione del D.Lgs. 13 luglio 1994, n. 480 (Riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773).
[5] I reati contenuti nel codice penale oggetto di depenalizzazione sono i seguenti: Artt. 345 Offesa all'autorità mediante danneggiamento di affissioni - 350 Agevolazione colposa della violazione di sigilli - 352 Vendita di stampati sequestrati - 465 Uso di biglietti falsificati di imprese di trasporto - 466 Alterazioni di segni nei valori di bollo o nei biglietti usati - 498 Usurpazione di titoli e onori - 527 Atti osceni - 654 Grida e manifestazioni sediziose - 663 Vendita, distribuzione o affissione abusiva di scritti o disegni - 663-bis Divulgazione di stampa clandestina - 664 Distruzione o deterioramento di affissioni - 666 Spettacoli o trattenimenti pubblici senza licenza - 675 Collocamento pericoloso di cose - 676 Rovina di edifici o di altre costruzioni - 677 Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina - 686 Fabbricazione o commercio abusivi di liquori o droghe, o di sostanze destinate alla loro composizione - 688 Ubriachezza - 692 Detenzione di misure e pesi illegali - 705 Commercio non autorizzato di cose preziose - 724 Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti - 725 Commercio di scritti, disegni o altri oggetti contrari alla pubblica decenza.
Per la quasi totalità degli illeciti indicati la sanzione amministrativa è irrogata dal prefetto.
[6] Peraltro, la tabella non include le fattispecie penali previste da:
- decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale);
- decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro);
- decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare).
L’esclusione è motivata dall’estrema difficoltà di individuare all’interno di raccolte normative così complesse – e spesso nate dall’esigenza di un riordino più che di una riforma della disciplina previgente - le fattispecie penali nuove.
[7] Cfr. Relazione illustrativa AC 5019.
[8] Cfr. Relazione illustrativa AC 5019.
[9] Cfr. art. 80 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382).
[10] D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137
[11] D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale.
[12] Si ricorda infatti che il titolo I del decreto legislativo ha affrontato la riforma della disciplina sanzionatoria in materia di alimenti, agendo tramite la trasformazione in illeciti amministrativi dei reati prima previsti, con eccezione di quelli contenuti nel codice penale e di alcune fattispecie previste dalla legge 283/1962. L’art. 2 precisa l’entità delle diverse sanzioni amministrative pecuniarie mentre il successivo art. 3 introduce misure interdittive dell’attività in casi particolari (come la sospensione o la revoca della licenza), oltre alla chiusura dell’esercizio per mancanza dei requisiti igienico-sanitari (art. 8); sono poi previsti i casi di pubblicazione del provvedimento applicativo della sanzione (art. 7).
[13] Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30.
[14] R.D. 18 giugno 1931, n. 773, Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
[15] Legge 15 luglio 2009, n. 94 , Disposizioni in materia di sicurezza pubblica.
[16] Decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica.
[17] Decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori.
[18] Decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 16, Interventi urgenti per la tutela dell'ambiente e per la viabilità e per la sicurezza pubblica.
[19] Cfr. S. Foà, Sicurezza pubblica, in Digesto (Discipline pubblicistiche), UTET, 1999.
[20] Recante “Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468”.
[21] Legge 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
[22] L. 27 gennaio 2012, n. 3, Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento.
[23] Le sanzioni amministrative possono anche non essere pecuniarie ma di tipo interdittivo: si pensi alla sospensione o decadenza da licenze o concessioni e, in genere, nella privazione di un diritto o di una capacità nei confronti di chi abbia trasgredito un precetto.
[24] Cfr. da ultimo sentenza n. 22157 del 16/03/2011 pronunciata dalla IV sezione.
[25] Cfr. Cass., Sez. I, 19 aprile 1995, n. 4409
[26] Costituzione, art. 111 «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contradditorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi la cui formazione della prova non ha luogo in contradditorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».
[27] Va rilevato che le sentenze Colozza e Cat Berro sono state emanate secondo la vecchia procedura per cui la Corte EDU si pronunziava solo previo filtro della Commissione per i diritti umani; entrambe, inoltre, che fanno riferimento alla disciplina del vecchio codice di procedura penale.
[28] La sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.