Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento giustizia | ||||
Titolo: | Responsabilità civile dei magistrati - La normativa nazionale e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea | ||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 306 | ||||
Data: | 16/12/2011 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | II-Giustizia |
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Responsabilità civile dei magistrati
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La normativa nazionale e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea |
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n. 306 |
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16 dicembre 2011 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Giustizia ( 066760-9148 / 066760-9559 – * st_giustizia@camera.it |
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File: gi0654.doc |
INDICE
Schede di sintesi
Introduzione 5
Quadro normativo italiano 7
§ Il referendum abrogativo del 1987 7
§ La legge n. 117 del 1988 8
§ Le proposte all’esame del Parlamento 12
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 15
La responsabilità civile dei magistrati in alcuni ordinamenti europei (a cura del Servizio Biblioteca) 17
§ Francia 17
§ Germania 19
§ Regno Unito 21
§ Spagna 21
Documentazione
Corte di Giustizia Unione europea
§ Corte di Giustizia, 30 settembre 2003 (sentenza Kobler c. Repubblica d’Austria) 27
§ Grande sezione, 13 giugno 2006, n. 173 (sentenza “Traghetti del Mediterraneo”) 53
§ Sezione III, sentenza del 24 novembre 2011, n. 379 63
Dottrina
§ Fragola M., Breve nota sulla responsabilità dei magistrati nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Diritti Umani in Italia (www.duitbase.it), 29 novembre 201175
§ Scarselli G., Appunti sulla responsabilità civile del giudice, in Il Foro italiano, 2009, n. 77
§ Bonaccorsi F., I primi vent’anni della legge 117/1988 tra interpretazioni giurisprudenziali e prospettive di riforma, in Danno e Responsabilità, 2008, n. 11, p. 1119 85
§ Dellachà P., La responsabilità civile del magistrato per dolo, colpa grave e violazione del diritto comunitario: equilibrio del sistema e possibili elementi di rottura, in Danno e responsabilità, 2008, n. 11, p. 1129 93
§ Frata L., Cronaca di una legge inutile: la Cassazione e la responsabilità civile dei magistrati, in Danno e responsabilità, 2008, n. 11, p. 1140 107
§ Morelli P., Quarto grado di giudizio per i "diritti Ue", nota a Corte giustizia CE, 13/06/2006, n. 173, sez. Grande Sezione, in D&G 2006, 29, p. 104 117
§ Biondi F., Dalla Corte di Giustizia un “brutto” colpo per la responsabilità dei magistrati, in Quaderni costituzionali, 2006, n. 4, p. 839-842 119
§ Giovanetti T., La responsabilità civile dei magistrati come strumento di nomofilachia? Una strada pericolosa, nota a CGCE, sentenza, 13-06-2006, n. causa C-173/03, in Il Foro italiano, 2006, Parte IV, 423 123
§ Scoditti E., Violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice, nota a CGCE, sentenza, 13-06-2006, n. causa C-173/03, in Il Foro italiano, 2006, parte IV, 418 127
§ Palmieri A., Corti di ultima istanza, diritto comunitario e responsabilità dello stato: luci ed ombre di una tendenza irreversibile, nota a CGCE, 13 giugno 2006, n. 173/03, Soc. traghetti del Mediterraneo c. Gov. Italia), in Il Foro italiano, 2006, parte IV, 420 131
§ Caranta R., Giudici responsabili?, in Responsabilità civile e previdenza, 2006, n. 12 135
§ Conti R., Responsabilità per atto del giudice, legislazione italiana e Corte UE. Una sentenza annunciata, in Il Corriere giuridico, 2006, p.1515-1528 145
§ Alpa G., La responsabilità dello stato per «atti giudiziari». A proposito del caso Köbler c. Repubblica d’Austria, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2005, n 1 169
§ Varano V., Responsabilità del magistrato, voce del Digesto civile, 1998 175
§ Pintus F., Responsabilità del giudice, voce dell’Enciclopedia del diritto, vol XXXIX, 1988 189
Schede di sintesi
Lo scorso 24 novembre 2011 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha deciso di una procedura di infrazione (causa C-379/10) promossa dalla Commissione europea nei confronti dello Stato italiano in merito alla disciplina italiana sulla responsabilità civile del magistrato.
In particolare, la Corte ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell'Unione.
Al fine di meglio comprendere l’ultima decisione della Corte dell’Unione, di seguito si riportano:
- una sintetica descrizione della normativa italiana;
- le principali pronunce della Corte di giustizia;
- le proposte attualmente all’esame del Parlamento in tema di responsabilità civile dei magistrati;
- le esperienze degli ordinamenti di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna;
- alcuni essenziali contributi dottrinari.
Con responsabilità civile del magistrato si intende la responsabilità del giudice nei confronti delle parti processuali o di altri soggetti, a seguito di eventuali errori o inosservanze nell’esercizio delle funzioni. Diversamente, la responsabilità disciplinare concerne la violazione dei doveri funzionali che il magistrato assume nei confronti dello Stato al momento della nomina.
La responsabilità civile del magistrato, come quella dei pubblici dipendenti, trova il suo fondamento nell’art. 28 della Costituzione.
Costituzione, articolo 28
I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
La Corte costituzionale ha affermato che, nell’art. 28 Cost., «trova affermazione "un principio valevole per tutti coloro che, sia pure magistrati, svolgono attività statale: un principio generale che da una parte li rende personalmente responsabili, ma dall'altra non esclude, poiché la norma rinvia alle leggi ordinarie, che codesta responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni". Scelte plurime, anche se non illimitate, in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 26 del 1987; cfr. anche sentenza n. 2 del 1968).
La responsabilità civile dei magistrati è oggi disciplinata dalla legge 13 aprile 1988, n. 117[1] che ha dato alla materia una nuova regolamentazione all’indomani del referendum del novembre 1987, che ha comportato l’abrogazione della previgente disciplina, fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice.
Il quesito referendario del 1987 riguardava l’abrogazione dei seguenti articoli del codice di procedura civile:
§ art. 55, che delimitava i casi nei quali il giudice era civilmente responsabile;
L’art. 55 (Responsabilità civile del giudice) così disponeva: «Il giudice è civilmente responsabile soltanto: 1) quando nell'esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode o concussione; 2) quando senza giusto motivo rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero.
Le ipotesi previste nel numero 2 possono aversi per avverate solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l'atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito».
§ art. 56, che condizionava in vario modo l’esercizio della relativa azione;
L’art. 56 (Autorizzazione) così disponeva: «La domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non può essere proposta senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia.
A richiesta della parte autorizzata la Corte di cassazione designa, con decreto emesso in camera di consiglio, il giudice che deve pronunciare sulla domanda.
Le disposizioni del presente articolo e del precedente non si applicano in caso di costituzione di parte civile nel processo penale o di azione civile in seguito a condanna penale».
§ e art. 74, che estendeva tali norme anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile.
L’art. 74 (Responsabilità del pubblico ministero) così disponeva: «Le norme sulla responsabilità del giudice e sull'esercizio dell'azione relativa si applicano anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile, quando nell'esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione».
Il referendum del 1987 ha raggiunto il quorum e ha visto prevalere la volontà abrogatrice delle disposizioni del codice di procedura civile.
Iscritti alle liste |
45.870.931 |
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Votanti |
29.866.249 |
65,10% degli iscritti alle liste |
Schede bianche/nulle |
3.969.894 |
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Voti validi |
25.896.355 |
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Risposta affermativa (Sì) |
20.770.334 |
80,2% dei voti validi |
Risposta negativa (No) |
5.126.021 |
19,8% dei voti validi |
Il vuoto normativo prodotto dal referendum è stato colmato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.
L’articolo 1 della legge n. 117/1998 ne delinea il campo d’applicazione, stabilendo che le disposizioni sulla responsabilità civile dei magistrati si applicano «a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria». Tali disposizioni si applicano anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.
Sotto il profilo sostanziale, l’articolo 2 della legge n. 117 afferma il principio della risarcibilità del danno ingiusto.
Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, il danno ingiusto risarcibile, secondo la nozione recepita dall'art. 2043 cod. civ., è quello che produce la lesione di un interesse giuridicamente rilevante, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo (Cass., III sez., ord. 10 agosto 2002, n. 12144; Sez. III, sent. 19 luglio 2002, n. 10549).
Il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente “a diniego di giustizia”.
Ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge 117/1988, i giudici di pace e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all'articolo 2, comma 3, lettere b) e c).
L’art. 2, comma 3, della legge 117, prevede che costituiscano colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
La giurisprudenza della Cassazione civile ha affermato che «In tema di risarcimento del danno per responsabilità civile del magistrato, l'ipotesi di colpa grave di cui all'art. 2, comma 3, l. n. 117/88 sussiste quando il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (cfr. Sez. III, sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008). Per quanto riguarda il concetto di negligenza inescusabile, la Suprema Corte ha sostenuto che questo esige un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato (cfr. Sez. I, sent. n. 6950 del 26 luglio 1994 e Sez. III, Sent. n. 15227 del 5 luglio 2007).
La legge chiarisce, comunque, che non possono dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2), ferme restando le ipotesi di possibile responsabilità disciplinare del magistrato in presenza di un’abnorme o macroscopica violazione di legge ovvero di uso distorto della funzione giudiziaria. La tutela delle parti, in tali ipotesi, è di natura esclusivamente endoprocessuale, attraverso il ricorso al sistema delle impugnazioni del provvedimento giurisdizionale che si assume viziato.
In base all’articolo 3 della legge, costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, i termini previsti dalla legge. In particolare, il termine ordinario è di 30 giorni dalla data di deposito in cancelleria dell’istanza; se tuttavia l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine è di 5 giorni (improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza) o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.
Chi ha subìto il danno ingiusto non può agire direttamente in giudizio contro il magistrato, ma deve agire contro lo Stato (art. 2, comma 1). Lo Stato, a determinate condizioni, può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7).
Sotto il profilo processuale (artt. 4 e 5), l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato:
§ deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri e davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p. e dell'articolo 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale;
§ è esperibile soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno;
§ deve essere proposta a pena di decadenza entro 2 anni dal momento in cui l’azione è esperibile (3 anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si è verificato);
§ è sottoposta a delibazione preliminare di ammissibilità (controllo presupposti, rispetto termini e valutazione manifesta infondatezza) da parte del tribunale distrettuale.
Nel giudizio di risarcimento è ammessa la facoltà d’intervento del magistrato (art. 6) il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio; questi non può essere assunto come teste né nel giudizio preliminare di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.
Se è accertata nel giudizio la responsabilità del magistrato, lo Stato, entro un anno dal risarcimento, esercita nei suoi confronti l'azione di rivalsa (artt. 7 e 8). In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare. L'azione di rivalsa, promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri, va proposta davanti allo stesso tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'articolo 11 c.p.p. e dell'articolo 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale.
La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.
Le citate disposizioni sulla misura della rivalsa dello Stato si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta.
L’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato ordinario per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento spetta al procuratore generale presso la Corte di cassazione; l’azione va proposta entro due mesi dalla comunicazione del tribunale distrettuale che dichiara ammissibile la domanda di risarcimento. Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa (articolo 9).
La legge 117/1988 prevede invece l’applicazione delle norme ordinarie nel caso in cui il danno sia conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni (articolo 13). In tal caso l'azione civile per il risarcimento del danno ed il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie; il danneggiato quindi potrà agire direttamente nei confronti del magistrato e dello Stato, quale responsabile civile, e l'azione di regresso dello Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato sarà disciplinata dalle norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti.
Come ha chiarito la giurisprudenza, la responsabilità ex art. 13 della legge n. 117 si pone su di un piano diverso da quello delle ipotesi di responsabilità contemplate dagli artt. 2 e segg. della legge stessa e si riferisce a fattispecie che presentino - rispetto all'ipotesi di dolo di cui all'art. 2 - un ulteriore connotato, rappresentato dalla costituzione di parte civile nel processo penale eventualmente instaurato a carico del magistrato, ovvero da una sentenza penale di condanna del medesimo, passata in giudicato (Cass., sez. I,. 19 agosto 1995, n. 8952; Cass., Sez. III, 16 novembre 2006, n. 24387).
La legge n. 117 del 1988 è stata da alcuni ritenuta in contrasto con lo spirito del referendum abrogativo del 1987 perché eccessivamente favorevole al magistrato.
In merito, tanto nel 1995 quanto nel 1999, sono state presentate ulteriori richieste di referendum abrogativo; in entrambi i casi è stata la Corte costituzionale a giudicare i quesiti inammissibili[2].
Limitando l’analisi all’attuale legislatura, si possono evidenziare almeno tre diversi momenti nei quali la Camera dei deputati ha affrontato il tema della responsabilità civile dei magistrati.
Anzitutto, il disegno di legge costituzionale A.C. 4275 presentato dal Governo Berlusconi e volto ad una riforma complessiva del Titolo IV della Parte II della Costituzione, “La Magistratura”, prevede (articolo 14) l’introduzione in Costituzione di una nuova sezione e un nuovo articolo, relativi alla responsabilità dei magistrati.
Sezione II-bis, Responsabilità dei magistrati
Art. 113-bis
I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato.
La legge disciplina espressamente la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale.
La responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato.
Il nuovo articolo 113-bis prevede, al primo comma, che i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato.
La disposizione prevede innanzitutto una responsabilità diretta dei magistrati per gli atti compiuti in violazione dei diritti, senza quindi che il cittadino debba rivolgersi allo Stato.
Secondo la relazione illustrativa, l’art. 113-bis afferma per la prima volta, nella Costituzione, il principio della responsabilità professionale del magistrato, destinato a completare il nuovo assetto della magistratura in cui l'autonomia e l'indipendenza devono trovare un necessario bilanciamento nella efficienza e responsabilità. Con riferimento al primo comma, la relazione illustrativa sottolinea che «si prevede un'unica disciplina comune per tutti gli impiegati civili dello Stato: il magistrato dovrà, infatti, rispondere degli atti compiuti in violazione dei diritti, che cagionino un danno ingiusto al pari degli altri funzionari dello Stato».
Il nuovo art. 113-bis, secondo comma, introduce il principio della responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale e rimette la disciplina alla legge.
Si ricorda in proposito che l’art. 24, comma quarto, Cost. prevede che la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Il terzo comma prevede infine, ribadendo quanto già previsto dall’art. 28 Cost. per i funzionari ed i dipendenti dello Stato, che la responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato.
Il disegno di legge del Governo è tuttora all’esame delle Commissioni I e II della Camera dei deputati.
In secondo luogo, occorre ricordare che la Commissione giustizia sta esaminando una serie di proposte di legge in materia di responsabilità civile dei magistrati (C. 1956 Brigandì, C. 252 Bernardini, C. 1429 Lussana, C. 2089 Mantini, C. 3285 Versace, C. 3300 Laboccetta e C. 3592 Santelli), ed ha svolto sul tema una serie di audizioni.
Infine, si ricorda che il disegno di legge comunitaria 2010 (A.C. 4059-A) conteneva una specifica disposizione (articolo 18), incidente sui presupposti della responsabilità civile dei magistrati, con finalità di adeguamento dell’ordinamento alla procedura di infrazione comunitaria (2009/2230), sulla quale la Corte di giustizia non si era ancora pronunciata.
Dopo il rinvio del disegno di legge in Commissione Politiche dell'Unione europea disposto il 6 aprile 2011 dall'Assemblea, il provvedimento è tornato all'esame dell'Aula il 26 luglio, dove l'approvazione di un emendamento della Commissione ha disposto la soppressione dell'art. 18 sulla responsabilità civile dei magistrati.
Nella sentenza 13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo), la Corte di giustizia ha affermato che «Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale».
La Corte ha osservato che «Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler». Alla luce della sentenza da ultimo indicata, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).
La medesima Corte di giustizia si è trovata poi a dover decidere di una procedura di infrazione (causa C-379/10) promossa dalla Commissione europea al fine di ottenere una modifica della norma italiana sulla responsabilità civile del magistrato nel senso indicato dalla sentenza del 2006.
Il 24 novembre 2011 la Corte di giustizia dell'Unione europea, decidendo con sentenza nella causa C-379/10 Commissione c. Italia, ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell'Unione.
La Corte rammenta che uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni arrecati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione da parte dei propri organi in presenza di tre condizioni:
- la norma giuridica violata dev'essere preordinata a conferire diritti ai singoli,
- la violazione dev'essere sufficientemente caratterizzata e
- tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subìto dal soggetto leso deve sussistere un nesso causale diretto.
La responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado è disciplinata dalle stesse condizioni. In tal senso, una «violazione sufficientemente caratterizzata della norma di diritto» si realizza quando il giudice nazionale ha violato il diritto vigente in maniera manifesta. Il diritto nazionale può precisare la natura o il grado di una violazione che implichi la responsabilità dello Stato ma non può, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi.
In Francia la peculiarità della funzione giurisdizionale ha da sempre imposto una particolare cautela nella previsione della responsabilità di coloro che la esercitano. Progressivamente i magistrati dell’ordine giudiziario sono stati percepiti come professionisti tenuti alla buona realizzazione dei loro compiti nell’esercizio dei loro poteri giurisdizionali e, pertanto, non esenti dall’applicazione di un principio generale di responsabilità civile, temperato tuttavia dalla necessità di preservarli dal moltiplicarsi di azioni legali di risarcimento da parte di ricorrenti semplicemente insoddisfatti del contenuto delle decisioni giudiziarie prese nei loro confronti[3].
Per tali ragioni è lo Stato a rispondere, in via prioritaria, degli eventuali danni (e interessi) determinati dall’amministrazione della giustizia nei confronti di coloro che sono ad essa sottoposti.
Sono previsti i seguenti tre regimi di responsabilità civile dei magistrati (Code de l’organisation judiciaire, artt. L 141-1 e ss.):
§ il primo riguarda la responsabilità per funzionamento difettoso del servizio giudiziario (fonctionnement défectueux du service de la justice), il cui campo di applicazione risulta peraltro limitato alle due ipotesi della colpa grave[4] (faute lourde) e del diniego di giustizia (déni de justice) (art. L 141-1)[5];
§ il secondo concerne la responsabilità per colpa personale (faute personnelle) dei magistrati ordinari (i magistrati del Corpo giudiziario) ed è soggetto alla disciplina contenuta nello statut de la magistrature (art. L 141-2);
§ il terzo è relativo alla responsabilità per colpa personale degli altri giudici (ad es., i giudici amministrativi o quelli appartenenti a giurisdizioni speciali) ed è appositamente regolato da leggi speciali o, in loro assenza, segue il procedimento della cosiddetta “prise à partie” (art. L141-3)[6].
In tutti e tre i casi la responsabilità civile viene fatta valere contro lo Stato e non è ammessa l’azione diretta contro i magistrati: è lo Stato, pertanto, a garantire le vittime anche dei danni causati dalle colpe personali dei magistrati, fatta salva la facoltà dello Stato di rivalersi su questi ultimi.
Per ciò che riguarda, in particolare, il primo regime, il funzionamento difettoso della giustizia si riferisce all’insieme di attività in cui si esplica il servizio della giustizia: sentenze, provvedimenti e atti giurisdizionali, ma anche tutti gli atti giuridici o materiali connessi all’esercizio del servizio, nonché gli atti delle autorità amministrative che collaborano al servizio della giustizia.
La responsabilità diretta dello Stato nei confronti delle vittime deriva dalla nozione di colpa del servizio (faute de service) riconosciuta a carico dello Stato, indipendentemente dall’accertamento di una responsabilità personale dell’autore materiale del danno[7]. Tuttavia, come richiamato in precedenza, i casi di malfunzionamento del servizio giudiziario sono circoscritti ai due casi, rispettivamente, di colpa grave (ad esempio, la divulgazione alla stampa di atti giudiziari o la sparizione, in determinate circostanze, di dossier istruttori) e di diniego di giustizia (ad esempio, la fissazione eccessivamente tardiva di un’udienza o una sentenza che dopo lungo tempo ancora non viene pronunciata).
Il secondo regime si basa sul concetto di “colpa personale” del giudice, che tuttavia, secondo il dettato dell’art. 11-1 dello statut de la magistrature, va intesa come comportamento lesivo del magistrato, ma sempre collegato al servizio pubblico della giustizia (faute personnelle se rattachant au service public de la justice) o non distaccabile da quel servizio o, per lo meno, non privo di collegamenti con il servizio pubblico della giustizia[8]. In questo caso lo Stato – come già ricordato – può rivalersi con un’azione riconvenzionale nei confronti del giudice personalmente responsabile del danno[9].
Anche il terzo regime di responsabilità civile si fonda sulla colpa personale del giudice, ma, a differenza del precedente, si applica ai magistrati non appartenenti al Corpo giudiziario (come i giudici amministrativi o i giudici speciali) e, invece di essere regolato dallo statut de la magistrature, segue la procedura della “prise à partie”. Tale procedura, regolata in dettaglio dagli artt. 366-1 e ss. del Code de procedure civile, è ammessa nei seguenti casi: dolo, frode, concussione, colpa grave e diniego di giustizia. Ma, sebbene qui la responsabilità civile riguardi il comportamento personale del giudice (rientrante nelle fattispecie appena menzionate) e non un suo comportamento legato al servizio pubblico della giustizia, è sempre lo Stato a rispondere civilmente delle condanne al risarcimento dei danni e interessi che possono essere pronunciate contro i magistrati. La causa è di competenza della Corte d’Appello della circoscrizione nella quale il giudice interessato tiene le sue udienze. La prise à partie per essere procedibile deve essere autorizzata preventivamente dal Primo Presidente della Corte d’appello, che decide dopo aver acquisito il parere del Procuratore generale presso la Corte, ossia del Pubblico Ministero. Il rifiuto del Primo Presidente può essere impugnato davanti ad una Chambre civile della Corte di Cassazione.
La Legge fondamentale tedesca (Grundgesetz - GG), all’articolo 34, sancisce la responsabilità dello Stato (Federazione o Land) in caso di violazione dei doveri della funzione da parte di un giudice.
La responsabilità risarcitoria è, dunque, indiretta, nel senso che il preteso danneggiato non può direttamente chiamare in causa il giudice di cui si vuole far valere la responsabilità.
La fattispecie della responsabilità è quella prevista dall’articolo 839 del Codice civile (Burgerliches Gesetzbuch – BGB)[10], rispetto alla quale opera il criterio di imputazione (allo Stato) stabilito dall’articolo 34 GG[11].
L’articolo 839, comma 1, del Codice civile tedesco, stabilisce la responsabilità del funzionario pubblico (Beamter - categoria nella quale sono ricompresi i giudici) che violi dolosamente o colposamente i doveri d’ufficio di cui è titolare; tale responsabilità comporta il risarcimento del danno subito da terzi.
Al comma 2, la stessa disposizione prevede la responsabilità del funzionario che violi i propri doveri nell’emanazione di provvedimenti (Urteil) nel quadro di una vertenza, e la conseguente responsabilità, se la violazione commessa costituisce reato.
Quindi, l’obbligo di risarcimento da parte del giudice sorge quando, nel corso di un procedimento giurisdizionale, egli abbia cagionato un danno attraverso la violazione dell’articolo 839, comma 2. Non rientrano in queste ipotesi il rifiuto o il ritardo di esercitare le proprie funzioni, rispetti ai quali opera l’immunità giudiziaria (Richterprivilege) posta a fondamento dell’indipendenza della magistratura. Tale indipendenza richiede, infatti, che nell’interesse dell’imparzialità del giudice, egli non debba temere azioni o ritorsioni per le decisioni assunte; la garanzia di indipendenza della magistratura, inoltre, è stabilita nell’interesse della certezza del diritto, che verrebbe incrinata se la pretesa inesattezza di una decisione giudiziaria fosse oggetto non soltanto della revisione da parte di un altro giudice secondo le comune norme procedurali, ma anche di azioni giudiziarie per atto illecito.
Sotto il profilo soggettivo, le disposizioni in materia di responsabilità e le relative esimenti si applicano tanto ai giudici di ruolo che a quelli onorari (figure contemplate dall’ordinamento giudiziario tedesco a livello di Länder).
Sotto il profilo oggettivo, la nozione di Urteil di cui all’articolo 839, comma 2, BGB, comprende una gamma di provvedimenti giurisdizionali adottati non soltanto ad esito e a chiusura di un procedimento (sentenza), ma anche durante il suo svolgimento. In base all’interpretazione giurisprudenziale, rientrano nella nozione atti processuali aventi carattere tendenzialmente definitivo, quali la decisione di condanna alle spese oppure le decisioni che sottopongono a tutela o a curatela le persone. Ne sono, invece, esclusi gli atti processuali a carattere tendenzialmente provvisorio, quali, ad esempio, le ordinanze relative all’ammissione di prove, le decisioni sul valore della lite, e, in ambito penale, il mandato di arresto, gli ordini di perquisizione, le ordinanze di sospensione della patente di guida.
Sui magistrati grava una generale responsabilità per il loro operato, la quale si modula secondo i principi della loro accountability, sia “interna” (ossia verso i poteri pubblici e lo stesso ordine di cui sono membri), sia “esterna”, con riguardo allo scrutinio pubblico al quale sono sottoposti i loro atti[12]. Ciò non comporta, tuttavia, l’indifferenziata applicazione nei loro riguardi delle norme comuni in materia di responsabilità per fatto illecito.
Il principio dell’esonero dalla responsabilità civile del magistrato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, radicato nel common law, è tradizionalmente inteso quale presidio dell’indipendenza della magistratura nel suo complesso (precedente giurisprudenziale rilevante, a questo riguardo, è Sirros v Moore [1975] QB 118, in cui la corte giudicante precisò l’ambito della judicial immunity che tutela il giudice rispetto alla “liability in a civil action for damages in respect of acts done in his judicial capacity”).
Il principio suddetto (codificato anche dal legislatore con riferimento ai magistrates, giudici onorari disciplinati dal Justice of Peace Act 1997, ss. 51, 52) ha subìto temperamenti a seguito dell’incorporazione nel diritto interno della CEDU con lo Human Rights Act 1988, che in attuazione dell’art. 5(5) della Convenzione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione.
La normativa in materia di responsabilità civile dei giudici e dei magistrati è contenuta in alcuni articoli della Ley Orgánica 6/1985 del Poder Judicial (LOPJ).
L’art. 16 della LOPJ stabilisce che i giudici e i magistrati rispondono penalmente e civilmente nei casi e nella forma prevista dalle leggi.
Vi è anche, agli articoli 411-413, un apposito capitolo sulla responsabilità civile. I giudici e i magistrati rispondono civilmente per i danni e i pregiudizi causati quando, nello svolgimento delle loro funzioni, incorrano in dolo o colpa (art. 411). La responsabilità civile può esigersi su istanza della parte lesa o dei suoi aventi causa, nel relativo giudizio (art. 412). La domanda di responsabilità civile non può essere presentata fino a quando non sia stata emessa la decisione che conclude il processo in cui si presuma sia stato prodotto il danno; in nessun caso la sentenza del giudizio di responsabilità civile può modificare la decisione emessa alla fine di tale processo (art. 413).
Accanto a questa responsabilità di tipo personale del magistrato o giudice, esiste anche una responsabilità patrimoniale dello Stato per gli errori giudiziari, per il funzionamento anomalo dell’amministrazione della giustizia e per l’ingiusta carcerazione preventiva. L’art. 121 della Costituzione prevede che:
“I danni causati per errori giudiziari, così come quelli che siano conseguenza del malfunzionamento dell’Amministrazione della Giustizia, daranno diritto a un indennizzo a carico dello Stato, conformemente alla legge”.
La LOPJ ha dato attuazione al precetto costituzionale, aggiungendovi la previsione dell’ingiusta carcerazione preventiva. Il titolo V del libro III della LOPJ è dedicato alla “responsabilità patrimoniale dello Stato per il funzionamento dell’Amministrazione della Giustizia” (artt. 292-297).
L’art. 292 della LOPJ prevede che, per i danni causati per errore giudiziario o come conseguenza del funzionamento anomalo della giustizia, spetti ai danneggiati un indennizzo a carico dello Stato. Il danno arrecato deve essere effettivo, valutabile economicamente e individualizzato in relazione a una persona o gruppo di persone.
L’art. 293 della LOPJ stabilisce che l’indennizzo per errore deve essere preceduto da una decisione giudiziaria che espressamente lo riconosca. Sia nel caso di errore giudiziario, sia di funzionamento anomalo dell’amministrazione della giustizia, l’interessato deve presentare la propria richiesta direttamente al Ministero della giustizia.
L’art. 296 prevede che lo Stato risponda dei danni prodotti da giudici e magistrati per dolo o colpa grave. In tal caso lo Stato può ripetere quanto pagato a titolo di indennizzo al danneggiato mediante un’azione di rivalsa nei confronti del giudice che ha causato il danno.
«Parità di trattamento - Retribuzione dei professori universitari - Discriminazione indiretta - Indennità di anzianità - Responsabilità di uno Stato membro per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili - Violazioni imputabili a un organo giurisdizionale nazionale»
Nel procedimento C-224/01,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, a norma dell'art. 234 CE, dal Landesgericht für Zivilrechtssachen Wien (Austria) nella causa dinanzi ad esso pendente tra
Gerhard Köbler
e
Repubblica d'Austria,
domanda vertente sull'interpretazione, da un lato, dell'art. 48 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 39 CE) e, dall'altro, della giurisprudenza della Corte che risulta in particolare dalle sentenze 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame (Racc. pag. I-1029), e 17 settembre 1997, causa C-54/96, Dorsch Consult (Racc. pag. I-4961),
LA CORTE,
composta dal sig. G.C. Rodríguez Iglesias, presidente, dai sigg. J.-P. Puissochet, M. Wathelet, R. Schintgen e C.W.A. Timmermans (relatore), presidenti di sezione, dai sigg. C. Gulmann, D.A.O. Edward, A. La Pergola, P. Jann e V. Skouris, dalle sig.re F. Macken e N. Colneric, dai sigg. S. von Bahr, J.N. Cunha Rodrigues e A. Rosas, giudici,
avvocato generale: sig. P. Léger
cancelliere: sig. H.A. Rühl, amministratore principale
viste le osservazioni scritte presentate:
- per il sig. Köbler, dal sig. A. König, Rechtsanwalt;
- per la repubblica austriaca, dal sig. M. Windisch, in qualità di agente;
- per il governo austriaco, dal sig. H. Dossi, in qualità di agente;
- per il governo tedesco, dai sigg. A. Dittrich e W.-D. Plessing, in qualità di agenti;
- per il governo francese, dai sigg. R. Abraham e G. de Bergues nonché dalla sig.ra C. Isidoro, in qualità di agenti;
- per il governo dei Paesi Bassi, dalla sig.ra H.G. Sevenster, in qualità di agente;
- per il governo del Regno Unito, dal sig. J.E. Collins, in qualità di agente, assistito dai sigg. D. Anderson, QC, e M. Hoskins, barrister;
- per la Commissione delle Comunità europee, dai sigg. J. Sack e H. Kreppel, in qualità di agenti,
vista la relazione d'udienza,
sentite le osservazioni orali del sig. Köbler, rappresentato dall'avv. A. König, del governo austriaco, rappresentato dal sig. E. Riedl, in qualità di agente, del governo tedesco, rappresentato dal sig. A. Dittrich, del governo francese, rappresentato dal sig. R. Abraham, del governo dei Paesi Bassi, rappresentato dalla sig.ra H.G. Sevenster, del governo del Regno Unito, rappresentato dal sig. J.E. Collins, assistito dai sigg. D. Anderson e M. Hoskins, nonché della Commissione, rappresentata dai sigg. J. Sack e H. Kreppel, all'udienza dell'8 ottobre 2002,
sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza dell'8 aprile 2003,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1.
Con ordinanza 7 maggio 2001, pervenuta alla Corte il 6 giugno seguente, il Landesgericht für Zivilrechtssachen Wien (Tribunale civile di Vienna) ha proposto, ai sensi dell'art. 234 CE, cinque questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione, da un lato, dell'art. 48 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 39 CE) e, dall'altro, della giurisprudenza della Corte che risulta in particolare dalle sentenze 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame (Racc. pag. I-1029), e 17 settembre 1997, causa C-54/96, Dorsch Consult (Racc. pag. I-4961).
2.
Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di un'azione per responsabilità avviata dal sig. Köbler contro la Repubblica d'Austria per violazione di una disposizione del diritto comunitario da parte di una sentenza del Verwaltungsgerichtshof, giudice supremo amministrativo.
Ambito normativo
3.
L'art. 48, n. 3, del Gehaltsgesetz 1956 (legge sulle retribuzioni del 1956, BGBl. 1956/54), come modificato nel 1997 (BGBl. I, 1997/109; in prosieguo: il «GG») prevede:
«In quanto sia necessario per assicurarsi i servizi di uno studioso o di un artista nazionale o straniero, il presidente federale può concedere, all'atto della nomina a un posto di Universitätsprofessor (professore universitario) [art. 21 del Bundesgesetz über die Organisation der Universitäten (legge federale sull'organizzazione delle università), BGBl. 1993/805, “UOG 1993”] o a un posto di Ordentlichen Universitäts(Hochschul)professor (professore universitario ordinario), una retribuzione di base superiore a quella prevista dall'art. 48, n. 2».
4.
L'art. 50 bis, n. 1, del GG è così formulato:
«Un Universitätsprofessor (art. 21 dell'UOG 1993) o un Ordentlichen Universitäts(Hochschul)professor, il quale possa far valere un'anzianità di servizio di quindici anni in questo impiego maturata nell'ambito delle università austriache o degli istituti d'insegnamento superiore austriaci e che abbia beneficiato per quattro anni dell'indennità di anzianità di servizio prevista dall'art. 50, n. 4, può aver diritto, a decorrere dalla data in cui entrambe queste condizioni sono soddisfatte, a un'indennità speciale di anzianità di servizio che viene presa in conto nel calcolo della pensione di quiescenza, il cui importo corrisponde a quello dell'indennità di anzianità di servizio prevista dall'art. 50, n. 4».
Causa principale
5.
Dal 1° marzo 1986 il sig. Köbler è legato allo Stato austriaco da un contratto di diritto pubblico in qualità di professore universitario di ruolo a Innsbruck (Austria). All'atto della sua nomina gli è stata attribuita la retribuzione di professore universitario di ruolo al decimo scatto, maggiorata dell'indennità normale di anzianità.
6.
Con lettera 28 febbraio 1996 il sig. Köbler ha chiesto l'attribuzione dell'indennità speciale di anzianità di servizio prevista per i professori universitari, ai sensi dell'art. 50 bis del GG. Egli ha sostenuto che, anche se non poteva far valere quindici anni di anzianità di servizio in qualità di professore nelle università austriache, avrebbe posseduto per contro l'anzianità di servizio richiesta se la durata del suo servizio nelle università di altri Stati membri della Comunità fosse stata presa in considerazione. Egli ha affermato che la condizione di un'anzianità di servizio di quindici anni maturata unicamente in università austriache - senza che si tenesse conto di quella maturata in università di altri Stati membri - costituiva, a decorrere dall'adesione della Repubblica d'Austria alla Comunità, una discriminazione indiretta ingiustificata in diritto comunitario.
7.
Nella controversia alla quale ha portato questa pretesa del sig. Köbler, il Verwaltungsgerichtshof (Austria) ha sottoposto alla Corte, con ordinanza 22 ottobre 1997, una domanda di pronuncia pregiudiziale registrata nella cancelleria della Corte con il n. C-382/97.
8.
Con lettera 11 marzo 1998 il cancelliere della Corte ha chiesto al Verwaltungsgerichtshof se ritenesse necessario mantenere la sua domanda di pronuncia pregiudiziale alla luce della sentenza 15 gennaio 1998, causa C-15/96, Schöning-Kougebetopoulou (Racc. pag. I-47).
9.
Con ordinanza 25 marzo 1998 il Verwaltungsgerichtshof ha invitato le parti nella controversia dinanzi ad esso pendente ad esprimersi sulla richiesta del cancelliere della Corte, osservando a titolo provvisorio che il punto di diritto che costituiva oggetto del procedimento pregiudiziale in questione era stato risolto a favore del sig. Köbler.
10.
Con ordinanza 24 giugno 1998 il Verwaltungsgerichtshof ha ritirato la sua domanda di pronuncia pregiudiziale e, con sentenza dello stesso giorno, ha respinto il ricorso del sig. Köbler, in quanto l'indennità speciale di anzianità di servizio costituiva un premio di fedeltà che giustificava obiettivamente una deroga alle disposizioni di diritto comunitario relative alla libera circolazione dei lavoratori.
11.
Nella sentenza 24 giugno 1998 si legge in particolare:
«(...) Il Verwaltungsgerichtshof, nella sua ordinanza 22 ottobre 1997 con cui è stata sollevata la questione pregiudiziale [nella causa C-382/97], ha ammesso che “l'indennità speciale di anzianità di servizio dei professori universitari di ruolo” non riveste il carattere né di un premio di fedeltà né di una gratifica, ma costituisce parte della retribuzione nell'ambito del sistema di avanzamento di carriera.
Questo punto di visto giuridico, formulato in maniera non vincolante nei confronti delle parti nel procedimento contenzioso amministrativo, viene abbandonato.
(...)
Questo indica che l'indennità speciale di anzianità di servizio ai sensi dell'art. 50 bis del Gehaltsgesetz del 1956 non rientra nella “determinazione del valore di mercato” che deve essere effettuata nell'ambito del procedimento di nomina, ma che occorre ritenere che essa abbia come fine di offrire agli studiosi che circolano in un mercato del lavoro molto mobile uno stimolo positivo a uno svolgimento della carriera nelle università austriache. Essa non può quindi essere un elemento costitutivo della retribuzione e, avendo natura di premio di fedeltà, presuppone una determinata durata della prestazione di servizio in qualità di professore universitario di ruolo presso università austriache. Questa definizione non si oppone fondamentalmente a che l'indennità speciale di anzianità di servizio sia concepita come un elemento della retribuzione mensile e a che questo premio di fedeltà abbia di conseguenza un carattere duraturo.
Poiché in Austria - per quanto riguarda il caso di specie - lo Stato federale è l'unico responsabile delle università, le disposizioni dell'art. 50 bis del Gehaltsgesetz del 1956 si applicano - contrariamente alla situazione che era alla base della sentenza [Schöning-Kougebetopoulou, cit.] - solo per un unico datore di lavoro. La presa in conto di periodi di servizio precedenti richiesta dal ricorrente rientra nell'ambito del “valore di mercato” nel corso delle trattative sulla nomina. La presa in conto di questi periodi di servizio precedenti ai fini dell'indennità speciale di anzianità di servizio non è prevista nemmeno per gli studiosi austriaci che riprendono l'insegnamento in Austria dopo aver svolto la loro attività all'estero e sarebbe incompatibile con l'intento di ricompensare una fedeltà di diversi anni verso un datore di lavoro, per il quale la Corte ha ammesso che giustifica una disposizione che viola di per sé il divieto di discriminazione.
Poiché l'asserito diritto, fatto valere nella fattispecie dal ricorrente, ad un'indennità speciale di anzianità di servizio ai sensi dell'art. 50 bis del Gehaltsgesetz del 1956 riguarda un premio di fedeltà previsto dalla legge e la Corte, per i motivi menzionati, ha ammesso che un tale sistema giustificava un regime che fosse in un certo qual modo incompatibile con il divieto di discriminazione, il ricorso basato sulla violazione di questo divieto di discriminazione dev'essere dichiarato infondato; esso andava quindi respinto (...)».
12.
Il sig. Köbler ha presentato un ricorso per risarcimento danni contro la Repubblica d'Austria dinanzi al giudice del rinvio, affinché fosse riparato il danno che egli avrebbe subito a causa del mancato versamento di un'indennità speciale di anzianità di servizio. Egli sostiene che la sentenza del Verwaltungsgerichtshof del 24 giugno 1998 ha violato disposizioni di diritto comunitario direttamente applicabili, così come interpretate dalla Corte nelle sentenze in cui ha dichiarato che un'indennità speciale di anzianità di servizio non costituisce un premio di fedeltà.
13.
La Repubblica d'Austria sostiene che la sentenza del Verwaltungsgerichtshof del 24 giugno 1998 non viola il diritto comunitario direttamente applicabile. Inoltre, a suo parere, la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado quale il Verwaltungsgerichtshof non può giustificare un obbligo di risarcimento a carico dello Stato.
Questioni pregiudiziali
14.
Il Landesgericht für Zivilrechtssachen Wien, ritenendo che nella causa dinanzi ad esso pendente l'interpretazione del diritto comunitario fosse incerta e che una tale interpretazione fosse necessaria per emettere la sua pronuncia, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se la giurisprudenza della Corte secondo cui per l'insorgere della responsabilità di uno Stato a causa di una violazione del diritto comunitario è indifferente quale organo di uno Stato membro debba rispondere di tale violazione (ad esempio, sentenza [Brasserie du pêcheur e Factortame, cit.]) sia applicabile anche nel caso in cui il comportamento asseritamente contrario al diritto comunitario sia costituito dalla sentenza di un organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro, come, nel caso di specie, il Verwaltungsgerichtshof.
2) In caso di soluzione affermativa della prima questione:
Se la giurisprudenza della Corte secondo cui spetta all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere liti vertenti sui diritti soggettivi scaturenti dall'ordinamento comunitario (ad esempio, sentenza [Dorsch Consult, cit.]) sia applicabile anche nel caso in cui il comportamento asseritamente contrario al diritto comunitario sia costituito dalla sentenza di un organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro, come, nel caso di specie, il Verwaltungsgerichtshof.
3) In caso di soluzione affermativa della seconda questione:
Se l'opinione giuridica formulata nella surriferita sentenza del Verwaltungsgerichtshof, secondo cui l'indennità speciale per anzianità di servizio consiste in una sorta di premio di fedeltà, sia incompatibile con una norma di diritto comunitario direttamente applicabile, in particolare con il divieto di discriminazione indiretta di cui all'art. 48 del Trattato CE e con la pertinente giurisprudenza costante pronunciata dalla Corte al riguardo.
4) In caso di soluzione affermativa della terza questione:
Se la norma di diritto comunitario direttamente applicabile che è stata violata faccia sorgere in capo al ricorrente nella causa principale un diritto soggettivo.
5) In caso di soluzione affermativa della quarta questione:
Se la Corte disponga, sulla base degli elementi contenuti nella domanda di pronuncia pregiudiziale, di tutte le informazioni per poter valutare essa stessa se il Verwaltungsgerichtshof abbia oltrepassato in maniera manifesta e rilevante, nella fattispecie descritta nella causa principale, il potere discrezionale di cui dispone, o se si rimetta al giudice austriaco del rinvio per la soluzione di tale questione».
Sulla prima e sulla seconda questione
15.
Con la prima e con la seconda questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede in sostanza se il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono ad essi imputabili si applichi anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado e se, in caso affermativo, spetti all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative a tale risarcimento.
Osservazioni presentate alla Corte
16.
Il sig. Köbler, i governi tedesco e dei Paesi Bassi nonché la Commissione ritengono che possa sussistere la responsabilità di uno Stato membro per violazione del diritto comunitario a causa di un illecito imputabile a un organo giurisdizionale. Tuttavia, questi governi unitamente alla Commissione ritengono che questa responsabilità debba essere limitata e assoggettata a diverse condizioni restrittive che si aggiungono a quelle già formulate nella citata sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame.
17.
A tale riguardo, i governi tedesco e dei Paesi Bassi fanno valere che sussisterebbe una «violazione sufficientemente caratterizzata» ai sensi di questa sentenza solo se una decisione giudiziaria violasse in maniera particolarmente grave e manifesta il diritto comunitario vigente. Secondo il governo tedesco, la violazione di una norma giuridica da parte di un organo giurisdizionale è particolarmente grave e manifesta solo allorché l'interpretazione o la mancata applicazione del diritto comunitario, da un lato, è obiettivamente indifendibile e, dall'altro, dev'essere considerata soggettivamente una violazione intenzionale. Criteri restrittivi di tal genere sarebbero giustificati al fine di tutelare sia il principio dell'autorità della cosa giudicata sia l'indipendenza del potere giudiziario. Per il resto, un regime restrittivo di responsabilità dello Stato per i danni causati da decisioni giurisdizionali erronee risponde, secondo il governo tedesco, a un principio generale comune ai diritti degli Stati membri ai sensi dell'art. 288 CE.
18.
Il governo tedesco e il governo dei Paesi Bassi sostengono che la responsabilità dello Stato membro dovrebbe rimanere limitata alle decisioni giurisdizionali non impugnabili, in particolare poiché l'art. 234 CE imporrebbe un obbligo di rinvio pregiudiziale solo ai giudici che devono emettere tali decisioni. Il governo dei Paesi Bassi ritiene che la responsabilità dello Stato debba poter sussistere solo nel caso di una violazione grave e manifesta di tale obbligo di rinvio.
19.
La Commissione fa valere che una limitazione della responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali esiste in tutti gli Stati membri ed è necessaria al fine di salvaguardare l'autorità della cosa giudicata delle decisioni finali nonché quindi la stabilità del diritto. Per tale motivo essa sostiene che una «violazione sufficientemente caratterizzata» del diritto comunitario sussiste solo allorché il giudice nazionale abusa manifestamente del suo potere o disconosce palesemente il senso e la portata del diritto comunitario. Nella fattispecie, l'illecito del Verwaltungsgerichtshof fatto valere sarebbe scusabile e tale carattere scusabile sarebbe uno dei criteri che consentono di concludere per l'assenza di una violazione sufficientemente caratterizzata del diritto (v. sentenza 4 luglio 2000, causa C-424/97, Haim, Racc. pag. I-5123, punto 43).
20.
Dal canto loro, la Repubblica d'Austria e il governo austriaco (in prosieguo, congiuntamente: la «Repubblica d'Austria»), nonché il governo francese e il governo del Regno Unito sostengono che non può sussistere la responsabilità di uno Stato membro per una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale. Essi fanno valere argomenti relativi all'autorità della cosa giudicata, al principio di certezza del diritto, all'indipendenza del potere giudiziario, alla collocazione del potere giudiziario nell'ordinamento giuridico comunitario nonché al confronto con i procedimenti dinanzi alla Corte di giustizia perché sia dichiarata la responsabilità della Comunità al sensi dell'art. 288 CE.
21.
La Repubblica d'Austria fa valere in particolare che il riesame della valutazione in diritto di un organo giurisdizionale di ultimo grado sarebbe incompatibile con la funzione di un tale giudice, poiché il fine delle sue decisioni sarebbe di chiudere definitivamente una controversia. Per il resto, dato che il Verwaltungsgerichtshof avrebbe esaminato dettagliatamente il diritto comunitario nella sua sentenza 24 giugno 1998, sarebbe compatibile con il diritto comunitario escludere un'altra possibilità di ricorso dinanzi a un giudice austriaco. Inoltre, la Repubblica d'Austria sostiene che le condizioni perché sussista la responsabilità di uno Stato membro non possono differire da quelle che si applicano alla responsabilità della Comunità in circostanze analoghe. Dato che l'art. 288, secondo comma, CE non potrebbe essere applicato a una violazione del diritto comunitario da parte della Corte, poiché essa in tal caso sarebbe chiamata a risolvere una questione relativa a un danno che avrebbe essa stessa causato, di modo che sarebbe al tempo stesso giudice a parte, nemmeno la responsabilità degli Stati membri potrebbe sussistere per un danno causato da un organo giurisdizionale di ultimo grado.
22.
Per il resto, la Repubblica d'Austria fa valere che l'art. 234 CE non ha per oggetto di conferire diritti ai singoli. Infatti, nell'ambito di un procedimento pregiudiziale pendente dinanzi alla Corte, le parti della causa principale non potrebbero né modificare le questioni pregiudiziali né farle dichiarare senza oggetto (v. sentenza 9 dicembre 1965, causa 44/65, Singer, Racc. pag. 1191). Inoltre, solo la violazione di una disposizione che ha per oggetto di conferire diritti ai singoli potrebbe, eventualmente, far sussistere la responsabilità dello Stato membro. Pertanto, quest'ultima non potrebbe sussistere per una violazione dell'art. 234 CE da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado.
23.
Il governo francese sostiene che il riconoscimento di un diritto a risarcimento a causa di un'applicazione asseritamente erronea del diritto comunitario in una decisione definitiva di un giudice nazionale sarebbe incompatibile con il principio del rispetto dell'autorità della cosa definitivamente giudicata, quale riconosciuto dalla Corte nella sua sentenza 1° giugno 1999, causa C-126/97, Eco Swiss (Racc. pag. I-3055). Questo governo fa valere in particolare che il principio dell'intangibilità della cosa definitivamente giudicata riveste un valore fondamentale nei sistemi giuridici basati sulla preminenza del diritto e sul rispetto delle decisioni giudiziarie. Ora, se la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario da parte di un organo giurisdizionale fosse riconosciuta, questa preminenza e questo rispetto verrebbero rimessi in discussione.
24.
Il governo del Regno Unito sostiene che, in via di principio e salvo eccezione collegata in particolare alla violazione di un diritto fondamentale tutelato dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), nessuna azione per responsabilità può essere avviata contro la Corona per decisioni giudiziarie. Esso aggiunge che il principio di tutela effettiva dei diritti conferiti dalle norme comunitarie, che sottintende il principio di responsabilità dello Stato, è lungi dall'essere assoluto e menziona a tale riguardo i termini di decadenza. Questo principio potrebbe giustificare un ricorso per risarcimento contro lo Stato solo in rari casi, per talune decisioni giudiziarie nazionali tassativamente definite. I benefici che derivano dal riconoscimento di un diritto a risarcimento danni a causa di una decisione giudiziaria erronea sarebbero di conseguenza limitati. Il governo del Regno Unito ritiene che occorra bilanciare questi benefici e talune preoccupazioni molto rilevanti.
25.
A tale riguardo esso fa valere, in primo luogo, i principi di certezza del diritto e di autorità della cosa giudicata. La legge scoraggerebbe il fatto di rimettere in discussione decisioni giudiziarie, tranne che per la via dell'appello. Si tratterebbe di tutelare la parte vittoriosa e di rafforzare l'interesse generale alla certezza del diritto. In passato, la Corte si sarebbe mostrata disposta a limitare la portata del principio di tutela effettiva al fine di preservare i «principi che stanno alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali il principio della certezza del diritto e quello del rispetto della cosa giudicata che ne costituisce l'espressione» (sentenza Eco Swiss, cit., punti 43-48). Il riconoscimento della responsabilità dello Stato per un illecito del potere giudiziario creerebbe un rischio di confusione giuridica e lascerebbe le parti in causa nell'incertezza circa la loro situazione.
26.
In secondo luogo, il governo del Regno Unito fa valere che l'autorità e la reputazione del potere giudiziario sarebbero indebolite se un errore giudiziario potesse, nel futuro, sfociare in un'azione per risarcimento. In terzo luogo, esso sostiene che l'indipendenza del potere giudiziario costituisce nell'ordinamento costituzionale di tutti gli Stati membri un principio fondamentale, che non potrebbe tuttavia mai essere considerato acquisito. L'accettazione di una responsabilità dello Stato per atti giurisdizionali sarebbe tale da far sorgere il rischio di rimettere in discussione questa indipendenza.
27.
In quarto luogo, accordare ai giudici nazionali la competenza di decidere essi stessi in cause in cui si applica il diritto comunitario comporterebbe di accettare che questi giudici commettano talvolta errori contro i quali non è possibile ricorrere o che non è possibile correggere diversamente. Questo inconveniente sarebbe stato sempre considerato accettabile. A tale riguardo il governo del Regno Unito rileva che, nel caso in cui potesse sussistere la responsabilità dello Stato per un illecito del potere giudiziario, di modo che la Corte potesse essere indotta a pronunciarsi su una questione pregiudiziale vertente su tale punto, la Corte avrebbe non solo il potere di pronunciarsi sull'esattezza delle decisioni degli organi giurisdizionali supremi nazionali, ma anche quello di valutare il carattere serio e scusabile degli errori che questi potrebbero aver commesso. E' evidente che le conseguenze di tale situazione sui rapporti, d'importanza vitale, tra la Corte e i giudici nazionali non sarebbero benefiche.
28.
In quinto luogo, il governo del Regno Unito fa valere che potrebbe essere difficile determinare il giudice competente a giudicare una tale causa di responsabilità dello Stato, più in particolare nel Regno Unito in considerazione sia del suo sistema giurisdizionale unitario sia dell'applicazione restrittiva del principio «stare decisis». In sesto luogo, esso sostiene che, se può sussistere la responsabilità dello Stato per un illecito del potere giudiziario, allora deve poter sussistere allo stesso modo e alle stesse condizioni la responsabilità della Comunità per gli illeciti dei giudici comunitari.
29.
Per quanto riguarda in particolare la seconda questione pregiudiziale, il sig. Köbler nonché i governi austriaco e tedesco fanno valore che spetta all'ordinamento giuridico di ogni Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie vertenti su diritti soggettivi derivati dal diritto comunitario. Tale questione dovrebbe quindi essere risolta affermativamente.
Giudizio della Corte
Sul principio della responsabilità dello Stato
30.
Occorre ricordare innanzi tutto che la Corte ha già dichiarato che il principio della responsabilità di uno Stato membro per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90, C-9/90, Francovich e a., Racc. pag. I-5357, punto 35; Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 31; 26 marzo 1996, causa C-392/93, British Telecommunications, Racc. pag. I-1631, punto 38; 23 maggio 1996, causa C-5/94, Hedley Lomas, Racc. pag. I-2553, punto 24; 8 ottobre 1996, cause riunite C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer e a., Racc. pag. I-4845, punto 20; 2 aprile 1998, causa C-127/95, Norbrook Laboratories, Racc. pag. I-1531, punto 106, e Haim, cit., punto 26).
31.
La Corte ha anche dichiarato che questo principio ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l'organo di quest'ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione (sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 32; 1° giugno 1999, causa C-302/97, Konle, Racc. pag. I-3099, punto 62, e Haim, cit., punto 27).
32.
Se nell'ordinamento giuridico internazionale lo Stato la cui responsabilità sorgerebbe in caso di violazione di un impegno internazionale viene considerato nella sua unità, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo, tale principio deve valere a maggior ragione nell'ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell'espletamento dei loro compiti, all'osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli (sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 34).
33.
In considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro.
34.
Occorre sottolineare a tale riguardo che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce per definizione l'ultima istanza dinanzi alla quale i singoli possono far valere i diritti ad essi riconosciuti dal diritto comunitario. Poiché normalmente non può più costituire oggetto di riparazione una violazione di questi diritti in una decisione di un tale organo giurisdizionale che è divenuta definitiva, i singoli non possono essere privati della possibilità di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei loro diritti.
35.
Del resto, in particolare, al fine di evitare che siano violati diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario, l'art. 234, terzo comma, CE prevede che un giudice avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è tenuto a rivolgersi alla Corte.
36.
Pertanto, dalle esigenze relative alla tutela dei diritti dei singoli che fanno valere il diritto comunitario deriva che essi devono avere la possibilità di ottenere dinanzi ai giudici nazionali la riparazione del danno originato dalla violazione di questi diritti in seguito a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado (v., in tal senso, sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 35).
37.
Taluni dei governi che hanno presentato osservazioni nell'ambito del presente procedimento hanno fatto valere che il principio della responsabilità dello Stato per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario non poteva essere applicato alle decisioni di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado. A tal fine essi hanno dedotto argomenti relativi, in particolare, al principio di certezza del diritto, più in particolare all'autorità della cosa definitivamente giudicata, all'indipendenza e all'autorità del giudice nonché all'assenza di un giudice competente a statuire sulle controversie relative alla responsabilità dello Stato per tali decisioni.
38.
A tale riguardo occorre rilevare che l'importanza del principio dell'autorità della cosa definitivamente giudicata non può essere contestata (v. sentenza Eco Swiss, cit., punto 46). Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l'esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione.
39.
Occorre considerare tuttavia che il riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado non ha di per sé come conseguenza di rimettere in discussione l'autorità della cosa definitivamente giudicata di una tale decisione. Un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l'autorità della cosa definitivamente giudicata. Infatti, il ricorrente in un'azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo, la condanna di quest'ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia rimessa in discussione l'autorità della cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale che ha causato il danno. In ogni caso, il principio della responsabilità dello Stato inerente all'ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno.
40.
Ne deriva che il principio dell'autorità della cosa definitivamente giudicata non si oppone al riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado.
41.
Non possono essere accolti nemmeno gli argomenti basati sul'indipendenza e sull'autorità del giudice.
42.
Per quanto riguarda l'indipendenza del giudice, occorre precisare che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora, non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi particolari di rimettere in discussione l'indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado.
43.
Per quanto riguarda l'argomento relativo al rischio che l'autorità di un giudice di ultimo grado sia pregiudicata dal fatto che le sue decisioni divenute definitive possano essere rimesse in discussione implicitamente mediante un procedimento che consente di far dichiarare la responsabilità dello Stato a causa di tali decisioni, occorre constatare che l'esistenza di un rimedio giuridico che consenta, a talune condizioni, la riparazione degli effetti dannosi di una decisione giurisdizionale erronea potrebbe senz'altro essere considerata nel senso che corrobora la qualità di un ordinamento giuridico e quindi in definitiva anche l'autorità del potere giurisdizionale.
44.
Diversi governi hanno anche sostenuto che costituiva un ostacolo all'applicazione del principio della responsabilità dello Stato alle decisioni di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado la difficoltà di designare un giudice competente a statuire su controversie relative al risarcimento dei danni derivanti da tali decisioni.
45.
A tale riguardo occorre considerare che, dato che, per motivi collegati essenzialmente alla necessità di assicurare ai singoli la tutela dei diritti ad essi riconosciuti dalle norme comunitarie, il principio della responsabilità dello Stato che è inerente all'ordinamento giuridico comunitario dev'essere applicato nei confronti delle decisioni di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, spetta agli Stati membri consentire agli interessati di far valere questo principio mettendo a loro disposizione un rimedio giuridico adeguato. L'attuazione del detto principio non può essere compromessa dall'assenza di un foro competente.
46.
Secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v. sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, Racc. pag. 1989, punto 5; 45/76, Comet, Racc. pag. 2043, punto 13; 27 febbraio 1980, causa 68/79, Just, Racc. pag. 501, punto 25, Francovich e a., cit., punto 42, e 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12).
47.
Fermo restando che gli Stati membri devono assicurare, in ogni caso, una tutela effettiva dei diritti soggettivi derivati dall'ordinamento giuridico comunitario, non spetta alla Corte intervenire nella soluzione dei problemi di competenza che può sollevare, nell'ambito dell'ordinamento giudiziario nazionale, la definizione di determinate situazioni giuridiche fondate sul diritto comunitario (sentenze 18 gennaio 1996, causa C-446/93, SEIM, Racc. pag. I-73, punto 32, e Dorsch Consult, cit., punto 40).
48.
Occorre ancora aggiungere che, se considerazioni collegate al rispetto del principio dell'autorità della cosa definitivamente giudicata o dell'indipendenza dei giudici possono avere ispirato ai sistemi giuridici nazionali restrizioni, talvolta severe, alla possibilità di far dichiarare la responsabilità dello Stato per danni causati da decisioni giurisdizionali erronee, considerazioni di tale tipo non sono state tali da escludere in maniera assoluta questa possibilità. Infatti, l'applicazione del principio della responsabilità dello Stato alle decisioni giurisdizionali è stata ammessa anche se sotto forme diverse dalla maggior parte degli Stati membri, come l'avvocato generale ha rilevato ai paragrafi 77-82 delle sue conclusioni, anche se solo a condizioni restrittive ed eterogenee.
49.
Si può ancora rilevare che, nello stesso senso, la CEDU, e più in particolare il suo art. 41, consente alla Corte europea dei diritti dell'uomo di condannare uno Stato che ha violato un diritto fondamentale a compensare i danni che sono derivati da questo comportamento per la parte lesa. Dalla giurisprudenza della detta Corte deriva che una tale compensazione può essere concessa anche allorché la violazione deriva dal contenuto di una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado (v. sentenza Cour eur. D. H. 21 marzo 2000, Dulaurans/Francia, non ancora pubblicata).
50.
Da quanto precede deriva che il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Spetta all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative a tale risarcimento.
Sulle condizioni della responsabilità dello Stato
51.
Per quanto riguarda le condizioni nelle quali uno Stato membro è tenuto a risarcire i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili, emerge dalla giurisprudenza della Corte che esse sono tre, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione grave e manifesta e che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (sentenza Haim, cit., punto 36).
52.
La responsabilità dello Stato per danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che viola una norma di diritto comunitario è disciplinata dalle stesse condizioni.
53.
Per quanto riguarda più in particolare la seconda di queste condizioni e la sua applicazione al fine di stabilire un'eventuale responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto come hanno fatto valere anche gli Stati membri che hanno presentato osservazioni in questo procedimento. La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario in una tale decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente.
54.
Al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato.
55.
Fra tali elementi compaiono in particolare il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l'inescusabilità dell'errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
56.
In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia (v., in tal senso, sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 57).
57.
Le tre condizioni richiamate al punto 51 della presente sentenza sono necessarie e sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, senza tuttavia escludere che la responsabilità dello Stato possa essere accertata a condizioni meno restrittive sulla base del diritto nazionale (v. sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 66).
58.
Con riserva del diritto al risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario nel caso in cui queste condizioni siano soddisfatte, è nell'ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (sentenze Francovich e a., cit., punti 41-43, e Norbrook Laboratories, cit., punto 111).
59.
Da tutto quanto precede risulta che occorre risolvere le prime due questioni nel senso che il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a risarcire i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili è applicabile anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese. Al fine di determinare se la violazione sia sufficientemente caratterizzata allorché deriva da una tale decisione, il giudice nazionale competente deve, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, accertare se tale violazione presenti un carattere manifesto. Spetta all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative al detto risarcimento.
Sulla terza questione
60.
Occorre ricordare in via preliminare che, secondo una costante giurisprudenza, la Corte, nell'ambito dell'applicazione dell'art. 234 CE, non è competente a statuire sulla compatibilità di una norma nazionale con il diritto comunitario. La Corte può tuttavia ricavare dal testo delle questioni formulate dal giudice nazionale, tenuto conto dei dati da questi esposti, gli elementi attinenti all'interpretazione del diritto comunitario onde consentire al detto giudice di risolvere il problema giuridico sottopostogli (v., in particolare, sentenza 3 marzo 1994, cause riunite C-332/92, C-333/92 e C-335/92, Eurico Italia e a., Racc. pag. I-711, punto 19).
61.
Con la terza questione il giudice del rinvio intende in sostanza accertare se gli artt. 48 del Trattato e 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità (GU L 257, pag. 2), debbano essere interpretati nel senso che si oppongono alla concessione, in condizioni quali quelle previste dall'art. 50 bis del GG, di un'indennità speciale di anzianità di servizio, la quale, secondo l'interpretazione data dal Verwaltungsgerichtshof nella sua sentenza del 24 giugno 1998, costituisce un premio di fedeltà.
Osservazioni presentate alla Corte
62.
Il sig. Köbler fa valere innanzi tutto che l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG non è un premio di fedeltà, ma un elemento ordinario della retribuzione, così come il Verwaltungsgerichtshof avrebbe ammesso in un primo tempo. Inoltre, fino alla sentenza del Verwaltungsgerichtshof del 24 giugno 1998, nessun giudice austriaco avrebbe ritenuto che la detta indennità costituisse un premio di fedeltà.
63.
Inoltre, anche nel caso in cui questa indennità fosse un premio di fedeltà e un tale premio potesse giustificare una discriminazione indiretta, il sig. Köbler sostiene che non esiste una giurisprudenza costante e certa della Corte a tale riguardo. Stando così le cose, il Verwaltungsgerichtshof, ritirando la sua domanda di pronuncia pregiudiziale e adottando la sua decisione da solo, avrebbe oltrepassato i suoi poteri, poiché l'interpretazione e la definizione delle nozioni di diritto comunitario rientrerebbero nella competenza esclusiva della Corte.
64.
Infine, il sig. Köbler fa valere che i criteri di concessione dell'indennità speciale di anzianità di servizio escludono che sia giustificata la discriminazione indiretta che essa opera nei suoi confronti. Questa indennità sarebbe dovuta indipendentemente dall'accertare in quale università austriaca il richiedente abbia svolto le sue funzioni e non sarebbe nemmeno richiesto che il richiedente abbia insegnato in maniera continuativa per quindici anni la stessa materia.
65.
Nel far presente che la Corte non può interpretare il diritto nazionale, la Repubblica d'Austria sostiene che occorre intendere la terza questione pregiudiziale nel senso che il giudice del rinvio intende ottenere un'interpretazione dell'art. 48 del Trattato. A tal riguardo essa afferma che la detta disposizione non si oppone a un sistema retributivo che consente di tener conto delle qualifiche acquisite presso altri datori di lavoro nazionali o stranieri da parte di un candidato a un impiego al fine della determinazione della sua retribuzione e che, inoltre, prevede un'indennità che può essere qualificata come premio di fedeltà, la cui concessione è collegata a una determinata durata del servizio presso lo stesso datore di lavoro.
66.
La Repubblica d'Austria fa presente che, tenuto conto del fatto che il sig. Köbler, in quanto professore universitario ordinario, si trova in un rapporto di impiego di diritto pubblico, il suo datore di lavoro è lo Stato austriaco. Pertanto, il professore che passa da un'università austriaca all'altra non cambierebbe datore di lavoro. La Repubblica d'Austria rileva che in Austria esistono anche università private. I professori che vi insegnano sarebbero dipendenti di questi organismi e non dello Stato, di modo che il loro rapporto di lavoro non sarebbe assoggettato alle disposizioni del GG.
67.
La Commissione fa valere dal canto suo che l'art. 50 bis del GG opera, in violazione dell'art. 48 del Trattato, una discriminazione tra i periodi di servizio compiuti nelle università austriache e quelli compiuti nelle università di altri Stati membri.
68.
Si deve constatare, secondo la Commissione, che il Verwaltungsgerichtshof ha ignorato nella sua valutazione finale la portata della citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou. Alla luce dei nuovi elementi d'interpretazione del diritto nazionale, la Commissione ritiene che tale giudice avrebbe dovuto mantenere la sua domanda di pronuncia pregiudiziale riformulandola. Infatti, la Corte non avrebbe mai dichiarato esplicitamente che un premio di fedeltà possa giustificare una disposizione discriminatoria nei confronti dei lavoratori di altri Stati membri.
69.
Per il resto, la Commissione fa valere che, anche se l'indennità speciale di anzianità di servizio di cui trattasi nella causa principale dev'essere considerata un premio di fedeltà, essa non potrebbe giustificare un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori. Essa ritiene che, in via di principio, il diritto comunitario non si oppone a che un datore di lavoro cerchi di trattenere i lavoratori qualificati concedendo aumenti di retribuzione o premi al suo personale in funzione della durata del servizio nell'impresa. Tuttavia, il «premio di fedeltà» di cui all'art. 50 bis del GG si distinguerebbe dai premi che producono i loro effetti unicamente nell'ambito dell'impresa, in quanto esso agirebbe al livello dello Stato membro interessato, ad esclusione degli altri Stati membri, e pregiudicherebbe pertanto direttamente la libera circolazione degli insegnanti. Inoltre, le università austriache sarebbero in concorrenza non solo con gli istituti degli altri Stati membri, ma anche tra di loro. Ora, la detta disposizione non produrrebbe effetti relativamente a questo secondo tipo di concorrenza.
Giudizio della Corte
70.
L'indennità speciale di anzianità di servizio concessa dallo Stato austriaco, in qualità di datore di lavoro, ai professori universitari in forza dell'art. 50 bis del GG procura un beneficio finanziario che si aggiunge alla retribuzione di base, il cui importo è già collegato all'anzianità di servizio. Un professore universitario riceve la detta indennità se ha svolto questa professione per almeno quindici anni presso un'università austriaca e se inoltre riceve da almeno quattro anni l'indennità normale di anzianità di servizio.
71.
Pertanto, l'art. 50 bis del GG esclude, per la concessione dell'indennità speciale di anzianità di servizio che esso prevede, qualsiasi possibilità di prendere in conto i periodi di attività che un professore universitario ha effettuato in uno Stato membro diverso dalla Repubblica d'Austria.
72.
Si deve constatare che un tale regime può ostacolare la libera circolazione dei lavoratori sotto un duplice aspetto.
73.
In primo luogo, questo regime opera a danno dei lavoratori migranti cittadini di Stati membri diversi dalla Repubblica d'Austria, in quanto a questi lavoratori viene rifiutato il riconoscimento di periodi di servizio che essi hanno compiuto in questi Stati in qualità di professori universitari, per il solo motivo che questi periodi non sono stati effettuati in un'università austriaca (v., in tal senso, relativamente a una disposizione greca analoga, sentenza 12 marzo 1998, causa C-187/96, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-1095, punti 20 e 21).
74.
In secondo luogo, questo rifiuto assoluto di riconoscere i periodi effettuati in qualità di professori universitari in uno Stato membro diverso dalla Repubblica d'Austria ostacola la libera circolazione dei lavoratori stabiliti in Austria, in quanto è tale da dissuadere questi ultimi dal lasciare il proprio paese per esercitare questa libertà. Infatti, al loro ritorno in Austria, i loro anni di esperienza in qualità di professori universitari in un altro Stato membro, quindi nell'esercizio di attività analoghe, non sarebbero presi in conto per l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG.
75.
Su queste considerazioni non incide la circostanza, fatta valere dalla Repubblica d'Austria, secondo cui la retribuzione dei professori universitari migranti, a causa della possibilità offerta dall'art. 48, n. 3, del GG di concedere loro una retribuzione di base più elevata al fine di incentivare l'assunzione di professori universitari stranieri, è spesso più vantaggiosa di quella che ricevono i professori universitari austriaci anche tenendo conto dell'indennità speciale di anzianità di servizio.
76.
Infatti, da un lato, l'art. 48, n. 3, del GG offre unicamente una semplice possibilità e non garantisce che il professore di un'università straniera riceverà all'atto della sua nomina in qualità di professore in un'università austriaca una retribuzione più elevata rispetto a quella dei professori universitari austriaci che hanno la stessa esperienza. Dall'altro, il complemento di retribuzione che l'art. 48, n. 3, del GG consente di offrire al momento dell'assunzione ha una natura completamente diversa rispetto all'indennità speciale di anzianità di servizio. Pertanto, la detta disposizione non impedisce che l'art. 50 bis del GG abbia per effetto una disparità di trattamento dei professori universitari migranti rispetto ai professori universitari austriaci e crea così un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori garantita dall'art. 48 del Trattato.
77.
Di conseguenza, una misura quale la concessione dell'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG può ostacolare la libera circolazione dei lavoratori, cosa che è, in via di principio, vietata dagli artt. 48 del Trattato e 7, n. 1, del regolamento n. 1612/68. Una tale misura potrebbe essere ammessa solo se perseguisse uno scopo legittimo compatibile con il Trattato e fosse giustificata da imperiosi motivi d'interesse pubblico. Anche in tale ipotesi, però, la sua applicazione dovrebbe essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non dovrebbe eccedere quanto necessario per farlo (v., in particolare, sentenze 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus, Racc. pag. I-1663, punto 32; 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 37, e 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman, Racc. pag. I-4921, punto 104).
78.
Nella sua sentenza 24 giugno 1998 il Verwaltungsgerichtshof ha dichiarato che l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG costituiva, secondo il diritto nazionale, un premio inteso a ricompensare la fedeltà dei professori universitari austriaci nei confronti del loro unico datore di lavoro, ossia lo Stato austriaco.
79.
Occorre quindi esaminare se il fatto che la detta indennità costituisca, secondo il diritto nazionale, un premio di fedeltà possa essere considerato, in diritto comunitario, nel senso che indica che essa è ispirata da motivi imperativi di pubblico interesse che possono giustificare l'ostacolo alla libera circolazione che questa indennità comporta.
80.
A tale riguardo occorre rilevare, in via preliminare, che la Corte non ha ancora avuto l'occasione di stabilire se un premio di fedeltà potesse giustificare un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori.
81.
Ai punti 27 della citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou, e 49 della sentenza 30 novembre 2000, causa C-195/98, Österreichischer Gewerkschaftsbund (Racc. pag. I-10497), la Corte ha respinto gli argomenti dedotti a tale riguardo, rispettivamente, dai governi tedesco e austriaco. Infatti, la Corte ha dichiarato che la normativa di cui era causa non poteva, in nessun caso, essere diretta a ricompensare la fedeltà di un lavoratore verso il suo datore di lavoro, poiché la maggiorazione di retribuzione che questo lavoratore riceveva per la sua anzianità di servizio era determinata dagli anni di servizio effettuati presso diversi datori di lavoro. Poiché nelle cause all'origine di queste sentenze la maggiorazione di retribuzione non costituiva un premio di fedeltà, non era necessario per la Corte esaminare se un tale premio potesse, di per sé, giustificare un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori.
82.
Nella fattispecie il Verwaltungsgerichtshof, nella sua sentenza 24 giugno 1998, ha dichiarato che l'indennità speciale di anzianità di servizio di cui all'art. 50 bis del GG ricompensa la fedeltà del lavoratore verso un solo datore di lavoro.
83.
Anche se non si può escludere che un obiettivo di favorire la fedeltà dei lavoratori ai loro datori di lavoro nell'ambito di una politica di ricerca o di insegnamento universitario costituisca un motivo imperativo di interesse pubblico, si deve constatare che, tenendo conto delle caratteristiche specifiche del provvedimento di cui trattasi nella causa principale, l'ostacolo che esso comporta non potrebbe essere giustificato in relazione a un tale obiettivo.
84.
Da un lato, benché tutti i professori universitari pubblici austriaci siano dipendenti di un unico datore di lavoro, ossia lo Stato austriaco, essi sono assegnati a diverse università. Ora, sul mercato del lavoro dei professori universitari, le diverse università austriache si trovano in concorrenza non solo con le università di altri Stati membri e quelle di paesi terzi, ma anche tra di loro. Per quanto riguarda questo secondo tipo di concorrenza, occorre constatare che il provvedimento di cui trattasi nella causa principale non è tale da favorire la fedeltà di un professore verso l'università austriaca dove esercita le sue funzioni.
85.
Dall'altro, se l'indennità speciale di anzianità di servizio mira a ricompensare la fedeltà dei lavoratori verso il loro datore di lavoro, essa ha anche come conseguenza di ricompensare i professori universitari austriaci che continuano ad esercitare la loro professione nel territorio austriaco. La detta indennità può quindi avere conseguenze sulla scelta operata da questi professori tra un impiego in un'università austriaca e un impiego nell'università di un altro Stato membro.
86.
Pertanto, l'indennità speciale di anzianità di cui trattasi nella causa principale non ha soltanto per effetto di compensare la fedeltà del lavoratore verso il suo datore di lavoro. Essa comporta anche una ripartizione del mercato del lavoro dei professori universitari nel territorio austriaco ed è incompatibile con il principio stesso della libera circolazione dei lavoratori.
87.
Da quanto precede risulta che una misura quale l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG comporta un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori che non può essere giustificato da un motivo imperativo di interesse pubblico.
88.
Pertanto, occorre risolvere la terza questione pregiudiziale dichiarando che gli artt. 48 del Trattato e 7, n. 1, del regolamento n. 1612/68 devono essere interpretati nel senso che si oppongono alla concessione, in condizioni quali quelle previste all'art. 50 bis del GG, di un'indennità speciale di anzianità di servizio che, secondo l'interpretazione data dal Verwaltungsgerichtshof nella sentenza 24 giugno 1998, costituisce un premio di fedeltà.
Sulla quarta e sulla quinta questione
89.
Con la quarta e con la quinta questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio intende accertare in sostanza se, nella fattispecie di cui alla causa principale, sussista la responsabilità dello Stato membro a causa di una violazione del diritto comunitario nella sentenza del Verwaltungsgerichtshof del 24 giugno 1998.
Osservazioni presentate alla Corte
90.
Per quanto riguarda la quarta questione il sig. Köbler, il governo tedesco e la Commissione fanno valere che l'art. 48 del Trattato è direttamente applicabile e fa sorgere per i singoli diritti soggettivi che le autorità e i giudici nazionali hanno l'obbligo di tutelare.
91.
La Repubblica d'Austria sostiene che occorre risolvere la quarta questione solo se la Corte non risolve le questioni precedenti nel senso che essa propone. Poiché la quarta questione sarebbe stata posta solo per il caso in cui venisse risolta affermativamente la terza questione, che essa ritiene irricevibile, la Repubblica d'Austria propone alla Corte di lasciare irresoluta tale quarta questione. Per il resto, essa fa valere che tale questione non è chiara, dato che l'ordinanza di rinvio non conterrebbe alcuna motivazione a tale riguardo.
92.
Per quanto riguarda la quinta questione, il sig. Köbler sostiene che essa debba essere risolta affermativamente, poiché la Corte disporrebbe di tutti gli elementi che le consentono di stabilire essa stessa se il Verwaltungsgerichtshof abbia oltrepassato in maniera manifesta e rilevante, nella fattispecie descritta nella causa principale, il potere discrezionale di cui dispone.
93.
La Repubblica d'Austria ritiene che spetti ai giudici nazionali applicare i criteri della responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario.
94.
Tuttavia, per il caso in cui la Corte risolvesse essa stessa la questione se sussista la responsabilità della Repubblica d'Austria, essa sostiene, in primo luogo, che l'art. 177 del Trattato CE (divenuto art. 234 CE) non ha per oggetto di conferire diritti ai singoli. Essa ritiene quindi che questa condizione della responsabilità non sia soddisfatta.
95.
In secondo luogo, sarebbe indiscutibile che i giudici nazionali, nell'ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, dispongono di un ampio potere discrezionale per determinare se debbano formulare o meno una domanda di pronuncia pregiudiziale. A tale riguardo, la Repubblica d'Austria sostiene che, in quanto la Corte aveva ritenuto, nella sua sentenza Schöning-Kougebetopoulou, citata, che i premi di fedeltà non fossero, per principio, incompatibili con le disposizioni relative alla libera circolazione dei lavoratori, il Verwaltungsgerichtshof è pervenuto giustamente alla conclusione secondo cui, nella controversia ad esso sottoposta, poteva risolvere esso stesso le questioni di diritto comunitario.
96.
In terzo luogo, nel caso in cui la Corte ammettesse che il Verwaltungsgerichtshof non ha rispettato il diritto comunitario nella sua sentenza 24 giugno 1998, il comportamento di questo giudice non potrebbe in ogni caso essere qualificato come violazione caratterizzata del detto diritto.
97.
In quarto luogo, la Repubblica d'Austria sostiene che il ritiro da parte del Verwaltungsgerichtshof della domanda di pronuncia pregiudiziale sottoposta alla Corte non può in alcun caso presentare un nesso di causalità con il danno fatto valere in concreto dal sig. Köbler. Un tale argomento si baserebbe infatti sulla supposizione del tutto inammissibile che una pronuncia in via pregiudiziale della Corte avrebbe, in caso di mantenimento della domanda, necessariamente confermato la tesi giuridica del sig. Köbler. In altri termini, esso implicherebbe che il danno costituito dal mancato pagamento dell'indennità speciale di anzianità di servizio per il periodo 1° gennaio 1995 - 28 febbraio 2001 non si sarebbe verificato se la domanda di pronuncia pregiudiziale fosse stata mantenuta e avesse dato luogo a una pronuncia della Corte. Ora, non sarebbe possibile basare gli argomenti di una parte nella causa principale stabilendo a priori quello che la Corte avrebbe deciso nell'ambito di un procedimento pregiudiziale né sarebbe ammissibile far valere un danno su tale base.
98.
Il governo tedesco sostiene, dal canto suo, che spetta al giudice nazionale competente determinare se le condizioni della responsabilità dello Stato membro siano soddisfatte.
99.
La Commissione ritiene che nella causa principale non sussista la responsabilità dello Stato membro. Infatti, benché, a suo parere, il Verwaltungsgerichtshof abbia, nella sentenza 24 giugno 1998, male interpretato la citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou, e abbia inoltre violato l'art. 48 del Trattato dichiarando che l'art. 50 bis del GG non era incompatibile con il diritto comunitario, questa violazione sarebbe in qualche modo scusabile.
Giudizio della Corte
100.
Emerge dalla giurisprudenza della Corte che l'applicazione dei criteri che consentono di stabilire la responsabilità degli Stati membri per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario deve, in linea di principio, essere operata dai giudici nazionali (sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 58), in conformità degli orientamenti forniti dalla Corte per procedere a tale applicazione (sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punti 55-57; British Telecommunications, cit., punto 411; 17 ottobre 1996, cause riunite C-283/94, C-291/94 e C-292/94, Denkavit e a., Racc. pag. I-5063, punto 49, e Konle, cit., punto 58).
101.
Tuttavia, nella presente causa, la Corte dispone di tutti gli elementi per stabilire se siano soddisfatte le condizioni necessarie perché sussista la responsabilità dello Stato membro.
Sulla norma giuridica violata, che deve conferire diritti ai singoli
102.
Le norme di diritto comunitario della cui violazione trattasi nella causa principale sono, come risulta dalla soluzione data alla terza questione, gli artt. 48 del Trattato e 7, n. 1, del regolamento n. 1612/68. Queste disposizioni precisano le conseguenze che derivano dal principio fondamentale della libera circolazione die lavoratori all'interno della Comunità vietando qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza tra i lavoratori degli Stati membri, in particolare per quanto riguarda la retribuzione.
103.
Non si può contestare che queste disposizioni abbiano per oggetto di conferire diritti ai singoli.
Sulla violazione sufficientemente caratterizzata
104.
In via preliminare, occorre ricordare lo svolgimento del procedimento che ha dato luogo alla sentenza del Verwaltungsgerichtshof del 24 giugno 1998.
105.
Nella controversia pendente dinanzi a quest'ultimo tra il sig. Köbler e il Bundesminister für Wissenschaft, Forschung und Kunst (Ministro federale per le Scienze, la Ricerca e le Arti) circa il rifiuto di quest'ultimo di concedere al sig. Köbler l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG, il detto giudice, con ordinanza 22 ottobre 1997 registrata nella cancelleria della Corte con il n. C-382/97, ha sottoposto alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione dell'art. 48 del Trattato e degli artt. 1-3 del regolamento n. 1612/68.
106.
Il Verwaltungsgerichtshof fa presente in particolare nella sua ordinanza che, per risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente, «è decisivo se sia incompatibile con il diritto comunitario quale risulta dall'art. 48 del Trattato (...) il fatto che il legislatore austriaco faccia dipendere da un periodo di servizio di quindici anni presso un'università austriaca l'“indennità speciale per anzianità di servizio per professori universitari ordinari”, la quale non ha né il carattere di un premio di fedeltà né quello di remunerazione, ma costituisce una parte della retribuzione nell'ambito del sistema di avanzamento».
107.
Occorre constatare innanzi tutto che da questa ordinanza di rinvio risulta senza alcuna ambiguità che il Verwaltungsgerichtshof riteneva allora che, in forza del diritto nazionale, l'indennità speciale di anzianità di servizio in questione non costituisse un premio di fedeltà.
108.
Inoltre, dalle osservazioni scritte del governo austriaco nella causa C-382/97 risulta che, al fine di dimostrare che l'art. 50 bis del GG non potesse violare il principio della libera circolazione dei lavoratori sancito dall'art. 48 del Trattato, tale governo ha sostenuto unicamente che l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista da questa disposizione costituiva un premio di fedeltà.
109.
Infine, occorre ricordare che la Corte aveva già dichiarato ai punti 22 e 23 della sua sentenza Schöning-Kougebetopoulou, citata, che una misura che fa dipendere la retribuzione di un lavoratore dalla sua anzianità ma esclude ogni possibilità di prendere in conto periodi di lavoro comparabili compiuti presso la pubblica amministrazione di un altro Stato membro può violare l'art. 48 del Trattato.
110.
Visto che, da un lato, la Corte aveva già dichiarato che una tale misura poteva violare questa disposizione del Trattato e che, dall'altro, la sola giustificazione fatta valere a tal riguardo dal governo austriaco non era pertinente alla luce dell'ordinanza di rinvio stessa, il cancelliere della Corte, con lettera 11 marzo 1998, ha trasmesso la citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou al Verwaltungsgerichtshof al fine di consentirgli di esaminare se disponesse degli elementi d'interpretazione del diritto comunitario necessari per risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente e gli ha chiesto se, alla luce di questa sentenza, ritenesse necessario mantenere la sua domanda di pronuncia pregiudiziale.
111.
Con ordinanza 25 marzo 1998 il Verwaltungsgerichtshof ha invitato le parti della causa dinanzi ad esso pendente a pronunciarsi sulla richiesta del cancelliere della Corte, osservando, in via provvisoria, che il punto di diritto che costituiva oggetto del procedimento pregiudiziale in questione era stato risolto a favore del sig. Köbler.
112.
Con ordinanza 24 giugno 1998 il Verwaltungsgerichtshof ha ritirato la sua domanda di pronuncia pregiudiziale ritenendo che il mantenimento di questa domanda fosse divenuto inutile per la soluzione della controversia. Esso ha indicato che la questione decisiva nella fattispecie era quella intesa ad accertare se l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG fosse o meno un premio di fedeltà e che tale questione doveva essere risolta nell'ambito del diritto nazionale.
113.
A tale riguardo il Verwaltungsgerichtshof, nella sua sentenza 24 giugno 1998, ha indicato che «[era] partito dal principio, nella sua ordinanza 22 ottobre 1997, (...) che l'“indennità speciale di anzianità dei professori di università titolari” non ha né il carattere di un premio di fedeltà né quello di una gratifica» e che «tale tesi giuridica, formulata in maniera non vincolante nei confronti delle parti nel procedimento contenzioso amministrativo, è abbandonata». Infatti, il Verwaltungsgerichtshof perviene in questa sentenza alla conclusione che la detta indennità costituisce senz'altro un premio di fedeltà.
114.
Da quanto precede deriva che, dopo che il cancelliere della Corte ha chiesto al Verwaltungsgerichtshof se mantenesse la sua domanda di pronuncia pregiudiziale, quest'ultimo ha modificato la qualificazione, in diritto nazionale, dell'indennità speciale di anzianità di servizio.
115.
In seguito a questa riqualificazione dell'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG, il Verwaltungsgerichtshof ha respinto il ricorso del sig. Köbler. Infatti, nella sua sentenza 24 giugno 1998 ha dedotto dalla citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou che questa indennità, poiché doveva essere qualificata come premio di fedeltà, poteva essere giustificata anche se era di per sé incompatibile con il divieto di discriminazione sancito dall'art. 48 del Trattato.
116.
Ora, come risulta dai punti 80 e 81 della presente sentenza, la Corte, nella citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou, non si è espressa sulla questione se e a quali condizioni potesse essere giustificato l'ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori che un premio di fedeltà comporta. Le considerazioni che il Verwaltungsgerichtshof ha dedotto dalla detta sentenza si basano quindi su un'erronea interpretazione di quest'ultima.
117.
Pertanto, visto che, da un lato, il Verwaltungsgerichtshof ha modificato la sua interpretazione del diritto nazionale qualificando la misura prevista all'art. 50 bis del GG come premio di fedeltà, dopo che la sentenza Schöning-Kougebetopoulou, citata, gli era stata inviata, e visto che, dall'altro, la Corte non aveva ancora avuto l'occasione di pronunciarsi circa la questione se potesse essere giustificato l'ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori che un premio di fedeltà comporta, il Verwaltungsgerichtshof avrebbe dovuto mantenere la sua domanda di pronuncia pregiudiziale.
118.
Infatti, questo giudice non poteva ritenere che la soluzione del punto di diritto in questione risultasse da una giurisprudenza consolidata della Corte o che non lasciasse adito ad alcun ragionevole dubbio (v. sentenza 6 ottobre 1982, causa 283/81, CILFIT e a., Racc. pag. 3415, punti 14 e 16). Pertanto, esso era obbligato, in forza dell'art. 177, terzo comma, del Trattato, a mantenere la sua domanda di pronuncia pregiudiziale.
119.
Inoltre, come risulta dalla soluzione della terza questione, una misura quale l'indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall'art. 50 bis del GG, anche se può essere qualificata come premio di fedeltà, comporta un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori incompatibile con il diritto comunitario. Pertanto, il Verwaltungsgerichtshof ha violato il diritto comunitario con la sua sentenza del 24 giugno 1998.
120.
Occorre quindi esaminare se questa violazione del diritto comunitario rivesta un carattere manifesto tenuto conto in particolare degli elementi da prendere in considerazione a tal fine in conformità alle indicazioni che figurano ai punti 55 e 56 della presente sentenza.
121.
A tale riguardo occorre considerare, in primo luogo, che la violazione delle norme comunitarie che costituiscono oggetto della soluzione della terza questione non può di per sé ricevere una tale qualificazione.
122.
Infatti, il diritto comunitario non disciplina esplicitamente il punto se una misura intesa a favorire la fedeltà di un lavoratore verso il suo datore di lavoro, quale un premio di fedeltà, che comporta un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori, possa essere giustificata e quindi essere compatibile con il diritto comunitario. La detta questione non trovava una soluzione nemmeno nella giurisprudenza della Corte. Inoltre, tale soluzione non era ovvia.
123.
In secondo luogo, il fatto che il giudice nazionale di cui trattasi avrebbe dovuto, come è stato constatato al punto 118 della presente sentenza, mantenere la sua domanda di pronuncia pregiudiziale non è tale da inficiare detta conclusione. Infatti, nella fattispecie, il Verwaltungsgerichtshof aveva deciso di ritirare la domanda di pronuncia pregiudiziale ritenendo che la soluzione della questione di diritto comunitario da risolvere nella fattispecie fosse già data dalla citata sentenza Schöning-Kougebetopoulou. E' quindi a causa della sua erronea interpretazione di questa sentenza che il Verwaltungsgerichtshof non ha più ritenuto necessario sottoporre alla Corte tale questione d'interpretazione.
124.
In tale contesto e in considerazione delle circostanze del caso di specie, non occorre considerare la violazione constatata al punto 119 della presente sentenza nel senso che ha carattere manifesto e quindi è sufficientemente caratterizzata.
125.
Si deve aggiungere che questa soluzione non pregiudica gli obblighi derivanti, per lo Stato membro interessato, dalla soluzione data dalla Corte alla terza questione pregiudiziale.
126.
Occorre quindi risolvere la quarta e la quinta questione nel senso che una violazione del diritto comunitario quale quella derivante, nelle circostanze della fattispecie di cui alla causa principale, dalla sentenza del Verwaltungsgerichtshof del 24 giugno 1998 non ha il carattere manifesto richiesto affinché sussista, in forza del diritto comunitario, la responsabilità di uno Stato membro a causa di una decisione di uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado.
Sulle spese
127.
Le spese sostenute dai governi austriaco, francese, tedesco, dei Paesi Bassi e del Regno Unito nonché dalla Commissione, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Per questi motivi,
LA CORTE,
pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Landesgericht für Zivilrechtssachen Wien con ordinanza 7 maggio 2001, dichiara:
1) Il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese. Al fine di determinare se la violazione sia sufficientemente caratterizzata allorché deriva da una tale decisione, il giudice nazionale competente deve, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, accertare se tale violazione presenti un carattere manifesto. Spetta all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative al detto risarcimento.
2) Gli artt. 48 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 39 CE) e 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, devono essere interpretati nel senso che si oppongono alla concessione, in condizioni quali quelle previste all'art. 50 bis del Gehaltsgesetz 1956 (legge sulle retribuzioni del 1956), come modificato nel 1997, di un'indennità speciale di anzianità di servizio che, secondo l'interpretazione data dal Verwaltungsgerichtshof (Austria) nella sentenza 24 giugno 1998, costituisce un premio di fedeltà.
3) Una violazione del diritto comunitario quale quella derivante, nelle circostanze della fattispecie di cui alla causa principale, dalla sentenza 24 giugno 1998 del Verwaltungsgerichtshof non ha il carattere manifesto richiesto affinché sussista, in forza del diritto comunitario, la responsabilità di uno Stato membro a causa di una decisione di uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado.
Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 30 settembre 2003.
Intestazione
Nel procedimento C-173/03,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa
{Traghetti del Mediterraneo} SpA, in liquidazione,
contro
Repubblica italiana,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans (relatore), K. Schiemann e J. Makarczyk, presidenti di sezione, dal sig. J.N. Cunha Rodrigues, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. K. Lenaerts, P. K?ris, E. Juhász e U. Lõhmus, giudici,
avvocato generale: sig. P. Léger,
cancelliere: sig.ra M. Ferreira, amministratore principale,
vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 7 dicembre 2004,
considerate le osservazioni presentate:
- per la {Traghetti del Mediterraneo} Spa, in liquidazione, dagli avv.ti V. Roppo, P. Canepa e S. Sardano;
- per il governo italiano, dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dai sigg. G. Aiello e G. De Bellis, avvocati dello Stato;
- per il governo greco, dalle sig.re E. Samoni e Z. Chatzipavlou, nonché dai sigg. M. Apessos, K. Boskovits e K. Georgiadis, in qualità di agenti;
- per l'Irlanda, dal sig. D. O'Hagan, in qualità di agente, assistito dagli avv.ti P. Sreenan, SC, e P. McGarry, BL;
- per il governo dei Paesi Bassi, dalla sig.ra S. Terstal, in qualità di agente;
- per il governo del Regno Unito, dalla sig.ra R. Caudwell, in qualità di agente, assistita dai sigg. D. Anderson, QC, e M. Hoskins, barrister;
- per la Commissione delle Comunità europee, dalla sig.ra D. Maidani e dal sig. V. Di Bucci, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza dell'11 ottobre 2005,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sul principio e sulle condizioni per la sussistenza della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per i danni arrecati ai singoli da una violazione del diritto comunitario, allorquando tale violazione è imputabile a un organo giurisdizionale nazionale.
2 Tale domanda è stata proposta nell'ambito di una causa intentata contro la Repubblica italiana dalla {Traghetti del Mediterraneo} SpA, impresa di trasporti marittimi, attualmente in liquidazione (in prosieguo: la <TDM>), al fine di ottenere il risarcimento del danno che essa avrebbe subito a causa di un'erronea interpretazione, da parte della Corte suprema di cassazione, delle norme comunitarie relative alla concorrenza e agli aiuti di Stato e, in particolare, per il rifiuto opposto da quest'ultima alla sua richiesta di sottoporre alla Corte le pertinenti questioni di interpretazione del diritto comunitario.
Contesto normativo nazionale
3 Ai sensi dell'art. 1, n. 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 [sul] risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e [sulla] responsabilità civile dei magistrati (GURI n. 88 del 15 aprile 1988, pag. 3; in prosieguo: la <legge n. 117/88>), detta legge si applica <a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria>.
4 L'art. 2 della legge n. 117/88 prevede:
<1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
2. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione>.
5 Ai sensi dell'art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia <il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria>.
6 Gli articoli seguenti della legge n. 117/88 precisano le condizioni e le modalità per proporre un'azione di risarcimento del danno ai sensi degli artt. 2 o 3 di detta legge, così come le azioni che possono essere intraprese, a posteriori, nei confronti del magistrato che si sia reso colpevole di dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, se non addirittura di un diniego di giustizia.
I fatti all'origine della controversia nella causa principale e le questioni pregiudiziali
7 La TDM e la Tirrenia di Navigazione (in prosieguo: la <Tirrenia>) sono due imprese di trasporti marittimi che, negli anni '70, effettuavano regolari collegamenti marittimi tra l'Italia continentale e le isole della Sardegna e della Sicilia. Nel 1981, mentre era stata sottoposta alla procedura di concordato, la TDM citava la Tirrenia in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli al fine di ottenere il risarcimento del pregiudizio che essa avrebbe subito, negli anni precedenti, a causa della politica di prezzi bassi praticata da quest'ultima.
8 La TDM invocava, a tal riguardo, tanto la violazione, da parte della sua concorrente, dell'art. 2598, n. 3, del codice civile italiano, relativo agli atti di concorrenza sleale, quanto la violazione degli artt. 85, 86, 90 e 92 del Trattato CEE (divenuti, rispettivamente, artt. 85, 86, 90 e 92 del Trattato CE, a loro volta diventati artt. 81 CE, 82 CE, 86 CE, e, in seguito a modifica, 87 CE) per il fatto che, a suo parere, la Tirrenia aveva violato le norme fondamentali di tale Trattato, e in particolare aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato in questione, praticando tariffe notevolmente inferiori al prezzo di costo grazie al conseguimento di sovvenzioni pubbliche la cui legittimità sarebbe stata dubbia alla luce del diritto comunitario.
9 Con sentenza del Tribunale di Napoli 26 maggio 1993, confermata in appello dalla sentenza 13 dicembre 1996 della Corte d'appello di Napoli, tale domanda di risarcimento veniva tuttavia respinta dai giudici italiani, poiché le sovvenzioni concesse dalle autorità di tale Stato erano legittime in quanto perseguivano obiettivi di interesse generale connessi, in particolare, allo sviluppo del Mezzogiorno ed in quanto, in ogni caso, non recavano pregiudizio all'esercizio di attività di trasporto marittimo diverse e concorrenti rispetto a quelle censurate dalla TDM. Pertanto, nessun atto di concorrenza sleale poteva essere imputato alla Tirrenia.
10 Ritenendo, da parte sua, che queste due sentenze fossero viziate da errori di diritto, in quanto fondate, in particolare, su un'interpretazione erronea delle norme del Trattato in materia di aiuti di Stato, il curatore fallimentare della TDM proponeva contro la sentenza della Corte d'appello di Napoli un ricorso in cassazione, nell'ambito del quale invitava la Corte suprema di cassazione a sottoporre alla Corte, ai sensi dell'art. 177, terzo comma, del Trattato CE (divenuto articolo 234, terzo comma, CE), le pertinenti questioni d'interpretazione del diritto comunitario.
11 Con sentenza 19 aprile 2000, n. 5087 (in prosieguo: la <sentenza 19 aprile 2000>), la Corte suprema di cassazione tuttavia rifiutava di accogliere tale istanza poiché la soluzione adottata dai giudici di merito rispettava la lettera delle pertinenti disposizioni del Trattato ed era, per di più, perfettamente conforme alla giurisprudenza della Corte, in particolare alla sentenza 22 maggio 1985, causa 13/83, Parlamento/Consiglio (Racc. pag. 1513).
12 Per giungere a tale conclusione, la Corte suprema di cassazione rilevava, da un lato, riguardo alla presunta violazione degli artt. 90 e 92 del Trattato, che tali articoli permettono di derogare, a certe condizioni, al divieto generale degli aiuti di Stato al fine di favorire lo sviluppo economico di regioni svantaggiate o di soddisfare domande di beni e servizi che il gioco della libera concorrenza non permette di soddisfare pienamente. Orbene, secondo tale giudice, tali condizioni ricorrerebbero appunto nella fattispecie in quanto, nel corso del periodo contestato (cioè tra il 1976 e il 1980), i trasporti di massa tra l'Italia continentale e le sue isole maggiori potevano essere assicurati, attesi i loro costi, solo per via marittima, cosicché sarebbe stato necessario soddisfare la domanda, sempre più pressante, per tale tipo di servizi affidando la gestione di tali trasporti ad un concessionario pubblico che praticava una tariffa imposta.
13 Secondo lo stesso giudice, la distorsione della concorrenza che deriverebbe dall'esistenza di tale concessione non comporterebbe, tuttavia, l'illegittimità automatica dell'aiuto accordato. In effetti, l'attribuzione di una tale concessione di servizio pubblico comporterebbe sempre, implicitamente, un effetto distorsivo della concorrenza e la TDM non sarebbe riuscita a dimostrare che la Tirrenia avesse tratto vantaggio dall'aiuto accordato dallo Stato per realizzare utili connessi ad attività diverse da quelle per cui le sovvenzioni erano state effettivamente concesse.
14 Dall'altro lato, quanto al motivo relativo alla violazione degli artt. 85 e 86 del Trattato, la Corte suprema di cassazione lo ha respinto in quanto infondato poiché, all'epoca dei fatti della controversia, l'attività di cabotaggio marittimo non era ancora stata liberalizzata e poiché la natura ed il contesto territoriale limitati di tale attività non consentivano di individuare chiaramente il mercato rilevante ai sensi dell'art. 86 del Trattato. In siffatto contesto, tale giudice ha, tuttavia, rilevato che, se era difficile identificare detto mercato, una concorrenza reale poteva nondimeno esercitarsi nel settore interessato dal momento che l'aiuto concesso nella fattispecie riguardava solamente una delle attività tra quelle, numerose, tradizionalmente svolte da un'impresa di trasporto marittimo e che era per di più limitata ad un solo Stato membro.
15 In tali circostanze, la Corte suprema di cassazione ha, di conseguenza, respinto il ricorso per cui era stata adita, dopo aver rigettato anche le censure sollevate dalla TDM riguardo alla violazione delle disposizioni nazionali relative agli atti di concorrenza sleale e all'omissione da parte della Corte d'appello di Napoli di statuire sulla domanda della TDM diretta a sottoporre alla Corte le pertinenti questioni d'interpretazione. Precisamente tale decisione di rigetto è all'origine del procedimento pendente dinanzi al giudice del rinvio.
16 Infatti, ritenendo che la sentenza 19 aprile 2000 fosse fondata su un'errata interpretazione delle norme del Trattato in materia di concorrenza e di aiuti di Stato e sulla premessa erronea dell'esistenza di una giurisprudenza costante della Corte in materia, il curatore fallimentare della TDM, società nel frattempo messa in liquidazione, citava la Repubblica italiana dinanzi al Tribunale di Genova per ottenere la condanna di quest'ultima al risarcimento del danno che tale impresa avrebbe subito a causa degli errori di interpretazione commessi dalla Corte suprema di cassazione e a causa della violazione dell'obbligo di rinvio che graverebbe a carico di quest'ultimo organo giurisdizionale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
17 A tal riguardo, fondandosi, segnatamente, sulla decisione della Commissione 21 giugno 2001, 2001/851/CE, relativa agli aiuti di Stato corrisposti dall'Italia alla compagnia marittima Tirrenia di Navigazione (GU L 318, pag. 9) - decisione riguardante, sì, sovvenzioni concesse successivamente al periodo controverso nella causa principale, ma adottata al termine di un procedimento avviato dalla Commissione delle Comunità europee prima dell'udienza dibattimentale della Corte suprema di cassazione nella causa conclusasi con sentenza 19 aprile 2000 - la TDM sostiene che, se quest'ultimo giudice si fosse rivolto alla Corte, l'esito del ricorso in cassazione sarebbe stato completamente diverso. Al pari della Commissione, nella summenzionata decisione, la Corte avrebbe, infatti, rilevato la dimensione comunitaria delle attività di cabotaggio marittimo così come le difficoltà inerenti alla valutazione della compatibilità di sovvenzioni pubbliche con le norme del Trattato in materia di aiuti di Stato, il che avrebbe portato la Corte di cassazione a dichiarare illegittimi gli aiuti concessi alla Tirrenia.
18 La Repubblica italiana contesta la ricevibilità stessa di tale azione di risarcimento, basandosi sul tenore della legge n. 117/88, ed in particolare sul suo art. 2, n. 2, ai sensi del quale l'interpretazione di norme giuridiche effettuata nell'ambito dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali non potrebbe comportare la responsabilità dello Stato. Tuttavia, nel caso in cui la ricevibilità di tale ricorso dovesse essere ammessa dal giudice del rinvio, essa sostiene, in subordine, che il ricorso deve in ogni caso essere respinto poiché non ricorrerebbero i presupposti per un rinvio pregiudiziale e la sentenza 19 aprile 2000, passata in giudicato, non potrebbe più essere rimessa in discussione.
19 In risposta a tali argomentazioni, la TDM si interroga sulla compatibilità della legge n. 117/88 con le prescrizioni del diritto comunitario. Essa sostiene, in particolare, che le condizioni di ricevibilità delle azioni previste da tale legge e la prassi seguita in materia dagli organi giurisdizionali nazionali (tra cui la stessa Corte suprema di cassazione) sono talmente restrittive che rendono eccessivamente difficile, se non addirittura impossibile, il conseguimento di un risarcimento da parte dello Stato dei danni causati da provvedimenti giurisdizionali. Di conseguenza, una tale normativa sarebbe in contrasto con i principi sanciti dalla Corte, in particolare, nelle sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a. (Racc. pag. I-5357), e 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur et Factortame (Racc. pag. I-1029).
20 Pertanto, nutrendo dubbi quanto alla soluzione da dare alla controversia dinanzi ad esso pendente nonché quanto alla possibilità di estendere al potere giudiziario i principi sanciti dalla Corte, nelle sentenze citate al punto precedente, relative alle violazioni del diritto comunitario commesse nell'esercizio di un'attività legislativa, il Tribunale di Genova ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
<1) Se uno Stato [membro] risponda a titolo di responsabilità extracontrattuale nei confronti dei singoli cittadini degli errori dei propri giudici nell'applicazione del diritto comunitario o della mancata applicazione dello stesso e in particolare del mancato assolvimento da parte di un giudice di ultima istanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234, comma 3, del Trattato.
2) Nel caso in cui debba ritenersi che uno Stato membro risponda degli errori dei propri giudici nell'applicazione del diritto comunitario e in particolare dell'omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte di un giudice di ultima istanza ai sensi dell'art. 234, comma 3, del Trattato, se osti all'affermazione di tale responsabilità - e sia quindi incompatibile con i principi del diritto comunitario - una normativa nazionale in tema di responsabilità dello Stato per errori dei giudici che:
- esclude la responsabilità in relazione all'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell'ambito dell'attività giudiziaria,
- limita la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice>.
21 A seguito della pronuncia della sentenza 30 settembre 2003, causa C?224/01, Köbler (Racc. pag. I-10239), il cancelliere della Corte ha inviato copia di tale sentenza al giudice del rinvio chiedendogli se, alla luce del contenuto della sentenza, ritenesse utile mantenere la sua domanda pregiudiziale.
22 Con lettera 13 gennaio 2004, pervenuta alla cancelleria della Corte il 29 gennaio seguente, il Tribunale di Genova, sentite le parti della causa principale, ha ritenuto che la summenzionata sentenza Köbler fornisse una risposta esauriente alla prima delle due questioni da esso proposte, di modo che non è più necessario che la Corte si pronunci su di essa.
23 Esso ha, invece, ritenuto utile mantenere la sua seconda questione affinché la Corte si pronunci, <anche alla luce dei principi affermati (-) nella sentenza Köbler>, sulla questione se <osti all'affermazione della responsabilità dello stato per violazioni imputabili a un organo giurisdizionale nazionale una normativa nazionale in tema di responsabilità dello stato per errori del giudice che, come quella italiana, esclude la responsabilità in relazione all'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell'ambito dell'attività giudiziaria e limita la responsabilità dello stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice>.
Sulla questione pregiudiziale
24 In via preliminare, occorre rilevare che la causa pendente dinanzi al giudice del rinvio ha per oggetto un'azione diretta a far sorgere la responsabilità dello Stato per una decisione, non impugnabile, emessa da un organo giurisdizionale supremo. La questione proposta dal giudice del rinvio deve quindi essere intesa come vertente, in sostanza, sulla questione se il diritto comunitario e, in particolare, i principi sanciti dalla Corte nella summenzionata sentenza Köbler, ostino ad una normativa nazionale come quella di cui alla causa principale, che, da un lato, esclude ogni responsabilità dello Stato membro per i danni causati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado allorquando tale violazione risulta da un'interpretazione delle norme di diritto o da una valutazione dei fatti e delle prove ad opera di tale organo giurisdizionale e che, dall'altro lato, limita, peraltro, tale responsabilità ai soli casi del dolo e della colpa grave del giudice.
25 Per la TDM, come per la Commissione, tale questione richiede chiaramente una risposta affermativa. Infatti, dal momento che la valutazione dei fatti e delle prove nonché l'interpretazione delle norme di diritto sarebbero inerenti all'attività giurisdizionale, l'esclusione, in tali casi, della responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito dell'esercizio di tale attività equivarrebbe, in pratica, ad esonerare quest'ultimo da ogni responsabilità per violazioni del diritto comunitario imputabili al potere giudiziario.
26 Per quanto riguarda, peraltro, la limitazione di detta responsabilità ai soli casi del dolo o della colpa grave del giudice, anch'essa sarebbe di natura da condurre ad un'esenzione di fatto da ogni responsabilità dello Stato, poiché, da un lato, la nozione stessa di <colpa grave> non sarebbe lasciata alla libera valutazione del giudice chiamato a statuire su un'eventuale domanda di risarcimento dei danni causati da una decisione giurisdizionale, ma sarebbe rigorosamente delimitata dal legislatore nazionale, che enumererebbe preliminarmente - ed in modo tassativo - le ipotesi di colpa grave.
27 Secondo la TDM si desumerebbe, dall'altro lato, dall'esperienza acquisita in Italia nell'attuazione della legge n. 117/88 che gli organi giurisdizionali di detto Stato, in particolare, la Corte suprema di cassazione, darebbero una lettura estremamente restrittiva di tale legge, così come delle nozioni di <colpa grave> e di <negligenza inescusabile>. Questi nozioni sarebbero interpretate da tale ultimo organo giurisdizionale come una <violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma> o contenente una lettura di essa <in termini contrastanti con ogni criterio logico>, il che condurrebbe, in pratica, al rigetto quasi sistematico delle denunce presentate contro lo Stato italiano.
28 Al contrario, secondo il governo italiano, sostenuto, su tale punto, dall'Irlanda e dal governo del Regno Unito, una normativa nazionale come quella di cui alla causa principale sarebbe perfettamente conforme ai principi stessi del diritto comunitario dal momento che essa realizzerebbe un giusto equilibrio tra la necessità di preservare l'indipendenza del potere giudiziario e gli imperativi della certezza del diritto, da un lato, e la concessione di una tutela giurisdizionale effettiva ai singoli nei casi più evidenti di violazioni del diritto comunitario imputabili al potere giudiziario, dall'altro lato.
29 In tale ottica, ove dovesse essere riconosciuta, la responsabilità degli Stati membri per i danni risultanti da tali violazioni dovrebbe dunque essere limitata ai soli casi in cui si possa identificare una violazione sufficientemente grave del diritto comunitario. Tuttavia, essa non potrebbe sussistere qualora un organo giurisdizionale nazionale abbia deciso una controversia sulla base di un'interpretazione degli articoli del Trattato che si rispecchi adeguatamente nella motivazione fornita da tale organo giurisdizionale.
30 A tal riguardo, occorre ricordare che, nella summenzionata sentenza Köbler, pronunciata successivamente alla data in cui il giudice del rinvio s'è rivolto alla Corte, quest'ultima ha ricordato che il principio per il quale uno Stato membro è obbligato a risarcire i danni arrecati ai singoli per violazioni del diritto comunitario che gli sono imputabili ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario, qualunque sia l'organo di tale Stato la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione (v. punto 31 di detta sentenza).
31 Al riguardo, fondandosi in particolare sul ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che derivano ai singoli dalle norme comunitarie, nonché sulla circostanza che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce, per definizione, l'ultima istanza dinanzi alla quale essi possono far valere i diritti che il diritto comunitario conferisce loro, la Corte ne ha dedotto che la tutela di tali diritti sarebbe indebolita - e la piena efficacia delle norme comunitarie che conferiscono simili diritti sarebbe rimessa in questione - se fosse escluso che i singoli potessero ottenere, a talune condizioni, il risarcimento dei danni loro arrecati da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado (v. sentenza Köbler, cit., punti 33-36).
32 È vero che, considerate la specificità della funzione giurisdizionale nonché le legittime esigenze della certezza del diritto, la responsabilità dello Stato, in un caso del genere, non è illimitata. Come la Corte ha affermato, tale responsabilità può sussistere solo nel caso eccezionale in cui l'organo giurisdizionale che ha statuito in ultimo grado abbia violato in modo manifesto il diritto vigente. Al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve, a tal riguardo, tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE (sentenza Köbler, cit., punti 53-55).
33 Considerazioni analoghe, connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro, ostano, allo stesso modo, a che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall'interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale.
34 Da un lato, infatti, l'interpretazione delle norme di diritto rientra nell'essenza vera e propria dell'attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti - nazionali e/o comunitarie - al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta.
35 Dall'altro lato, non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell'esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia (v., a questo riguardo, la summenzionata sentenza Köbler, punto 56), o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.
36 Come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 52 delle sue conclusioni, escludere, in simili circostanze, ogni responsabilità dello Stato a causa del fatto che la violazione del diritto comunitario deriva da un'operazione di interpretazione delle norme giuridiche effettuata da un organo giurisdizionale equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio sancito dalla Corte nella citata sentenza Köbler. Tale constatazione vale, a maggior ragione, per gli organi giurisdizionali di ultimo grado, incaricati di assicurare a livello nazionale l'interpretazione uniforme delle norme giuridiche.
37 Si deve giungere ad analoga conclusione nel caso di una legislazione che escluda, in maniera generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove.
38 Da un lato, infatti, una simile valutazione costituisce, così come l'attività di interpretazione delle norme giuridiche, un altro aspetto essenziale dell'attività giurisdizionale poiché, indipendentemente dall'interpretazione effettuata dal giudice nazionale investito di una determinata causa, l'applicazione di dette norme al caso di specie spesso dipenderà dalla valutazione che egli avrà compiuto sui fatti del caso di specie così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti a tal fine dalle parti in causa.
39 Dall'altro lato, una tale valutazione - che richiede a volte analisi complesse - può condurre ugualmente, in certi casi, ad una manifesta violazione del diritto vigente, sia essa effettuata nell'ambito dell'applicazione di specifiche norme relative all'onere della prova, al valore di tali prove o all'ammissibilità dei mezzi di prova, ovvero nell'ambito dell'applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti.
40 Escludere, in tali casi, ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato poiché la violazione contestata al giudice nazionale riguarda la valutazione effettuata da quest'ultimo su fatti o prove equivarrebbe altresì a privare di effetto utile il principio sancito nella summenzionata sentenza Köbler, per quanto riguarda le manifeste violazioni del diritto comunitario che sarebbero imputabili agli organi giurisdizionali nazionali di ultimo grado.
41 Come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi 87-89 delle sue conclusioni, ciò avviene, in particolare, in materia di aiuti di Stato. Escludere, in tale settore, qualunque responsabilità dello Stato poiché la violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale risulterebbe da una valutazione dei fatti rischia di condurre a un indebolimento delle garanzie procedurali offerte ai singoli in quanto la salvaguardia dei diritti che essi traggono dalle pertinenti disposizioni del Trattato dipende, in larga misura, da successive operazioni di qualificazione giuridica dei fatti. Orbene, nell'ipotesi in cui la responsabilità dello Stato fosse esclusa in maniera assoluta, a seguito delle valutazioni operate su determinati fatti da un organo giurisdizionale, tali singoli non beneficerebbero di alcuna protezione giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado commettesse un errore manifesto nel controllo delle summenzionate operazioni di qualificazione giuridica dei fatti.
42 Riguardo, infine, alla limitazione della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o di colpa grave del giudice, occorre ricordare, come rilevato al punto 32 della presente sentenza, che la Corte, nella summenzionata sentenza Köbler, ha dichiarato che la responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a causa di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado poteva sorgere nel caso eccezionale in cui tale organo giurisdizionale avesse violato in modo manifesto il diritto vigente.
43 Tale violazione manifesta si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).
44 Pertanto, se non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della summenzionata sentenza Köbler.
45 Il diritto al risarcimento sorgerà, dunque, se tale ultima condizione è soddisfatta, non appena sarà stato stabilito che la norma di diritto violata ha per oggetto il conferimento di diritti ai singoli e che esiste un nesso di causalità diretto tra la violazione manifesta invocata e il danno subito dall'interessato (v., segnatamente, a tale riguardo, le summenzionate sentenze Francovich e a., punto 40; Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 51, nonché Köbler, punto 51). Come risulta, in particolare, dal punto 57 della citata sentenza Köbler, tali tre condizioni sono, in effetti, necessarie e sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, senza tuttavia escludere che la responsabilità dello Stato possa essere accertata a condizioni meno restrittive in base al diritto nazionale.
46 Alla luce di quanto sopra considerato, si deve quindi risolvere la questione proposta dal giudice del rinvio, come riformulata con la sua lettera 13 gennaio 2004, nel senso che il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della citata sentenza Köbler.
Sulle spese
47 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
P.Q.M.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.
Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler.
INTESTAZIONE
Nella causa CC379/10,
avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi dell'art. 258 TFUE, proposto il 29 luglio 2010,
Commissione europea, rappresentata dalla sig.ra L. Pignataro e dal sig. M. Nolin, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,
ricorrente,
contro
Repubblica italiana, rappresentata dalla sig.ra G. Palmieri, in qualità di agente, assistita dal sig. G. De Bellis, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,
convenuta,
LA CORTE (Terza Sezione),
composta dal sig. K. Lenaerts, presidente di sezione, dal sig. J. Malenovský, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. T. von Danwitz (relatore) e D. váby, giudici,
avvocato generale: sig. N. Jääskinen
cancelliere: sig. A. Calot Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente sentenza
FATTO
1 Con il proprio ricorso, la Commissione europea chiede alla Corte di dichiarare che:
“ escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuata dall'organo giurisdizionale medesimo, e
“ limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave,
ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati (GURI n. 88, del 15 aprile 1988, pag. 3; in prosieguo: la «legge n. 117/88»), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale della responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto dell'Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado.
Contesto normativo nazionale
2 Ai sensi del suo art. 1, la legge n. 117/88 si applica «a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria».
3 L'art. 2 di tale legge così recita:
«1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
2. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».
Fatti
4 L'art. 2 della legge n. 117/88 ha costituito oggetto, a seguito di un rinvio pregiudiziale, della sentenza 13 giugno 2006, causa CC173/03, Traghetti del Mediterraneo (Racc. pag. II5177).
5 In tale sentenza la Corte ha affermato, ai punti 33-37, quanto segue:
«33 Considerazioni (() connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro, ostano (() a che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall'interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale.
34 Da un lato, infatti, l'interpretazione delle norme di diritto rientra nell'essenza vera e propria dell'attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti nazionali e/o comunitarie al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta.
35 Dall'altro lato, non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell'esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia (v., a questo riguardo, sentenza 30 settembre 2003, causa CC224/01, Köbler, Racc. pag. II10239, punto 56), o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.
36 Come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 52 delle sue conclusioni, escludere, in simili circostanze, ogni responsabilità dello Stato a causa del fatto che la violazione del diritto comunitario deriva da un'operazione di interpretazione delle norme giuridiche effettuata da un organo giurisdizionale equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio sancito dalla Corte nella citata sentenza Köbler. Tale constatazione vale, a maggior ragione, per gli organi giurisdizionali di ultimo grado, incaricati di assicurare a livello nazionale l'interpretazione uniforme delle norme giuridiche.
37 Si deve giungere ad analoga conclusione nel caso di una legislazione che escluda, in maniera generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove».
Il procedimento precontenzioso
6 In data 10 febbraio 2009 la Commissione inviava una lettera alla Repubblica italiana in cui dichiarava che, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti dall'interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in considerazione del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado.
7 Il 9 ottobre seguente la Commissione trasmetteva alla Repubblica italiana una lettera di diffida che restava senza risposta.
8 Con lettera del 22 marzo 2010 la Commissione faceva pervenire alla Repubblica italiana un parere motivato, invitandola ad adottare le misure necessarie per conformarvisi entro il termine di due mesi a decorrere dalla sua ricezione. Atteso che tale parere motivato restava parimenti senza risposta, la Commissione decideva di proporre alla Corte il presente ricorso.
Sul ricorso
Argomenti delle parti
9 La Commissione deduce che le menzionate disposizioni della legge n. 117/88, che hanno già costituito oggetto di esame da parte della Corte nella citata sentenza Traghetti del Mediterraneo, sono incompatibili con la giurisprudenza della Corte relativa alla responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado, in particolare con la menzionata sentenza Köbler.
10 A sostegno del ricorso la Commissione deduce, sostanzialmente, due addebiti. Da un lato, contesta alla Repubblica italiana di avere escluso, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni causati a singoli dalla violazione del diritto dell'Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi da un'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo. Dall'altro, la Commissione contesta alla Repubblica italiana di aver limitato, in casi diversi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove, la possibilità di invocare tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, il che non sarebbe conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte.
11 L'istituzione fa valere, a tal riguardo, che, al punto 42 della menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo, la Corte, richiamandosi alla citata sentenza Köbler, ha rammentato che la responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a causa di una violazione del diritto dell'Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado può sorgere solamente per violazione manifesta del diritto vigente compiuta da tale organo giurisdizionale. La Commissione ricorda che tale violazione manifesta viene valutata, in particolare, alla luce di determinati criteri, quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile ovvero inescusabile dell'errore di diritto commesso, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia. Inoltre, a parere della Commissione, non può escludersi che il diritto nazionale precisi tali criteri, criteri che non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione della manifesta violazione del diritto vigente.
12 La Commissione deduce che, nella menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo, la Corte ha affermato, da un lato, che il diritto dell'Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro interessato per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi da un'interpretazione di norme di diritto o da una valutazione di fatti e prove operate dall'organo giurisdizionale medesimo. L'istituzione ricorda, dall'altro, che la Corte ha parimenti dichiarato l'incompatibilità di una limitazione di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conduca ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata accertata una violazione manifesta del diritto vigente.
13 La Commissione aggiunge che dalla motivazione e dal dispositivo della menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo emerge, conseguentemente, che la Corte ha ritenuto che la normativa italiana in questione determinasse, al tempo stesso, un'esclusione della responsabilità dello Stato nel settore dell'interpretazione delle norme di diritto o della valutazione di fatti e prove nonché una limitazione della responsabilità negli altri settori di attività giurisdizionale, quali la nomina di tutori o le dichiarazioni di incapacità. In tal senso, nella causa da cui è scaturita la detta sentenza, la Corte avrebbe, da un lato, respinto l'interpretazione sostenuta dalla Repubblica italiana all'udienza, secondo cui la legge n. 117/88 conterrebbe unicamente una clausola limitativa della responsabilità per tutti i settori dell'attività giurisdizionale, e, dall'altro, rilevato l'incompatibilità con il diritto dell'Unione delle disposizioni di cui trattasi.
14 Il tenore dell'art. 2 della legge n. 117/88 sarebbe d'altronde inequivocabile a tal riguardo, in quanto la nozione di «colpa grave» figurerebbe ai commi 1 e 3 di tale articolo, ma non al secondo comma del medesimo.
15 Per quanto attiene al secondo addebito, la Commissione deduce che la giurisprudenza della suprema Corte di cassazione, fermo restando che essa non riguarda disposizioni connesse con l'interpretazione del diritto dell'Unione, ha interpretato la nozione di «colpa grave» in termini estremamente restrittivi, il che, in contrasto con i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte, determina una limitazione della responsabilità dello Stato italiano, anche in casi diversi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove.
16 A tal riguardo, la Commissione richiama due sentenze di detto giudice, pronunciate, rispettivamente, in data 5 luglio 2007, n. 15227, e 18 marzo 2008, n. 7272, secondo cui tale nozione sarebbe stata interpretata, sostanzialmente, in termini tali da coincidere con il «carattere manifestamente aberrante dell'interpretazione» effettuata dal magistrato. In tal senso, la Commissione menziona, in particolare, la massima della seconda delle menzionate sentenze in cui la suprema Corte di cassazione avrebbe affermato che i presupposti previsti dall'art. 2, terzo comma, lett. a), della legge n. 117/88 sussistono «allorquando, nel corso dell'attività giurisdizionale, (...) si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo».
17 A parere della Commissione, la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado non può essere quindi fatta valere negli stessi termini stabiliti dalla giurisprudenza della Corte e risulta, in pratica, difficilmente invocabile.
18 Conseguentemente, sembrerebbe che, malgrado la pronuncia della menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo, il testo della legge n. 117/88 sia stato mantenuto inalterato e che la suprema Corte di cassazione non abbia modificato il proprio orientamento giurisprudenziale restrittivo, e ciò nonostante il fatto che detta sentenza abbia operato una «rielaborazione evidente» della normativa di cui trattasi.
19 La Repubblica italiana contesta l'inadempimento addebitatole.
20 A suo parere, la Commissione interpreta erroneamente la legge n. 117/88. L'art. 2 di detta legge conterrebbe unicamente una clausola limitativa della responsabilità, a prescindere dall'attività giurisdizionale in questione. Infatti, i presupposti fissati al primo comma dell'art. 2 della legge medesima, precisati, con riguardo alla nozione di «colpa grave», al successivo terzo comma, si applicherebbero parimenti nell'ambito del secondo comma dell'articolo stesso, relativo all'interpretazione di norme di diritto ed alla valutazione di fatti e prove.
21 Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, nella menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo la Corte non avrebbe respinto l'interpretazione dell'art. 2 della legge n. 117/88 sostenuta dalla Repubblica italiana, bensì si sarebbe limitata a rispondere alla questione pregiudiziale formulata dal giudice del rinvio.
22 Inoltre, in tale sentenza, la Corte non si sarebbe espressamente pronunciata sull'incompatibilità della legge n. 117/88 con il diritto dell'Unione. Orbene, la legge italiana non sarebbe di per sé in contrasto con la giurisprudenza della Corte, atteso che ai giudici nazionali sarebbe consentito procedere ad un'interpretazione di tale legge conforme ai requisiti del diritto dell'Unione e, in particolare, a quelli fissati nelle menzionate sentenze Köbler e Traghetti del Mediterraneo. Infatti, la nozione di «colpa grave» contenuta nella normativa italiana in esame coinciderebbe, in effetti, con la condizione della «violazione grave e manifesta del diritto dell'Unione», quale definita dalla giurisprudenza della Corte.
23 La Repubblica italiana deduce che un inadempimento potrebbe essere dichiarato solamente qualora la giurisprudenza nazionale interpretasse la legge n. 117/88 in termini non conformi a tali requisiti. Orbene, la Commissione non sarebbe stata in grado di dimostrare l'esistenza, successivamente alla pronuncia della menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo, di sentenze della suprema Corte di cassazione che accolgano un'interpretazione dell'art. 2 della legge n. 117/88 che presenti un collegamento con il diritto dell'Unione né, tanto meno, di sentenze che accolgano un'interpretazione di tale legge differente da quella sostenuta dal governo italiano.
24 Infatti, le due sentenze della suprema Corte successive alla citata sentenza Traghetti del Mediterraneo, richiamate dalla Commissione, non riguarderebbero una violazione dei principi del diritto dell'Unione. Inoltre, dette sentenze dimostrerebbero che la suprema Corte di cassazione ha inteso il terzo comma, dell'art. 2 della legge n. 177/88 quale strumento interpretativo del precedente secondo comma e che quest'ultimo comma non può essere pertanto inteso nel senso che costituisca una clausola di esclusione della responsabilità.
25 A sostegno di tale argomento, la Repubblica italiana sottolinea che la menzionata sentenza della suprema Corte di cassazione del 18 marzo 2008 non fa alcun riferimento all'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, laddove, secondo la tesi sostenuta dalla Commissione, l'applicazione di tale disposizione avrebbe peraltro consentito alla suprema Corte di respingere il ricorso nella causa oggetto della sentenza stessa. Dalla mancata menzione di detto secondo comma dell'art. 2 deriverebbe che tale disposizione non può essere, in realtà, intesa nel senso che costituisca una clausola di esclusione della responsabilità.
26 L'errore di interpretazione della Commissione sarebbe parimenti evidenziato dall'affermazione, contenuta nella citata sentenza della suprema Corte di cassazione del 5 luglio 2007, secondo cui le «ipotesi specifiche» previste dall'art. 2 della legge n. 177/88, «hanno quale comune fattore» una negligenza inescusabile. Ne conseguirebbe che tale articolo dovrebbe essere complessivamente inteso nel senso che subordina il sorgere della responsabilità dello Stato al compimento di una negligenza di tal genere da parte del giudice nazionale.
Giudizio della Corte
27 Si deve rilevare, in limine, che la Repubblica italiana non contesta l'applicabilità dell'art. 2 della legge n. 117/88 alle azioni di responsabilità proposte da singoli nei confronti dello Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado.
28 Le parti dissentono, tuttavia, sulla questione della conformità di tale articolo con il diritto dell'Unione e, in particolare, con la giurisprudenza della Corte.
29 Come rammentato da costante giurisprudenza, nell'ambito del procedimento per inadempimento ex art. 258 TFUE, se è pur vero che incombe alla Commissione dimostrare l'esistenza del preteso inadempimento, spetta allo Stato membro convenuto, una volta che la Commissione abbia fornito elementi sufficienti a dimostrare la veridicità dei fatti contestati, confutare in modo sostanziale e dettagliato i dati forniti e le conseguenze che ne derivano (v. sentenze 22 settembre 1988, causa 272/86, Commissione/Grecia, Racc. pag. 4875, punto 21; 7 luglio 2009, causa CC369/07, Commissione/Grecia, Racc. pag. II5703, punto 75, e 6 ottobre 2009, causa CC335/07, Commissione/Finlandia, Racc. pag. II9459, punto 47).
30 Si deve rilevare che, al di fuori dei casi di dolo e di diniego di giustizia, l'art. 2, primo comma, della legge n. 117/88 prevede che la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione può sorgere qualora un magistrato abbia commesso «colpa grave» nell'esercizio delle proprie funzioni. Quest'ultima nozione viene definita nel successivo terzo comma, lett. a), quale «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile». Ai sensi del secondo comma del medesimo articolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'interpretazione di norme di diritto né la valutazione dei fatti e delle prove.
31 In primo luogo, la Commissione contesta alla Repubblica italiana di escludere, per effetto dell'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni causati a singoli derivanti da una violazione del diritto dell'Unione compiuta da uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dal giudice medesimo.
32 A sostegno di tale primo addebito la Commissione deduce che tale disposizione costituisce una clausola di esclusione di responsabilità autonoma rispetto al disposto di cui ai commi 1 e 3 del medesimo art. 2.
33 Si deve ricordare, a tal riguardo, che, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 117/88, la normativa italiana in materia di responsabilità dello Stato per i danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie prevede, da un lato, ai commi 1 e 3 di tale articolo, che tale responsabilità è limitata ai casi di dolo, di colpa grave e di diniego di giustizia, e, dall'altro, al secondo comma dell'articolo stesso, che «non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Dall'esplicito tenore di quest'ultima disposizione emerge che tale responsabilità resta esclusa, in via generale, nell'ambito dell'interpretazione del diritto e della valutazione dei fatti e delle prove.
34 Negli stessi termini il giudice del rinvio ha d'altronde esposto l'art. 2 della legge n. 117/88 nelle questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte nella causa da cui è scaturita la menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo, come emerge dal punto 20 della medesima.
35 Orbene, ai punti 33340 di tale sentenza, la Corte ha affermato che il diritto dell'Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulti da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.
36 La Repubblica italiana deduce, richiamandosi alle due sentenze della suprema Corte di cassazione menzionate supra al punto 16, che l'interpretazione dell'art. 2 della legge n. 117/88 operata dalla Commissione è erronea.
37 Tuttavia, a prescindere dal significato da attribuire al fatto che la motivazione della sentenza della suprema Corte di cassazione del 18 marzo 2008 non fa riferimento all'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88 nonché al passo della sentenza della Corte medesima del 5 luglio 2007, secondo cui le «ipotesi specifiche» previste all'art. 2 di tale legge hanno quale «comune fattore» una negligenza inescusabile, si deve rilevare che, a fronte dell'esplicito tenore dell'art. 2, secondo comma, di tale legge, lo Stato membro convenuto non ha fornito alcun elemento in grado di dimostrare validamente che, nell'ipotesi di violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado, tale disposizione venga interpretata dalla giurisprudenza quale semplice limite posto alla sua responsabilità qualora la violazione risulti dall'interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e non quale esclusione di responsabilità.
38 Il primo addebito della Commissione deve essere conseguentemente accolto.
39 In secondo luogo, la Commissione contesta alla Repubblica italiana di limitare, in casi diversi dall'interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, la possibilità di invocare la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado ai soli casi di dolo o di colpa grave, il che non sarebbe conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte. A tal riguardo, la Commissione sostiene, segnatamente, che la nozione di «colpa grave», di cui all'art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, viene interpretata dalla suprema Corte di cassazione in termini coincidenti con il «carattere manifestamente aberrante dell'interpretazione» effettuata dal magistrato e non con la nozione di «violazione manifesta del diritto vigente» postulata dalla Corte ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione.
40 Si deve ricordare, a tal riguardo, che, secondo costante giurisprudenza della Corte, tre sono le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione al medesimo imputabile, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (v. sentenze 5 marzo 1996, cause riunite CC46/93 e CC48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, Racc. pag. II1029, punto 51; 4 luglio 2000, causa CC424/97, Haim, Racc. pag. II5123, punto 36, nonché 24 marzo 2009, causa CC445/06, Danske Slagterier, Racc. pag. II2119, punto 20).
41 La responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado che violi una norma di diritto dell'Unione è disciplinata dalle stesse condizioni, ove la Corte ha tuttavia precisato che, in tale contesto, la seconda di dette condizioni dev'essere intesa nel senso che consenta di invocare la responsabilità dello Stato solamente nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente (v. sentenza Köbler, cit., punti 52 e 53).
42 Dalla giurisprudenza della Corte emerge, inoltre, che, se è pur vero che non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, criteri da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato in un'ipotesi di tal genere, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente (v. sentenza Traghetti del Mediterraneo, cit., punto 44 nonché la giurisprudenza ivi citata).
43 Nella specie, si deve rilevare che la Commissione ha fornito, alla luce, segnatamente, degli argomenti riassunti supra al punto 16, elementi sufficienti da cui emerge che la condizione della «colpa grave», di cui all'art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, che deve sussistere affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato italiano, viene interpretata dalla suprema Corte di cassazione in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente».
44 In risposta a tale argomento della Commissione la Repubblica italiana si limita, sostanzialmente, ad affermare, da un lato, che le sentenze della suprema Corte di cassazione menzionate supra al punto 16 non riguardano una violazione del diritto dell'Unione e, dall'altro, che l'art. 2 della legge n. 117/88 può essere oggetto di interpretazione conforme al diritto dell'Unione medesimo e che la nozione di «colpa grave» di cui al detto articolo è, in realtà, equivalente a quella di «violazione manifesta del diritto vigente».
45 Orbene, indipendentemente dalla questione se la nozione di «colpa grave», ai sensi della legge n. 117/88, malgrado il rigoroso contesto in cui essa si colloca all'art. 2, terzo comma, della legge medesima, possa essere effettivamente interpretata, nell'ipotesi di violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado dello Stato membro convenuto, in termini tali da corrispondere al requisito di «violazione manifesta del diritto vigente» fissato dalla giurisprudenza della Corte, si deve rilevare che la Repubblica italiana non ha richiamato, in ogni caso, nessuna giurisprudenza che, in detta ipotesi, vada in tal senso e non ha quindi fornito la prova richiesta quanto al fatto che l'interpretazione dell'art. 2, commi 1 e 3, di tale legge accolta dai giudici italiani sia conforme alla giurisprudenza della Corte.
46 Alla luce della giurisprudenza citata supra al punto 29, si deve concludere che la Repubblica italiana non ha confutato in termini sufficientemente sostanziali e dettagliati l'addebito contestatole dalla Commissione, secondo cui la normativa italiana limita, in casi diversi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove, la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado in modo non conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte.
47 Alla luce delle suesposte considerazioni, il secondo addebito della Commissione deve essere accolto ed il ricorso dalla medesima proposto deve ritenersi fondato.
48 Conseguentemente si deve dichiarare che:
“ escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e
“ limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave,
ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.
Sulle spese
49 Ai sensi dell'art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha concluso in tal senso, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese.
P.Q.M.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce:
1) La Repubblica italiana,
” escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e
” limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave,
ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
La recente sentenza della Corte di giustizia UE (d'ora in avanti Corte UE) del 24 novembre 2011 nella causa C-379/10 sulla responsabilità (civile) dei magistrati mostra, in primo luogo, che non vi è ambito del diritto nazionale che non può essere interessato dal diritto dell'Unione europea. Anche nei gangli più intimi delle sovranità statali come l'ordinamento giudiziario, in specie penale, il diritto UE si pone come "interfaccia" dei diritti nazionali (e delle procedure giudiziarie), sì da comportare un'armonizzazione sostanziale delle discipline nazionali ovvero, a voler minimizzare, quanto meno un'interpretazione conforme di queste ultime. La sentenza mostra altresì una profonda disparità di vedute sulla fattispecie della Corte UE e della Corte di Cassazione.
Nel caso in commento, il sistema nazionale italiano di responsabilità civile dei giudici è stato ritenuto dalla Corte UE non conforme al diritto dell'Unione. Ma soprattutto non idoneo a tutelare gli eventuali danni provocati ai singoli per violazione del diritto UE. In particolare, la sentenza richiama il principio, consolidato, della responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione, in questa circostanza, da parte di un organo giurisdizionale nazionale di ultima istanza. La sentenza della Corte UE giunge a seguito di un ricorso per inadempimento (c.d. "procedura di infrazione") presentato dalla Commissione europea ai sensi dell'art. 258 TFUE. Se è vero che la sentenza è destinata ad avere effetti importanti nel nostro ordinamento giuridico, è anche vero che non si tratta di giurisprudenza nuova. Anzi il principio generale di responsabilità dello Stato membro affonda le radici nella storica sentenza Francovich del 19 novembre 1991, cause C-6/90 e C-9/90; da quel momento una costante giurisprudenza della Corte UE ne ha perfezionato alcuni profili ma non ne ha modificato la sostanza. Così da giungere all'affermazione che la responsabilità dello Stato può essere provocata da qualsiasi organo nazionali indipendentemente se del potere legislativo, esecutivo, giudiziario (sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler). Nel dispositivo della sentenza la Corte afferma che: "La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado".
Occorre ricordare che secondo costante giurisprudenza della Corte, tre sono le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione al medesimo imputabile, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (v. sentenze 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame; 4 luglio 2000, causa C‑424/97, Haim; e di recente 24 marzo 2009, causa C‑445/06, Danske Slagterier). Inoltre la Corte nella sentenza 3 giugno 2006, causa C‑173/03, Traghetti del Mediterraneo, ha affermato che il diritto dell'Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulti da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale (punti 33-34). Pertanto, la Commissione europea contesta alla Repubblica italiana di escludere, per effetto dell'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni causati a singoli derivanti da una violazione del diritto dell'Unione compiuta da uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dal giudice medesimo (punto 31).
In effetti tale disposizione costituisce una clausola di esclusione di responsabilità autonoma rispetto al disposto di cui ai commi 1 e 3 del medesimo art. 2. ai sensi dell'art. 2 della legge n. 117/88, la normativa italiana in materia di responsabilità dello Stato per i danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie prevede, da un lato, ai commi 1 e 3 di tale articolo, che tale responsabilità è limitata ai casi di dolo, di colpa grave e di diniego di giustizia, e, dall'altro, al secondo comma dell'articolo stesso, che «non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Sicché la responsabilità resta esclusa, in via generale, nell'ambito dell'interpretazione del diritto e della valutazione dei fatti e delle prove. Dalla giurisprudenza della Corte UE, tuttavia, emerge che ancorché non può escludersi che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, criteri da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato, in un'ipotesi siffatta tali criteri non possono imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente (cfr. sentenze citate).
L'Italia pertanto dovrebbe modificare la legge 117/88 che presenta limiti oggettivi e soggettivi al risarcimento dei danni ai singoli. Nel frattempo i giudici nazionali sono tenuti a disapplicare le norme della legge 117/88 e garantire in ogni caso il risarcimento dei danni ai singoli. Il diritto UE prevede in questi casi la non applicazione della norma nazionale incompatibile e non l'abrogazione diretta che rimane di competenza statale. Vero è, tuttavia, che lasciare siffatta norma vigente ed applicabile al di fuori del diritto UE può essere una via perseguita, pena però una evidente disparità di trattamento tra cittadini ed una evidente discriminazione. Potrebbe essere invece un'ulteriore occasione per riformare e ammodernare un ordinamento giuridico non sempre volto alla tutela dei diritti dei singoli.
Rielaborazione della relazione tenuta a Taranto il 28 novembre 2008 in occasione del primo convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi di ordinamento giudiziario. Lo scritto è destinato agli studi in onore di Modestino Acone.
SOMMARIO: 1. Responsabilità e attività 2. Attività decisorie neutre 3. segue: La mancata applicazione del diritto comunitario e la cosa giudicata 4. segue: L’introduzione della revocazione avverso le sentenze delle Corti supreme per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile 5. Attività decisorie di gestione 6. segue: La responsabilità da iniziativa (e non solo da giudizio) 7. Attività non decisorie 8. segue: L’illecito disciplinare come possibile fonte di responsabilità civile 9. Conclusioni
1. - Premetto che non è mia intenzione affrontare sotto ogni aspetto l’argomento ma solo indicare talune questioni che a me paiono di particolare interesse, muovendo dalla premessa che uno studio sulla responsabilità civile del giudice non può non basarsi sull’analisi delle sue attività, vista la stretta, imprescindibile connessione, tra l’uno e l’altro aspetto (1).
Ora, io credo che le attività del giudice vadano divise secondo una doppia ripartizione, che qui indico.
a) Con una prima, infatti, vanno separate le attività decisorie, e quindi consistenti nella pronuncia di provvedimenti, rispetto a quelle non decisorie, e quindi solo connesse all’esercizio della giurisdizione.
Si pensi, tra queste ultime, al comportamento tenuto dal giudice nei confronti di una parte, oppure del suo difensore; o ancora si pensi all’inosservanza dell’obbligo di astenersi, o all’indebito affidamento ad altri di propri compiti, ecc.
Si tratta di comportamenti che certamente rilevano maggiormente sul piano disciplinare, e tuttavia, per quanto diremo, pur sempre di comportamenti che possono avere conseguenze anche sul fronte della responsabilità civile.
b) Le attività decisorie, poi, che maggiormente ci interessano, vanno altresì ripartite in due diversi ambiti.
In un primo vanno ricondotte le decisioni che il giudice assume sulle richieste delle parti, dando torto o ragione ad uno dei litiganti, e decidendo tra più pretese qual’è quella conforme alla legge, fermo il principio iura novit curia.
In un secondo ambito, invece, vanno ricondotte quelle decisioni che il giudice compie a prescindere dalle richieste delle parti, ponendo in essere l’atto in via ufficiosa, o comunque oltre i tradizionali principî processuali della domanda, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e dispositivo.
Solo con riferimento al processo civile si pensi al potere del giudice di sollevare in ogni momento, anche in appello (art. 345 c.p.c.), eccezioni d’ufficio (art. 112 c.p.c.), chiamare un terzo al processo (art. 107 c.p.c.), chiedere informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213 c.p.c.), disporre ispezioni di persone o cose (art. 118 c.p.c.), disporre l’interrogatorio libero delle parti (art. 117 c.p.c.), disporre la prova testimoniale (art. 281 ter, 254, 257 c.p.c.), nominare consulenti (191 c.p.c.), disporre cauzioni (art. 119 c.p.c.), ecc.
Ma egualmente, in questa categoria, vanno ricondotti i poteri del giudice volti al «più leale e sollecito svolgimento del procedimento» (art. 175 c.p.c.): si pensi al concedere o negare rinvii, consentire o meno difese scritte, consentire o meno talune verbalizzazioni, fissare i termini di udienza o a difesa, ecc.
Si pensi, poi, ai poteri ufficiosi del giudice del lavoro, di quello fallimentare, e di quello minorile; e si pensi, infine, seppur si tralasci ogni approfondimento, ai poteri officiosi del giudice amministrativo, e di quello penale.
Volendo dare delle etichette potremmo chiamare le une attività neutre, e le altre attività gestorie.
Ognuna di queste attività, se mal compiute, può dar vita ad ipotesi di responsabilità civile, e si tratta, allora, di valutare la responsabilità del giudice non solo con riguardo alle attività decisorie neutre, come fino ad oggi si è fatto, bensì con la dovuta attenzione a tutti e tre questi diversi ambiti.
Nel dar cenni di ciò, procederò in senso inverso, che meglio rispetta l’importanza e la rilevanza degli ambiti. E dunque: aa) attività decisorie neutre; bb) attività decisorie di gestione; cc) attività non decisorie.
2. - Intanto, con riferimento all’attività decisoria su sollecitazione delle parti, la responsabilità civile del giudice sorge (normalmente) dall’errore inescusabile di giudizio, che produce alla parte un danno ingiusto.
Il problema, però, è che lo stesso concetto di provvedimento ingiusto perché inescusabilmente errato mal si concilia con la cosa giudicata, che di per sé è invece sempre giusta; ed il tema ha recentemente assunto una particolare attualità con riferimento alla mancata applicazione del diritto comunitario da parte dei nostri giudici (ed in particolare da parte della Corte di cassazione) (2).
Credo che il problema possa essere esposto nel seguente modo:
a) in base al nostro sistema di cui alla l. n. 117 del 1988, se l’errore di giudizio è contenuto in un provvedimento giurisdizionale, e questo provvedimento non è definitivo perché soggetto ad impugnazione, il rimedio all’ingiustizia di esso non è dato, in via immediata, dall’azione di responsabilità contro il giudice, bensì dalla impugnazione del provvedimento.
E questo, si badi, non solo perché costituisce funzione specifica dei mezzi di impugnazione quello di riparare a possibili errori di giudizio da parte del giudice, ma anche perché la contestuale esperibilità del mezzo di impugnazione con l’azione di responsabilità civile potrebbe compromettere la libertà dell’esercizio della funzione giurisdizionale (3).
b) Al contrario, se l’errore di giudizio è contenuto in un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato, l’ingiustizia di esso non può nemmeno essere prospettata, in quanto la cosa giudicata è sempre, per definizione, un provvedimento retto, e (salve le impugnazioni straordinarie) non più soggetto a discussione.
Non a caso i codici preunitari (4), sul solco della tradizione francese (5), inserirono l’azione di responsabilità del giudice fra i mezzi di impugnazione straordinaria della sentenza, in quanto, infatti, in tanto era possibile ottenere la giusta riparazione avverso la sentenza pronunciata con dolo o evidente violazione di legge, in quanto tale sentenza potesse essere rimossa, poiché, come sostenne più tardi lo stesso Chiovenda, «l’azione civile non si può porre finché la sentenza ha valore» e «prima bisogna togliere di mezzo la sentenza nei modi ammessi dalla legge» (6).
3. - Ora, io credo che la soluzione adottata dal nostro legislatore di subordinare l’azione di responsabilità civile del giudice al previo esperimento dei mezzi di impugnazione sia giusta e rispettosa della forza della cosa giudicata, e tuttavia essa esclude così, in radice, la possibilità che una sentenza ingiusta possa esser pronunciata da una Corte suprema, visto che avverso una sentenza pronunciata da una Corte suprema non sono ammessi mezzi di impugnazione, e la decisione che la corte assume, è, per definizione, sempre giusta.
Contro essa, come è noto, è ammessa la revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. per l’errore di fatto, ma non l’impugnazione per il caso che la sentenza sia stata pronunciata per inosservanza del diritto comunitario, e/o per «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile».
Da una parte, così, per il nostro sistema interno, il cittadino non può promuovere un’azione civile contro il giudice, o ottenere altre forme di risarcimento del danno, avverso una decisione di una Corte suprema, poiché osta a ciò il principio della cosa giudicata; dall’altra, tuttavia, questo meccanismo è da considerare in contrasto con il diritto comunitario, e, se si vuole, anche con l’equità, poiché non si comprendono le ragioni sostanziali per le quali la mancata applicazione del diritto comunitario, ancorché commessa da una Corte suprema, non possa comportare per chi l’ha subita il diritto al risarcimento del danno, se l’applicazione del diritto comunitario avrebbe prodotto un diverso risultato giurisdizionale.
Per risolvere il dilemma, la dottrina italiana ha già immaginato la possibilità di introdurre una nuova ipotesi di revocazione avverso le sentenze pronunciate da Corti supreme per violazione del diritto comunitario determinata da negligenza inescusabile (7).
In questo modo, se la mancata applicazione del diritto comunitario avviene ad opera di un giudice di merito, la questione può essere fatta valere dinanzi alla Corte di cassazione; al contrario, se la mancata applicazione è stata posta in essere dalla Corte di cassazione, la sentenza può essere impugnata dinanzi alla stessa corte per revocazione.
Così, o ad opera della Corte costituzionale previa rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’attuale art. 395 c.p.c., o ad opera del legislatore, noi dovremmo introdurre nel sistema la possibilità di impugnare le sentenze della Suprema corte non solo ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c. bensì anche per violazione del diritto comunitario, ed il cittadino in questo modo, previo esperimento di detto mezzo, avrebbe il diritto di ottenere ristoro avverso la sentenza ingiusta per mancata applicazione del diritto comunitario.
4. - Se non che, quando una corte non applica il diritto comunitario, sostanzialmente pronuncia una sentenza con «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», e allora non si comprendono le ragioni per le quali se la grave violazione di legge consiste nella mancata applicazione del diritto comunitario la parte dovrebbe avere a disposizione un mezzo di impugnazione per rimuovere la sentenza, e quindi aprire la strada all’azione di responsabilità civile contro il giudice, mentre se la «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», consiste nella mancata applicazione di altre norme, ad esempio costituzionali, oppure di legge ordinaria interna, la parte che si è vista rendere una sentenza parimenti ingiusta non ha alcun mezzo di impugnazione a disposizione.
Quid iuris?
È possibile immaginare una nuova revocazione non solo per violazione del diritto comunitario bensì avverso ogni sentenza, ancorché di una Corte suprema, pronunciata con «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile»?
Io penso di sì, e credo che l’idea della non impugnabilità delle sentenze delle Corti supreme sia già stata superata dapprima con la sentenza della Corte costituzionale 30 gennaio 1986, n. 17 (8), e poi con l’introduzione dell’art. 391 bis e ter c.p.c. ad opera del d.leg. 2 febbraio 2006 n. 40.
Se, al momento attuale, è possibile impugnare una sentenza della Cassazione per revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. (art. 391 bis c.p.c.), e, se la pronuncia della Corte di cassazione ha ad oggetto anche il merito della controversia, per revocazione anche ai sensi degli art. 395, nn. 1, 2, 3, e 6 c.p.c. (art. 391 ter c.p.c.), non si scorgono le ragioni per le quali, con un’estensione del n. 4 degli art. 395 c.p.c., e comunque sempre attraverso un mezzo di impugnazione da ricondurre fra quelli ordinari, non si possa prevedere anche la revocazione delle sentenze della Cassazione, dinanzi alla medesima corte, per «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile».
La fattispecie, infatti, comprenderebbe al suo interno tanto le ipotesi della mancata applicazione del diritto comunitario, quanto quelle di ogni altro caso di grave violazione di legge, così attribuendo ai cittadini, come la Corte di giustizia ci chiede, il diritto al risarcimento del danno dinanzi ad ogni sentenza ingiusta perché pronunciata con grave violazione di legge, sia questa comunitaria o interna.
5. - Con riguardo alle attività che abbiamo chiamato «gestorie», è evidente che il tema è altro, ed è connesso, per non dire del tutto corrispondente, a quello del «potere del giudice», atteso infatti che l’ambito di gestione del processo da parte del giudice coincide con il potere che a questi sia riconosciuto dalla legge processuale (9).
Sia consentito, allora, analizzare questi aspetti ponendo le dovute differenze (seppur a livello meramente esemplificativo) tra il sistema liberale, quello autoritario, e quello democratico-sociale (10).
Nel sistema liberale il giudice, quanto meno con riferimento al processo civile, ha pochi poteri circa la gestione del processo (11).
Ha certamente il potere di decidere la controversia, ma non ha il potere d’incidere sull’andamento processuale, che è rimesso interamente, o quasi interamente, all’impulso di parte.
Va da sé, allora, che in quel sistema, il giudice abbia anche, e conseguentemente, poche responsabilità, o comunque responsabilità limitate alle attività che mi sono permesso di definire neutre, ovvero volte (solo) a dare risposta alle sollecitazioni delle parti.
Nel sistema totalitario, tutto al contrario, il giudice ha molti poteri che si aggiungono a quello di decidere le sorti della controversia dando risposta alle sollecitazioni delle parti.
Questo avviene non perché vi sia un interesse delle parti, o della parte più debole, ad un aumento dei poteri del giudice, ma semplicemente perché il sistema ha un interesse al controllo pubblico della sfera privata (12).
Proprio per questo, nei regimi autoritari, all’aumentare dei poteri del giudice non aumenta anche la sua responsabilità verso le parti, poiché infatti lo Stato autoritario controlla e dispone, ma non consente che l’operato del giudice possa essere messo in discussione, perché mettere in discussione il giudice significherebbe, tutto assieme, mettere in discussione il sistema.
Cosa ancora diversa accade nei sistemi democratico-sociali.
Anche in quelli, come nei totalitari, i poteri del giudice aumentano, ma aumentano per altre ragioni.
Il giudice, di nuovo, ha il potere d’incidere sull’andamento del processo, ma ora non più perché sia la longa manus dello Stato, ma solo perché l’esito della lite non può esser considerato una faccenda di esclusivo interesse privato, e perché inoltre vi sono dei soggetti socialmente ed economicamente più deboli da adiuvare (13).
6. - Detto questo, è poi scontato ribadire come potere e responsabilità non possano che andare di pari passo.
Tanto più un soggetto ha potere, tanto più quel soggetto deve avere responsabilità (14).
In un sistema equilibrato non è ammissibile che all’attribuzione di un potere non segua, parallelamente e contestualmente, l’attribuzione della responsabilità relativa.
Solo nei sistemi autoritari avviene una cosa del genere, e così al potere non segue la responsabilità, se non di tipo politico.
Ora, però, il punto è che nei sistemi democratico-sociali, all’aumentare del potere del giudice, non è (normalmente) in pari misura aumentata anche la sua responsabilità verso le parti.
Questo vale per il nostro ordinamento, ma vale altresì per molti ordinamenti a moderna democrazia (15).
Da una parte, infatti, si sono aumentati i poteri del giudice, che attualmente non solo decide in forma neutra sulle pretese dei litiganti ma anche organizza le attività processuali; dall’altra, però, la sua responsabilità civile è rimasta quella dei sistemi liberali, ove il compito era solo quello di decidere le sorti della lite su sollecitazione di parte.
Ed è evidente che, dal punto di vista della parte, la responsabilità del giudice muta se l’atto costituisce mera risposta alla domanda, oppure intervento ufficioso: poiché in un caso egli risponde del giudizio, mentre nell’altro dovrebbe rispondere anche dell’iniziativa.
Sul piano dell’evoluzione del fenomeno va addirittura segnalato che nuove riforme immaginano di aumentare ancora i poteri del giudice (16), però senza immaginare un corrispondente aumento della sua responsabilità (17).
Questo squilibrio deve essere sanato: o riattribuendo al giudice il solo potere di provvedere su sollecitazione di parte, o aumentando, in modo corrispondente la sua responsabilità con riferimento alle attività che egli compie a prescindere dalla richiesta delle parti (o addirittura, in taluni casi, contro la volontà delle parti).
Oppure, se si preferisce, poiché oggi il giudice ha anche poteri d’impulso processuale, il sistema deve addizionare alla tradizionale responsabilità del giudice tipica dello Stato liberale, una nuova responsabilità del tutto simile a quella delle parti con riguardo a questi nuovi compiti.
7. - Infine, con riguardo alle attività del giudice che ho chiamato non decisorie, il tema si sposta inevitabilmente sui rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare.
In questo ambito va osservato che ogni volta che un giudice tiene un comportamento non conforme ai suoi doveri, egli al tempo stesso offende tanto lo Stato (aspetto pubblico), del quale è un funzionario, quanto il cittadino (aspetto privato), al quale deve rendere giustizia.
Normalmente, alla ricaduta pubblica del comportamento provvede il sistema della responsabilità disciplinare, mentre a quella privata provvede appunto la responsabilità civile.
Le cose, però, non sono, né possono essere, così nette, e, nel tempo, il rapporto tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile ha avuto diverse e mutevoli forme.
Di nuovo, possiamo scorgere delle differenze tra i sistemi autoritari e quelli liberali.
Nei sistemi autoritari, allo azzeramento, o quasi, della responsabilità civile, corrisponde quasi sempre un rafforzamento della responsabilità disciplinare.
Lo Stato autoritario, infatti, così come non tollera, all’esterno, che il cittadino possa mettere in discussione il funzionamento dei pubblici servizi, egualmente, all’interno, pretende tuttavia di controllare in modo pieno e puntuale l’operato dei suoi funzionari, cosicché questi, più che in altri ordinamenti, devono tenere precisi e fissati comportamenti, che addirittura si estendono, per quanto concerne i giudici, alle scelte di merito in ordine alle decisioni.
Nei sistemi liberali, invece, normalmente esiste, seppur entro limiti precisi, una disciplina della responsabilità civile del giudice, al quale però corrisponde in maniera non inversamente proporzionale un contenimento della responsabilità disciplinare.
Ovviamente i dati per affermare questi principî non sono a volte univoci, e possono essere equivocabili, e tuttavia l’idea che emerge è quella che costituisca indice dell’indipendenza del giudice molto più la responsabilità civile che non quella disciplinare, poiché quest’ultima è più costante, mentre l’altra è più mutevole (18).
8. - Ora, però, a mio parere, i moderni Stati democratico-sociali quali il nostro, che non sono più né liberali in senso puro, né totalitari, dovrebbero compiere un passo, coerente con il tipo di Stato, in grado di giungere ad una tendenziale sovrapposizione tra la responsabilità disciplinare e la responsabilità civile, poiché tendenziali sovrapposizione vi sono state tra sfera pubblica e sfera privata.
Mi spiego: ancora oggi, nel nostro sistema, la responsabilità civile e la responsabilità disciplinare appartengono a due mondi separati.
Non solo i fenomeni sono disciplinati da diverse leggi, e non solo le modalità di accertamento e repressione degli illeciti trovano autonomi momenti, ma anche le fattispecie fonte di responsabilità sono diverse.
In particolare, poi, mentre la responsabilità civile tende a diventare responsabilità deontologica (art. 9 l. 117/88), la responsabilità deontologica non si trasforma mai in responsabilità civile.
Al contrario, se l’illecito deontologico è commesso in occasione dell’esercizio della funzione giurisdizionale, è evidente che tale illecito può interessare, e/o può riguardare, anche i privati, e quindi in questi casi è gioco forza che l’illecito deontologico possa costituire presupposto (anche) per la responsabilità civile (19).
9. - La Corte di giustizia ci chiede, con le sentenze sopra riportate, di ampliare l’ambito di tutela del cittadino avverso errori commessi dai giudici nell’esercizio, o in occasione dell’esercizio, della funzione giurisdizionale.
Io credo che un buon punto di partenza possa essere quello di muoversi in queste tre diverse, e pur connesse, direzioni: a) introduzione dell’impugnazione per revocazione avverso le sentenze delle Corti supreme per «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», fattispecie comprendente, (anche) la mancata applicazione del diritto comunitario; b) estensione della responsabilità civile del giudice, in analogia a quella prevista per gli altri operatori di giustizia, con riferimento alle attività che questi compia d’ufficio; c) riconducibilità della responsabilità civile del giudice (anche) con riferimento alla violazione delle norme deontologiche afferenti all’esercizio della funzione giurisdizionale (art. 2 d.leg. 109/06), qualora il comportamento tenuto dal giudice abbia prodotto un danno alla parte, e vi sia nesso di causalità tra condotta e danno.
___________________
NOTE:
(1) In materia sono ancor oggi fondamentali GIULIANI-PICARDI (a cura di), La responsabilità del giudice, in L’educazione giuridica, III, Perugia, 1978; CAPPELLETTI, Giudici irresponsabili? Studio comparativo sulla responsabilità dei giudici, Milano, 1988; AA.VV., Giurisdizione e responsabilità nei paesi della Cee e negli Usa, in Quaderni Cons. sup. magistratura, 1989, fasc. 29.
V. anche CIRILLO-SORRENTINO, La responsabilità del giudice, Napoli 1989; AA.VV., La responsabilità civile dello Stato giudice a cura di PICARDI e VACCARELLA, Padova, 1990; GIULIANI-PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano, 1995; LUISO, L’attività interpretativa del magistrato e la c.d. clausola di salvaguardia, in Corriere giur., 2008, 730 ss.
(2) V., infatti, Corte giust. 18 luglio 2007, causa C-119/05, Foro it., 2007, IV, 532, con nota di SCODITTI, Giudicato nazionale e diritto comunitario, e Corriere giur., 2007, 1189, con nota di CONSOLO, Il primato del diritto comunitario può spingersi fino ad intaccare la ferrea forza del giudicato sostanziale?, per la quale «il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della commissione delle Comunità europee divenuta definitiva».
Precedentemente, v. Corte giust. 13 giugno 2006, causa C-173/03, Foro it., 2006, IV, 417, con nota di SCODITTI, Violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice; 30 settembre 2003, causa C-224/01, id., 2004, IV, 4.
In dottrina, BIAVATI, Inadempimento degli Stati membri al diritto comunitario per fatto del giudice supremo: alla prova la nozione europea di giudicato, in Int’l Lis, 2005, 62 ss.; più di recente, PICARDI, La responsabilità del giudice: la storia continua, in Riv. dir. proc., 2007, 283 ss.; ROPPO, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione e diritto europeo: una «case story» in attesa del finale, in Riv. dir. privato, 2006, 347; ALPA, La responsabilità dello Stato per atti giudiziari. A proposito del caso Koebler c. Repubblica d’Austria, in Nuova giur. civ., 2005, II, 1.
(3) In questo senso, v. già SCARSELLI, La responsabilità del giudice nei limiti del principio di indipendenza della magistratura, in Foro it., 2001, I, 3560.
(4) GIULIANI-PICARDI, La responsabilità del giudice dallo Stato liberale allo Stato fascista, in Foro it., 1978, V, 231.
(5) V. il Codice di procedura civile pel Regno d’Italia editto di Napoleone del 17 giugno 1806 a cura di PICARDI e GIULIANI, in Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2000, 100, che inserisce l’azione «civile contro i giudici», art. 505 ss., nel titolo III del libro IV, dedicato, appunto, a «De modi straordinari d’impugnare i giudicati».
(6) CHIOVENDA, Principî di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 482.
V. anche, sul punto, MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1896, IV, 1125, e MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, II, 504.
(7) In questo senso, v. CONSOLO, Il primato del diritto comunitario, cit., 1192; PICARDI, Responsabilità civile del giudice e dello Stato giudice, in La giurisdizione nell’esperienza giurisprudenziale contemporanea a cura di R. MARTINO, Milano, 2008, 391.
Si è immaginato detta impugnazione come straordinaria, e quindi come un’estensione dei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c.; ma a me sembrerebbe più logico immaginarla come una impugnazione ordinaria, poiché la violazione di legge del diritto comunitario emerge immediatamente dalla sentenza, e quindi è da evitare che la stessa, per questa ragione, possa essere impugnata in tempi incerti, e non, come nel caso del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., entro termini determinati.
(8) V. in Foro it., 1986, I, 313, con nota di PROTO PISANI, La Corte costituzionale estende la revocazione per errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. alle sentenze della Cassazione.
(9) Su questi temi, v. ancor oggi FABBRINI, Potere del giudice, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1985, XXXIV, 721 ss.
Recentemente, E. FABIANI, I poteri istruttori del giudice civile, Napoli, 2008, 107 ss., con ampia indagine sugli ordinamenti stranieri (349 ss.).
(10) GIULIANI-PICARDI, I modelli storici della responsabilità del giudice, in Foro it., 1978, V, 121.
(11) CIPRIANI, Nel centenario del regolamento di Klein (il processo civile tra libertà ed autorità), in Riv. dir. proc., 1995, 969.
(12) V. anche, perché espressione di questi meccanismi, PICARDI, Il giudice e le leggi nel codice Louis, in Riv. dir. proc., 1995, 3 ss.
(13) V. MONTERO AROCA, Il processo civile sociale come strumento di giustizia autoritaria, in Riv. dir. proc., 2004, 553.
(14) COMOGLIO, Direzione del processo e responsabilità del giudice, in Studi in onore di Liebman, Milano, 1979, I, 478.
(15) Per aspetti comparatistici, v. VIGORITI, Responsabilità del giudice, dei suoi ausiliari, del p.m. (diritto comparato e straniero), voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1991, XXVI, e opere ivi richiamate.
(16) Faccio riferimento al disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri in data 16 marzo 2007, recante «disposizioni per la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile».
Su esso, v. il commento di CIPRIANI-MONTELEONE, Un nuovo progetto di riforma del processo civile, in Giusto processo civ., 2007, 1, 3 ss.
Discorso non diverso può esser fatto con riferimento alle nuove modifiche al codice di procedura civile immaginate con il più recente disegno di legge approvato dalla camera dei deputati il 2 ottobre 2008.
(17) In questo senso, v. già SCARSELLI, Brevi note sull’errore nel compimento di attività giudiziarie, in Foro it., 2007, V, 234 ss.
(18) Per questi studi, v. D’ADDIO, Politica e magistratura (1848-1876), Milano, 1966, 5; MAROVELLI, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana dal 1848 al 1923, Milano, 1967, 72 ss.; NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura, Bari, 1969, 71 ss.
(19) E d’altronde, sotto questo profilo, non vi sono ragioni per differenziare la responsabilità del giudice rispetto a quella dell’avvocato (v. ora, su questi aspetti, SCARSELLI, Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 2007, 400 ss.).
Circa gli avvocati, la giurisprudenza ha in più occasioni rimarcato come le norme deontologiche forensi, pur se emanate da delibere del Consiglio nazionale forense, costituiscono fonte di diritto a tutti gli effetti (così Cass., sez. un., 20 dicembre 2007, n. 26810, Foro it., Rep. 2007, voce Avvocato, n. 174; 6 giugno 2002, n. 8225, id., 2003, I, 244, con nota di CARBONE; 23 marzo 2004, n. 5776, id., Rep. 2004, voce cit., n. 164, e Foro amm., 2004, 680), e pertanto la loro violazione può comportare, insieme ad altri presupposti, una responsabilità civile (in questo senso, PERFETTI, La responsabilità deontologica, in Rass. forense, 2006, 961).
Il meccanismo deve, a maggior ragione, valere per i giudici, visto che la fonte dei precetti deontologici giudiziari non si trova in un atto di categoria, bensì in un decreto legislativo (d.leg. 109/06).
E dunque, se anche per il magistrato la violazione della norma deontologica costituisce violazione della legge, va da sé, che, unitamente ad altri presupposti, detta violazione può costituire, tutto assieme, fonte di responsabilità civile.
Sommario: 1. Una sentenza importante, per quel che non dice - 2. Vent'anni di (non) applicazione della legge n. 117/88 - 3. I moniti della Corte di Giustizia delle Comunità Europee - 4. Per un «restyling » della legge n. 117/88
Con la sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008 la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della responsabilità civile dello Stato per l'illecito compiuto dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni. La pronunzia, per nulla innovativa, si inserisce perfettamente nel solco giurisprudenziale tracciato quasi ossessivamente dai giudici di merito e di legittimità in ordine all'interpretazione delle norme della legge 13 aprile 1988, n. 117.
I motivi che spingono a commentare questa decisione devono, allora, rintracciarsi altrove. In primo luogo, la sentenza merita attenzione perché emanata dopo che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, con la nota sentenza «Traghetti del Mediterraneo » (1), ha lanciato un chiaro monito alle Autorità italiane in ordine alla compatibilità della legge n. 117/88 con il diritto comunitario. In secondo luogo, la decisione in esame deve essere segnalata perché con essa la Suprema Corte ha definitivamente riformato una delle due uniche sentenze di merito che - a quanto consta - hanno riconosciuto la responsabilità dello Stato per l'illecito commesso dal magistrato (2). Infine, a parere di chi scrive, la sentenza merita di essere analizzata perché, intervenendo a distanza di vent'anni esatti dall'emanazione della legge n. 117/88, rimarca, ancora una volta, la ferma ostinazione della magistratura nei confronti di una legge evidentemente «scomoda » sotto molti profili.
Come anticipato, la pronunzia in esame non appare particolarmente significativa nel contenuto. La Corte di Cassazione ha, infatti, nuovamente affermato i due principi interpretativi da sempre propugnati con riferimento alla legge n. 117/88: da una parte, la necessità che la colpa grave prevista dal terzo comma dell'art. 2 sia connotata da una «totale mancanza di attenzione nell'uso degli strumenti normativi e da una trascuratezza così marcata ed ingiustificabile da apparire espressione di vera e propria mancanza di professionalità »; da un'altra, l'esonero dello Stato da qualsivoglia responsabilità nei casi in cui il magistrato abbia fornito una lettura della norma «secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente » (3).
Con riferimento alla prima delle quattro ipotesi di colpa grave previste dal terzo comma dell'art. 2 della legge n. 117/88 (4) - quella presa in considerazione nella pronuncia in commento - la giurisprudenza è, infatti, solita affermare che la negligenza inescusabile richiesta al magistrato debba essere tale da rendere la decisione adottata assolutamente inspiegabile, in quanto priva di riferimenti alla particolarità della vicenda «idonei a rendere comprensibile - anche se non giustificabile - l'errore del giudice » (5). Non solo. Il secondo comma dell'art. 2 della legge n. 117/88 prevede che nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non possa dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione delle norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove. Secondo la costante lettura che la giurisprudenza ha fornito di tale norma, questa attività non può costituire fonte di responsabilità «nemmeno sotto il profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell'assenza di una esplicita e convincente confutazione di opposte tesi » (6). Se questa è l'interpretazione continuamente offerta in materia, non stupisce affatto che autorevole dottrina abbia affermato che l'area di responsabilità dello Stato per l'illecito del magistrato viene, in pratica, fatta coincidere «con le sole decisioni giudiziarie "folli", che chiamano in causa lo psichiatra piuttosto che la tecnica legale » (7).
Per quanto più attiene al caso di specie, merita sottolineare che la c.d. clausola di salvaguardia prevista dal secondo comma dell'art. 2 della legge n. 117/88 è, probabilmente, quella che ha posto definitivamente in crisi la già flebile incisività della legge nel sistema delle garanzie apprestate al cittadino vittima dell'attività giudiziaria statale. Tale disposizione si risolve, infatti, in una clausola di judicial immunity capace di vanificare l'intero impianto della legge n. 117/88, dato che - come è stato autorevolmente osservato - le attività previste dalla norma in esame costituiscono l' «hard core dell'esercizio dell'imperium del magistrato » (8). La ratio sottesa alla clausola di salvaguardia è, ovviamente, volta a garantire la più ampia tutela del principio di autonomia ed indipendenza del magistrato; tuttavia tale disposizione, sottraendo al controllo di responsabilità il nucleo centrale ed indefettibile di ogni attività giudiziaria, finisce per predisporre un regime di totale insindacabilità dell'operato del magistrato, se è vero che la giurisprudenza afferma che per potersi dichiararne la responsabilità occorre provare «non tanto l'erroneità, quanto l'evidente abnormità » dell'interpretazione adottata (9).
È chiaro che per poter sindacare un'attività di interpretazione o di valutazione del fatto e delle prove occorre sempre effettuare un'ulteriore operazione esegetica, ed è ovvio che non potrà mai dar luogo a responsabilità l'adozione, da parte del magistrato, di una delle tante possibili interpretazioni di una norma. Discrezionalità, però, non significa totale arbitrarietà: così, non si può seriamente ritenere legittima un'interpretazione superata da una sedimentata evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, o dal sopraggiungere di nuovi principi di diritto che abbiano reso improponibile una data lettura del testo normativo (10). Analogamente, potrebbe dar luogo a responsabilità il comportamento del magistrato che applichi una norma in modo difforme dal diritto vivente, senza che lo stesso dia prova di aver conosciuto l'orientamento dominante e di essersene consapevolmente discostato (11).
Sotto questo profilo, peraltro, non si può non evidenziare un'incongruenza logica nella legge n. 117/88. Se si ritiene - come sembra ovvio - che i magistrati non siano «bocca della legge », ma abbiano una qualche libertà nell'interpretazione ed applicazione delle norme, bisogna, allora, ritenere che essi, in virtù del principio per cui «là dove c'è potere, lì c'è responsabilità », debbano essere responsabili degli illeciti compiuti in esecuzione del potere loro conferito. Se, invece, si ritiene che i magistrati non abbiano alcuna libertà nell'interpretare le norme di diritto, allora non ha comunque senso la limitazione de qua, risolvendosi in una mera superfetazione, perché tale norma presuppone che in capo al giudice via sia un certo grado di libertà che è, invece, escluso in radice. In nessuna delle due ipotesi la clausola di salvaguardia assume un senso logico.
Come già anticipato, la legge n. 117/88 è stata oggetto di una recente pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (12), chiamata a valutare, da un lato, se uno Stato membro possa rispondere degli errori commessi dai giudici nazionali nell'applicazione del diritto comunitario e, dall'altro, se sia incompatibile con i principi del diritto comunitario una normativa nazionale che escluda la responsabilità dello Stato per l'illecito del magistrato nei casi di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove e, nelle altre ipotesi, limiti tale responsabilità ai soli casi di dolo e colpa grave tassativamente indicati ex lege.
Per il vero, nelle more del procedimento istaurato contro l'Italia la Corte di Giustizia aveva già anticipato la risposta al primo quesito, affermando che lo Stato è sempre tenuto a riparare il danno causato dalla violazione del diritto comunitario, anche allorché questo discenda dal comportamento di un organo giurisdizionale, a condizione che vi sia una violazione grave e manifesta di una norma preordinata a conferire diritti ai singoli (13). Il primo dei due punti sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia, quindi, era già stato risolto in senso positivo: restava, allora, da analizzare la compatibilità della legge n. 117/88 con il diritto comunitario. Dopo un'attenta analisi della disciplina in esame, la Corte di Lussemburgo ha affermato che il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro «per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove ». Il diritto comunitario osta, altresì, ad una legislazione nazionale «che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente » (14).
Prima di analizzare le ripercussioni che la pronunzia in esame potrebbe avere nell'ordinamento italiano, occorre effettuare una breve puntualizzazione. Con la sentenza «Traghetti » la Corte di Giustizia ha inteso ribadire l'importanza della funzione «nomofilattica » delle Corti di ultima istanza degli Stati membri e, a tal fine, ha strutturato la responsabilità dello Stato-giudice sul modello della responsabilità dello Stato-legislatore: in entrambi i casi, per il principio di unità dello Stato è sempre quest'ultimo a rispondere delle violazioni del diritto comunitario. Diversamente, la legge n. 117/88 ha (rectius: dovrebbe avere) tra i suoi obiettivi primari quello di garantire ai cittadini il risarcimento dei pregiudizi sopportati a causa dell'illecito compiuto dal magistrato, indipendentemente dalla natura della norma violata. Riprova di tale differente impostazione di fondo sta anche nel fatto che la sentenza «Traghetti » ha come referente un organo giurisdizionale di ultimo grado deputato a garantire la corretta applicazione del diritto comunitario, mentre la legge n. 117/1988 si applica a tutti i giudici.
Questa precisazione, peraltro, non impedisce di giungere ad una rilettura della legge in esame alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia. Tale operazione, peraltro, appare ancor più necessaria laddove si consideri che la pronuncia della Corte di Lussemburgo imporrà la disapplicazione della legge n. 117/88 solo nei casi in cui venga in rilievo una questione di interpretazione ed applicazione della normativa comunitaria. Ciò potrebbe creare un'irragionevole disparità di trattamento tra coloro che verranno lesi dall'interpretazione di una norma di diritto comunitario e coloro che, invece, verranno pregiudicati dall'interpretazione di una norma di diritto interno (15).
Una soluzione potrebbe essere quella di innalzare la tutela offerta al cittadino nazionale al livello di quella offerta al cittadino comunitario e, in tal senso, le vie percorribili sono essenzialmente due: o una radicale riforma della legge n. 117/1988 ad opera del legislatore, oppure una sua modifica per il tramite della Corte costituzionale che dovrebbe dichiararla illegittima nella parte in cui, in violazione degli artt. 2, 3 e 117 Cost., appresta per il cittadino leso da una violazione del diritto interno una tutela inferiore a quella che lo stesso potrebbe ottenere davanti ad una violazione del diritto comunitario (16). In alternativa, si potrebbe tentare di ricercare un'interpretazione «comunitariamente » orientata della disciplina in esame.
Con riferimento alla problematica relativa alla limitazione della responsabilità dello Stato prevista dal secondo comma dell'art. 2 della legge n. 117/88, si potrebbe prendere spunto dalla posizione sostenuta dal governo italiano innanzi alla Corte di Giustizia nella vicenda «Traghetti ». Discostandosi apertamente da quanto sostenuto dallo stesso giudice italiano remittente, il governo ha affermato che la clausola di salvaguardia non dovrebbe trovare applicazione nelle ipotesi in cui l'interpretazione del diritto abbia condotto ad una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. La fattispecie di colpa grave prevista dall'art. 2, comma 3, lett. a) costituirebbe, infatti, una deroga all'ipotesi prevista dall'art. 2, comma, 2, già di per sé derogatoria del principio di responsabilità sancito dall'art. 1: si tratterebbe, cioè, di un'eccezione nell'eccezione. Attraverso questo coordinamento sembrerebbe, allora, possibile affermare che l'attività di interpretazione del diritto e di valutazione del fatto e delle prove sia in linea di principio insindacabile, salvo nei casi in cui essa dia luogo ad una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile.
Per quanto, invece, riguarda tale limitazione della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, la Corte di Giustizia ha affermato che la limitazione non può condurre ad escludere la responsabilità dello Stato per violazione manifesta del diritto comunitario. A tal fine, occorre prendere in considerazione il grado di chiarezza della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità dell'errore, l'eventuale sussistenza di un pregresso e consolidato indirizzo espresso da un'istituzione comunitaria e, infine, la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale, dell'obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234, terzo comma, del Trattato CE. In ogni caso, sussiste violazione del diritto comunitario allorché il giudice, con la propria decisione, abbia dato prova di ignorare la giurisprudenza della Corte di Giustizia in quella data materia.
È evidente che per la Corte di Lussemburgo risulta difficile elaborare un concetto di colpa che possa valere per tutti gli Stati membri. Di qui la necessità di adottare una soluzione «neutrale » che ponga l'accento su indici di facile individuazione per ogni Stato: così, accanto ad elementi di indubbio carattere oggettivo (17), quali il grado di chiarezza della norma violata, la sussistenza di un pregresso orientamento giurisprudenziale comunitario e la violazione dell'obbligo di rinvio, si rivengono due elementi - il riferimento al carattere intenzionale della violazione ed alla scusabilità dell'errore - che introducono una valutazione in termini soggettivi dell'operato dell'organo di giustizia. Questi ultimi elementi sono, peraltro, i più significativi per l'analisi condotta. Ed invero, il carattere intenzionale della violazione sembra essere paragonabile al requisito del dolo, mentre l'inescusabilità dell'errore sembra potersi paragonare al concetto di colpa grave. Nessun altro requisito soggettivo è previsto dalla Corte di Giustizia: pertanto, la rigorosa tipizzazione delle ipotesi di colpa grave prevista dal terzo comma dell'art. 2 della legge n. 117/88 e l'ancor più rigorosa interpretazione giurisprudenziale che di tali ipotesi è stata fatta sono in contrasto con i principi comunitari, laddove rendono impossibile l'imputazione allo Stato della responsabilità per la violazione di una norma di legge sufficientemente chiara e precisa, in relazione alla quale sia possibile registrare un pregresso e consolidato orientamento interpretativo.
Se quanto sopra affermato è vero, è chiaro che la legge n. 117/88, per come è e per come viene costantemente interpretata dai giudici italiani, non offre alcuna seria garanzia di tutela nei confronti del cittadino danneggiato da un illegittimo comportamento del magistrato. In un'ottica propositiva si può, allora, tentare di immaginare come la disciplina in analisi potrebbe essere migliorata: a tal fine, occorre capire quale sia la funzione che deve essere attribuita alla responsabilità del magistrato.
Se si ritiene che questa debba esclusivamente fornire idonee garanzie di riparazione al cittadino leso da un illecito compiuto dal magistrato, in un'ottica prettamente riparatoria (18), allora l'impianto strutturale della legge può apparire, in linea di massima, adeguato: per il danneggiato, infatti, è tendenzialmente irrilevante sapere chi sarà tenuto a risarcire il danno, mentre è per lui fondamentale la consapevolezza di poter contare su un soggetto capiente e facilmente escutibile. Seguendo questa impostazione, il magistrato potrebbe anche non venire mai in rilievo nel rapporto risarcitorio, neppure in sede di rivalsa, ma proprio per la sua totale estraneità alla vicenda risarcitoria non avrebbe più senso né l'attuale limitazione delle ipotesi che possono dar luogo a dolo e colpa grave, né la presenza del filtro di ammissibilità della domanda previsto dall'art. 5 della legge n. 117/88.
Il ragionamento cambia radicalmente se si ritiene che una legge in materia di responsabilità civile del magistrato debba avere, oltre ad una funzione naturalmente compensativa, anche una funzione preventivo-punitiva volta ad incidere sulla condotta del magistrato (19). Esigenze di tutela dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura possono, qui, giustificare la limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave: la tipizzazione delle ipotesi di colpa grave attualmente proposta dall'art. 2, terzo comma, della legge n. 117/88 dovrebbe, comunque, lasciar spazio ad una maggiore apertura della norma, capace di ricomprendere in sé anche altre fattispecie che, allo stato attuale, non trovano adeguata copertura risarcitoria. Anche la clausola di salvaguardia dovrebbe, in questa prospettiva, mutare di contenuto. Il principio per cui l'attività di interpretazione delle norme di diritto non può dar luogo a responsabilità dovrebbe essere specificato per affermare che, qualora il giudice si discosti da un'interpretazione ormai pacifica e consolidata nel tempo, questi dovrà sempre dar conto della propria scelta, dimostrando di aver conosciuto il pregresso orientamento giurisprudenziale e di averlo disatteso per giustificati motivi. Analogo discorso dovrà valere per quanto riguarda l'attività di valutazione del fatto e delle prove: alla totale esenzione da qualsivoglia responsabilità, prevista dalla vigente disciplina, dovrà sostituirsi la regola per cui saranno pienamente sindacabili le attività di valutazione del fatto e delle prove che risultino apodittiche, illogiche, arbitrarie o immotivate. Infine, dovrebbe essere mantenuto il filtro di ammissibilità dell'azione previsto dall'art. 5 della legge n. 117/88, per evitare che il magistrato, suscettibile di essere convenuto direttamente in giudizio da parte del danneggiato, possa divenire vittima di azioni temerarie o vessatorie. Tale filtro, tuttavia, dovrebbe essere limitato ad un primissimo controllo di ammissibilità dell'azione, senza che sia consentito effettuare in tal fase una valutazione, sia pure approssimativa, della fondatezza della domanda.
Pare che lo scopo della consultazione popolare dell'8 novembre 1987 fosse proprio quello di premere verso una crescente responsabilizzazione dei magistrati: ai cittadini che, numerosissimi, espressero il loro assenso all'abrogazione della previgente disciplina non interessava conseguire maggiori garanzie di ottenere un adeguato risarcimento del danno in caso di illecito del magistrato, quanto piuttosto avere la certezza che il giudice fosse chiamato a rispondere personalmente degli illeciti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni. Del resto, già all'indomani dell'abrogazione della previgente disciplina, quando ancora la legge n. 117/88 non era stata approvata, parte della dottrina aveva proposto l'adozione di un sistema di responsabilizzazione sociale dei magistrati, capace di «combinare una misura ragionevole di responsabilità politica e sociale con una misura ragionevole di responsabilità giuridica », entrambe in equilibrio con i fondamentali valori di indipendenza e di responsabilità del giudice (20). Forse, solo aderendo a questo modello la responsabilità del giudice non sarebbe più vista esclusivamente in funzione della tutela del prestigio e dell'indipendenza della magistratura, bensì in funzione dei c.d. «consumatori del diritto », fruitori ultimi del servizio-giustizia (21).
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(1) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, 13 giugno 2006, C-173/03, in Resp. civ., 2007, 625, con nota di F.M. Scaramuzzino, Mancato rinvio pregiudiziale del giudice d'ultima istanza e risarcimento del danno; in Guida al diritto, 2006, n. 4, 31, con nota di A. Damato, Cancellato il limite che subordina l'azione alla dimostrazione del dolo o colpa grave; in Foro it., 2006, IV, 420, con nota di E. Scoditti, Violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice, A. Palmieri, Corti di ultima istanza, diritto comunitario e responsabilità dello Stato: luci ed ombre di una tendenza irreversibile e M. Giovannetti, La responsabilità civile dei magistrati come strumento di nomofilachia? Una strada pericolosa; in Corr. giur., 2006, 1513, con nota di R. Conti, Responsabilità per atto del giudice, legislazione italiana e Corte UE. Una sentenza annunciata; in Resp. civ. prev., 2006, 2039, con nota di R. Caranta, Giudici responsabili?; in www.forumcostituzionale.it, con nota di F. Biondi, Un "brutto" colpo per la responsabilità civile dei magistrati (nota a Corte di Giustizia, sentenza 13 giugno 2006, TDM contro Italia).
(2) Oltre alla sentenza del Tribunale di Genova del 2005, richiamata (e riformata) dalla pronunzia in epigrafe, solo il Tribunale di Brescia, con sentenza del 29 aprile 1998 (in questa Rivista, 1998, 1020) sembra aver riconosciuto il risarcimento del danno ex art. 2 legge n. 117/88.
(3) Così la sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008 che qui si commenta.
(4) Ove si prevede che dà luogo a colpa grave la violazione di legge determinata da negligenza inescusabile.
(5) Cass. 6 novembre 1999, n. 12357, in Giust. civ., 2000, 2054, ma in tal senso cfr. anche Cass. 7 novembre 2003, n. 16696, in Foro it., Rep. 2003, voce «astensione e ricusazione», n. 93; Cass., 29 novembre 2002, n. 16935, ivi, 2002, voce «astensione e ricusazione», n. 95; Cass., 20 settembre 2001, n. 11859, ivi, 2001, voce «astensione e ricusazione», n. 104; Cass., 6 ottobre 2000, n. 13339, ivi, 2000, voce «astensione e ricusazione», n. 112.
(6) Cass., 5 dicembre 2002, n. 17259, in Giust. civ., 2003, p. 2789, ma così anche Cass., 5 dicembre 2002, n. 17259, in Foro it., Rep. 2002, voce «astensione e ricusazione», n. 97; Cass., 30 luglio 1999, n. 8260, ivi, 1999, voce «astensione e ricusazione», n. 111.
(7) V. Roppo, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione, e diritto europeo: una case story in attesa del finale, in U. Breccia - A. Pizzorusso, La responsabilità dello Stato, a cura di F. Dal Canto, Pisa, 2006, 30: «l'osservatore rimane colpito dall'enfasi e dalla ridondanza retorica con cui la Corte di Cassazione si preoccupa di accumulare criteri che hanno l'evidente funzione pratica di spingere a livelli sempre più alti - e in pratica difficilmente raggiungibili - la soglia oltre la quale può scattare la responsabilità dello Stato per il fatto del suo organo giudiziario».
(8) P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 1998, 885. Cfr. anche D. Cenci, Limiti alla responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, in Giur. it., 1996, 173.
(9) Così la sentenza in commento.
(10) Cfr. A.M. Benedetti, La prima condanna dello Stato per grave negligenza di un magistrato, in questa Rivista, 1998, 1020; D. Cenci, Limiti alla responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, cit., 172.
(11) Secondo F. Biondi, La responsabilità del magistrato, Milano, 2006, 205, «in un caso di questo tipo, solo un'adeguata motivazione del dissenso dimostrerà che il magistrato ha deciso consapevolmente, ben conoscendo lo stato della giurisprudenza sul punto»; in tal senso anche F. Angeloni, Ancora sul precedente di Cassazione: questa volta sotto il profilo della responsabilità civile del magistrato che lo disattende senza indicare le ragioni della propria decisione, in Contr. impr., 2001, 45.
(12) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, 13 giugno 2006, C-173/03, cit.
(13) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 30 settembre 2003, causa C-224/01, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2004, 490, con nota di M. Magrassi, Il principio di responsabilità risarcitoria dello Stato-giudice tra ordinamento comunitario, interno e convenzionale; in questa Rivista, 2004, 30, con nota di R. Conti, Giudici supremi e responsabilità per violazione del diritto comunitario; in Foro it., 2004, IV, 4, con nota di E. Scoditti, "Francovich" presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale; in Resp. civ. prev., 2004, 57, con nota di S. Bastianon, Giudici nazionali e responsabilità del diritto comunitario. La sentenza è altresì commentata in Nuova giur. civ. comm., 2005, 1, con nota di G. Alpa, La responsabilità dello Stato per «atti giudiziari ». A proposito del caso Köbler c. Repubblica d'Austria; in F. Biondi, La responsabilità del magistrato, cit., 221.
(14) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, 13 giugno 2006, C-173/03, cit. Ma già nel 2004 il Tribunale di Roma aveva affermato che «l'art. 2 legge 117/1988, nella parte in cui pone limitazioni all'esercizio dell'azione risarcitoria dei cittadini per cattiva interpretazione della legge da parte del magistrato, è in contrasto con la normativa comunitaria volta ad affermare che gli stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario […] anche quando la violazione di cui trattasi deriva da una decisone di un organo giurisdizionale di ultimo grado» (Trib. Roma 29 settembre 2004, in Dir. e giust., 2004, n. 41, 80).
(15) Cfr. V. Roppo, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione, e diritto europeo: una case story in attesa del finale, cit., 48; F. Biondi, Un "brutto" colpo per la responsabilità civile dei magistrati (nota a Corte di Giustizia, sentenza 13 giugno 2006, TDM contro Italia), cit.
(16) Così V. Roppo, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione, e diritto europeo: una case story in attesa del finale, cit., 50.ù
(17) Così R. Conti, Giudici supremi e responsabilità per violazione del diritto comunitario, cit., 30.
(18) In tal senso N. Picardi, Introduzione, in Legge 13 aprile 1998, n. 117. Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati. Commentario, a cura di N. Picardi - R. Vaccarella, in Nuove leggi civ. comm., 1989, 1214.
(19) Così C. Amato, In margine a Corte Cost., 19 gennaio 1989, n. 18, sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp. civ. prev., 1989, 585. In un articolo comparso sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983, il celebre scrittore L. Sciascia affermava, con acuta ironia, che un modo per responsabilizzare i magistrati potrebbe essere «quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d'esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l'Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza». Con altrettanta ironia F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2007, LIII, suggerisce che «il magistrato il quale intenda svolgere le funzioni di P.M. o di g.i.p. debba fare, almeno ogni due anni, uno stage di un mese quale recluso nelle patrie galere, in modo che i provvedimenti restrittivi che chiederà o adotterà siano presi con piena cognizione di causa».
(20) M. Cappelletti, Giudici irresponsabili? Studio comparativo sulla responsabilità dei giudici, Milano, 1988, 88. Contra N. Trocker, La responsabilità del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, 1317 e C. Salvi, La responsabilità civile, Milano, 2005, 120, per i quali risulta difficile assegnare alla responsabilità civile il compito di garantire l'osservanza da parte dei giudici dei loro doveri, ruolo che dovrebbe essere, invece, svolto dalla responsabilità disciplinare.
(21) M. Cappelletti, Giudici irresponsabili?, cit., 90.
Sommario: Premessa - 1. Dal Codice di procedura civile del 1942 al referendum del 1987 - 2. La legge 117/88: struttura del testo e cenni generali - 3. La responsabilità per dolo della sentenza della Cassazione 21618/07 - 4. La colpa grave nell'interpretazione della giurisprudenza e della sentenza della Cassazione 7272/08 - 5. La responsabilità per violazione del diritto comunitario nella sentenza 1730/08 del Tribunale di Genova
La responsabilità civile del magistrato attira periodicamente l'attenzione degli operatori del diritto, riacquistando visibilità soprattutto nei momenti di tensione nei rapporti tra magistratura e politica, o in corrispondenza di casi giudiziari clamorosi.
A fronte di tanto interesse non si sono registrati sostanziali mutamenti nella prassi applicativa delle norme, consolidata da decenni nel limitare il risarcimento del danno a casi estremi. Persino l'intervento legislativo organico sulla materia, compiuto ormai più di venti anni fa con la legge 13 aprile 1988, n. 117, ha prodotto un numero esiguo di sentenze sfavorevoli allo Stato (1).
Si può quindi dire che il "sistema" della responsabilità civile del magistrato abbia dimostrato nel tempo una resilienza davvero notevole, riassorbendo di volta in volta gli effetti di referendum, riforme, dibattiti dottrinali.
La breve rassegna di pronunce che precede questa nota offre una selezione interessante di temi, a loro modo simbolici rispetto a quanto appena osservato.
La sentenza della Cassazione 21618/07 si occupa del dolo del giudice, una delle fattispecie più antiche di responsabilità, mentre la pronuncia 7272/08 offre il punto di vista ormai consolidato sulla responsabilità per colpa grave, elemento cardine della normativa oggi vigente. Infine, la sentenza del Tribunale di Genova considera alcuni aspetti della responsabilità per violazione del diritto comunitario, ovvero il più recente e promettente tema di discussione.
Pare opportuno premettere all'esame di questi tre casi una sommaria valutazione sull'efficacia della legge 117/88 e delle norme antecedenti. La consapevolezza che su questo argomento si intrecciano principi di rango elevatissimo del nostro ordinamento, quali l'indipendenza della magistratura e il buon funzionamento della macchina giudiziaria, richiede massima chiarezza sugli obiettivi.
Concepire la responsabilità civile del magistrato come strumento di stimolo per migliorare l'efficienza del servizio giustizia implica, a mio avviso, il rischio di ridurla ad un elemento di pressione sui membri dell'ordine giudiziario, con potenziali effetti negativi proprio sull'indipendenza di giudizio degli stessi.
Le forme di responsabilità civile diretta possono accentuare la propensione del magistrato ad adottare l'opzione meno "rischiosa" sotto il profilo delle eventuali conseguenze civili (2). Da questo punto di vista, l'autonomia dei magistrati appare sensibile ad un aggravamento della responsabilità personale, mentre non si hanno certezze quanto ai benefici sull'amministrazione della giustizia.
Per queste ragioni mi pare preferibile considerare lo strumento della responsabilità civile nell'ottica di migliorare il livello di compensazione dei danni derivanti dal malfunzionamento dell'apparato giudiziario (3). Ed è in questa prospettiva che sono espresse le valutazioni - a tratti molto critiche - che seguono.
Fino al 1987 la responsabilità del Giudice è stata regolata dagli artt. 55, 56 e 74 del Codice di procedura civile, che prevedevano quattro ipotesi di responsabilità: dolo, frode, concussione e diniego di giustizia. Per poter introdurre l'azione risarcitoria era necessaria un'autorizzazione preventiva da parte del Ministero di Giustizia.
Questo assetto normativo fu adottato nel 1942 recependo l'impostazione del precedente Codice di procedura del 1965 (4). Si noti che il regime fascista fece largo uso degli strumenti disciplinari e gerarchici, ma non utilizzò per scopi di controllo sull'ordine giudiziario l'istituto della responsabilità civile (5). Al contrario, l'art. 56 c.p.c. stabiliva che fosse proprio il vertice dell'amministrazione giudiziaria a presidiare l'inizio dell'azione civile, garantendo in questo modo una certa protezione dal controllo esterno.
Di seguito si entrerà nel dettaglio delle diverse fattispecie dolose già previste dal Codice di rito; per il momento si noti che un simile assetto normativo, a prima vista assai sfavorevole alle pretese dei danneggiati, era frutto di una concezione dello Stato diversa da quella destinata ad affermarsi nei decenni successivi.
Ciò nonostante, l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana non fu accompagnata da alcun mutamento a livello di legge ordinaria. Come accaduto anche in altri settori dell'ordinamento, infatti, il rinnovamento del sistema fu affidato alla capacità espansiva dei nuovi principi generali introdotti nella carta fondamentale. In questo caso, i principi di riferimento sono l'indipendenza dell'ordine giudiziario e la responsabilità dello Stato per le azioni dei dipendenti pubblici, questo ultimo previsto dell'art. 28 Cost..
Tale norma, secondo l'interpretazione della dottrina prevalente e fatta propria dal Giudice costituzionale, ammette l'esistenza di regimi differenziati di responsabilità per le diverse categorie di dipendenti pubblici (6). Una simile lettura ha permesso agli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. di trovare legittimazione anche nel nuovo contesto costituzionale.
Superati i dubbi di legittimità, il descritto sistema di responsabilità civile restò in vigore fino al 1987, senza conoscere nel corso dei decenni una effettiva applicazione (7).
Solo dopo il referendum abrogativo del 1987, promosso sulla scia di casi giudiziari assai discussi, il legislatore fu costretto ad occuparsi della materia. Il dibattito fuori e dentro il Parlamento fu molto vivace, legittimando notevoli aspettative ed interesse intorno alla riforma.
Il testo di legge del 1988 offre alcune novità molto interessanti: tra tutte l'affermazione della responsabilità dello Stato giudice, collocata in posizione prevalente rispetto a quella personale del magistrato (prevista solo in seconda battuta e entro limiti predefiniti) (8).
Altro punto qualificante è la previsione, a fianco delle tradizionali fattispecie dolose e del diniego di giustizia, della tanto attesa responsabilità per colpa grave, cristallizzata tuttavia dallo stesso legislatore in un catalogo tassativo di fattispecie (9).
La nuova legge, tuttavia, costituisce soprattutto il risultato di un compromesso: essa sovrappone senza coordinarli i diversi sistemi di responsabilità ipotizzati nell'iter di approvazione parlamentare, controbilanciando la (parziale) apertura alla responsabilità per colpa con diverse cautele, disomogenee tra loro e penalizzanti per il danneggiato.
Sul fronte sostanziale, l'area della responsabilità risulta ulteriormente circoscritta dalla c.d. "clausola di salvaguardia", che esclude la responsabilità in ogni caso in cui il giudice compia un'attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove.
Dal lato processuale, l'art. 5 della legge 117/88 ripropone uno strumento di valutazione preventiva di ammissibilità, seppure in forma giurisdizionale e non più amministrativa: salvo il danno derivante da reato (che si dice regolato dalle "norme ordinarie") l'azione di risarcimento è sottoposta ad un vaglio preventivo da parte del Tribunale in forma collegiale (10).
Dal punto di vista dell'effettività della tutela, il bilancio dell'applicazione del testo del 1988 è ad oggi pesantemente deficitario, considerato che la responsabilità dello Stato è stata riconosciuta solo in ipotesi assolutamente marginali.
La maggior parte delle iniziative giudiziali si è arenata sullo scoglio della valutazione di ammissibilità preliminare della domanda, rivelatasi uno sbarramento eccessivamente selettivo.
Si ricorda che la legge consente in tale fase preliminare anche una valutazione di "manifesta infondatezza" sul merito della domanda (11); nella prassi, la prospettiva risulta persino ribaltata, tanto che solo le cause "manifestamente fondate" superano l'esame di ammissibilità.
Non sorprende quindi che la legge 117/88 abbia attirato dure critiche, numerose contestazioni di costituzionalità e iniziative referendarie (12), superando tuttavia pressoché indenne tutti questi ostacoli.
Ciò fino al momento in cui i giudici comunitari sono stati invitati ad occuparsene. Ed infatti, come meglio vedremo in seguito, nel 2006 la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato che la legge 117/88 contrasta con il principio di effettività, poiché rende eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto al risarcimento del danno da violazione del diritto comunitario (13).
Ecco dunque emergere le ragioni che rendono suggestiva una lettura congiunta delle tre sentenze qui commentate: il dolo rappresenta il passato della responsabilità civile del magistrato; la colpa grave il suo difficile presente, gli orientamenti del giudice comunitario la possibile chiave per un futuro più equilibrato.
La prima decisione in esame condanna lo Stato al risarcimento per un comportamento doloso del magistrato, fattispecie tanto rara da far sorgere il dubbio di trovarsi di fronte o a un caso limite o a qualche novità giurisprudenziale. Senza anticipare le conclusioni, forse sono vere entrambe le cose.
La fattispecie di cui si discute è regolata dal diritto sostanziale precedente all'entrata in vigore della legge 117/88, seppur in un contesto già influenzato dalle nuove norme.
Vediamo il caso: nel corso di un processo penale per omicidio plurimo, l'imputato subiva una carcerazione preventiva di oltre 5 anni. A seguito della completa assoluzione, il danneggiato introduceva una causa di risarcimento danni contro diverse amministrazioni dello Stato, assumendo che l'intera vicenda giudiziaria aveva tratto origine da una ricognizione di persona effettuata presso gli uffici della questura di Napoli in violazione delle garanzie di legge, alla presenza di diversi agenti di pubblica sicurezza e del Sostituto Procuratore della Repubblica, che ne aveva consentito lo svolgimento.
Al termine dei due gradi di giudizio di merito la domanda, ritenuta ammissibile senza il vaglio preventivo previsto dall'art. 5 della legge 117/88, era accolta con condanna a carico del Ministero della Giustizia.
La sentenza di appello è stata confermata dalla Suprema Corte sia sotto il profilo dell'ammissibilità della domanda (14), sia sotto l'aspetto della sussistenza di un comportamento rilevante da parte del magistrato.
Quest'ultima statuizione costituisce il punto di maggiore interesse, perché suscettibile di influenzare anche fattispecie regolate integralmente dalla legge 117/88 (dal momento che il passaggio dal vecchio al nuovo testo non ha reso obsoleta la giurisprudenza precedente).
Norma cruciale è l'abrogato art. 55 c.p.c., il quale prevedeva - oltre all'ipotesi del diniego di giustizia - la tradizionale triade di dolo, frode e concussione. La concussione ivi contemplata coincideva con il medesimo reato, come previsto dall'art. 317 c.p., mentre per frode si intendeva l'esercizio della funzione da parte del giudice in modo tale da determinare, con artifici o inganni, l'ingiustizia del provvedimento e la causazione di un danno ingiusto (15). L'ipotesi di dolo è stata considerata residuale e pertanto comune anche a tutte le altre fattispecie previste dalla norma (16).
La casistica su queste norme è povera, sia per la ridotta manifestazione di comportamenti dolosi all'interno dell'ordine giudiziario, sia in ragione dell'orientamento restrittivo da parte della giurisprudenza.
Innanzitutto si è ritenuto che la responsabilità per dolo non possa prescindere dal compimento di uno specifico e determinabile atto ingiusto, non necessariamente di contenuto decisorio (nelle forme anche dell'omissione, ma nel caso con un notevole aggravio dell'onere probatorio). Un comportamento illecito che non si concretizzi anche in un atto illegittimo potrà dare luogo ad altre forme di responsabilità (penale, ad esempio), ma non a responsabilità civile nel senso inteso dalle norme speciali.
Una simile concezione sgombra il campo da tutti i casi in cui l'intento di procurare un danno alla parte sia solo sintomatico o genericamente riferibile all'operato del magistrato, ma non riconducibile ad un atto specifico (17).
Quanto alla struttura dell'elemento soggettivo, il dolo è sempre stato inteso non come semplice volontarietà dell'azione che si assume dannosa, bensì nel senso di diretta consapevolezza di compiere un atto giudiziario formalmente e sostanzialmente illegittimo.
Tale principio è stato specificato dalla giurisprudenza nel senso di imporre all'attore una prova puntuale non solo della consapevolezza da parte del magistrato di compiere un atto illegittimo, ma anche della volontà di nuocere alla parte processuale, ledendone i diritti (18); una sorta di dolo specifico.
E così si è richiesto che l'atto dannoso fosse stato determinato da fini estranei alle esigenze dell'amministrazione della giustizia, quali "il mero capriccio", l'inimicizia nei confronti della parte, l'intento di "compiacere l'ambiente". Tali evidenti interessi personali ed egoistici, peraltro, non escludevano, nel vigore della vecchia normativa, la responsabilità concorrente dello Stato (oggi comunque affermata).
Considerando nel dettaglio le poche condanne edite, è interessante notare come in un caso la responsabilità fu affermata per avere il magistrato assunto un provvedimento restrittivo della libertà personale al solo scopo di impartire "una lezione" al danneggiato (19); mentre in altra circostanza il magistrato era già stato condannato per il reato di concussione e quindi il dolo era stato pienamente accertato sia rispetto alla violazione delle norme, sia relativamente alla coscienza di nuocere alla parte (20).
La sentenza in commento si conforma a tale impostazione, ma affronta specificamente un passaggio logico molto importante, solo accennato in altre pronunce (21).
Si afferma infatti che la consapevolezza specifica di ledere il diritto della difesa è in re ipsa nella violazione cosciente dell'obbligo di procedere ad un atto con le formalità obbligatorie; infrangere le regole che presiedono alla formazione dell'atto stesso comporterebbe infatti, con effetto immediato, la negazione delle garanzie a favore della parte.
Orbene, non si dubita che nel caso di una ricognizione illegittima di persona la lesività dell'atto emerga intuitivamente, ma quanto enunciato dalla Cassazione sembra pretermettere il secondo passaggio logico richiesto dalla giurisprudenza precedente (per quanto frammentaria), ovvero la prova della coscienza e volontà di arrecare un danno alla parte.
E considerato che in ambito processuale ogni norma è ricollegabile più o meno facilmente alla tutela del diritto di difesa della parte, sembra configurarsi un sensibile alleggerimento dell'onere della prova, se non addirittura una specie di automatismo.
La scelta da parte del Giudice di argomentare entrando nel dettaglio dell'atteggiamento soggettivo del danneggiante - nonostante la gravità del comportamento potesse aprire altre vie per giungere alla condanna - evidenzia forse l'intenzione di sottolineare proprio tale agevolazione probatoria.
Non è tuttavia facile valutare la portata di questa apertura. A differenza dei casi di condanna citati in precedenza, nella sentenza commentata mancano ragguagli su come sia stata raggiunta la prova del dolo ed è impossibile stabilire quanto la fattispecie concreta abbia influito sul merito della decisione.
Anche per questa ragione, se il principio enunciato sarà ripreso in futuro dovrà essere ben ponderato, specialmente in riferimento a comportamenti lesivi esplicatisi al di fuori del processo penale.
Ove infatti sia meno immediato il legame tra la violazione di una norma e il danno a carico della parte, si richiede una applicazione più cauta di presunzioni o semplificazioni dell'onere probatorio.
La sentenza della Cassazione del 18 marzo 2008, n. 7272 non porta elementi di novità, ma si rivela in ogni caso utile per comprendere l'orientamento della giurisprudenza in materia di colpa grave.
A seguito della scoperta di opere abusive in una zona fortemente vincolata, era stato disposto il sequestro non solo delle aree interessate dall'abuso, ma di un'intera azienda agricola con annesso agriturismo, attiva sui terreni adiacenti. Il provvedimento, motivato in base all'art. 321 c.p.p. (sequestro preventivo di cose pertinenti al reato), riguardava un'area di circa 400 ettari, ove invece l'abuso era relativo al rifacimento di un sentiero e due accessi al mare, dallo sviluppo complessivo di mille metri.
Nel corso del procedimento penale il sequestro era stato ridotto alla zona delle opere abusive e non era emerso alcun legame documentato tra l'abuso stesso e i terreni vicini, oggetto del provvedimento originario.
La domanda di risarcimento, fondata sulla sussistenza di una grave violazione di legge rispetto alla definizione di "cosa pertinente al reato" e comunque di una negligente valutazione dei presupposti di fatto per la concessione del sequestro, è stata respinta al termine dei due gradi del giudizio di merito.
I motivi di ricorso in Cassazione contestano, in particolare, sia la statuizione secondo la quale l'attività interpretativa in fatto e diritto può essere fonte di responsabilità solo ove "abnorme", sia un difetto di motivazione proprio sul punto dei presupposti del provvedimento, poiché la corte territoriale avrebbe tralasciato di operare una adeguata valutazione delle ragioni addotte a sostegno del sequestro.
Il problema comune a tutte le questioni sollevate è quello della delimitazione dell'area della "colpa grave".
Tale concetto è stato definito dalla giurisprudenza sia in senso generale, sia in riferimento alle singole fattispecie tipiche. L'orientamento prevalente afferma che la sussistenza di un comportamento gravemente colposo «implica la necessità della configurazione di un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 c.c., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato » (22).
Si tratta di una definizione che, anche trascurando l'ulteriore tipizzazione compiuta dalla legge 117/88, pone di per sé la responsabilità del magistrato al di fuori del campo della responsabilità professionale, ove invece la colpa grave costituisce una clausola generale.
Vi sono poi le specificazioni in riferimento alle diverse fattispecie tipiche previste dall'art. 2, comma terzo. Quanto al livello di colpa necessario per integrare la "grave violazione di legge" di cui alla lettera a), la giurisprudenza richiede una violazione grossolana e macroscopica della norma che sfoci in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, con sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero (23). In sostanza, anche una interpretazione del tutto aberrante, ma pur sempre astrattamente possibile, esime da responsabilità.
Quanto invece all'errore in fatto, ricordiamo che la norma richiede l'affermazione o la negazione di un fatto, determinate da negligenza inescusabile, incontrastabilmente contraddette dagli atti del procedimento.
In proposito, la giurisprudenza consolidata statuisce che «va ravvisato l'errore rilevante ai sensi delle lettere b) e c) del suddetto art. 2, comma 3, ove il giudice abbia posto a fondamento del suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento, mentre lo stesso errore deve essere escluso nell'ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto sussistente una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti ovvero sulla scorta di elementi insufficienti che, però, abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti » (24).
Nel caso di specie, la Cassazione ha innanzitutto affrontato il punto della "grave violazione di legge", rimarcando come i magistrati avessero posto a fondamento del sequestro una interpretazione estensiva dell'art. 321 c.p.p., già nota in giurisprudenza e tendente a valorizzare un collegamento indiretto tra il reato e il bene sequestrato.
Stando così le cose, su questo punto la pronuncia appare fedele al testo della legge e perciò condivisibile: è infatti chiaramente verificabile il criterio interpretativo utilizzato dai magistrati, oltretutto allineato ad un orientamento sull'art. 321 c.p.p. noto e diffuso.
In punto di diritto, quindi, la motivazione del sequestro si assesta ben prima della linea di confine tracciata dalla legge e dalla giurisprudenza; una diversa soluzione realizzerebbe una violazione non solo dell'art. 2, comma 3, lett. a), ma soprattutto della clausola di salvaguardia di cui al comma precedente.
Più problematico appare il motivo di ricorso per difetto di motivazione sulla valutazione dei fatti.
La questione si intreccia non solo con la clausola di salvaguardia, ma anche con l'art. 2, comma terzo, lett. b) e c), seppur non esplicitamente richiamato dal ricorrente, il quale tuttavia lamenta che i giudici di merito avrebbero omesso di valutare adeguatamente le (inesistenti) ragioni addotte dai magistrati a giustificazione dell'esorbitante estensione della misura cautelare.
Sul punto, la Suprema corte afferma: «una volta che il giudice abbia ritenuto una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto d'esame e di valutazione, si tratta in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti né può qualificarsi come rilevante dalla L. n. 117 del 1988, ex art. 2, comma 3, l'errore riscontrato a posteriori dal giudice del gravame sulla base del controllo esercitato sull'attività valutativa ».
Il che, a norma di legge, è ineccepibile, purché l'esame e la valutazione risultino esplicitati nel provvedimento o almeno nelle carte processuali.
Nella fattispecie, la Cassazione ha aggiunto che deve essere escluso in base agli atti che «la Corte genovese abbia ritenuto l'assenza di colpa grave nell'emissione del provvedimento cautelare sul presupposto soltanto dell'enunciazione di una mera ed indefinita ragione giustificatrice consistente in un giudizio prognostico ...; risultando invece che la stessa ha valutato attentamente ed analiticamente tutti gli elementi di prova acquisiti dal P.M. e sottoposti all'esame del g.i.p., nonché le ragioni per le quali si profilava non solo come plausibile, ma anzi concreto, il pericolo sia della commissione di nuovi illeciti che dell'aggravamento del vulnus già inferto all'ambiente ».
Per sostenere la censura di difetto di motivazione su questo punto, il ricorrente avrebbe dovuto indicare gli atti di indagine del procedimento penale di cui lamentava la omessa o insufficiente valutazione, onere che la Cassazione ha reputato non assolto.
Non è dato sapere quale fosse il contenuto degli atti posti all'attenzione dei giudice civile ai fini del risarcimento, ma l'impressione che si ricava è di una affermazione di principi che vanno anche oltre le intenzioni della norma.
Anche nel contesto assai restrittivo della legge 117/88, infatti, la lettura incrociata della clausola di salvaguardia e dell'art. 2, comma terzo, lett. b) e c) lascia un minimo margine per l'affermazione della responsabilità.
Se da un lato non vi è questione ove il procedimento valutativo risulti comunque intelligibile dal provvedimento che si assume dannoso, dall'altro lato non appare sufficiente una mera affermazione tautologica di aver valutato le prove, ove non vi siano elementi concreti di riscontro negli atti di indagine.
A prescindere dallo stato degli atti nel caso di specie, la soluzione accolta sembra invece accordare l'esenzione dalla responsabilità in base alla semplice allegazione di una qualsivoglia attività di ponderazione, anche solo formale e priva di supporto documentale.
Questa decisione, al di là dell'esito negativo dell'azione, offre una novità dirompente (per quanto annunciata), che segna di fatto l'ingresso nel nostro ordinamento interno dei principi recentemente affermati dal giudice comunitario in materia di responsabilità degli uffici giudiziari.
Vale la pena di riassumere brevemente il percorso della giurisprudenza comunitaria: dapprima si è radicato il principio per cui lo Stato è responsabile per la violazione manifesta del diritto comunitario anche ove ciò avvenga per mano dell'organo giurisdizionale di ultima istanza (25), con conseguente identificazione di un diritto "comunitario" al risarcimento del danno che derivi da tale violazione.
Successivamente, con la ormai nota sentenza della Corte di giustizia del 13 giugno 2006 (causa C-173/03) (26), si è affermato che tale diritto "comunitario" al risarcimento del danno è reso eccessivamente difficile e gravoso dalla legge 117/88, la quale pertanto si pone in contrasto con il principio di effettività. In particolare, costituisce ostacolo decisivo la clausola di salvaguardia di cui all'art. 2, comma primo.
In conseguenza di tali statuizioni è stato ipotizzato da subito un doppio binario di applicazione: ove l'illecito dedotto sia la violazione della legge comunitaria, l'unico requisito per l'affermazione di responsabilità dovrebbe essere il carattere manifesto della violazione stessa da parte dell'organo giudiziario. Dall'altro lato, i vincoli sostanziali previsti dalla legge 117/88 continuerebbero a regolare ogni altra azione giudiziale (27).
Con la pronuncia del Tribunale genovese questo scenario trova conferma, anche oltre l'ipotesi dell'illecito commesso da un giudice di ultima istanza (28).
La vicenda trae origine da un processo per truffa intentato nei confronti di due medici, uno dei quali alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. L'illecito contestato era la redazione di certificati medici falsi, che avrebbero indotto in errore l'amministrazione stessa sulla sussistenza di uno stato di malattia del proprio medico dipendente e quindi sulla giustificatezza delle sue assenze dal lavoro.
Conclusosi il procedimento penale con la completa assoluzione, l'attore (il medico dipendente dalla pubblica amministrazione), citava in giudizio da sia la Presidenza del Consiglio dei ministri per sentir accertare che la condotta della Procura procedente era affetta da colpa grave ex art. 2 della legge 117/88, sia il Ministero di Giustizia, richiedendo il risarcimento ex art. 2043 c.c. per la violazione dei precetti comunitari in materia di giusto processo.
A fondamento delle proprie pretese l'attore esponeva gli stessi fatti storici, consistenti principalmente in diversi e gravi errori nell'esame dei documenti a supporto dell'indagine; vizi decisivi che avevano portato all'esercizio di una azione penale rivelatasi totalmente infondata.
La domanda esplicata in base alla legge 117/88 era dichiarata inammissibile in sede di controllo preliminare sull'ammissibilità, per avvenuto decorso del termine di cui all'art. 4, mentre proseguiva la trattazione della domanda ordinaria per violazione del diritto comunitario.
E proprio in questa scissione risiede l'elemento più interessante: il Tribunale (pur rigettandola) ha deciso nel merito la domanda ex art. 2043, senza applicare i criteri previsti dalla legge speciale ma riferendosi esclusivamente ai parametri individuati dalla giurisprudenza comunitaria.
Sul punto, sembra esservi richiamo all'orientamento dottrinale che scinde nettamente l'ipotesi di illecito comunitario dello Stato dalla fattispecie di responsabilità dello Stato giudice.
In proposito, soprattutto, si noti che il Giudice richiama non solo il requisito della violazione "grave e manifesta" del diritto comunitario, ma evidenzia altresì due ulteriori criteri: "la sistematicità della violazione e gli effetti negativi sulla realizzazione degli obiettivi che le norme comunitarie si ponevano".
Vale la pena osservare che tali requisiti non risultano esplicitati nella sentenza Köbler, né in quella successiva del 2006: entrambe si erano limitate a richiedere che la norma comunitaria violata conferisse di diritti ai singoli, che la violazione fosse grave e manifesta e che sussistesse un nesso di causalità con il danno.
Secondo la Corte di Giustizia "tale violazione manifesta si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia" (29).
Non è chiaro se il Tribunale genovese intenda suggerire la sussistenza di ulteriori barriere all'accertamento dell'illecito comunitario; il Giudice ha infatti deciso la fattispecie puntando soprattutto su considerazioni in fatto, sottolineando che l'imputato non aveva collaborato con la Procura procedente, omettendo di rendere dichiarazioni o chiarimenti nonostante i rituali inviti ricevuti.
Certamente si evidenzia anche il sostanziale rispetto dei diritti dell'indagato da parte del Pubblico Ministero (come valorizzato anche nella massima ricavata dalla sentenza), ma l'esclusione di una violazione dell'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (30), pure condivisibile, non si fonda su una valutazione dettagliata della rilevanza giuridica dei comportamenti dedotti in giudizio.
In proposito, era forse possibile rilevare che i vizi procedurali lamentati riguardano la valutazione completa e corretta dei fatti documentati dagli atti processuali (integrando quindi, nel caso, la fattispecie di cui all'art. 2, comma terzo, lettera c) della legge 117/88), mentre non sembra esser stata addotta alcuna violazione di specifiche norme a tutela del principio del giusto processo, risolvendosi così la censura di parzialità in una affermazione del tutto generica.
In ogni caso, a prescindere dal caso concreto, l'ingresso nel nostro ordinamento della responsabilità civile del magistrato per violazione del diritto comunitario è ormai una realtà.
Le criticità derivanti dalla disparità di trattamento tra questa fattispecie e le ipotesi ordinarie di responsabilità previste dalla legge 117/88 sono evidenti: non è difficile immaginare in tempi brevi ulteriori ripercussioni sulla prassi applicativa e forse sulla stessa legislazione speciale.
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(1) In senso sfavorevole allo Stato sembrano addirittura mancare precedenti davanti alla Cassazione civile, anche se merita una segnalazione Cass., 24 novembre 2000, n. 15192, in Foro it., 2001, I, 867 e in Giust. civ., 2001, I, 1881; la quale afferma, disponendo rinvio, il principio della responsabilità dello Stato per fatti dolosi del magistrato, in aggiunta ad una condanna in appello già intervenuta a carico del magistrato stesso. Consta invece una condanna al risarcimento civile davanti al giudice penale, sempre per dolo del giudice: Cass. pen., sez. un., 20 giugno 1990, in Giust. Pen., 1990, II, 513.
(2) Si vedano le considerazioni svolte da Trimarchi, La responsabilità del Giudice, in Quadrimestre, 1985, 367 ss., e quanto più di recente constatato da G. Afferni, La disciplina italiana della responsabilità civile dello Stato per violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo di ultima istanza, in Nuova giur. civ., 2007, II, 261, in particolare 265 ss..
(3) L'esigenza di un miglior bilanciamento tra attività giurisdizionale e risarcimento del danno da essa derivante emerge anche dal filone di studi sulla comparazione tra la responsabilità del giudice e le altre ipotesi di errore nell'ambito giudiziario, sul quale in sintesi si veda per tutti Scarselli, Brevi note sull'errore nel compimento di attività giudiziarie, in Foro it., 2007, V, 234, e fonti ivi richiamate.
(4) Si vedano gli articoli 783 e seguenti.
(5) Per un'ampia trattazione del contesto storico in cui si è evoluta la normativa si rimanda a Giuliani - Picardi, La responsabilità del giudice, Milano, 1995 (in particolare pp. 87-177) e a Picardi, La responsabilità del giudice: la storia continua, in Riv. dir. proc., 2007, 283.
(6) Il riferimento è alla sentenza della Corte cost., 14 marzo 1968, n. 2 (in Giur. cost., 1968, 288, con nota di Casetta, La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici - una illusione del costituente?); sul punto si segnala anche, per tutti, l'analisi di Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell'attuale ordinamento, prospettive di riforma, in Giur. Cost., 1982, I, 789.
(7) Per una ricognizione delle pronunce giurisprudenziali intervenute prima e dopo lo spartiacque del referendum del 1987 si veda Lupo, La responsabilità civile del magistrato: primi bilanci sull'applicazione della l. n. 117/1988, in Resp. civ. e prev., 2004, 679.
(8) Si noti che il venir meno del parallelismo tra responsabilità del giudice e responsabilità dello Stato era già stato prefigurato in Cass. 24 marzo 1982, n. 1879, in Rass. avv. Stato, 1982, 1, IV, 279.
(9) Si veda il testo dell'art. 2 e in particolare il terzo comma: «Costituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione ».
(10) Dal testo dell'art. 5: «Il tribunale, sentite le parti, delibera in camera di consiglio sull'ammissibilità della domanda di cui all'articolo 2 ...; La domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata ».
(11) Per tutte si veda Cass. 19 giugno 2003, n. 9811, in Dir. e giust., 2003, 29, 99.
(12) La legge 117/88 ha superato il controllo di costituzionalità anche in riferimento alla nuova formulazione dell'art. 111 Cost., introdotta con legge cost. 23 novembre 1999, n. 2; si vedano in proposito: Cass., 4 maggio 2005, n. 9288, in Giust. civ., 2006, 6, 1254; Cass. 6 ottobre 2000, n. 13339, in Foro it., Rep., 2000, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 112.
(13) Si veda la sentenza Corte giust. CE del 13 giugno 2006, nella causa C-173/03, Traghetti del mediterraneo contro Repubblica Italiana, in Foro it., 2006, IV, 417.
(14) Quanto all'ammissibilità della domanda senza un controllo preventivo, si noti che l'art. 19 sancisce espressamente l'irretroattività della legge 117/88 e così anche delle disposizioni dell'art. 5, sicché la fattispecie in esame non risulta soggetta formalmente ad alcun controllo preliminare. In proposito, il Ministero ricorrente aveva richiamato la sentenza della Corte costituzionale del 22 ottobre 1990, n. 468, che afferma la necessità di un vaglio di ammissibilità giurisdizionale anche per le azioni dirette contro un magistrato per fatti anteriori all'entrata in vigore della legge stessa (pubblicata, tra le altre riviste, in Giust. civ. 1991, I, 14 e in Foro it., 1991, I,1041, con nota di Tucci).
In risposta, la Cassazione ribadisce l'indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il vaglio di ammissibilità non è comunque richiesto nelle cause contro lo Stato, stante il tenore letterale della stessa sentenza della Corte costituzionale 468/90, la quale richiede una valutazione preventiva solo per le azioni contro il magistrato, e non richiama invece le azioni dirette contro l'amministrazione statale. In questo senso, tra le altre, Cass., 4 novembre 1998, n. 11044, in Foro it., Rep. 1998, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 168; Cass., 7 maggio 2007, n. 10295, in Foro it., Rep. 2007, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 57; Tribunale Roma, 26 novembre 1992, in Foro it., 1993, I, 955.
(15) Su questo argomento si vedano Segrè, Responsabilità per denegata giustizia e rapporto processuale, in Riv. dir. proc., 1969, 129; Spaccapelo, Il giudice e l'omissione di atti d'ufficio, in Giur. it., 1977, II, 25.
(16) Così, in dottrina, De Stefano, Il dolo del giudice, in Riv. dir. proc., 1953, I, 283; Vigoriti, La responsabilità del giudice, Bologna, 1984, 37 ss..
(17) Cass., 8 maggio 2008, n. 11229, inedita; Trib. Roma 26 giugno 1981, in Foro it., 1982, I, 1168; in dottrina si veda Vigoriti, cit., 39.
(18) In questo senso Cass., 16 gennaio 2004, n. 540, inedita (nel caso di specie la corte ritenne che non potesse configurarsi in termini di condotta dolosa la manifesta inescusabilità dell'errore costituito dall'affermazione di un fatto inequivocabilmente contraddetto dalle risultanze del fascicolo di causa); Cass. 16 novembre 2006, n. 24387, in Foro it., Rep. 2007, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, nn. 54-55 (in questo caso la Corte ha ritenuto che la sopravvalutazione da parte del p.m. di alcuni elementi di accusa obiettivamente esistenti non fosse idonea, di per sé sola, a realizzare l'intento persecutorio ipotizzato dal ricorrente e a dimostrare la consapevolezza in capo al magistrato della falsità delle accuse mosse). Nello stesso senso si veda Cass., 16 novembre 2006, n. 24370, in Foro it., Rep. 2006, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 72.
(19) Cass. pen., Sez. un. 20 giugno 1990, cit..
(20) Si tratta del caso deciso dalla citata sentenza Cass. 24 novembre 2000, n. 15192.
(21) Si veda ancora la citata Cass., 16 gennaio 2004, n. 540, che sembra - seppure incidentalmente - ritenere che siano inscindibili la consapevolezza dell'agente di violare un dovere d'ufficio e quella di nuocere ad un soggetto, ponendo in essere un atto giudiziario ingiusto.
(22) In questo senso Cass., 5 luglio 2007, n. 15227, in Foro it., Rep. 2007, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 58; Cass. 27 novembre 2006, n. 25133, in Foro it., Rep. 2006, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, nn. 76-78.
(23) Così Cass., 20 settembre 2001, n. 11859, in Foro it., 2001, 12, I, 3558; Cass. 5 dicembre 2002, n. 17259, in Giust. civ. 2003, I, 2789; appare significativa anche Cass., 2 marzo 2006, n. 4642, in Foro it., Rep. 2006, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 63, relativa al caso di una sentenza penale emessa in contrasto con il divieto di reformatio in peius in assenza di impugnazione. Tale violazione non fu ritenuta gravemente colposa in ragione di un iniziale capo di imputazione ambiguo, capace di ingenerare dubbi nella formulazione della condanna.
(24) Si vedano Cass., 27 novembre 2006, n. 25133, cit.; Trib. Napoli, 10 dicembre 2003, in Giur. Napoletana, 2004, 75. Nello stesso senso anche Cass., 20 settembre 2001, n. 11859, in Foro it. 2001, I, 3357, con nota di SCARSELLI, la cui massima recita: «L'errore fattuale che dà luogo a responsabilità civile del giudice, tanto nella sua errata affermazione quanto nella sua errata negazione, deve dipendere non già da un grado insufficiente di diligenza impiegato nell'attività accertativa e valutativa, quanto proprio dall'assenza totale di ogni analisi degli atti del procedimento dai quali risulti incontestabilmente l'insussistenza o la sussistenza del fatto rispettivamente affermato o negato; ne segue che non può ravvisarsi errore rilevante ai sensi delle lett. b) e c) dell'art. 2 l. 13 aprile 1988 n. 117 nelle ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti, né può qualificarsi come rilevante l'errore riscontrato "a posteriori" dal giudice del gravame sulla base del controllo esercitato sull'attività valutativa ».
(25) Il riferimento è al noto caso Köbler contro Rep. Austria, C.Giust. CE, 30 settembre 2003, n. 224, causa 224/01, in Foro it. 2004, IV, 4, con nota di Scoditti, e in questa Rivista, 2004, 23, con nota di Conti.
(26) La sentenza "Traghetti del mediterraneo contro Repubblica italiana" e il procedimento che l'ha originata sono stati commentati da numerosi autori. Tra tutti i contributi si segnalano: Roppo, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione e diritto europeo: una case story in attesa del finale, in Riv. dir. priv., 2006, 5; Afferni, cit.; Scoditti, Violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice, in Foro it., 2006, IV, 418; Palmieri, Corti di ultima istanza, diritto comunitario e responsabilità dello Stato: luci e ombre di una tendenza irreversibile, in Foro It., IV, 2006, 420; Scoditti, La responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, in questa Rivista, 2005, 5; Lajolo di Cossano, La responsabilità dello Stato per violazioni del diritto comunitario da parte del giudice di ultima istanza, in Dir. comm. internaz., 2006, 759; Rasia, La responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario da parte del giudice supremo: il caso "Traghetti del mediterraneo contro Italia", in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 661; Ferraro, L'illecito comunitario di un organo giurisdizionale supremo, in questa Rivista, 2007, 518; Giambelluca, La corte di giustizia amplia i confini della responsabilità civile dello stato italiano per la violazione del diritto comunitario derivante dall'attività di organi giurisdizionali, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2006, 1874.
(27) Non è possibile in questa sede entrare nel dettaglio del problema, invero assai complesso; si rimanda pertanto, pur secondo prospettive tra loro differenti, a quanto espresso da Afferni, cit., (e in particolare pag. 265), e Scoditti, in tutte le fonti già citate.
(28) C'è a dire il vero perlomeno un precedente: il Tribunale di Roma, con sentenza 29 settembre 2004 (in Dir. giust., 2004, 41, 80), affermò infatti che deve essere disapplicata dal giudice interno la norma che non consenta il risarcimento del danno per violazione del diritto comunitario da parte del giudice di ultima istanza.
(29) Si vedano la sentenza Traghetti del mediterraneo, cit., punto 43, e la sentenza Köbler, cit., punti 53-56.
(30) Come noto tale normativa è oggi integrata all'interno del contesto comunitario.
Sommario: 1. La responsabilità civile dei magistrati e la legge n. 117/88: bilancio di un ventennio - 2. Le ipotesi di responsabilità del magistrato per "colpa grave" (rectius, per "negligenza inescusabile") - 3. La recente pronuncia della Corte di Cassazione - 4. Alcune considerazioni conclusive sulla responsabilità civile dei magistrati per colpa grave
La legge 117 ha avuto un'esistenza indubbiamente travagliata: è stata oggetto di aspri dibattiti, critiche e censure di incostituzionalità fin dai suoi primi giorni di vita (1). Nell'arco temporale di un ventennio ci si sarebbe, forse, potuto aspettare che le cause di risarcimento dei danni avanzate contro lo Stato fossero abbastanza numerose da consentire di delineare una casistica piuttosto precisa delle ipotesi in cui tale responsabilità è riconosciuta, riempiendo di contenuti le formule vaghe della asserita "tipizzazione" degli illeciti determinati da colpa grave, prevista dall'art. 2, comma 3, della legge (2).
Invece, la maggior parte delle azioni proposte non ha superato il filtro preventivo di ammissibilità (3), scontrandosi con la barriera difficilmente superabile costituita dalla c.d. "clausola di salvaguardia", che impedisce di affermare la responsabilità dei magistrati per l'attività interpretativa e valutativa delle prove e del fatto (4). Le occasioni in cui i giudici hanno giudicato, nel merito, sulla responsabilità dei loro colleghi sono state davvero limitate; le ragioni di questa esiguità sono molteplici, tuttavia, si potrebbe essere tentati di affermare, in via semplicistica, che le cause di un così scarso impiego della legge de qua siano da individuare in un impianto troppo garantistico della stessa.
Si potrebbe ritenere che le disposizioni legislative in tema di responsabilità civile del giudice siano, per l'appunto, troppo sbilanciate a favore della tutela dei magistrati e, pertanto, tali da rendere impervio, se non impossibile, il percorso del danneggiato verso l'effettivo conseguimento di un risarcimento. Si potrebbe altresì sostenere che, pur avendo la legge realizzato un equilibrato contemperamento tra le opposte istanze in gioco, prevedendo la responsabilità civile del giudice (rectius, dello Stato-giudice) in caso di errore, al contempo tutelando la sua indipendenza nel giudizio (5), la concreta attuazione di dette norme sia stata così restrittiva da impedire, per la quasi totalità dei casi, di giungere a una condanna risarcitoria (6).
I dati numerici non devono, però, indurre a conclusioni affrettate: si deve considerare, infatti, che la possibilità di agire in via risarcitoria a fronte di attività gravemente negligente del magistrato è stata concepita come rimedio eccezionale, quale extrema ratio per garantire una forma di tutela nei casi in cui il previo esperimento dei mezzi di gravame non sia stato in grado di dare sollievo alcuno all'errore commesso. Sulla base di tali premesse, la stringente limitazione delle ipotesi di responsabilità civile del magistrato e la sua ferrea applicazione giurisprudenziale risultano, allora, del tutto coerenti con l'eccezionalità di tale previsione.
Le critiche rivolte alla legge n. 117 sono più che note; fiumi di inchiostro sono già stati versati e non si vuole, quindi, insistere ulteriormente sui suoi numerosi aspetti problematici e dubbi. Si deve, tuttavia, ricordare che anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee si è recentemente pronunciata su taluni aspetti della legge de qua, affermando l'inadeguatezza del meccanismo risarcitorio ivi previsto. L'art. 2 risulta, infatti, incompatibile con il diritto comunitario, poiché questo osta ad una legislazione nazionale che escluda la responsabilità dello Stato membro «per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove »; osta, inoltre, ad una legislazione nazionale «che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente » (7).
Superata la barriera (quasi insormontabile) del filtro di ammissibilità e, quindi, aggirato l'ostacolo insidioso della clausola di salvaguardia (8), si è giunti, in un limitato numero di casi, a valutare nel merito l'eventuale sussistenza di un illecito civile commesso dal magistrato. Tralasciando le ipotesi di reato e quelle di illecito doloso (nell'auspicio che restino ipotesi di scuola o, quanto meno, del tutto eccezionali) (9), l'attenzione si può concentrare sulle fattispecie di colpa grave, sicuramente più problematiche per molti aspetti.
La colpa grave è stata "tipizzata" dal legislatore all'art. 2, comma 3, ove sono previste quattro diverse ipotesi in cui l'attività illecita commessa dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni può legittimare l'azione risarcitoria del danneggiato verso lo Stato: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; d) l'emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (10). È di tutta evidenza la assoluta centralità riconosciuta alla negligenza inescusabile, che funge da criterio di imputazione della responsabilità pressoché imprescindibile.
La prima questione interpretativa da affrontare concerne, quindi, il rapporto tra tale nozione e quella di "colpa grave". Sembra che la negligenza inescusabile si qualifichi con connotati di maggiore gravità rispetto al concetto codicistico di "colpa grave", dovendosi rinvenire in essa un quid pluris (11). Secondo la costante interpretazione data dalla giurisprudenza, non deve trattarsi di un semplice errore, per quanto grave, bensì di errore talmente grave da risultare aberrante: il giudizio del magistrato deve apparire sfornito di ogni ragionevole e plausibile spiegazione (12). La responsabilità può essere affermata solo in caso di errori veramente clamorosi e macroscopici, in alcun modo giustificabili, ovvero laddove l'attività compiuta dal magistrato sia scevra da qualsiasi parvenza di ragionevolezza e risulti ictu oculi abnorme.
Un'interpretazione così restrittiva dei criteri di imputazione della responsabilità del magistrato è volta a preservare la necessaria coerenza con i principi fondamentali del sistema processuale: da un lato, è fin troppo intuitivo che in caso contrario si rischierebbe di legittimare richieste risarcitorie in corrispondenza di ogni singola riforma di una decisione giudiziaria, con conseguenze indubbiamente aberranti. Dall'altro, la ratio è in parte rinvenibile nella volontà di assicurare l'indipendenza della magistratura e, nondimeno, la serenità di giudizio, che sarebbe seriamente compromessa se si potesse sindacare l'opportunità delle scelte effettuate, al di fuori di ipotesi limitate.
Non bisogna, poi, dimenticare che l'attività valutativa del giudice è, per sua stessa natura, essenzialmente discrezionale: nell'ambito di tale discrezionalità non può essere consentita alcuna imputazione di responsabilità, se non nei casi in cui siano stati compiuti errori valutativi gravi. Coerentemente, se il giudice non può essere ritenuto responsabile per gli errori di diritto determinati da un'erronea opzione ermeneutica, così si è sempre esclusa ogni responsabilità se la decisione sia fondata su uno dei possibili significati attribuibili alla legge, per quanto il meno probabile e verosimile, purché siano adeguatamente illustrate in motivazione le ragioni della scelta effettuata.
Con la sentenza n. 7272 del 2008 la Suprema Corte si è soffermata su tali ultimi aspetti, affermando (rectius, confermando) il principio che sussiste la responsabilità dello Stato per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell'esercizio di funzioni giudiziarie, ex art. 2, comma, 3 lett. a) della legge n. 117/88, se «nel corso dell'attività giurisdizionale, spesso caratterizzata da opzioni tra più interpretazioni possibili di una norma di diritto, si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero » (13).
Il caso da cui trae origine la sentenza in commento riguarda un procedimento penale avente ad oggetto l'avviamento di lavori all'interno di una tenuta agricola, in assenza di concessione e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, in forza dei quali era stato disposto il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. dell'intera tenuta (adibita in parte ad agriturismo, in parte ad attività agricola ed allevamento di bestiame). Il Tribunale del riesame aveva concesso il dissequestro dell'area non adibita ad agriturismo (nel cui ambito erano stati eseguiti i lavori incriminati); la Cassazione aveva ulteriormente limitato il provvedimento cautelare alle sole zone oggetto delle opere. Il Tribunale di Genova accoglieva parzialmente le richieste risarcitorie degli attori, condannando la Presidenza del Consiglio al risarcimento dei danni, quantificati in circa 370.000 euro (14); la Corte d'Appello, invece, riformava la sentenza di primo grado respingendo la domanda di risarcimento.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dai titolari della tenuta agricola, sul presupposto che la Corte di merito avesse correttamente individuato le ragioni per escludere la sussistenza di un'ipotesi di colpa grave del magistrato. Non si poteva, infatti, configurare una condotta caratterizzata da negligenza inescusabile, dovendo questa essere intesa quale «totale mancanza di attenzione nell'uso degli strumenti normativi », «trascuratezza così marcata ed ingiustificabile da apparire espressione di vera e propria mancanza di professionalità ». L'attività giurisdizionale, ricorda la Cassazione, si innesta su una scelta tra diverse interpretazioni possibili, potendo il magistrato optare anche per quella meno probabile e convincente, senza che debba essere, per questo, in automatico affermata la sua responsabilità. Perfettamente legittima deve essere considerata, quindi, anche l'opzione interpretativa meno verosimile, che non rispecchi l'orientamento dominante, purché rientri tra quelle plausibili, ed il magistrato abbia adeguatamente illustrato in motivazione le ragioni della sua scelta.
Nel caso di specie, sebbene l'interpretazione del concetto di "cose pertinenti al reato" effettuata dal g.i.p. sia poi stata valutata "errata" e, quindi, riformata, ciò non è sufficiente per affermare la responsabilità del magistrato, a meno - si potrebbe aggiungere - di voler riconoscere tale responsabilità in occasione di ogni riforma di un provvedimento giurisdizionale. La sussistenza di una grave negligenza deve essere esclusa se l'interpretazione scelta rientra «in una ampia gamma di possibili opinioni interpretative della norma in oggetto », in modo che non ne risulti «l'evidente abnormità ».
Partendo dall'affermazione di un principio più che pacifico, ovvero che non si può affermare la responsabilità ex art. 2, comma 3, L. 117 per il solo fatto che in sede di gravame l'interpretazione del primo magistrato venga ritenuta erronea, nel caso di specie la Cassazione ritiene che l'interpretazione estensiva del concetto di "cose pertinenti al reato", basata sul criterio della sufficienza del c.d. "collegamento indiretto" tra una determinata cosa e il reato per cui si procede non possa essere considerata abnorme, avendo il g.i.p. effettuato una valutazione «rientrante nell'estrinsecazione della normale attività interpretativa delle norme di diritto dei magistrati (art. 2 comma 2 L. 117/88) ». L'errato apprezzamento dei dati acquisiti avrebbe dovuto, per dare luogo ad una interpretazione abnorme, risultare slegato da qualsiasi elaborazione giurisprudenziale o dottrinale, o ancora, in mancanza di tali supporti, avrebbe dovuto essere carente di ogni giustificazione sul piano logico-giuridico, o essere «fondata su un grossolano e specioso travisamento del fatto ». La decisione della Suprema Corte pare coerente con i principi già enucleati, non potendosi, a nostro avviso, ravvisare alcuna abnormità nell'emissione di un provvedimento di sequestro basato su un concezione forse troppo "ampia" della nozione di "cose pertinenti al reato". Il rimedio più idoneo a correggere l'asserita erroneità dell'interpretazione scelta dal g.i.p., nel caso di specie, è stato correttamente rinvenuto nella riforma del provvedimento adottato.
La Cassazione ricorda, inoltre, che la "negligenza inescusabile" richiede un quid pluris rispetto alla colpa grave, dovendo risultare «non spiegabile, senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere comprensibile (se non giustificato) l'errore del giudice » (15). La Corte, quindi, conferma ancora una volta l'equazione "negligenza inescusabile - abnormità dell'attività compiuta dal magistrato", e si pone in piena conformità con le proprie precedenti pronunce in cui aveva affermato la necessità dell'errore macroscopico (16).
La sentenza in commento rievoca, in particolare, il problema del sottile confine tra interpretazione e violazione di legge; la corretta individuazione della linea di demarcazione tra le due ipotesi è fondamentale per escludere o, viceversa, affermare la responsabilità del magistrato. La giurisprudenza, non solo di legittimità, si è più volte espressa sul punto, affermando, da un lato, che la fattispecie della violazione di legge racchiude tutti i casi in cui il giudice viola la legge «disapplicandola o applicando una norma non più vigente o risolvendo il caso con una regola di diritto che non esiste nell'ordinamento », dall'altro identificando in via residuale le ipotesi di attività interpretativa, in «tutte le possibili legittime e varie valenze interpretative di una norma, anche della sua eventuale abrogazione implicita, purché se ne dia conto e ragione » (17).
In assenza di una precisa identificazione di ciò che costituisce attività interpretativa, in quanto tale esente da responsabilità, vi sarebbe il rischio di comprimere in modo inaccettabile l'attività giurisdizionale, fondata, per sua natura, sulla interpretazione delle norme. In questo senso è significativa l'esclusione della responsabilità nel caso in cui il giudice si discosti da un orientamento interpretativo consolidato, sempre che, ovviamente, ne dia idonea motivazione. La Suprema Corte ha, anzi, affermato che non determina negligenza inescusabile il dissenso del magistrato rispetto all'indirizzo espresso dalle Sezioni Unite, purché motivato in diritto, anche in mancanza di richiamo alle pronunce disattese, poiché «esso è comunque espressione dell'attività di interpretazione delle norme riservata al magistrato » (18). L'adeguata illustrazione delle ragioni alla base dell'opzione ermeneutica consente al giudice di disattendere qualsiasi precedente della Cassazione, senza che possa essere riconosciuta, in capo allo stesso, alcuna responsabilità; in caso contrario si condizionerebbe la sua attività interpretativa (19) e si svilirebbe irrimediabilmente la funzione giurisdizionale, per lo meno per come è concepita nel nostro ordinamento giuridico.
È stato osservato che la necessità di preservare la libertà interpretativa del magistrato, attuata dalla clausola di salvaguardia nei termini analizzati, si scontra con il rischio di uno «svuotamento della portata della legge n. 117/88 » (20). Non è, infatti, agevole conciliare le opposte esigenze di garantire un ristoro monetario ai soggetti danneggiati dall'attività gravemente negligente dei magistrati ed affermare la responsabilità di questi, al contempo preservando l'attività giudiziaria da ogni indebito condizionamento. La possibilità di ricondurre gran parte dell'attività compiuta dal magistrato nell'alveo della clausola di salvaguardia rischia di rendere, di fatto, inoperativa la tutela risarcitoria introdotta dalla legge 117.
Lo scarso numero di casi che hanno superato il vaglio di ammissibilità in questo ventennio ha indotto la dottrina ad affermare che tale legge costituisce un "paravento" dietro il quale trovano rifugio sia le negligenze dei singoli magistrati, che le carenze organizzative dello Stato (21). Ne è derivata, allora, l'impressione che lo Stato italiano, pur avendo previsto un meccanismo idoneo ad assicurare una riparazione a tali danni, abbia approntato, di fatto, una tutela solo apparente, quasi "fittizia". È innegabile che la legge, così come è formulata e applicata, limita fortemente le ipotesi in cui si possa concretamente riconoscere la responsabilità civile dei magistrati. La delicatezza e l'importanza delle funzioni da essi svolte, però, giustificano, a nostro avviso, tale risultato, per lo meno in via di principio.
Come è già stato ampiamente osservato in dottrina, il principale criterio di imputazione della responsabilità in oggetto, ovvero la colpa grave, si differenzia notevolmente da quella prevista per i professionisti dall'art. 2236 c.c. (22); né mancano valide ragioni per operare una tale distinzione. È stato, invero, suggerito da più voci di valutare l'attività dei magistrati proprio sulla base dei canoni previsti della responsabilità professionale (23). La bontà di detta proposta, tuttavia, risulta inevitabilmente inficiata nelle sue stesse premesse, in quanto tralascia le peculiarità del ruolo del magistrato, che non può essere assimilato alla figura di un professionista.
Le critiche rivolte alla legge 117 possono essere analizzate, altresì, in relazione alla funzione che si intende attribuire al risarcimento di tale danno. Dall'analisi della giurisprudenza degli ultimi vent'anni si può ricavare l'impressione che prevalga, di fatto, una finalità riparatoria, e non tanto sanzionatoria verso il soggetto che ha cagionato colpevolmente il danno, in considerazione anche del fatto che è lo Stato, e non il danneggiante, il soggetto nei cui confronti è esercitata l'azione di risarcimento (salva, poi, la rivalsa dello Stato verso il magistrato). Si deve, poi, considerare la valenza esplicata della responsabilità disciplinare, sicuramente più idonea a correggere le attività negligenti del magistrato (oltre che quelle dolose); il riconoscimento della inadeguatezza della responsabilità civile de qua a svolgere una funzione sanzionatoria è evidente, a fronte di una maggiore attitudine di quella disciplinare.
Tali osservazioni possono condurre a ritenere che l'asserita inoperatività del meccanismo risarcitorio introdotto dalla legge 117 sia frutto, in realtà, di un travisamento della funzione che detta responsabilità civile dovrebbe svolgere. La previsione di un rimedio risarcitorio per i danni causati da colpa grave del magistrato nell'esercizio delle sue funzioni si presterebbe, infatti, ad un rischio di gravi abusi laddove fosse liberamente accessibile da ogni cittadino non soddisfatto degli esiti processuali. Né può costituire, per le stesse ragioni, un adeguato strumento di controllo e correzione dell'attività giurisdizionale, bensì può funzionare correttamente solo in ipotesi eccezionali, ovvero di insufficienza degli altri rimedi forniti dall'ordinamento.
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(1) Cfr. C. Amato, In margine a Corte Cost., 19 gennaio 1989, n. 18, sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp. civ. e prev., 1989, 584; A. Rossi, La nuova disciplina della responsabilità civile del magistrato: le prime decisioni della Corte Costituzionale, in Questione giustizia, 1989, 231; B. Capponi, Ancora al vaglio della Corte Costituzionale la responsabilità civile dei magistrati, in Corr. giur., 1990, 823; T. Rafaraci, La "rivisitata" responsabilità civile di magistrati: il primo intervento della Corte Costituzionale, in Leg. pen., 1989, 615; C. La Farina, Sic vos non vobis - Ancora in tema di responsabilità civile dei magistrati, in Giust. civ., 1991, I, 1229; C. Amato, Responsabilità dei magistrati: terzo intervento della Corte Costituzionale, con sentenza 24 aprile 1989 n. 243, in Resp. civ. e prev., 1990, 86; Id., Ancora un intervento della Corte Costituzionale in materia di responsabilità civile dei magistrati, in Resp. civ. e prev., 1990, 1011; F. Centofanti, La responsabilità civile del magistrato nella giurisprudenza costituzionale: note riepilogative, in Riv. amm., 1991, 82; D.M. Traina, Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, ovvero un dubbio che non esiste, in Giur. cost., 1997, 272.
(2) Per un'analisi delle casistica sulla responsabilità civile del magistrato, cfr. M. Cicala, Rassegna sulla responsabilità disciplinare e civile dei magistrati, in Riv. dir. priv., 2002, 867; Id., La giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla responsabilità civile dei magistrati (rassegna critica), in Critica pen., 2003, 287; Id., Rassegna sulla responsabilità civile dei magistrati, in Riv. dir. priv., 2004, 457; M. Lupo, La responsabilità civile del magistrato: primi bilanci sull'applicazione della L. n. 117/1988, in Resp. civ. e prev., 2004, 679.
(3) Le questioni inerenti al giudizio di ammissibilità sono state, probabilmente, quelle sulle quali si è pronunciata con maggiore frequenza la giurisprudenza; sul punto, cfr. C. Amato, Responsabilità dei magistrati: la valutazione di ammissibilità della domanda di risarcimento, in questa Rivista, 1996, 332. La ratio del giudizio preventivo di ammissibilità, come è intuitivo, è rinvenibile nella volontà di troncare sul nascere le azioni pretestuose e ictu oculi infondate, in modo da non gettare inutile discredito sulla credibilità della magistratura e dei suoi membri; in questo senso cfr., ex plurimis, V. L. Scotti, La responsabilità civile dei magistrati, Milano, 1989, 174 ss.
(4) Per approfondimenti sulla c.d. clausola di salvaguardia, cfr.: F.P. Luiso, L'attività interpretativa del magistrato e la c.d. clausola di salvaguardia, in Corr. giur., 2008, 730; C. Amato, Responsabilità dei magistrati: la valutazione di ammissibilità della domanda di risarcimento, cit., 339 ss.
(5) Come è noto, la legge 117 è stata introdotta a seguito della abrogazione della previgente disciplina in tema di responsabilità civile dei magistrati, contenuta negli artt. 55 e 56 c.p.c. Tali norme limitavano i casi di responsabilità civile del giudice ai danni cagionati da dolo, frode o concussione (art. 55, n. 1, c.p.c.) e all'ipotesi di diniego di giustizia (art. 55, n. 2, c.p.c.). L'art. 56 c.p.c. introduceva un ulteriore ostacolo al conseguimento di un ristoro monetario per il danneggiato, poiché prevedeva una preliminare autorizzazione del Ministro della Giustizia alla proposizione dell'azione. L'evidente sbilanciamento della disciplina a favore dei magistrati ne implicava un sostanziale inutilizzo; si può, quindi, affermare che la responsabilità civile dei magistrati costituisse, di fatto, una mera ipotesi di scuola. In questo senso, cfr. V. N. Picardi - R. Vaccarella, La responsabilità civile dello stato giudice, Padova, 1990, 1. Il profondo dibattito, oltre che le note vicende giudiziarie degli anni 70 condussero al referendum abrogativo degli artt. 55 e 56 c.p.c., in seguito al quale si rese necessario un intervento del legislatore, affinché fosse introdotta una nuova disciplina. La legge n. 117 del 1998, però, fu subito accolta con forte delusione, rispetto alle aspettative generali, in primis per la esclusione (almeno per le ipotesi di colpa grave) di una responsabilità diretta del magistrato, a favore, invece, di una responsabilità dello "Stato giudice". Altro motivo di disappunto era costituito dalla necessità del previo esperimento dei mezzi di impugnazione offerti dal sistema (secondo quanto stabilito dall'art. 4, comma 2, l. 117). A questo proposito, si veda Cass., 25 gennaio 2002, n. 871, in Giust. civ., 2002, I, 1583, con nota di F. Morozzo Della Rocca, Il danno da motivazione ingiuriosa e l'ammissibilità dell'azione risarcitoria nell'art. 4 l. n. 117/88. Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto inammissibile, sulla base dell'art. 4, comma 2, la domanda di risarcimento per il "danno da motivazione ingiuriosa", ovvero per il danno causato ad una società dall'inserimento di alcune espressioni considerate offensive nei suoi confronti, nella motivazione della sentenza di primo grado. Secondo la Suprema Corte la domanda era inammissibile proprio perché proposta pendente il giudizio di appello, quindi prima dell'esperimento dei mezzi di impugnazione verso la sentenza. È, però, evidente che tali mezzi non avrebbero rimosso il danno asseritamene causato alla società dalle espressioni ingiuriose contenute nella sentenza di primo grado; si è, pertanto, fortemente criticato l'atteggiamento troppo restrittivo della Corte.
(6) Si ricorda che la prima condanna dello Stato per illecito civile del magistrato è stata pronunciata dal Tribunale di Brescia con sentenza del 29 aprile 1998 (in questa Rivista, 1998, 1020, con commento di A.M. Benedetti), e riguardava un caso in cui i danneggiati erano stati arrestati, nell'ambito di un procedimento penale per il reato di falso in bilancio, perché accusati nella loro qualità di amministratori di una società, nonostante risultasse chiaramente, dagli atti in possesso della magistratura, che entrambi non rivestivano da tempo alcun ruolo all'interno della società. A quanto è dato sapere, questa è non solo la prima, ma anche l'unica condanna definitiva dello Stato pronunciata per danni causati da colpa grave del magistrato nell'esercizio di funzioni giudiziarie.
(7) Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, 13 giugno 2006, n. causa C - 173/03, in Foro it., 2006, IV, 420, con nota di E. Scoditti, Violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice, A. Palmieri, Corti di ultima istanza, diritto comunitario e responsabilità dello Stato: luci ed ombre di una tendenza irreversibile e M. Giovanetti, La responsabilità civile dei magistrati come strumento di nomofilachia? Una strada pericolosa; in Resp. civ. e prev., 2006, 2039, con nota di R. Caranta, Giudici responsabili?; in Corr. giur., 2006, 1513, con nota di R. Conti, Responsabilità per atto del giudice, legislazione italiana e Corte UE. Una sentenza annunciata; in Resp. civ., 2007, 625, con nota di F.M. Scaramuzzino, Mancato rinvio pregiudiziale del giudice d'ultima istanza e risarcimento del danno.
(8) È opportuno ricordare che la dichiarazione di inammissibilità si fonda, per lo più, sull'applicazione della stessa clausola di salvaguardia, ritenendosi di natura interpretativa l'attività asseritamene illecita.
(9) Si veda, tuttavia, supra, Cass. 16 ottobre 2007, n. 21618, e la nota di commento di P. Dellachà.
(10) L'ipotesi prevista alla lettera a) determina numerosi problemi interpretativi, in particolare in relazione all'individuazione del discrimen con la c.d. clausola di salvaguardia di cui all'art. 2, comma 2, secondo cui l'attività interpretativa di norme di diritto non può dar luogo a responsabilità (sul punto, v. infra, par. 3). Le ipotesi di cui alle successive lettere b) e c), concernenti i casi di travisamento dei fatti, sono entrambe incentrate su una macroscopica svista del giudice nell'attività di accertamento e valutazione degli elementi di fatto acquisiti agli atti del procedimento, tale da indurlo ad affermare un fatto inesistente o a negare un fatto, invece, esistente. È evidente come si tratti di casi davvero estremi, che richiedono una totale negazione di qualsiasi minima attività di valutazione del fatto da parte del magistrato. Queste due ipotesi ricalcano, peraltro, le previsioni dell'errore di fatto quale motivo di revocazione della sentenza ex art. 395, n. 4, c.p.c. In relazione alle due fattispecie di errore fattuale, la Cassazione ha affermato che il giudice della ammissibilità dell'azione deve verificare non il grado di diligenza impiegato nell'attività accertativa e valutativa, ma solo l'assenza di essa, nel senso della totale mancanza di ogni analisi degli atti del procedimento dai quali risulti incontrastabilmente l'insussistenza o la sussistenza del fatto rispettivamente affermato o negato (cfr. Cass., 20 settembre 2001, n. 11859, in Foro it., 2001, I, 3557, con nota di G. Scarselli, La responsabilità del giudice nei limiti del principio di indipendenza della magistratura, e Trib. Napoli, 10 dicembre 2003, in Giur. nap., 2004, 75). L'ultima ipotesi tipizzata sub d) si caratterizza per essere l'unica in cui non sia richiamata espressamente la "negligenza inescusabile"; tale omissione si giustifica in relazione al bene tutelato dalla norma - la libertà personale - la cui previsione costituzionale in termini di diritto inviolabile determina un maggiore rigore nella determinazione dei casi in cui riconoscere la responsabilità del magistrato, per provvedimenti emessi fuori dai casi consentiti o senza motivazione.
(11) Cfr. M. Lupo, La responsabilità civile del magistrato: primi bilanci sull'applicazione della L. n. 117/1988, cit., 692; cfr. anche infra, nota 15, ove si ricordano le numerose sentenze in cui la Cassazione afferma la necessità di tale quid pluris rispetto alla "colpa grave", ai fini della configurazione della "negligenza inescusabile".
(12) L'inescusabilità del difetto di diligenza del magistrato può essere intesa come «sinonimo di "grave", "grossolano", "evidente" o "macroscopico". Si è voluto così fare riferimento a quel comportamento che, senza alcuna giustificazione, risulti improntato a notevole disattenzione, a un marcato disimpegno, in ispregio cioè di elementari doveri di scrupolo, cura e zelo»; cfr. G.P. Cirillo - F. Sorrentino, La responsabilità del giudice. Legge 117/1988, Napoli, 1988, 158. Ancora, è stato affermato che nella determinazione dell'inescusabilità della negligenza del magistrato «viene in considerazione una tale mancanza di attenzione nell'uso degli strumenti normativi, una così corposa incuria nel cogliere le emergenze processuali come materiale di giudizio, da essere oggettivamente inescusabile»; in questo senso, cfr. V. L. Scotti, La responsabilità civile dei magistrati, cit., 114.
(13) Il principio affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 7272/08 non è certo nuovo; la stessa Corte lo aveva già espresso ripetutamente in passato. Si veda, ex plurimis, Cass. 20 settembre 2001, n. 11880, cit.
(14) Il numero davvero esiguo di condanne al risarcimento dei danni ex legge n. 117/88 impedisce, per il momento, ogni considerazione sul profilo del quantum.
(15) Tale principio era stato già affermato dalla Cassazione in una precedente sentenza, la n. 6950 del 26 luglio 1994, in Giust. civ. Mass., 1994, 1007. Nello stesso senso, cfr. anche Cass. 6 novembre 1999, n. 12357, in Giust. civ. Mass., 1999, 2202, ove la Corte precisa che il sistema delineato dalla legge 117/88, «non si limita ad un rinvio alla nozione generale di colpa grave, come fa invece l'art. 2236 c.c. (…). Il detto sistema, invece, procede ad una definizione dei casi costituenti colpa grave, introducendo una clausola di "chiusura" per l'attività di interpretazione di norme di diritto e per quella di valutazione del fatto e delle prove. Il che si spiega col carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria, la quale è connotata da scelte sovente basate su diversità d'interpretazioni, con conseguente possibilità di un'indiscriminata dilatazione del concetto di colpa grave». Cfr. anche Cass. 6 ottobre 2000, n. 13339, in Giust. civ. Mass., 2000, 2107; Cass. 20 settembre 2001, n. 11859, cit.; Cass. 29 novembre 2002, n. 16935, in Mass., 2002, 1987-2002; Cass. 27 novembre 2006, n. 25133, in Mass., 2006, 2001.
(16) La Cassazione aveva già sottolineato ampiamente, in passato, che la negligenza inescusabile richiede «una totale mancanza di attenzione nell'uso degli strumenti normativi, una trascuratezza così marcata da non poter trovare alcuna plausibile giustificazione e da apparire espressione di assoluta incuria e mancanza di professionalità», cfr. Cass. n. 11859/01, cit.
(17) Nella stessa sentenza il Tribunale di Brescia proseguiva, poi, escludendo che possa determinare la responsabilità del magistrato «quel corretto uso degli strumenti interpretativi offerti dalle preleggi, nonché la legittima creatività della giurisprudenza secondo i canoni ed i principi propri della scienza giuridica»; cfr. Trib. Brescia, 17 febbraio 1989, in Foro it., 1990, I, 2015; nello stesso senso, v. anche App. Brescia 13 aprile 1990, in Foro it., 1990, I, 2008.
(18) In questo senso, cfr. Cass. 30 luglio 1999, n. 8260, in Foro it., 2000, I, 2671. Anche in dottrina si ricorda l'importanza di preservare la discrezionalità del magistrato nello svolgimento dell'attività giurisdizionale e, in particolare, di tutelare la «creatività della giurisprudenza»; cfr. D. Cenci, Limiti alla responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, in Giur. it., 1996, IV, 171-172, secondo cui si deve garantire che il giudice si muova «esente da condizionamenti, pena la sclerosi del sistema, libero cioè di discostarsi dagli orientamenti consolidati, anche della Cassazione, proporre interpretazioni originali od inconsuete delle norme (cosiddetta creatività della giurisprudenza), effettuare letture dei fatti anche divergenti dal senso comune». In questo senso, si veda altresì Cass. 31 maggio 2006, n. 13000, in Foro amm. CDS, 2006, 9, 2473.
(19) Così, F. Angeloni, Ancora sul precedente di Cassazione: questa volta sotto il profilo della responsabilità civile del magistrato che lo disattende senza indicare le ragioni della propria decisione, in Contr. e impr., 2001, 44-45, ove l'A. ricorda il conflitto che questo principio può creare con la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, in primis delle sue Sezioni Unite.
(20) L'espressione è di A.M. Benedetti, La prima condanna dello Stato per grave negligenza di un magistrato, cit., 1027.
(21) Si tratta, peraltro, di un'opinione più che diffusa, e che evoca dibattiti e polemiche ben noti; l'espressione richiamata è di A.M. Benedetti, La prima condanna dello Stato per grave negligenza di un magistrato, cit., 1027.
(22) Sul punto, cfr. G. Scarselli, Brevi note sull'errore nel compimento di attività giudiziarie, in Foro it., 2007, V, 234, ove l'A. si sofferma, in particolare, sulle differenze tra la responsabilità del magistrato e quella dell'avvocato; si veda, altresì, P. Dellachà, La responsabilità civile del magistrato tra indipendenza ed efficienza del servizio giustizia, in questa Rivista, 2001, 352- 355, che afferma l'irriducibilità del criterio della colpa, così come delineato dall'art. 2 della l. 117/88, alla colpa di cui all'art. 2236 c.c. L'A. ritiene, inoltre, che l'unico modo per rendere effettiva la responsabilità dei magistrati sia l'eliminazione della clausola di salvaguardia, sul presupposto che «sindacare un'attività di interpretazione comporta a sua volta la stessa operazione. Mentre per le normali professioni si può fare riferimento allo stato dell'arte o alla presenza di soluzioni già sperimentate sullo stesso problema, nel campo del diritto è impossibile a priori stabilire il discrimine fra una interpretazione opinabile e una che sia frutto di errore. Per questo motivo la legge attuale pone la clausola di salvaguardia, e cerca di tipizzare le ipotesi di colpa grave».
(23) Può avere un certo rilievo, in questo senso, la collocazione, nei manuali di diritto, dell'argomento della responsabilità civile dei magistrati nell'ambito della responsabilità professionale.
L'impostazione restrittiva della legge 117/88 sulla responsabilità civile dei magistrati è stata respinta tout court dalla Corte di giustizia - nella sua composizione più autorevole (Grande sezione) - con la sentenza 13 giugno 2006 relativa alla causa C-173/03, qui pubblicata a p. 105.
La Corte afferma a chiare lettere una responsabilità extracontrattuale dello Stato italiano in caso di manifesta violazione del diritto comunitario da parte dei giudici di ultima istanza. In altre parole, una persona fisica o giuridica che non ottenga, in base ad una sentenza di un tribunale italiano ancorché confermata dalla Cassazione, il riconoscimento di una manifesta violazione del diritto comunitario, ha diritto ad un risarcimento anche se la decisione non sia stata viziata da dolo o colpa grave. EXCURSUS DELLA GIURISPRUDENZA UE La sentenza in esame costituisce il punto di arrivo di un percorso che la Corte ha costruito in difesa dei singoli, privati tramite un provvedimento giurisdizionale interno delle tutele offerte dal diritto comunitario. Già con le sentenze cause riunite C-6/90 e C-9/90 del 19 novembre 1991 (Francovich ed altri, in Racc. pag. I- 5357), cause riunite C-46/93 e C-48/93 del 5 marzo 1996 (Brasserie du pecheur et Factorame, in Racc. pag. I-1029) e da ultimo con la sentenza causa C-224/01 del 30 settembre 2003 (Köbler in Racc. pag. I-10239) la Corte aveva delineato i criteri specifici in base ai quali scatta l'obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario, anche se tali violazioni derivino da una decisione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, che, come è noto, in caso di dubbi interpretativi della norma comunitaria è tenuto, ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 234 del Trattato Ce, a rivolgersi alla Corte europea per la corretta interpretazione della norma stessa.
In base ai criteri già delineati e ribaditi nella presente sentenza, dunque, il diritto al risarcimento sorgerà: qualora il giudice abbia violato in maniera manifesta la norma di diritto comunitario vigente, la norma di diritto comunitario violata abbia per oggetto il conferimento di diritti ai singoli ed esista un nesso di casualità diretto tra la violazione manifesta invocata ed il danno subito dall'interessato.
Per stabilire, inoltre, quando una violazione del diritto comunitario debba ritenersi manifesta "si valuta in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 234, terzo comma, Ce, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia" (punto 43 della sentenza).
Con la Sentenza in esame, tuttavia, la Corte, sollecitata dalla seconda questione pregiudiziale rivolta dal giudice di rinvio, si spinge a rapportare i criteri da essa già delineati alla legislazione italiana, giudicando restrittiva la legge 117/88, relativa alla responsabilità civile dei giudici, e ritenendola incompatibile col diritto comunitario. I giudici comunitari, in particolare, scardinano i criteri oggettivi e soggettivi che informano l'articolo 2 della suddetta legge.
Per ciò che concerne il limite oggettivo stabiliscono, difatti, che l'esclusione della responsabilità per errore dei giudici dovuto all'interpretazione di norme giuridiche libererebbe del tutto lo Stato (il quale non sarebbe mai responsabile) dagli obblighi assunti con il Trattato (articolo 10 Trattato Ce) all'osservanza del diritto comunitario. In tutti i casi in cui la violazione del diritto comunitario sia compiuta da un giudice, la cui attività essenziale è proprio quella di interpretare norme, lo Stato membro sarebbe in un certo qual modo esentato dall'applicazione del diritto comunitario. Tale attività di manifesta erroneità d'interpretazione delle norme comunitarie operata nei tribunali, d'altronde, è una parte rilevante dei casi che conducono alla violazione del diritto comunitario stesso. Non solo, ma la stessa violazione per erronea interpretazione, formalizzata con sentenza, assume un carattere irreparabile quando l'organo giurisdizionale da cui proviene è quello di ultima istanza incaricato di assicurare a livello nazionale l'interpretazione uniforme delle norme giuridiche. Secondo la Corte, dunque, lo Stato è responsabile per gli atti dei giudici di ultima istanza sia in caso di errori di interpretazione, sia in caso di errata valutazione di fatti e prove, perché quest'ultima è anch'essa attività giurisdizionale in base alla quale viene riconosciuta l'applicazione delle garanzie offerte dal diritto comunitario (punti da 33 a 40 della sentenza).
Per ciò che concerne il limite soggettivo, di cui all'articolo 2 legge 117/88, che impone la prova (spesso diabolica) del dolo o della colpa grave a carico di chi intraprende l'azione di risarcimento, la Corte stabilisce che è incompatibile con i principi comunitari stabiliti nella sentenza Köbler in base ai quali la responsabilità extracontrattuale dello Stato scatta, alle condizioni sopra esaminate, in tutti i casi di manifesta violazione del diritto comunitario.
La sentenza ha portata epocale sull'ordinamento giuridico nazionale, giacché istituisce una sorta di quarto grado di giudizio in tutti i casi in cui vi siano norme comunitarie che attribuiscano diritti ai singoli e tali diritti non siano riconosciuti dallo Stato membro, nemmeno nella sua estrema forma giurisdizionale. Non solo, ma cadono, inoltre, le esenzioni per il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale dei giudici relative all'interpretazione di norme di diritto, alla valutazione del fatto e delle prove, cristallizzate da anni nella legge 117/88. Restano in piedi, tuttavia, per la manifesta violazione di norme appartenenti al diritto interno, aprendo una paradossale disparità di trattamento tra interpretazione di norme comunitarie e norme interne.
La Traghetti del Mediterraneo (TDM) – società sottoposta a procedura di concordato e, nel frattempo, fallita – aveva citato in giudizio la Tirrenia di Navigazione (Tirrenia) al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa della politica di bassi prezzi tenuta da quest’ultima. In particolare, si invocava la violazione di alcune norme fondamentali del Trattato UE in tema di aiuti di Stato. La domanda di risarcimento veniva respinta in primo e in secondo grado, come pure in Cassazione, sulla base di una differente interpretazione del diritto comunitario e senza che venisse mai accolta la richiesta della ricorrente di sottoporre alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 TUE, le pertinenti questioni di interpretazione del diritto comunitario. Ritenendo che la sentenza della Corte di cassazione fosse fondata su una errata interpretazione delle norme del Trattato in materia di concorrenza e di aiuti di Stato e sulla premessa erronea di una giurisprudenza costante della Corte di Giustizia in materia, il curatore fallimentare della TDM esercitava l’azione ai sensi della l. n. 117 del 1988 per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa della decisione giurisdizionale. In particolare, la TDM fondava la propria domanda su una decisione della Commissione europea – successiva alla sentenza della Corte di cassazione – avente ad oggetto proprio gli aiuti di Stato corrisposti dall’Italia alla Tirrenia, e ritenendo, perciò, che, se gli organi giurisdizionali, e la Cassazione in particolare, avessero interrogato la Corte di Giustizia, il processo avrebbe avuto un esito diverso. Il Tribunale di Genova, chiamato a valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni proposta dalla TDM, si trova di fronte a tre possibilità: dichiararne l’inammissibilità – come quasi sempre accade – perché fondata sul presupposto che l’errore sia stato determinato da un’attività di interpretazione delle norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2, l. n. 117/88, c.d. clausola di salvaguardia); disapplicare il diritto interno, perché in contrasto con il principio comunitario per cui lo Stato è obbligato a risarcire i danni arrecati ai singoli per violazioni del diritto comunitario, secondo quanto stabilito nelle sentenza Francovich e Brasserie du pêcheur (in questo senso, cfr. già Trib. Roma, decreto 29 settembre 2004, in Dir. e Giust. n. 41/2004, 80); sollevare una questione di pregiudizialità di fronte alla Corte di Giustizia, chiedendo di valutare se la normativa interna in tema di responsabilità civile per gli errori compiuti nell’esercizio della funzione giudiziaria, restrittiva al punto da impedire ogni forma di risarcimento, sia conforme a detto principio comunitario.
Quest’ultima è la strada – giuridicamente più corretta, nonché più efficace – seguita dal Tribunale di Genova che, in particolare, chiede alla Corte di Giustizia di stabilire: se uno Stato membro risponde nei confronti dei propri cittadini degli errori compiuti dai propri giudici nell’applicazione del diritto comunitario, nella mancata applicazione del diritto comunitario o nel mancato assolvimento dell’obbligo di rinvio ex art. 234 TUE; in caso di risposta affermativa, se è compatibile con i principi del diritto comunitario una normativa nazionale in tema di responsabilità dello Stato per gli errori dei propri giudici che esclude la responsabilità in relazione all’attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell’ambito dell’attività giudiziaria e che limita la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice. Nel frattempo, la Corte di Giustizia pronuncia un’importante decisione in tema di responsabilità dello Stato per i danni provocati ai cittadini in violazione del diritto comunitario. Con la sentenza Köbler del 30 settembre 2003, afferma che, «in considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie», gli Stati membri sono tenuti a riparare i danni causati dalla violazione del diritto comunitario anche quando siano causati dalla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado.
Rispetto alle precedenti decisioni in tema di responsabilità dello Stato, la Corte di Giustizia, consapevole della particolarità della funzione giurisdizionale, specifica che «la responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario in una tale decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice ha violato in maniera manifesta il diritto vigente». Quando ciò avviene? Richiamando la propria giurisprudenza, essa ricorda che, a tal fine, rilevano il grado di chiarezza e precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione eventualmente adottata da una istituzione comunitaria. A questi criteri aggiunge quello della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, comma 3, CE. In ogni caso – conclude la Corte di Giustizia – la violazione del diritto comunitario può dirsi sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza Köbler, punti 53-56). In tal modo risponde, dunque, già nel 2003, al primo quesito posto dal Tribunale di Genova: non importa quale organo statale arrechi il danno, poiché il risarcimento è sempre dovuto; il fatto che il pregiudizio sia stato causato nell’esercizio della funzione giurisdizionale impone solo una valutazione più attenta dei presupposti per l’accertamento della responsabilità.
La sentenza del 13 giugno 2006, con cui si risponde al secondo dei quesiti posti dal Tribunale di Genova, si muove nel solco tracciato dalla sentenza Köbler, al punto che nulla si aggiunge in linea teorico-generale rispetto a quella decisione. La sua importanza consiste nel fatto che la Corte di Giustizia, scongiurando ogni possibile e pretestuosa ambiguità, afferma ciò che già dalla sentenza Köbler emergeva chiaramente, ossia che la l. n. 117 del 1988 non è conforme al diritto comunitario. Infatti, in primo luogo, essa afferma che non è compatibile con il diritto comunitario l’esclusione della responsabilità civile nel caso in cui l’errore sia dovuto a una errata interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto o delle prove (c.d. clausola di salvaguardia), in quanto: l’interpretazione delle norme di diritto rientra nell’essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale; non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa nell’esercizio dell’attività interpretativa; una legislazione che escluda in maniera generale la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato, allorché la violazione imputabile a un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove, equivale a privare della sua stessa sostanza il principio sancito nella sentenza Köbler. Secondo la Corte di Giustizia, dunque, la clausola di salvaguardia (art. 2, comma 2, l. n. 117/88), così come formulata e interpretata, non è compatibile con il diritto comunitario. In secondo luogo, essa si sofferma sulla limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo e colpa grave. Qui una precisazione appare necessaria: l’art. 2, comma 3, l. n. 117 del 1988 elenca i casi in cui lo Stato e i magistrati sono responsabili per dolo e colpa grave, e poi prevede la clausola di salvaguardia. Il rapporto tra queste due previsioni non è chiaro, data la difficoltà di distinguere quando vi sia responsabilità per colpa grave in caso di violazione di legge o per errore di fatto determinati da negligenza inescusabile e quando invece si tratti di interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove. Contrariamente all’Avv. Generale (v. conclusioni dell’11 ottobre 2005, punti 44-47), la Corte di Giustizia evita di prendere una posizione sul punto, ossia di interpretare il diritto nazionale. Essa ribadisce, invece, che il danno deve essere risarcito in caso di violazione manifesta del diritto comunitario, e, pertanto, che è incompatibile con il diritto comunitario una legislazione che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, solo se impedisce il risarcimento nei casi in cui vi sia stata una violazione manifesta del diritto vigente secondo i criteri precisati nella sentenza Köbler ai punti 53-56. Alla Corte di Giustizia non interessa se la legislazione nazionale fonda la responsabilità sulla valutazione di criteri soggettivi (dopo o colpa) o oggettivi, purché, in caso di violazione manifesta del diritto comunitario, il risarcimento sia concesso. In tal modo, però, essa dà una chiara indicazione interpretativa dell’art. 2, comma 3, l. n. 117 del 1988.
Con le sentenze Köbler e TDM la Corte di Giustizia si pronuncia solo sulla responsabilità dello Stato per i danni causati in violazione del diritto comunitario da decisioni di organi giurisdizionali di ultimo grado – che, per definizione, costituiscono l’ultima istanza dinanzi alla quale i singoli possono far valere i diritti a essi riconosciuti dal diritto comunitario –, anche se le sentenze sono passate in giudicato. Pertanto, una domanda di risarcimento dei danni presentata ex l. n. 117 del 1988, in cui si assume che la decisione della Corte di cassazione è fondata su una interpretazione del diritto nazionale in senso non conforme al diritto comunitario applicabile, o sull’applicazione di una normativa nazionale in contrasto con il diritto comunitario, oppure su una errata interpretazione di una norma di diritto comunitario direttamente applicabile, dovrà essere dichiarata ammissibile, non potendosi opporre la c.d. clausola di salvaguardia, che esclude la responsabilità quando si contesta una errata interpretazione giudiziaria. Nel merito, per valutare se la decisione della Cassazione è stata resa con dolo o colpa grave, ossia se vi è stata violazione di legge o errore di fatto determinati da negligenza inescusabile, si dovrà considerare se vi è stata una violazione manifesta del diritto comunitario, tenendo conto del grado di chiarezza e precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione eventualmente adottata da una istituzione comunitaria, e prestando particolare attenzione al fatto che la Cassazione abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia o non abbia osservato l’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, comma 3, CE.
Nessuna conseguenza «immediata» produrrà, invece, la decisione della Corte di Giustizia sulla responsabilità degli organi giudiziari inquirenti o degli organi giurisdizionali di primo o secondo grado. Nonostante gli effetti della sentenza TDM possano dirsi in qualche modo «limitati», è evidente che la giurisprudenza comunitaria ha scardinato l’impianto della l. n. 117 del 1988. La delicatezza del tema non consentirà certamente un facile e rapido intervento normativo. È tuttavia opportuno segnalare – sia pure nei limiti consentiti da questo breve intervento – le ragioni che dovrebbero indurre il legislatore a intervenire sulla materia e quali sono i vincoli costituzionali e comunitari con cui dovrà confrontarsi. Le ragioni consistono nel fatto che la l. n. 117 del 1988, applicata in senso conforme all’ordinamento comunitario, introduce una irragionevole distinzione tra interpretazione del diritto comunitario e interpretazione del solo diritto interno (poiché solo nel primo caso la clausola di salvaguardia non pone alcun limite all’azione di responsabilità), e tra responsabilità degli organi giudiziari di ultimo grado e degli organi giudiziari di grado inferiore. I vincoli che il legislatore incontra sono duplici: il diritto comunitario, che impone che lo Stato risarcisca i danni, e la Costituzione che, da una parte, all’art. 28 Cost., stabilisce il principio della responsabilità diretta dei funzionari pubblici, dall’altra, garantisce l’indipendenza istituzionale e funzionale dei magistrati. Per bilanciare questi diversi principi, la prima modifica che deve essere apportata alla l. n. 117 del 1988 è l’eliminazione del parallelismo tra la responsabilità dello Stato e quella dei magistrati. Del resto, la discrezionalità del legislatore sul punto è piuttosto ampia (per questi aspetti, sia consentito rinviare a F. Biondi, La responsabilità del magistrato, Milano 2006, 179 ss.).
Oggi lo Stato risponde al posto dei magistrati, per poi rivalersi nei loro confronti e, dunque, risponde nelle sole ipotesi (peraltro interpretate in modo eccessivamente restrittivo) in cui i magistrati sono ritenuti personalmente responsabili. La sentenza della Corte di Giustizia dovrebbe, invece, spingere a distinguere, sia pure con gli opportuni raccordi, le due forme di responsabilità. Quella dello Stato dovrebbe essere ampliata quanto ai presupposti (nel senso che il danno dovrebbe essere risarcito anche se causato da una attività interpretativa), ma limitata al caso in cui il pregiudizio non sia più rimediabile (ossia, quando la decisione è ormai passata in giudicato). Lo Stato risponderebbe oggettivamente per il danno prodotto dall’apparato giudiziario. La responsabilità dei magistrati potrebbe tornare a essere configurata come una responsabilità «diretta» (in ossequio al disposto costituzionale), sia pure in ipotesi tassativamente determinate, in cui si tenga conto del comportamento personale del magistrato, dell’elemento soggettivo e della specificità della funzione esercitata.
1. - Il tema della responsabilità civile dei magistrati occupa quella delicata regione di confine in cui giungono a intrecciarsi i principî costituzionali fondamentali dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, da un lato, e della responsabilità dei pubblici funzionari, dall’altro. Nella sent. 18/89 (Foro it., 1989, I, 305) la Consulta ha riconosciuto che l’equilibrato compromesso tra questi principî realizzato dalla l. 117/88 è essenzialmente dovuto alla «limitatezza e tassatività delle fattispecie in cui è ipotizzabile una colpa grave del giudice rapportate a ‘negligenza inescusabile’ in ordine a violazioni di legge o accertamenti di fatto [...]», alla «specifica e circostanziata delimitazione della responsabilità per ‘diniego di giustizia’», e all’esclusione della possibilità che a dar luogo a responsabilità sia l’attività d’interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove.
Con la pronuncia in epigrafe la Corte di giustizia ha, al contrario, accertato l’incompatibilità di tale disciplina con il diritto comunitario: ciò che agli occhi del giudice costituzionale rappresentava la ragione dell’infondatezza della questione di costituzionalità sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati, per la Corte di giustizia è, invece, causa dell’incompatibilità di tale normativa con il diritto comunitario. Lungi dal costituire il frutto di una generica, diversa sensibilità delle due giurisdizioni sul tema della responsabilità dei giudici, i motivi che stanno alla base di questa divergenza di opinioni tra le due corti sembrano piuttosto riposare su ben precise esigenze di sistema. Se questo è vero, resta da capire se il tipo di risposte che a tali esigenze dà oggi l’ordinamento comunitario possano, a loro volta, risultare compatibili con alcuni dei principî fondamentali dell’ordinamento costituzionale nazionale.
2. - Nell’affermare l’obbligo degli Stati di riparare i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili a decisioni di organi giurisdizionali di ultimo grado (sent. Köbler, id., 2004, IV, 4), la Corte di giustizia ha segnalato che per l’accertamento del carattere manifesto della violazione rileva anche la mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’art. 234, 3° comma, del trattato. Senza entrare nel merito del caso concreto, e tentando di enucleare il senso della dinamica dei rapporti tra le giurisdizioni coinvolte nella vicenda, è dato rilevare come il danno per il cui risarcimento si agiva dinanzi al Tribunale di Genova sarebbe derivato proprio dall’inadempimento di tale obbligo. La società ricorrente, infatti, «accusa» il giudice italiano di aver male interpretato il diritto comunitario vigente e la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia e di essersi per questa via illegittimamente sottratto all’obbligo di rinvio pregiudiziale, anche per come rimodellato dalla sent. Cilfit (id., 1983, IV, 63). Al privato non restava altra strada se non quella della richiesta di risarcimento degli (eventuali) danni provocati da questi presunti errori di interpretazione, ma il Tribunale di Genova, investito della domanda, si trovava di fronte ad un ostacolo apparentemente insormontabile: l’art. 2 l. 117/88 stabilisce, infatti, che «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Applicata al caso di specie, questa disposizione condurrebbe inevitabilmente al rigetto della domanda: ma tale normativa è effettivamente applicabile?
Nel giugno del 2001 il Tribunale di Roma aveva, in un caso analogo, risolto in via autonoma tale dubbio, affermando senza mezzi termini che la l. 117/88 non era disapplicabile dal giudice nazionale, trattandosi «di disciplina che, essendo posta a tutela del sovraordinato principio costituzionale di autonomia e indipendenza della magistratura, prevale[va] sulla contrastante normativa comunitaria». Forte sembra, in queste parole, l’eco della teoria dei controlimiti elaborata dalla Corte costituzionale, e ciò pareva sufficiente a chiudere le porte a soluzioni diverse da quella adottata dal giudice romano. Nel marzo del 2003 il giudice genovese, invece, non solo si è chiesto se uno Stato membro dovesse rispondere nei confronti del cittadino degli errori dei propri giudici nell’applicazione del diritto comunitario (e, in particolare, del mancato assolvimento da parte di un giudice di ultima istanza dell’obbligo di rinvio), ma ha anche ritenuto che, in caso di soluzione positiva di tale questione, si potesse porre un dubbio di compatibilità tra la normativa nazionale ed il diritto comunitario. Nella misura in cui tale normativa può dirsi rappresentare il frutto del difficile bilanciamento tra i principî fondamentali dell’indipendenza dei giudici e della certezza del diritto, da un lato, e della responsabilità dei pubblici funzionari, dall’altro, sembra di poter dire che alla Corte di giustizia sia stato posto un problema la cui delicatezza risiedeva proprio nel fatto che il contrasto ipotizzato dal giudice a quo poneva a confronto (sia pure indirettamente e attraverso la mediazione di una normativa di rango primario) quelli che potrebbero essere considerati come veri e propri controlimiti con un principio generale dell’ordinamento comunitario.
Se il contrasto si giocava sul piano della definizione dei limiti entro cui l’attività interpretativa può dar luogo alla responsabilità civile del magistrato e, dunque, per questa via, alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, deve altresì notarsi come la situazione risultasse ulteriormente complicata dal fatto che la stessa normativa italiana poteva porre qualche dubbio d’interpretazione, tanto che la lettura che di essa davano governo italiano e giudice rimettente non coincidevano (conclusioni dell’avvocato generale, par. 43 ss.). In aderenza alla propria consolidata giurisprudenza, secondo cui spetta ai giudici nazionali interpretare le norme del proprio ordinamento, la Corte di giustizia si pronuncia sulla disposizione come interpretata dal giudice rimettente e ne dichiara, in questo senso, l’incompatibilità con il diritto comunitario.
A questo proposito noteremo soltanto che la soluzione cui giunge la corte sembra, in certa misura, più radicale rispetto a quella prospettata dall’avvocato generale: secondo quest’ultimo, infatti, il principio della responsabilità dello Stato in caso di violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale supremo osterebbe ad una normativa nazionale che escluda, in modo generale, la sussistenza di tale responsabilità per la sola ragione che la violazione sarebbe connessa all’interpretazione delle norme di diritto o alla valutazione dei fatti e delle prove, ma non osterebbe ad una normativa che subordini il sorgere della responsabilità alla sussistenza di dolo o colpa grave da parte dell’organo giurisdizionale supremo, «purché tale condizione non vada oltre la manifesta violazione del diritto applicabile»; la corte ribaltando, per così dire, la formulazione della seconda parte del dispositivo, afferma che «il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai par. 53-56 della sentenza [...] Köbler». Se la proposta dell’avvocato generale si configurava come una sorta di sentenza interpretativa di rigetto fondata sulla persistente possibilità di un’interpretazione conforme della disciplina nazionale rispetto al diritto comunitario, la soluzione adottata dalla corte pare segnare la presa d’atto da parte di questa del consolidamento di un diritto vivente nazionale incompatibile con il diritto comunitario, circostanza, questa, che rendendo impraticabile, o comunque difficilmente percorribile, la strada dell’interpretazione conforme, suggerisce al giudice comunitario la strada dell’accoglimento.
Ciò che comunque in questa sede interessa sottolineare sono le ragioni che hanno condotto la Corte di giustizia alla dichiarazione d’incompatibilità dell’art. 2 l. 117/88 con il diritto comunitario, cioè il motivo per cui tale normativa priverebbe «della sua stessa sostanza il principio sancito nella sentenza Köbler». Secondo la corte, stante il «ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che derivano ai singoli dalle norme comunitarie» e la «circostanza che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce, per definizione, l’ultima istanza dinanzi alla quale essi possono far valere i diritti che il diritto comunitario conferisce loro», appare evidente che «la tutela di tali diritti sarebbe indebolita — e la piena efficacia delle norme comunitarie che conferiscono simili diritti sarebbe rimessa in questione — se fosse escluso che i singoli potessero ottenere, a talune condizioni, il risarcimento dei danni loro arrecati da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado» (par. 31).
Nel contrasto tra la «necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro» (par. 33) e la necessità di tutelare i principî dell’autonomia e indipendenza della magistratura predisponendo una zona di irresponsabilità dei giudici nell’attività di interpretazione di norme di diritto, secondo la Corte di giustizia deve, «a talune condizioni», prevalere la prima. Il giudice comunitario sembrerebbe, insomma, potenzialmente più attento alla tutela del singolo di quanto non siano la Corte costituzionale, apparentemente ferma su una posizione di monolitica difesa dell’autonomia dei magistrati, ed i giudici interni, quando applicano la normativa sulla responsabilità dei magistrati. Sul punto sia però consentito svolgere due brevissime considerazioni finali.
3. - In primo luogo, la prevalenza dell’evocata esigenza di tutela del singolo è comunque limitata alle ipotesi in cui la violazione del diritto comunitario da parte di una giurisdizione di ultima istanza assuma carattere «manifesto»: da questo punto di vista, si potrebbe pensare che tra la violazione manifesta prefigurata dalla Corte di giustizia e la «violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma» richiesta dalla Corte di cassazione per integrare quella negligenza inescusabile che dà origine alla responsabilità del magistrato non vi sia alcuna differenza. Al contrario, la Corte di giustizia ritiene, appunto, che l’interpretazione restrittiva data dai giudici italiani alla normativa nazionale sia inidonea a garantire i diritti riconosciuti agli individui dal diritto comunitario. Se la nozione comunitaria di violazione manifesta appare, dunque, più ampia rispetto a quella vivente nel nostro ordinamento, resta aperto il problema della capacità di tale nozione, e dei criteri individuati dalla Corte di giustizia per l’accertamento della sua sussistenza, a fungere da canone adeguato e sufficientemente preciso per la decisione di casi che, chiamando in causa la responsabilità dei magistrati, giungono a toccare il cuore dell’attività giurisdizionale e con essa i principî dell’autonomia ed indipendenza dei giudici.
In secondo luogo, sembra lecito domandarsi se la soluzione elaborata dalla Corte di giustizia non costituisca, in realtà, il tentativo di dare una risposta indiretta ad una diversa e più profonda esigenza dell’ordinamento comunitario. In estrema sintesi, è noto come la funzione di nomofilachia affidata alla Corte di giustizia sia imperniata sul meccanismo del rinvio pregiudiziale e sull’obbligo per le giurisdizioni nazionali di ultima istanza di investire di ogni eventuale dubbio d’interpretazione del diritto comunitario la corte di Lussemburgo. Questa sorta di nomofilachia preventiva — il cui successo non si vuole certo qui mettere in dubbio — non consente però alla corte di intervenire successivamente alla pronuncia dei giudici interni: gli errori interpretativi, volontari o meno, compiuti da questi giudici nell’applicazione del diritto comunitario sfuggono al controllo della Corte di giustizia. In questo quadro, riconoscere la responsabilità dei giudici nazionali per violazione del diritto comunitario derivante da errori nell’interpretazione e nell’applicazione di esso finisce per rappresentare l’unico rimedio ancora esperibile dalla parte del processo nazionale insoddisfatta per l’esito del giudizio interno, ed il giudizio di responsabilità rischia di trasformarsi in un anomalo strumento di impugnazione della pronuncia del giudice di ultimo grado dinanzi ad altro giudice nazionale. Ciò spiega perché per la Corte di giustizia assuma importanza decisiva l’affermazione della propria competenza a definire le condizioni minime della responsabilità dello Stato: fissare tali condizioni ed i criteri del loro accertamento significa garantire un minimo di uniformità nei giudizi interni volti a sanzionare quei casi di violazione del diritto comunitario che all’uniforme interpretazione e applicazione di questo diritto hanno attentato.
In questa prospettiva lo strumento del rinvio pregiudiziale non solo consente alla Corte di giustizia di verificare in astratto, come nel caso in rassegna, la compatibilità del regime nazionale della responsabilità dei magistrati con il diritto comunitario, ma potrebbe addirittura rivelarsi funzionale ad una valutazione diretta della corte medesima sul singolo caso concreto. L’ipotesi è prefigurata dallo stesso avvocato generale Léger che, nelle sue conclusioni sul caso Köbler, immaginava che un giudice nazionale, sottoponendo alla corte di giustizia una questione pregiudiziale, affidasse a questa «il compito di esaminare se l’organo giurisdizionale supremo interessato abbia effettivamente violato il diritto comunitario e, in caso affermativo, in quale misura. Il ricorso a un tale procedimento presenterebbe un duplice vantaggio, poiché consentirebbe al tempo stesso di dissipare ogni legittimo dubbio sull’imparzialità del giudice nazionale e di illuminare quest’ultimo in tale delicato esercizio eliminando il rischio di errore nella valutazione di un asserito errore». Pur riconoscendo che ciò determinerebbe un avvicinamento del ruolo della Corte di giustizia a quello della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ambito dell’esame dei ricorsi individuali, l’avvocato generale si diceva convinto che sarebbe comunque eccessivo dedurne «l’introduzione di un estremo diritto di ricorso, ossia erigere la corte a estremo grado di giurisdizione», poiché non si tratterebbe «di introdurre un rinvio pregiudiziale automatico, ma piuttosto di ricordare l’esistenza di una possibilità di rinvio».
In attesa degli eventuali, futuri sviluppi di un’impostazione del genere, che farebbe del meccanismo del rinvio pregiudiziale innestato su un giudizio di responsabilità pendente dinanzi ad un giudice statale uno strumento indiretto di impugnazione di una pronuncia interna adottata in (presunta) violazione del diritto comunitario, resta da chiedersi se lo snaturamento cui rischia di andare incontro il giudizio di responsabilità dei magistrati (e poco importa, in questo senso, che esso si svolga interamente dinanzi al giudice nazionale o faccia tappa anche di fronte alla Corte di giustizia) non costituisca un prezzo troppo caro da pagare per risolvere quei problemi di interpretazione e applicazione uniforme del diritto comunitario che si generano in un sistema che non conosce la possibilità di appello ex post dinanzi al giudice supremo e che forse potrebbero essere più adeguatamente affrontati sul piano «fisiologico» dei meccanismi d’impugnazione. Per quanto possa prima facie apparire azzardato, sembra, cioè, oggi lecito domandarsi se l’introduzione a livello comunitario di un sistema di ricorso dinanzi alla Corte di giustizia, magari ispirato alle regole che consentono il ricorso alla Corte suprema americana (come quella dell’adequate and indipendent state ground), rappresenti tuttora un insuperabile tabù o non risulti, a ben vedere, una soluzione di cui discutere seriamente a livello europeo, e comunque preferibile rispetto all’utilizzo di percorsi obliqui che, per raggiungere un obiettivo sostanzialmente analogo, rischiano di fondarsi sull’uso distorto di uno strumento che dovrebbe essere volto a tutelare il cittadino contro le ipotesi, eccezionali e patologiche, di violazioni evidenti, grossolane e macroscopiche della norma da parte del giudice.
1. - Il caso Traghetti del Mediterraneo s.p.a., di cui alla decisione in rassegna, rappresenta la naturale prosecuzione del caso Köbler (Corte giust. 30 settembre 2003, causa C-224/01, Foro it., 2004, IV, 4, con nota di SCODITTI, «Francovich» presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale). In quest’ultima sentenza era stato per la prima volta esteso anche alla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado il principio della responsabilità dello Stato per i danni derivanti ai singoli dalla violazione del diritto comunitario. L’ostacolo principale da superare era quello dell’intangibilità del giudicato. Posta la diversità di oggetto e di parti fra il processo fonte del danno e quello di responsabilità, il giudicato non solo non è superato, ma è addirittura confermato, in quanto il presupposto dell’illecito comunitario dello Stato è proprio la perdurante validità dal punto di vista dell’ordinamento nazionale del giudicato medesimo. Che la premessa della responsabilità dal punto di vista comunitario risieda nella validità dell’atto (legge o sentenza) rispetto al diritto interno, costituisce naturale conseguenza del peculiare rapporto fra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale, basato non sul principio di sovraordinazione gerarchica ma su quello di mutuo riconoscimento. L’ordinamento comunitario riconosce i criteri di validità interni all’ordinamento nazionale; ed in tanto viene qualificata come illecita sul piano comunitario la condotta dello Stato in quanto l’atto è riconosciuto come valido dal punto di vista del diritto interno (sull’integrazione fra ordinamenti come mutuo riconoscimento si rinvia a SCODITTI, Articolare le costituzioni. L’Europa come ordinamento giuridico integrato, in Materiali storia cultura giur., 2004, 189). Fatto questo passo, si trattava di delimitare la fattispecie di responsabilità comunitaria derivante da provvedimento giurisdizionale: ed è questo il compito che si dà la sentenza in rassegna.
La questione pregiudiziale posta all’attenzione della corte aveva ad oggetto la compatibilità della l. 13 aprile 1988 n. 117 (risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) con il principio di responsabilità comunitaria dello Stato nella parte in cui esclude che possa dare luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove, nonché nella parte in cui limita la detta responsabilità ai casi di dolo o colpa grave del magistrato (art. 2). Mentre sotto il primo profilo il principio di responsabilità entrerebbe in contraddizione con l’essenza della funzione giurisdizionale, e dunque con il principio di indipendenza del giudice, sotto il secondo profilo il contrasto si porrebbe con il limite introdotto dal legislatore in funzione di bilanciamento fra responsabilità civile e peculiarità della funzione giurisdizionale. Questa volta gli ostacoli sul cammino della responsabilità dello Stato sono superati con il riferimento alla nozione di violazione manifesta del diritto comunitario. Le attività proprie della funzione giudiziaria ed i limiti che il legislatore nazionale introduca alla responsabilità civile dei magistrati non hanno rilievo se conducono ad una violazione manifesta del diritto comunitario (si ricordi che, secondo Corte giust. 5 marzo 1996, cause riunite C-46 e C-48/93, Foro it., 1996, IV, 185 e 322, con nota di G. CATALANO, Responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario: atto secondo, nella violazione manifesta e grave del diritto comunitario risulta assorbito anche il requisito della colpa).
2. - Senza il limite della colpa grave, così come disegnato dall’art. 2 l. 117/88, non può sfuggire che la contraddizione fra responsabilità per manifesta violazione del diritto comunitario ed interpretazione/applicazione di norme, quale essenza della funzione giurisdizionale, permane. Tutto questo, però, se si resta sul piano della responsabilità civile del magistrato. In realtà, l’illecito comunitario non è un illecito giudiziario in senso proprio, ma un illecito dello Stato. L’attività d’interpretazione ed applicazione di norme non rappresenta un ostacolo perché la responsabilità non è di diritto interno, ma di diritto comunitario. Sovviene qui un’importante precisazione contenuta nel caso Brasserie du pêcheur-Factortame (Corte giust. 5 marzo 1996, cause riunite C-46 e C-48/93, cit.), la quale costituiva un passaggio logico essenziale per riconoscere la responsabilità derivante da attività legislativa. Il principio della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, si afferma, ha valore con riferimento ad ogni organo dello Stato membro che ha dato origine alla trasgressione. Lo Stato, così come accade nell’ordinamento giuridico internazionale, è infatti considerato nella sua unità, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario od esecutivo (sull’approccio di tipo internazionalistico della corte, v. TESAURO, Responsabilité des Etats Membres pour violation du droit communautaire, in Rev. marché un. eur., 1996, 27). Le peculiarità dell’organo, ai fini della responsabilità civile, rilevano solo dal punto di vista dell’illecito di diritto interno, in quanto in questo caso la responsabilità è riconducibile all’organo. È vero che la l. 117/88 delinea, con la forma dell’azione nei confronti dello Stato, una responsabilità, come è stato detto, dello «Stato-giudice» (CORSARO-POLITI, La c.d. responsabilità del giudice, in Giur. it., 1989, IV, 366); ma, prevedendo poi l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, pur nei limiti di una somma predeterminata, evidenzia come la fattispecie sia pur sempre di responsabilità civile del giudice. Ecco perché, per questo tipo di responsabilità, il limite dell’interpretazione ed applicazione di norme resta insuperabile.
Nel caso dell’illecito comunitario tale limite non ha ragion d’essere in quanto, considerato dall’esterno, lo Stato rileva come unità e quale sia l’organo agente è circostanza irrilevante per il diritto comunitario. Mentre, dunque, dal punto di vista della responsabilità di diritto interno le peculiarità della funzione costituiscono un limite della responsabilità stessa, dal punto di vista dell’illecito comunitario restano irrilevanti, posto che soggetto agente s’intende non l’organo ma lo Stato. L’illecito, si è detto, è dello Stato e non del giudice.
3. - La conclusione raggiunta permette di fare un passo ulteriore. I limiti previsti dalla legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati non ostano alla configurazione dell’illecito comunitario dello Stato non in forza dell’effetto utile del diritto comunitario, e della conseguente non applicazione della normativa interna difforme, ma in forza della diversità delle fattispecie. Nel caso di responsabilità dello Stato per violazione comunitaria derivante da provvedimento giurisdizionale non trova applicazione la l. 117/88 perché la fattispecie non è di illecito giudiziario, ma dello Stato in senso proprio. Il problema non è di difformità della legge italiana rispetto all’ordinamento comunitario, ma di mancanza dei presupposti di applicabilità della normativa in discorso. Allo stato, in mancanza di una specifica disciplina sostanziale e processuale, l’azione di responsabilità troverebbe titolo nell’art. 2043 c.c. e seguirebbe le forme ordinarie. Ne discende l’inapplicabilità della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato prevista dall’art. 7 l. 117/88 (ché, altrimenti, dovrebbe consentirsi una rivalsa in mancanza di dolo o colpa grave, o per attività d’interpretazione ed applicazione di norme). Un’eventuale rivalsa, nei casi di violazione manifesta del diritto comunitario, avrebbe bisogno di una norma ad hoc, che disciplini comunque i caratteri della fattispecie e fissi dei limiti.
Ciò non vuol dire che una sentenza a seguito di domanda risarcitoria nei confronti dello Stato per violazione comunitaria ai sensi della l. 117/88 non abbia efficacia di giudicato in un giudizio di responsabilità proposto successivamente nelle forme ordinarie (e viceversa). Il diritto soggettivo fatto valere è il medesimo e le due controversie sarebbero dunque identiche. Pur nella diversità di fattispecie legali, il fatto costitutivo resta unico. Il nesso ricorrente fra le due fattispecie è di specialità, nel senso che la fattispecie di responsabilità comunitaria dello Stato comprende quella di diritto interno, caratterizzata dal danno cagionato nell’esercizio di funzioni giudiziarie, ma con l’elemento ulteriore dato dalla violazione (manifesta) del diritto comunitario e dall’imputabilità del danno alla condotta dello Stato anziché a quella del giudice (sulla relazione di specialità fra fattispecie, ai fini dell’identificazione dell’oggetto del processo, MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato, Milano, 1987, 252 ss.). La disciplina della fattispecie di responsabilità di diritto interno contempla limiti, derivanti dalla ricorrenza dell’esercizio di funzioni giudiziarie, che quella della fattispecie di responsabilità di diritto comunitario, come si è visto, non prevede per l’irrilevanza dell’organo agente. Va da sé che, pur dovendosi riconoscere l’efficacia di giudicato di un’eventuale pronuncia ai sensi della l. 117/88, la fattispecie legale applicabile è quella della responsabilità dello Stato per violazione comunitaria.
4. - Si osserva in ROPPO, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione e diritto europeo: una «case story» in attesa del finale, in Riv. dir. privato, 2006, 347, che, a seguito del riconoscimento del principio della responsabilità comunitaria dello Stato derivante da provvedimento giurisdizionale senza più gli ostacoli dell’attività d’interpretazione di norme e di valutazione dei fatti e delle prove, nonché del limite del dolo o della colpa grave, dovrebbe emergere l’illegittimità costituzionale della l. 117/88 laddove, irragionevolmente e in contrasto con il principio di eguaglianza, dispone per le violazioni giudiziarie del diritto interno un grado di protezione più basso di quello accordato per le violazioni del diritto comunitario. Le osservazioni che precedono, in ordine alla diversità fra la fattispecie speciale di responsabilità dello Stato per violazione comunitaria imputabile a provvedimento giurisdizionale e quella comune di responsabilità civile del magistrato, dovrebbero illuminare circa la ragionevolezza della diversità di trattamento.
I. - Già da qualche anno era caduta ogni remora aprioristica alle domande volte a far valere la responsabilità di uno degli Stati membri dell’Unione europea, nell’ipotesi in cui i singoli lamentassero un pregiudizio derivante da una violazione del diritto comunitario che si incarnasse in un provvedimento reso da una giurisdizione suprema di quello Stato. Lo aveva statuito, sul finire del 2003, la Corte di giustizia nel caso Köbler, alimentando le speranze del docente universitario che si era visto negare, anche in sede giudiziaria e senza possibilità d’appello, un’indennità prevista dalla legge austriaca, cui avrebbe avuto diritto facendo valere l’anzianità di servizio maturata in atenei di altri paesi comunitari. La landmark decision dei giudici di Lussemburgo (ovviamente pluricommentata dalla dottrina europea: tra gli innumerevoli contributi, oltre agli autori citati nella nota di richiami, v. G. ALPA, La responsabilità dello Stato per «atti giudiziari». A proposito del caso Köbler c. Repubblica d’Austria, in Nuova giur. civ., 2005, II, 1; P. BIAVATI, Inadempimento degli Stati membri al diritto comunitario per fatto del giudice supremo: alla prova la nozione europea di giudicato, in Int’l Lis, 2005, 62; M. MAGRASSI, Il principio di responsabilità risarcitoria dello Stato-giudice tra ordinamento comunitario, interno e convenzionale, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2004, 490; J.H. JANS, State liability and infringements attributable to national courts: a Dutch perspective on the Köbler case, in J.W. DE ZWAAN-J.H. JANS-F.A. NELISSEN-S. BLOCKMANS (ed. by), The European Union: an ongoing process of integration, Cambridge, 2004, 165; M. BREUER, State Liability for judicial wrongs and Community Law: the case of Gerhard Köbler v. Austria, in European Law Review, 2004, 243; G. SCHULZE, Gemeinschaftsrechtliche Staatshaftung: Das judikative Unrecht, in Zeitschrift für europäisches Privatrecht, 2004, 1049; J.-G. HUGLO, La responsabilité des Etats membres du fait des violations du droit communautaire commises par les juridictions nationales: un autre regard, in Gazette du Palais, 2004, I, Jur., 34; I. PINGEL, La responsabilité de l’Etat pour violation du droit communautaire par une juridiction suprême, ibid., II, Doct., 2) dischiudeva nuovi orizzonti per l’effettività della tutela delle situazioni giuridiche riconosciute ai privati dall’ordinamento comunitario, suscitando accoglienze entusiastiche, ma anche riflessioni improntate ad una maggiore cautela (v., ad es., A. GARDE, Member States’ Liability for Judicial Acts or Omissions: Much Ado about Nothing?, in Cambridge Law Journal, 2004, 564; S. DRAKE, State Liability under Community Law for Judicial Error: A False Dawn for the Effective Protection of the Individual’s Community Rights, in Irish Journal of European Law, 2004, 34).
Il secondo atto di questo percorso, la sentenza Traghetti del Mediterraneo, prende le mosse da una controversia tra imprese italiane, decisa in via definitiva dalla Corte di cassazione (sent. 19 aprile 2000, n. 587, Foro it., 2000, I, 2824, con nota di R. PARDOLESI; v. altresì L. ARNAUDO, Aiuti di Stato, tariffe e concorrenze: tra competenze chiuse e questioni aperte, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2000, 1368; G.P. MANZELLA, «Marina sovvenzionata», «predatory pricing» ed Unione europea, in Giornale dir. amm., 2001, 33; A. ROMAGNOLI, In tema di aiuti di Stato a finalità regionale concessi ad imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale, in Riv. dir. ind., 2002, II, 26). Le problematiche correlate all’impatto dell’odierna pronuncia sulla legislazione nazionale in materia di responsabilità civile dei magistrati sono state già evocate da Enrico Scoditti nella nota che precede. Le questioni sono particolarmente delicate e non si fa fatica a prevedere che rinfocoleranno il dibattito interno sul punto. Non mancano, peraltro, ulteriori spunti di riflessione sui rapporti tra attività dei giudici nazionali e regole comunitarie.
II. - Ripensiamo alla lite che ha costituito il background dell’azione risarcitoria promossa contro la Repubblica italiana. Ivi si discuteva a proposito dell’applicazione di regole poste dal trattato in tema di concorrenza, vuoi sotto il profilo antitrust, vuoi sotto quello degli aiuti di Stato. Sotto «accusa» era la politica tariffaria praticata da un vettore marittimo, concessionario pubblico e sovvenzionato dall’erario, che avrebbe di fatto estromesso dall’esercizio di alcune rotte un promettente competitor, poi finito nel gorgo senza scampo delle procedure concorsuali. Il Supremo collegio, non discostandosi dalle pronunce intervenute nei due gradi di merito, negava ogni profilo d’illiceità. Per quel che ci interessa, la corte di legittimità poneva sotto l’ombrello della «missione pubblica» quelli che considerava gli inevitabili effetti distorsivi della concorrenza, legati oltretutto a tariffe imposte dall’autorità, e dava rilievo al carattere interno del cabotaggio per negare ingresso alla disciplina comunitaria dell’abuso di posizione dominante. Forte di queste certezze (piuttosto labili, invero, stando alle considerazioni critiche di PARDOLESI, cit.), il collegio giudicante riteneva superfluo interrogare in via pregiudiziale la Corte di giustizia.
A questo punto, il soccombente (o, per meglio, dire, il curatore del suo fallimento) invocava l’errore interpretativo della Cassazione, comprovato a suo avviso anche da argomenti desumibili dalla decisione con cui qualche tempo dopo la commissione delle Comunità europee si era occupata delle sovvenzioni versate al medesimo gruppo in un intervallo cronologico posteriore a quello dei fatti di causa (cfr. decisione 21 giugno 2001 n. 2001/851/Ce, in G.U.C.E. L 318 del 4 dicembre 2001, che, per parte propria, riconosceva la compatibilità col mercato comune degli aiuti versati nel periodo 1990-2000 dall’Italia all’impresa capogruppo, a titolo di compensazioni per la prestazione di un servizio pubblico; successivamente, in relazione alle compagnie regionali del medesimo gruppo, è intervenuta la decisione 16 marzo 2004 n. 2005/163/Ce, in G.U.U.E. L 53 del 26 febbraio 2005).
III. - Nel caso in esame, dunque, era richiesta all’organo di ultima istanza l’applicazione di norme comunitarie direttamente applicabili alla fattispecie dedotta in giudizio. In tali circostanze, una sentenza che interpreti in modo manifestamente erroneo le norme rilevanti, nel concorso degli altri requisiti puntualizzati nella sentenza Köbler, espone lo Stato al rischio di essere chiamato a rifondere il pregiudizio riportato da chi si vede privato di un vantaggio che l’ordinamento comunitario intendeva attribuirgli; le stesse conseguenze potrebbero verificarsi adducendo l’inadempimento all’obbligo di rinvio pregiudiziale (configura una responsabilità così fondata l’avv. gen. Léger, ai punti 77-79 delle conclusioni presentate nel caso Traghetti del Mediterraneo all’udienza dell’11 ottobre 2005).
Non minore attenzione è richiesta allorché un giudice, le cui statuizioni sono insindacabili, si accinge ad applicare disposizioni interne che costituiscono la trasposizione di norme comunitarie (caso emblematico, le norme di attuazione delle direttive). L’imprecisa trasposizione da parte del legislatore nazionale, ove non si riesca a far rivivere il genuino comando del legislatore comunitario tramite meccanismi di disapplicazione, può mettere capo alla responsabilità dello Stato. Ma, anche in presenza di un recepimento legislativo esente da pecche, un’interpretazione giudiziale che disperdesse la matrice comunitaria potrebbe frustrare le buone intenzioni. Né sono escluse ipotesi di concorso di colpa. Basti pensare alle vicissitudini dell’agente di commercio, alle prese con l’indennità di scioglimento del rapporto. Il nostro legislatore si è mostrato non poco recalcitrante ad allinearsi al modello comunitario, come dimostrano i rimaneggiamenti al testo dell’art. 1751 c.c. Ma ce n’è voluto di tempo prima che la Cassazione fosse sfiorata dal dubbio che i criteri enucleati dalla contrattazione collettiva contravvenissero alla regola dell’inderogabilità in peius, sancita dalla direttiva 86/653/Cee a tutela dell’agente che abbia arrecato vantaggi sostanziali al preponente (dopo una serie pressoché ininterrotta di pronunce che assegnavano la preferenza a quanto pattuito dalle organizzazioni di categoria, il rinvio pregiudiziale è stato disposto con ord. 18 ottobre 2004, n. 20410, Foro it., 2005, I, 1068). A seguito della decisione della Corte di giustizia nel caso Honyvem, con cui è stato in pratica bocciato ogni accordo che a priori si riveli penalizzante anche per un solo agente (sent. 23 marzo 2006, causa C-465/04, che sarà riportata in un prossimo fascicolo), si sentiranno incentivati ad avanzare pretese quanti, in forza di sentenze passate in giudicato, si sono visti riconoscere meno del dovuto. Dal punto di vista del danneggiato, poco importa che la responsabilità sia ascrivibile al legislatore, alla Suprema corte o ad entrambi: la sua controparte sarebbe comunque lo Stato.
IV. - Torniamo a considerare le norme di diretta applicabilità anche nei rapporti tra privati. Tenuto conto che in questi casi la disposizione da interpretare arriva al giudice senza la mediazione di alcun testo giuridico nazionale, elementi utili per la ricostruzione del suo significato potranno (anzi, dovranno) essere tratti dalla giurisprudenza comunitaria eventualmente sviluppatasi in argomento. Né potrà essere ignorato il punto di vista espresso da altre istituzioni comunitarie sulle stesse o su analoghe questioni. Il che è particolarmente significativo proprio in materia di concorrenza.
Sia riguardo all’accertamento degli illeciti antitrust di consistenza comunitaria, sia relativamente alla repressione degli aiuti di Stato illegali, un ruolo decisivo è svolto dalla commissione. Nondimeno, i giudici nazionali sono chiamati ad essere protagonisti nel perseguimento dell’obiettivo di assicurare un accettabile livello di concorrenzialità nel mercato comune. Quanto agli art. 81 e 82 del trattato, il regolamento 1/2003 ha attribuito a tali giudici la competenza ad applicarli nella loro integrità, ivi compresa la facoltà di valutare i presupposti per la deroga al divieto di intese restrittive, di cui all’art. 81, par. 3. Quanto agli aiuti di Stato, l’efficacia diretta dell’ultima parte dell’art. 88, par. 3, del trattato fa sì che i giudici nazionali siano chiamati a valutare se una misura statale, adottata senza il procedimento di controllo preventivo, costituisca un aiuto vietato (v., sui ruoli complementari della commissione e dei giudici nazionali, Corte giust. 21 ottobre 2003, cause riunite C-261 e C-262/01, Raccolta, 2003, I, 12249).
In quest’ultimo campo, nonostante la competenza esclusiva della commissione nella valutazione della compatibilità degli aiuti di Stato con il mercato comune, possono comunque individuarsi punti di contatto. Al riguardo, il giudice nazionale è vincolato al rispetto di una decisione della commissione, qualora venga adìto dal beneficiario degli aiuti e destinatario delle misure d’attuazione, che deduca l’illegittimità della decisione stessa (cfr. Corte giust. 9 marzo 1994, causa C-188/92, Foro it., 1995, IV, 113). Per il resto, si auspica una più stretta collaborazione tra i diversi attori istituzionali, con la possibilità di consultare la commissione e fermo restando il ricorso alla questione pregiudiziale (v., al riguardo, la «comunicazione della commissione relativa alla cooperazione tra i giudici nazionali e la commissione in materia di aiuti di Stato», in G.U.U.E. C 312 del 23 novembre 2005).
Più intricato appare oggi lo scenario sul versante antitrust. Un grave errore commesso dalla suprema giurisdizione nazionale, quando le fattispecie sono di rilevanza comunitaria, può far scattare la necessità che lo Stato allenti i cordoni della borsa; e si potrebbe arrivare a condanne di proporzioni gigantesche. Qualora vi sia un’interferenza tra la specifica vertenza affrontata dal giudice nazionale ed un caso già risolto o in corso di esame da parte della commissione, soccorrono i criteri dettati dall’art. 16, par. 1, del regolamento 1/2003, i quali, ove correttamente seguìti, impediscono sul nascere il sorgere di qualsiasi responsabilità. Certamente si tratta di criteri alquanto penalizzanti per il giudice nazionale: su quel caso non può statuire in maniera difforme da quanto già deciso dalla commissione; e, cosa ancora più difficile da digerire, deve evitare di emettere una pronuncia contrastante con quella contemplata dalla commissione in procedimenti da essa avviati (a tal fine, si prospetta la sospensione del giudizio).
Se la controversia nazionale riguarda un affare di cui la commissione non si è occupata, né lo sta facendo, lo spazio di autonomia aumenta, e con esso il coefficiente di rischio. Per ridurre il margine di errore, ancora una volta si può far appello allo spirito cooperativo e, tra gli strumenti all’uopo apprestati, spicca la possibilità di chiedere l’assistenza della commissione a mo’ di amicus curiae (v., per ulteriori ragguagli, l’art. 15 del regolamento 1/2003 e la «comunicazione della commissione relativa alla cooperazione tra la commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’Ue ai fini dell’applicazione degli art. 81 e 82 del trattato Ce», in G.U.U.E. C 101 del 27 aprile 2004).
V. - Il consolidarsi del rimedio risarcitorio a fronte delle violazioni di marca statale del diritto comunitario e il suo insediarsi a pieno titolo nell’area delle interpretazioni e valutazioni compiute dalle corti poste al vertice delle piramidi giudiziarie, se arricchiscono la tutela del singolo, non più in balia dei capricci o delle sviste degli apparati interni incaricati di fargli conseguire un diritto conferitogli a livello sovranazionale, recano con sé non pochi effetti collaterali. E non univocamente di segno positivo.
A fronte di un prevedibile accrescimento della sensibilità dei giudici nazionali verso i centri di produzione normativa non autoctona (e nell’attesa che ciò ne permetta l’auspicabile concorso nella formazione delle regole operative comuni), il valore delle loro decisioni nelle materie implicate parrebbe sminuito fin quasi al mero recepimento di soluzioni precostituite altrove, senza le garanzie che accompagnano lo svolgimento del processo innanzi ai tribunali dei singoli Stati. Il che solleva ulteriori preoccupazioni quando il diktat proviene da organi comunitari non giurisdizionali, le cui determinazioni sono suscettibili di incidere sui diritti di cittadini, enti ed imprese operanti nell’Unione europea.
Portando ad ulteriore compimento una giurisprudenza pretoria che prese le mosse con la celebre sentenza Francovich, la Corte di giustizia precisa le condizioni per affermare la responsabilità degli Stati membri in caso di violazioni del diritto comunitario commesse da organi giurisdizionali. Così facendo, esclude la legittimità di numerose previsioni della l. 13 aprile 1988, n. 117.
Sommario: 1.Premessa. − 2. La responsabilità per violazioni del diritto comunitario. − 3. La perdurante irresponsabilità dei giudici. − 4. La sentenza annotata. − 5.Conclusioni.
Se l'Italia non fosse uno degli Stati membri dell'Unione europea, il diritto comunitario sarebbe senz'altro meno sviluppato di quello che è. Questo non certo perché il diritto italiano abbia fornito i modelli sui quali si è plasmato l'ordinamento comunitario (per questo, di volta in volta, ci sono la Francia, la Germania, il Regno unito, e a volte i Paesi bassi o quelli scandinavi). No, l'Italia ha fornito alla Corte di giustizia alcune fondamentali occasioni ed opportunità per sviluppare il diritto comunitario e renderlo più stringente rispetto a Stati membri recalcitranti o, e forse il più delle volte, semplicemente ignavi.
Un settore che ha visto un intervento massiccio della Corte di giustizia sotto l'egida del principio di effettività del diritto comunitario (effet utile) e della sua tutela giurisdizionale è quello della responsabilità per violazioni del diritto comunitario (1).
Proprio l'Italia ha fornito la prima occasione alla Corte di giustizia per affermare il principio della responsabilità degli organi degli Stati membri per violazioni di disposizioni comunitarie attributive di diritti a favore dei singoli. Nel caso Francovich si trattava di una fattispecie nella quale la Repubblica italiana era venuta meno all'obbligo di attuare una direttiva comunitaria in materia di tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro. La Corte ha ritenuto che la responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto comunitario fosse implicita nel sistema dei trattati e comunque discendente dall'obbligo di lealtà comunitaria di cui all'attuale art. 10 Trattato CE (allora art. 5 Trattato CEE). Individuando le condizioni della responsabilità, il giudice del Lussemburgo indicava la necessità che la norma violata garantisse un diritto del cittadino comunitario, del nesso di causalità e del danno (2).
Da allora, la casistica in materia di responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto comunitario si è molto arricchita, grazie al contributo di molti altri Paesi. In particolare, nella decisione dei casi riuniti Brasserie du pêcheur e Factortame III, la Corte ha ridefinito i presupposti "comunitari" della responsabilità, indicando, accanto a quelli già individuati dal caso Francovich, la necessità che la violazione imputata agli organi nazionali sia "grave e manifesta"; la Corte ha invece rimesso al diritto nazionale, nel rispetto dei principi di equivalenza rispetto al trattamento di analoghe azioni di diritto interno, e di effettività della tutela giurisdizionale, la definizione delle modalità procedurali di verifica delle domande risarcitorie (3). Il caso Dillenkofer ha ricondotto ad unità il sistema, rilevando che in caso di mancata attuazione nei termini di una direttiva comunitaria, come nel caso Francovich, la violazione è senz'altro grave e manifesta (4).
Ora l'Italia offre alla Corte di giustizia l'opportunità di precisare le condizioni della responsabilità per violazioni del diritto comunitario quando la violazione derivi dal fatto o dall'omissione del giudice.
La responsabilità può derivare da azioni o omissioni del legislatore (tale era già il caso Francovich), o dell'amministrazione (5). La giurisprudenza comunitaria ha precisato che la responsabilità per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad una pubblica autorità nazionale costituisce un principio, inerente al sistema del Trattato, che crea obblighi in capo agli Stati membri; spetta pertanto a ciascuno degli Stati membri accertarsi che i singoli ottengano un risarcimento del danno loro causato dall'inosservanza del diritto comunitario, a prescindere dalla pubblica autorità che ha commesso tale violazione e a prescindere da quella cui, in linea di principio, incombe, ai sensi della legge dello Stato membro interessato, l'onere di tale risarcimento; gli Stati membri non possono sottrarsi a tale responsabilità né invocando la ripartizione interna delle competenze e delle responsabilità tra gli enti locali esistenti nel loro ordinamento giuridico interno, né facendo valere che l'autorità pubblica autrice della violazione del diritto comunitario non disponeva delle competenze, cognizioni o dei mezzi necessari.
Pertanto, accanto allo Stato, possono essere responsabili anche enti ad autonomia costituzionalmente garantita, come i Länder. Così, in un caso relativo ad una legge del Land del Tirolo la quale limitava la possibilità per coloro che non fossero cittadini del luogo di acquistare immobili, la Corte ha ritenuto che, purché le modalità procedurali in essere nell'ordinamento giuridico interno consentano una tutela effettiva dei diritti derivanti ai singoli dall'ordinamento comunitario senza che sia più difficoltoso far valere tali diritti rispetto a quelli derivanti agli stessi singoli dall'ordinamento interno, al risarcimento dei danni causati ai singoli da provvedimenti interni adottati in violazione del diritto comunitario non deve necessariamente provvedere lo Stato federale perché gli obblighi comunitari dello Stato membro siano adempiuti (6). Analogamente, possono essere responsabili anche altri soggetti di diritto pubblico; in un caso relativo al mancato riconoscimento di titoli di abilitazione da parte di un ordine professionale tedesco, la Corte di giustizia ha ritenuto che negli Stati membri, a struttura federale o meno, nei quali talune funzioni legislative e amministrative sono assunte in maniera decentrata da enti locali dotati di una certa autonomia o da qualsiasi altro ente di diritto pubblico giuridicamente diverso dallo Stato, il risarcimento dei danni causati ai singoli da provvedimenti d'ordine interno adottati in violazione del diritto comunitario da un ente di diritto pubblico può essere garantito da quest'ultimo (7).
Inoltre, per quanto in questa sede maggiormente interessa, la responsabilità può derivare anche da violazioni del diritto comunitario perpetrate da organi giurisdizionali. In quello che costituisce il precedente diretto della sentenza annotata, il caso Köbler, la Corte aveva osservato: "In considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro" (8).
La decisione che si commenta precisa quanto affermato in termini generali dalla sentenza Köbler, "calzandolo" sulla situazione italiana.
Com'è noto, non senza ritardo, a seguito di complesse vicende istituzionali all'interno delle quali si inserì anche un referendum abrogativo della precedente disciplina, l'Italia si è dotata di una legge specifica, la l. 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati (9).
Rispetto al modello generale costituito dall'art. 2043 c.c., la disciplina specifica è molto restrittiva. La disposizione fondamentale, l'art. 2, n. 1, della legge dispone: "[c]hi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale"; la nozione di "colpa grave" è integrata da diverse ipotesi che sono enumerate nel n. 3 dello stesso articolo: "[c]ostituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione"; parimenti, la nozione di "diniego di giustizia" è definita all'art. 3, n. 1, della stessa legge come "il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria [...]".
Dal punto di vista sostanziale, l'àmbito della responsabilità è ulteriormente circoscritto dall'art. 2, n. 2, il quale prevede che "[n]ell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove".
Il proprium dell'attività giurisdizionale è sottratto alla sindacabilità ai fini dell'azione risarcitoria: secondo la giurisprudenza, la legge esclude che possa dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova, comprendendo in detta colpa, fra l'altro, la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, senza eccezioni per le norme processuali, e dunque includendo quelle che fanno carico al giudice di esaminare i temi in discussione influenti per la decisione, e di dare contezza delle ragioni della decisione stessa; conseguentemente, il momento della funzione giurisdizionale riguardante l'individuazione del contenuto di una determinata norma e l'accertamento del fatto, con i corollari dell'applicabilità o meno dell'una all'altro, non potrebbe essere fonte di responsabilità nemmeno sotto il profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell'assenza di una esplicita e convincente confutazione di opposte tesi, dovendo passare l'affermazione della responsabilità, anche in tali casi, attraverso una non consentita revisione di un giudizio interpretativo o valutativo (10).
Inaudita, nel nostro sistema, pure la disciplina processuale. L'azione tesa ad accertare la responsabilità dello Stato derivante dall'attività giudiziaria è sottoposta ad esame preliminare da parte del giudice competente che si pronuncia sulla sua ammissibilità (11), fase che può anche essere condotta ex actis(12).
Non a caso, le sentenze in materia di responsabilità dei magistrati sono state sino ad oggi costantemente assolutorie. Si è addirittura negato che sussistesse grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nella condotta dei giudici di una Corte d'appello che, nell'ambito di un maxiprocesso per reati di tipo mafioso, con riferimento ad un imputato per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., derubricato in primo grado in favoreggiamento personale, lo abbiano condannato ad una pena superiore, riqualificando in peius il fatto contestato, pure in mancanza di uno specifico motivo di appello del P.M. sul punto, qualora, detti giudici abbiano conosciuto di una situazione processuale e di merito che rendeva oggettivamente difficile l'esame delle singole posizioni. Nella specie si trattava di un capo di imputazione formulato in modo equivoco, tale cioè da poter suscitare perplessità interpretative, ma certo la tutela della libertà personale del cittadino non pare meritare, secondo la Corte di cassazione, una particolare attenzione (13).
Le normali categorie civilistiche assumono nuove configurazioni in tema di responsabilità civile per il danno cagionato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Si afferma ad esempio che la colpa grave si caratterizza in modo peculiare rispetto alla sua nozione generale − quale è quella richiamata dall'art. 2236, comma 2, c.c. con riferimento alla prestazione del libero professionista implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà − sia perché non può dare luogo a responsabilità l'attività del giudice di interpretazione delle norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove, sia perché la detta responsabilità incontra un ulteriore limite nella necessità che la colpa grave sia qualificata da "negligenza inescusabile", per tale intendendosi una negligenza che non possa trovare non solamente giustificazione, ma neppure spiegazione in particolarità delle vicende giudiziarie idonee a rendere comprensibile l'errore del giudice (14). In altra fattispecie si è ritenuto che l'inescusabile negligenza si concretizzi non nell'errore in cui sia incorso il giudice nel valutare il materiale probatorio a sua disposizione, bensì soltanto nel fatto che il giudice abbia posto a fondamento del suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento, posto che il concetto di negligenza inescusabile postulerebbe la sussistenza di un quid pluris rispetto alla colpa grave disciplinata dal codice civile (15).
Anche la nozione di "dolo" è stata interpretata restrittivamente, nel senso non della semplice volontarietà dell'azione che si assume dannosa, bensì nel senso della diretta consapevolezza di compiere un atto giudiziario formalmente e sostanzialmente illegittimo con il deliberato proposito di nuocere ingiustamente ad altri e, segnatamente, di ledere i diritti della parte soccombente, onde la necessità, affinché possa ritenersi la sussistenza della responsabilità dei giudici, che l'attore fornisca la prova di una simile consapevolezza, ovvero del fatto che l'emissione del provvedimento sia stata determinata da fini estranei alle esigenze dell'amministrazione della giustizia (16).
Come ricorda una massima, per l'ammissibilità dell'azione di responsabilità civile del magistrato, il giudice, chiamato ad accertare il rispetto dei termini e l'esistenza dei presupposti di cui agli art. 2, 3 e 4, nonché a verificare la non manifesta infondatezza della domanda ai sensi dell'art. 5, comma 3, l. 13 aprile 1988, n. 117, è tenuto altresì, a garanzia dell'indipendenza della funzione giurisdizionale, a svolgere l'indagine sul carattere non interpretativo della violazione di legge prospettata o sulla natura meramente percettiva dell'errore di fatto denunciato, ponendosi le attività di interpretazione e di valutazione come elementi definitori negativi dell'illecito (17).
La normativa italiana ha organizzato un percorso ad ostacoli la cui difficoltà tradisce la volontà di porre i magistrati al riparo da azioni risarcitorie. In definitiva, la responsabilità civile dei magistrati viene riconosciuta esclusivamente quando i comportamenti loro attribuiti integrino fattispecie criminose (18).
In tali casi scatta anche la responsabilità amministrativa, attribuita alla giurisdizione della Corte dei conti (19). A tale ultimo proposito, le Sezioni unite della Corte di cassazione, rilevato che l'intero sistema previsto dalla l. 13 aprile 1988, n. 117, mira a disciplinare, ponendo limiti e condizioni a garanzia dell'indipendente e imparziale esercizio delle funzioni giurisdizionali, la sola responsabilità civile, e considerato che l'esigenza di una disciplina speciale viene meno in presenza di un fatto di reato commesso nell'esercizio delle predette funzioni, hanno ritenuto sussistere la responsabilità amministrativa dei magistrati qualora sia configurabile una correlazione della stessa con la commissione di fatti integranti reato, con la conseguenza che, sul relativo giudizio, la giurisdizione spetta alla Corte dei Conti (20).
Resta solo da osservare che più volte la Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale sollevate rispetto alla disciplina di favore in materia di responsabilità dei magistrati (21). Ancora recentemente la Corte ha ritenuto manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui prevede un preliminare giudizio di ammissibilità della domanda; secondo la Corte, la norma trova giustificazione e base logica nella oggettiva peculiarità della materia e risponde a una precisa scelta di politica legislativa volta a tutelare l'indipendenza e l'autonomia della funzione giurisdizionale (artt. 101 Cost. e ss.), senza con ciò accordare privilegi al magistrato o ledere il principio di eguaglianza (22).
E in quei pochi casi in cui le questioni sono giunte al vaglio del giudice delle leggi, esse sono state generalmente ritenute infondate, quando non manifestamente infondate (23).
Meno benevola è stata la Corte di giustizia.
Nella fattispecie, la Traghetti del Mediterraneo s.p.a. lamentava di essere stata costretta al fallimento dalla politica di bassi prezzi operata dalla Tirrenia di Navigazione, concessionaria del servizio di trasporto con le isole e beneficiaria di consistenti contributi pubblici destinati a coprire i maggiori costi di gestione. La domanda era stata respinta dai giudici di merito e dalla Corte di cassazione, la quale aveva giudicato il sistema di aiuti compatibile con il Trattato CE; secondo la Corte, gli aiuti di Stato e le sovvenzioni sotto qualsiasi forma, vietati in via generale in quanto tecnica che distorce per sua natura la concorrenza, sono eccezionalmente ammessi allorquando è necessario correggere la libera concorrenza al fine di soddisfare particolari esigenze collettive, tra cui favorire lo sviluppo economico di regioni con tenore di vita particolarmente basso o con grave forma di sottoccupazione, con la conseguenza che l'imprenditore, il quale agisca in una situazione caratterizzata da una esigenza generale, praticando una tariffa imposta e ricevendo aiuti destinati a consentirgli di assorbire i costi non coperti dalle entrate, non realizza, con ciò soltanto, una condotta di concorrenza sleale; sicura del proprio − verosimilmente errato − giudizio, la Cassazione riteneva non necessario sollevare questione pregiudiziale di interpretazione sul punto (24).
Proprio tale omissione veniva stigmatizzata dalla Traghetti del Mediterraneo s.p.a. nell'azione risarcitoria che ha dato occasione alla pronuncia annotata e alla conseguente critica demolitoria del regime della (ir)responsabilità dei magistrati quale dettata dalla l. 13 aprile 1988, n. 117.
Già nelle conclusioni dell'Avvocato generale Léger è chiara la valutazione negativa della legge nazionale, che porta ad una sostanziale impossibilità di far valere la responsabilità dei giudici proprio in relazione a quello che è il proprium della loro funzione, l'interpretazione del diritto: "L'interpretazione delle norme di diritto svolge infatti un ruolo essenziale nell'attività giurisdizionale. Ciò vale a maggior ragione con riguardo agli organi giurisdizionali supremi in quanto a questi ultimi è tradizionalmente demandato il compito di uniformare, a livello nazionale, l'interpretazione del diritto" (25).
Negare che l'attività interpretativa possa essere fonte di responsabilità equivarrebbe dunque a privare di ogni effetto il principio di responsabilità dello Stato per l'attività dei propri organi giurisdizionali, pur affermata dalla già ricordata sentenza Köbler.
Non solo, ma l'omissione del rinvio pregiudiziale da parte di un giudice di ultima istanza ha conseguenze particolarmente gravi per l'effettività del diritto comunitario, in quanto il rinvio stesso è l'unico strumento che consente alla Corte di giustizia di orientare l'applicazione del diritto di fonte europea negli ordinamenti nazionali (26), e non può quindi essere coperto da immunità (27).
Nello stesso senso delle conclusioni si è mossa inevitabilmente la Corte di giustizia, la quale ha rilevato che "l'interpretazione delle norme di diritto rientra nell'essenza vera e propria dell'attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti − nazionali e/o comunitarie − al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta"; né si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario venga commessa nell'esercizio di un'attività interpretativa "se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia [...], o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente" (28).
Non solo, ma la particolare posizione degli organi giurisdizionali non giustifica neppure il riferimento alla colpa grave come limite alla responsabilità, nella misura in cui essa assuma un contenuto diverso rispetto alla violazione (grave e) manifesta del diritto comunitario (29).
Anche da questo punto di vista, la sentenza annotata conferma le indicazioni desumibili dal precedente nel caso Köbler, del resto esplicitamente richiamato: "53. Per quanto riguarda più in particolare la seconda di queste condizioni e la sua applicazione al fine di stabilire un'eventuale responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto come hanno fatto valere anche gli Stati membri che hanno presentato osservazioni in questo procedimento. La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario in una tale decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente. 54. Al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato. 55. Fra tali elementi compaiono in particolare il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l'inescusabilità dell'errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, comma 3, CE. 56. In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia" (30).
Sotto più e qualificanti profili, la l. 13 aprile 1988, n. 117, risulta incompatibile con il diritto comunitario. In effetti, i giudici nazionali rivestono un ruolo troppo importante nell'attuazione del diritto di fonte europea perché la Corte di giustizia si disinteressi del modo in cui questi adempiono al loro ruolo. Ancora una volta, l'istituto della responsabilità viene a giocare il ruolo di clausola di chiusura e di salvaguardia del sistema delle garanzie dei diritti dei singoli e dell'effettività della tutela giurisdizionale.
Nelle controversie che presentano profili di illecita violazione del diritto comunitario la l. 13 aprile 1988, n. 117, andrà dunque disapplicata (31).
Ma, anche per evitare disparità di trattamento in situazioni distinguibili solo per la loro rilevanza "europea", la soluzione più auspicabile è senz'altro l'abrogazione del testo normativo in questione, e la riconduzione della problematica nell'alveo del diritto comune e delle disposizioni di cui agli artt. 2043 ss. c.c., incluso, se del caso, l'art. 2236.
Ancora valide sono le parole scritte da Mauro Cappelletti nell'imminenza dell'approvazione della legge ormai "condannata" dalle istanze comunitarie: "La responsabilità giudiziale [...] deve essere vista non in funzione del prestigio e dell'indipendenza della magistratura in quanto tale, né in funzione del potere di un'astratta entità quale "lo Stato" o "il sovrano", sia questo individuo o collettività. Essa deve essere vista, al contrario, in funzione degli utenti, e quindi come elemento di un sistema di giustizia che congiunge la imparzialità [...] con un grado ragionevole di apertura e di sensibilità alla società ed agli individui che la compongono, al cui servizio soltanto il sistema giudiziario deve operare" (32).
NOTE
(1) Recentemente M. POTO, La Corte di giustizia ed il sistema tedesco di vigilanza prudenziale: la primauté si scontra con il vecchio adagio ubi maior, minor cessat, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2005, 1050; S. DEMARIA, Recenti sviluppi della giurisprudenza comunitaria in materia di responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2004, 879.
(2) Corte giust. Ce, 19 novembre 1991 (in cause riunite C-6/90 e C-9/90), in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1992, 138, con note di M. CAFAGNO, Ordinamento comunitario e responsabilità per lesione di interessi legittimi, e di F. RUSSOSPENA, La Corte di giustizia ridefinisce la responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario; in argomento anche R. CARANTA, Governmental Liability after Francovich, in Cambridge Law Journal 1993, 272.
(3) Corte giust. Ce, 5 marzo 1996 (in cause riunite C-46/93 e C-48/93), in Foro amm., 1997, 3, con nota di R. CARANTA, Conferme e precisazioni in materia di responsabilità per violazioni del diritto comunitario; anche in questa Rivista, 1996, 1123, con nota di S. TASSONE, Nuovi sviluppi giurisprudenziali in materia di responsabilità del legislatore nazionale per violazione del diritto comunitario.
(4) Corte giust. Ce, 8 ottobre 1996 (in cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94, e C-190/94), in Giur. it., 1997, I, 1009, con osservazioni di A. JANNARELLI; in Racc., 1996, I, 4845; in Giorn. dir. amm., 1997, 822, con nota G. DELLACANANEA, La Corte di giustizia e i rimedi contro le omissioni del legislatore; in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1997, 101, con nota di N. PECCHIOLI, La Corte di giustizia chiude il cerchio: una nuova pronuncia in materia di responsabilità dello Stato per mancata attuazione di una direttiva.
(5) Corte giust. Ce, 23 maggio 1996 (in causa C-5/94), in Giorn. dir. amm., 1997, 612, con nota di N. PECCHIOLI, Esercizio di potere amministrativo e violazione del diritto comunitario, e in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1996, 1008, con nota di R. CARANTA, Illegittimo diniego di autorizzazione all'esportazione e responsabilità della pubblica amministrazione alla luce del diritto comunitario.
(6) Corte giust. Ce, 1 giugno 1999 (in causa C-302/97), Konle, in Racc., 1999, I-3099.
(7) Corte giust. Ce, 4 luglio 2000 (in causa C-424/97), Haim c. Kassenzahnärztliche Vereinigung Nordrhein, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2001, 407, con nota di V. FERRARO, La sentenza "Haim II" ed il problema della compatibilità del sistema di responsabilità extra-contrattuale per illeciti della P.A. elaborato dalla Corte di giustizia con quella vigente in Italia; a commento anche M. CARTABIA, Le regioni come soggetti dell'ordinamento comunitario? Segni da decifrare nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Quad. cost., 2001, 238.
(8) Corte giust CE, 30 settembre 2003 (in causa C-224/01), Köbler, in Foro it., 2004, IV, 4, con nota di E. SCODITTI, "Francovich" presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale.
(9) In generale, anche per riff. comparatistici, M. GRAZIADEI e U. MATTEI, Judicial Responsibility in Italy: A New Statute, in Am.Journ. Comp. Law, 1990, 103.
(10) Cass. civ., 5 dicembre 2002, n. 17259, in Arch. civ., 2003, 1105, secondo la quale fonte di responsabilità, invece, può essere l'omissione di giudizio, sempre che investa questioni decisive, anche in relazione alla fase in cui si trova il processo, e sia ascrivibile a negligenza inescusabile.
(11) La Suprema Corte è poi piuttosto rigorosa nel rilevare l'inammissibilità delle domande in questione: ad es., tra le più recenti, Cass. civ., 20 gennaio 2006, n. 1104, in Mass.Giur. it., 2006; Cass. civ., 27 maggio 2005, n. 11294, in Mass. Giur. it., 2005; Cass. civ., 29 marzo 2005, n. 6551, in Mass.Giur. it., 2005; Cass. civ., 28 novembre 2003, n. 18191, in Arch. civ., 2004, 1111; Cass. civ., 25 gennaio 2002, n. 871, in Giust. civ., 2002, I, 1583, con nota di F. MOROZZODELLAROCCA, Il danno da motivazione ingiuriosa e l'ammissibilità dell'azione risarcitoria nell'art. 4 l. n. 117 del 1988; per quanto riguarda la competenza territoriale, ritenuta inderogabile, si veda Cass. civ., 25 febbraio 2005, n. 4084, in Mass. Giur. it., 2005.
(12) Secondo Cass. civ., 19 giugno 2003, n. 9811, in Arch. civ., 2004, 554, la fase preliminare attinente all'ammissibilità dell'azione risarcitoria per responsabilità civile del magistrato ha carattere di cognizione piena e definitiva in ordine alla configurabilità dei fatti contestati, dei requisiti e delle condizioni cui la legge subordina detta responsabilità, ma consente anche, ove ricorra la manifesta infondatezza, una valutazione, da condurre esclusivamente ex actis, sul merito della questione dedotta in giudizio, essendo l'infondatezza ragione di inammissibilità della domanda quando essa sia manifesta, e cioè emerga dagli atti senza necessità di ulteriori indagini o accertamenti istruttori.
(13) Cass. civ., 2 marzo 2006, n. 4642, in Mass. Giur. it., 2006.
(14) Cass. civ., 7 novembre 2003, n. 16696, in Arch. civ., 2004, 1111.
(15) Cass. civ., 29 novembre 2002, n. 16935, in Arch. civ., 2003, 984.
(16) Cass. civ., 16 gennaio 2004, n. 540, in Arch. civ., 2004, 1484; nella specie, la Corte ha confermato il decreto impugnato, con il quale la Corte d'Appello aveva ritenuto che non potesse configurarsi in termini di condotta dolosa la manifesta inescusabilità dell'errore contenuto nell'affermazione di un fatto inequivocabilmente contraddetto dalle risultanze del fascicolo di causa.
(17) Cass. civ., 20 settembre 2001, n. 11880, in Foro it., 2001, I, 3356, con nota di G. SCARSELLI, La responsabilità del giudice nei limiti del principio di indipendenza della magistratura.
(18) Al proposito si ritiene che l'art. 13 l. 13 aprile 1988, n. 117, che disciplina la responsabilità civile dei magistrati per fatti costituenti reato, non trovi applicazione quando il danneggiato − in ipotesi di reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni − proponga, come consente il nuovo codice di procedura penale, l'azione risarcitoria direttamente in sede civile: Cass. civ., 4 maggio 2005, n. 9288, in Foro amm. CDS, 2005, 2493; Cass. civ., 29 aprile 2003, n. 6697, in Arch. civ., 2004, 277.
(19) La responsabilità amministrativa può poi sussistere in fattispecie nelle quali non si riscontra responsabilità civile verso i terzi, come nel caso deciso da Corte conti, Sez. giurisdiz. Emilia-Romagna, 12 febbraio 2003, n. 521, in Foro amm. CDS, 2003, 3137, con nota di A. POMPONIO, Funzioni giurisdizionali e responsabilità amministrativa, secondo la quale in tema di responsabilità amministrativa dei magistrati, il giudizio ha per oggetto il corretto espletamento dei compiti del magistrato nell'utilizzo di risorse pubbliche nel rispetto dell'autonomia della funzione giudiziaria, conseguentemente non vi è alcuna commistione con l'istituto della responsabilità civile dei magistrati dettata dalla l. 13 aprile 1988, n. 117, né con le disposizioni in tema di nullità processuali riguardanti, diversamente, la tutela delle parti agenti nel processo (la massima è adeguata alla fattispecie, ma non è generalizzabile).
(20) Sez. un. civ., 24 marzo 2006, n. 6582, in Mass.Giur. it., 2006.
(21) Ad es. Cass. civ., 26 febbraio 2002, n. 2768, in Mass.Giur. it., 2002; Cass. civ., 24 dicembre 2002, n. 18329, in Giur. it., 2003, 777.
(22) Cass. civ., 4 maggio 2005, n. 9288, in Foro amm. CDS, 2005, 2493; a parere del giudicante, il diritto di difesa − che, come ogni diritto individuale riconosciuto dalla Costituzione, non può sottrarsi a limitazioni intese ad armonizzarne l'esercizio con i diritti altrui e le esigenze generali − sarebbe compatibile con il rito camerale, mentre il diniego di azione diretta contro il magistrato non inciderebbe sulle posizioni creditorie del danneggiato, per l'esaustiva tutela rappresentata dalla piena assunzione da parte dello Stato delle corrispondenti obbligazioni; la fase "filtrante" non contrasterebbe con il contenuto immediatamente precettivo del novellato art. 111 Cost., consentendo comunque al cittadino, il quale si assuma danneggiato da un atto commissivo o omissivo di un organo giurisdizionale, di avanzare la propria pretesa risarcitoria nell'ambito di un processo "giusto", ovverosia rispettoso del principio del contraddittorio e celebrato davanti a un giudice la cui individuazione sul territorio è determinata in termini tali da fugare ogni timore di parzialità; analogamente già Cass. civ., 29 aprile 2003, n. 6697, in Arch. civ., 2004, 278.
(23) Da ultimo Corte cost., 29 gennaio 2005, n. 67, in Foro it., 2005, I, 1302, ha ritenuto manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 1, l. 13 aprile 1988, n. 117 (risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui non prevede la facoltà di proporre reclamo avverso il decreto che dichiara l'ammissibilità della domanda.
(24) Cass. civ., 19 aprile 2000, n. 5087, in Giorn. dir. amm., 2001, 1, 33, con nota di G.P. MANZELLA, "Marina sovvenzionata", predatory pricing ed Unione europea, e in Dir. scambi internaz., 2001, 523, con nota di S. BOSCO, Gli aiuti di Stato nella normativa comunitaria e nella recente giurisprudenza della Corte di cassazione, il quale conclude la sua approfondita nota critica osservando: "la Corte di cassazione avrebbe dovuto, per di più come giudice di ultima istanza, far risolvere dalla Corte di giustizia [...] il problema della legittimità dell'aiuto in questione. Soltanto dopo la decisione della Corte di giustizia avrebbe dovuto pronunciarsi sull'esistenza di atti di concorrenza sleale giuridicamente sanzionabili".
(25) Punto 52 delle conclusioni.
(26) D. FALCON, Separazione e coordinamento tra giurisdizioni europee e giurisdizioni nazionali nella tutela avverso gli atti lesivi di situazioni soggettive europee, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2004, in part. 1156 ss.; R. CARANTA, La giustizia amministrativa comunitaria, in S. CASSESE (cur.), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, 2 ed., t. V, Il processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2003, 4939; R. BARENTS, The Preliminary Procedure and the Rule of Law in the European Union, e P.J.G. KAPTEYN, Europés Expectations of Its Judges, in R.H.M. JANSEN, D.A.C. KOSTER e R.F.B. VANZUTPHEN (edds.), European Ambitions of the National Judiciary, The Hague, Kluwer, 1997, rispettivamente 66 ss. e 181.
(27) In part. punti 71 e ss. delle conclusioni.
(28) Punti 34 e 35 della motivazione; si veda anche il punto 41: "[...] Escludere [...] qualunque responsabilità dello Stato poiché la violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale risulterebbe da una valutazione dei fatti rischia di condurre a un indebolimento delle garanzie procedurali offerte ai singoli in quanto la salvaguardia dei diritti che essi traggono dalle pertinenti disposizioni del Trattato dipende, in larga misura, da successive operazioni di qualificazione giuridica dei fatti. Orbene, nell'ipotesi in cui la responsabilità dello Stato fosse esclusa in maniera assoluta, a seguito delle valutazioni operate su determinati fatti da un organo giurisdizionale, tali singoli non beneficerebbero di alcuna protezione giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado commettesse un errore manifesto nel controllo delle summenzionate operazioni di qualificazione giuridica dei fatti".
(29) Punti 43 ss. della motivazione.
(30) Corte giust. CE, 30 settembre 2003 (in causa C-224/01), Köbler, cit.
(31) Tra le più recenti e significative (se pur relativa alla disapplicazione da parte di un'autorità indipendente), si veda Corte giust. CE, 9 settembre 2003 (in causa C-198/01), CIF, in Giorn. dir. amm., 2003, 1131, con note di S. CASSESE, Il diritto comunitario della concorrenza prevale sul diritto amministrativo nazionale; di M. LIBERTINI, La disapplicazione delle norme contrastanti con il principio comunitario di tutela della concorrenza, e di G. NAPOLITANO, Il diritto della concorrenza svela le ambiguità della regolamentazione amministrativa; in Urbanistica e appalti, 2004, 151, con nota di R. CARANTA, La disapplicazione di disposizioni nazionali in contrasto con il diritto comunitario della concorrenza; a commento anche B. NASCIMBENE, The European Court of Justice and the Powers of the Italian Antitrust Authority: the CIF Case, in Eur. Public Law 2004, 622.
(32) M. CAPPELLETTI, Giudici irresponsabili?, Milano, 1988, 90 (corsivo dell'Autore).
L'Autore valuta positivamente la nuova pronunzia della Grande Sezione della Corte di giustizia sul tema della responsabilità dello Stato per attività giurisdizionale di ultima istanza, in essa cogliendo il punto finale di un ragionamento che il giudice di Lussemburgo è andato progressivamente tessendo sul controverso rapporto tra i sistemi normativi domestici ed il diritto comunitario.
All'indomani della sentenza Kobler resa dalla Corte di giustizia in materia di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario ascrivibile al giudice interno di ultima istanza, al cui commento si rinvia [1], ci eravamo sforzati di prefigurare le possibili ricadute che tale pronunzia poteva produrre sul sistema di tutela in materia di responsabilità dello Stato per attività giurisdizionale disciplinato dalla legge n. 117/1988.
In quell'occasione si era escluso di poter condividere l'indirizzo inizialmente professato dal Tribunale di Roma [2], secondo il quale l'esistenza, nell'ordinamento interno, di una disciplina che si occupa specificamente del delicato tema della responsabilità dei magistrati avrebbe impedito al giudice di disapplicarla ove ritenuta non conforme al quadro comunitario, integrando questa le forme ed i modi di tutela del privato al di fuori delle quali non è configurabile veruna azione risarcitoria nei confronti dello Stato.
Quella conclusione, a ben vedere, poteva valere solo ritenendo che il legislatore nazionale è tenuto soltanto a garantire al danneggiato un'uniformità di tutela tra violazione del diritto comunitario ed altre omologhe violazioni disciplinate a livello interno pur esse ascrivibili all'attività giurisdizionale. Solo in tale prospettiva la previsione di una disciplina generale interna in tema di responsabilità del magistrato (appunto la l. n. 117/1988) avrebbe impedito di ammettere l'esistenza di una disuguaglianza, posto che la condotta illecita del magistrato sarebbe stata comunque sottoposta alle regole fissate dalla legge n. 117/1988, fosse o meno in gioco la violazione del diritto comunitario.
Ma la Corte di giustizia, anche nella sentenza Kobler, aveva ulteriormente precisato che incombe sul legislatore interno l'obbligo di rispettare il principio della c.d. effettività della tutela.
A questo il legislatore interno avrebbe dovuto informare il proprio operato laddove, in forza del principio dell'autonomia procedurale, è chiamato a predisporre un apparato legislativo interno che consenta al danneggiato da violazione del diritto comunitario perpetrata da organo giurisdizionale supremo di ottenere il risarcimento del danno patito e che fissa, altresì, le condizioni per la proposizione dell'azione, l'autorità giudiziaria competente, il soggetto attivamente e passivamente legittimato, la liquidazione e quantificazione del danno risarcibile e l'eventuale termine di prescrizione o decadenza cui rimane soggetta l'azione.
Allora, la valutazione in ordine alla conformità del quadro interno con i principi scolpiti dalla sentenza Kobler imponeva di acclarare non solo se la legge n. 117/1988 prevedesse una disciplina più gravosa di altre norme interne relative ad analoghe azioni risarcitorie, ma anche se il sistema di tutela così disciplinato rendesse praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti al danneggiato dall'ordinamento giuridico comunitario.
In quella prospettiva i punti nevralgici dell'indagine apparvero subito chiari.
Si trattava, infatti, di scrutinare le disposizioni che prevedono un giudizio a cognizione sommaria di ammissibilità, la necessaria esistenza di un coefficiente soggettivo - sub specie di dolo o colpa-, la previsione di un termine di decadenza e l'insussistenza di responsabilità per attività interpretativa.
Chiarito che non suscitava perplessità la previsione di un vaglio di ammissibilità dell'azione risarcitoria e del (congruo) termine di decadenza, avevano sottolineato come i due momenti più delicati erano rappresentati dalla necessità dell'elemento soggettivo e dall'esclusione della responsabilità per attività interpretativa.
Infatti, la sentenza Kobler, in linea con la giurisprudenza di Lussemburgo, aveva escluso che il dolo o la colpa potessero integrare presupposti sostanziali ai fini dell'accoglimento della domanda, dovendo essi piuttosto qualificarsi come elementi dai quali potere eventualmente risultare la gravità della condotta. Avevamo quindi affermato che se il vaglio funzionale all'accertamento della responsabilità è di natura prioritariamente obiettiva, la normativa interna non avrebbe potuto trovare applicazione laddove richiede necessariamente il coefficiente soggettivo quale elemento costitutivo della responsabilità.
Si era tuttavia segnalato come l'apparente diversità di disciplina fra ordinamento interno e comunitario avrebbe potuto trovare composizione attraverso un'interpretazione conforme del precetto interno ai principi sovranazionali, rilevando la sostanziale omogeneità del concetto di negligenza inescusabile richiamata nell'art. 2 n. 3 della legge n. 117/1988, in cui si sostanzia la colpa, con quello della violazione manifesta del diritto comunitario.
Assai più delicata era la questione relativa all'esclusione della responsabilità per l'interpretazione di norme di diritto.
Segnalammo, allora, come il caso Kobler aveva inteso stigmatizzare tra le condotte più gravi e perniciose dell'organo supremo della giurisdizione interna per l'attuazione del diritto comunitario quella della mancata applicazione del diritto soggettivo (inteso in modo ampio quale posizione giuridica tutelata) garantita a livello comunitario e/o della mancata disapplicazione dell'ordinamento interno ritenuto - a torto - compatibile con l'ordinamento sovranazionale. Seguendo quella prospettiva ci sembrò che laddove la violazione anzidetta fosse stata frutto di una non corretta interpretazione della norma comunitaria e/o della giurisprudenza della Corte di giustizia, questa non potesse ex se sottrarsi ad un giudizio di dannosità e dunque all'affermazione della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, nella ricorrenza degli altri presupposti. Combinando le regole della responsabilità scolpite dalla Corte di giustizia con il sistema di diritto interno, la disposizione (art. 2 l. n. 117/1988) che contempla il principio dell'irresponsabilità per erronea interpretazione di norme di diritto doveva, allora, essere interpretato in modo conforme ai principi fondamentali del diritto comunitario - e fra questi vi sarebbe stato appunto quello di evitare ingiuste limitazioni alle azioni fondate sull'inosservanza del diritto comunitario. Ciò voleva significare che la norma interna sull'esenzione in tema di attività interpretativa non avrebbe potuto elidere l'istanza di tutela delle posizioni soggettive garantite dal diritto comunitario.
Tale conclusione, d'altra parte, non poteva ingenerare dubbi circa possibili effetti discriminatori, apparendo la soluzione prospettata obbligata in ragione del carattere sovraordinato che sempre più prepotentemente caratterizza i rapporti fra sistema interno e diritto comunitario.
Dopo la storica sentenza del settembre 2003 autorevole dottrina [3] non ha mancato di stigmatizzare le conclusioni espresse dalla Corte di giustizia, in particolare osservando che il superamento, di fatto, del principio della cosa giudicata "non solo incide sull'indipendenza del giudice, ma anche sulla sua autorevolezza, minata alla base dalla valutazione critica della Corte." Ed ancora si è aggiunto che "se si consente all'interessato di rivolgersi al giudice ordinario per poter affermare la responsabilità dello Stato per atti giudiziari compiuti dalla corte superiore.... implicitamente si consente al giudice di grado inferiore di avallare la premessa, cioè "l'errore" compiuto dal giudice superiore, conseguenza che scardina il sistema giurisdizionale interno".
Né si è mancato di bollare come risibile la seconda premessa del ragionamento della Corte, tesa a differenziare la posizione del giudice - che non può essere evocato in giudizio per rispondere in via diretta dell'errore - da quella dello Stato nella quale lo stesso è incardinato, essa comunque muovendo dal presupposto che il giudice abbia compiuto un illecito di cui lo Stato deve rispondere. E non meno risibile sarebbe poi risultata la giustificazione offerta dal giudice di Lussemburgo circa il fatto che tale responsabilità, piuttosto che offuscare l'immagine del corpo giudiziario interno l'avrebbe rinvigorita, posto che "il timore di poter cagionare la responsabilità dello Stato per errata interpretazione e applicazione del diritto avrebbe finito col minare la libertà di valutazione del giudice e minerebbe la sua autorevolezza". Tale critica si chiudeva con un dilemma: tra due forme estreme di garantismo - quella volta a preservare comunque i diritti di matrice comunitaria e quella intesa a salvaguardare l'ordine giuridico attraverso l'indipendenza del giudice quale preferire?
Interrogativo al quale l'Autore non forniva diretta risposta ma sembrava, comunque, orientato a prediligere la seconda ipotesi prospettata.
Peraltro tale atteggiamento critico sembra serpeggiare anche oltre confine, soprattutto dove il rapporto fra ordinamento comunitario e sistema interno è più rigidamente improntato al rispetto di quell'impostazione monista che la stessa Corte di giustizia ha inteso affermare.In questa prospettiva, infatti, potrebbe apparire complicato conciliare il principio dell'autorità di cosa giudicata interna con il riconoscimento di un'azione risarcitoria rivolta a sanzionare gli esiti del giudicato medesimo.
Dopo il caso Kobler fu subito chiaro che quello della Corte di giustizia era stato un primo e delicato passo rispetto ad una tematica di forte impatto emotivo, al quale sarebbero seguite altre pagine destinate a focalizzare con maggiore precisione le ipotesi di responsabilità statuale per violazione ascrivibile alle Corti supreme.
Nell'ordinamento interno, del resto, non è mancata qualche pronunzia che ha disapplicato la legislazione interna (l. n. 117/1988) ritenendo ammissibile l'azione risarcitoria nei confronti dello Stato per la violazione di principi comunitari operata dai giudici amministrativi nell'ambito di una vicenda concernente l'esonero dal servizio di leva [4]. Ed è particolarmente significativo che quest'orientamento è stato espresso proprio dal Tribunale di Roma che, come si è visto, prima della sentenza Kobler, si era fatto antesignano di ben altro indirizzo ermeneutico.
E’ dunque questo il contesto in cui matura la sentenza in commento. La questione pregiudiziale ha preso le mosse da un'azione promossa da una società marittima innanzi al Tribunale di Genova nei confronti dello Stato italiano per avere ingiustamente ritenuto la legittimità degli aiuti di stato concessi ad altra società marittima concorrente che operava i collegamenti fra l'Italia continentale ed alcune isole.
Nel giudizio a quo la parte attrice ha sostenuto l'erroneità della sentenza della Cassazione - Cass. n. 5087/2000 [5] - che aveva definitivamente respinto la domanda risarcitoria promossa contro la società beneficiaria degli aiuti per i danni provocati dalla politica dei prezzi bassi mantenuta dalla convenuta grazie ai finanziamenti di Stato.
In quella circostanza la Corte suprema aveva escluso non solo la violazione degli artt. 90 e 92 del Trattato CE in tema di aiuti, ma anche quella degli artt.85 e 86 del Trattato relativi alla disciplina sulla concorrenza.
Quanto alla prima ipotesi, era stato ritenuto che gli artt.90 e 91 permettono di derogare, a certe condizioni, al divieto generale degli aiuti di Stato al fine di favorire lo sviluppo economico di regioni svantaggiate o di soddisfare domande di beni e servizi che il gioco della libera concorrenza non permette di soddisfare pienamente. Condizioni che ricorrevano nel caso concreto in quanto, nel corso del periodo contestato, i trasporti di massa tra l'Italia continentale e le sue isole maggiori potevano essere assicurati, attesi i loro costi, solo per via marittima, cosicché sarebbe stato necessario soddisfare la domanda, sempre più pressante, per tale tipo di servizi affidando la gestione ad un concessionario pubblico che praticava una tariffa imposta. Né poteva ipotizzarsi, secondo il giudice di legittimità, una distorsione della concorrenza, posto che l'attribuzione di una concessione di servizio pubblico avrebbe pur sempre comportato, implicitamente, un effetto distorsivo della concorrenza, mentre la Traghetti del Mediterraneo non era riuscita a dimostrare che la Tirrenia avesse tratto vantaggio dall'aiuto accordato dallo Stato per realizzare utili connessi ad attività diverse da quelle per cui le sovvenzioni erano state effettivamente concesse. Anche il motivo relativo alla violazione degli artt. 85 e 86 del Trattato era stato respinto dalla Corte Suprema, in quanto all'epoca dei fatti della controversia, l'attività di cabotaggio marittimo non era ancora stata liberalizzata e la natura ed il contesto territoriale limitati di tale attività non avrebbero consentito di individuare chiaramente il mercato rilevante ai sensi dell'art. 86 del Trattato. Se poi risultava difficile identificare detto mercato, una concorrenza reale avrebbe potuto nondimeno esercitarsi nel settore interessato, in quanto l'aiuto concesso riguardava solamente una delle attività tra quelle, numerose, tradizionalmente svolte da un'impresa di trasporto marittimo e che era per di più limitata ad un solo Stato membro.
Orbene, secondo la prospettiva della società marittima attrice Cass. n. 5087/2000, ritenendo che gli aiuti perseguivano l'obiettivo di favorire lo sviluppo regionale, aveva ritenuto la piena conformità degli aiuti concessi ad una società concessionaria pubblica che praticava tariffe imposte per i servizi erogati e negato l'esistenza di un abuso di posizione dominante, fondandosi su un'errata interpretazione delle norme del Trattato in materia di concorrenza e di aiuti di stato e rifiutando, poi, di sollevare una questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia sul falso presupposto che esisteva in materia una giurisprudenza costante. Se fosse stato sperimentato tale rinvio, la Corte di giustizia, verosimilmente, avrebbe fornito un'interpretazione favorevole a quella sostenuta nel giudizio risarcitorio dalla parte attrice, avendo la Commissione emanato una decisione che confortava quanto asserito da detta società in quel procedimento. La parte attrice aveva in particolare richiamato la decisione della Commissione delle Comunità europee 21 giugno 2001, 2001/851/CE, relativa agli aiuti di Stato corrisposti dall'Italia alla compagnia marittima Tirrenia [6]; decisione quest'ultima che, pur riguardando sovvenzioni concesse successivamente al periodo controverso nella causa principale, era stata adottata al termine di un procedimento avviato dalla Commissione prima dell'udienza dibattimentale della Corte di cassazione nella causa conclusasi con la sentenza n. 5087/2000. Sicché era ragionevole ritenere che se la Cassazione si fosse rivolta alla Corte di Giustizia, questa avrebbe rilevato la dimensione comunitaria delle attività di cabotaggio marittimo così come le difficoltà inerenti alla valutazione della compatibilità di sovvenzioni pubbliche con le norme del Trattato in materia di aiuti di Stato; il che avrebbe portato la Corte di cassazione a dichiarare illegittimi gli aiuti concessi alla Tirrenia.
Il nucleo della questione preliminare è dunque quello della compatibilità della legge n. 117 del 1988 - che disciplina le ipotesi di responsabilità dello Stato per gli atti compiuti dall'autorità giudiziaria - con i principi espressi dalla Corte di giustizia in tema di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario. Il giudice rimettente, infatti, informato della sopravvenuta definizione del procedimento Kobler, ha ribadito le ragioni del rinvio pregiudiziale, chiedendo alla Corte di pronunziarsi, "anche alla luce dei principi affermati (...) nella sentenza Kobler", sulla questione se "osti all'affermazione della responsabilità dello stato per violazioni imputabili a un organo giurisdizionale nazionale una normativa nazionale in tema di responsabilità dello stato per errori del giudice che, come quella italiana, esclude la responsabilità in relazione all'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell'ambito dell'attività giudiziaria e limita la responsabilità dello stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice".
Va rammentato, in limine, che nell'esaminare la vicenda Traghetti del Mediterraneo, l'Avvocato generale Lèger si è attestato sull'interpretazione dalla normativa interna offerta dal giudice genovese, a tenore della quale la responsabilità dello Stato derivante dall'attività giurisdizionale è esclusa quando il comportamento addebitato ad un organo giurisdizionale è connesso ad un'operazione di interpretazione delle norme di diritto, anche laddove tale operazione abbia condotto a commettere una violazione grave della legge risultante da una negligenza inescusabile. E ciò ha fatto ritenendo che l'opera interpretativa della norma interna spetta unicamente ai giudici nazionali e non alla Corte di giustizia [7].
Epperò va fin d'ora evidenziata la posizione assunta dal Governo italiano nel corso del procedimento pregiudiziale, allorché sostenne che, in realtà, una corretta esegesi dei commi 2 n. 2 e 3 lett. a) dell'art. 2 l. n. 117/1988 [8] avrebbe condotto ad affermare principi diversi da quelli divisati dal giudice rimettente, tanto da minare la rilevanza e ricevibilità della questione pregiudiziale. In buona sostanza il Governo italiano affermò che il principio derogatorio - di irresponsabilità - contenuto nel comma 2 n .2 dell'art. 2 con specifico riguardo all'attività di interpretazione del diritto non poteva valere laddove il giudice, nella sua attività interpretativa, avesse dato luogo ad una violazione di legge determinata da negligenza inescusabile - art. 2 n. 3-.
In tale ipotesi, infatti, avrebbe dovuto riespandersi il principio generale della responsabilità dello Stato contemplato dall'art. 2 n. 1. Ma sul punto si tornerà nel prosieguo.
Ciò posto, occorre passare in rassegna le posizioni espresse, nel corso del procedimento, dalle parti.
La Traghetti del Mediterraneo e la Commissione si erano schierate per l'incompatibilità del sistema interno con quello della responsabilità del giudice sancita dalla sentenza Kobler.
Secondo questa prospettiva, la valutazione dei fatti e delle prove nonché l'interpretazione delle norme di diritto erano inerenti all'attività giurisdizionale e l'esclusione, in tali casi, della responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito dell'esercizio di tale attività equivaleva ad un'inammissibile esonero dello Stato da ogni responsabilità per violazioni del diritto comunitario imputabili al potere giudiziario. Anche le limitazione di detta responsabilità ai soli casi del dolo o della colpa grave del giudice era di natura tale da condurre ad un'esenzione di fatto da ogni responsabilità dello Stato, poiché, da un lato, la nozione stessa di "colpa grave" non era lasciata alla libera valutazione del giudice chiamato a statuire su un'eventuale domanda di risarcimento dei danni causati da una decisione giurisdizionale, ma appariva rigorosamente delimitata dal legislatore nazionale attraverso l'enumerazione preliminare e tassativa delle ipotesi di colpa grave.
Sull'opposto versante il Governo italiano, sostenuto dall'Irlanda e dal governo del Regno Unito, sostenne che la normativa interna era perfettamente conforme ai principi del diritto comunitario, realizzando un giusto equilibrio tra la necessità di preservare l'indipendenza del potere giudiziario e gli imperativi della certezza del diritto, da un lato, e la concessione di una tutela giurisdizionale effettiva ai singoli nei casi più evidenti di violazioni del diritto comunitario imputabili al potere giudiziario.
In tale ottica, la responsabilità degli Stati membri doveva dunque essere limitata ai soli casi in cui si potesse identificare una violazione sufficientemente grave del diritto comunitario. Tuttavia, essa non poteva sussistere qualora un organo giurisdizionale nazionale avesse deciso una controversia sulla base di un'interpretazione degli articoli del Trattato espressa nella motivazione fornita da tale organo giurisdizionale.
Confermando le coordinate fissate nel caso Kobler, l'Avvocato generale ha ribadito che i principi dell'autorità di cosa giudicata e dell'indipendenza dei giudici, anche se rivestono una valenza costituzionale - come accade nell'ordinamento nazionale (cfr. Corte cost. n. 18/1989) - non possono giustificare l'esclusione della responsabilità di uno Stato nell'ipotesi in cui la violazione del diritto comunitario ad opera di un organo giurisdizionale supremo sia connessa all'interpretazione di norme di diritto.
Ammettere il contrario "equivarrebbe a privare di sostanza o di effetto utile il principio della responsabilità dello Stato per fatto degli organi giurisdizionali supremi" - sancito dalla sentenza Kobler - ed a comprometterne seriamente la portata. Anzi, proprio i compiti di nomofilachia riservati alle Corti supreme in tema di interpretazione del diritto indirizzavano verso l'affermazione della responsabilità dello Stato anche in tali ipotesi, ricoprendo la funzione interpretativa un ruolo essenziale nell'attività giurisdizionale. Tali conclusioni, del resto, si coniugavano all'obbligatorietà del rinvio pregiudiziale che l'art. 234 Tr.CE impone proprio e solo alle Corti supreme.
E' a questo punto che l'Avvocato generale si prende carico di esemplificare talune forme di responsabilità che possono derivare dall'attività interpretativa delle Corti supreme, ove questa abbia dato luogo ad una violazione manifesta del diritto comunitario, in una sorta di vademecum particolarmente interessante.
Viene anzitutto ipotizzato il caso dell'interpretazione del diritto nazionale in modo "non conforme al diritto comunitario applicabile, contrariamente all'obbligo di interpretazione conforme che incombe, secondo una giurisprudenza costante, su tutti gli organi giurisdizionali nazionali". Ed il richiamo, ovvio e quasi scontato, è al caso Pfeiffer esaminato dalla Corte di giustizia nel settembre 2003 [9].
Non meno significativo risulta il richiamo operato al caso Commissione c. Italia del 9 dicembre 2003, ove si era ritenuta la responsabilità dello Stato italiano perché i giudici supremi avevano dato luogo ad un'interpretazione della norma interna che regolamentava il diritto di rimborso di crediti tributari tale da far gravare sul contribuente l'onere di provare che i tributi erano stati trasferiti su altri soggetti, in palese dissonanza con la giurisprudenza della Corte di giustizia [10]. In quel caso, l'avere interpretato la norma interna in modo da rendere particolarmente gravoso il diritto di ripetere somme indebitamente versate a titolo di imposta sui consumi aveva concretato la violazione del diritto comunitario ascrivibile non al legislatore nazionale - la cui disciplina poteva dirsi neutra rispetto al contrasto con il diritto sopranazionale - ma direttamente alla Cassazione.
L'ulteriore ipotesi di responsabilità evocata dall'Avv. Leger è quella, classica, in cui il giudice supremo applica la normativa nazionale ritenendola conforme al diritto comunitario "pur se avrebbe dovuto disapplicarla in forza della preminenza del diritto comunitario rispetto al diritto nazionale, in ragione della sua irriducibile contrarietà con il diritto comunitario(escludente qualsiasi possibilità di interpretazione conforme). Qui la violazione viene individuata in ragione dell'attività interpretativa operata per "conciliare l'inconciliabile" e cioè per avere interpretato in modo apparentemente conforme il diritto nazionale a quello comunitario senza invece giungere alla sua disapplicazione - o non applicazione che dir si voglia - stante la sua irriducibile contrarietà al diritto comunitario.
E' questa, probabilmente, l'ipotesi più problematica, poiché si ipotizza, in buona sostanza, che l'attività di (apparente) interpretazione conforme compiuta dal giudicante nazionale abbia contravvenuto al diritto comunitario, in modo tale da pregiudicare la posizione giuridica soggettiva presa invece in considerazione e tutelata in quell'ordinamento.
Quando, dunque, il processo ermeneutico utilizza in maniera distorta il canone dell'interpretazione conforme, operando - nell'apparente rispetto delle regole fissate dalla giurisprudenza di Lussemburgo - un'interpretazione della norma interna distonica rispetto al diritto comunitario, verrebbe comunque in gioco la responsabilità dello Stato per lesione della posizione giuridica del soggetto destinatario della tutela sovranazionale. Ciò vuol dire che il giudice, di fronte all'alternativa fra l'applicazione della norma interna in modo non conforme al diritto comunitario e la disapplicazione della stessa, dovrà sempre e comunque optare per tale ultima possibilità.
A tali esemplificazioni, alle quali è aggiunta quella dell'errata interpretazione di una norma di diritto comunitario applicabile alla fattispecie, l'Avvocato Leger ha poi accostato quella del mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Tale inadempimento, infatti, rischia di condurre il giudice a commettere un errore che rientra in una delle ipotesi sopra ricordate.
Anzi, viene ricordato che tale inosservanza era stata indicata nel caso Kobler come uno degli elementi da prendere in considerazione per valutare se la violazione del diritto comunitario sia avvenuta in modo manifesto - gli altri erano quelli del grado di chiarezza e precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto, della posizione eventualmente adottata da un'istituzione comunitaria - e che la stessa assume un'importanza particolare.
Infatti, per valutare la scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto è estremamente importante valutare l'atteggiamento del giudice supremo rispetto all'obbligo del rinvio.
Secondo l'Avvocato Leger l'errore di diritto, tanto nel caso in cui la norma di diritto violata sia poco chiara e precisa, quanto nella diversa evenienza in cui la stessa appaia chiara e precisa, non può ritenersi scusabile.
Nel primo caso, l'assenza di elementi chiari in ordine alla portata del precetto ovvero l'assenza di giurisprudenza comunitaria sul punto dovrebbe comunque sollecitare il rinvio pregiudiziale.
Nel diverso caso della norma chiara, l'errore si colorerebbe di più evidenti profili di non scusabilità, posto che se il giudicante avesse ritenuto di non dovere applicare il precetto chiaro in ragione del suo contrasto con altri principi, il rinvio pregiudiziale sarebbe apparso vieppiù obbligato, soprattutto nel caso in cui la decisione del giudicante fosse rivolta a non conformarsi alla giurisprudenza comunitaria.
E' a questo punto che l'Avvocato Lèger individua un ulteriore profilo di contrasto tra la legge n. 117/1998 ed i principi in tema di responsabilità dello Stato, laddove la disposizione interna esclude la responsabilità per l'attività interpretativa quando l'inosservanza dell'obbligo del rinvio è frutto di una non corretta interpretazione del diritto comunitario o della giurisprudenza della Corte di giustizia. Tanto che "il solo inadempimento dell'obbligo del rinvio pregiudiziale" sarebbe in grado di ingenerare la responsabilità dello Stato, pur ponendosi in tale evenienza problemi evidenti in ordine alla prova del nesso di causalità tra l'inadempimento dell'obbligo di rinvio e l'asserito danno.
L'Avvocato Lèger è quindi passato ad esaminare la norma che esclude la responsabilità dello Stato in caso di violazione del diritto comunitario connessa alla valutazione dei fatti e delle prove, giungendo ad analogo giudizio di incompatibilità.
Anche in tali casi si può profilare, secondo l'Avvocato Lèger, un errore di diritto capace di generare la responsabilità dello Stato, essendo l'attività interpretativa sottesa a quella valutativa.
Lèger ha buon gioco, allora, nel rilevare che con riguardo al tema degli aiuti di stato di cui si discuteva nel giudizio a quo veniva in rilievo l'attività qualificatoria riservata al giudice supremo che ha l'obbligo di valutare se il provvedimento controverso costituisce un aiuto, se esso rientra fra quelli vietati ex art. 92 n. 1 Tr.CE e se, in caso di accertato divieto dell'aiuto, lo stesso è sottoposto alla procedura di controllo prevista dall'art. 93 n. 3 Tr.CE.
E' allora possibile che anche in tale verifica dell'errore di diritto riservata al giudice supremo questi commetta, a sua volta, un errore di qualificazione rilevante ai fini della responsabilità dello Stato.
Esaurito l'esame della normativa interna relativa all'attività interpertativa, l'Avvocato Generale è passato a considerare l'ipotesi della limitazione di responsabilità ai casi di dolo grave pure prevista dall'art. 2 n. 1 della legge n. 117/1988. Tale analisi è partita dall'esame della sentenza Kobler ove, in parte discostandosi dai principi precedentemente espressi dalla Corte di giustizia sulla responsabilità dello Stato derivante da organi giurisdizionali, si era insistito sul fatto che la responsabilità per atto giurisdizionale sorge solo nel caso eccezionale in cui quest'ultimo ha violato in maniera manifesta il diritto vigente.
L'Avvocato Lèger ha ritenuto di individuare una particolarità nelle ipotesi di responsabilità per l'attività giudiziaria di ultima istanza rispetto alle altre ipotesi di responsabilità derivanti da organi non giurisdizionali, avendo la sentenza Kobler insistito sul fatto che tale responsabilità sorge solo nel "caso eccezionale in cui quest'ultimo ha violato in maniera manifesta il diritto vigente".
Al di la dei problemi connessi al fatto che tale espressione si differenzierebbe da quella utilizzata in altre occasioni dalla Corte ove si era parlato di violazione manifesta e grave, Lèger prende atto che l'introduzione di un coefficiente psicologico in aggiunta ai requisiti fissati dalla Corte di giustizia per l'insorgenza della responsabilità dello Stato "equivarrebbe a rimettere in discussione il diritto al risarcimento che trova il fondamento nell'ordinamento giuridico comunitario".
Se è infatti possibile che i singoli ordinamenti possano prevedere condizioni più favorevoli rispetto a quelle fissate come parametro limite dalla Corte di giustizia in tema di responsabilità, non è ammissibile il contrario - id est l'adozione di misure più onerose per affermare la responsabilità dello Stato-.
Epperò, tale postulato non conduce l'Avv.Lèger a riconoscere l'automatica contrarietà del criterio soggettivo previsto nell'ordinamento italiano col diritto comunitario.
Infatti, alcuni degli elementi per definire tali categorie appaiono rilevanti per valutare se un organo giurisdizionale supremo abbia violato in modo manifesto il diritto applicabile.Viene allora chiarito che la condizione ulteriore attinente alla nozione di dolo o colpa grave non è conforme al diritto comunitario ma solo se "va oltre la violazione manifesta del diritto applicabile".
Il che sembra, davvero, coincidere con quanto avevamo ipotizzato nel commentare la sentenza Kobler, considerando che il carattere soggettivo della violazione poteva essere ammesso nei soli limiti in cui lo stesso integrasse una violazione manifesta, così caldeggiando l'idea di una sostanziale omogeneità del concetto di negligenza inescusabile richiamata nell'art. 2 n. 3 della legge 117/1988, in cui si sostanzia la colpa grave, con quello della violazione manifesta del diritto comunitario.
Laddove dunque si interpretasse il diritto interno in tema di responsabilità dello Stato nascente dall'attività dei giudici supremi nel senso di richiedere ulteriori coefficienti psicologici - in aggiunta ai presupposti che integrano la negligenza inescusabile - tale interpretazione finirebbe con l'entrare in rotta di collisione con il diritto comunitario, dando così luogo ad un'ulteriore violazione idonea a generare una nuova ipotesi di responsabilità dello Stato nel caso in cui il giudice nazionale chiamato a vagliare la sussistenza della responsabilità dello Stato correlata all'attività delle corti supreme, non si dovesse attenere al canone interpretativo espresso dalla Corte di giustizia.
La sentenza in esame, proseguendo il cammino intrapreso con la sentenza Kobler, ha focalizzato ancor di più le coordinate del ragionamento sul quale poggia l'affermazione di principio della responsabilità per attività giurisdizionale.
Va tuttavia evidenziato un vuoto nella decisione del giudice comunitario, laddove - diversamente dalle conclusioni espresse dall'Avvocato generale - si è omesso di prendere posizione sul significato da attribuire alla legislazione interna ed in particolare sui rapporti tra le lett. 1, 2 e 3 dell'art. 2 comma 2 l. n. 117/1988.
Ma non può farsi a meno di rilevare che tale scelta del giudice di Lussemburgo, seppure ineccepibile - come è noto quel giudice interpreta il dato comunitario e non quello nazionale - sembra avere preso atto dell'interpretazione prescelta dalla giurisprudenza di legittimità che si è più volte espressa in termini particolarmente ampi in ordine alla clausola di salvaguardia introdotta a proposito dell'attività interpretativa.
Ed invero, Cass. 5 dicembre 2002, n. 17259, in modo più dettagliato, ha ricordato che l'art. 2 della legge n. 117 del 1988, nello stabilire i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, esclude che possa dare luogo a responsabilità l'attività d'interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prove (secondo comma), e poi comprende in detta colpa, fra l'altro, la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile (terzo comma, lett. a), senza eccezioni per le norme processuali, e dunque includendo quelle che fanno carico al giudice d'esaminare i temi in discussione influenti per la decisione e di dare contezza delle ragioni della decisione stessa. Dal coordinamento delle riportate disposizioni si è quindi tratta la conclusione che il momento della funzione giurisdizionale riguardante l'individuazione del contenuto di una determinata norma e l'accertamento del fatto, con i corollari dell'applicabilità o meno dell'una all'altro, non può essere fonte di responsabilità, nemmeno sotto il profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell'assenza di un'esplicita e convincente confutazione di opposte tesi. Ciò perché l'affermazione della responsabilità dovrebbe passare attraverso una non consentita revisione di un giudizio interpretativo, o valutativo.
In questa prospettiva la Grande Sezione ha superato - implicitamente - le difese espresse dal Governo italiano per arginare il pericolo di una soluzione di merito da parte del giudice di Lussemburgo, scegliendo una strada diversa da quella tracciata dall'Avvocato generale che si è già esaminata.
Orbene, il giudice di Lussemburgo ha ancora una volta individuato nel ruolo essenziale svolto dal giudice nazionale chiamato ad applicare - direttamente o in via mediata - il diritto comunitario uno dei tasselli fondamentali per la costruzione del sistema di responsabilità civile dello Stato per l'attività giurisdizionale(di ultima istanza).
Se, infatti, il potere giudiziario rappresenta l'avamposto finale nella tutela dei diritti che derivano ai singoli dalle norme comunitarie e se l'organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce l'ultima istanza dinanzi alla quale essi possono far valere i diritti che il sistema comunitario conferisce loro, la mancata previsione di una responsabilità dello Stato per l'operato giurisdizionale indebolirebbe la piena efficacia delle norme comunitarie che conferiscono simili diritti.
La specificità della funzione giurisdizionale e le legittime esigenze della certezza del diritto, proseguono i giudici della Corte, impongono di ritenere che tale responsabilità può sussistere solo nel caso eccezionale in cui l'organo giurisdizionale che ha statuito in ultimo grado abbia violato in modo manifesto il diritto vigente; ciò che si verificherà in rapporto al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto, alla posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria nonché alla mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
Ecco che rispetto al quesito pregiudiziale sollevato dal giudice genovese, la Corte non ha difficoltà a sostenere che quelle stesse esigenze di effettività della protezione giurisdizionale dei diritti non sono compatibili con una disciplina normativa che esclude la responsabilità dello Stato per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall'interpretazione delle norme di diritto dal medesimo effettuata.
Infatti, l'interpretazione delle norme di diritto rientra nell'essenza vera e propria dell'attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti - nazionali e/o comunitarie - al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta.
Dall'altro lato, non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa nell'esercizio di tale attività interpretativa. Ciò che si verifica tutte le volte in cui il giudice: a) dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia; b) interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.
E' il punto 36 della decisione a chiarire come nelle ipotesi di erronea attività interpretativa escludere ogni responsabilità dello Stato "equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio sancito dalla Corte nella citata sentenza Kobler."
Affermazione, quest'ultima che sembrerebbe, a prima lettura, estendere i principi in tema di responsabilità anche alle giurisdizioni inferiori, se si considera che è la stessa Corte a precisare che tali considerazioni valgono, "a maggior ragione, per gli organi giurisdizionali di ultimo grado, incaricati di assicurare a livello nazionale l'interpretazione uniforme delle norme giuridiche." Ma tale linea interpretativa potrebbe al più responsabilizzare nel suo complesso il corpo giudiziario dei singoli Paesi rispetto al tema della corretta applicazione del diritto comunitario [11]. Senza dire che essa sembra smentita dal punto 24 della motivazione, ove la Grande Sezione sembra avere riformulato il quesito pregiudiziale in modo da limitarne l'ambito all'attività delle giurisdizioni di ultima istanza.
La Corte è quindi passata ad esaminare la legislazione italiana, nella parte in cui esclude, in maniera generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove.
La Corte, conformandosi alle conclusioni dell'Avvocato generale, coglie uno stretto nesso di collegamento fra valutazione di fatti e prove ed attività interpretativa delle norme giuridiche, poiché l'applicazione di una norma dipende generalmente dalla valutazione sui fatti del caso concreto così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti a tal fine dalle parti in causa.
Ed è anche tale attività valutativa - a volte assai complessa - che, secondo la Grande Sezione, può condurre ad una manifesta violazione del diritto vigente, vuoi nell'ambito dell'applicazione di specifiche norme relative all'onere della prova, vuoi in ordine al valore di tali prove o all'ammissibilità dei mezzi di prova, vuoi,infine, nell'ambito dell'applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti.
Diversamente opinando si finirebbe col privare di effetto utile il principio sancito nella sentenza Kobler.
Ciò che appare intollerabile alla Corte soprattutto nella materia degli aiuti di Stato, ove il riconoscimento delle posizioni giuridiche riconosciute dal Trattato dipende in larga misura da successive operazioni di qualificazione giuridica dei fatti. Sicché, prosegue la Corte, nell'ipotesi in cui la responsabilità dello Stato fosse esclusa in maniera assoluta, a seguito delle valutazioni operate su determinati fatti da un organo giurisdizionale, i singoli non beneficerebbero di alcuna protezione giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado commettesse un errore manifesto nel controllo delle operazioni di qualificazione giuridica dei fatti.
Passando alle limitazioni della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o di colpa grave del giudice, previste dalla l. n. 117/1988, la Grande Sezione non ha fatto altro che ricordare i principi scolpiti dalla Kobler nella parte in cui era stata individuata, quale metro per l'insorgenza della responsabilità dello Stato, la necessità di una violazione manifesta del diritto vigente, da valutare in relazione al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o alla mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE. A questi casi si aggiunge, poi, quello più macroscopico in cui la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia [12] . Ma l'introduzione, in aggiunta ai parametri sopra individuati, di ulteriori limitazioni alla responsabilità non può dirsi in linea con il diritto comunitario, essendo i singoli Stati abilitati a precisare i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione ma non ad imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente, quale precisata dalla sentenza Kobler.
In tal senso la Corte ha così finito per condividere la posizione dell'Avvocato generale sulla contrarietà della legge interna ai principi comunitari.
Già prima della sentenza Traghetti del Mediterraneo si è sviluppato in Italia un movimento di pensiero favorevole a circoscrivere in maniera significativa gli ambiti dell'esercizio della funzione giurisdizionale, intravedendo in alcuni eccessi talvolta emersi il pericolo che l'attività del giudice potesse oltrepassare i limiti che la contraddistinguono.
A ben considerare, tali esigenze sembrano, all'apparenza, in sintonia con la pronunzia della Corte di giustizia, laddove ammettono che anche l'attività interpretativa del giudice non può essere libera né esonerare chi la pone in essere da responsabilità.
In questa prospettiva, si è pensato di circoscrivere l'ambito del sindacato interpretativo del giudice ed il legislatore nazionale ha così deciso di procedere ad una radicale modifica dell'ordinamento giudiziario realizzata, per quel che qui interessa, attraverso la tipizzazione degli illeciti disciplinari.
Nel fissare i criteri di ordine generale si è previsto che dovesse integrare l'illecito "...3) la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile", poi aggiungendo che "... fermo quanto previsto dai numeri 3), 7) e 9), non può dar luogo a responsabilità disciplinare l'attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all'articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale" - art. 2 comma 6 l. 150/2005-.
La disposizione appena ricordata [13] è stata trasfusa senza rilevanti modifiche nel decreto legislativo di attuazione - art. 2 comma 2 d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 -.
Orbene, secondo l'interpretazione offerta a caldo di tali previsioni dovrebbe ritenersi che incorre in sanzione disciplinare il giudice che, nell'interpretare il diritto, non si attiene ai canoni di cui all'art. 12 disp.att. c.c., a tenore del quale "nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato" [14].
Si tratta di una previsione normativa antistorica che pretende di attribuire, all'interno del percorso interpretativo del giudice, un ruolo primario all'interpretazione letterale della norma, perdendo di vista i consolidati risultati raggiunti dalla giurisprudenza costituzionale in tema di interpretazione costituzionalmente orientata, ma anche i rapporti intercorrenti fra diritto interno e diritto comunitario [15] e fra diritto nazionale e norme promananti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo [16].
Il rimedio disciplinare, secondo la normativa voluta dal legislatore delegante nell'anno 2005 ed attuata nel 2006, non sembra dunque rappresentare una risposta coerente al problema della responsabilità del giudice, esponendolo ingiustamente a profili sanzionatori di responsabilità in ambiti che, per converso, rappresentano l'in se dell'attività giurisdizionale e che, oggi più che mai, marginalizzano l'art. 12 delle preleggi al codice civile.
Esso, d'altra parte, si pone in chiara linea di controtendenza proprio con i principi del diritto comunitario, improntati ad un tasso di effettività della tutela che il quadro disciplinare surricordato finirebbe inevitabilmente per ingessare, imponendo al giudice di fare applicazione della norma sulla base del suo significato letterale, tralasciando di considerare quel diritto vivente, ampiamente avallato dalla Corte costituzionale e dalle giurisdizioni sovranazionali, espressamente rivolto ad implementare le soglie di tutela dei diritti fondamentali anche a scapito di interpretazioni meramente "letterali" della norma giuridica.
Non stupisce, pertanto, che la legge 24 ottobre 2006, n. 26 (G.U. 24 ottobre 2006, n. 248) all'art. 1 comma 3 abbia modificato il decreto legislativo n. 109/2006 il cui comma 2 dell'art. 2 è stato così sostituito: "...Fermo restando quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m, n), o), p), cc), ed ff), l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare".
Ma al di là della auspicata modifica del d.lgs.n. 109/2006 risulta chiara la tendenza a superare il principio che riconduceva - e riduceva - alla sede processuale la valutazione dell'operato del giudice.
Appare, infatti, manifesta, la tendenza a scrutinare il suo operato anche dopo l'esercizio dell'attività giurisdizionale ed a non negare, almeno in linea di principio, che lo ius dicere possa dare luogo a forme di responsabilità - diretta o indiretta - in caso di scorretta interpretazione anche dopo la definizione del processo nel quale si è manifestato l'operato del giudice.
La sentenza Traghetti del Mediterraneo inciderà in modo rilevante sull'impianto della legge n. 117/1988, anche se sono già state sottolineate le difficoltà che il legislatore dovrà affrontare per modificarne le linee portanti [17]. Egià questo conferma il convincimento che proprio la legge del 1988, anche se non espressiva di una responsabilità diretta del giudice, era in grado di limitare pesantemente la responsabilità dello Stato per attività del giudice.
E si è, infatti, già avuto occasione di sottolineare quanto rigida sia stata la lettura della disciplina interna da parte della Corte di cassazione e quanto risulti difficile pervenire ad un giudizio di responsabilità dello Stato per atto del giudice [18].
Si è già visto come l'area di risarcibilità rimanga riservata agli angusti confini della negligenza inescusabile individuati dal giudice di legittimità che finiscono con lo scriminare tout court l'attività interpretativa, oltre la quale non vi è possibilità di una revisione dell'operato del giudice nell'ottica peculiare che l'azione risarcitoria consente.
Anche se la Cassazione non lo afferma espressamente, essa, come si è detto, muove dal convincimento che la sedes materiae dell'interpretazione sia dunque il processo nel quale la norma trova applicazione, non potendosi ipotizzare l'esistenza di un altro luogo, pur esso processuale, nel quale si torni a discutere dell'operato interpretativo del giudice [19].
Tale prospettiva non sembra compatibile con l'ottica prescelta dal giudice di Lussemburgo, non certo interessata a colpire l'organo giurisdizionale interno, quanto a far sì che le conseguenze negative prodotte da un errato comportamento di quell'autorità non rimangano a carico del titolare di un diritto garantito a livello comunitario.
Sono ora le coordinate fissate dal giudice comunitario in tema di rapporti fra diritto comunitario e diritto interno ad evidenziare che i problemi sollevati dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo dovranno immediatamente trovare composizione all'interno del giudizio risarcitorio promosso dal soggetto che lamenta una lesione delle prerogative tutelate a livello comunitario ascrivibile alla giurisdizione nazionale di ultima istanza anche se si è formato un giudicato irrevocabile nell'ordinamento interno ad opera della giurisdizione di ultimo grado.
La sentenza in rassegna supera, forse definitivamente, il convincimento che "il processo" nel quale si discute della situazione giuridica soggettiva fatta valere dal suo titolare sia il luogo elettivo, esclusivo e definitivo nel quale acclarare la fondatezza della pretesa. Essa, tuttavia, continua a riservare ai singoli Stati il potere di disciplinare il processo teso all'accertamento della responsabilità, fissando solo i caratteri ineludibili per l'affermazione di responsabilità, ma non le regole di quel processo, affidate esclusivamente allo Stato membro purché questo rispetti i principi di equivalenza ed effettività.
La Corte, infatti, se per un verso sottolinea, ancora una volta, la centralità della funzione giurisdizionale, non manca di considerare che l'errore interpretativo che si risolve in un'ingiustificata lesione del diritto non può essere definitivamente posto a carico del soggetto attivo, dovendo lo Stato farsi carico della condotta di chi ha scorrettamente applicato il diritto, conculcando le prerogative del portatore di quell'interesse, quando, appunto, si accerti: a) che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli; b) che si tratti di violazione grave e manifesta e che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato; c) il danno subito dai soggetti lesi la violazione del diritto-v.p.51 sent. Kobler-.
E se sarà ancora una volta la sede giurisdizionale a dover acclarare siffatta responsabilità, essa prenderà le mosse proprio dall'operato giurisdizionale espresso all'interno del processo per valutare se ricorrono, alla stregua del decalogo fissato dalle sentenze Kobler e Traghetti del Mediterraneo, i presupposti del ristoro per equivalente della pretesa. Il tutto in un'ottica protesa a canoni di effettività della tutela e del primato del diritto comunitario su quello nazionale, attraverso i quali è possibile comprendere non solo il superamento del giudicato interno, ma anche l'attribuibilità della responsabilità allo Stato per un'attività di natura giurisdizionale, essendo pacifico per la giurisprudenza della Corte di giustizia la nozione unitaria di Stato [20].
I principi ora ricordati sono destinati a modificare radicalmente il ruolo del giudice nazionale di ultima istanza che, troppo spesso arroccato sulla teoria dell'atto chiaro, non ha affatto favorito nella giurisdizione la cultura del rispetto dei diritti di matrice comunitaria.
Il riconoscimento di una sorta di responsabilità presunta dello Stato per i casi di mancato rinvio pregiudiziale e di manifesta violazione dei principi espressi dal giudice comunitario è un dato certo ed inoppugnabile dopo la sentenza Traghetti del Mediterraneo ed impone, così, alle Corti supreme un atteggiamento nuovo e difficile.
Occorre infatti prendere coscienza dell'assoluta peculiarità della responsabilità nascente da atto giurisdizionale, proprio perché essa è originata da una condotta dell'organo statuale chiamato a tutelare la posizione del titolare del diritto di matrice comunitaria. La particolarità, pertanto, è data dalla perdita di rilevanza del giudicato creato nell'ordinamento interno in spregio al diritto comunitario.
E allora se si sceglie l'ottica interna si potrà intravedere un apparente indebolimento del canone della certezza del diritto, correlato alla minata invulnerabilità assoluta del giudicato [21], pure evocando lo spettro dell'attentato all'indipendenza ed all'autonomia della magistratura.
Ma il discorso è inevitabilmente più complesso.
Per un verso, infatti, la Corte di giustizia, anche recentemente, ha tenuto a ribadire il valore del giudicato.
Corte di giustizia 16 marzo 2006, causa C-234/04, Kapferer e Schlank & Schick GmbH, in parte superando le aperture espresse da Corte di giustizia 13 gennaio 2004, K³hne & Heitz NV c. Productschap voor Pluimvee en Eieren [22], ha riconosciuto che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne allo scopo di riesaminare ed annullare una decisione giurisdizionale passata in giudicato qualora risulti che questa viola il diritto comunitario [23].
Per altro verso, però la stessa giurisprudenza di Lussemburgo ha da parecchio tempo imposto ai singoli Stati, in forza dell'art. 10 CE, l'obbligo di "adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario" [24], precisando nella stessa occasione che "tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario". Ed infatti, proprio di recente, l'Avvocato Generale Geelhoed, nelle conclusioni presentate in causa C-119/05 Ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato c. LucchiniSiderurgica spa - ove si discute degli effetti di un giudicato reso da un giudice italiano che, in spregio al diritto comunitario, avrebbe riconosciuto la legittimità di un aiuto di Stato, a fronte dell'efficacia giuridica di una precedente decisione della Commissione in cui siffatto aiuto era stato dichiarato incompatibile con il mercato comune - ha affermato, a chiare lettere, che "l'autorità di cosa giudicata di una sentenza che si fonda esclusivamente sull'interpretazione del diritto nazionale, e in cui il rilevante diritto comunitario è manifestamente disapplicato, non può costituire un ostacolo all'esercizio dei poteri conferiti alla Commissione dalle disposizioni rilevanti del diritto comunitario." [25]
In linea con tale principio si è ritenuto che "il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale" [26].
Secondo la Corte, ad eliminare la situazione antigiuridica prodotta dal mancato rispetto del diritto comunitario non deve necessariamente provvedere il legislatore nazionale - eliminando la norma contrastante con i principi sovranazionali-.
E' il giudice nazionale a divenire il baricentro della tutela delle posizioni giuridiche soggettive. Il punto è che a questo giudice viene richiesta una specifica competenza nel fare corretta applicazione del diritto comunitario e dunque uno specifico obbligo di conoscenza del diritto scritto sovranazionale e, soprattutto, del diritto vivente della Corte di giustizia, dei meccanismi che caratterizzano il suo operato, delle modalità che devono essere prescelte nel fare applicazione del diritto comunitario e nell'interpretare il diritto interno alla luce del diritto sovranazionale, eventualmente sperimentando - quale facoltà per il giudice di merito e quale obbligo per il giudice di ultima istanza - lo strumento del rinvio pregiudiziale.
Chi in questo complesso e nuovo sistema intende individuare un attentato all'autonomia del giudice interno in ragione della riconosciuta responsabilità dello Stato per erronea interpretazione del diritto interno, non coglie il reale messaggio promanante dalla Corte di giustizia per come già si era cercato di decriptare commentando la sentenza Kobler.
La sentenza Traghetti del Mediterraneo conferma la tensione del giudice di Lussemburgo verso la tutela dei diritti di matrice comunitaria e non si pone, a giudizio di chi scrive, in antitesi con le prerogative incomprimibili del giudice. Del resto, anche la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto di condannare uno Stato che ha violato un diritto fondamentale allorché la violazione fosse derivata dal contenuto di una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado [27], in linea, peraltro, col principio dell'unitarietà ed inscindibilità della responsabilità dello Stato per cui non rileva la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo [28].
Ed allora non potrà non cogliersi tra le righe della pronunzia in esame il riconoscimento di un'ulteriore chance di tutela per il titolare di un diritto che non ha ottenuto, per errore interpretativo del giudice, soddisfazione nell'ordinamento interno nel quale è, ancora una volta, la giurisdizione nazionale a dover giocare un ruolo decisivo.
Ancora una volta, la sentenza Traghetti sembra volere operare in prevenzione, intendendo esprimere lo standard di tutela che il giudice nazionale deve essere in grado di fornire al titolare di un diritto di matrice comunitaria.
Il nuovo statuto del giudice nazionale, soprattutto se di ultima istanza, impone al magistrato nazionale di accostarsi al diritto comunitario ed alla normativa interna che su esso incide con un atteggiamento nuovo rivolto, per un verso, a cogliere gli aspetti salienti della legislazione di settore e ad interpretarli in maniera conforme ai principi generali dell'ordinamento comunitario ed a quelli promananti dai regolamenti o direttive che quel legislatore ha introdotto nel medesimo campo.
Per altro verso, in questa delicata attività che potrebbe condurlo, nel caso estremo, alla non applicazione della norma nazionale incompatibile in favore del dato comunitario, egli dovrà dare fondo, soprattutto nell'ambito dei rapporti orizzontali nei quali non è parte lo Stato od i soggetti ad esso equiparati dalla giurisprudenza comunitaria, a quella assai delicata e complessa attività di interpretazione conforme del diritto nazionale a quello comunitario.
Attività, questa, che potrà condurlo a fare applicazione di un diritto interno diverso dalla lettera che può prima facie appare proprio perché conformato al diritto comunitario. Il tutto in un processo assai simile a quello cui il giudice nazionale è tenuto alla stregua dei canoni dell'interpretazione costituzionalmente orientata.
Le difficoltà di un simile operare appaiono evidenti, sol che si consideri che la ricerca ed applicazione dei principi costituzionali è certamente più agevole rispetto a quella dei principi generali del diritto comunitario, non ancora pienamente avvertiti come norme imperative di ordine interno dotate di analoga precettività per il giudice nazionale, soprattutto perché originati dalle basi costituzionali dei paesi membri e dai diritti umani contemplati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1950.
La complessità di tale ruolo si avverte in modo straordinario quando il giudice nazionale è addirittura chiamato ad applicare un principio generale del diritto comunitario ancorché il giudice costituzionale interno abbia fornito una lettura riduttiva dell'analogo diritto primario previsto nella Costituzione nazionale [29].
Ma il punto sul quale occorre ora insistere è quello della doverosità di tale modus operandi a carico del giudice nazionale, di guisa che la colpevole inosservanza di siffatto obbligo non potrà che ridondare negativamente sullo Stato, al quale sarà chiesto di farsi carico del non corretto operato del giudice interno.
Non di attentato all'indipendenza o all'autonomia della magistratura si discute, quanto di piena ed effettiva attuazione del diritto comunitario nell'ordinamento nazionale attraverso l'operato di una giurisdizione preparata ed attenta al nuovo diritto di matrice comunitaria, alla quale il sistema attribuisce un ruolo fondamentale ed unico.
è in questa prospettiva che si deve dunque leggere la responsabilità dello Stato per attività del giudice.
La Corte di giustizia, sempre preoccupata di difendere l'effettività dei diritti di matrice comunitaria ed il principio dell'effetto utile, nel prevedere la possibilità di ottenere una tutela per equivalente successiva alla definizione del processo deputato, in linea generale, ad espandere i diritti del cittadino, ha, con la responsabilità dello Stato per attività del giudice, voluto chiudere il cerchio, ammettendo che quel processo di connessione tra diritto interno e diritto comunitario affidato al giudice possa avere malfunzionato e, per questo, costruendo un sistema di tutela ulteriore [30].
Miope sarebbe pensare che i problemi prodotti dalla sentenza Traghetti del mediterraneo attengono solo alla fase legislativa interna.Essi, piuttosto, chiamano ancora una volta le giurisdizioni a nuove responsabilità.
Di certo, infatti, la sentenza Traghetti costituisce ius cogens per tutti i giudici chiamati a decidere controversie nelle quali si assume l'esistenza di una responsabilità dello Stato per attività delle giurisdizioni di ultima istanza.
E' infatti ius receptum che la risposta della Corte di giustizia alle questioni proposte dai giudici del rinvio è vincolante per tutti i giudici nazionali competenti per le cause principali [31].
D'altra parte, di ciò sembra ben consapevole la stessa Corte costituzionale [32]. Ed è emblematico che, recentemente, Corte cost. n. 62/03 ha espressamente ritenuto che i principi enunciati nelle decisioni della Corte di giustizia, rese nell'ambito del giudizio a seguito di rinvio pregiudiziale disciplinato dall'art. 234 del Trattato, si inseriscono direttamente nell'ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti entro i quali la norma nazionale conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale.
Starà dunque alle giurisdizioni fare saggia e corretta applicazione dei dicta di Lussemburgo in tema di responsabilità dello Stato per equivalente, nella consapevolezza che le soluzioni adottate in questa materia potranno risultare utili se la giurisdizione non alzerà le barricate contro chi si farà promotore di un pieno dispiegarsi dei diritti, anche quando gli stessi dovessero risultare ingiustamente denegati proprio dal giudice che è al centro del sistema di tutela e che può commettere degli errori, soprattutto quando si trova a dover governare una congerie di norme di diversa matrice.
Riconoscere la responsabilità dello Stato per atto della giurisdizione, è un valore che la stessa magistratura deve avere la forza di garantire, rispettare ed applicare nei confronti del cittadino vulnerato nei propri diritti, proprio in nome di quei canoni di autonomia ed indipendenza.
Ora più che mai è giunto il momento di rendere effettivo il principio espresso dalle Sezioni Unite civili, che già nel 1999 - est.Carbone - riconoscevano come "il giudice della nomofilachia deve essere particolarmente attento per accertare, in sede di legittimità, l'esistenza o meno di una violazione dell'ordinamento comunitario che si concretizza in una vera e propria violazione di legge a tutti gli effetti" [33].
E nello stesso contesto va ribadita l'importanza strategica del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; strumento che, usando i termini espressi da un altro precedente della Cassazione del 1999, è stato, "attribuito, con evidenti finalità "nomofilattiche", alla competenza "esclusiva" della Corte di giustizia... al fine della "costruzione" di un vero e proprio "ordinamento giuridico comunitario" [...]Ed è proprio in tale prospettiva che si spiega[no][...] il dovere del giudice nazionale "di ultima istanza", in quanto fattore istituzionale di "diritto comunitario vivente" nell'ordinamento interno, di investire la Corte della questione di interpretazione" [34].
I tempi sono dunque maturi per chiedere al giudice nazionale un nuovo modo di esercitare la giurisdizione.
Il carico di responsabilità nascente dagli influssi del nuovo diritto non può che ulteriormente approfondire il ruolo, l'importanza e l'autorevolezza della giurisdizione, chiamata sempre più spesso a mediare conflitti tra leggi di diversa origine e fonte.
Ciò farà non solo attraverso il ricorso allo strumento della non applicazione del diritto interno contrastante col diritto comunitario ma, soprattutto, attraverso il canone dell'interpretazione. Corte giust.5 ottobre 2004, Pfeiffer [35] ha così ritenuto che nei rapporti orizzontali il giudice che riscontri una violazione del diritto nazionale rispetto ad una direttiva comunitaria particolareggiata non è tenuto a disapplicare la norma interna come avviene nei rapporti verticali, ma deve ineludibilmente interpretare il diritto interno in modo da giungere ad un risultato conforme al diritto comunitario.
Dunque, il giudice nazionale è tenuto a fare tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale, per garantire la piena efficacia di una direttiva non correttamente trasposta anche nei rapporti orizzontali ed eventualmente anche procedendo ad un'interpretazione retroattiva della norma di recepimento che ha tardivamente trasposto una direttiva comunitaria in modo da evitare l'insorgenza della responsabilità dello Stato.
E' fin troppo evidente che la forza dei superiori principi muta radicalmente l'essenza stessa della funzione giurisdizionale e, con essa, del giudice, non più solo bocca della legge, ma sempre di più artefice e protagonista del nuovo diritto o, come pure si è sostenuto, autore di "intelligente e coraggioso lavoro ermeneutico di "ricostruzione normativa" " nel quale comincia pure ad intravedersi il fenomeno della esportazione dei principi generali del diritto comunitario a campi riservati alla competenza esclusiva del legislatore interno [36]. Ciò in un processo di osmosi che, ancora una volta, individua nel giudice il protagonista assoluto
La magistratura si trovi di fronte ad un bivio che potrebbe portare a creare delle divaricazioni pesanti al suo interno, mettendo a nudo un diverso sentire rispetto a tematiche che sembrano comunque destinate a cambiare profondamente il DNA del magistrato.
La ricetta per combattere il rischio di una chiusura della giurisdizione rispetto alle prospettive appena esposte impone, allora, di investire nella formazione, nella cultura comune condivisa fra magistratura, università, scuole di specializzazione, ordini professionali ed avvocati, così individuando dei percorsi in grado di consentire al giudice di svolgere al meglio le proprie funzioni.
Ciò nella consapevolezza che l'autorevolezza della magistratura fa, ora più che mai, il paio solo con l'alta professionalità dei giudici.
Note:
1 Conti, Giudici supremi e responsabilità per violazione del diritto comunitario, in Danno resp., 2004,1,30 in nota a Corte di giustizia 30 settembre 2003, n. c-224/01 ss. V. anche Scoditti, "Francovich" presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale, in Foro it., 2004, IV, 4.
2 Trib. Roma 28 giugno 2001, in Giur. merito, 2002, 360.
3 G. Alpa, Postilla, in Casi scelti in tema di diritto privato europeo, Padova, 2005, 465.
4 Cfr. Trib. Roma, in Diritto e giustizia, 2004, 41, 76.
5 Tale decisione può leggersi in Foro it., 2000, I, 2825, con osservazioni critiche di Pardolesi.
6 GU CE 4 dicembre 2001 L 318, 9.
7 P. 44 e 46 concl. avv. gen. Leger: "...E' vero che, di primo acchito, ci si può chiedere in che misura i casi di violazione della legge contemplati dall'art. 2, n. 3, lett. a), della normativa nazionale controversa possano non essere collegati all'attività di interpretazione delle norme di diritto che rientra nell'ipotesi del n. 2 dello stesso articolo, cosicché il detto n. 3 non introdurrebbe alcuna deroga alla regola dettata con tale n. 2. E' solo se così fosse che tale normativa procederebbe, nel contempo, ad un'esclusione della sussistenza alla responsabilità dello Stato in certi settori dell'attività giurisdizionale (che rientrano nell'ambito del detto n. 2) e ad una limitazione di tale responsabilità in altri settori dell'attività giudiziaria (che rientrerebbero nel detto n. 3). In effetti, nell'ipotesi in cui i settori di attività rientranti in ciascuno dei detti numeri non fossero del tutto distinti, ma coincidessero completamente tra loro, potremmo effettivamente intendere la normativa nazionale controversa solo in termini di limitazione della sussistenza della responsabilità dello Stato e non anche in termini di esclusione di tale responsabilità..... Conformemente all'interpretazione dell'art. 2, n. 2, della normativa nazionale controversa che è stata prospettata dal giudice del rinvio, suppongo che, ai sensi del detto articolo, la sussistenza della responsabilità dello Stato derivante dall'attività giurisdizionale sia esclusa quando il comportamento addebitato ad un organo giurisdizionale è connesso ad un'operazione di interpretazione delle norme di diritto, anche laddove tale operazione abbia condotto a commettere una violazione grave della legge risultante da una negligenza inescusabile. In altri termini, suppongo che l'art. 2, n. 3, lett. a), della normativa nazionale controversa sia destinato ad essere applicato ad ipotesi di violazione della legge diverse da quelle previste al n. 2 dello stesso articolo."
8 Art. 2. l. n. 117/1988: (Responsabilità per dolo o colpa grave) "Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. Costituiscono colpa grave: la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione".
9 Per cui volendo, v. Conti, Direttive comunitarie dettagliate ed efficacia diretta nei rapporti interprivati: il timone passa al giudice nazionale, in questa Rivista, 2005, 2, 185.
10 Per tale vicenda sia consentito il rinvio a Conti, Autorità di cosa giudicata, diritto interno e primato del diritto comunitario, in Nuove Autonomie, 2005, 3, 373.
11 In effetti, già l'Avvocato generale aveva colto la peculiarità del quesito pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Genova, nel quale non si faceva alcuna distinzione fra giurisdizioni di ultima istanza e decisioni adottate da altri giudici, tanto che si era proposto di riformulare il quesito: v., p. 39 conc.cit.: "Nel modo in cui è stata formulata, la questione pregiudiziale ha ampia portata poiché si estende a tutta l'attività giurisdizionale, vale a dire tanto quella degli organi giurisdizionali supremi quanto quella dei giudici ordinari. Orbene, si deve constatare che l'azione per responsabilità dello Stato, che è oggetto della causa principale, mette in discussione unicamente una decisione di un organo giurisdizionale supremo avverso le cui decisioni non è proponibile ricorso, e non quelle dei giudici ordinari che si sono in precedenza pronunciati nel medesimo senso nella stessa causa. Occorre quindi riformulare la questione pregiudiziale nel senso di limitare la portata della soluzione fornita dalla Corte a quanto strettamente necessario per la risoluzione della controversia di cui è investito il giudice del rinvio."
12 Tale ipotesi viene dalla Grande Sezione qualificata, addirittura, come caso di responsabilità presunta, proprio per scandirne ulteriormente la gravità, accentuando il principio espresso nella sentenza Kobler ove si era preferito utilizzare l'inciso in ogni caso per disgiungere l'ipotesi di cui al testo dai criteri in precedenza tratteggiati.
13 Va solo evidenziato che anche all'interno del d.lgs.n. 109/2006 che ha dato attuazione alla legge delega si colgono alcuni problemi di coordinamento interno in parte sovrapponibili a quelli già esaminati a proposito delle lett. n. 1, 2 e 3 dell'art. 2 l. n. 117/1988, ove si consideri che è stato espressamente codificato quale illecito disciplinare "la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile" ed il "travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile"-lett g ed h dell'art. 2 comma 1 d.lgs. n. 109/2006 - prevedendo l'esonero da responsabilità per il caso di attività interpretativa compiuta in modo conforme all'art. 12 disp.att.c.c.
14 Sul contenuto precettivo della legge delega v. R. Romboli,Il ruolo del giudice in rapporto all'evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina dell'ordinamento giudiziario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it
15 Sia consentito, sul punto, il rinvio a Conti, Il ruolo del giudice civile e il sistema europeo delle fonti, in Nuove Autonomie,2006,127 ss. V. anche Biondi, La responsabilità del magistrato, Milano, 2006,87 ss.
16 V. volendo, Conti, L'occupazione acquisitiva. Tutela della proprietà e dei diritti umani, Milano, 2006.
17 F. Biondi, Un "brutto" colpo per la responsabilità civile dei magistrati, (nota a Corte di Giustizia, sentenza 13 giugno 2006, TDM contro Italia) in www.forumcostituzionale.it V., in modo più dettagliato, Biondi, La responsabilità del magistrato, cit. 220 ss.
18 V. Conti, Giudici supremi e responsabilità per violazione del diritto comunitario, cit.
19 Tale conclusione, del resto, era in perfetta sintonia con la posizione espressa dall'Autogoverno della Magistratura che ha, tradizionalmente e costantemente, escluso la responsabilità disciplinare del magistrato per attività interpretativa del giudice confinandola, ancora una volta, alle ipotesi di interpretazione abnorme connessa a negligenza inescusabile.
20 Si rinvia integralmente al commento di cui alla nota 1.
21 Sia consentito il rinvio a Conti, Autorità di cosa giudicato diritto interno e primato del diritto comunitario, cit., 373.
22 La sentenza è pubblicata su Urbanistica e appalti 2004, 1151, con nota di Caranta.
23 P. 23 sent. Schlank & Schick GmbH, cit.: "Si deve aggiungere che la citata sentenza K³hne & Heitz, cui si riferisce il giudice a quo nella sua prima questione, sub a), non è tale da rimettere in discussione l'analisi sopra svolta. Infatti, anche ammettendo che i principi elaborati in tale sentenza siano trasferibili in un contesto che, come quello della causa principale, si riferisce ad una decisione giurisdizionale passata in giudica-to, occorre ricordare che tale medesima sentenza subordina l'obbligo per l'organo interessato, ai sensi dell'art. 10 CE, di riesaminare una decisione definitiva che risulti essere adottata in violazione del diritto comunitario, alla condizione, in particolare, che il detto organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione (v. pp. 26 e 28 della detta sentenza). Orbene, nel caso di specie, è sufficiente rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che la suindicata condizione non ricorre."
24 Corte giust. 19 novembre 1991, n. C-6/90 e C-9/90, Francovich e a., in Racc., I-5357.
25 Anche la Cassazione sta, lentamente, prendendo atto della prevalenza dei diritti di matrice sovranazionale sul giudicato interno che non si è conformato alle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. V. di recente, Cass. 3 ottobre 2006, n. 32678, in www.cortedicassazione.it, ove si è affermato che "in materia di violazione dei diritti umani (e in particolar e in presenza di gravi violazione dei diritti della difesa), il giudice nazionale italiano è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l'intangibilità del giudicato".
26 Corte di giustizia 9 marzo 1978, n. C-106/77, Simmenthal in Racc., 629, p. 24.
27 Corte dir. uomo 21 marzo 2000, Dulaurans c. Francia, in www.echr.coe.int
28 V. in questo senso anche Scoditti, Il sistema multi-livello di responsabilità dello Stato per mancata attuazione di una direttiva comunitaria, in Danno e resp., 2003, 726.
29 V. Corte di giustizia 7 settembre 2006, n. C-81/05, Cordero Alonso, in www.curia.eu.int, che nel qualificare il principio di uguaglianza e non discriminazione come principio del diritto comunitario, ha imposto agli Stati membri di farne applicazione alla stregua dell'interpretazione fornita dal giudice comunitario e ciò anche "quando la normativa nazionale di cui trattasi, secondo la giurisprudenza costituzionale dello Stato membro interessato, è conforme a un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall'ordinamento giuridico nazionale." Il principio è di straordinaria importanza poiché la Corte ha riconosciuto che la vincolatività del principio dell'uguaglianza dinanzi alla legge e del divieto di discriminazione, risultante dal diritto comunitario, con la portata precisata dall'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia, permane anche se tale interpretazione non coincida con quella dell'analogo diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione spagnola quale fornita dalla giurisprudenza del Tribunal Constitucional espag±ol.
30 E non è qui utile insistere sul fatto che la dottrina dell'interpretazione conforme e il potere di ovviare al diritto nazionale siano, effettivamente, delle "scappatoie rese necessarie dal non aver ammesso l'effetto diretto orizzontale delle direttive."
31 Corte di giustizia 24 giugno 1969, n. C - 29/68, Milch -, Fett - und Eierkontor/Hauptzollamt Saarbr³cken in Racc. 165, pp. 2 e 3. V. anche sentenza 3 febbraio 1977, n. C - 52/76, Benedetti/Munari in Racc., 163, pp. 26 e 27), e ordinanza 5 marzo 1986, n. C - 69/85, W³nsche III in Racc. 947,pp. 13-15).
32 Cfr. Corte cost.n. 113/1985, in Foro it., 1985, I, 1600; Corte cost. n. 389/1989, in Foro it., 1991, I, 1076; Corte cost. 132/1990, in Foro it., 1990, I, 3053; Corte cost. n. 168/1991, in Foro it. 1992, I,660. Cass., sez. un., 13 febbraio 1999, n. 64, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 799 ss.
33 Cass., sez. un., 13 febbraio 1999, n. 64, in Riv. it. dir. pubbl. com.; 2000, 799.
34 Cass. 14 settembre 1999 n. 9813, in Foro it.,2000, I, 1668 che ha escluso la possibilità di una sospensione per pregiudizialità comunitaria in caso di pendenza di altro rinvio pregiudiziale operato da diverso giudice nazionale.
35 La sentenza può leggersi in questa Rivista,2005,2, 185, con nota di Conti cit.
36 Il riferimento specifico è a Cass, sez. un., n. 3117/2006, in Giudice di pace, 2006, 104, con nota di Conti, ove le Sezioni Unite hanno preso a prestito la giurisprudenza della Corte di giustizia che ha scolpito fra i principi generali del diritto comunitario quello di effettività, impeditivo di una disciplina processuale che renda eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti, pur consce della non diretta refluenza del diritto comunitario nella vicenda esaminata, che nondimeno è capace, esso sì, di irradiare la legislazione interna anche quando questa non si muova in ambiti comunitari, fino al punto di condizionare il risultato interpretativo di una norma processuale interna. Norma che viene così interpretata ben al di là della sua portata letterale e fino al punto di coniugarne il contenuto ad un principio ad essa sovraordinato, appunto rappresentato dall'effettività della tutela.
1. La Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha creato una nuova ipotesi di configurazione dell’illecito dello Stato per violazione del diritto comunitario: l’errata interpretazione e applicazione del diritto comunitario da parte del giudice nazionale (Köbler c. Repubblica d’Austria, 30.9.2003, causa C-224/01, pubblicata supra, parte I, 96 ss. e in Foro it., 2004, IV, 4, con nota di Scoditti). Nel caso di specie si trattava del Verwaltungsgerichtshof, il giudice supremo amministrativo. A un professore universitario era stata negata l’attribuzione della indennità speciale di anzianità di servizio prevista dall’art. 50 della legge austriaca sulle retribuzioni. Questa normativa prevede che il beneficio possa essere conseguito dai docenti che abbiamo maturato una anzianità di servizio unicamente in università austriache. Il ricorrente aveva sostenuto che, con l’ingresso dell’Austria nell’Unione europea, il decorso del periodo avrebbe dovuto esser calcolato tenendo conto anche del periodo di docenza compiuto in altri Paesi della Comunità e che quindi il principio applicato configurava un’ipotesi di discriminazione indiretta. Essendo in Austria solo lo Stato federale il soggetto responsabile per i danni arrecati dalle Università ai propri dipendenti, lo Stato si era difeso sostenendo che l’indennità speciale richiesta era considerata una parte della retribuzione, mentre il ricorrente l’aveva definita come un premio di fedeltà e pertanto discriminatorio del trattamento riservato ai cittadini austriaci rispetto agli altri cittadini comunitari. Il Tribunale amministrativo di ultima istanza aveva respinto il ricorso. Nel corso del giudizio di rinvio al giudice civile, il Tribunale di Vienna aveva sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia alcune questioni pregiudiziali, ritenendo dubbia l’interpretazione della legge ai sensi del diritto comunitario: in particolare, aveva chiesto, tra l’altro, alla Corte di chiarire se l’illecito comunitario potesse dipendere anche da un inadempimento costituito dalla sentenza di un giudice di ultimo grado e se spettasse allo Stato membro designare il giudice competente a decidere la controversia relativa al risarcimento del danno conseguente.
Ci limiteremo a considerare solo queste due questioni preliminari, tralasciando le altre, che sono consequenziali, in quanto riguardano il merito, attinente alla materia previdenziale.
La prima reazione alla lettura della decisione dei giudici comunitari fa venire in mente l’esclamazione del mugnaio che cercava di resistere alle pressioni del re prussiano. Il re voleva abbattere la torre del mulino perché, costeggiando il parco del castello, deturpava il paesaggio. E il mugnaio gli aveva risposto: «ci saranno dei giudici a Berlino!». Nel senso che anche l’Autorità suprema è assoggettata al potere giudiziario, il quale istituzionalmente difende i diritti dei cittadini anche contro chi detiene il potere. Sarebbe appropriato, nel nostro caso, esclamare: «ci saranno dei giudici a Lussemburgo!»? Qui non è il re di Prussia a voler commettere un’ingiustizia. È un giudice nazionale che applicando la legge interna ha escluso l’esistenza del diritto fatto valere dal cittadino. E il cittadino riesce a far sollevare la questione dinanzi al giudice comunitario, ritenendo di essere trattato in modo difforme dagli altri cittadini comunitari. E il giudice è il giudice comunitario che dichiara di voler riparare l’ingiustizia condannando lo Stato a cui quel cittadino appartiene perché un altro giudice, e per giunta una corte suprema, l’ha voluta perpetrare. Non potendosi ripristinare direttamente la situazione lesa, si ricorre ad un rimedio alternativo: sarà lo Stato a farsi carico del danno che il proprio giudice ha ingiustamente cagionato. La Corte di Giustizia diventa la corte di «ultimissima » istanza, come già la Corte di Strasburgo condanna gli Stati per i processi ingiusti?
Le questioni in gioco sono molteplici. Quasi tutte sono state sollevate nel corso del giudizio svoltosi dinanzi alla Corte comunitaria: (i) se l’illecito derivante dalla responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario possa essere imputabile ad un organo giurisdizionale, e, in particolare, ad un organo di ultima istanza; (ii) se tale responsabilità debba essere riconosciuta solo in presenza di un abuso manifesto di potere o di disconoscimento palese del diritto comunitario; (iii) se, in presenza di una questione complessa di dubbia interpretazione, sia configurabile l’errore scusabile, che non comporta la commissione di un illecito.
Lo Stato convenuto a sua volta ha obiettato che la configurazione dell’illecito in questo caso: (i) comprometterebbe il principio dell’autorità di cosa giudicata; nonché (ii) l’indipendenza del potere giudiziario, e (iii) porrebbe gli Stati Membri in posizione deteriore rispetto all’Unione europea, in quanto non si è mai configurato un principio analogo di responsabilità per la stessa Corte di Giustizia, né lo si potrebbe configurare in quanto la Corte sarebbe al tempo stesso danneggiante e giudice del proprio danno. Con argomentazioni simili si sono espressi i Governi che sono intervenuti ad adiuvandum dell’Austria (Germania, Paesi Bassi, Francia, Regno Unito).
Nella decisione in commento la Corte:
(i) fa salva l’autorità della cosa definitivamente giudicata, essenziale alla stabilità del diritto e dei rapporti giuridici nonché alla buona amministrazione della giustizia;
(ii) per contro, esclude che il principio di responsabilità dello Stato per inadempimento comunitario intacchi il principio di indipendenza del giudice, in quanto la responsabilità del giudice è personale mentre nel caso considerato la responsabilità riguarda lo Stato;
(iii) esclude altresì che l’ammissione della responsabilità dello Stato possa pregiudicare l’autorevolezza della Corte di ultima istanza e la definitività del suo giudizio, perché, al contrario, essa «corrobora la qualità di un ordinamento giuridico e quindi in definitiva anche l’autorità del potere giurisdizionale»;
(iv) precisa che la competenza a designare il giudice che deve delibare la questione spetta a ciascuno Stato Membro al fine di garantire la tutela dei diritti (soggettivi) spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario.
Ad esito del giudizio, sulle prime due questioni preliminari la Corte ha statuito che:
«(...) il principio secondo cui gli Stati Membri sono obbligati a risarcire i danni causati ai singoli da violazione del diritto comunitario ad essi imputabili è applicabile anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno dubito dalle parti lese. Al fine di determinare se la violazione sia sufficientemente caratterizzata allorché deriva da una tale decisione, il giudice nazionale competente deve, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, accertare se tale violazione presenti un carattere manifesto. Spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato Membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative al detto risarcimento».
La Corte tempera però il principio introducendo alcune cautele, che possono considerarsi altrettanti limiti alla responsabilità.
Occorre infatti accertare di essere in presenza di «caso eccezionale» in cui il giudice deve aver violato il diritto vigente «in maniera manifesta»; nonché valutare il grado di chiarezza e di precisione della norma violata; il carattere intenzionale della violazione; la scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto; l’eventuale posizione già adottata da una istituzione comunitaria; la mancata osservanza da parte dell’organo giurisdizionale dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234, comma 3o, Trattato CE.
Nelle sue conclusioni l’Avvocato Generale Leger aveva sostenuto che l’applicabilità del principio della responsabilità dello Stato è indifferente rispetto all’organo statale che abbia compiuto la violazione; di più, in assenza di possibilità di ricorso contro una decisione emessa da un organo giurisdizionale supremo, solo un’azione per responsabilità consentirebbe di garantire il ripristino del diritto leso; in caso contrario, gli Stati membri potrebbero sottrarsi all’applicazione del diritto comunitario; tenendo conto però della particolarità della funzione giurisdizionale, l’Avvocato Generale aveva portato l’accento sulla decisività della valutazione sulla sussistenza di un errore scusabile nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto.
2. Tra le diverse argomentazioni svolte dai Governi nell’ambito del procedimento, di segno contrario al giudizio della Corte, val la pena di considerare quelle offerte dal Regno Unito.
In primo luogo, il Governo inglese osserva che il ragionamento della Corte muove da un principio generale – di applicabilità delle regole di responsabilità dello Stato – senza tener conto del fatto che, nella specie, si trattava della prima occasione in cui si fosse presa in esame la responsabilità derivante da «atti giudiziari». Il problema, dunque, avrebbe dovuto porsi in termini generali e non come applicazione estesa di un principio già consolidato. Ricorrendo alla tecnica del distinguishing il Governo inglese richiama la Corte sulla necessità di non «fare di ogni erba un fascio», ma piuttosto di valutare con estrema attenzione il fatto che l’atto illecito deriva non dalla violazione del diritto comunitario (e quindi del diritto soggettivo sotteso ad esso) da parte dello Stato (il legislatore o il governo o una pubblica Amministrazione), ma da parte di un giudice.
In secondo luogo, sottolinea come il principio applicato non abbia un tenore generale ed assoluto, e quindi la protezione offerta non sia senza limiti, dovendosi tener conto della prescrizione e di una innumerevole serie di considerazioni di «politica del diritto».
In terzo luogo, il ragionamento riposa su alcuni pregiudizi, peraltro non dimostrati, che attengono alla ignoranza o alla indifferenza dei giudici nazionali per il diritto comunitario.
In quarto luogo, ove il principio fosse applicato agli atti giudiziari, esso si scontrerebbe con altri principi di rilevante importanza, quali la certezza del diritto, l’autorevolezza e il prestigio della Corte nazionale, l’indipendenza del potere giudiziario, la posizione della magistratura nazionale nell’ambito dell’ordinamento comunitario, il difetto di una corte ulteriore che dovesse giudicare la questione di responsabilità, il difetto di revisione delle sentenze della stessa Corte di Giustizia.
In quinto luogo, il prolungamento del giudizio, successivamente alla sentenza di ultimo grado, per l’accertamento della responsabilità del giudice che l’ha resa, implicherebbe ulteriori lungaggini e incertezza nella soluzione.
Con le medesime argomentazioni il Governo inglese ha inteso contestare le conclusioni dell’Avvocato Generale. Ma soprattutto ha posto l’accento sul problema fondamentale: l’indipendenza del giudice.
Si tratta di un requisito essenziale dello Stato di diritto e della democrazia.
Né si potrebbe sostenere che la misura invocata dalla Corte costituisca una garanzia della tutela dei diritti soggettivi derivati ai cittadini dell’Unione dal diritto comunitario: il principio, al contrario, dovrebbe applicarsi alla stessa Corte di Giustizia, ma non ai giudici nazionali.
Anche la salvaguardia della res iudicata non risolve tutti questi problemi, perché la certezza del diritto ne verrebbe comunque compromessa. E neppure l’obbligo del rinvio pregiudiziale, dal momento che così ragionando si porrebbe la Corte di Giustizia al di sopra delle Corti nazionali.
3. Tutte queste argomentazioni sono apprezzabili. Si tratta, in fin dei conti, di un complesso problema di politica del diritto, in cui configgono due esigenze fondamentali: da un lato, la garanzia dei diritti soggettivi nei confronti di tutti – e quindi anche dei giudici nazionali che non abbiano applicato correttamente il diritto comunitario – e dall’altro, l’indipendenza del giudice nazionale.
Di questo dilemma è ben consapevole la Corte di Giustizia, là dove pone notevoli limiti all’applicazione del principio, limiti così connotati che sembrano delineare un illecito tipico nell’ambito dell’area generale della responsabilità dello Stato.
Occorre allora verificare se questi limiti siano compatibili con il principio di indipendenza del giudice, essendo questo – a nostro parere – il dilemma di base che deve essere sciolto. Le altre considerazioni, sulla certezza del diritto o sulle lungaggini del processo, non appaiono altrettanto rilevanti, la prima essendo un mito, le seconde essendo una realtà pressoché ineliminabile.
Torniamo allora alle due linee secondo le quali si può leggere (ed interpretare) questa sentenza: le premesse del ragionamento e i caveat nell’applicazione del principio.
(i) Nelle premesse si fa salva la res iudicata. Ciò significa che la Corte di Giustizia non intende giudicare della bontà della sentenza (o, se si vuole, dell’«atto giudiziario», come si esprime il Governo inglese). Quanto è stato giudicato dal giudice nazionale rimane intatto – soprattutto perché è l’ultimo atto del procedimento di ultimo grado. Ma questo assunto non para obiezioni di altra natura: se si consente di affermare la responsabilità dello Stato perché il diritto comunitario non è stato interpretato e applicato a dovere, si introducono due fattori che alterano il ragionamento.
Si ammette – o si presuppone – che la res iudicata sia «cattivo diritto», e si valuta la sua produzione da parte del giudice nazionale. Il che incide non solo sulla indipendenza del giudice, ma anche sulla sua autorevolezza, minata alla base dalla valutazione critica della Corte. È una valutazione indiretta, in quanto sta alla base del fondamento dell’illecito dello Stato, ma tuttavia è una valutazione presupposta e imprescindibile per poter arrivare a quel risultato.
Di più. Se si consente all’interessato di rivolgersi al giudice ordinario per poter affermare la responsabilità dello Stato per atti giudiziari compiuti dalla Corte superiore (nel caso austriaco, dal massimo organo della giustizia amministrativa), implicitamente si consente al giudice di grado inferiore di avallare la premessa, cioè l’«errore» compiuto dal giudice superiore. Conseguenza che scardina il sistema giurisdizionale interno.
(ii) Risibile è la seconda premessa, che insiste sulla differenza tra responsabilità dello Stato e responsabilità personale del giudice. È chiaro che si tratta di due ipotesi distinte, ma tra loro sono collegate, perché la prima si consolida in ragione della seconda, cioè di una erronea interpretazione. Né si può obiettare che la seconda non comporterebbe comunque la responsabilità personale del giudice, perché anche se lo Stato non potesse promuovere un’azione di regresso – attesa la circoscritta ammissibilità della responsabilità civile del giudice – si muove sempre dal presupposto che il giudice abbia compiuto un illecito di cui lo Stato risponde. Diverso sarebbe il discorso se la Corte subordinasse la responsabilità dello Stato all’accertamento dei presupposti della responsabilità del giudice nel diritto interno.
(iii) Altrettanto risibile è l’argomento – di politica del diritto – in base al quale l’affermazione della responsabilità dello Stato eleverebbe la qualità della produzione giudiziaria e rafforzerebbe l’autorità del potere giurisdizionale. Al contrario, il timore di poter cagionar la responsabilità dello Stato per errata interpretazione e applicazione del diritto minerebbe la libertà di valutazione del giudice, e minerebbe la sua autorevolezza.
(iv) L’ultima premessa, che affida all’ordinamento interno la individuazione del giudice competente a decidere sul risarcimento del danno è superflua; ed in ogni caso, si possono richiamare le perplessità esposte sub (i).
Veniamo ora ai caveat.
(i) Deve trattarsi di «caso eccezionale» e di «manifesta violazione». Sulla eccezionalità del caso, tutti saranno d’accordo, qualunque sia il futuro di questo indirizzo della Corte di Giustizia. Stabilire poi i requisiti della eccezionalità sarà una questione di interpretazione e di opportunità. Sulla «manifesta » violazione occorre però spendere qualche parola, che richiama l’organo al quale si imputa la violazione. Qui non si tratta del legislatore (quante volte il legislatore ha male applicato una direttiva!) né del Governo o della pubblica Amministrazione (quante volte i Governi sono stati tratti a giudizio per violazione di diritto comunitario! E proprio un caso di erronea interpretazione e applicazione del diritto comunitario ha aperto la strada a questa figura di illecito: il caso Francovich costituisce la pietra miliare al riguardo). Qui si tratta del giudice che «interpreta» e «applica». Ora, solo in caso di sentenze abnormi si può pensare che l’interpretazione e l’applicazione di una corte suprema siano errate, anche perché alla corte suprema spetta, normalmente, il potere di nomofilachia, cioè il compito di indicare la corretta interpretazione della legge.
(ii) Il grado di chiarezza e precisione della norma violata. È un requisito che riguarda in generale il fatto illecito dello Stato, e quindi di per sé non è né un caveat né una limitazione alla responsabilità per atti giudiziari.
(iii) Il carattere intenzionale della violazione. Tutti siamo contrari al giudice iniquo, che perpetra un illecito di denegata giustizia. Ma se così è, bastava semplicemente porre questa come unica condizione per la configurazione dell’illecito considerato. Questa può divenire la più semplice scappatoia per vanificare il principio affermato dalla Corte: non basta la negligenza, ma occorre il dolo; se così è, ben venga il principio, ma le ipotesi della sua applicazione diventano pressoché inesistenti. In altri termini, tutto il ragionamento diviene una superfetazione di regole interpretative destinate a disciplinare una situazione pressoché impossibile a verificarsi.
(iv) L’essersi già espressa sul punto una «istituzione comunitaria». Non mi sembra, questo, un buon argomento per accogliere il principio, né mi sembra un caveat vero e proprio. Può essere un indizio, che il giudice nazionale può prendere in considerazione per valutare la fondatezza del diritto fatto valere. Ma non avrebbe senso vincolare il giudice nazionale agli atti pregressi di una qualsiasi Istituzione (quante volte gli atti della Commissione sono stati travolti dalle sentenze della Corte di Giustizia!).
(v) Diverso è il caso della preesistenza di precedenti della Corte di Giustizia, che costituiscono parte integrante del diritto comunitario o il caso della violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Tuttavia, anche questo caveat è controvertibile, perché non si può considerare prevalente la Corte di Giustizia sulle Corti nazionali (specie se si tratta di Corti di ultima istanza); mentre sul rinvio pregiudiziale l’orientamento della stessa Corte non è univoco (sul punto v. Ivaldi, Il rinvio pregiudiziale: linee evolutive, vol. XXII della raccolta Comunicazioni e studi dell’Istituto di diritto internazionale e straniero della Università di Milano, Giuffrè, 2002, 235 ss.).
Rimangono dunque due ulteriori aspetti da considerare brevemente, se prescindiamo da quel «macigno» che la stessa Corte impone nel dare soluzione positiva all’interrogativo sulla responsabilità dello Stato per atti giudiziari (e cioè che essi debbono essere compiuti dolosamente per poter essere apprezzati ai fini della illiceità).
In ogni caso, sarebbe stato preferibile il rinvio da parte della Corte di Giustizia alle regole dell’ordinamento nazionale nelle ipotesi in cui lo stesso ordinamento nazionale preveda la responsabilità personale del giudice. Non vi sarebbe stato allarme da parte dei Governi nazionali, essendo quell’illecito già previsto, con tutte le cautele opportunamente escogitate, da parte degli ordinamenti interni.
Il primo aspetto è stato sollevato dal Governo inglese: è possibile considerare l’organo giudicante, cioè la Magistratura, come uno degli organi dello Stato dalla cui attività può derivare l’illecito dello Stato per violazione del diritto comunitario? L’atto giudiziario discende dalla interpretazione e applicazione del diritto; questo presupposto è comune all’atto legislativo e all’atto amministrativo, ma vi è una notevole differenza: l’interpretazione e l’applicazione del diritto sono l’essenza dell’attività giudiziale, e sono corroborati dalla autorità del giudicante. Se si inficia questa autorità si inficia uno dei pilastri dello Stato di diritto.
Il secondo aspetto è immanente alla questione esaminata: si può assimilare dal punto di vista della valutazione dell’illiceità l’atto giudiziario ad un atto del Parlamento o ad un atto del Governo?
La risposta richiederebbe argomentazioni articolate, che non sono proponibili in queste brevi note. Credo che dal tono problematico con cui si è presentata la sentenza del caso Koebler emerga la soluzione negativa ad entrambi gli interrogativi.
Infine, il dilemma più grave: meglio essere garantisti fino al punto di assicurare la tutela del diritto soggettivo arrivando ad affermare la responsabilità dello Stato per atti giudiziari, o essere garantisti fino al punto di sacrificare un diritto soggettivo per salvaguardare l’indipendenza del giudice?
E poi: il rimedio della responsabilità dello Stato è proprio l’ultima Thule a cui ci si può rivolgere, o è possibile escogitare altri rimedi, e non solo giurisdizionali, per risolvere il problema?
Sommario: 1. Premessa. Le forme di responsabilità del giudice. - 2. La responsabilità civile del giudice nel sistema anteriore all'entrata in vigore della l. 13-4-1988, n. 117. - 3. La l. 13-4-1988, n. 117. Inquadramento generale. - 4. Aspetti caratterizzanti della l. 13-4-1988, n. 117: l'azione contro lo Stato. - 5. (Segue). L'azione di rivalsa nei confronti del magistrato. - 6. La responsabilità disciplinare: problemi e tendenze.
Le forme di responsabilità cui può essere soggetto il giudice sono molteplici. Si va dalla responsabilità politica alla responsabilità penale, dalla responsabilità amministrativa e contabile alla responsabilità civile e alla responsabilità disciplinare.
Con riferimento alla responsabilità politica intesa come «soggezione istituzionale dei magistrati verso il potere politico per il controllo che questo può avere sulla nomina e/o conferma dei giudici, sull'esercizio in concreto dell'attività giurisdizionale, sulla progressione in carriera, o ancora, sulla gestione degli strumenti della responsabilità disciplinare» (1), è fuor di dubbio che se soggezioni di questo tipo non sono insolite, in una forma o nell'altra, nell'esperienza comparativa, esse sono esplicitamente e tassativamente escluse nel nostro ordinamento, dove l'art. 101, 2° co., della Costituzione stabilisce con estrema chiarezza il principio per cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».
Con riferimento alla responsabilità penale, è ovvio innanzi tutto affermare che il giudice risponde al pari di ogni altro cittadino per comportamenti penalmente rilevanti non riconducibili all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Se poi detti comportamenti sono riconducibili all'esercizio delle funzioni (peculato, corruzione, malversazione ecc.), il magistrato ne sarà responsabile come qualsiasi altro funzionario e pubblico dipendente(2).
Per quanto infine riguarda la responsabilità contabile e la responsabilità amministrativa, sono solo teoricamente applicabili anche ai magistrati, e di scarsissima rilevanza pratica(3).
In sostanza, i veri nodi della responsabilità del magistrato sono quelli della responsabilità civile e della responsabilità disciplinare. È su questi nodi che si è sviluppato in Italia il dibattito politico e culturale a partire dai primi anni settanta, in connessione con l'evoluzione da una concezione marcatamente burocratica del giudice ad una più «professionale», e con il crescente ruolo anche di supplenza che proprio a partire da quell'epoca il giudice si è trovato a dover assumere.
Gli studi di Cappelletti(4), di Giuliani e Picardi(5), di Vigoriti (6) hanno messo in luce, anche sulla base di accurate indagini comparative ad ampio raggio, le difficoltà che circondano soprattutto il tema della responsabilità civile del giudice. Non c'è, si può dire, ordinamento in cui il giudice sia chiamato a rispondere al pari di ogni altro cittadino delle conseguenze dannose dei comportamenti lesivi posti in essere nell'esercizio delle proprie funzioni. Anzi, sono proprio gli ordinamenti in cui trova la massima esaltazione la concezione «professionale» del giudice, ossia gli ordinamenti di common law, quelli in cui più è radicata, in nome di valori quali l'indipendenza del giudice, e di principi quali «the king can do no wrong» o «res judicata facit jus», la teoria, di fonte giudiziaria(7), della assoluta irresponsabilità del giudice, della cosiddetta immunity from civil liability per gli atti intra vires, ma tendenzialmente anche per gli atti ultra vires, non importa se compiuti con malizia o corruzione(8).
L'ordinamento italiano ha conosciuto sul finire degli anni '80 una profonda (almeno apparentemente) trasformazione, passando dal regime previsto dagli art. 55 e 56 (e 74) c.p.c., che prevedeva una limitata responsabilità diretta per dolo del giudice o per diniego di giustizia, al regime introdotto dalla legge n. 117 del 1988, in seguito all'abrogazione per mezzo di referendum popolare dei sopra citati articoli del c.p.c., che prevede la responsabilità diretta dello Stato per dolo o colpa grave, oltreché per denegata giustizia, con (limitata) rivalsa nei confronti del giudice(9). Ambedue i regimi sono compatibili con il quadro costituzionale di riferimento costituito dall'art. 28 della Costituzione, a norma del quale «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi, la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Nonostante le critiche che potevano muoversi al sistema del c.p.c., la Corte costituzionale lo salvò con la celebre sentenza del 14-3-1968, n. 2(10). La Corte precisò infatti, da un lato, che la giurisdizione è «funzione statale ed i giudici, esercitandola, svolgono attività abituale al servizio dello Stato» e che, pertanto, l'art. 28 trova applicazione anche nei confronti dei magistrati; dall'altro, che «la responsabilità del giudice può essere legittimamente limitata, ma non può essere totalmente negata», che «là dove è responsabile il funzionario o il dipendente lo sarà negli stessi limiti lo Stato», e che, quanto «ai danni cagionati dal giudice per colpa grave o lieve o senza colpa, il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale; ma niente impedisce alla giurisprudenza di trarlo eventualmente da norme o principi contenuti in leggi ordinarie». Non occorre spendere molte parole sul sistema di responsabilità civile del giudice tratteggiato dagli artt. 55, 56 e 74 (con riferimento specifico, quest'ultimo, ai magistrati del pubblico ministero) per rendersi conto che, nonostante la sua asserita compatibilità con il quadro costituzionale, soffriva di limiti talmente vistosi da renderne del tutto improbabile ogni efficacia pratica, e da creare così per il giudice un regime di vero e proprio privilegio. L'art. 55 fissava i limiti sostanziali della responsabilità del giudice, ossia dolo frode e concussione (art. 55, n. 1)(11), e rifiuto, omissione o ritardo, senza giusto motivo, di provvedere sulle domande o istanze delle parti, e, in generale, di compiere un atto del suo ministero (art. 55, n. 2). L'art. 56, dal canto suo, prevedeva, al primo comma, la necessaria autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia al fine di poter proporre la domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice e, al 2° co., il potere della Corte di cassazione di designare il giudice competente a pronunciarsi sulla domanda. Non stupisce che un sistema così congegnato, tale fra l'altro da suscitare non poche, e giustificate, perplessità di ordine costituzionale con riferimento al diritto d'azione previsto dall'art. 24 della Costituzione (12) e al diritto al giudice naturale previsto dall'art. 25, 1° co.(13), abbia avuto una scarsissima incidenza pratica. Con riferimento all'art. 55, n. 1, si poteva infatti affermare: «manca in assoluto giurisprudenza sulla responsabilità del giudice per atti o comportamenti dolosi» (14); e con riferimento all'art. 55, n. 2, si poteva analogamente scrivere: «... non vi sono tracce dell'applicazione di questa norma. Pochi i casi conosciuti; pochissime le sentenze pubblicate; quasi immancabile l'accertamento del giusto motivo per il diniego di giustizia» (15).
Non può stupire che un sistema di tal fatta, che conferiva al giudice una posizione di assoluto privilegio, che, d'altra parte, neppure trasferiva sullo Stato le conseguenze dell'eventuale attività dannosa dei giudici, e che, in ultima analisi, lasciava le vittime sostanzialmente prive di qualsiasi tutela e ristoro, si sia trovato negli anni '80 al centro di un dibattito anche aspro. Tale dibattito si inseriva in un più ampio conflitto, i cui esiti non sono ancora chiari neppure oggi, fra una magistratura che rivendicava, e probabilmente ha assunto, «un diverso ruolo politico-costituzionale», e una classe politica, tuttora in una fase di profonda se non anche drammatica trasformazione, che tale nuovo ruolo tentava, e tenta, di contrastare «allarmata dall'espansione dell'intervento giudiziario soprattutto nei confronti della pubblica amministrazione e degli enti pubblici economici» (16). A tutt'oggi, peraltro, quella riforma generale dell'ordinamento giudiziario, prevista dalla VII disposizione transitoria della Costituzione, che sola avrebbe potuto sciogliere i nodi del conflitto, e fra essi quelli della responsabilità civile e disciplinare del giudice, è ancora in attesa di attuazione. Gli interventi che sono stati proposti su tali ultimi temi, come del resto su altri attinenti alla giustizia, hanno sempre avuto carattere settoriale(17); non solo, ma in Parlamento le posizioni di chi voleva una riforma tanto della responsabilità civile che di quella disciplinare, e di chi voleva incidere solo su quest'ultima senza toccare le norme del c.p.c., si sono annullate a vicenda, lasciando spazio a quella iniziativa referendaria «per una giustizia giusta» che l'8-11-1987 portò all'abrogazione degli articoli 55, 56 e 74 c.p.c.(18).
La legge 13-4-1988, n. 117, che è seguita al referendum, e a un vivace dibattito in Parlamento dove, oltre al disegno di legge del Ministro Guardasigilli, vennero presentate numerose proposte di legge di iniziativa di singoli parlamentari, è limitata alla responsabilità civile del giudice e porta il titolo «risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati» (19).
Innanzi tutto, la legge n. 117/1988, in conformità con gli indirizzi formulati dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 2 del 1968, sottrae il giudice al regime ordinario della responsabilità civile, fatta eccezione per i danni prodotti «in conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni» (art. 13). Come poi bene è stato detto, la legge n. 117 del 1988 non riguarda tanto la responsabilità del giudice (con l'eccezione, appena ricordata, dei danni conseguenti a reato), quanto «la responsabilità dello Stato, o meglio, dello Stato giudice» (20), o, con ancora maggiore incisività, «non ha l'obiettivo di definire le ipotesi di responsabilità del magistrato, ma soprattutto, se non esclusivamente, quello di definire ed affermare la responsabilità dello Stato per alcuni illeciti del magistrato» (21). In altre parole, si è esclusa, fuori dalle ipotesi di reato, la responsabilità diretta del magistrato per affermare la responsabilità dello Stato nei confronti dei cittadini per i danni (anche « non patrimoniali che derivino da privazioni della libertà personale»: art. 2, 1° co.) causati dal magistrato con dolo, colpa grave o a seguito di diniego di giustizia. Infine, la legge prevede, agli artt. 7 e 8, la cosiddetta azione di rivalsa dello Stato, che abbia risarcito il cittadino «sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale», nei confronti del magistrato. Potrebbe sostenersi che in tal modo si sia in realtà elusa la volontà referendaria: ma già in sede di discussione parlamentare vennero date convincenti risposte a tale possibile obiezione affermandosi che la volontà referendaria «non può andare contro il quadro costituzionale: nella specie, non può violare la normativa costituzionale che garantisce l'indipendenza della magistratura» (22) e che «al cittadino... interessa il risarcimento, non la punizione del magistrato. La punizione del magistrato deve essere una risposta a livelli diversi» (23).
Quanto al profilo soggettivo, la legge n. 117/1988 trova applicazione, ai sensi dell'art. 1, nei confronti di «tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria indipendentemente dalla natura delle funzioni». Specificando maggiormente, la legge si applica a tutti magistrati, compresi quelli del pubblico ministero, e li riguarda sia che operino come giudici monocratici sia che operino in organi collegiali(24). La legge si applica altresì «agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria», e pertanto anche ai giudici di pace, giudici popolari e, in generale, «a tutti i laici che in qualche modo svolgono attività giurisdizionale» (25). Sotto il profilo oggettivo, poi, la legge fa riferimento all'attività giudiziaria, e quindi non solo all'attività giurisdizionale in senso stretto: ciò implica che l'azione di responsabilità sia data, ad esempio, anche nelle ipotesi di giurisdizione volontaria o di attività di sorveglianza e che, di converso, sia esclusa nelle ipotesi di attività di natura amministrativa o organizzativa(26).
Centrale nell'economia della legge è l'art. 2 che sotto il titolo «responsabilità per dolo o colpa grave» afferma in realtà una serie di principi fondanti dell'intero sistema. Innanzi tutto, il 1° co. pone il principio, su cui si basa la legge, della responsabilità diretta dello Stato, affermando che il cittadino può agire contro lo Stato (nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri), e collegandosi così con l'art. 7, che dà allo Stato l'azione di rivalsa, e con l'art. 13, che consente al cittadino di agire direttamente contro il giudice nell'ipotesi in cui il danno subito sia conseguenza di un fatto costituente reato già accertato con sentenza passata in giudicato(27). In secondo luogo, la disposizione in esame afferma il principio della risarcibilità di qualunque «danno ingiusto», patrimoniale, o, come si è già ricordato, anche non patrimoniale quando derivi da privazione della libertà personale. In terzo luogo, l'art. 2 limita oggettivamente le ipotesi di responsabilità del giudice — in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale e al fine di porre al riparo il giudice da iniziative strumentali e/o vessatorie —, individuandone i titoli nel dolo, nella colpa grave, e nel diniego di giustizia. Mentre l'ipotesi del diniego di giustizia è ampiamente precisata nel successivo art. 3 quanto ai comportamenti che la integrano e alle condizioni per farla valere e, soprattutto, quanto al «solito inevitabile e improbabile sistema di messe in mora e di proroghe, per giustificato motivo» (28), e nulla si dice con riferimento al dolo che, peraltro, secondo la prevalente dottrina, deve concretizzarsi in una condotta penalmente rilevante(29), la norma in esame si diffonde più estesamente sulla identificazione delle ipotesi di colpa grave. Non c'è dubbio che la previsione della colpa grave rappresenti una estensione importante rispetto ai titoli di responsabilità previsti nelle norme abrogate del codice di rito; resta tuttavia il dubbio che le specificazioni contenute nella norma in esame sottraggano all'innovazione legislativa gran parte della sua rilevanza(30). Da un lato, costituisce infatti fonte di colpa grave, oltreché, nel processo penale, l'emissione di provvedimenti restrittivi fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione, la negligenza inescusabile che si traduce in grave violazione di legge, o nell'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti processuali, o nella negazione di un fatto la cui esistenza risulta invece incontrastabilmente dagli atti del procedimento. Dall'altro, il 2° co. dello stesso art. 2 sottrae ad ogni responsabilità, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, quelle «che sono le attività tipiche dell'attività giudiziaria» (31), ossia l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove. La legge prevede poi le condizioni, alle quali è subordinata l'esperibilità dell'azione di responsabilità, che è in ogni caso di competenza del tribunale nella composizione collegiale(32), ed è soggetta a rigorosi termini di decadenza. Ai sensi infatti dell'art. 4, l'azione può essere esercitata quando sono stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione, o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. L'art. 5, dal canto suo, prevede che il tribunale adito si esprima in limine litis in camera di consiglio, dopo aver sentito le parti, sull'ammissibilità dell'azione, da verificare sia in relazione al rispetto dei termini e dei presupposti di essa di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge sia ai fini della valutazione della sua eventuale manifesta infondatezza(33). Alla dichiarazione di ammissibilità fa seguito, oltre alla prosecuzione del processo, la trasmissione degli atti ai titolari dell'azione disciplinare (artt. 5, 5° e 9° co.), configurandosi in tal modo l'unica ipotesi prevista dall'ordinamento di azione disciplinare obbligatoria (v. infra, par. 6).
Non c'è dubbio che condizioni di proponibilità dell'azione e filtro di ammissibilità, cui si è appena accennato, costituiscano ostacoli non di poco conto sulla via della realizzazione dell'obiettivo di garantire ai cittadini il risarcimento dei danni ingiusti e che, con particolare riferimento alla disciplina dell'ammissibilità, non manchino perplessità in ordine alla sua legittimità costituzionale(34). Tuttavia, non può non convenirsi, riguardo alle condizioni di proponibilità della domanda, sull'opportunità di strumenti vòlti a impedire che l'azione di responsabilità possa presentarsi come un'alternativa ai normali mezzi di impugnazione (o opposizione), ovvero che possa sovrapporsi al processo civile o penale nell'ipotesi in cui il magistrato, autore del provvedimento che si assume lesivo, sia ancora coinvolto nel processo(35); e, riguardo al filtro di ammissibilità, non può poi non convenirsi sull'opportunità «di introdurre un meccanismo di deterrenza a monte contro azioni temerarie, artificiose, fittizie, di mera turbativa, in una materia delicatissima perché ha insito il pericolo di compromettere il corretto esercizio della funzione giurisdizionale» (36).
Gli artt. 7 e 8 regolano l'azione di rivalsa dello Stato (nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri: art. 8, 1° co.) nei confronti del magistrato responsabile (e, con alcune particolarità, nei confronti degli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie: v. art. 8, 4° co.). Le norme in oggetto dispongono altresì che l'azione deve essere proposta di fronte al tribunale, individuato con criteri analoghi a quelli indicati nell'art. 4, 1° co., entro il termine (previsto a pena di decadenza) (37)di un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale stipulato dopo la dichiarazione di ammissibilità di cui all'art. 5(38), e che, nelle ipotesi diverse dal dolo, il magistrato potrà rispondere solo fino ad un terzo dello stipendio annuo, al netto delle trattenute fiscali, percepito al tempo della proposizione dell'azione contro lo Stato(39).
Al fine di evitare che l'azione di rivalsa possa essere diretta nei confronti di quei componenti di collegi giudicanti che hanno espresso un voto diverso da quello della maggioranza, la legge 117 ha introdotto, all'art. 16, che così modifica gli artt. 131 c.p.c. e 148 c.p.p., una piccola breccia al principio della segretezza della deliberazione della sentenza e della impersonalità della stessa prevedendo che di ogni deliberazione collegiale sia redatto processo verbale, «il quale deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione e del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise». Il verbale dovrà essere custodito in cancelleria in plico sigillato e trasmesso, su richiesta, al tribunale della rivalsa(40).
Non è chiaro, a proposito dell'azione di rivalsa, se questa debba o meno considerarsi obbligatoria. Da un lato, non c'è dubbio che «la non obbligatorietà della rivalsa finirebbe per costituire un terreno di ingerenza da parte dell'esecutivo e, quindi, una minaccia per l'indipendenza della magistratura» (41) e, aggiungiamo noi, soprattutto per l'indipendenza e l'imparzialità del singolo magistrato; dall'altro, è altrettanto vero che la legge prescrive espressamente l'obbligatorietà dell'azione disciplinare, prevedendo all'art. 9, 1° co., che i titolari la «devono esercitare», mentre all'art. 7, 1° co. usa per l'azione di rivalsa la diversa espressione «lo Stato... esercita», e che la previsione di un (breve) termine di decadenza per la proposizione dell'azione di rivalsa, se, e proprio perché «risponde allo scopo di limitare nel tempo l'incertezza circa la proposizione dell'azione..., in quanto tale incertezza viene a turbare la serenità in cui... deve poter operare il giudice» (42), può portare anch'essa argomenti di non poco conto a favore della facoltatività. Pur in questa ambiguità, sembra doversi preferire, in ragione della sua maggiore coerenza con il quadro costituzionale, la tesi favorevole all'obbligatorietà dell'azione di rivalsa(43).
Se, a conclusione del nostro rapido esame della legge n. 117 del 1988, si volesse procedere ad un confronto fra il regime inaugurato da tale legge, e quello, abrogato per mezzo di referendum, degli artt. 55, 56 e 74 del codice di rito, si potrebbe, ritengo, convenire con chi ha scritto «[L]a montagna (della campagna referendaria e del referendum) ha... finito col partorire un topolino» (44) e aggiungere che, dati i valori in gioco, probabilmente era questo l'unico risultato realisticamente possibile(45). Se la legge bene ha fatto, seguendo una tendenza che emerge con chiarezza a livello comparativo, a muovere dalla responsabilità del giudice alla responsabilità dello Stato-giudice, che tutela maggiormente il danneggiato e al tempo stesso colloca uno «schermo» o «scudo» (46) fra giudice e danneggiato; le condizioni cui è sottoposta l'operatività della legge possono portare a «concludere che assai poco è cambiato e che la responsabilità civile del magistrato era e resta ipotesi priva di vera consistenza» (47) — conclusione senz'altro autorizzata anche dall'assenza di significativa giurisprudenza nel nuovo regime non meno che nel vecchio.
Non mancano i problemi neppure con riferimento alla responsabilità disciplinare del giudice, che continua tuttora ad essere sostanzialmente regolata dalla legge sulle guarentigie, ossia dal r.d.lg. 31-5-1946, n. 511, e che è anch'essa da tempo oggetto di dibattito e di progetti di riforma.
Il procedimento disciplinare, così come tratteggiato nel decreto del 1946 appena ricordato, nella legge 24-3-1958, n. 195, istitutiva del CSM, e nella legge 3-1-1981, n. 1, è piuttosto semplice nel suo schema. L'iniziativa spetta, per l'art. 107, 2° co., della Costituzione, al Ministro di grazia e giustizia e, in virtù dell'art. 14 della legge 195/1958, anche al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Salvo il caso previsto dall'art. 9 della legge n. 117/1988, l'iniziativa dell'azione disciplinare è facoltativa. Ai sensi poi dell'art. 12 della legge 1/1981, che ha accolto le critiche rivolte alla imprescrittibilità dell'azione disciplinare, l'esercizio della stessa è sottoposto a termine. L'organo competente ad esercitare la giustizia disciplinare è un apposita sezione del CSM la cui composizione, stabile per tutta la consiliatura, è fissata in nove membri effettivi e sei supplenti dall'art. 1 della legge n. 1/1981(48). Contro le decisioni della sezione disciplinare è ammesso ricorso alle sezioni unite civili della Corte di cassazione(49).
Lo svolgimento del procedimento disciplinare è improntato ai principi che informano il processo penale — ancora quello regolato dal vecchio codice, nonostante che l'art. 17(1) del d.lg. 28-7-1989, n. 273, prevedesse un periodo massimo di due anni (portato a tre dal d.l. 31-12-1991, n. 418, conv. in l. 24-2-1992, n. 173) «per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale». Il magistrato incolpato può farsi assistere all'udienza dibattimentale — che oggi è pubblica ai sensi dell'art. 1 della legge 12-4-1990, n. 74 (50) — da altro magistrato (art. 34 del r.d.lg. 511/1946); per effetto di una recente sentenza della Corte costituzionale, il magistrato difensore può essere anche nominato d'ufficio dalla sezione disciplinare(51). Le sanzioni principali sono quelle indicate dagli artt. 19-21 del r.d.lg. 511/1946, ossia l'ammonimento, la censura, la perdita dell'anzianità, la rimozione e la destituzione(52). Sono poi previste sanzioni accessorie (la possibilità di disporre il trasferimento d'ufficio del magistrato colpito da sanzione più grave dell'ammonimento: art. 21, 6° co. del r.d.lg. 511/1946); e varie sanzioni paradisciplinari, ossia la privazione dello stipendio per violazione dell'obbligo di residenza (art. 12, r.d.lg. 30-1-1942, n. 12), il trasferimento ad altra sede ai sensi e per i motivi indicati nell'art. 2, 2° co. del r.d.lg. 511/1946 — sanzioni, queste ultime due, che possono essere disposte dal CSM indipendentemente dall'instaurazione del procedimento disciplinare — e la dispensa dal servizio di cui all'art. 35, 2° co. dello stesso r.d.lg. Gli artt. 30 e 31 dello stesso decreto prevedono infine le ipotesi in cui il magistrato può, o deve, essere sospeso dalle funzioni e dallo stipendio.
I principali problemi della responsabilità e dell'azione disciplinari, sui quali si ritiene di dover soffermare l'attenzione, riguardano la titolarità dell'azione disciplinare e la tipizzazione degli illeciti disciplinari. Sul primo punto, va ricordato che mentre l'art. 107, 2° co. della Costituzione attribuisce al Ministro di grazia e giustizia la facoltà di promuovere l'azione disciplinare, l'art. 14, n. 1 della legge 24-3-1958, n. 195, oltre a confermare la predetta disposizione costituzionale, estende la facoltà di promuovere l'azione disciplinare al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, nella sua qualità di pubblico ministero presso la sezione disciplinare del CSM, riproducendo così la doppia titolarità del sistema precedente alla Costituzione, in luogo di quella unititolarità che l'art. 107 sembra voler indicare(53). In ordine a tale estensione, sembrano da condividere i dubbi di costituzionalità da più parti avanzati, dubbi che peraltro mai hanno potuto essere sottoposti alla Corte costituzionale, dato che la relativa eccezione è sempre stata ritenuta manifestamente infondata tanto dalla sezione disciplinare, quanto dalle sezioni unite della Cassazione, in base all'argomento che l'art. 107 ha solo inteso costituzionalizzare l'iniziativa del Ministro, ma non preclude al legislatore ordinario la possibilità di estendere la legittimazione ad altri organi(54). Nella pratica, e già da tempo, il regime della doppia titolarità ha avuto come conseguenza la emarginazione del potere di iniziativa del Ministro, che ha così «abdicato ad una essenziale funzione di collegamento dell'organizzazione giudiziaria con il potere politico» (55), e l'assunzione di un ruolo primario da parte del Procuratore generale «organo politicamente irresponsabile, col rischio di chiusure corporative» (56).
Il problema della tipizzazione degli illeciti disciplinari nasce dalla genericità della formulazione dell'art. 18 del r.d.lg. 511/1946, che rende sanzionabile «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario» (57). Tale genericità è tanto più grave in quanto il procedimento disciplinare, che ha carattere giurisdizionale, si ispira al processo penale(58), ma contrariamente a questo non è informato al principio di legalità e alla conseguente necessaria tassatività delle ipotesi di reato. Si aggiunga che la genericità dell'illecito disciplinare «accresce in maniera imprevedibile l'ampia discrezionalità di cui sono già forniti i titolari dell'azione disciplinare, impedendo inoltre il controllo sui modi di esercizio che sarebbe agevolato se si pervenisse ad una qualche tipizzazione» (59), e rende difficile l'identificazione del rapporto «fra i singoli comportamenti disciplinarmente sanzionabili e le relative sanzioni, rapporto che... non è dato desumere neppure a posteriori dalla giurisprudenza disciplinare pubblicata dal CSM perché le raccolte si limitano a render nota la massima, senza indicare quale sanzione è seguita in concreto all'accertamento dell'illecito» (60). La questione di costituzionalità dell'art. 18 e stata tuttavia giudicata infondata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 100 dell'8-6-1981(61). Ciononostante, il dibattito sul punto è tutt'altro che sopito. In dottrina, il consenso e pressoché unanime nella denuncia dell'estrema genericità dell'illecito disciplinare e nei pericoli che ciò comporta per l'indipendenza del giudice; la giurisprudenza disciplinare, dal canto suo, continua ad essere sostanzialmente improntata alla massima comprensione ed indulgenza — un probabile segnale, anche questo, dell'inefficacia di norme del tipo di quella contenuta nell'art. 18 del r.d.lg. 511/1946, e della sostanziale irresponsabilità, sul piano disciplinare non meno che sul piano civile, del giudice(62); a livello legislativo, l'attività progettuale è stata intensa, fino al momento in cui scriviamo, sicché non resta che auspicare che il legislatore si decida, finalmente, a dare una risposta adeguata ad una istanza assai diffusa(63).
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(1) Così Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 2.
(2) Cfr. ancora Vigoriti, op. ult. cit., 10. Si rammenta che è caduto, ad opera dell'art. 16 della l. 26-4-1990, n. 86, il 2° co. dell'art. 328, che, così come modificato dall'art. 17 della l. 13-4-1988, n. 117, recitava: «[S]e il pubblico ufficiale è un magistrato, vi è omissione o ritardo quando siano decorsi i termini previsti dalla legge perché si configuri diniego di giustizia». Sul punto v. cenni in Antolisei, Manuale p. spec., II, Milano, 1995, 339 s.
(3) Cfr. per qualche cenno Vigoriti, op. ult. cit., 6-7.
(4) Giudici irresponsabili?, cit.
(5) La responsabilità, cit.
(6) Le responsabilità, cit.
(7) Il leading case inglese è Floyd v. Barker, 12 Co. 25 (1608), mentre per gli Stati Uniti d'America si fa riferimento a Bradley v. Fisher, 80 US 335 (1871).
(8) Per diffusi riferimenti storico-comparativi si rinvia alle opere di Cappelletti, Giuliani e Picardi, Vigoriti cit. supra, rispettivamente nt. 4, 5 e 6. Si rinvia inoltre a Vigoriti, Responsabilità del giudice, II, cit. e ai contributi raccolti in Giuliani e Picardi, L'educazione giuridica, III, cit. e in CSM, Giurisdizione e responsabilità, cit.
(9) Sul passaggio dalla responsabilità del giudice alla responsabilità dello Stato-giudice, v. Giuliani e Picardi, La responsabilità, cit., 253 ss.
(10) La sentenza può vedersi, fra l'altro, in GiC, 1968, I, 288 ss. con nota di E. Casetta, La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici — una illusione del costituente?
(11) Oltre alla legislazione francese fino al 1933, cfr., per la limitazione della responsabilità del giudice alle ipotesi di dolo, l'esperienza belga e quella tedesca. Sulla prima, v. Silance, La responsabilité du juge en droit belge, in Giuliani e Picardi, L'educazione giuridica, III, cit., 421 ss., nonché la relazione di Storme in CSM, Giurisdizione e responsabilità, cit., 346 ss.; sull'ordinamento tedesco, v. le relazioni di Grunsky e Grimm, in CSM, supra, 123 ss., e Walter, La responsabilità del giudice nel diritto tedesco, cit., 441 ss. Sull'evoluzione del diritto francese, che, appunto, fin dal 1933, estende alla «colpa grave professionale» la responsabilità del giudice, si vedano gli ampi saggi di De Vita, La responsabilità civile, cit., e A mali estremi, cit., nonché la relazione di Perrot e Thery, in CSM, supra, 81 ss. Sulla Spagna, v. le relazioni di Garcia Manzano e di Montero Aroca, in CSM, supra, 152 ss. Per quanto riguarda i Paesi che tradizionalmente estendono la responsabilità del giudice all'ipotesi di colpa grave, v. i cenni in Cappelletti, Giudici irresponsabili?, cit., 59, e ivi riferimenti bibliografici. V. anche i contributi di Sentis Melendo, su Spagna e Argentina, di Buzaid, sul Brasile, di Fragistas, sulla Grecia, di Koura, sull'Egitto, in Giuliani e Picardi, supra.
(12) Cfr. Trocker, La responsabilità, cit., 1313; Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 5.
(13) V. ancora Vigoriti, op. et loc. ult. cit.
(14) Così Vigoriti, op. ult. cit., 4.
(15) Così ancora Vigoriti, op. ult. cit., 5. Cfr. pure Cappelletti, Giudici irresponsabili?, cit., 61, anche per riferimenti alla del tutto analoga situazione belga.
(16) Così Picardi, Introduzione, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1208.
(17) A fronte di un codice di procedura penale che è stato l'unico intervento sistematico che ha ridefinito i principi di fondo del processo penale, si pone, emblematica, la vicenda del codice di procedura civile. In questo settore, come è noto, è stato accantonato ogni disegno coerente, e di ampio respiro, di riforma per far fronte alle emergenze della giustizia civile: v. da ultimo, i «provvedimenti urgenti per il processo civile» introdotti con la l. 26-11-1990, n. 353.
(18) Cfr. in argomento Picardi, Introduzione, cit., 1210-1212. Il referendum sugli articoli 55, 56 e 74 del c.p.c. è stato ammesso dalla Corte costituzionale con sentenza 3-2-1987, n. 26, FI, 1987, I, 637 ss.
(19) Per una rassegna delle varie iniziative legislative, v. Picardi, Introduzione, cit., 1211, testo e nt. 60-62. La l. n. 117, oltre alle norme sulla responsabilità civile, contiene la regolamentazione di altre materie, quali la costituzione di un organo di autogoverno della Corte dei conti (artt. 10-12), le modifiche dei codici di procedura civile e penale con riferimento ai provvedimenti collegiali (art. 16), la modifica dell'art. 328 del codice penale (art. 17), su cui v. supra, nt. 2.
(20) Così Picardi, Introduzione, cit., 1212 testo e nt. 64.
(21) Così Corsaro e Politi, La cosiddetta responsabilità del giudice, GI, 1989, IV, 368.
(22) Così l'on. Rodotà nella seduta del 19-12-1987, citato da Picardi, Introduzione, cit., 1212, n. 64.
(23) Così il sen. Acone nella seduta del 4-2-1988, ancora citato da Picardi, op. et loc. ult. cit.
(24) Sull'art. 16, v. infra, testo e nt. 40.
(25) Così Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 15. Sulla (pacifica) applicabilità ai giudici di pace di cui alla l. 21-11-1991, n. 374, v. Vullo, Commento all'art. 10, in Consolo e Tommaseo, Commentario alla l. 21-11-1991, n. 374. Istituzione del giudice di pace, NLCC, 1995, 676: «[R]esta peraltro dubbio» aggiunge l'Autore «se l'azione di rivalsa contro i giudici di pace possa essere esperibile solo in caso di dolo — come già per il conciliatore, ex art. 7, 2° co., l. n. 117/88 — o se invece non sia più appropriato avvicinare la sorte dei giudici di pace a quella dei — come loro giurisperiti, anche se non retribuiti — vice pretori onorari».
(26) Cfr. Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 15; Martino, Commento all'art. 1, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1224.
(27) Nell'ipotesi dell'art. 13, non è peraltro esclusa la possibilità
dell'azione risarcitoria contro lo Stato, e il diritto di quest'ultimo al regresso nei confronti del magistrato «secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti»: cfr. Capponi, Commento all'art. 13, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1384.
(28) Il giudizio, fortemente critico, e scettico, sulla operatività concreta della norma, è di Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 15.
(29) Cfr. Briguglio e Siracusano, Commento all'art. 2, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit. 1282-87.
(30) Cfr., in tal senso, Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 15; Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 101, 110.
(31) Vigoriti, op. et loc ult. cit.
(32) V. l'art. 48, 2° co., n. 7 del r.d. 30-1-1941, n. 12, così come modificato dall'art. 88 della l. 26-11-1990, n. 353. Quanto alla competenza territoriale, si tratta di norma del tribunale del luogo in cui ha sede la corte d'appello del distretto più vicino a quello ove trovasi l'ufficio del giudice responsabile: così l'art. 4, 1° co. della l. n. 117/1988, che si ispira ai criteri enunciati nella l. 22-12-1980, n. 879, ripresi dall'art. 11 del codice di procedura penale in tema di competenza per i procedimenti riguardanti magistrati. Ad analoghi criteri si ispira la competenza per l'azione di rivalsa di cui all'art. 8, 2° co.
(33) La legge è esplicita nel prevedere che solo il decreto motivato che dichiara l'inammissibilità dell'azione è «impugnabile con i modi e le forme di cui all'art. 739 del codice di procedura civile, innanzi alla corte d'appello», mentre l'eventuale decreto di inammissibilità pronunciato da quest'ultima è ricorribile per cassazione nei modi e nelle forme previste dall'art. 5, 4° co. della legge. Il decreto che dichiara l'ammissibilità dell'azione non è invece impugnabile, ed ha la funzione di consentire al processo di proseguire nelle forme ordinarie. Un problema delicato che insorge a proposito del giudizio preliminare di ammissibilità è quello relativo alla esperibilità di attività istruttorie in quella sede: gli argomenti a favore o contro tale possibilità sostanzialmente si equivalgono, e nessuno di essi è decisivo. È evidente che quanta più attività istruttoria si consente, tanto più si estende l'area della manifesta infondatezza. Pertanto, mi sembra da condividere l'auspicio formulato sul punto da Proto Pisani, Il giudizio, cit., 422, secondo il quale «stante la pericolosità del giudizio di ammissibilità sarà buona regola in ogni situazione di incertezza dichiarare ammissibile la domanda e consentirne quindi l'esame nelle forme garantiste della cognizione piena». Sostanzialmente nella stessa direzione si muove Vaccarella, Commento all'art. 5, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1319 s.
(34) V. diffusamente sul punto Proto Pisani, Il giudizio, cit., 424.
(35) V. ancora, nel senso del testo, Proto Pisani, op. ult. cit., 414, dove parla del principio fissato nel 2° co. dell'art. 4 della legge come di un vero e proprio principio di civiltà giuridica.
(36) Proto Pisani, op. ult. cit., c. 420.
(37) Nel senso del testo, v. Cipriani, Il giudizio, cit., 432; Consolo, Sul giudizio, cit., 238.
(38) Sottolinea opportunamente Cipriani, Il giudizio, cit., 433, che «se lo Stato transige la controversia col (preteso) danneggiato ancor prima che questi abbia ottenuto la dichiarazione di ammissibilità... l'azione di rivalsa è implicitamente ma chiaramente esclusa dalla legge, la quale, evidentemente, considera il "filtro" del giudizio di ammissibilità come posto a tutela non solo e non tanto dello Stato... ma anche e soprattutto del magistrato». In ogni caso, nel giudizio di rivalsa promosso sulla base di un risarcimento non effettuato in forza di sentenza, «lo Stato deve sempre provare la responsabilità del convenuto..., il nesso di causalità col danno lamentato da chi ha ottenuto il risarcimento e l'ammontare del danno medesimo»: così ancora Cirpiani, op. et loc. ult. cit.
(39) Martino, Commento agli artt. 7-8, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1337, sottolinea come non manchino nell'ordinamento altri casi di limiti all'ammontare dell'obbligo risarcitorio, atti ad assicurare l'equilibrato componimento degli interessi in gioco: la limitazione prevista dalla l. n. 117 appare «finalizzata, in ultima analisi, a contemperare l'interesse dei terzi ad un integrale ristoro del danno con il principio di indipendenza e imparzialità del giudice». Rileva Cipriani, Il giudizio, cit., 436, con una sfumatura critica, che, tenendo anche conto del fatto che la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio del tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, non si può certo dire che «il legislatore, almeno sotto il profilo strettamente economico» abbia «inteso adoperare la mano pesante nei confronti dei giudici responsabili per colpa».
(40) Sulla legittimità dell'art. 16 si è espressa la C. Cost. nella sentenza n. 18 del 19-1-1989, CiC, 1989, 62 ss. La sentenza è assai importante perché in essa la Corte prende posizione con chiarezza, e in termini generali che trascendono l'occasione concreta della pronuncia, sul fatto che «nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra l'indipendenza del giudice e segretezza... quale mezzo per assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della decisione», e che il segreto della camera di consiglio «costituisce... materia di scelte legislative e nulla ha a che vedere con la garanzia di indipendenza del giudice». Per commenti e rilievi critici sull'art. 16, e in particolare sulla macchinosità del processo di verbalizzazione, v. Cipriani, Il giudizio, cit., c. 440, nonché Capponi, Commento all'art. 16, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1394 ss.
(41) Questa è l'opinione, che sembra da condividere, di Giuliani e Picardi, La responsabilità, cit., 207, 247, n. 42.
(42) Così Martino, Commento agli artt. 7-8, in Picardi e Vaccarella, Commentario, cit., 1341.
(43) Volendo, anche dall'art. 8, 1° co., della l. 117, potrebbero desumersi argomenti a favore dell'obbligatorietà, pur se tale disposizione può apparire diretta ad affermare piuttosto la legittimazione esclusiva del Presidente del Consiglio a promuovere l'azione di rivalsa, piuttosto che l'obbligatorietà di questa. In dottrina, si esprimono a favore della obbligatorietà Cipriani, Il giudizio, cit., 432; Martino, op. et loc. ult. cit.; Pintus, Responsabilità, cit., 1480. Non prende posizione Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 15.
(44) Cipriani, Il giudizio, cit., 430. Cfr. anche Pizzorusso, L'organizzazione, cit., 222.
(45) Aggiunge incisivamente Cipriani, op. et loc. ult. cit.: «l'esito del referendum non poteva non fare i conti con la realtà... non si poteva certo consentire, e non lo si è consentito, che ogni errore del giudice potesse portare ad un'azione di responsabilità; non si poteva consentire, e non lo si è consentito, che ogni parte ingiustamente danneggiata da un provvedimento giurisdizionale potesse sol per questo ottenere, dallo Stato o dal giudice..., un risarcimento».
(46) La prima espressione è usata da Giuliani e Picardi, La responsabilità, cit., 267; la seconda da Cappelletti, Giudici irresponsabili?, cit., 50.
(47) Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 16.
(48) Sulla natura giurisdizionale della sezione disciplinare del CSM si è espressa la Corte costituzionale nella sentenza n. 12 del 2-2-1971, in Giurisprudenza costituzionale, 1971, 89 ss. Dubbi, anche di ordine costituzionale, sulla sezione disciplinare esprimono Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 115 ss.: da un lato, «la sezione disciplinare... ha la competenza a decidere senza che il CSM nel suo plenum possa in alcun modo partecipare alla deliberazione stessa, né direttamente né con il riesame di quanto abbia deciso la sezione... Ciò viola il principio dell'unità dell'organo complesso...»; (118) dall'altro, in contrasto con l'art. 104 Cost., «per tutta la durata della consiliatura restano per sempre esclusi dalla sezione disciplinare buona parte dei suoi componenti» (119), e in contrasto con l'art. 105 Cost., che affida la giurisdizione disciplinare al CSM, «la legge istitutiva ordinaria, eccedendo il legislatore dai suoi poteri, la affida ad una sezione ridotta del CSM...» (119). Si tratta di rilievi non privi di merito, anche se si può forse obiettare che, da un lato, l'attribuzione della giurisdizione disciplinare al plenum del CSM renderebbe eccessivamente macchinoso il procedimento disciplinare e finirebbe per assorbire la quasi totalità del tempo dei consiglieri; dall'altro, che la previsione di una durata quadriennale del mandato dei giudici disciplinari risponde a finalità di precostituzione del giudice.
(49) Così l'art. 17 della l. 195/1958 e l'art. 60 del d.p.r. 16-9-1958, n. 916. Rilevano Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 142, che «[E]ssendo il giudizio disciplinare regolato dalle norme del codice di procedura penale, non si comprende perché il legislatore ha disposto che il riesame in sede di ricorso per Cassazione, debba avvenire dinanzi alla sezione civile a sezioni unite, che istituzionalmente risulta competente per materie di diverso oggetto». Lo schema di disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 2-8-1996 e comunicato alla Presidenza del Senato l'11-9-1996 (XIII Legislatura, n. 1247) avente ad oggetto «norme in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati ordinali, di incompatibilità e di incarichi estranei ai compiti di ufficio», all'art. 20, 2° co., prevede che il ricorso sia invece proposto alle sezioni unite penali.
(50) L'art. 16, 2° co. dello schema di d.d.l. citato alla nt. precedente ritorna a stabilire che «l'udienza non è pubblica, tranne diversa richiesta dell'incolpato; tuttavia, anche in questo caso, la sezione disciplinare, sentito il pubblico ministero, può disporre che la discussione non sia pubblica a tutela della credibilità della funzione giudiziaria, con riferimento ai fatti contestati ed all'ufficio che l'incolpato occupa». Nella Relazione di accompagnamento al d.d.l. si afferma che «si è ritenuto, in tal modo, di bilanciare l'interesse alla conoscibilità di una vicenda il cui iter processuale e la cui conclusione non debbono rimanere all'interno dell'ordine, con l'interesse alla credibilità della funzione che quel magistrato, di regola, continuerà ad esercitare». Non pare, peraltro, che la non pubblicità delle udienze, cui il d.d.l. torna, possa essere considerata in linea con il principio della pubblicità previsto, con limitatissime eccezioni, dall'art. 6, 1° co. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
(51) C. Cost., 8-6-1994, n. 220, FI, 1995, I, 37, con nota di Acone, Difesa, autodifesa e difesa tecnica nel giudizio davanti alla sezione disciplinare del CSM. La stessa Corte, con sentenza 13-4-1995, n. 119, FI, 1995, I, 1401, ha ammesso la possibilità dell'autodifesa del magistrato nel procedimento disciplinare «in considerazione della riconosciuta attitudine di chi è professionalmente investito di funzione giurisdizionale, a far derivare esclusivamente dalla propria valutazione tecnica la linea difensiva circa i comportamenti che gli vengono contestati come illecito disciplinare». Larga parte della dottrina avanza seri dubbi «sulla congruenza costituzionale dell'obbligo della scelta corporativa del difensore con esclusione dell'assistenza di un difensore di professione» la cui «ragione vera» è «quella di mantenere la procedura, per un malinteso interesse alla riservatezza, nello stretto ambito della corporazione dei giudici» (Acone, supra, c. 43 s). Cfr. anche Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 135 ss. L'art. 14, 1° co., del citato schema di d.d.l. del 2-8-1996, prevede ora che l'incolpato può farsi assistere da altro magistrato o da un avvocato, nonché, se del caso, da un consulente tecnico.
(52) Fra rimozione e destituzione «esiste adesso solo una differenza di carattere morale»: Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 6.
(53) Cfr. in argomento Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 120 ss. Analogo regime di doppia titolarità è previsto dall'art. 13, 1° e 2° co., del d.d.l. del 1996 citato alla nt. 49.
(54) Cfr. Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 122.
(55) Così Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 124.
(56) Così Giuliani e Picardi, La responsabilità, cit., 239, n. 23. Può essere curioso, in proposito, notare che la Relazione al d.d.l. del 1996, citato alla nt. 49, difende il mantenimento del regime di doppia titolarità proprio appoggiandosi alla prassi cui si accenna nel testo, prassi che dovrebbe essere considerata abnorme: «Si è conservata la doppia titolarità dell'azione, respingendo la tesi dell'esclusivo esercizio da parte del Ministro, sia perché potrebbe risultare troppo gravosa la gestione esclusiva di questo potere di iniziativa da parte del Ministro sia perché la doppia titolarità asseconda la prassi secondo cui il procuratore generale si occupa prevalentemente di illeciti riguardanti la deontologia professionale» 97).
(57) Altre ipotesi di responsabilità disciplinare possono scaturire da violazioni di disposizioni contenute in una varietà di altri provvedimenti legislativi: cfr. Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 7.
(58) Cfr. Giacobbe e Nardozza, Potere e responsabilità, cit., 125, testo e nt. 13.
(59) Così Giacobbe e Nardozza, op. ult. cit., 133. Gli stessi Autori rilevano anche che «il discorso sulla facoltatività dell'azione disciplinare del Ministro..., potrebbe essere impostato in maniera completamente diversa se si arrivasse alla tipizzazione degli illeciti;... il sistema tenderebbe ... ad orientarsi verso l'obbligatorietà, diventando difficile per il Ministro non esercitare l'azione in presenza di comportamenti specificamente previsti come illeciti disciplinari» (128). Si potrebbe tuttavia rispondere che proprio a questo può servire il sistema della doppia titolarità: mentre al Ministro, organo politico, non può essere negata la facoltatività, prevista proprio dalla Costituzione, tenderà a orientarsi verso l'obbligatorietà, quanto più tipizzato è l'illecito disciplinare, l'iniziativa del Procuratore generale.
(60) Così Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 8.
(61) In FI, 1981, I, c. 2360 ss., con nota di Cantisani, Il «buon giudice» ed i suoi censori. La Corte ritenne innanzi tutto non pertinente il richiamo al principio di legalità di cui all'art. 25, 2° co., della Costituzione: da un lato, tale norma si riferisce alla sola materia penale e non è di conseguenza estensibile a situazioni, come gli illeciti disciplinari, estranee all'attività del giudice penale, pur se con questa possono presentare, per determinati aspetti, una qualche affinità; dall'altro, il principio di legalità è comunque rispettato in quanto la norma incriminatrice, pur nella sua inevitabile elasticità, si riferisce a concetti di comune esperienza e valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall'interprete. In secondo luogo, la Corte negò l'esistenza di un contrasto fra l'art. 18 del r.d.lg. 511/1946 e l'art. 21, 1° co. della Costituzione, in quanto la norma ordinaria non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni ma ne vieta soltanto l'esercizio anomalo, e cioè l'abuso.
(62) Cfr. Vigoriti, Responsabilità, I, cit., 8, 9.
(63) Anche gli artt. 2, 3, 4 del recente schema di d.d.l. del 2-8-1996, citato alla nt. 49, contengono una adeguata tipizzazione degli illeciti disciplinari, distinti a seconda che siano commessi nell'esercizio delle funzioni o al di fuori di esso, o conseguenti a reato.
Il problema della responsabilità del magistrato, intesa, quest'ultima, come soggezione del giudice alle conseguenze giuridiche della sua condotta nell'esercizio della funzione giudiziaria, si colloca nel nostro ordinamento alla confluenza di varie esigenze (1), ciascuna delle quali si richiama ad altrettanti princìpi di rilievo costituzionale. Poiché, peraltro, nella valutazione della reciproca compatibilità di tali princìpi, alcuni di essi sembrano destinati, se non a soccombere, certo almeno a subire pesanti (e, per taluni, inaccettabili) limitazioni, ogni tentativo di avviare a soluzione il problema di fondo sembra destinato fatalmente a far registrare acuti momenti di crisi nel generale equilibrio della tutela apprestata a tali valori.
Coerentemente con l'estrazione professionale della magistratura, l'ordinamento giuridico italiano non prevede alcuna forma di responsabilità politica dei giudici in connessione con l'esercizio della funzione giudiziaria. Il sindacato politico, infatti, può essere esercitato dal corpo elettorale (2), ovvero dai suoi rappresentanti. Nell'uno e nell'altro caso, la soggezione del giudice alle conseguenze della sua condotta "politica" sarebbe in contrasto con l'art. 101 cost. che, dichiarando il magistrato «soggetto soltanto alla legge» (e quindi non anche al giudizio diretto o indiretto del corpo elettorale), rende inconfigurabile ogni forma di responsabilità politica (3).
L'ordinamento giuridico italiano non prevede neppure (a differenza degli ordinamenti di altri Paesi) un sistema di reati "propri", che cioè può commettere solo il magistrato nell'esercizio della funzione giurisdizionale ed in connessione con quest'ultima (4). L'unica ipotesi di reato che può rivendicare una siffatta autonomia, in quanto realizzabìle esclusivamente da appartenenti all'ordine giudiziario, è quella prevista e punita dall'art. 328 cpv. c.p., per la cui applicabilità nei confronti di giudici e di rappresentanti del pubblico ministero si richiedeva il concorso delle condizioni previste dalla legge per esercitare nei confronti del responsabile l'azione civile. Oggi, a seguito dell'entrata in vigore della l. 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile, l'omissione o il ritardo si verificano quando siano decorsi i termini previsti dalla legge perché si configuri diniego di giustizia.
Per quanto attiene alla responsabilità civile, le uniche norme dell'ordinamento concernenti tale forma di responsabilità e l'assoggettabilità dei giudici all'azione risarcitoria del privato erano, fino alla loro abrogazione a seguito del referendum dell'8 novembre 1987, quelle previste dagli art. 55 e 74 c.p.c. (5). Tali disposizioni, limitando alle ipotesi di frode, dolo (6) e concussione la detta responsabilità, non facevano in pratica che ripetere previsioni normative già contenute nel codice penale, in relazione alle quali la legittimazione all'esercizio dell'azione risarcitoria da parte del danneggiato verso il giudice imputato di concussione (art. 322 c.p.), di interesse privato in atti d'ufficio (art. 324 c.p.) ovvero di abuso innominato di ufficio (art. 323 c.p.), non richiedeva una disciplina espressa, aggiuntiva rispetto a quella dettata dalla legge processuale. Del resto, la stessa parziale previsione di un'ipotesi di denegata giustizia, qual era l'omissione ed il ritardo di atti d'ufficio, riceveva dal codice di rito civile e da quello penale una disciplina "incrociata", nel senso che il legislatore legittimava l'esercizio dell'azione risarcitoria nel preciso momento in cui la condotta dei giudice diventava tipica ai fini della sussistenza del reato. Il rilievo della condotta diventava, in questo come negli altri casi, indiretto, e conseguentemente superflua appariva la sua autonoma previsione nel codice processuale civile.
Tale disciplina legislativa (della cui applicazione non si rinviene traccia negli oltre quarant'anni della sua vigenza) aveva formato oggetto di esame da parte della Corte costituzionale, e una decisione del 1968 (7) non aveva mancato di destare presso gli studiosi perplessità e riserve, sia per l'affermazione in essa contenuta circa la ritenuta conformità costituzionale del regime privilegiato assicurato ai giudici dalle norme denunciate, sia per l'altra affermazione incidentale relativa all'estensione allo Stato della responsabilità civile dei giudici.
La Corte aveva in sostanza affermato l'incompatibilità con l'art. 28 cost. di una disciplina che escludesse, al di là delle ipotesi di errore giudiziario, la responsabilità del giudice (e quindi quella dello Stato), ma non aveva ritenuto irragionevole la previsione di una forma di limitata responsabilità del giudice per gli errori commessi nell'esercizio della sua funzione, trascurando in tal modo di rispondere al quesito se in concreto le norme denunciate prevedessero alcuna di tali ipotesi di limitata responsabilità.
La polemica circa l'opportunità da parte del legislatore di prevedere, sia pure con la preventiva adozione delle necessarie garanzie, forme di responsabilità colposa connesse all'esercizio della funzione giudiziaria è tuttora aperta (8) e, sino alla vigilia del voto referendario, appariva nettamente maggioritaria (e non solo tra gli appartenenti all'ordine giudiziario) la tesi favorevole alla conservazione dello status quo. La tesi muoveva da una sostanziale sfiducia verso i giudici, i quali erano ritenuti capaci, se esposti al rischio di dover risarcire i danni cagionati ai privati per effetto di errori ricollegabili anche al pesante carico di lavoro individuale, di sottrarsi all'adempimento dei propri doveri, e di perdere in tensione morale quanto acquistavano in responsabilità verso gli utenti del servizio. La tesi muoveva anche da un altro tipo di sfiducia: sfiducia verso gli organi che avrebbero dovuto garantire il mantenimento nell'àmbito del fisiologico delle azioni risarcitorie dei privati contro i giudici, e sfiducia verso i magistrati che in ultima analisi avrebbero dovuto valutare la fondatezza delle pretese risarcitorie eventualmente avanzate dai privati verso i loro colleghi.
Un altro terreno che si presenta ricettivo, nella prospettiva di ulteriori interventi modificativi della disciplina vigente, è quello della responsabilità disciplinare (9).
Le ipotesi di illecito che attualmente possono dar luogo a sanzioni di natura disciplinare sono tuttora quelle previste dal vigente ordinamento giudiziario, e che consistono in condotte la cui realizzazione da parte del magistrato è tale da rendere quest'ultimo immeritevole della fiducia e della stima di cui deve godere, o che obiettivamente possono compromettere il "prestigio dell'ordine giudiziario". L'indeterminatezza e l'assoluta genericità della previsione legislativa (10) hanno fatto dubitare della conformità costituzionale, sia di tale disposizione (che appare lesiva del principio di legalità, ritenuto a torto insuscettibile di applicazione al di fuori della sede penalistica sua propria), sia, per altro verso, dell'altra disposizione che, lasciando il magistrato esposto senza limiti di tempo all'esercizio di un'azione disciplinare imprescrittibile, costituiva un permanente attentato alla sua indipendenza (11). Per quanto le relative eccezioni siano state giudicate non fondate dalla Corte costituzionale (12), il legislatore si è dato egualmente carico di avviare a soluzione almeno una parte dei problemi ad esse sottostanti. La l. 3 gennaio 1981, n. 1, infatti, ha modificato il regime di imprescrittibilità dell'azione disciplinare verso i magistrati, come fissato dalla l. 24 marzo 1958, n. 195, fissando in un anno (a partire dal momento in cui i titolari dell'azione disciplinare hanno notizia del fatto che forma oggetto di addebito) il termine per il promovimento dell'azione; ancora in un anno dall'inizio del procedimento, il termine per dare comunicazione all'incolpato del decreto di fissazione della discussione orale, ed in due anni da tale ultima comunicazione il termine per la pronuncia della decisione (13).
Sul rilievo di quanto sin qui detto, sembra intanto lecito concludere che, se non a livello di espressa previsione normativa, certo almeno a livello di prassi applicativa delle leggi vigenti, l'arca di privilegio in cui viene collocato il giudice nella determinazione dei casi in cui questi può essere chiamato a rispondere dei danni cagionati con la sua azione si presenta di tale estensione, anche al di là dei confini nazionali, e riallacciata alla tradizione più recente, da legittimare il dubbio che si tratti di fenomeno ineliminabile. Esso appare tanto strettamente legato alla cultura dominante (e secondo taluni anche alla stessa funzionalità del sistema) da far ritenere che l'unica forma concretamente configurabile di responsabilità a carico del magistrato sia soltanto quella disciplinare (14): un tipo, cioè, di responsabilità, la cui previsione può dissimulare da parte del potere politico il proposito di attentare alla libertà dei singoli magistrati, come è dimostrato dai periodici riesami di cui vengono fatti oggetto i testi legislativi che regolano la delicatissima materia, e dall'interesse che per essa ha manifestato la Corte costituzionale, reiteratamente investita di questioni di legittimità concernenti la detta normativa. Nella prospettiva di una radicale modifica della disciplina delle varie ipotesi di responsabilità del magistrato, non può sottacersi che quando alcuni valori, i quali ricevono riconoscimento e tutela nella legge fondamentale, appaiono tra loro tanto incompatibili che l'affermazione dell'uno passa necessariamente attraverso la negazione dell'altro, l'uso dei criteri sussidiari dell'opportunità e della ragionevolezza, ai quali l'interprete fa frequente ricorso, deve essere accompagnato da particolare circospezione, soprattutto se appare disagevole stabilire gerarchie certe tra i valori in reciproco conflitto, e si vuole allontanare il sospetto che chi compie tale operazione possa in qualche misura essere direttamente interessato alla soluzione del problema di fondo. Questo vale non soltanto quando in reciproca comparazione si trovano i princìpi dell'indipendenza della magistratura e della responsabilità dello Stato e dei pubblici funzionari verso i cittadini che assumono di essere stati danneggiati dalla loro azione, ma anche quando il discorso della compatibilità si allarga al punto di coinvolgere altri valori (come quelli dell'obbligatorietà dell'azione penale, dell'obbligo di riparazione degli errori giudiziari, del diritto dei cittadini di agire e difendersi in giudizio, ecc.) che nella polemica sinora sviluppatasi in tema di responsabilità politica, penale, civile e disciplinare dei magistrati non sembra siano stati oggetto dell'attenzione che pure avrebbero meritato.
I termini del problema sono, come è noto, i seguenti: si tratta di stabilire se una funzione primaria dello Stato moderno - quella cioè attraverso la quale si afferma mediante atti particolari e concreti una volontà manifestata in precedenza mediante atti legislativi aventi carattere generale - debba essere lasciata priva di controllo, per garantire la libertà degli organi tecnici - e perciò imparziali per definizione - ai quali è stata affidata, ovvero se chi detiene la sovranità per investitura popolare possa rivendicare la potestà di introdurre nell'ordinamento strumenti più efficaci di controllo sugli organi tecnici in questione, per evitare il rischio di un esercizio scorretto della funzione ad essi affidata. Come si è avuto occasione di rilevare in precedenza (v. supra, § 2 s.), alla luce della realtà normativa attuale, dei due princìpi sopra richiamati della responsabilità e dell'indipendenza solo il secondo viene ritenuto suscettibile di limitazioni, ove s'intenda anche timidamente affermare il primo (15). Non può peraltro sottacersi che, anche di fronte alle critiche rivolte ai molti regimi di pressoché totale irresponsabilità dei magistrati, ogni limitazione dell'indipendenza di questi ultimi è destinata a riflettersi, in tempi più o meno brevi, sulla libertà di tutti i cittadini, cioè sul bene alla cui tutela l'indipendenza è strumentale, e per altro verso che sullo stesso bene possono in definitiva incidere anche gli abusi che fatalmente accompagnano ogni gestione del potere che rimanga troppo a lungo incontrollata (16). Il problema non può evidentemente essere avviato a soluzione soltanto rispondendo affermativamente alla domanda se sia opportuno, utile e corretto sottoporre genericamente a controllo l'esercizio dell'attività giurisdizionale (17).
Non è infatti in discussione l'esigenza del controllo sulle singole decisioni dei giudici, né l'uso dei rimedi previsti dalle norme processuali, quanto piuttosto la legittimità di controlli sul giudice, come persona che, in quanto investita di un compito tanto difficile e delicato qual è quello di giudicare i propri simili, può commettere errori (di valutazione o d'altro genere), ed essere perciò causa diretta di danni ai cittadini. Ci si interroga quindi se egli, a misura dell'inescusabilità di tali errori, possa essere oggetto di sindacato. Tale ipotetico giudizio di sindacato, da chiunque ed in qualunque sede concepito o formulato, non può che essere considerato un attentato all'indipendenza ed all'imparzialità del magistrato, e ciò, sia nel caso che si lasci quest'ultimo esposto alle azioni risarcitorie dei privati che si ritengano danneggiati dalla sua condotta (ove si privilegi una forma di controllo la cui iniziativa rimanga affidata al privato che abbia subito il danno), sia nell'ipotesi che si privilegino altre e diverse forme di controllo, affidate ad organi pubblici, le quali siano bensì capaci di liberare il giudice dal timore di dover rispondere ai singoli cittadini della propria condotta (con effetti forse paralizzanti per la sua azione), ma non da quello di sentirsi in tal modo esposto ad un subdolo controllo preventivo, e quindi limitativo della sua libertà di decisione. Sia la responsabilità "professionale" del giudice, che quella "disciplinare" (v. supra, § 2) per gli atti lesivi dei diritti dei terzi compiuti nell'esercizio della funzione giurisdizionale appaiono però configurabili all'espressa condizione che le dette funzioni siano oggettivamente assoggettabili ad un sindacato diverso, per contenuto, competenza e condizioni di esercizio, da quello cui nel vigente ordinamento sono assoggettati i provvedimenti giurisdizionali. Deve, in altri termini, trattarsi di un controllo esteso ad atti, provvedimenti o comportamenti i quali siano insuscettibili di riesame in sede giurisdizionale, o per il loro carattere intrinseco, o per altre ragioni (ad esempio: l'avvenuto esaurimento dei rimedi processuali disponibili), ed indipendentemente quindi dal fatto che essi, sebbene capaci di svolgere ancora i loro effetti, siano tuttavia modificabili da altro organo giurisdizionale. Se questo è l'àmbito in cui può essere configurabile una responsabilità del giudice, separata e distinta dall'ordinario sindacato sui suoi provvedimenti, appaiono tutto sommato inutili le distinzioni che si è cercato di introdurre tra sindacato preventivo e sindacato successivo, tra sindacato interno e sindacato esterno: si tratta infatti di controlli che in tutti i casi vengono realizzati da organi giurisdizionali e successivi al fatto che li origina.
Le giustificazioni che alla vigilia del voto referendario venivano addotte a sostegno dell'opportunità di mantenere ancora in vita la disciplina allora vigente erano di ordine tecnico, quando s'intendeva escludere la responsabilità del giudice per i danni cagionati dalla sua azione colposa, e d'ordine politico-costituzionale, quando si trattava di escludere qualsiasi legittimazione del potere politico ad intervenire sul giudice in sede disciplinare. Sotto il primo dei due profili, si sosteneva infatti che il danno subito dal privato in conseguenza e per effetto dell'abnorme esercizio della funzione giurisdizionale avrebbe dovuto, per essere risarcibile, essere dedotto a fondamento di una domanda risarcitoria nei confronti del giudice che vi aveva dato colposamente causa, essere "danno ingiusto". Ciò non avrebbe, però, potuto mai verificarsi anche per la fondamentale ragione che il giudicato è giusto per definizione, ed i vari momenti della sua formazione non sono autonomamente valutabili in termini di ingiustizia, proprio perché concorrono alla formazione di un atto "giusto" sotto il profilo sopra ricordato.
Una volta esclusa la possibilità di riconoscere attraverso tale via una qualsiasi forma di responsabilità di tipo "professionale" in relazione al contenuto delle decisioni e degli atti strumentali a queste ultime, appariva chiaro che i rischi connessi ad un controllo capace di sfociare in accertamenti di responsabilità disciplinare non apparivano collegati soltanto alla difficoltà di identificazione degli organi cui affidare un siffatto delicatissimo compito, ma, al limite, alla stessa difficoltà di creare (per rispettare quel principio di legalità che si ritiene valido solo per l'illecito penale, ma che non pochi ritengono possa applicarsi per ragioni di civiltà anche ad altri campi) fattispecie di illecito sufficientemente esaustive e non finalizzate, come si osservava prima, a garantire soltanto la 'facciata', cioè l'immagine esterna dei giudice, piuttosto che la sostanziale correttezza della sua azione (18). D'altronde, l'estensione del controllo disciplinare al contenuto dell'esercizio della funzione giudiziaria si sarebbe prestata a pericolosi abusi, e non avrebbe potuto sottrarsi alle medesime obiezioni che si muovevano a proposito della prospettiva di introduzione d'ipotesi di responsabilità per colpa professionale.
Nel corso dell'VIII legislatura, ed in misura ancor maggiore in quella successiva, sono stati presentati numerosi disegni di legge di riforma della disciplina attuale in tema di responsabilità disciplinare e civile dei magistrati. Il disegno di legge di delega (19) al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura civile (sede attuale delle norme sulla responsabilità civile dei giudici) e quello della responsabilità disciplinare (20), presentati durante l'VIII legislatura, lasciavano insoluti non soltanto i nodi relativi alla risarcibilità da parte dello Stato dei danni subiti dal privato per effetto dell'abnorme esercizio dell'attività giurisdizionale addebitabile a colpa del magistrato, ma, con riguardo all'azione disciplinare, anche i problemi connessi all'esigenza di tipizzazione dell'illecito.
I disegni di legge di iniziativa governativa presentati nel corso della IX legislatura (21) affrontavano bensì, a differenza dei precedenti, il nodo della tipizzazione dell'illecito disciplinare, ma lo risolvevano in modo del tutto insoddisfacente.
L'altro disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e giustizia (22) tendeva a legittimare l'esercizio da parte del privato dell'azione risarcitoria nei confronti dello Stato, salvo rivalsa di quest'ultimo verso il giudice "colpevole", escludendo quindi che l'azione potesse essere esercitata nei personali confronti di quest'ultimo. La rivalsa dello Stato verso il magistrato per il recupero delle somme versate al privato a titolo di risarcimento era però affidata alla mera discrezionalità del ministro, sicché il giudice avrebbe finito con il restare esposto ad ogni tipo di pressione "governativa" non solo nel trimestre successivo alla conclusione del procedimento disciplinare (utile per l'esercizio della rivalsa), ma anche durante l'intero corso del giudizio di merito, e verosimilmente anche in periodi precedenti.
All'inizio della X legislatura, in entrambi i rami del Parlamento, sono stati presentati da vari gruppi parlamentari, in relazione al prevedibile esito del voto referendario, numerosi disegni di legge, ai quali si sono uniti più tardi quello presentato dal Ministro di grazia e giustizia (23), e l'altro, di iniziativa popolare, presentato a norma dell'art. 71 comma 2 cost. e degli art. 48 e 49 l. 25 maggio 1970, n. 352 (24). Dopo l'abrogazione degli articoli del codice di procedura civile (art. 55 e 56) che disciplinavano originariamente la materia della responsabilità civile del magistrato, questi ultimi hanno cessato di avere efficacia alla scadenza del termine di centoventi giorni assegnato al Parlamento per la sostituzione della disciplina abrogata dal voto referendario.
Dalla fusione di tali disegni di legge è nata l'attuale disciplina della materia, oggi regolata dalla l. n. 117 del 1988 (25).
Il sistema di responsabilità per l'illecito commesso da chi è investito di funzioni giudiziarie è fondato nella legge vigente sul principio generale che l'azione risarcitoria è esperibile dal privato danneggiato nei soli confronti dello Stato, e non nei diretti confronti del magistrato che ne ha dato occasione. Trattasi evidentemente di scelta di politica legislativa che trova giustificazione nell'esigenza di evitare che l'esercizio dell'azione risarcitoria da parte del privato possa essere strumentale all'artificiosa creazione dei presupposti per l'eliminazione di un giudice sgradito attraverso la via della sua ricusazione, e quindi a garanzia dell'indipendenza e dell'autonomia dell'ordine giudiziario. Un magistrato legittimato passivamente al diretto esercizio nei suoi confronti di un'azione risarcitoria connessa all'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali finirebbe infatti con il trovarsi nella condizione di ricoprire allo stesso tempo in distinte procedure il ruolo di giudice necessariamente imparziale e quello di parte interessata. La scelta operata dal legislatore non elimina però i dubbi di illegittimità costituzionale che alla sua adozione si collegano, in rapporto al contenuto dell'art. 28 cost., posto che quest'ultima disegna una forma di responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato, «secondo le leggi penali, civili ed amministrative» per gli atti «compiuti in violazione di diritti», come, del resto, era diretta la responsabilità del giudice disciplinata dalla normativa abrogata (sia pure con i ben noti limiti di applicabilità concreta). Tali dubbi sono stati superati (26) su un duplice rilievo: osservandosi, per un verso, che la norma costituzionale, richiamando il concetto di responsabilità, non identificherebbe necessariamente quest'ultima nel solo obbligo di risarcire il danno, e rilevandosi, per altro verso, che entità e moduli delle varie forme di responsabilità costituirebbero riserva di legge, sicché la loro disciplina sul piano normativo sarebbe interamente affidata al legislatore ordinario, cui in definitiva è rimessa la scelta dei tipo di responsabilità applicabile ai magistrati al fine di non esporre a rischio la loro indipendenza.
La legge vigente afferma la piena risarcibilità di tutti i danni che siano effetto di comportamenti, atti o provvedimenti giudiziari posti in essere nell'esercizio delle funzioni giudiziarie dai magistrati con dolo o colpa grave ovvero per diniego di giustizia.
Con l'ampia dizione «magistrato», il legislatore (art. 1 l. n. 117, cit.) si riferisce, da un lato, a tutti gli appartenenti alla magistratura ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciale, e, d'altro canto, agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria. Non crea problemi di rilievo l'identificazione degli appartenenti alla magistratura ordinaria, potendosi fare riferimento al testo dell'art. 1 ord. giud., ed egualmente agevole risulta l'identificazione degli appartenenti alla magistratura amministrativa, contabile e militare, con riferimento alle leggi fondamentali sulla composizione e sulle attribuzioni del Consiglio di Stato (r.d. 30 ottobre 1859, n. 3707), dei tribunali amministrativi regionali (l. 6 dicembre 1971, n. 1034), della Corte dei conti (r.d. 12 luglio 1934, n. 1214) e dell'ordinarnento giudiziario militare (r.d. 9 settembre 1941, n. 1022). Tra le magistrature speciali, è di particolare rilievo quella delle commissioni tributarie, cui però, per un'evidente distrazione del legislatore, la legge risulta applicabile solo in parte. Dalle decisioni di tali organi, infatti, può derivare maggior danno allo Stato che al privato, ma per tali danni ancorché cagionati con dolo o colpa grave, allo Stato non è riconosciuta alcuna titolarità né per l'esercizio dell'azione risarcitoria, né sul piano disciplinare.
La condizione di appartenente alla magistratura (nell'ampia accezione della legge) è necessaria, ma non sufficiente, ai fini della determinazione dell'àmbito di applicazione della normativa; è infatti indispensabile un ulteriore requisito: che cioè il magistrato ponga in essere il comportamento, l'atto o il provvedimento nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia. È evidente che il riferimento è esclusivamente alle funzioni giudiziarie, sicché anche i comportamenti e gli atti di rilievo ai fini dell'applicazione della legge debbono essere posti in essere nell'àmbito dell'attività giurisdizionale. Mentre però è agevole l'identificazione dei "provvedimenti giudiziari", trattandosi di atti necessariamente tipici, che possono assumere la forma del decreto, dell'ordinanza o della sentenza, certo meno agevole è la distinzione tra atti e comportamenti, posto che gli uni e gli altri devono essere realizzati nell'àmbito di quel modo necessario in cui si concreta la volontà della legge che è il processo (27). E poiché gli "atti" del processo sono tutti tipici, il concetto di comportamento non può essere desunto che in via residuale, vale a dire con riferimento alle omissioni, comportamenti il cui rilievo sul piano giuridico deriva dall'esistenza di un comando che resta inosservato.
Il comportamento, l'atto o il provvedimento posto in essere dal magistrato deve poi aver cagionato un danno ingiusto (v. supra, § 4): deve cioè trattarsi di un effetto pregiudizievole di un comportamento, di un atto, di un provvedimento giudiziario contra ius, e quindi diverso da quello che avrebbe dovuto essere realizzato, ove il responsabile avesse correttamente applicato alla fattispecie la norma giuridica corrispondente. Sotto tale angolo visuale, l'atto giudiziario, per sua natura conforme alla legge, diventa semplice atto umano, quando la violazione viene realizzata con dolo o colpa grave. Per quanto riguarda il dolo, è evidente che la violazione cosciente e volontaria della legge da parte del giudice rende agevole la qualificazione dell'atto compiuto in violazione del precetto come atto umano separato dalla funzione rivestita da chi lo ha posto in essere. Diverso è il caso della realizzazione meramente colposa di detto comportamento, giacché in tal caso il rilievo delle conseguenze dannose discende dall'accertamento della violazione da parte del giudice di doveri professionali (in particolare, di diligenza) nell'esercizio delle sue funzioni. Con riferimento a tale ipotesi, il legislatore ha ulteriormente delimitato l'àmbito di operatività della nuova disciplina, procedendo alla definizione di fattispecie tipiche esaustive, a ben vedere, dell'intera gamma di illeciti aventi effetti dannosi che possono dar luogo ad azioni risarcitorie. Una volta escluso (art. 2 comma 2 l. n. 117, cit.) che possano dar luogo a responsabilità civile l'attività di interpretazione delle norme di diritto, nonché la valutazione del fatto e delle prove ritualmente assunte, non sembra infatti possibile ipotizzare residuali casi di violazione di legge suscettibili di essere collocati al di fuori della legittima attività interpretativa, e muniti di sanzione diversa da quella tipicamente processuale, consistente nell'uso degli strumenti di rimozione del provvedimento illecito e dannoso. Tali ipotesi tipiche, che integrano per volontà del legislatore gli estremi della "colpa grave", sono la "grave" violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, il travisamento del fatto (anch'esso nella duplice previsione dell'affermazione e della negazione di un fatto rispettivamente inesistente ed esistente), ed infine l'emissione di un provvedimento concernente la libertà personale al di fuori dei casi in cui essa è consentita, oppure priva di motivazione. Sia la violazione di legge che il travisamento del fatto devono essere stati determinati da negligenza inescusabile, vale a dire insuscettibile di giustificazione. La formula adoperata dal legislatore rende difficilmente identificabile il confine tra le ipotesi di grave violazione della legge come disegnate dal comma 3 dell'art. 2 l. n. 117, cit. e che sono passibili di sanzione, in quanto frutto di negligenza inescusabile, e le altre ipotesi di violazione di legge insuscettibili di sanzione, in quanto rientranti nella legittima attività interpretativa che, a mente del secondo comma dello stesso articolo, non possono dar luogo ad alcuna responsabilità. Si ritiene (28) che il discrimine tra manifestazioni lecite dell'attività interpretativa (che è anche attività di riempimento dei vuoti legislativi, e quindi suscettibile di essere considerata sempre alla stregua di una violazione di legge) ed abuso sanzionabile sia rappresentato dalla possibilità di ricomprendere il significato attribuito alla norma in sede interpretativa tra quelli propri della disposizione così come formulata dal legislatore. All'interno dell'arco dei possibili significati propri della disposizione di legge si muove la libertà interpretativa, mentre al di fuori di esso può vertersi in tema di responsabilità del giudice, sicché si finisce con il rimettere ad un altro interprete l'identificazione dei possibili significati della disposizione su cui si è esercitata l'attività interpretativa, al di fuori dei quali l'interpretazione può essere considerata "grave violazione di legge". Problemi di non minore difficoltà comporta l'identificazione delle ipotesi di travisamento del fatto capaci di dar luogo a responsabilità per danni, anche se risulta più agevole, per il riferimento normativo al contenuto degli atti del procedimento, stabilire se un fatto risulti "incontrastabilmente" da tali atti oppure no. Poiché il negare o l'affermare un fatto in un provvedimento giudiziario rientra nel più vasto concetto di valutazione (globale) del fatto e delle prove, occorre domandarsi se l'affermazione di un fatto incontrastabilmente falso (in quanto gli atti ne escludono l'esistenza) o la negazione di un fatto incontrastabilmente vero (perché conclamato invece dagli atti) siano di per sé capaci di legittimare la pretesa risarcitoria. Ciò può verificarsi nel solo caso in cui il provvedimento contenente la falsa asserzione risulti fondato esclusivamente su di essa: in tutti gli altri casi, infatti, nei quali costituisce un semplice elemento aggiuntivo, che concorre con altri alla formazione del libero convincimento del giudice, essa è destinata a confondersi con questi ultimi, sino a perdere ogni possibile autonomia in relazione eziologica con il risultato finale. Ciò dimostra che non è il travisamento del fatto in sé e per sé considerato a legittimare l'azione risarcitoria, ma la sua relazione in rapporto da causa ad effetto con il danno.
Di più agevole identificazione è il concetto di diniego di giustizia, che il legislatore ravvisa nel rifiuto, nell'omissione o nel ritardo del magistrato nel compimento di un atto del suo ufficio. Nella definizione legislativa, è essenziale che la legge, per il compimento dell'atto, preveda un termine, alla scadenza del quale si può già parlare di comportamento omissivo, del quale il ritardo rappresenta una forma attenuata, ed il rifiuto una manifestazione più radicale. La legge non attribuisce, ai fini dell'esperimento dell'azione risarcitoria da parte del privato danneggiato, alcun rilievo al ritardo se non quando la parte presenti istanza volta ad ottenere l'osservanza del termine. Dal momento della presentazione di detta istanza, incomincia a decorrere il termine, e ciò sia nell'ipotesi in cui quest'ultimo sia fissato dalla legge, come nel caso in cui la legge non lo fissi. E infatti dal momento del deposito in cancelleria dell'istanza che decorre il termine di trenta giorni alla cui scadenza si ritiene realizzato il diniego di giustizia che giustifica l'esercizio dell'azione risarcitoria. Trattasi evidentemente di termine perentorio, che peraltro è suscettibile di proroga se, prima della sua scadenza, il dirigente dell'ufficio cui appartiene il magistrato concede con decreto motivato una proroga trimestrale decorrente dal deposito dell'istanza. La legge prevede che per la redazione di sentenze particolarmente complesse, il dirigente dell'ufficio può concedere al giudice, sempre con decreto motivato da adottarsi prima della scadenza del termine, una seconda proroga, anch'essa trimestrale, la cui decorrenza non può essere fissata altrimenti che con riferimento alla scadenza del primo termine prorogato. Un ulteriore problema può sorgere in relazione ai giudici monocratici, per i quali, di norma, non vi è (come nel caso delle preture mandamentali) un "dirigente dell'ufficio" come figura distinta da quella del magistrato tenuto all'osservanza del termine. In tali casi, nel silenzio della legge, può verificarsi che sia lo stesso magistrato a concedere a sé medesimo la proroga, posto che il presidente del tribunale esercita la vigilanza sulle preture mandamentali, ma non è superiore gerarchico del pretore.
Nell'ipotesi in cui il rifiuto, l'omissione o il ritardo concernano la libertà personale, il termine viene ridotto a cinque giorni ed è insuscettibile di proroga. Anche quest'ultimo termine, al pari degli altri, decorre dal deposito dell'istanza della parte, ma esso decorre immediatamente quando venga a scadere un altro termine, che renda incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale, come, ad esempio, in caso di scadenza dei termini massimi di custodia cautelare (art. 3 l. n. 117, cit.).
Il danno di cui può essere domandato il risarcimento è soltanto quello patrimoniale, cioè quello indicato dall'art. 2056 in relazione agli art. 1223, 1226 e 1227 c.c.: comprende, cioè, la perdita subita dal danneggiato, come il mancato guadagno, sempre che sussista una relazione immediata e diretta con il fatto che lo ha cagionato. Il lucro cessante, ai sensi dell'art. 2056 c.c., dovrà essere valutato dal giudice «con equo apprezzamento delle circostanze del caso». La legge prevede che debbano essere risarciti anche i danni non patrimoniali, ma nel solo caso in cui essi derivino da privazione della libertà personale.
Così definite le ipotesi di risarcibilità del danno cagionato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, occorre esaminare le modalità di esercizio dell'azione risarcitoria. Legittimato passivo dell'azione è, come si è visto in precedenza (supra, § 6), soltanto lo Stato, che deve essere chiamato in giudizio in persona del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 4 l. n. 117, cit.) e la competenza per materia e territorio spetta al tribunale del luogo ove ha sede la corte di appello del distretto più vicino (determinato ai sensi dell'art. 5 l. 22 dicembre 1980, n. 879) a quello in cui è compreso l'ufficio giudiziario al quale apparteneva il magistrato al momento del fatto. Ove il magistrato al momento della proposizione della domanda di risarcimento eserciti le proprie funzioni in uno degli uffici del distretto ove è compreso l'ufficio giudiziario che sarebbe competente, la competenza viene attribuita, con l'uso dei medesimi criteri in precedenza indicati, al tribunale sede di corte di appello del distretto più vicino, ovviamente a quello cui apparteneva il magistrato al momento del fatto.
Condizione per l'esercizio dell'azione è l'avvenuto esperimento dei mezzi ordinari di impugnazione, ove si tratti di provvedimenti impugnabili, in applicazione del principio generale per cui l'azione risarcitoria prevista dalla legge non è strumento alternativo rispetto a quelli ordinari di natura processuale. Nell'ipotesi in cui il danno sia stato cagionato da provvedimenti cautelari e sommari, l'esercizio dell'azione è condizionato dal fatto che la legge non appresti alla parte (come nell'ipotesi di misure cautelari previste nell'àmbito del processo civile) alcun rimedio contro i provvedimenti del giudice. In tali casi, l'azione risarcitoria è esperibile solo dopo l'esaurimento del grado del procedimento nell'àmbito del quale si è verificato il fatto dannoso, ma la parte danneggiata può egualmente esperirla quando sia decorso un triennio, ed il procedimento sia ancora pendente.
Il termine per la proposizione della domanda è di due anni, ed è stabilito a pena di decadenza (art. 4 l. n. 117, cit.). Di grande rilievo è quindi l'identificazione della sua decorrenza, soprattutto in caso di mancato esercizio da parte dell'avente diritto della facoltà di esercitare l'azione prima che sia esaurito il grado del procedimento nel cui àmbito si è verificato il fatto produttivo del danno. Nell'ipotesi di danno derivante da diniego di giustizia, il termine biennale decorre dalla scadenza del termine fissato dalla legge ed eventualmente prorogato dal dirigente dell'ufficio, entro il quale il magistrato avrebbe dovuto emettere il provvedimento. La decorrenza del termine biennale è in ogni caso spostata al momento della conoscenza della parte del fatto dannoso, quando tale conoscenza sia stata impedita dall'esistenza del segreto istruttorio.
L'esercizio dell'azione è regolato dalle norme ordinarie del processo civile: alla prima udienza di trattazione, il giudice istruttore designato dal presidente del tribunale, verificata la regolarità della costituzione delle parti, deve rimettere queste ultime davanti al collegio, che in camera di consiglio deve deliberare in merito all'ammissibilità della domanda, accertando la conformità di quest'ultima ai presupposti indicati nell'art. 2. Il termine entro il quale il tribunale è tenuto a provvedere è di quaranta giorni, e deve ritenersi termine perentorio. La decisione può essere di ammissibilità della domanda, di inammissibilità, o di inammissibilità per manifesta infondatezza.
Nel caso in cui il tribunale ritenga la domanda ammissibile, dispone la prosecuzione del processo, rimettendo le parti davanti al giudice istruttore. In tal caso, viene disposta la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare ed eventualmente agli organi cui compete la sospensione o la revoca della nomina degli estranei che partecipano all'esercizio di funzioni giudiziarie.
Nell'ipotesi in cui il tribunale ritenga che non sono osservati i termini fissati a pena di decadenza per l'esercizio dell'azione, ovvero fanno difetto i presupposti indicati negli art. 2, 3 e 4 l. n. 117 del 1988, ovvero quando ritenga la domanda proposta dalla parte manifestamente infondata, il tribunale dichiara con decreto motivato l'inammissibilità. Contro il provvedimento, la parte può proporre reclamo con ricorso alla corte di appello ai sensi dell'art. 739 c.p.c. entro il termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione o dalla notificazione del decreto, a seconda che questo venga dato nei confronti di una sola o di più parti. La corte deve a sua volta provvedere sul reclamo con decreto motivato entro il termine perentorio di quaranta giorni, decorrenti dalla data in cui è stata proposta l'impugnazione, ed in caso di conferma del provvedimento impugnato, può essere proposto dalla parte ricorso per cassazione. La cancelleria della corte di appello deve in tal caso notificare alla parte entro dieci giorni dalla pronuncia il proprio provvedimento, e la parte deve notificare all'altra il ricorso per cassazione entro trenta giorni, depositandolo quindi entro i successivi dieci giorni nella cancelleria della corte. Quest'ultima, dopo la costituzione della controparte (da realizzarsi mediante deposito del fascicolo e della memoria entro dieci giorni dal deposito del ricorso), deve trasmettere gli atti alla Corte di cassazione, la quale deve decidere nel merito dell'ammissibilità della domanda (e quindi senza rinvio allo stesso giudice) entro sessanta giorni dalla ricezione degli atti. Il rispetto da parte del tribunale, della corte di appello e della Corte di cassazione dei termini rispettivamente assegnati per la decisione circa l'ammissibilità della domanda, è assicurato dalla legge mediante previsione della facoltà per la parte di presentare, ai sensi dell'art. 3 l. n. 117, cit., istanza per ottenere il provvedimento una volta che siano decorsi quaranta giorni dalla scadenza dei termini previsti per il compimento da parte del tribunale e della corte di appello dell'atto di rispettiva competenza. Per la Corte di cassazione il termine è di sessanta giorni. Nel silenzio della legge, e sulla base del suo disposto testuale, deve ritenersi che, anche nel caso in cui l'ammissibilità della domanda venga dichiarata dal giudice dell'impugnazione, la competenza per la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare ed all'organo cui compete la sospensione o la revoca degli estranei partecipanti all'esercizio di funzioni giudiziarie spetta sempre al tribunale davanti al quale la domanda è stata proposta. È da sottolineare infine che mentre la legge prevede l'impugnabilità del decreto che dichiara l'inammissibilità della domanda, nessun rimedio è esperibile dalla controparte nel caso in cui la domanda, in primo grado o in sede di impugnazione, venga dichiarata ammissibile.
Una volta concluso il giudizio tra lo Stato e la parte che ha subito il danno ingiusto, con il riconoscimento del diritto del privato ad ottenerne il risarcimento, la liquidazione di tale danno può aver luogo sulla base di titolo giudiziale ovvero di accordo transattivo, purché quest'ultimo intervenga in un momento successivo a quello in cui la domanda è stata dichiarata ammissibile secondo le procedure indicate nell'art. 5 l. n. 117, cit. L'accordo transattivo è peraltro inopponibile al magistrato in sede di rivalsa o in sede disciplinare.
Una volta eseguito il risarcimento, lo Stato deve esercitare, nei confronti del magistrato che ha posto in essere con dolo o colpa grave, ovvero per diniego di giustizia, il comportamento, l'atto, il provvedimento giudiziario che ha prodotto il danno, l'azione di rivalsa. Tale azione deve essere esercitata davanti al tribunale del luogo ove ha sede la corte di appello del distretto più vicino a quello in cui prestava servizio il magistrato al momento del fatto, e in caso di coincidenza della sede attuale di servizio di detto magistrato, davanti al tribunale ove ha sede la corte di appello dell'altro distretto più vicino a quello ove al momento del fatto prestava servizio il magistrato. Legittimato attivamente all'esercizio (obbligatorio) dell'azione di rivalsa è il Presidente del Consiglio dei ministri, mentre la legittimazione passiva spetta al magistrato che ha posto in essere il comportamento, l'atto o il provvedimento dannoso. Nell'ipotesi in cui il fatto sia riferibile ad un atto posto in essere da organo collegiale, legittimati passivamente saranno tutti i componenti del collegio.
In sede di giudizio di rivalsa, giudici conciliatori e giudici popolari possono essere chiamati a rispondere soltanto in relazione a danni riferibili a loro comportamenti dolosi, mentre gli altri cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali possono essere chiamati a rispondere, oltre che per comportamenti dolosi, anche per negligenza inescusabile in relazione a travisamenti del fatto.
Nel giudizio di rivalsa, la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non svolge gli effetti propri del giudicato, a meno che il magistrato non sia intervenuto volontariamente in giudizio dopo la comunicazione del procedimento effettuatagli dal presidente del tribunale a mente dell'art. 6 l. n. 117, cit.
Allo scopo di evitare che l'azione di rivalsa venga esercitata nei confronti di quei componenti degli organi collegiali che in camera di consiglio, all'atto della deliberazione del provvedimento pregiudizievole per il privato, hanno espresso voto diverso da quello della maggioranza, la legge prevede che di ciascuna deliberazione venga redatto processo verbale su modulistica definita dal Ministro di grazia e giustizia, la cui redazione materiale è affidata al meno anziano dei componenti togati, che deve essere sottoscritto da tutti i componenti, e che deve contenere la menzione dell'unanimità del voto sulle questioni decise o del dissenso succintamente motivato eventualmente espresso dai singoli componenti. Il verbale deve essere conservato in cancelleria in busta sigillata e, a richiesta del tribunale competente a decidere sulla domanda di rivalsa, deve essere trasmesso a quest'ultimo per essere acquisito agli atti dei giudizio. Poiché, infatti, la risarcibilità del danno ingiusto è, a mente del comma 4 dell'art. 16 l. n. 117, cit., collegata all'inosservanza di obblighi di specifica competenza del singolo magistrato componente l'organo giudiziario collegiale, dall'esame del verbale redatto in camera di consiglio dovrebbe essere possibile accertare se l'osservanza di tali specifici obblighi vi sia stata da parte dei singoli membri, e quindi (anche se la legge non lo dice espressamente) la misura della riferibilità del danno subito dal privato. La legge non precisa nemmeno se il difetto di legittimazione passiva del dissenziente debba essere rilevato in sede di giudizio di ammissibilità della domanda ovvero in sede di giudizio di merito. Sembra preferibile la prima soluzione, posto che l'accertamento concerne la sussistenza degli estremi della colpa grave, e quindi di uno dei presupposti per l'ammissibilità della domanda. La rivalsa non ha luogo per una somma corrispondente a quella del risarcimento versato dallo Stato alla parte danneggiata: essa non può infatti superare la terza parte dello stipendio annuo, calcolato al netto delle trattenute fiscali, che il magistrato percepiva al tempo in cui l'azione di risarcimento è stata proposta nei confronti dello Stato, e tale limite rimane operativo anche nel caso in cui da un unico fatto sia derivato un danno a più persone che abbiano agito con distinte azioni di responsabilità, ma non nel caso in cui il danno sia effetto di un comportamento doloso, giacché in tale ipotesi la rivalsa ha luogo per una somma corrispondente all'intero importo corrisposto dallo Stato a titolo di risarcimento. Non viene nemmeno precisato se la rivalsa possa essere esercitata anche per le spese processuali eventualmente poste a carico della parte soccombente nel giudizio instaurato contro lo Stato: il fatto però che all'azione di rivalsa sia stato attribuito il carattere di una sanzione disciplinare, piuttosto che quello di un'azione satisfattoria (come è desumibile dalla constatazione che, come s'è visto, è destinata a coprire solo una parte del danno, quando la responsabilità sia meramente colposa), fa propendere per la soluzione negativa. Per gli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie, il limite della rivalsa è rappresentato dalla terza parte dello stipendio iniziale annuo che compete al magistrato di tribunale, al netto delle trattenute fiscali, salvo che l'estraneo percepisca uno stipendio o un reddito da lavoro autonomo inferiore, nel quale caso è a questi ultimi che deve farsi riferimento per la determinazione dell'entità della rivalsa.
Poiché l'azione di rivalsa viene instaurata con le forme di un ordinario giudizio di cognizione, essa viene regolata dalla disciplina propria di quest'ultimo.
La legge prevede (art. 9) infine per il titolare dell'azione disciplinare l'obbligo di iniziare quest'ultima nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione risarcitoria, e ciò entro il termine di due mesi dalla comunicazione del provvedimento che ne dichiara l'ammissibilità. Nell'azione disciplinare, che coerentemente al disposto del comma 2 dell'art. 107 cost. è facoltativa per il Ministro di grazia e giustizia, possono essere di rilievo anche ipotesi di responsabilità colpose del magistrato diverse da quelle indicate nell'art. 2 l. n. 117, cit. È appena il caso di sottolineare che, ove l'azione risarcitoria venga dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, viene meno l'obbligatorietà dell'azione disciplinare, ma permane il potere-dovere del procuratore generale presso la Corte di cassazione, per i magistrati ordinari, e del titolare di detta azione negli altri casi, di iniziare il procedimento, ove ne ricorrano i presupposti (art. 9 l. n. 117, cit.).
La materia disciplinare è strettamente connessa a quella della responsabilità civile di cui ci si è fin qui occupati: il citato disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e giustizia (29) e destinato a regolamentare la materia della responsabilità disciplinare e dell'incompatibilità (relativamente ai magistrati ordinari) prevede, tra l'altro, come specifiche violazioni del dovere di diligenza (uno dei valori, insieme con imparzialità, correttezza, laboriosità e riserbo cui si aggregano le varie ipotesi di illecito disciplinare), la «grave disapplicazione di legge dovuta ad assoluta mancanza di diligenza», una fattispecie che richiama quella di «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» contenuta nella lett. a comma 3 dell'art. 2 l. n. 117, cit., nonché l'altra, concernente «l'emissione di provvedimenti civili o penali privi di motivazione» che a propria volta richiama la fattispecie di colpa grave disciplinata dalla lett. d comma 3 della medesima disposizione.
Con suo d.m. 16 aprile 1988 (30), il Ministro di grazia e giustizia ha definito i modelli dei verbali delle decisioni adottate dagli organi giurisdizionali collegiali, ed ha determinato le modalità di conservazione, di eventuale utilizzazione e di successiva distruzione dei plichi contenenti i detti verbali, formati ai sensi dell'art. 16 l. n. 117, cit. Detti plichi, uno per ogni provvedimento collegiale emesso in ciascuna udienza, vengono, dopo la compilazione e la sottoscrizione di tutti i componenti, consegnati dal presidente del collegio al cancelliere dell'ufficio (o della sezione, in caso di ripartizione di quest'ultimo in sezioni), che ne controfirma l'indice e provvede quindi alla loro conservazione, dando contestuale comunicazione ai cancellieri degli altri uffici che hanno in precedenza trattato il procedimento, ove la decisione sia divenuta irrevocabile.
Decorso un semestre dalla scadenza del termine (biennale o triennale) entro cui deve, a pena di decadenza, essere promossa l'azione risarcitoria, il presidente del collegio (ma deve intendersi "dell'ufficio", essendo il primo essenzialmente intercambiabile) ordina la distruzione dei plichi relativi a provvedimenti in relazione ai quali non è stata avanzata domanda di risarcimento. Competente a provvedere alla distruzione è il cancelliere, con le cautele atte a garantire la segretezza dei verbali. Si procede in modo analogo nei casi in cui la domanda risarcitoria venga bensì proposta, ma venga dichiarata inammissibile o rigettata. Quando, per contro, essa venga dichiarata ammissibile, il cancelliere del tribunale presso il quale il giudizio viene instaurato deve dare immediata comunicazione agli uffici cui appartengono i collegi che hanno trattato il procedimento nel cui àmbito è stato emesso il provvedimento che si assume abbia cagionato il danno. Procede in modo analogo il cancelliere dell'ufficio giudiziario che definisce il giudizio promosso dal privato nei confronti dello Stato.
LETTERATURA
DI STEFANO, Il dolo del giudice, in Riv. dir. proc., 1953, I, 277 ss.;
PEDACE, Disciplina giudiziaria, in Nss.D.I., V, 1960, 1055 ss. e bibliografia ivi citata;
COSTA, Responsabilità del giudice, dei suoi ausiliari e del pubblico ministero, ivi, XV, 1968, 702 ss. e bibliografia ivi citata;
SEGRÉ, Responsabilità per denegata giustizia e rapporto processuale, in Riv. dir. proc., 1969, 125 ss.;
VOLPE, Diritti, doveri e responsabilità dei magistrati, in Ordinamento giudiziario a cura di A. PIZZORUSSO, Bologna, 1974, 406 ss.; L'educazione giuridica, III. La responsabilità del giudice (Autori vari), Perugia, 1978;
PETTI, La responsabilità del giudice, in Quaderni della giustizia, 1981, n. 5;
MOROZZO DELLA ROCCA, Disciplina giudiziaria, in Nss.D.I., Appendice, III, 1982, 1 ss.;
TOSI, Aspetti costituzionali, civili, penali e amministrativi della responsabilità del magistrato, in Giudicare il giudice (Atti del Convegno su «Quale responsabililà del magistrato? Aspetti costituzionali, amministrativi, civili e penali», Roma, 19-20 settembre 1980), Milano, 1982, 31 ss.;
VACCARI, La responsabilità civile dei magistrati, in Parlamento, 1982, n. 3/5, 19 ss.;
VIGORITI, La responsabilità del giudice, Bologna, 1984;
PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano, 1987;
MELE, La responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 1987.
Note
(1) SANDULLI A.M., Atti del giudice e responsabilità civile, in L'educazione giuridica, III. La responsabilità del giudice (Autori vari), Perugia, 1978, 466.
(2) ANNUNZIATA M., A proposito del giudice elettivo e della giurisprudenza conservatrice della Cassazione, in Rassegna dei magistrati, 1969, 295; GIULIANI e PICARDI, La responsabilità del giudice, in L'educazione giuridica, cit., 579.
(3) VOLPE, Diritti, doveri e responsabilità dei magistrati, in Ordinamento giudiziario a cura di A. PIZZORUSSO, Bologna, 1974, 444 ss.
(4) Pene congrue «pro gravitate culpae [...] non exclusa officii privatione prevedeva il codice di diritto canonico del 1917 (can. 1625 § 1). Il diritto penale ellenico prevede come reati propri la corruzione del giudice (art. 235-237 del codice penale) e la violazione del segreto professionale da parte del giudice (art. 251). Anche il diritto penale sovietico prevede come delitto (art. 177 del codice penale della Repubblica socialista federale sovietica di Russia) il fatto che il giudice renda scientemente una sentenza non conforme alla legge. Analogamente, il codice penale della Repubblica federale di Germania prevede all'art. 336 il delitto di applicazione deliberatamente erronea del diritto ed all'art. 334 il delitto di corruzione del magistrato. Anche il codice penale argentino prevede come figura autonoma di reato il fatto di denegata giustizia nonché la pronuncia da parte del giudice di «sentencia manifiestamente injusta por negligencia o ignorancia inexcusable». Similmente, il diritto penale belga punisce (art. 258 del codice penale) con rammenda e l'interdizione dai pubblici uffici il reato di denegata giustizia.
(5) COSTA, Responsabilità del giudice, dei suoi ausiliari e del pubblico ministero, in Nss.D.I., XV, 1968, 702 ss. e bibliografia ivi citata; PUGLIESE, Riflessioni riassuntive e finali, in L'educazione giuridica, cit., 628 ss.; SEGRÉ, Responsabilità per denegata giustizia e rapporto processuale, in Riv. dir. proc., 1969, 125.
(6) DI STEFANO, Il dolo del giudice, in Riv. dir. proc., 1953, I, 277 ss.
(7) Cfr. C. cost. 14 marzo 1968, n. 2, in Giur. cost., 1968, 288.
(8) BORRI, Responsabilità per colpa grave del magistrato, in Rassegna dei magistrati, 1969, 269; CASADEI MONTI, La responsabilità dei giudici, in Giustizia e Costituzione, 1970, n. 2, 27; PINTUS, La responsabilità del magistrato, in Aggiornamenti sociali, 1975, n. 6; TOSI, Aspetti costituzionali, civili, penali e amministrativi della responsabilità del magistrato, in Giudicare il giudice (Atti del Convegno su «Quale responsabilità del magistrato? Aspetti costituzionali, amministrativi, civili e penali», Roma, 19-20 settembre 1980), Milano, 1982, 31; FELISETTI, La responsabilità del giudice, in Una crociata per la giustizia, Roma, 1980; NANNUCCI, Giudici e responsabilità, in Giustizia e Costituzione, 1982, n. 4, 19 ss.; BERIA D'ARGENTINE, Giudici condannati a pagare i danni?, in Corriere della sera, 6 febbraio 1978; PETTI, La responsabilità del giudice, in Quaderni della giustizia, 1981, n. 5; VACCARI, La responsabilità civile dei magistrati, in Parlamento, 1982, n. 3/5, 19 ss.
(9) La responsabilità disciplinare dei magistrati (Consiglio superiore della magistratura), Roma, 1972; BATTAGLINI, Responsabilità del magistrato, in Rassegna dei magistrati, 1970, 186; PEDACE, Disciplina giudiziaria, in Nss.D.I., V, 1960, 1055 ss.; PISANI, La responsabilità disciplinare del magistrato, in Parlamento, 1982, n. 6/8, 27 ss.
(10) L'indeterminatezza nella previsione dell'illecito era ritenuta dal ministro guardasigilli Grandi caratteristica del diritto disciplinare.
(11) MOROZZO DELLA ROCCA, Disciplina giudiziaria, in Nss.D.I., Appendice, III, 1982, 1 ss.
(12) Cfr. C. cost. 22 giugno 1976, n. 145, in Giur. cost., 1976, I, 975 e C. cost. 8 giugno 1981, n. 100, ivi, 1981, I, 843.
(13) Il 1° dicembre 1987 è stato presentato al Parlamento il disegno di legge di iniziativa governativa (v. infra, § 6) di riforma della disciplina della responsabilità disciplinare e della incompatibilità del magistrato (cfr. Atti parl. Cam., X legislatura, doc. n. 1996).
(14) Così NANNUCCI, op. cit.
(15) D'AMORE, L'aspetto razionale e morale della responsabilità e del potere, in Potere e responsabilità (Autori vari), Brescia, 1963, 412: «Il potere ha fatto la parte del leone e [...] anche in sede teoretica si è preoccupato piuttosto di difendere la sua giustificazione e il suo diritto, e non ha tenuto in debito conto il ruolo che compete alla responsabilità, alla norma, alla ragione, agli altri, a quelli che subiscono il potere del potente e la forza del potere...».
(16) SCIACCA, L'etica del potere, in Potere e responsabilità, cit., 25.
(17) WRÒBLEWSKI J., Theoretical and ideological problems of controlling judicial decision, in L'educazione giuridica, cit., 84 ss.
(18) MOROZZO DELLA ROCCA, Un nuovo disegno di legge sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, in La magistratura, 1982, n. 3.
(19) Cfr. Atti parl. Sen., VIII legislatura, doc. n. 1463.
(20) Cfr. Atti parl. Cam., VIII legislatura, doc. n. 3386.
(21) Cfr. Atti parl. Sen., IX legislatura, doc. n. 251; Atti parl. Sen., IX legislatura, doc. n. 268; Atti parl. Sen., IX legislatura, doc. n. 553, di iniziativa comunista e Atti parl. Sen., IX legislatura, doc. n. 440, di iniziativa repubblicana.
(22) Cfr. Atti parl. Sen., IX legislatura, doc. n. 2138, recante norme sulla responsabilità civile del magistrato.
(23) V. supra, nt. 13.
(24) Questo disegno di legge è stato comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 4 gennaio 1988: cfr. Atti parl. Sen., X legislatura, doc. n. 1996.
(25) Questa legge è stata pubblicata nella G.U. 15 aprile 1988, n. 88 ed è entrata in vigore il 16 aprile successivo.
(26) In tal senso si è espresso il senatore Marcello Gallo, relatore di maggioranza al Senato: cfr. Atti parl. Sen., X legislatura, doc. n. 748/a.
(27) SATTA S., Diritto processuale civile3, Padova, 1953, 121 ss.
(28) V. supra, nt. 26.
(29) V. supra, § 6 e nt. 13.
(30) Cfr. G.U. 16 aprile 1988, n. 89, 3 ss.
[1] Legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.
[2] Con la richiesta del 1995 si mirava all’abolizione delle disposizioni che consentono di chiedere i danni esclusivamente allo Stato e non direttamente al magistrato responsabile; la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 34 del 1997. Analogamente, sulla richiesta del 1999 si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza n. 38 del 2000.
[3] RIGHETTI E., La responsabilità civile del giudice nel diritto francese in "Rivista di diritto processuale", 1991, n. 1, pp. 178-224; JOLY-HURARD J., La responsabilité civile, pénale et disciplinaire des magistrats, in "Revue internationale de droit comparé", n. 2006, n. 2, pp. 439-475; CANIVET G., JOLY-HURARD J., La responsabilité des juges, ici et ailleurs in "Revue internationale de droit comparé", 2006, n. 4, pp. 1049-1093; GUINCHARD S., Les responsabilités encourues pour dysfonctionnement du service public de la justice civile in “Petites Affiches”, luglio 2007, pp. 12-24.
[4] Sebbene il concetto di “colpa grave” non sia definito a livello normativo, è più volte intervenuta la giurisprudenza a precisarne il contenuto: cfr. JOLY-HURARD J., op. cit., pp. 446 ss.
[5] Nonostante la riduzione della responsabilità per faute de service soltanto a queste due ipotesi, la giurisprudenza ne ha ammorbidito l’applicazione estendendo, ad esempio, la responsabilità dello Stato anche a casi dove la mancanza di servizio si estrinsecava nella “lentezza del giudizio”, assimilata al “diniego di giustizia”.
[6] Fino ad ora questo terzo regime si è sempre identificato con la prise à partie, dal momento che le leggi speciali previste dal Codice non sono mai state emanate.
[7] Secondo la dottrina affermata, il danno derivante dal comportamento lesivo viziato da colpa grave o diniego di giustizia deve essere certo, personale, diretto e lesivo di un “intérêt légitime juridiquement protégé”. DE VITA A., La responsabilità civile del giudice e dello Stato come problema nel diritto francese (note comparative)(in "Il Foro italiano", 1979, fasc. 9, pp. 181-239, pt. 5).
[8] L’eventuale atto o comportamento illecito “esclusivamente personale”, compiuto dal magistrato senza alcun collegamento con il servizio pubblico della giustizia, rientra invece nel campo d’applicazione delle disposizioni di diritto comune in materia di responsabilità civile (Code civil, artt. 1382 e 1383) in quanto il magistrato, in questo caso, sarebbe perseguito non come agente pubblico ma come un cittadino ordinario.
[9] L’azione è esercitata davanti a una sezione civile (Chambre civile) della Cassazione.
[10] L’ art. 839 del Codice civile tedesco (Responsabilità per violazione dei doveri d’ufficio) recita:
(1) Se un funzionario viola dolosamente o colposamente i doveri d’ufficio che incombono su di lui nei confronti di un terzo, deve risarcire al terzo il danno da ciò derivante. Se al funzionario è imputabile solo negligenza, nei suoi confronti possono essere avanzate pretese solo se il soggetto leso non possa ottenere risarcimento in altro modo.
(2) Se un funzionario viola il suo dovere d’ufficio nella decisione di una vertenza, è responsabile del danno da ciò derivante solo se la violazione del dovere consiste in un reato. Questa disposizione non trova applicazione ad un diniego contrario al proprio dovere o ad un ritardo dell’esercizio dell’ufficio.
(3) L’obbligo di risarcimento non sorge se il soggetto leso dolosamente o colposamente ha omesso di impedire il danno mediante l’impiego di mezzi legali.
[11] L’articolo 34 della Grundgesetz recita: “Se taluno, nell'esercizio di un ufficio pubblico affidatogli, viene meno al suo dovere d'ufficio nei riguardi di un terzo, la responsabilità, per principio, ricade sullo Stato o sull'ente in cui egli presta servizio. In caso di dolo o di colpa grave può essere fatto valere il diritto di rivalsa. Per quanto concerne il diritto al risarcimento dei danni e il diritto di rivalsa non può mai essere esclusa l'azione di fronte alla giurisdizione ordinaria”.
[12] I profili della accountability dei magistrati, precisati alla luce della riforma costituzionale del 2005, sono esposti nella guida The Accountabilityof the Judiciary, predisposta dal Lord Chief Justice nell’ottobre 2007.