Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri |
Titolo: | Settima Assemblea Parlamentare consultiva sulla Corte Penale Internazionale e lo stato di diritto - XXXIV Forum annuale di PGA (Parliamentarians for Global Action) (Roma - Camera dei deputati, 10-11 dicembre 2012) |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 398 |
Data: | 06/12/2012 |
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Settima Assemblea Parlamentare consultiva sulla
Corte Penale Internazionale XXXIV Forum annuale di PGA (Roma - Camera dei deputati,
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n. 398 |
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6 dicembre 2012 |
Servizi responsabilI: |
Servizio Studi – Dipartimento Affari esteri ( 066760-4939 / 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it Servizio Studi – Dipartimento Giustizia ( 066760-9559 / 066760-9148 – * st_giustizia@camera.it --------------------------- Hanno collaborato: Servizio Rapporti internazionali ( 066760-3948 / 066760-9515 – * cdrin1@camera.it
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File: es1288.doc |
INDICE
Programma della “7th Consultative Assembly of Parliamentarians for the International Criminal Court and the Rule of Law”
La Corte penale internazionale
§ Premessa
§ La progressiva affermazione della responsabilità penale personale nel diritto internazionale
§ La preparazione e lo svolgimento della Conferenza di Roma
§ Vicende successive all’entrata in vigore dello Statuto
§ Precedenti iniziative governative e parlamentari
§ Il provvedimento di adeguamento allo Statuto
Testo dell’A.C. 1439-B approvato definitivamente il 4 dicembre 2012
Documentazione sul “Parliamentarians for Global Action (PGA)”
§ ’7th Consultative Assembly of Parliamentarians for the International Criminal Court and the Rule of Law e World Parliamentary Conference on Human Rights 34th Annual Forum of PGA’
§ ‘History of PGA Annual Parliamentary Forum’
Biografie
ROSS ROBERTSON, Vice Presidente della Camera dei Rappresentanti neozelandese, Presidente dell’associazione Parlamentarians For Global Action
SONG SANG HYUN Presidente della Corte Penale internazionale
FATOU BENSOUDA, Capo Procuratore presso la Corte Penale Internazionale
NAVANETHEM PILLAY Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani
NABIL EL ARABI Segretario Generale della Lega degli Stati Arabi
Lista dei partecipanti
La Corte penale internazionale (CPI) è un’“istituzione permanente che può esercitare la giurisdizione sulle persone fisiche per i più gravi crimini di portata internazionale”, come recita l’articolo 1 dello Statuto istitutivo della Corte (Statuto di Roma).
Lo Statuto è stato adottato a Roma il 17 luglio 1998 dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite ed è entrato in vigore il 1° luglio 2002, in conformità a quanto disposto dall’articolo 126 dello Statuto stesso, che ha fissato la condizione del deposito di almeno 60 strumenti di ratifica, adesione o accettazione dello Statuto di Roma. L’Italia ha ratificato lo Statuto mediante la legge 12 luglio 1999, n. 232.
Gli Stati che attualmente hanno ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale sono 121: tra questi non figurano gli Stati Uniti, Israele, il Sudan, la Cina, la Russia e quasi tutti i Paesi arabi – anche se alcuni degli Stati menzionati hanno a suo tempo firmato lo Statuto, senza però dar seguito a quell’atto, e anzi sconfessando in un secondo momento la stessa firma.
Successivamente alla legge di ratifica, con la legge 6 ottobre 2005, n. 213, il nostro Paese ha innalzato il contributo obbligatorio alla CPI, in relazione all’incremento delle spese amministrative e per le attività operative della Corte medesima, nella misura di 3.241.000 euro annui (la Corte ha presentato un bilancio preventivo per il 2013 pari a 118,4 milioni di euro).
La Corte – che non è organo dell’ONU[1] ma un’istanza giurisdizionale istituita per via pattizia – può:
· giudicare singoli individui accusati di genocidio, di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra; solo successivamente all’adozione della disposizione che, in accordo con le relative norme della Carta dell’ONU, definirà il crimine stesso, stabilendone le condizioni di perseguibilità, sarà competente anche per i crimini di aggressione[2];
· emettere sentenze di condanna alla reclusione fino a trenta anni o anche di ergastolo (in questo caso sulla base dell’estrema gravità del crimine e della situazione personale del condannato);
· esercitare la sua giurisdizione in modo complementare rispetto a quella degli Stati.
La Conferenza diplomatica di Roma ha poi istituito, con propria risoluzione, una Commissione preparatoria per l’elaborazione dei progetti degli strumenti internazionali necessari al funzionamento della Corte (regole di procedura e prova; elementi dei reati; accordo relativo ai rapporti tra la Corte e le Nazioni Unite; accordo di sede con il Paese ospitante; accordo sui privilegi e le immunità della Corte; regole finanziarie e di bilancio della Corte; regole di procedura per l’Assemblea degli Stati Parti). Inoltre, è stato assegnato alla Commissione il compito di formulare proposte per definire gli elementi del crimine di aggressione e le condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte in questi casi.
Tra gli strumenti che sono stati poi formalmente adottati dall’Assemblea degli Stati Parti figurano le Regole procedurali e quelle finanziarie, il documento relativo alle fattispecie di reato, l’Accordo sulle relazioni tra la Corte e le Nazioni Unite, i Principi di base che regolano un accordo di sede, e la Procedura per la nomina e l’elezione dei giudici e del Procuratore. Infine, alcune modifiche sono state apportate al testo dell’Accordo sui privilegi e le immunità, che è stato ufficialmente adottato il 9 settembre 2002[3].
L'idea di istituire una corte penale internazionale per giudicare i crimini di guerra e contro l'umanità può essere fatta risalire alla fine della prima guerra mondiale. Il Trattato di Versailles (1920) dichiarò infatti responsabile il Reich germanico ed i suoi alleati per tutti i danni causati dal conflitto, e accusò l'imperatore Guglielmo II di offesa alla morale internazionale e all'autorità dei trattati.
Tuttavia, fu solo in seguito agli inauditi crimini ed alle atrocità perpetrati durante la Seconda Guerra Mondiale che si pervenne all'istituzione, nel 1945 e 1946, dei Tribunali internazionali di Norimberga e di Tokyo.
La celebrazione dei due processi consentì, tra l’altro, l’enucleazione delle fattispecie dei crimini contro la pace, di guerra, e contro l'umanità (art. 6 della Carta del Tribunale di Norimberga) e l’affermazione del principio secondo il quale tali reati sono perseguibili in base al diritto internazionale (nella sentenza di Norimberga si legge che la Carta istitutiva del Tribunale “è l’espressione del diritto internazionale esistente al tempo della sua creazione”) e che la sovranità dello Stato non può eliminare la responsabilità personale degli agenti (la citata sentenza afferma che “i crimini contro il diritto internazionale sono commessi da uomini, e non da entità astratte, e le norme di diritto internazionale possono venire applicate soltanto punendo gli individui che commettono tali crimini”).
I Tribunali di Norimberga e Tokyo, tuttavia, non rappresentavano istanze giurisdizionali dotate di competenza generale in materia, ma esclusivamente chiamati a giudicare delle violazioni del diritto internazionale compiute da determinate categorie di soggetti in un certo periodo.
Il 9 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione n. 260, con la quale adottò la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. L’articolo VI della Convenzione dispone che le persone imputate di genocidio "saranno tradotte innanzi ai competenti Tribunali dello Stato nel territorio del quale è stato commesso il fatto o a un Tribunale penale internazionale che avrà competenza nei confronti di quelle Parti (della Convenzione in oggetto) che ne avranno riconosciuto la giurisdizione”.
Sempre con la citata Risoluzione n. 260/1948, l’Assemblea invitava la Commissione giuridica internazionale a “studiare l’opportunità e la possibilità di istituire un organo giudiziario internazionale per il processo di persone accusate di genocidio”. Negli Anni Cinquanta, tuttavia, il progetto di istituire un tribunale internazionale si scontrò con la divisione in blocchi della guerra fredda che impediva ogni possibile convergenza su una visione comune di giustizia penale internazionale.
L'idea della giustizia penale internazionale, infine, ha trovato concreta attuazione con l'istituzione, ad opera del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, del Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia (risoluzione 808 del 22 febbraio 1993) e, successivamente, dell’omologo Tribunale per i crimini commessi in Ruanda (risoluzione 955 dell'8 novembre 1994).
Anche in questo caso si tratta di Tribunali costituiti ad hoc, per giudicare e reprimere gravissime violazioni del diritto umanitario internazionale, circoscritte nello spazio e nel tempo.
La creazione dei due citati tribunali internazionali[4], oltre alla polemiche circa il loro funzionamento e la loro utilità concreta, ha suscitato forti critiche sotto il profilo giuridico. Si è cioè contestato che il Consiglio di sicurezza, esercitando i poteri attribuitigli dall'articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite, che è inserito nel capitolo VII relativo alle minacce alla pace e alla sicurezza internazionali e alle misure che il Consiglio può adottare in tali casi, potesse istituire dei tribunali internazionali.
Al di là delle controversie giuridiche e di merito, l'istituzione dei tribunali ha tuttavia dato un ulteriore e forte impulso verso la creazione di una Corte penale internazionale permanente, dotata di competenza generale in materia di genocidio, crimini di guerra e contro l'umanità.
Il cammino di graduale preparazione della Conferenza di Roma è stato avviato con la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU 49/53 del 9 dicembre 1994. Tale atto ha infatti istituito un Comitato ad hoc, aperto a tutti gli Stati membri, per riesaminare le maggiori questioni emerse dalla stesura del progetto di Statuto della Corte permanente, elaborato dalla Commissione giuridica internazionale, e per studiare i preparativi per la convocazione di una Conferenza internazionale plenipotenziaria in materia.
Con la risoluzione 50/46 dell'11 dicembre 1995, vista la relazione presentata dal Comitato citato, è stato istituito un Comitato Preparatorio ad hoc per continuare ad esaminare le questioni emerse nella stesura dello Statuto della Corte e redigere un testo unificato; mentre con la risoluzione 51/207 del 17 dicembre 1997, l'Assemblea Generale ha riconfermato il mandato al Comitato Preparatorio, stabilendo il calendario delle sue successive riunioni e decidendo che la Conferenza diplomatica avesse luogo nel 1998.
Nella riunione tenutasi a New York dall'11 al 21 febbraio 1997, il Comitato Preparatorio ha raccomandato all'Assemblea Generale dell'ONU di adottare una decisione favorevole affinché detta Conferenza si tenesse a Roma, come proposto dal Governo italiano. Infine, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 15 dicembre 1997, ha adottato la risoluzione 52/160, con la quale ha deciso di tenere la Conferenza diplomatica per l'istituzione della Corte penale internazionale nella sede della FAO, a Roma, dal 15 giugno al 17 luglio 1998.
L'Italia, come accennato, è tra i paesi che hanno sostenuto l'iniziativa di convocare una Conferenza per la costituzione della Corte penale permanente, offrendosi fin dal 1994 come sede dei lavori[5].
Il 17 luglio 1998, a Roma, presso la sede della FAO, è stato adottato dalla Conferenza Diplomatica delle Nazioni Unite lo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale: l’Italia è stata la prima firmataria, e l’autorizzazione alla ratifica è giunta, come già accennato, con legge 12 Luglio 1999, n. 232.
L’approvazione dello Statuto da parte della Conferenza diplomatica, cui hanno preso parte delegazioni in rappresentanza di 160 paesi, è stato oggetto di lavori preparatori estremamente complessi e laboriosi, sia per la molteplicità e delicatezza dei vari interessi politici nazionali coinvolti, sia per gli orientamenti non favorevoli di alcuni paesi, che hanno giudicato non sempre positivamente la cessione di una quota della propria giurisdizione penale a favore della nuova istituzione internazionale. Basti rammentare, al riguardo, che l’adozione dello Statuto, pur avvenuta a grande maggioranza, ha registrato il voto negativo di Stati Uniti d’America, Cina, India e Israele.
Il 31 dicembre 2002 sia gli Stati Uniti d’America che Israele hanno firmato il Trattato. Il 6 maggio 2002, tuttavia, il governo degli Stati Uniti d’America ha comunicato al Segretario Generale delle Nazioni Unite che “gli Stati Uniti non intendono diventare parte del Trattato. Conseguentemente – prosegue la comunicazione statunitense - gli Stati Uniti non hanno obblighi legali derivanti dalla firma del 31 dicembre 2000. Gli Stati Uniti chiedono che la loro intenzione di non diventare parte del Trattato …sia riportata negli elenchi depositati relativi al Trattato”. Del pari, il 12 giugno 2002, il Ministero della giustizia israeliano ha reso nota la decisione di Israele di non ratificare il Trattato.
a) I princìpi
Lo Statuto - ossia lo strumento normativo primario per disciplinare le finalità, la struttura ed il funzionamento della Corte penale internazionale - individua i principi posti a base dell’attività giurisdizionale in materia, ravvisati essenzialmente nell’indipendenza dei giudici, nella cooperazione della Corte con gli Stati, nei presupposti normativi della nuova funzione giudiziaria internazionale, nonché nell’automaticità dell’attivazione della giurisdizione stessa.
Lo Statuto si compone di 128 articoli, preceduti da un preambolo, ed è diviso nei seguenti 13 capitoli:
1) istituzione della Corte; 2) giurisdizione, ricevibilità, legge applicabile; 3) principi generali di diritto penale; 4) composizione ed amministrazione della Corte; 5) indagini e incriminazione; 6) processo; 7) pene; 8) appello e revisione; 9) cooperazione ed assistenza giudiziaria internazionali; 10) esecuzione; 11) Assemblea degli Stati parti, 12) finanziamento; 13) clausole finali.
La Corte penale internazionale, come accennato, nasce in quanto “istituzione permanente che può esercitare la giurisdizione sulle persone fisiche per i più gravi crimini di portata internazionale” ai sensi dello Statuto e ha sede a L’Aja, in Olanda. Suoi organi sono la Presidenza, le sezioni preliminari, dibattimentale e d’appello, l’ufficio del Prosecutor (ovvero il Procuratore) e la Cancelleria.
La Corte è composta da 18 giudici, scelti tra persone che, nei diversi Paesi, risultino in possesso dei relativi requisiti di nomina ai più alti uffici giudiziari. I giudici della Corte, eletti per nove anni dall’Assemblea degli Stati parti - con equa rappresentanza dei vari sistemi giuridici, distribuzione delle provenienze geografiche e proporzione tra i sessi - debbono avere esperienza in diritto e procedura penale o in diritto internazionale umanitario e tutela dei diritti umani. Requisiti analoghi sono richiesti, con specifica competenza nel campo dell’investigazione ed istruzione penale, per il Procuratore ed il Viceprocuratore.
Di particolare rilievo appare anzitutto l’acquisizione nello Statuto della Corte dei più significativi – e condivisi – principi in materia di diritto e procedura penale. Si tratta, in particolare, dei principi della responsabilità penale personale, del “nullum crimen, nulla poena sine lege”, della irretroattività della legge penale, del ne bis in idem, del giudice naturale, del contraddittorio e dell’equo processo.
La Corte può giudicare solo i crimini commessi dopo l’entrata in vigore dello Statuto (1° luglio 2002). Le è stata assegnata, in fase iniziale, competenza sui cosiddetti core-crimes ossia sul genocidio, sui crimini contro l’umanità e di guerra.
La Corte ha potuto, in seguito, esercitare il proprio potere giurisdizionale anche sulcrimine di aggressione. In base all’art. 5, comma 2 dello Statuto, la competenza su tale crimine era infatti subordinata alla previa definizione della fattispecie de qua da parte di una Conferenza per la revisione dello Statuto. In base all’articolo 123 del Trattato, una prima Conferenza avrebbe dovuto essere convocata sette anni dopo l’entrata in vigore dello Statuto, per esaminare ogni emendamento allo stesso (fermo restando il fatto che, in qualsiasi momento successivo e per i medesimi fini, una Conferenza di revisione può essere convocata, su richiesta di uno Stato parte e con l’approvazione della maggioranza delle Parti).
In ottemperanza al sopra citato articolo 123, la Conferenza di revisione si è riunita dal 30 maggio all’11 giugno 2010 a Kampala in Uganda. In tal sede è stata adottata la risoluzione (RC/Res.6) contenente gli emendamenti relativi al “crimine di aggressione”, che è previsto entrino in vigore nei confronti degli Stati parte che lo hanno accettato un anno dopo il deposito dei loro strumenti di ratifica o di accettazione. La risoluzione fornisce poi la definizione del “crimine di aggressione” stabilendo che con tale espressione si intende la pianificazione, la preparazione, l’avvio o l’esecuzione, da parte di persone nella posizione di dirigere o di esercitare il controllo sull’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che, per le sue caratteristiche, la gravità e la portata, costituisce una violazione manifesta della Carta delle Nazioni Unite.
Il crimine di genocidio viene definito dallo Statuto secondo quanto già previsto dalla convenzione ONU del 1948; nei crimini contro l’umanità rientrano diverse fattispecie criminose commesse contro le popolazioni civili, nonché numerosi reati a sfondo sessuale come lo stupro, la schiavitù sessuale, la costrizione alla prostituzione e alla sterilizzazione, la gravidanza forzata. Per la configurazione dei crimini di guerra rientranti nella giurisdizione della Corte è necessario l’inserimento di tali atti in un piano o disegno politico, mentre per l’individuazione dei relativi comportamenti illeciti si fa riferimento alle violazioni della Convenzione di Ginevra del 1949 ed alle regole ed usi applicabili nei conflitti armati. Ricadono nell’ambito dei crimini di guerra anche gli atti commessi in conflitti armati interni (“conflitti armati non di carattere internazionale”), escluse le rivolte e i disordini isolati.
La Corte è poi competente per la perseguibilità di una serie di reati contro l’amministrazione della giustizia come la falsa testimonianza resa innanzi alla stessa Corte, la subornazione di testimoni, la presentazione volontaria di prove false, l’intimidazione o la ritorsione, la corruzione attiva o passiva nei confronti di un funzionario della Corte.
Uno dei principi fondamentali previsti dallo Statuto è la complementarietà della giurisdizione della Corte penale internazionale rispetto a quelle degli Stati parte. In ragione di tale principio, gli Stati parte si impegnano ad inserire nei rispettivi ordinamenti nazionali le norme incriminatrici di cui all’art. 5 dello Statuto precisando la giurisdizione anche della Corte per la cognizione delle stesse.
La Corte, pertanto, può procedere per uno dei crimini indicati nello Statuto soltanto se per tale fatto gli Stati che avrebbero giurisdizione primaria non procedano, ovvero abbiano proceduto in maniera negligente.
L’articolo 20 sancisce il basilare principio del ne bis in idem in ordine ai reati perseguiti dalla Corte, prevedendo altresì l’eccezione di una giurisdizione concorrente in caso di inefficienza dei sistemi giudiziari nazionali.
Una delle questioni sulle quali nel corso della Conferenza di Roma si è maggiormente discusso è stata quella relativa all’estensione della giurisdizione della Corte stessa, ossia la precisazione di criteri di collegamento tra i fatti qualificati come reati dallo Statuto e la relativa attribuzione della cognizione sugli stessi. La Corte, infatti, al contrario del Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia, nato in virtù di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è stata istituita in seguito a trattato internazionale, che dunque obbliga soltanto gli Stati che ne sono parte (ovvero che lo hanno ratificato). Nello stesso tempo, lo Statuto affida un preciso ruolo al Consiglio di Sicurezza in materia di procedibilità per i reati di competenza della Corte che abbiano comportato, in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale.
La soluzione adottata in relazione ai meccanismi di attribuzione della competenza della Corte ha da più parti suscitato critiche e riserve.
E’ infatti previsto che la Corte abbia giurisdizione circa i reati di sua competenza quando siano avvenuti nel territorio di uno Stato aderente allo Statuto o che, in base ad un apposito accordo, abbia accettato la giurisdizione della Corte, oppure quando l’autore del crimine sia cittadino di uno di tali Stati. La Corte deve quindi ottenere, nella grande maggioranza dei casi, il consenso dello Stato di nazionalità dell’imputato o dello Stato sul cui territorio è stato perpetrato il crimine prima di poter esercitare la propria giurisdizione.
Come è stato osservato, tale criterio è ancor più penalizzante se si pensa che molto spesso i crimini vengono commessi nel contesto di conflitti interni dove la nazionalità dell’autore del crimine e quella della vittima coincidono.
Tali criteri non sono invece vincolanti - e la giurisdizione della Corte non è quindi soggetta a limiti - nel caso in cui sia lo stesso Consiglio di sicurezza dell’ONU a sottoporre al Procuratore presso la Corte uno o più dei fatti criminosi previsti dall’art. 5 dello Statuto, che abbiano comportato una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali.
Un ulteriore limite alla giurisdizione della Corte è poi quello relativo al contenuto della disposizione transitoria introdotta dall’articolo 124dello Statuto (che recepisce la cosiddetta clausola opt-out), che consente ad uno Stato, al momento della ratifica del Trattato, di non accettare, per un periodo di sette anni successivo all’entrata in vigore dello Statuto, la giurisdizione della Corte sui crimini di guerra se commessi da un suo cittadino o sul suo territorio.
Altra norma che limita in qualche modo l’indipendenza della Corte penale internazionale è quella prevista dall’art. 16 dello Statuto, per effetto della quale al Consiglio di sicurezza dell’ONU è consentito, con risoluzione, di chiedere la sospensione delle indagini o del proseguimento dell’azione penale per un anno, con facoltà di rinnovare la richiesta.
Apposite procedure di cooperazione tra la Corte e gli Stati disciplinano lo svolgimento di atti di indagine sul territorio di uno Stato. La richiesta di assistenza giudiziaria costituisce modalità necessaria di acquisizione delle prove nel corso delle indagini e l’esclusione della celebrazione del processo in contumacia rende necessaria la consegna dell’imputato da parte dello Stato ove venga localizzato e arrestato.
Uno degli aspetti più discussi durante la Conferenza è stato quello della possibilità o meno dello svolgimento di indagini in loco da parte del Procuratore presso la Corte sul territorio di uno Stato: sul punto, lo Statuto si limita a prevedere l’ipotesi in cui lo Stato parte, per manifesta incapacità del proprio sistema giudiziario nazionale, non sia in grado di cooperare con la Corte ai sensi delle norme dello Statuto: in tal caso, la Camera preliminare potrà autorizzare il Procuratore a svolgere indagini direttamente in loco sul territorio dello Stato parte.
La Corte è stata inaugurata l’11 marzo 2003, mentre nella sessione del 21-23 aprile 2003 dell’Assemblea degli Statiparte l’argentino Luis Moreno-Ocampo è stato eletto primo Procuratore.
L’avvio dell’attività della Corte è stato lento, ma in seguito il profilo dell’Istituzione è venuto più chiaramente in primo piano.
Nel periodo 2003-2005 tre Stati Parte (Uganda, Repubblica democratica del Congo e Repubblica Centrafricana) hanno deciso di rivolgersi al Procuratore generale della Corte in ordine a gravi crimini commessi sul proprio territorio. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, inoltre, ha deferito alla Corte la grave situazione del Darfur e, di recente, quella della Libia.
Nel caso del Kenya, invece, il Procuratore ha sottoposto alla Corte la richiesta di iniziare le indagini di propria iniziativa, sulla base dell’articolo 15 dello Statuto.
Il primo processo davanti alla CPI si è aperto il 26 gennaio 2009 contro Thomas Lubanga Dyilo presunto leader dell’Unione dei patrioti congolesi, accusato di crimini di guerra in relazione all’arruolamento di bambini-soldato nel conflitto che aveva interessato nel 2002-2003 la Repubblica democratica del Congo.
Tale processo ha raggiunto, nel luglio 2012, il suo epilogo con la condanna, da parte della Camera penale di Primo grado, a 14 anni di detenzione per Lubanga in relazione ai reati sopra citati. La Corte gli ha riconosciuto le attenuanti per l’atteggiamento collaborativo tenuto durante lo svolgimento del processo.
Si tratta di un fatto storico, perché rappresenta la prima sentenza (seppur di primo grado) in assoluto delle Corte penale internazionale da quando ha iniziato ad operare.
L’Ufficio del Procuratore sta attualmente conducendo sette inchieste: Uganda (un caso), Repubblica democratica del Congo (quattro casi), Sudan (cinque casi), Repubblica centro africana (un caso), Kenya (due casi), Libia (un caso), Costa d’Avorio (un caso). Sta inoltre svolgendo diverse analisi preliminari riguardanti: Afghanistan, Colombia, Georgia, Honduras, Nigeria, Corea del Sud, Guinea. Si dà conto di seguito, paese per paese, dei casi sottoposti alla Corte:
Uganda.
Nell’ottobre 2005 la Corte ha emesso cinque mandati di arresto contro altrettanti capi del Lord Resistance Army, da un ventennio impegnato nella guerriglia contro il governo ugandese nel nord del Paese, utilizzando metodi sanguinosi e ripugnanti: i mandati di arresto sono infatti stati basati su accuse di omicidio, mutilazioni, torture, stupri e rapimento di bambini per ridurli in schiavitù o indurli a combattere. I destinatari dei mandati di arresto sono anzitutto Joseph Kony, il leader del movimento di guerriglia, unitamente ad altri quattro dirigenti, tra i quali il vice di Kony, Vincent Otti. L’emissione dei mandati, tuttavia, non ha incontrato l’atteso unanime favore – ed è questo un profilo dell’attività della Corte che tornerà anche nelle vicende successive -, in quanto suscettibile di inasprire il conflitto proprio in un momento in cui sembrava imminente la resa di una parte dei guerriglieri, mentre esponenti religiosi nord-ugandesi, sia cristiani che musulmani, avevano in corso trattative per porre fine al sanguinoso contrasto politico.
I quattro ugandesi destinatari dei mandati d’arresto (di uno dei cinque – Raska Lukwiya - è stata accertata la morte) sono tuttora latitanti.
Sudan.
Il 2 maggio 2007 la Corte ha emesso un mandato di comparizione per l’ex ministro dell’interno sudanese Harun [6] e per il presunto leader della milizia Janjaweed, Ali Kushayb, in relazione al conflitto nel Darfur, che da quattro anni provocava eccidi tra i civili e una catastrofe umanitaria di enormi proporzioni. I due esponenti sudanesi sono stati accusati di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. La reazione del governo di Khartoum ha evidenziato come la CPI non abbia giurisdizione su cittadini sudanesi, non avendo il Paese ratificato lo Statuto di Roma, ed ha altresì minimizzato il bilancio delle vittime nel Darfur, che secondo Khartoum non avrebbe superato a quel momento la cifra di novemila persone – le principali fonti internazionali parlavano invece di circa duecentomila morti e di due milioni di profughi.
Con un’iniziativa clamorosa, alla metà di luglio del 2008,il procuratore Ocampo ha richiesto il mandato di arresto per il presidente sudanese Bashir con le accuse di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Secondoil procuratore della CPI, infatti, con il pretesto di combattere i movimenti di guerriglia nati nel Darfur dal malcontento per la posizione sempre più marginale del territorio e dei suoi abitanti, Bashir avrebbe pianificato, e in buona parte realizzato, un piano per l’annientamento quasi totale dei tre gruppi etnici darfuriani (Fur, Masalit e Zaghawa). In una prima fase le azioni degli emissari di Bashir, tanto regolari quanto miliziani, contro i civili del Darfur avrebbero condotto alla morte di decine di migliaia di persone, causando altresì la fuga di un gran numero di quelle risparmiate dalle scorrerie dei filogovernativi.
La prova più consistente per l’accusa di genocidio è stata tuttavia fornita da quanto verificatosi nella seconda fase del conflitto, quando gli sfollati sono stati sistematicamente attaccati persino nei campi profughi, ove del resto le condizioni miserrime di vita già si incaricavano di compiere una parte del massacro. La Procura della CPI ha messo al centro Bashir proprio in considerazione del carattere pervasivo e indiscusso del suo potere a tutti i livelli, che riconduce a lui ogni responsabilità, non ultima quella di aver garantito l’impunità dei suoi agenti per assicurarsi della loro efficacia e fedeltà.
La reazione di Khartoum è stata ancora una volta assai dura, misconoscendo qualsiasi atto della CPI: inoltre il Sudan ha espresso velate minacce sulla prosecuzione dei processi di pacificazione in corso nel Paese e sulle connesse presenze internazionali. A queste affermazioni ha replicato il Segretario generale dell’ONU Ban-Ki Moon, chiedendo al Sudan di continuare a garantire la sicurezza del personale delle Nazioni Unite presente nel Paese. Il presidente Bashir ha inoltre compiuto con grande spiegamento di mezzi un viaggio proprio nel Darfur, come a smentire il quadro tracciato dai media internazionali e confermato dalle accuse della CPI. Bashir riceveva inoltre l’appoggio della Lega araba, insieme all’ipotesi – peraltro non accettata da Khartoum con entusiasmo - di istituire autonomamente, da parte del Sudan, speciali giurisdizioni per indagare su eventuali crimini nel Darfur, la cui attività potrebbe di per sé escludere la successiva competenza della CPI.
Il 4 marzo 2009 la CPI ha spiccato il mandato di cattura per Bashir con cinque capi di accusa per crimini contro l’umanità, ma non per genocidio. Conformemente allo Statuto di Roma, la Corte ha fatto appello alla Comunità internazionale – incluse le autorità sudanesi – per una pronta esecuzione del mandato.
La reazione di Bashir si è concretizzata in accuse, rivolte da suoi stretti collaboratori, di neocolonialismo da parte degli Stati occidentali, contrari a loro dire alla stabilità del Sudan: la Lega araba ha del pari espresso preoccupazione per la portata dell’iniziativa, preannunciando passi presso le Nazioni Unite per un posponimento di essa. Il 5 marzo dieci organizzazioni internazionali non governative presenti in Sudan, e accusate di cooperare con il progetto occidentale neocolonialista, sono state espulse, mentre Bashir ha rigettato le accuse di crimini contro l’umanità nel campo occidentale e sionista (con riferimento all’operazione israeliana nella striscia di Gaza dell’inizio del 2009), durante una manifestazione di solidarietà nei suoi confronti. Nei giorni successivi il presidente sudanese si è impegnato in una serie di visite ufficiali in paesi amici, per rinsaldare la propria immagine internazionale.
In questa circostanza, l’iniziativa della CPI è apparsa ad alcuni analisti fortemente condizionata dal potenziale di ricatto di cui si avvale il governo del Sudan, un paese nel quale agiscono numerose organizzazioni internazionali impegnate nel consolidamento dei processi di pace e, soprattutto, nella attività vitali di assistenza a milioni di profughi. Tale analisi è inoltre rafforzata dall’atteggiamento, ad esempio, della Lega araba che nel corso del suo XXI vertice svoltosi a Doha il 30 e 31 marzo 2009 ha reiterato in pieno l’appoggio a Bashir.
In relazione al caso del presidente sudanese Bashir, il 3 febbraio 2010 la Camera d'appello della CPI accoglieva il ricorso del procuratore Luis Moreno-Ocampo, annullando la sentenza di assoluzione per il genocidio nel Darfur, e ordinando ai giudici di riesaminare le prove portate dalla Procura contro Bashir. Il 12 luglio la Corte penale internazionale estendeva il mandato di cattura contro Bashir fino a ricomprendere anche il crimine di genocidio, precedentemente accantonato. La Corte ha ritenuto che esistano “ragionevoli prove” per ritenere il presidente sudanese responsabile di tre capi d'accusa di genocidio nei confronti dei gruppi etnici Fur, i Masalit e Zaghawa: genocidio attraverso l’uccisione; genocidio attraverso gravi lesioni all’integrità fisica e mentale; genocidio attraverso l’inflizione intenzionale di condizioni di vita che avrebbero causato la distruzione fisica di un gruppo.
Sprezzanti anche in questo caso le reazioni del governo di Khartoum, che ha definito la Corte penale internazionale un "tribunale politico", mentre Al Bashir ha continuato a ricevere il forte sostegno di due paesi confinanti, il Ciad e il Kenya.
Repubblica Centrafricana.
Il 24 maggio 2008 è stato imprigionato l’ex vicepresidente della Repubblica democratica del Congo Jean Pierre Bemba Gombo: questi tra il 2002 e il 2003 aveva fatto intervenire il proprio gruppo armato, Il Movimento di liberazione del Congo, nel conflitto allora in corso nella repubblica centrafricana. Nel corso dell’intervento, appartenenti al MLC avevano commesso crimini contro l’umanità, consistenti soprattutto nell’organizzazione e nell’esecuzione di stupri di massa: dopo che la Repubblica centrafricana aveva riconosciuto l’impossibilità di perseguire gli autori degli stupri, era stata investita del caso la CPI, e di qui l’accusa contro Bemba e il suo arresto, avvenuto quando già si trovava in esilio dopo lo scontro politico e militare del 2007 con le fazioni congolesi legate al presidente Joseph Kabila.
Il 22 novembre 2010 si è aperto all'Aja il processo contro Jean Pierre Bemba per crimini di guerra e crimini contro l'umanità: la difesa di Bemba ha cercato di rigettare le gravissime accuse del procuratore Moreno-Ocampo asserendo che il comando effettivo dei 1.500 miliziani congolesi autori di ogni tipo di atrocità nella Repubblica centrafricana era in capo al presidente di quel paese, Ange-Felix Patassé, in aiuto del quale Bemba era accorso con le proprie milizie.
Repubblica Democratica del Congo.
Dei due processi per la situazione nella RDC dove, a partire dagli anni ’90 (ma la giurisdizione della Corte si applica ai soli crimini commessi dopo il 1° luglio 2002), sono morti milioni di civili a causa del conflitto interno, uno ha da poco raggiunto il primo grado di giudizio (condanna a 14 di detenzione per l’imputato): quello che riguarda Thomas Lubanga Dylo, comandante dell’Union des patriots congolais e delle Forces patriotiques pour la libération du Congo - FPLC, accusato di crimini di guerra riguardanti l’utilizzo di bambini al di sotto dei 15 anni nelle FPLC e di averli fatti partecipare attivamente alle ostilità tra il settembre 2002 e l’agosto 2003.
Il secondo processo, iniziato il 24 novembre 2009, vede imputati Germain Katanga e Mathieu Ngudjolo Chui, a capo di fazioni armate ribelli, incolpati di analoghi crimini.
Il 22 agosto 2006 è stato emesso un mandato di cattura anche contro Bosco Ntaganda, presunto ex vice comandante dello staff generale delle Forces Patriotiques pour la Libération du Congo – FPLC accusato di crimini di guerra, perpetrati tra il 2002 e il 2003 nella provincia nord-orientale dell’Ituri, anche in questo caso riguardanti l’arruolamento di bambini e il loro utilizzo in azioni di guerra[7].
Rimane presso il centro di detenzione della Corte, in attesa di processo, il ruandese Callixte Mbarushimana, segretario esecutivo delle Forces Démocratiques pour la Libération du Rwanda – Forces Combattantes Abacunguzi (FDLR-FCA) accusato di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra commessi nel Kivu nel 2009.
Kenya.
La CPI ha emesso l’8 marzo 2011 un mandato di comparizione per il 7 e 8 aprile 2011 nei confronti di sei cittadini keniani, quasi tutti ricoprenti alte cariche politiche, tra cui il vicepresidente e ministro delle finanze Uhuru Kenyatta.
I fatti che hanno determinato l’avvio delle indagini da parte della Corte si riferiscono alle violenze che fecero seguito alle elezioni presidenziali del dicembre 2007 - vinte dal presidente uscente, Mwai Kibaki - a causa delle quali morirono quasi 1.300 persone e 300 mila rimasero senza casa, violenze che gli imputati sono accusati di avere organizzato.
Libia.
Il ruolo della Corte penale internazionale è venuto nuovamente in primo piano nel 2011 in relazione alla repressione messa in atto in Libia dal regime di Gheddafi contro la rivolta iniziata alla metà di febbraio del 2011. Il 26 febbraio 2011, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso all’unanimità di deferire alla Corte la situazione venutasi a creare in Libia a partire dal 15 febbraio 2011; il 3 marzo il Procuratore ha annunciato la decisione di dare luogo ad un’inchiesta, assegnata alla prima Sezione preliminare.
Il successivo 16 maggio il procuratore Moreno-Ocampo chiedeva ai giudici della Corte di spiccare un ordine di arresto per Gheddafi, per il figlio Saif al-Islam e per il capo dei servizi segreti libici al-Senussi, per crimini contro l'umanità perpetrati nelle prime fasi della ribellione libica con l'ordine di colpire civili disarmati nelle loro case, in luoghi pubblici e perfino in uscita dalle moschee. Nei confronti di Gheddafi, in particolare, le accuse comprendevano anche la redazione di liste di presunti colpevoli arrestati, imprigionati, torturati e poi scomparsi. La reazione del regime libico nell'immediato è stata quella di ignorare l'iniziativa del procuratore Moreno-Ocampo, anche perché la Libia non risultava tra gli Stati Parte dello Statuto della Corte penale internazionale.
Il 27 giugno 2011 la Corte penale internazionale ha accolto la richiesta del Procuratore Moreno-Ocampo, spiccando mandati di cattura per Gheddafi, per Saif al-Islam e per al-Senussi, accolti da manifestazioni di giubilo a Bengasi, mentre a Tripoli si commentava attaccando la Corte quale strumento dell'Occidente per una persecuzione contro i leader del Terzo Mondo e a copertura delle iniziative della NATO per colpire Gheddafi.
In ogni modo, dopo l'uccisione di Gheddafi a Sirte il 20 ottobre 2011, la fuga di Saif al-Islam e di al-Senussi, che secondo alcune voci avrebbero voluto consegnarsi alla Corte penale internazionale, finiva tra il 19 e il 20 novembre, con la cattura di entrambi da parte delle autorità libiche, intenzionate in modo assoluto a sottoporli a processo nel paese.
Attualmente è in corso un’indagine della Corte sulle responsabilità di Saif Al-Islam, che tuttavia continua ad essere detenuto in Libia, dalla tribù Zentan, che lo ha catturato nel novembre 2011. Questo rende, per il momento, impossibile lo svolgimento di un processo nei suoi confronti.
Costa d’Avorio.
L'attività della Corte ha continuato ancora a dispiegarsi alla fine di novembre del 2011, quando è stato trasportato all'Aja il deposto presidente della Costa d'Avorio Laurent Gbagbo, protagonista sin dal 2002 dell'instabilità politica del suo paese, dopo che aveva vinto delle elezioni presidenziali molto contestate. La non accettazione da parte di Gbagbo del verdetto delle presidenziali del novembre 2010, che avevano visto la vittoria del suo storico rivale Ouattara, riaccendeva mesi di scontri nel paese, e proprio su questi episodi la Procura della Corte penale internazionale aveva emesso un mandato d'arresto nei confronti di Gbagbo, imputandogli la responsabilità dell'uccisione di oltre 3.000 persone.
Sin dalla XIV legislatura sono state presentate, ma mai esaminate, proposte di legge di iniziativa parlamentare per adeguare l’ordinamento allo Statuto della Corte penale internazionale[8].
Sul versante governativo, già in XIII legislatura il Ministero della giustizia aveva insediato una «Commissione di studio per la redazione di schemi di testi normativi per l'adeguamento della vigente normativa in materia processuale penale agli atti internazionali stipulati dall'Italia, nonché per gli aggiornamenti del Libro XI del codice di procedura penale» (Pres. La Greca), incaricata anche dell'attuazione delle norme di cooperazione dello Statuto di Roma. Con l’avvento della XIV legislatura tale commissione mutò presidenza (Pres. F. Lattanzi) e condusse ad una elaborata bozza di disegno di legge-delega, anche avvalendosi dei lavori di una parallela commissione istituita dal ministero degli Esteri[9].
Nel giugno 2002 il Ministero della Giustizia istituì la «Commissione per l'attuazione dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale», presieduta dal Prof. Conforti (d.m. 27 giugno 2002) che ha concluso il suo mandato nel dicembre 2003 orientandosi verso la formulazione di articolati normativi esaustivi (anziché verso un nuovo testo di legge delega), l'uno per gli obblighi di cooperazione e, l'altro, per le norme di diritto penale sostanziale.
Il progetto di legge AC. 1439 (Melchiorre) afferma di far proprio il progetto della commissione Conforti relativo alla cooperazione giudiziaria.
Per quanto riguarda l’attuale legislatura, si segnala che la III Commissione della Camera, nella seduta del 29 aprile 2009, ha approvato una risoluzione, a firma Pianetta, che, nel più generale quadro dell’azione internazionale dell’Italia per la tutela e la promozione dei diritti umani, impegna il Governo a promuovere la presentazione di specifiche iniziative legislative riguardanti, tra l’altro, l'introduzione di una disciplina che perfezioni l'adeguamento del nostro ordinamento allo Statuto della Corte penale internazionale.
Un’altra risoluzione in materia (a prima firma Bernardini) era stata approvata dalla II Commissione il 4 febbraio 2009; con tale atto di indirizzo si impegnava il Governo “a predisporre con la massima urgenza un disegno di legge di adeguamento interno delle norme dello Statuto di Roma, al fine di giungere al più presto all'adattamento dell'ordinamento giuridico italiano e sanare così un'inadempienza politicamente e giuridicamente molto rilevante che mette a rischio la credibilità del nostro paese e le aspirazioni dei candidati italiani a far parte della Corte”.
Con riferimento a tale atto di indirizzo, in una lettera trasmessa alla Camera il 22 aprile 2009 da parte del Ministero della giustizia, il Governo condivide l’esigenza di un sollecito adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto della Corte penale internazionale e informa che il disegno di legge auspicato, i cui tempi di predisposizione si sono rivelati più lunghi di quanto previsto, è stato ultimato e trasmesso per la calendarizzazione al Consiglio dei ministri.
Nel maggio 2009 la Commissione giustizia della Camera avviava l’iter delle proposte di legge poi confluite nel testo unificato approvato l’8 giugno 2011. A partire da quella data, in risposta a successivi atti di sindacato ispettivo, il Governo non ha più dichiarato di voler presentare un proprio disegno di legge ma ha auspicato il buon esito dell’iniziativa parlamentare in corso (cfr. la risposta scritta del 17 novembre 2011 del Sottosegretario di Stato per gli affari esteri: Enzo Scotti all'interrogazione 4-10520 presentata alla Camera dall’On. Jannone).
Lo scorso 4 dicembre 2012 la Camera dei deputati ha definitivamente approvato un progetto di legge che dà attuazione nel nostro ordinamento alle disposizioni dello Statuto della Corte penale internazionale.
Il provvedimento era nato nella stessa Camera dei deputati dal testo unificato delle proposte di legge C. 1439 Melchiorre, C. 1782 Di Pietro, C. 2445 Bernardini e C. 1695 Gozi, approvato dall’Assemblea l’8 giugno 2011. Nel corso dell’esame in Senato, conclusosi il 19 settembre 2012, il testo era stato in parte modificato, rendendo necessario un ultimo ulteriore passaggio parlamentare.
Il provvedimento approvato ed ora in attesta di pubblicazione, reca disposizioni volte all’adeguamento dell’ordinamento interno allo Statuto della Corte penale internazionale, ratificato dall’Italia con legge 12 luglio 1999, n. 232, ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.
Lo Statuto costituisce lo strumento normativo primario per disciplinare le finalità, la struttura ed il funzionamento della Corte penale internazionale; esso individua i principi posti alla base dell’attività giurisdizionale in materia e disciplina, in particolare, le procedure di cooperazione tra la Corte e gli Stati ai fini dello svolgimento di atti di indagine sul territorio di uno Stato nonché il ruolo degli Stati nell’esecuzione delle pene irrogate dalla Corte.
Il Capo I del provvedimento (articoli da 1 a 10) contiene le disposizioni generali, individuando le autorità competenti e le modalità di cooperazione con la Corte penale internazionale.
In particolare, l'articolo 1 sancisce l'obbligo di cooperazione, ovvero afferma che la cooperazione dello Stato italiano con la Corte penale internazionale avviene sulla base delle disposizioni contenute nello Statuto della Corte stessa, nel limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
Tale principio viene ripreso anche in altri articoli del provvedimento (v. infra, artt. 3 e 13). La compatibilità con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato costituisce un limite all'attività di cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale tradizionalmente previsto dalle disposizioni codicistiche (si vedano in particolare gli articoli 705, 720, 723 e 733 del codice di procedura penale). Con riferimento ai profili della cooperazione internazionale in materia penale, la rilevanza del limite della compatibilità con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato è stata specificamente riconosciuta dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 379 del 1995, in relazione ad un caso di rogatoria testimoniale all'estero.
L'articolo 2 attribuisce al Ministro della giustizia il ruolo di autorità centrale per la cooperazione con la Corte penale internazionale.
Ai sensi del comma 1, spetta quindi al Ministro in via esclusiva la cura dei rapporti di cooperazione con la Corte previo accordo, ove ritenga che ne ricorra la necessità, con i Ministri interessati (in particolare, in base all’articolo 23, con il Ministro della difesa per i reati commessi da militari italiani o in loro danno), altre istituzioni o altri organi dello Stato. Spetta, altresì, al Ministro ricevere le richieste di cooperazione provenienti dalla Corte e presentare ad essa atti e richieste.
In base a quanto disposto dal comma 2, compete allo stesso Ministro stabilire l’ordine di precedenza, nel caso di concorso di più domande di cooperazione provenienti dalla Corte penale internazionale e da uno o più Stati esteri. Il successivo comma 3 specifica che è parimenti compito del Ministro della giustizia, nel dare seguito alla richieste di cooperazione, assicurare il rispetto del carattere riservato delle stesse e che l'esecuzione avvenga in tempi rapidi e con le modalità dovute.
L'articolo 3 stabilisce che (comma 1), in materia di consegna, cooperazione ed esecuzione di pene, si osservano - salvo che non sia diversamente disposto dal disegno di legge e dallo Statuto della Corte penale internazionale - le norme contenute nel Libro XI del codice di procedura penale, relativo ai rapporti giurisdizionali con autorità straniere, titoli II (Estradizione), III (Rogatorie internazionali) e IV (Effetti delle sentenze penali straniere e esecuzione all’estero di sentenze penali italiane). Il comma 2 del medesimo articolo 3 specifica poi che per il compimento degli atti di cooperazione richiesti si applicano le norme del codice di procedura penale, fatta salva l'osservanza delle forme espressamente richieste dalla Corte penale internazionale non contrarie ai princìpi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano.
L'articolo 4 disciplina le modalità di esecuzione della cooperazione giudiziaria con la Corte penale internazionale. Al riguardo, se il Ministro della giustizia si configura come l’autorità di riferimento dal punto di vista politico e amministrativo, la corte d’appello di Roma concentra su di sé le competenze giudiziarie. A tali autorità giudiziarie vanno sostituite le corrispondenti autorità giudiziarie militari (il PG presso la corte d’appello militare di Roma e la corte d’appello militare di Roma) se la richiesta di collaborazione riguarda reati commessi da militari italiani in servizio o considerati tali ai sensi del codice penale militare di pace (art. 23).
Ai sensi del comma 1, infatti, le richieste formulate dalla Corte penale internazionale sono trasmesse dal Ministro al procuratore generale presso la corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione ovvero assista il Procuratore della Corte penale internazionale nel compimento di attività da eseguire nel territorio italiano (ai sensi dell’art. 99, par. 4 dello Statuto[10]).
Il comma 2 dispone che, qualora la richiesta della Corte penale internazionale abbia per oggetto un'attività di indagine o acquisizione di prove, il Procuratore generale chieda alla corte d'appello di Roma di dare esecuzione alla richiesta. Il successivo comma 3 stabilisce che - qualora ne ricorrano le condizioni - la corte d'appello di Roma da esecuzione alla richiesta con decreto con il quale delega - all'attuazione – un proprio componente o il giudice per le indagini preliminari del luogo in cui gli atti devono essere compiuti. Il comma 4 sancisce che, se la Corte penale internazionale ne ha fatto domanda, l’autorità giudiziaria comunica la data e il luogo di esecuzione degli atti richiesti, precisando che i giudici e il Procuratore della Corte penale internazionale sono ammessi ad assistere all’esecuzione degli atti e possono proporre domande, nonché suggerire modalità esecutive. Il comma 5 prevede che le citazioni e le altre notificazioni richieste dalla Corte penale internazionale sono direttamente eseguite dal procuratore generale presso la corte d’appello di Roma; solo qualora sussistano motivate ragioni, debbono essere trasmesse al PM presso il tribunale del luogo in cui devono essere eseguite, che ad ogni modo deve provvedere senza ritardo.
Il comma 6 prevede che possano essere accompagnati coattivamente davanti alla Corte penale internazionale coloro che – testimoni, periti, persone sottoposte ad esame dal perito, consulente tecnico, interprete o custode di cose sequestrate – sebbene citati, non siano spontaneamente comparsi davanti alla Corte.
L'articolo 5, nel disciplinare la trasmissione di atti e documenti, al comma 1, vieta la trasmissione alla Corte penale internazionale di atti e documenti acquisiti all'estero e dichiarati riservati al momento dell’acquisizione senza il necessario consenso dello Stato da cui provengono, facendo salva l'applicazione dell'articolo 73 dello Statuto della Corte[11].
Il comma 2 consente al Ministro della giustizia, previa intesa con i Ministri interessati, di sospendere la trasmissione di atti e documenti alla Corte penale internazionale ovvero l’espletamento di atti di indagine o di acquisizione di prove, quando ritenga che tali attività possano compromettere la sicurezza nazionale; in tal caso si procede alle consultazioni stabilite dall'articolo 72 dello Statuto della Corte penale internazionale[12].
Il successivo comma 3 prevede che, fermo restando il disposto del comma 2, l’autorità giudiziaria italiana cooperi con la Corte internazionale anche trasmettendo – attraverso il Ministro della giustizia – copie di atti di procedimenti penali (e informazioni scritte sul loro contenuto) anche in deroga all’obbligo del segreto sugli atti d’indagine previsto dall’art. 329 c.p.p.
Da ultimo, il comma 4 vieta l'utilizzo dei documenti inviati a sostegno della richiesta di cooperazione nell'ambito di altri procedimenti in difetto del necessario consenso della Corte penale internazionale.
L'articolo 6, disciplina il caso in cui, in esecuzione di una richiesta di assistenza della Corte penale internazionale, sia necessario citare in Italia una persona che si trova all’estero. In tale evenienza, per garantire il buon esito della cooperazione, il comma 1 stabilisce che la persona (imputato, ma anche eventualmente testimone, perito, consulente o custode) che entra nel nostro territorio non potrà essere sottoposta a qualsivoglia restrizione della libertà personale per fatti antecedenti la notifica della citazione.
In base al comma 2 tale immunità temporanea cessa se la persona permane in Italia trascorsi 5 giorni dal momento in cui sono venute meno le ragioni per le quali era richiesta la sua presenza, ovvero da quando egli, pur uscito dal paese, vi abbia fatto volontario ritorno.
L'articolo 7 disciplina il patrocinio a spese dello Stato, disponendo l'applicabilità delle relative disposizioni anche alle procedure di esecuzione di richieste della Corte penale internazionale da adempiere nel territorio italiano e consentendo quindi l'accesso al gratuito patrocinio della persona nei cui confronti la Corte procede.
L’articolo 8 disciplina invece l’ipotesi di richieste da parte dell’autorità giudiziaria italiana alla Corte internazionale (ex art. 93, par. 10 dello statuto): la richiesta è formulata per il tramite del procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, che si rivolgerà a sua volta al Ministro della giustizia il quale provvederà ad inoltrare la richiesta alla Corte internazionale (comma 1). Al riguardo, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni sulle rogatorie all’estero (Libro XI, titolo III, capo II, c.p.p.). In particolare, il comma 2 precisa che se il Ministro non provvede ad inoltrare la richiesta entro 30 giorni, il PG presso la corte d’appello può trasmettere direttamente la richiesta alla Corte internazionale, informando il Ministro (ex art. 727, comma 4, c.p.p.).
L'articolo 9 prevede che il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, e il procuratore generale militare presso la corte militare d'appello, assistano - se richiesti - alle consultazioni con la Corte penale internazionale previste dallo Statuto.
Si ricorda, infatti, che in può occasioni lo Statuto prevede “consultazioni” tra la Corte penale internazionale ed i singoli Stati: ciò accade, ad esempio, quando lo Stato esiga di proteggere informazioni attinenti la sicurezza nazionale (art. 72) ovvero in presenza di una specifica richiesta di arresto o di consegna (art. 91) o, più in generale, quando si tratti di fornire alcune misure di assistenza (art. 93).
L’articolo 10 novella il codice penale
Si osserva che il testo approvato dalla Camera dei deputati l’8 giugno 2011 si limitava a disciplinare i due aspetti essenziali dei rapporti tra l'Italia e la Corte penale internazionale, e cioè quelli relativi alla cooperazione giudiziaria ed all'esecuzione dei provvedimenti della Corte, tralasciando la parte relativa al diritto penale sostanziale, presente nella prima proposta di testo unificato elaborata in Commissione, nonché in alcune delle proposte abbinate.
A questo proposito, nel corso della discussione in Assemblea il relatore aveva ricordato il rilievo delle audizioni svolte nel corso dell'esame, che avrebbero indotto la Commissione ad adottare un testo unificato che non contenesse anche la parte di diritto penale sostanziale. In particolare, il relatore aveva evidenziato come l'esigenza improcrastinabile alla quale far fronte fosse quella di introdurre norme interne di adattamento allo Statuto della Corte con riferimento alle disposizioni relative all'obbligo di corrispondere ad una richiesta di consegna sulla base di un mandato di cattura emesso dalla medesima e, in via secondaria, all'obbligo di corrispondere a richieste di assistenza giudiziaria[13]. All'esito dell'esame presso la Camera dei deputati è stata conclusivamente condivisa la scelta di limitare la portata del disegno di legge in commento a tale prioritaria esigenza.
Tale impostazione non è stata condivisa dal Senato, che ha introdotto nel provvedimento l’articolo 10, che contiene disposizioni di diritto penale sostanziale, pur senza risolvere il problema della c.d. doppia incriminazione, ovvero l’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento un catalogo di delitti speculare a quello per il quale ha giurisdizione le Corte penale internazionale. Si ricorda, infatti, che una eventuale sentenza della Corte potrebbe non essere riconosciuta nel nostro Paese perché il nostro ordinamento non punisce penalmente alcune condotte (si pensi ai reati di mercenari, di arruolamento forzato, di sterilizzazione forzata, di diniego del giusto processo, di uso di scudi umani, nonché di danni ambientali e dispersione dei beni culturali).
Il comma 1 novella l’art. 322-bis del codice penale, in tema di peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi e funzionari dell’Unione europea e di Stati esteri[14].
Si è tradizionalmente ritenuto che la P.A., complessivamente tutelata mediante le norme incriminatrici contenute nel Titolo II del Libro secondo del codice penale, sia da intendersi come P.A. nazionale, e che, correlativamente, anche quelli descritti agli artt. 357 e 358 quali possibili soggetti dei reati ivi previsti debbano intendersi come pubblici agenti (pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio) nazionali, esercenti, cioè, funzioni riconducibili alla P.A. interna. Per questo, con la legge n. 300 del 2000 è stato inserito nel codice penale l’art. 322-bis, volto a far sì che, rispetto a talune tipologie di reati, il novero dei pubblici agenti si estenda a ricomprendere pubblici agenti stranieri, comunitari e internazionali. In particolare, il primo comma dispone che il peculato ordinario e il peculato d'uso (art. 314), il peculato mediante profitto dell'errore altrui (art. 316), la concussione (art. 317) e le varie forme di corruzione passiva (artt. 318-320), istigazione passiva alla corruzione attiva (art. 322, 3° e 4° co.) e la nuova fattispecie di Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p., introdotto dalla c.d. legge anticorruzione), siano puniti anche quando a realizzarne la condotta siano certe figure di pubblico agente comunitario o straniero. La disposizione elenca, in particolare, cinque categorie di soggetti. Le prime quattro rappresentano altrettante categorie di pubblici agenti comunitari; il n. 5 prevede poi che dei reati ivi indicati possano rispondere anche «coloro che, nell'ambito di altri Stati membri dell'Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio». È, questa, una categoria soggettiva in espansione, in parallelo con l'allargamento, in parte già avvenuto, del novero degli Stati membri dell'UE.
In base all'art. 322 bis, secondo comma, commette il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater), corruzione attiva (art. 321), o istigazione attiva alla corruzione passiva (art. 322, 1° e 2° co.), anche il privato che corrompe, o tenta di corrompere: a) uno dei soggetti (pubblici agenti comunitari o stranieri) indicati al 1° comma; b) un soggetto che eserciti «funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali».
Qui l'estensione dell'ambito applicativo delle norme richiamate avviene mediante una estensione, non già del novero dei soggetti attivi (il che sarebbe stato impossibile, trattandosi, in questi casi, di reati comuni, e quindi realizzabili da "chiunque"), ma del novero dei possibili destinatari dell'esborso corruttivo.
Il disegno di legge, inserendo il n. 5-bis), inserisce tra coloro che possono compiere i delitti di peculato, peculato mediante profitto dell'errore altrui, concussione e corruzione anche i membri della Corte internazionale di giustizia, i suoi funzionari e i soggetti equiparati. Conseguentemente, si allargano anche i possibili destinatari dell’esborso corruttivo previsto dal secondo comma dell’art. 322-bis.
Il comma 2 della disposizione in commento introduce nel codice penale l’articolo 343-bis, che estende ai membri della Corte penale internazionale (nonché ai suoi funzionari e soggetti equiparati) l’applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 336 (Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale), 337 (Resistenza a un pubblico ufficiale) e 338 (Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario), con le relative circostanze aggravanti (art. 339), nonché dei delitti di interdizione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità (art. 340), oltraggio a un corpo politico, amministrativo e giudiziario (art. 342) e oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343).
I commi da 3 a 10 novellano varie disposizioni del codice penale con l’obiettivo di equiparare al nostro procedimento penale il procedimento che si svolge presso la Corte penale internazionale, così da consentire l’applicazione di alcuni delitti. Si tratta, in particolare, delle seguenti novelle:
§ all’articolo 368, relativo alla fattispecie di calunnia, per inserire tra le autorità che ricevono le informazioni volte ad incolpare di un reato un innocente ovvero a simulare a carico dell’innocente le tracce di un reato anche la Corte penale internazionale (comma 3);
§ all’articolo 371-bis, in tema di false informazioni al pubblico ministero, per equiparare al nostro pubblico ministero il procuratore della Corte penale internazionale (comma 4);
§ all’articolo 372, in tema di falsa testimonianza, per prevedere che il delitto possa essere commesso anche da colui che depone dinanzi alla Corte penale internazionale (comma 5);
§ all’articolo 374, secondo comma, in tema di frode processuale, per consentirne l’applicazione anche in caso di procedimento penale dinanzi alla Corte penale internazionale (comma 6);
§ all’articolo 374-bis, relativo alla fattispecie di false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, per estenderne l’applicazione agli atti destinati ad essere prodotti alla Corte penale internazionale (comma 7);
§ all’articolo 377, in tema di intralcio alla giustizia, per consentire l’applicazione della fattispecie anche laddove le dichiarazioni debbano essere rese dinanzi alla Corte penale internazionale (comma 8);
§ all’articolo 378, in tema di favoreggiamento personale, per estendere la fattispecie anche a colui che aiuta taluno a eludere le investigazioni svolte da organi della Corte penale internazionale ovvero a sottrarsi alle ricerche effettuate dagli stessi soggetti (comma 9);
§ all’articolo 380, primo comma, in merito al delitto di patrocinio o consulenza infedele, per consentirne l’applicazione anche quando l’attività sia svolta dinanzi alla Corte penale internazionale (comma 10).
Il Capo II (articoli da 11 a 14) disciplina la consegna alla Corte penale internazionale di persone che si trovino sul territorio italiano.
In base all’articolo 11 se la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto ovvero una sentenza di condanna a pena detentiva a carico di una persona che si trovi sul territorio italiano, il procuratore generale presso la Corte di appello di Roma chiede alla stessa Corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere (comma 1).
La Corte d’appello provvede con ordinanza ricorribile in Cassazione in base all’art. 719 c.p.p. La presentazione del ricorso non sospende l’esecuzione della misura cautelare (comma 2).
Il comma 3 disciplina la possibile richiesta, da parte di colui che è sottoposto alla custodia cautelare in carcere, di libertà provvisoria, ai sensi dell’art. 59 dello Statuto[15], delineando il seguente iter:
- richiesta di libertà provvisoria;
- trasmissione della richiesta dal procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma al Ministro della Giustizia e da quest’ultimo alla Corte penale internazionale;
- decisione sulla richiesta da parte della Corte d’appello di Roma con ordinanza ricorribile in Cassazione ai sensi dell’art. 719 c.p.p.;
- in caso di concessione della libertà provvisoria, la Corte d’appello di Roma può imporre prescrizioni (divieto di espatrio, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, divieto e obbligo di dimora) per evitare il pericolo di fuga;
- possibile sostituzione della custodia in carcere con altre misure cautelari in presenza di gravi motivi di salute.
Eseguita la misura della custodia cautelare in carcere, entro tre giorni il presidente della Corte di appello identifica la persona e verifica il suo eventuale consenso alla consegna alla Corte penale internazionale (si applicano le disposizioni previste dal codice di procedura penale per l’estradizione).
In base all’articolo 12, la misura della custodia cautelare è revocata se:
§ dall’inizio dell’esecuzione è trascorso un anno senza che la Corte di appello si sia pronunciata sulla richiesta di consegna (termini previsti dall'art. 714, co. 4, c.p.p.[16]);
§ la Corte d’appello si è pronunciata negando la consegna;
§ sono trascorsi 20 giorni dal consenso dell’interessato alla consegna e il Ministro della giustizia non ha ancora emesso il decreto per realizzare la consegna;
§ sono trascorsi 15 giorni dalla data fissata per la presa in consegna da parte della Corte penale internazionale ed essa non è avvenuta; il termine per la consegna può peraltro essere prorogato su richiesta della medesima Corte, senza oltrepassare il limite dell’anno dall’inizio dell’esecuzione della misura.
L’articolo 13 riguarda la procedura per la consegna.
Il comma 1 disciplina la fase delle conclusioni del procuratore generale presso la corte d’appello di Roma prevedendo che questi depositi la sua requisitoria nella cancelleria della Corte, che dovrà comunicare il deposito e la data dell’udienza alle parti.
Il comma 2 stabilisce che la corte d’appello decide con procedimento in camera di consiglio e con la partecipazione necessaria del difensore.
Il giudice italiano può negare la consegna solo nelle seguenti ipotesi (comma 3):
§ la Corte penale internazionale non ha emesso una sentenza irrevocabile di condanna o un provvedimento restrittivo della libertà personale;
§ non vi è corrispondenza tra l’identità della persona richiesta e di quella oggetto della procedura di consegna;
§ la richiesta della Corte penale internazionale contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico. Si ricorda che questo limite ricorre frequentemente in relazione ai rapporti con le autorità straniere, si pensi agli articoli 723 e 733 c.p.p. in relazione alle rogatorie internazionali ed al riconoscimento delle sentenze straniere;
§ per lo stesso fatto e la stessa persona è stata pronunciata in Italia una sentenza irrevocabile, fatto salvo quanto stabilito nell’art. 89, par. 2, dello statuto[17].
Nel caso in cui venga eccepito il difetto di giurisdizione della Corte penale internazionale, la Corte d’appello di Roma dovrà sospendere – salva la manifesta infondatezza – “con ordinanza” il procedimento, in attesa di una pronuncia della medesima Corte penale (comma 4).
Il comma 5 stabilisce che il ricorso per cassazione può essere proposto anche in riferimento alle condizioni precisate dal comma 3 ed ha effetto sospensivo.
In base al comma 6 la Corte penale internazionale può assistere all’udienza per mezzo di un proprio rappresentante.
Sia nell’ipotesi di consenso dell’interessato, sia in quella di favorevole pronuncia della Corte d’appello di Roma, spetta al Ministro della giustizia – con proprio decreto - provvedere entro 20 giorni alla consegna, prendendo accordi con la Corte penale internazionale sul tempo, il luogo e le concrete modalità.
L’articolo 14 stabilisce che la misura della custodia cautelare in carcere può essere disposta provvisoriamente, anche prima che pervenga dalla Corte internazionale la richiesta di consegna, purché la stessa Corte abbia dichiarato di avere emesso un provvedimento restrittivo della libertà personale, abbia altresì dichiarato che intende presentare richiesta di consegna e abbia fornito la descrizione dei fatti nonché elementi idonei a identificare con certezza la persona, annunciando l’intenzione di richiederne la consegna.
Anche per l’applicazione provvisoria della misura della custodia cautelare si osserva l’art. 11 (v. sopra).
In tal caso, la custodia cautelare sarà revocata se entro 30 giorni la Corte internazionale non richiede la consegna.
Il Capo III (articoli da 15 a 24) del provvedimento all’esame dell’Assemblea disciplina il profilo dell’esecuzione dei provvedimenti della Corte penale internazionale.
La competenza a conoscere dell’esecuzione del provvedimento ai sensi dell’art. 665, comma 1, c.p.p. è attribuita alla Corte d’appello di Roma (articolo 15).
Nel caso in cui l’Italia - a seguito di sentenza definitiva - sia individuata dalla Corte internazionale come Stato di espiazione di una pena detentiva, in base all’articolo 16 il Ministro della Giustizia deve:
§ chiedere alla Corte d’appello il riconoscimento della sentenza della Corte penale internazionale. Il comma 3 dell’articolo 16 elenca le ipotesi in presenza delle quali la sentenza della Corte penale internazionale non può essere riconosciuta: la sentenza non è irrevocabile; contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico; per lo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto è stata pronunciata in Italia una sentenza irrevocabile. Il comma 4specifica che la corte di appello di Roma, previo procedimento in camera di consiglio, delibera con sentenza in ordine al riconoscimento: tale sentenza è soggetta a ricorso per cassazione da parte del procuratore generale presso la corte di appello e dell'interessato, ai sensi dell’art. 734, co. 2, c.p.p.;
§ in caso di riconoscimento, comunicare alla Corte penale internazionale che la designazione è stata accettata e trasmettere gli atti al procuratore generale presso la Corte di appello.
L’articolo 17 dispone che l’esecuzione della pena avverrà in base all’ordinamento penitenziario italiano (L. n. 354 del 1975) e in conformità allo statuto e al regolamento di procedura e prova della Corte penale internazionale.
Si ricorda che l'art. 51, paragrafo 1, dello Statuto della Corte penale internazionale prevede che «Il Regolamento di procedura e di prova entra in vigore al momento della sua adozione da parte dell’Assemblea degli Stati Parti a maggioranza di due terzi dei suoi membri». Il regolamento è in vigore dal 9 settembre 2002, il giorno stesso in cui è stato adottato. Non sono necessarie procedure di ratifica.
Il Ministro della giustizia, previa informazione alla Corte penale internazionale, potrà disporre che il trattamento penitenziario del detenuto per i delitti previsti dalla legge in commento avvenga secondo il regime carcerario speciale di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. L’esame di tali detenuti può avvenire in aule protette o a distanza, in base alle norme di attuazione del c.p.p. (comma 3).
Come da Statuto della Corte penale, spetta a quest’ultima – con le modalità da concordare col Ministro della giustizia - il controllo sull’esecuzione carceraria, fermo restando, comunque, l’adozione dei provvedimenti necessari ad assicurare la libertà e la riservatezza delle comunicazioni tra il detenuto e la stessa Corte (articolo 18). Il Ministro della giustizia dovrà inoltre trasmettere immediatamente alla Corte penale internazionale ogni richiesta del detenuto di accesso a qualsivoglia beneficio penitenziario o misura alternativa alla detenzione; se la Corte internazionale ritiene di non consentire l’accesso ad una misura prevista dal nostro ordinamento, il Ministro può chiedere alla Corte di disporre il trasferimento del condannato in altro Stato.
L’articolo 19 disciplina gli ulteriori obblighi di tempestiva informazione alla Corte penale internazionale a carico del Ministro della Giustizia. In particolare, l’autorità italiana dovrà comunicare:
- il decesso o l’evasione del condannato (obbligo di informazione immediata);
- la scarcerazione per avvenuta espiazione della pena (con due mesi di anticipo);
- i procedimenti penali e ogni altra circostanza rilevante che concerne il condannato (obbligo di comunicazione tempestiva).
Con riferimento al luogo di espiazione della pena, questa potrà avvenire in base all’articolo 20 in una sezione speciale di un istituto penitenziario ovvero in un carcere militare, secondo la normativa vigente.
L’articolo 21 del provvedimento dispone in ordine all’esecuzione delle pene pecuniarie: su richiesta del procuratore generale, la Corte d’appello di Roma può provvedere all’esecuzione della confisca dei profitti e dei beni disposta dalla Corte internazionale (compresa, se del caso, la cd. “confisca per equivalente”); i beni confiscati – fatti salvi i diritti dei terzi di buona fede - vengono messi a disposizione della Corte penale internazionale per il tramite del Ministero della giustizia, che agirà in base a modalità da individuare con decreto. Il medesimo articolo 21 dispone anche in merito all’esecuzione degli ordini di riparazione a favore delle vittime (art. 75 Statuto), o per il risarcimento delle persone illegalmente arrestate o ingiustamente condannate (art. 85 Statuto); in tal caso, l’esecuzione avviene secondo le forme e i contenuti stabiliti dalla Corte penale internazionale.
Nel caso di difficoltà nell’esecuzione di provvedimenti sopra indicati, l’articolo 22 disciplina la procedura di consultazione con la Corte penale internazionale, la cui finalità è anche la conservazione dei mezzi di prova.
L'articolo 23 reca una serie di disposizioni in materia di giurisdizione. Il comma 1 specifica che, per i fini di cui al presente provvedimento, si applicano le disposizioni vigenti in materia di riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella penale militare. Il comma 2 stabilisce che, per i fatti rientranti nella giurisdizione penale militare, le funzioni degli uffici giudiziari previste dalla presente legge siano esercitate dai corrispondenti uffici giudiziari militari. Il comma 3 dispone che, limitatamente ai fatti di cui al comma precedente, le funzioni attribuite dal presente provvedimento al Ministro della giustizia siano esercitate d’intesa con il Ministro della difesa, restando salva la competenza esclusiva del Ministero della difesa per quanto attiene all’ordinamento penitenziario militare.
L'articolo 24 reca la consueta clausola di invarianza finanziaria.
Parliamentarians for Global Action (PGA) è un'organizzazione non governativa con status consultivo generale presso le Nazioni Unite. Ha sede a New York e a L'Aia ed è composta da oltre 1000 parlamentari di 130 democrazie del mondo che vi aderiscono a titolo individuale.
I progetti di PGA riguardano tre aree tematiche principali:
· diritto internazionale e diritti umani
· pace e democrazia
· sviluppo sostenibile e popolazione
PGA offre assistenza tecnica ai legislatori e alle Commissioni parlamentari di alcuni paesi in via di sviluppo nelle quali i parlamentari non hanno risorse per esperti o consulenti tecnici, che spesso non sono neppure presenti nelle comunità scientifiche nazionali. L’associazione si propone di adoperarsi per un approccio globalizzato alla soluzione di problemi difficilmente risolvibili dai governi dei singoli paesi, come il disarmo, la pace, lo sviluppo economico, il ruolo delle donne nella società.
Fin dalla sua istituzione, organizza un Forum annuale su tematiche di interesse internazionale, quali la cancellazione del debito, pace e giustizia, lo sradicamento della povertà ed il ruolo dei parlamentari nel processo democratico. Si ricorda che l'11 e il 12 dicembre 2000 il Senato italiano ha ospitato il XXII Forum annuale dei Parliamentarians for Global Action; il dibattito è stato dedicato al tema della Cancellazione del debito finalizzata all'eradicazione della povertà e allo sviluppo dei paesi poveri maggiormente indebitati. L'incontro si è concluso con l'adozione della Dichiarazione di Roma su debito e sviluppo.
L’associazione si è inoltre battuta in particolare per l’istituzione del Tribunale per i crimini internazionali.
I finanziamenti delle attività di PGA provengono dalla Commissione Europea (strumento europeo per la democrazia e i diritti umani), da alcuni Stati (tra di essi, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia e Svizzera) e, in misura assai minore, fondazioni private. Il Gruppo italiano di PGA è composto da 14 parlamentari di vari partiti politici. Il rappresentante principale del segretariato internazionale di PGA in Europa è il dr. David Donat-Cattin (Direttore del programma Diritto internazionale e diritti umani e Rappresentante presso l'Unione Europea), che è stato udito in qualità di esperto in vari Parlamenti nazionali compresi il Bundestag (Commissione per gli Affari Umanitari e i Diritti Umani) nel settembre 2007 e la Camera dei Deputati (Comitato per i Diritti Umani) nel dicembre 2008 e nel febbraio 2009.
Il 13 dicembre 2011 il Presidente di Parliamentarians for Global Action, Ruth Wijdenbosch, e il presidente del programma Diritto internazionale e diritti umani, Alain Destexhe, hanno inviato una lettera al Presidente della Camera Fini chiedendo la disponibilità della Camera ad ospitare, il 10 ed 11 dicembre 2012, il XXXIV Forum interparlamentare sul tema della Corte Penale Internazionale. Il Presidente Fini è, inoltre, invitato a svolgere un intervento inaugurale. L’evento parlamentare si colloca nel quadro delle celebrazioni del decimo anniversario dell'entrata in vigore dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI), che ebbe luogo il 1° luglio 2002 a seguito delle prime sessanta ratifiche dello Statuto adottato il 17 luglio 1998 nella sede romana della FAO, in un contesto storico di evoluzione del Diritto internazionale che è stato paragonato alla conferenza di San Francisco del 1945 che generò la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). La finalità del Forum – i cui lavori coincideranno con l'Assemblea Consultiva Parlamentare sulla Corte Penale Internazionale e lo Stato di Diritto - è di stimolare una riflessione all’interno delle assemblee legislative dei Paesi aderenti per la creazione di un ordine internazionale più giusto, fondato sul rispetto dei diritti umani e sullo Stato di diritto, in cui i crimini di genocidio, contro l'umanità e di guerra siano perseguiti con imparzialità ed efficacia dalla giurisdizione internazionale e dai sistemi penali interni. Il gruppo italiano di PGA, assistito dal segretariato internazionale, costituirà un Comitato organizzatore della settima Assemblea Parlamentare consultiva sulla Corte Penale Internazionale e lo Stato di Diritto, che sarà aperto all’adesione di tutti i parlamentari interessati al tema della legalità internazionale e della tutela dei diritti fondamentali. E’ prevista la partecipazione al Forum di circa 100 parlamentari in rappresentanza dei 130 Paesi membri di PGA, nonché esperti della materia ed esponenti della società civile e dei media internazionali. Sarà altresì invitato ad intervenire nella sessione di apertura il Presidente del Consiglio, professor Mario Monti.
[1] Per i rapporti con le Nazioni Unite e, in particolare, con il Consiglio di sicurezza, v. oltre.
[2] V. oltre, alla lettera b) del paragrafo dedicato allo “Statuto della Corte”.
[3] L’Accordo, del quale sono Parti 62 Paesi, è in vigore dal 22 luglio 2004; l’Italia lo ha ratificato con legge 6 marzo 2006, n. 130.
[4] Si rammenta che il 16 gennaio 2002 il governo della Sierra Leone e l’ONU hanno raggiunto un accordo per l’istituzione di un Tribunale ad hoc per giudicare le gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e delle leggi nazionali durante la guerra civile.
[5] Con la legge 8 maggio 1998, n. 136, si è provveduto al finanziamento della Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite.
[6] Il 2 maggio 2011 Harun è stato riconfermato governatore della regione del Sud Kordofan, nelle elezioni vinte dal National Congress Party (NCP) e contestate dal Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), che ha denunciato brogli.
[7] Dopo aver lasciato la milizia FPLC Ntaganda si era unito all’esercito regolare congolese. Il FPLC sotto la guida di Laurent Nkunda, tutsi congolese, di cui Ntaganda era il vice, era arrivato a controllare buona parte del Kivu.
[8] In XIV legislatura si segnalano, tra le prime, gli A.C. 2724, Kessler ed altri; A.S. 1638, Iovene ed altri, che non hanno mai avviato l’esame. In XV legislatura sono stati presentati gli A.S. 893 (Pianetta) e A.S.1089 (Martone e altri) che, al pari dei precedenti, non sono stati esaminati.
[9] Si tratta della «Commissione di studio per l'adeguamento dell'ordinamento giuridico agli accordi e alle regole del diritto internazionale umanitario» (Pres. A. Pranzetti).
[10] Il paragrafo 4 dell’art. 99 dello Statuto dispone che «Fatti salvi gli altri articoli del presente capitolo, qualora ciò sia necessario per eseguire efficacemente una richiesta alla quale può essere dato seguito senza dover ricorrere a misure di costrizione, in modo particolare quando si tratta di sentire una persona o di raccogliere la sua deposizione a titolo volontario, anche senza che le autorità dello Stato richiesto siano presenti se ciò è determinante per una efficace esecuzione della richiesta, o d'ispezionare un sito pubblico o altro luogo pubblico senza modificarlo, il Procuratore può attuare l'oggetto della domanda direttamente sul territorio dello Stato secondo le seguenti modalità:
a) quando lo Stato richiesto e lo Stato sul cui territorio si presume che il reato sia stato commesso e vi é stata una decisione sull'ammissibilità in conformità agli articoli 18 o 19, il Procuratore può mettere direttamente in opera la richiesta dopo aver avuto con lo Stato richiesto le consultazioni più ampie possibili;
b) negli altri casi, il Procuratore può eseguire la richiesta, previa consultazione con lo Stato parte richiesto ed in considerazione di condizioni o ragionevoli preoccupazioni che tale Stato può aver fatto valere. Se lo Stato richiesto accerta che l'esecuzione di una richiesta ai sensi del presente sotto- paragrafo presenta difficoltà, esso consulta immediatamente la Corte per porvi rimedio».
[11] L’articolo 73 dello Statuto, rubricato Informazioni o documenti provenienti da terzi, dispone che «Qualora la Corte chieda ad uno Stato Parte di produrre un documento o informazioni in sua custodia, in suo possesso o sotto il suo controllo, ad esso rivelati da uno Stato, un'organizzazione intergovernativa o un'organizzazione internazionale in maniera riservata, lo Stato Parte cercherà di ottenere dalla fonte il consenso a divulgare tale documento o informazione. Qualora la fonte sia uno Stato Parte, questo acconsentirà alla divulgazione del documento o dell'informazione, oppure si impegnerà a risolvere la questione della sua divulgazione con la Corte, ferme restando le disposizioni dell'Articolo 72. Nel caso in cui la fonte non sia uno Stato Parte e neghi il consenso alla divulgazione, lo Stato a cui è stata rivolta la richiesta informerà la Corte di non essere in grado di presentare il documento o l'informazione, a causa di un obbligo pregresso di riservatezza assunto con la fonte».
[12] I paragrafi 5 e 6 dell’articolo 72 dello Statuto prevedono che «Qualora, a parere di uno Stato, divulgare informazioni comprometterebbe i suoi interessi di sicurezza nazionale, lo Stato adotterà tutti i provvedimenti del caso, agendo di concerto con il Procuratore, la difesa, la Camera preliminare o la Camera di primo grado, a seconda dei casi per cercare di risolvere la questione in maniera cooperativa. Tali provvedimenti possono comprendere:
(a) la modifica o il chiarimento della richiesta;
(b) una decisione della Corte in merito alla pertinenza delle informazioni o delle prove richieste, ovvero una decisione relativa alla possibilità di ottenere la prova, sebbene pertinente, da fonte diversa dallo Stato a cui è stata richiesta;
(c) ricevere le informazioni o le prove da una fonte diversa o in forma diversa;
(d) un accordo sulle condizioni alle quali potrebbe essere fornita assistenza, compresi tra l'altro, presentazione di sintesi o redazioni rettificate, limiti alla divulgazione, uso di procedimenti a porte chiuse o ex parte, o applicazione di altre misure di protezione autorizza dallo Statuto o dal Regolamento della Corte.
Quando saranno stati adottati tutti i ragionevoli provvedimenti per risolvere la questione in maniera cooperativa, e lo Stato ritenga che non vi siano modi o condizioni alle quali le informazioni o i documenti potrebbero essere presentati o divulgati senza compromettere i suoi interessi di sicurezza nazionale, esso ne informerà il Procuratore o la Corte indicando i motivi specifici della sua decisione, a meno che la descrizione stessa dei suoi motivi non pregiudichi necessariamente gli interessi di sicurezza nazionale dello Stato».
[13] Cfr. Resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 468 di mercoledì 27 aprile 2011.
[14] Si ricorda che l’art. 322-bis è stato recentemente novellato dalla legge n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione).
[15] I paragrafi da 3 a 6 dell’art. 59 dello Statuto dispongono che «3. La persona arrestata ha diritto di chiedere all'autorità competente dello Stato di detenzione preventiva la libertà provvisoria, in attesa di essere consegnata.
4. Nel pronunciarsi su questa domanda, l'autorità competente dello Stato di detenzione preventiva esamina se, in considerazione della gravità dei reati allegati, sussistano circostanze urgenti ed eccezionali tali da giustificare la libertà provvisoria e se sussistono le garanzie che permettono allo Stato di detenzione di adempiere al suo obbligo di consegnare la persona alla Corte. L'autorità competente dello Stato di detenzione non é abilitata a verificare se il mandato d'arresto é stato regolarmente rilasciato secondo i capoversi a) e b) del paragrafo 1 dell'articolo 58.
5. La Camera preliminare é informata di qualsiasi richiesta di libertà provvisoria e formula raccomandazioni all'autorità competente dello Stato di detenzione. Prima di pronunciare la sua decisione, quest'ultima tiene pienamente conto di tali raccomandazioni, comprese, se del caso, quelle vertenti sulle misure atte ad impedire l'evasione della persona.
6. Se è concessa la libertà provvisoria, la Camera preliminare può chiedere rapporti periodici sul regime di libertà provvisoria».
[16] L'articolo 714 (Misure coercitive e sequestro), comma 4, c.p.p., così recita: «Le misure coercitive sono revocate se dall'inizio della loro esecuzione è trascorso un anno senza che la corte di appello abbia pronunciato la sentenza favorevole all'estradizione ovvero, in caso di ricorso per cassazione contro tale sentenza, un anno e sei mesi senza che sia stato esaurito il procedimento davanti all'autorità giudiziaria. A richiesta del procuratore generale, detti termini possono essere prorogati, anche più volte, per un periodo complessivamente non superiore a tre mesi, quando è necessario procedere ad accertamenti di particolare complessità».
[17] L’art. 89 dello Statuto (Consegna di determinate persone alla Corte) prevede che la Corte possa presentare a qualsiasi Stato nel cui territorio è suscettibile di trovarsi la persona ricercata, una richiesta di arresto e consegna, unitamente alla documentazione giustificativa indicata all'articolo 91, e possa richiedere la cooperazione dello Stato per l'arresto e la consegna. Il paragrafo 2, in particolare, dispone che se la persona di cui si sollecita la consegna ricorre dinanzi ad una giurisdizione nazionale mediante un'impugnazione fondata sul principio non bis in idem, lo Stato richiesto consulta immediatamente la Corte per sapere se vi è stata nella fattispecie una decisione sull'ammissibilità. Se è stato deciso che il caso era ammissibile, lo Stato richiesto dà seguito alla domanda. Se la decisione sull'ammissibilità è pendente, lo Stato richiesto può rinviare l'esecuzione della domanda fino a quando la Corte non abbia deliberato.
[18] Gli Stati Uniti avevano in un primo tempo espresso perplessità sulla sua nomina in ragione di alcune posizioni della Signora Pillay, tra cui quella sull’aborto.