Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Cina
Serie: Schede Paese politico-parlamentare    Numero: 22
Data: 26/11/2012
Descrittori:
CINA POPOLARE     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari

n. 22 26 novembre 201Casella di testo: SCHEDA PAESE
politico-parlamentare
2

Cina                                   



Il quadro istituzionale

L’attuale Costituzione della Repubblica popolare cinese, adottata nel 1982 (i precedenti testi costituzionali risalgono al 1954, al 1975 ed al 1978), assegna il ruolo guida della società cinese al Partito comunista che compone, insieme ad altri otto partiti ufficialmente riconosciuti, la Conferenza consultiva politica del popolo cinese. A seguito delle riforme costituzionali del 1988, 1993 e 1999 tale ruolo guida convive con “un’economia socialista di mercato” e con il riconoscimento della proprietà privata. La Costituzione descrive come supremo organo legislativo l’Assemblea generale del popolo, composto da 2.987 membri eletti indirettamente con un mandato di cinque anni dai congressi muni-cipali, provinciali e regionali. Il Presidente del-l’Assemblea gene-rale del popolo, eletto quello stesso consesso, esercita le funzioni di Capo dello Stato. L’Assemblea si riunisce in una sola sessione annuale. Quando non è in sessione gli affari correnti sono svolti dal Comitato permanente, eletto in seno all’Assemblea. Il Comitato esercita poteri di supervisione sul Consiglio di Stato, eletto anch’esso dall’Assemblea con compiti esecutivi (è, in sostanza l’Esecutivo cinese, composto dal Primo Ministro, dai vice primi ministri e dai consiglieri di Stato). La Commissione militare centrale, anch’essa eletta dall’Assemblea generale, è invece il più alto organo militare dello Stato.

Per Freedom House, la Cina è uno “Stato non libero”, mentre il Democracy Index 2011 dell’Economist Intelligence Unit la definisce “regime autoritario” (cfr. infra “Indicatori internazionali sul paese”).

Nel sistema politico cinese, infatti, il principale centro di potere rimane il Partito comunista: tutti i livelli elettorali, tranne quelli relativi ai comitati di villaggio e dei piccoli centri urbani, dove si registra una maggiore concorrenzialità (in presenza però di organi dotati di scarso potere) vedono uno stretto controllo del partito, che designa i candidati e controlla il processo elettorale.

Per quel che concerne il concreto esercizio delle libertà politiche e civili, il grande sviluppo vissuto negli ultimi due decenni dalla società cinese e l’apertura all’esterno ha senza dubbio reso più difficile il controllo sociale da parte delle autorità, tuttavia fonti indipendenti confermano la presenza di realtà significative di repressione, alcune delle quali evolutesi alla luce della nuova situazione.

La libertà di stampa, nonostante la vivacità delle discussioni negli ambienti privati e gli sforzi di singoli giornalisti di affrontare tematiche sensibili, come quelle legate alla corruzione o ai problemi ambientali, appare pregiudicata: in particolare le autorità governative consento-no solo ai mezzi di comunicazione di massa di proprietà statale di “coprire” i principali eventi, previa intesa sulle immagini e i resoconti da mandare in onda.

Le direttive del partito forniscono inoltre a tutti i giornalisti e operatori dei media linee-guida la cui violazione espone ad azioni legali e all’arresto. La Cina avrebbe anche elaborato tecnologie avanzate e pervasive di controllo dei siti Internet (la Cina ha il più alto numero di utenti Internet a livello globale: nel 2009 360 milioni).

Anche la libertà di riunione e di associazione appare sottoposta a severe restrizioni: in particolare, sono state stabilite misure per impedire ad eventuali manifestanti o sottoscrittori di petizioni antigovernative di raggiungere la capitale Pechino, misure che prevedono anche il ricorso da parte delle autorità locali alla detenzione illegale. Dal punto di vista della libertà economica, il 2012 Economic Freedom Index della Heritage Foundation definisce la Cina, a dispetto delle riforme poste in essere negli ultimi decenni, “prevalentemente non libera”. Secondo il rapporto, le misure di liberalizzazione economica intraprese a partire dalla fine degli anni Settanta e culminate nell’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) nel 2001 appaiono infatti aver contribuito allo sviluppo di un robusto tessuto di medie imprese private e di imprese agricole (la proprietà della terra rimane formalmente dello Stato ma i privati possono scambiare affitti di lungo periodo). Tuttavia le grandi industrie e, soprattutto, il sistema creditizio-finanziario appare sotto il controllo statale (in particolare il credito risulterebbe allocato secondo criteri politici e non di efficienza economica).

La tutela legale dei diritti di proprietà, compresa la proprietà intellettuale appare debole, così come permane una limitata libertà di movimenti valutari (la moneta cinese, come è noto, non è convertibile) e, nonostante l’apertura al mercato internazionale, permarrebbero significative restrizioni di tipo protezionista, attraverso il ricorso a barriere non tariffarie.

Al tempo stesso il rapporto 2010 dell’OMC, nel mostrare apprezzamento per gli sforzi compiuti dalla Cina nella liberalizzazione della propria economia, rileva che la liberalizzazione nel settore dei servizi (in particolare quelli bancari-finanziari) non risulta completa mentre le barriere non tariffarie e le politiche di sostegno alle “innovazioni tecnologiche interne” costituiscono ostacoli all’apertura commerciale (in particolare nel settore degli appalti pubblici). All’interno dell’OMCla Cina ha, fino al 2016, lo status di “economia non di mercato” che agevola l’adozione da parte degli altri Stati di misure anti-dumping (la Cina è destinataria del maggior numero di investigazioni anti-dumping in sede WTO).

 

Il quadro politico

Il 14 novembre scorso si è concluso il XVIII congresso del Partita Comunista Cinese.

Non ci sono state grandi sorprese. Il conservatore Xi Jinping (nominato lo scorso anno Vice Presidente della Repubblica) ha assunto la guida del Partito (e contestualmente dell’esercito) presentandosi davanti ai delegati del Congresso insieme agli altri sei membri che andranno a formare il nuovo Comitato permanente. È stata dunque introdotta anche la riforma, già precedentemente ventilata, che prevede la riduzione dei membri del Comitato permanente da nove a sette. Xi Jinping, 59 anni, fa parte della generazione dei cosiddetti “principini”, i figli dei rivoluzionari comunisti che hanno fatto la storia della Cina. Suo padre, Xi Zhongxun (che ha ricoperto la carica di Vice Premier) è infatti noto per aver combattuto al fianco di Mao durante gli anni della guerra civile.

Il nuovo Primo Ministro designato è Li Keqiang, 57 anni, anch’egli considerato un “cauto riformatore”. Membro del Partito dagli inizi degli anni 70, ha studiato giurisprudenza all’Università di Pechino (il primo ateneo a riprendere l’insegnamento del diritto dopo la rivoluzione culturale). La sua ascesa politica inizia nel 1983, quando entra a far parte della Lega della gioventù comunista. Sostituirà Wen Jiabao dal prossimo mese di marzo.

Gli altri membri designati sono:

Zangh Dejiang – Considerato di stampo conservatore, è stato designato come Vice Premier responsabile dei settori dell’energia e delle telecomunicazioni. Ha inoltre sostituito il decaduto Bo Xilai nella leadership del partito di Chongqing.

Yu Zhengsheng – Ingegnere, 67 anni, ha già ricoperto diversi ruoli istituzionali, come quello di Vice Ministro delle costruzioni. Nel 2007 ha sostituito Xi Jinping alla guida del partito di Shangai. Alla stregua di Xi, fa parte della generazione dei figli dei rivoluzionari.

Liu Yunshan – è considerato colui che da sempre cerca di controllare le fonti di informazione cinesi, dai media fino ad internet. Sarà infatti responsabile della propaganda per il Comitato centrale. 65 anni, ha lavorato per anni nella Mongolia interna come reporter, per poi entrare nelle file dell’apparato di propaganda del Partito Comunista.

Wang Qishan – 64 anni, è l’unico membro del nuovo Comitato centrale ad essere stato amministratore delegato di una società (la Construction China Bank). È considerato un esperto di finanza ed ha ricoperto la carica di sindaco di Pechino, quando ha sostituito il primo cittadino in carica dopo lo scandalo dello scoppio dell’epidemia di Sars nel 2003.

Zhang Gaoli – 66 anni, è considerato un riformista nel campo dell’economia. Ha iniziato la sua ascesa politica nel 1997 con la nomina a sindaco di Shenzen. Nel 2007 è stato inviato nella Città di Tianjin per rimettere in ordine l’amministrazione cittadina, colpita da un grave scandalo di corruzione.

 

Il passaggio di consegne formale da Xi Jinping e il Presidente uscente Hu Jintao avverrà solo durante la prossima primavera, ma l’uscita di scena di quest’ultimo dalle stanze del potere sembra essere pressoché totale. Quest’ultimo, contravvenendo alla tradizione, ha infatti rinunciato alla possibilità di ricoprire la carica di Presidente della Commissione militare centrale per altri due anni. Trattandosi di un organo di un certo rilievo, avrebbe comunque consentito a Hu di conservare, per un altro po’ di tempo, una posizione chiave per influire sulle scelte del Politburo. La sua rinuncia ha comportato automaticamente la nomina di Xi Jinping, che in tal modo ha ottenuto, sin da subito, la strada spianata per consolidare la sua autorità.

Il 1° agosto scorso è stata annunciata la promozione di quattro generali tra i quali spicca quella di Liu Yazhou, vicino all'ala liberale del Partito. I quattro ufficiali che sono stati promossi a generali con pieni poteri sono Du Jincai, 60 anni, vicecapo del Dipartimento politico generale; Tian Xiusi, 62 anni, commissario politico del comando militare di Chengdu; Du Hengyan, 61 anni, Commissario politico del Comando militare di Jinan, oltre al già citato Liu Yazhou, 60 anni, Commissario politico dell'Università nazionale della Difesa.

Chi è Xi Jinping

Nato nel 1953, come molti dei suoi colleghi nel Politburo è un cosiddetto “principino”: è infatti figlio di Xi Zhongxun, un eroe della Lunga Marcia e membro fondatore del Partito comunista cinese di cui fu vice presidente. Sebbene Xi inizialmente sia cresciuto nel comfort del Zhongnanhai, il quartiere dove risiedevano i leader del partito, durante la rivoluzione culturale, quando suo padre fu espulso da Mao Zedong, venne mandato nelle province povere nel nord-ovest dello Shaanxi per “imparare dalle masse”. Le difficoltà di quegli anni lo indussero a diventare “più rosso dei rossi” al fine di sopravvivere e ritagliarsi un ruolo nel paese. Si unì al Partito comunista nel 1974 e ne scalò velocemente la gerarchia divenendo segretario locale nell’Hebei, dal 1982 al 1985. Nel 1985 si trasferì nel Fujian, dove continuò a fare carriera fino a diventare governatore della provincia nel 2000. Nello Zhenjiang, dove si trasferì poco dopo per assumere la carica di governatore e capo del partito dal 2002 al marzo 2007, i notabili locali e gli intellettuali hanno affermato di aver avuto un periodo di rara e prolungata apertura durante il suo governo. Si formarono migliaia di nuovi gruppi – molti dei quali associazioni di uomini d’affari che rappresentavano le molte piccole industrie della regione. Candidati indipendenti poterono sedere negli organi politici locali. Il periodo di Xi in Zhenjiang dal 2002 al 2007 vide una rapida crescita dei gruppi non governativi, incluse le associazioni industriali e i sindacati, i quali contrattarono sui salari e mantennero le proteste lavorative al minimo. Le chiese cristiane clandestine operarono in relativa tranquillità, anche se, secondo le associazioni per i diritti umani, come Chinese Human Rights Defenders Network, negli anni di Xi in Zhenjiang non mancarono le persecuzioni di dissidenti, cristiani e attivisti sindacali e per i diritti umani. Dopo la caduta del segretario del partito di Shangai, Chen Liangyu, a causa di uno scandalo di corruzione, Xi fu nominato segretario nella città nel 2007. Solamente sei mesi dopo fu nominato al Comitato centrale del Politburo e informalmente scelto come successore di Hu Jintao. Nell’ottobre 2010, Xi venne nominato vice presidente della Commissione militare centrale, nomina che rafforzò ancora la sua posizione.

 

 

La nuova leadership di Xi

Secondo Andrew Nathan, docente di scienza politica alla Columbia University, a giudicare dal passato politico di Xi, difficilmente egli potrà introdurre cambiamenti sostanziali nel sistema politico cinese. Secondo Nathan e altri studiosi, Xi continuerà a cercare di riformare il sistema di governo interno al partito, in linea con quella che in anni recenti è stata definita “democrazia intra-partitica”. Non sembrano esservi dubbi sul fatto che Xi non metterà in discussione il sistema di governo autoritario sul quale si regge il paese. Il Partito comunista continuerà a esercitare quello che Pechino chiama “monopolio di potere” del partito; in questo senso, i cambiamenti relativi alla governance in Cina rimarranno confinati alla sfera intra-partitica e al processo di selezione dei membri.

Negli ultimi anni Pechino ha insistito affinché il processo attraverso il quale i funzionari del governo scalano i vertici del partito si svolga attraverso elezioni al suo interno. In realtà, questi processi hanno ben poco a che vedere con delle vere procedure elettorali, essendo più simili a delle consultazioni interne al Politburo ed al Comitato permanente dell’ufficio politico del Pcc, che vengono poi ratificate dal Comitato centrale del partito, un organo formato da 350 funzionari di alto livello.

Secondo un altro sinologo, Bruce Gilley, politologo dell’Hartfield School of Government dell’Università do di Portland, Xi ha dimostrato di essere un “uomo forte” che, nel segno dell’opportunismo, è pronto a sacrificare ideali e principi in nome della propria carriera e del rafforzamento della propria autorità all’interno del partito. Gilley afferma che, fino a tempi recenti, Xi era un grande sostenitore delle controverse (in quanto violente e illegali) politiche anti-corruzione e anti-crimine di Bo Xilai a Chongqing, che includevano la tortura.

Nel 2010, durante una visita a Chongqing, Xi aveva lodato gli sforzi di Bo per la repressione della corruzione e della criminalità, elogiando l’apparato di sicurezza locale per l’efficienza dimostrata nell’affrontare questi problemi; ma quando Bo è caduto in disgrazia ed è stato arrestato per i reati a Chongqing, Xi ha repentinamente preso le distanze da lui. Anche nei confronti del Tibet, secondo Gilley, Xi manterrà una linea politica dura e intransigente. Quando, nel luglio scorso, si è recato in Tibet per festeggiare il sessantesimo anniversario di quella che Pechino chiama “la liberazione del Tibet”, anziché cercare di assumere un tono conciliante, Xi ha pronunciato un discorso di un’ora dai toni estremamente aggressivi, attaccando “le politiche separatiste” del Dalai Lama, sottolineando l’importanza del mantenimento di una massiccia presenza militare nella regione.

 

 

La situazione economica

Divenuta ormai la seconda potenza manifatturiera mondiale (dopo gli USA), la Cina vede come tema principale dell’agenda politica della sua leadership la ricerca delle modalità per garantire la prosecuzione di una crescita economica sostenibile socialmente e politicamente (e cioè nell’ottica della stabilità dell’attuale sistema politico fondato sul ruolo centrale del partito comunista cinese). In questa ottica, la quinta sessione plenaria del XVII Comitato centrale del Partito comunista cinese ha approvato le linee-guida del dodicesimo piano quinquennale (2011-2016), ispirate al concetto di “crescita inclusiva” e di “integrazione dello sviluppo economico con il miglioramento della vita della popolazione”. Per il prossimo quinquennio il piano prevede un tasso di crescita annua del PIL medio del 7% (nel 2010 il PIL è cresciuto del 10%). Se nell’undicesimo piano quinquennale l’accento era posto sulla ricerca energetica, sulle infrastrutture e sui trasporti, nel dodicesimo si insiste su “relazioni sindacali armoniose” e su una “crescita più globale, coordinata e sostenibile”.

A questo tema della “crescita armoniosa” possono essere ricondotti molti degli aspetti dell’attualità cinese, a partire dal dibattito sugli equilibri monetari internazionali, che vede molti Stati, a partire dagli USA, accusare la debolezza della moneta cinese. Tale sottovalutazione della moneta appare infatti funzionale ad un modello di sviluppo ancora (nonostante le misure antirecessive e di stimolo al mercato interno assunte nel 2008) prevalentemente export-led, cioè trainato dalle esportazioni, laddove una riallocazione di risorse verso il mercato interno potrebbe far scoppiare tensioni sociali, che, secondo alcuni analisti, appaiono già profilarsi all’orizzonte come dimostrerebbero le incipienti tensioni sociali relative al massiccio fenomeno di urbanizzazione in corso (come testimoniano le proteste contro le espropriazioni di terreni agricoli), i rischi di tensioni inflative dovute a pressioni salariali e all’aumento dei prezzi energetici e alimentari, i ripetuti timori per lo scoppio di una bolla immobiliare.

In particolare, i timori di uno scoppio della bolla immobiliare appaiono essersi rafforzati alla fine del 2011: per contrastare la crisi economica globale il governo ha facilitato i prestiti bancari alle imprese nel settore delle costruzioni, che tuttavia hanno costruito anche in assenza di compratori: si calcola che il 50% degli immobili in costruzione rimanga invenduto. Così dopo essere cresciuti i prezzi stanno scendendo rapidamente: il valore delle nuove case costruite a Pechino è sceso del 35% a novembre.

In questo quadro, peraltro, la leadership cinese teme che a queste eventuali tensioni, o comunque nell’ambito di un’ulteriore espansione del ceto medio cinese, si possa associare anche la richiesta di maggiore libertà politica interna. Che questi timori siano effettivamente nutriti è stato dimostrato dall’atteggiamento di netta chiusura rispetto alle richieste di scarcerazione del dissidente Liu Xiaobo, promotore del movimento per i diritti civili Charta ’08, ispirato al cecoslovacco Charta ’77 di Vaclav Havel, in occasione del conferimento allo stesso del premio Nobel per la pace. A questo si aggiungono ora i timori manifestati in occasione delle proteste scoppiate agli inizi del 2011 in Nord Africa.

Nel febbraio 2011 la polizia cinese è intervenuta in maniera consistente per impedire lo svolgimento di manifestazioni lanciate via Internet ed ispirate alla “rivoluzione dei gelsomini” tunisina. Da registrare a questo proposito, anche l’arresto, nel 2011, con l’accusa non meglio definita di “reati economici” dell’architetto Ai Weiwei, autore dello stadio olimpico inaugurato per le Olimpiadi di Pechino del 2008.

Le sfide industriali

Al momento, ci sono solo poche imprese cinesi che sono in grado di competere come marchi globali; la maggior parte agisce su mercati domestici o regionali, o come subfornitori per i marchi stranieri. Se la Cina è brava a copiare o adattare le tecnologie straniere, in materia d’innovazione lascia molto a desiderare. Tra i paesi emergenti, la Cina è quella che presenta uno dei più ampi divari tra ricchi e poveri. Il degrado ambientale ed il progressivo esaurimento delle riserve idriche sono saliti in cima alla classifica dei problemi interni del paese. Il suo modello economico, basato sulla crescita trainata dalle esportazioni, sugli investimenti diretti esteri e sul dominio delle imprese di proprietà statale legate al partito, sta esaurendo la propria spinta propulsiva e dimostra di avere un urgente bisogno di riforme.

Gli indicatori economici recenti rivelano che i leader cinesi si troveranno – prima di quanto si creda – a dover gestire una crescita economica significativamente inferiore a quella registrata negli scorsi anni.

Gli ultimi dati mostrano che, sebbene l’inflazione sia tornata a un più gestibile 3% dopo il picco del 6% registrato nel 2011, la crescita della produzione industriale si è fermata al 9,3, percentuale modesta se rapportata al 20% registrato lo scorso anno. Il rallentamento della produzione industriale cinese nel primo trimestre del 2012 è stato accompagnato dal rallentamento della crescita degli investimenti in beni immobili e nelle vendite al dettaglio, indicatori economici fondamentali per determinare se gli sforzi del governo per stimolare la domanda interna hanno avuto successo o meno.

Mentre questi dati sarebbero indicatori di “crescita ad alta velocità” in qualsiasi altro paese, in Cina un tale rallentamento della crescita economica accompagnato dall’aumento dei prezzi al consumo e dall’aumento dei prezzi dei beni immobiliari, rappresenta senza dubbio una minaccia per quello che in letteratura è stato definito “l’affare” tra il partito comunista e il popolo cinese: crescita economica e prosperità in cambio dell’acquiescenza verso il partito e il suo monopolio del potere. Esattamente come capitato con l’attuale classe di potere, anche la prossima leadership si troverà a dover fronteggiare la sfida di riequilibrare l’economia cinese: da un modello basato sulle esportazioni tipico dei paesi emergenti a un modello di crescita e sviluppo supportato dalla domanda interna.

Parte del processo di trasformazione è rappresentato dalla necessità per le imprese cinesi di creare prodotti ad alto valore aggiunto allo scopo di superare lo stadio di “fabbrica di assemblaggio” del mondo. Gli economisti, tuttavia, sono concordi nell’affermare che ciò non avverrà in tempi brevi. Nei prossimi anni, infatti, la crescita dell’economia cinese verrà trainata soprattutto dalle fabbriche cinesi di assemblaggio di prodotti stranieri, aggiungendo non più del 15% al valore del prodotto finale.

Gli interessi fondamentali cinesi

Durante la visita a Pechino del Vicepresidente statunitense Joe Biden ad agosto 2011, anche Washington ha avuto un’anticipazione di quello che potrebbe accadere con l’ascesa al potere di Xi. In quell’occasione, Xi ha affermato con chiarezza che le proprie posizioni in politica estera sono del tutto in linea con le posizioni ufficiali di governo.

Ad esempio, egli ha esortato Washington a rispettare i “core interest” (interessi fondamentali) della Cina, comprese le questioni di Taiwan e Tibet. “Esse devono essere gestite con prudenza, per evitare di arrecare disturbo alle relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti” ha affermato Xi. In altri termini, Washington non deve interferire con le politiche cinesi verso Taiwan e Tibet, onde evitare il deterioramento delle relazioni con la Cina. Biden si è adeguato all’invito di Xi, affermando che gli Stati Uniti comprendono pienamente che le questioni di Taiwan e Tibet sono parte degli “interessi fondamentali” della Cina.

Gli Stati Uniti si atterranno fermamente alla “One-China policy” non sosterranno le ambizioni d’indipendenza di Taiwan e riconoscono che il Tibet è una parte inalienabile del territorio cinese”, è stata la risposta di Biden. Al contrario, in occasione della visita di Xi a Washington dello scorso febbraio, il presidente Barack Obama è stato molto più esplicito riguardo a quello che Washington vuole da Pechino. Obama ha, infatti, esortato Pechino ad “attenersi alle stesse regole con le quali giocano le altre grandi potenze dell’economia mondiale” – un modo per chiedere alla Cina di tutelare i diritti della proprietà intellettuale statunitense in Cina, permettere la rivalutazione della moneta cinese, aprire ulteriormente il proprio settore finanziario agli investitori statunitensi. Recentemente, Pechino ha dato segni di preoccupazione nei confronti della strategia di Obama in Asia orientale volta ad aumentare la presenza statunitense nell’area, e nei confronti della vendita di armi a Taiwan, che Pechino definisce “una provincia ribelle”.

Queste questioni rimarranno nell’agenda sino-statunitense ancora per molti anni; Xi, come i suoi predecessori, ribadirà con determinazione, senza lasciare spazio al compromesso, che la vendita di armi a Taiwan rappresenta un’indebita ingerenza negli affari interni della Cina. Mentre resta da vedere se Obama sarà disposto a ricevere ancora il Dalai Lama in futuro, non sembrano esservi dubbi sul fatto che nei prossimi anni Washington continuerà a permettere alle proprie industrie militari di vendere armi e tecnologia militare a Taiwan. Inoltre, Washington e Pechino continueranno a manifestare divergenze riguardo all’atteggia-mento da tenere verso l’Iran.

La Cina è il maggiore importatore di petrolio iraniano; essa pertanto non supporta gli sforzi statunitensi d’inasprimento delle sanzioni verso Tehran volte a frenare il programma nucleare del paese. Sostanzialmente, Pechino non ridurrà i propri acquisti di petrolio iraniano solamente perché è Washington a domandarglielo.

Dal sostegno o dall’opposizione di Pechino alle politiche statunitensi nei confronti di Iran e Corea del Nord potrebbero dipendere il successo o il fallimento degli sforzi americani di contenimento dei programmi nucleari dei due paesi. Nel frattempo, la Cina continuerà la rapida e costosa modernizzazione del proprio settore militare. Recentemente, Pechino ha annunciato un ulteriore aumento dell’11,2% nelle proprie spese per la difesa, portandole per la prima volta sopra ai 100 miliardi di dollari nel 2012. La Cina dispone di sofisticati sistemi missilistici, capacità di guerra cibernetica e stealth technology (tecnologia per rendere gli aerei e le navi meno visibili ai radar), per non parlare delle armi nucleari.

Una cauta liberalizzazione

Nell’aprile di quest’anno Pechino ha triplicato la somma di denaro che le istituzioni straniere possono investire sul mercato dei capitali cinese. Ciò mira all’ulteriore allentamento dei controlli sul capitale e all’ulteriore internazionalizzazione della valuta cinese. Da ora in avanti, è possibile investire un totale di 80 miliardi di dollari sul mercato cinese, a dispetto del precedente limite di 30 miliardi di dollari. Sebbene questi rappresentino importanti cambiamenti, che renderanno i mercati finanziari cinesi ancora più attraenti per gli investitori stranieri, gli analisti sono concordi nell’affermare che ciò di cui Pechino ha bisogno per integrare ulteriormente il proprio paese sui mercati globali è la liberalizzazione del sistema bancario domestico.

Nelle scorse settimane, il Primo ministro Wen Jiabao ha ripetutamente esortato il paese ad avviare la liberalizzazione del sistema bancario, sostenendo che le banche e le imprese di proprietà statale realizzano profitti “troppo facilmente”. Tuttavia, dal momento che più del 70% dei prestiti erogati dalle banche di proprietà o sotto il controllo dello stato cinese vanno a imprese di proprietà statale che investono sia sul mercato interno sia su quello internazionale, un tale smantellamento e l’introduzione di banche private dotate di liquidità sufficiente da poter erogare prestiti ai privati – in opposizione alle imprese di proprietà statale – deve avvenire in maniera molto graduale.

Per quanto riguarda la moneta, Pechino si trova a dover assumere una decisione cruciale sul permetterne o meno un’ulteriore liberalizzazione. I benefici della flessibilità monetaria sono universalmente riconosciuti, ha affermato Eswar Prasad, ex direttore della divisione Cina del Fondo monetario internazionale. Un regime monetario più flessibile, sostiene Prasad, darebbe alla Banca centrale cinese la possibilità di adottare una politica monetaria più indipendente, con la possibilità di fissare tassi d’interesse più adatti agli obiettivi domestici.

Questo, sempre secondo Prasad, aiuterebbe a promuovere la riforma del settore finanziario permettendo alla Banca centrale di usare i tassi d’interesse per indirizzare l’allocazione del credito. Fino a oggi, Pechino si è dimostrata riluttante nei confronti dell’ulteriore liberalizzazione della propria moneta; il timore è che le liberalizzazioni possano produrre un flusso speculativo che porterebbe una decisa rivalutazione della valuta cinese, andando dunque a colpire le esportazioni dalle quali il paese dipende per mantenere tassi di crescita elevati.

Politica estera

L’emersione della Cina come potenza globale sta comportando significativi mutamenti negli equilibri asiatici, che vedono coinvolti anche gli USA. Nel novembre 2011 il segretario di Stato USA Clinton ha annunciato che questo, per gli USA sarà il “secolo del Pacifico” e numerose iniziative (a partire dal viaggio nell’area di metà novembre 2011 del presidente Obama) testimoniano un maggiore attivismo nell’area degli USA anche con la funzione di un contenimento della Cina.

In tale direzione appaiono muoversi l’accordo con l’Australia per l’installazione di una base USA nell’Australia settentrionale (un accordo analogo dovrebbe presto essere raggiunto anche con Singapore) ed il progetto di un’area di libero scambio, la Trans-Pacific Partnership tra USA, Australia, Nuova Zelanda, Singapore, Malaysia, Brunei, Vietnam, Perù, USA e Cile (e, presto, anche il Giappone, in base a dichiarazioni di novembre del primo ministro giapponese), area che al momento esclude la Cina. Negli ultimi anni la Cina, oltre a lanciare un programma di ammodernamento e potenziamento della propria flotta, ha anche rivendicato la propria giurisdizione su ampia parte del Mar cinese meridionale nell’ambito di una politica cinese volta ad accentuare il controllo del Mar cinese meridionale divenuto essenziale per il transito delle merci cinesi. Ciò ha provocato un contenzioso con il Vietnam (per le isole Paracel) e con le Filippine, le cui difese sono state prese dagli USA. Gli USA stanno inoltre riaprendo un contatto con la Birmania, Stato fin qui considerato nella sfera di influenza cinese, come testimoniato dalla visita di inizio dicembre di Hillary Clinton, a sostegno del processo di apertura politica avviato dal governo di quel paese.

La Cina ha infine intensificato la sua attenzione verso il continente africano, annunciando recentemente per il prossimo triennio un prestito di 20 miliardi di dollari ai paesi africani. La cifra, annunciata a luglio dal presidente Hu Jintao in occasione del vertice Cina-Africa svoltosi a Pechino, è il doppio di quella offerta dalla Cina nel triennio precedente (2009-2012). Pechino sostiene che il suo impegno economico in Africa è diverso da quello del colonialismo europeo, ma riceve comunque critiche perché le imprese cinesi impegnate nello sviluppo delle risorse naturali e delle infrastrutture africane spesso importano i lavoratori dalla Cina, senza creare occupazione locale.

 




 

Indicatori internazionali sul paese[1]:

Libertà politiche e civili: “Stato non libero” (Freedom House); “regime autoritario” (2011: 141 su 167; 2010: 136 su 167; Economist)

Indice della libertà di stampa: 171 su 178

Llibertà di Internet (2009): “filtraggio pervasivo” su temi politici e di sicurezza; “filtraggio sostanziale su temi sociali”

Libertà religiosa: gravi limitazioni alla libertà religiosa e violenza da parte di istituzioni (ACS); libertà religiosa riconosciuta dalla Costituzione ma limitata possibilità di registrazione di gruppi religiosi e limitazioni alle attività dei gruppi non registrati (USA)

Libertà economica: Stato “prevalentemente non libero” (2011: 138 su 183; 2010: 135 su 179)

Corruzione percepita: 2011: 75 su 183 2010:78 su 178

Variazione PIL 2010: + 10,3 per cento

Proteste non insurrezionali (Xinjiang e Tibet)

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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File: es1194paese

 

 



[1] Gli indicatori internazionali sul paese, ripresi da autorevoli centri di ricerca, descrivono in particolare: la condizione delle libertà politiche e civili secondo le classificazioni di Freedom House e dell’Economist Intelligence Unit; la posizione del paese secondo l’indice della corruzione percepita predisposto da Transparency International (la posizione più alta nell’indice rappresenta una situazione di minore corruzione percepita) e secondo l’indice della libertà di stampa predisposto da Reporters sans Frontières (la posizione più alta nell’indice rappresenta una situazione di maggiore libertà di stampa); la condizione della libertà religiosa secondo i due rapporti annuali di “Aiuto alla Chiesa che soffre” (indicato con ACS) e del Dipartimento di Stato USA (indicato con USA); la condizione della libertà economica come riportata dalla fondazione Heritage la condizione della libertà di Internet come riportata da OpenNet Initiative; il tasso di crescita del PIL come riportato dal Fondo monetario internazionale; la presenza di situazioni di conflitto armato secondo l’International Institute for Strategic Studies (IISS). Per ulteriori informazioni sulle fonti e i criteri adottati si rinvia alle note esplicative presenti nel dossier Analisi dei rischi globali. Indicatori internazionali e quadri previsionali (29 luglio 2011) e nella nota Le elezioni programmate nel periodo settembre-dicembre 2011 (9 settembre 2011).