Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||||
Titolo: | Focus settimanale - La crisi politica in Libia e negli altri paesi del Nord Africa e del Medio Oriente | ||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 208 | ||||
Data: | 15/03/2011 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||||
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
La
crisi politica in Libia e negli altri paesi del Nord Africa
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n. 208 |
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15 marzo 2011 |
Servizio responsabile: |
Dipartimento Affari esteri ( 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it
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File: es0709.doc |
INDICE
Gli sviluppi della crisi libica nel quadro dei rivolgimenti politici nordafricani e mediorientali
§ Ruolo dei nuovi media e dei gruppi giovanili
§ Cronologia della crisi libica
§ Le ultime due settimane della crisi libica
Scheda paese politico-istituzionale
§ Libia
Documenti ufficiali
§ Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Risoluzione n. 1970 del 26 febbraio 2011
§ Re Mohamed VI del Marocco, Discorso del 9 marzo 2011
§ Ministri della difesa dell’Alleanza atlantica, Riunione del 10 marzo 2011
§ Consiglio dell’Unione Europea, Comunicato stampa dell’11 marzo 2011
§ Consiglio Straordinario europeo, Dichiarazione dell’11 marzo 2011
Pubblicistica
Questioni di interesse generale
§ J.P. Cassarino, Confidence-building in Tunisia after the Popular Uprising: Strategies and Dilemmas of the Interim Government, in: IAI Working Papers, n. 4 - febbraio 2011
§ J.O. Lesser, The Revolutions in Turkey’s Near Abroad, in: Analysis, 16 febbraio 2011
§ G. Friedman, Revolution and the Muslim World, in: www.stratfor.com, 22 febbraio 2011
§ Issa Khalaf, A Great Change is Sweeping Arab Political Culture, in: www.isn.ethz.ch, 23 febbraio 2011
§ Blood and oil The West ha sto deal with tyrants, but it should do so on its own terms, in: www.economist.com, 24 febbraio 2011
§ P. Stevens, The Arab Spring and Oil Markets, in: www.chathamhouse.org.uk, 25 febbraio 2011
§ K.M. Pollack, Winds of Change in the Middle East, in: www.brookings.edu, 27 febbraio 2011
§ G.S. Frankel, Il vero rischio è il contagio nel Golfo, in: ISPI Commentary, 28 febbraio 2011
§ M. Verda, Per l’Italia lo shock può arrivare dall’Algeria, in: ISPI Commentary, 28 febbraio 2011
§ Rifornimenti energetici a rischio? – Background, in: ISPI dossier, marzo 2011
§ F. Godement, Is Jasmine a Chinese flower?, in: The European Council on Foreign Relations, 1° marzo 2011
§ R. Gowan, Will the EU win glory on the shores of Tripoli?, in: The European Council on Foreign Relations, 9 marzo 2011
§ B. Nascimbene e A. Di Pascale, Emergenza sbarchi. Le richieste dell’Italia e gli indugi di Bruxelles, in: www.affarinternazionali.it, 4 marzo 2011
§ M.S. Kimenyi, The Arab Democracy Paradox, in: www.brookings.edu, 4 marzo 2011
§ J. Matringe, Les révolutions et le principe de non-ingérence, in: www.affaires-strategiques.info, 4 marzo 2011
§ B. Nascimbene e A. Di Pascale, L’Unione Europea di fronte all’afflusso eccezionale di persone provenienti dal Nord Africa. Una colpevole assenza?, in: Documenti IAI, n. 5 - marzo 2011
§ UE: le possibili conseguenze migratorie delle rivolte nordafricane, in: www.equilibri.net, 5 marzo 2011
§ Don Vittorio Nozza, Come ci stiamo attrezzando per l’emergenza immigrati, in: Limes- Rivista italiana di geopolitica, 7 marzo 2011
§ F. Bicchi e C. Carta, Arab Uprisings Test EU Architecture, in: www.isn.ethz.ch, 7 marzo 2011
§ B. Zand, What the Arab World’s Past Can Tell Us About Its Future, in: www.spiegel.de, 8 marzo 2011
§ H. Nabli, Différences et Répétitions, in: www.affaires-strategiques.info, 9 marzo 2011
§ A. Wellard e R. Visser, Non ci sono pompieri per l’incendio mediorientale, in: Limes – Rivista italiana di geopolitica, 11 marzo 2011
Egitto
§ Popular protest in North Africa and the Middle East (I): Egypt Victorious?, Middle east/North Africa Report n. 101, 24 febbraio 2011
§ N.J. Brown e M. Dunne, Egypt’s Draft Constituional Amendments Answer Some Questions and Raise Others, in: www.carnegie-mec.org, 1° marzo 2011
§ S. Hamid, The New Egypt and the Muslim Brotherhood, in: www.brookings.edu, 8 marzo 2011
§ D.J-N. Ferrié, Egypte: replâtrage ou révolution?, in: www.telos-eu.com, 14 marzo 2011
Libia
§ S. Shaikh, Libya’s Test of the New International Order, in: www.brookings.edu, 26 febbraio 2011
§ A. Varvelli, Petrolio e gas: c’è ancora l’Italia nel dopo Gheddafi?, in: ISPI Commentary, 28 febbraio 2011
§ G. Noll e M. Giuffré, EU Migration Control: Made by Gaddafi?, in: www.isn.ethz.ch, 28 febbraio 2011
§ D. Korski, Libyan regime change is now the only option, in: The European Council on Foreign Relations, 1° marzo 2011
§ I. Sharqieh, Even a Weakened Libya Can Avoid Civil War, in: www.brookings.edu, 2 marzo 2011
§ E. Paoletti, L’Italia tra allarmismo e realpolitik, in: www.affarinternazionali.it, 4 marzo 2011
§ G. Cucchi, Tre scenari per la Libia, in: www.affarinternazionali.it, 5 marzo 2011
§ H.A. Conley, Turmoil in Libya: The View from Europe, in: http://csis.org, 7 marzo 2011
§ Chi vuole attaccare la Libia? E da dove? Il ruolo dell’Italia, in: Limes – Rivista italiana di geopolitica, 7 marzo 2011
§ M. Arpino, Il dubbio amletico sulla no-fly zone in Libia, in: www.affarinternazionali.it, 7 marzo 2011
§ L. Caracciolo, La trappola dell’intervento, in: Limes – Rivista italiana di geopolitica, 8 marzo 2011
§ G. Friedman, How a Libyan No-fly Zone Could Backfire, in: www.stratfor.com, 8 marzo 2011
§ D. Jerome, Weighing a Libyan No-Fly Zone, in: www.crf.org, 8 marzo 2011
§ R. Gowan, Can Diplomacy Work in Libya?, in: www.worldpoliticsreview.com, 9 marzo 2011
§ K.M. Pollack, The Real Military Options in Libya, in: www.brookings.edu, 9 marzo 2011
§ S. Stewart, Will Libya Again Became the Arsenal of Terrorism?, in: www.stratfor.com, 10 marzo 2011
§ F. Maronta, Le opzioni dell’America in Libia, in: Limes – Rivista italiana di geopolitica, 11 marzo 2011
Tunisia
§ S. Dennison, A. Dworkin, N. Popescu e N. Witney, After the revolutions: Europe and the Transition in Tunisia, in: www.ecfr.eu, n. 28 - marzo 2011
Altri Paesi dell’area
§ Tunisia’s devolution. Now what?, in: www.economist.com, 10 febbraio 2011
§ Yemen: la difficile scelta tra democrazia ed antiterrorismo, in: www.equilibri.net, 11 febbraio 2011
§ Marocco: tra Occidente ed islamismo, in: www.equilibri.net, 14 febbraio 2011
§ Bahrain: una piccola rivolta con grandi conseguenze, in: www.equilibri.net, 25 febbraio 2011
§ A.H. Cordesman, Understanding Saudi Stability and Instability: A Very Different Nation, in: http://csis.org, 26 febbraio 2011
§ M. Mercuri, Mediterraneo. Crisi, rivolte…e poi? Alcune ipotesi sul futuro dei regimi dell’area, in: www.equilibri.net, 4 marzo 2011
§ S. Hamid, Why Middle East Monarchies Might Hold On, in: www.brookings.edu, 8 marzo 2011
§ S. Dali, Feu identique, conséquences différentes: un aperçu des inégalités régionales en Tunisie, in: www.affaires-strategiques.info, 9 marzo 2011
Nel generale sommovimento popolare che sta scuotendo dall’inizio del 2011 l’Africa settentrionale sembrava che la Libia potesse tenersi al di fuori, in virtù di alcune particolari caratteristiche del paese: si tratta infatti di uno Stato grande esportatore di petrolio e gas, con una popolazione assai limitata e conseguentemente un elevato reddito pro-capite nel quale vigono condizioni di vita assai privilegiate per le élites dirigenti. I tratti almeno parzialmente ridistributivi del regime hanno garantito inoltre un certo livello di riallocazione delle ricchezze introitate dal paese con l’esportazione di gas e petrolio.
Ciononostante, a partire dalla metà di febbraio 2011 anche la Libia è stata investita dai moti di contestazione radicale del potere costituito, esattamente come prima avvenuto in Tunisia ed Egitto.
E’ stato da più parti evidenziato come l’esistenza nei nostri tempi della rete Internet e di tutte le tecnologie di telecomunicazione analoghe, stia favorendo una propagazione dei moti di protesta prima assolutamente impensabile. Se non vi è dubbio che la facilità di comunicazione - pur spesso ostacolata dai governi – riduca sensibilmente i tempi del “contagio” rivoluzionario tra paese e paese, è pur vero che in passato fiammate del tutto analoghe, anche se più lungamente protratte nel tempo, hanno scosso più volte l’Europa.
Porre quindi la facilità delle telecomunicazioni al centro dell’argomentazione rischierebbe di scambiare le cause con gli effetti, o quanto meno con le concause. Non vi è inoltre alcun dubbio sul fatto che nei diversi paesi appaiano chiaramente differenti anche le motivazioni che hanno innescato le proteste, motivazioni che tuttavia preesistono da lungo tempo e che finora non avevano trovato uno sbocco.
L’elemento veramente nuovo e protagonista delle contestazioni - e a ben vedere ciò sta avvenendo già dalla metà del 2009, quando in Iran si accese per molti mesi la protesta contro la rielezione di Ahmadinejad - sembra piuttosto essere l’irruzione dell’elemento giovanile sulla scena politico-sociale, una vera novità in società fortemente gerarchizzate e ancora patriarcali come quelle del mondo arabo-musulmano. Semmai, e non si tratta di un elemento tranquillizzante, si può immaginare quale sia l’istanza di fondo che motiva un’azione di contestazione che comporta gravissimi rischi per la propria incolumità e la stessa vita, come quella cui stiamo assistendo da una settimana anche in Libia: sembra cioè di poter intravedere come si stia concretizzando il nodo della grande crescita demografica che ha segnato i paesi di questa regione, e ciò paradossalmente proprio in prossimità dell’inizio della fine del boom delle nascite, poiché anche per i paesi arabi si prevede nel medio periodo una stabilizzazione della popolazione.
Se tutto ciò appare scarsamente esplicativo per la Libia, che come già accennato è assai poco popolata, e i cui abitanti non sono necessariamente costretti a una dura competizione lavorativa, non ugualmente può dirsi per paesi come la Tunisia, l’Egitto o lo stesso Iran, dove ormai il numero preponderante di giovani, molti dei quali ben istruiti, rende chiara l’impossibilità per i vari paesi di offrire un numero adeguato di posizioni lavorativamente soddisfacenti.
Lo squilibrio demografico non sembra facilmente superabile: un esito di questa criticità potrà essere rappresentato dall’emigrazione, come del resto è puntualmente avvenuto subito dopo la cacciata di Ben Ali da Tunisi: non va dimenticato che più di un osservatore ha già rilevato come il forte restringimento di tale valvola di sfogo verso i paesi europei negli ultimi anni possa aver contribuito in modo determinante alla gestazione del risentimento e della protesta rovesciatisi contro i vecchi rais della regione.
Tornando più specificamente al caso libico, va senz'altro messo in rilievo come dopo la Tunisia anche qui tra le ragioni dello scatenamento della rivolta contro il regime del colonnello Gheddafi vadano sottolineati elementi di squilibrio interno tra diverse regioni del paese. Non a caso l'epicentro delle proteste è stata all'inizio la città di Bengasi, principale centro della Cirenaica, che da sempre contende a Tripoli il primato, e che da sempre costituisce per il regime di Gheddafi una problematicità. Va infatti ricordato che la monarchia di re Idris, spodestata proprio dal colpo di Stato guidato nel 1969 dal colonnello Gheddafi, aveva proprio una forte caratterizzazione nell'elemento tribale della Cirenaica, che da allora non è mai stata pienamente integrata nel sistema politico libico.
Va del pari ricordato che la Cirenaica aveva costituito il nucleo della resistenza al colonialismo italiano, e che da tale area del paese aveva avuto origine la confraternita islamica dei Senussi, capace di esercitare una forte influenza, in direzione della costruzione di un Islam politico, anche verso grandi paesi come l'Egitto e finanche il Sudan.
Le prime avvisaglie della rivolta in Libia si sono registrate già tre giorni dopo la caduta in Egitto di Mubarak - Gheddafi aveva peraltro appoggiato il rais egiziano -, quando sulla rete Internet comparivano appelli per l'organizzazione di manifestazioni pacifiche contro il Colonnello. Il giorno successivo, il 15 febbraio, la polizia è intervenuta a Bengasi per disperdere un sit-in di protesta contro il Governo, organizzato nello specifico per richiedere il rilascio di un avvocato che rappresenta le famiglie delle vittime dell'eccidio del 1996 in una prigione di Tripoli. La resistenza di circa 200 manifestanti portava all'arresto di alcuni di essi, e al ferimento di diverse decine. Nella vicina città di al Baida si registravano tra i manifestanti due vittime uccise dalle forze di sicurezza.
Dopo queste prime avvisaglie, il 17 febbraio la prevista “giornata della collera” contro il regime di Gheddafi, indetta in occasione del quinto avversario dell'uccisione da parte della polizia di 12 manifestanti, faceva registrare la morte di otto persone per mano delle forze di sicurezza libiche, delle quali sei a Bengasi e due ad al Baida, con diverse decine di feriti. Intanto si verificavano a sud-ovest della capitale Tripoli i primi attacchi contro posti di polizia e un edificio pubblico, seguiti da diversi arresti. Dal regime proveniva qualche segnale di apertura, quando fonti adesso vicine riferivano sul rilascio di 110 prigionieri politici e sulla prossima convocazione di una commissione incaricata di considerare importanti cambiamenti all'assetto di governo del paese.
Il 18 febbraio, mentre si raggiungeva la cifra di 40 morti negli scontri, a Bengasi veniva incendiata la sede della radio locale, mentre ad al Baida venivano impiccati due poliziotti catturati dai manifestanti. Intanto in tutta la Libia cominciava a registrarsi una serie di difficoltà nel funzionamento della rete Internet. D'altra parte nella capitale Tripoli veniva riferito di dimostrazioni a favore del governo, ritrasmesse con grande enfasi dalla televisione pubblica.
Mentre continuava ad aggravarsi il bilancio degli scontri, a Bengasi perfino un corteo funebre veniva attaccato dalle forze di sicurezza governative, provocando una dozzina di vittime. Anche la città di Misurata faceva intanto registrare i primi scontri tra manifestanti e sostenitori di Gheddafi.
Il 20 febbraio era ormai chiaro il dilagare della protesta nel paese, a fronte di una dura repressione che faceva segnare un numero di vittime vicino a 200, e secondo fonti mediche anche superiore. Proprio negli ospedali gli effetti della repressione delle proteste si presentavano più drammatici, con penuria di personale medico, sangue e attrezzature. Intanto venivano segnalati i primi lanci di razzi contro i manifestanti.
Verso la fine della giornata Seif al Islam, considerato tra i figli di Gheddafi quello politicamente più “aperto”, appariva alla televisione pubblica accusando per i moti di protesta un presunto complotto dall'esterno, mettendo in guardia i libici contro il rischio di una guerra civile, della frantumazione del paese in più emirati islamici, della possibilità di perdere il controllo sulle risorse petrolifere a beneficio di un rinnovato colonialismo occidentale. D'altra parte, il figlio di Gheddafi ha riconosciuto la possibilità di eccessi da parte delle forze dell'ordine, secondo lui colte di sorpresa dai moti di rivolta, i cui protagonisti si sarebbero lasciati semplicemente entusiasmare da quanto avvenuto in Egitto e in Tunisia, mentre altri sarebbero stati addirittura drogati.
Seif al Islam ha poi lanciato la proposta di convocazione ad horas dell'Assemblea generale del popolo per dar vita ad una nuova Costituzione e a riforme capaci di vedere incontro alle principali richieste popolari. Presupposto di tali aperture, è tornato a ribadire Seif al Islam, dovrà essere il rapido ritorno alla normalità, che le forze di sicurezza dell'esercito imporranno con ogni mezzo.
Intanto però la protesta non accennava a placarsi, e si verificava il saccheggio dell'edificio della televisione pubblica di Tripoli, e l'incendio di diversi edifici pubblici. Il delegato libico presso la Lega araba, intanto, annunciava le proprie dimissioni per unirsi alla rivoluzione. Nella città di Bengasi alcuni manifestanti riferivano della presenza di mercenari provenienti da altri paesi, impiegati per sparare in modo indiscriminato sulla folla in rivolta.
Il 21 febbraio la repressione compiva un ulteriore salto di qualità, con un massiccio bombardamento sui manifestanti a Tripoli, mentre le principali società petrolifere straniere, tra le quali l'ENI, procedevano all'evacuazione del personale non strettamente indispensabile e delle loro famiglie. Due piloti militari libici, asserendo di non voler obbedire all'ordine di bombardare i manifestanti, riparavano a Malta a bordo dei loro caccia. Quanto affermato dai due piloti sembrava trovare conferma nella denuncia fatta da una serie di diplomatici libici dissociatisi dal regime, tra i quali l'ambasciatore in India e il vice ambasciatore presso le Nazioni Unite, per cui i manifestanti sarebbero stati attaccati addirittura dall'aviazione militare. La veridicità sul numero elevatissimo delle vittime sembrava trovare conferma anche da parte statunitense, quando un comunicato USA condannava con forza l'utilizzazione della violenza contro i manifestanti libici.
Sul delicato versante dell’approvvigionamento energetico, è stata sospesa la fornitura di gas libico attraverso il gasdotto Greenstream. L'ENI ha precisato di essere in ogni caso in grado di fare fronte alla domanda di gas dei propri clienti. Secondo la società petrolifera (che ha sospeso anche alcune attività di produzione petrolifera) ed il Ministero dello Sviluppo economico, le procedure di messa in sicurezza attivate relativamente a Greenstream consentono un'opportuna tutela tecnica del gasdotto, e non comportano alcun problema per la sicurezza delle forniture ed il consumo di gas per il nostro paese, considerando anche il fatto che la Libia soddisfa circa il 10% del fabbisogno italiano.
Nel Regno Unito l'Ambasciatore libico veniva convocato per protestare contro l'uso indiscriminato della forza per reprimere le manifestazioni di piazza. Anche il segretario generale della Lega araba Amr Mussa ha richiesto la fine delle violenze in Libia, mentre la difficile situazione del paese provocava il primo picco nei prezzi del petrolio, con il brent di riferimento salito a 105 dollari per barile, come non si verificava ormai da due anni. Verso la fine della giornata lo stesso Gheddafi appariva molto brevemente sulla televisione pubblica per smentire le voci sulla propria fuga in Venezuela e assicurare la propria presenza nel difficile momento del paese.
Il 22 febbraio si sono registrate le prime iniziative in seno alle Nazioni Unite, con l'annuncio da parte del Segretario generale dell'ONU della riunione del Consiglio di sicurezza con al centro la crisi in Libia. Ban-ki moon ha anche riferito di aver avuto un colloquio con Gheddafi, esortandolo alla moderazione e al rispetto dei principali diritti umani. L'Alto commissario ONU per i diritti umani ha chiesto frattanto un’ indagine indipendente a livello internazionale sulle violenze in Libia.
La stessa Lega araba ha convocato una riunione straordinaria degli ambasciatori per una discussione sulla situazione libica, ed il ministro degli esteri italiano Frattini, incontrando al Cairo proprio il Segretario generale della Lega araba, ha espresso preoccupazione per i rischi di guerra civile in Libia e per un esodo di dimensioni epocali di immigrati dal Nordafrica verso il territorio europeo.
Dopo l'appello alla Corte penale internazionale del vice ambasciatore libico presso le Nazioni Unite per aprire immediatamente un'inchiesta per crimini contro l'umanità nei confronti di Gheddafi, la Corte ha confermato di essere alla ricerca di prove in tal senso.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso una netta condanna delle violenze in Libia e ne ha chiesto "l'immediata cessazione", invocando "una rinnovata determinazione negli sforzi volti a restituire al popolo libico la speranza in un futuro migliore". Il capo dello Stato ha sottolineato oggi come "alle legittime richieste di riforme e di maggiore democrazia che giungono dalla popolazione libica vada data una risposta nel quadro di un dialogo fra le differenti componenti della società civile libica e le autorità del paese che miri a garantire il diritto di libera espressione della volontà popolare".
Lo stesso giorno il Colonnello si è rivolto alla nazione con un lungo messaggio in diretta tv, trasmesso dalla sua residenza a Tripoli, per dimostrare prima di tutto che non ha lasciato la Libia, né ha alcuna intenzione di farlo: “Muammar Gheddafi non ha nessun incarico dal quale dimettersi. Non sono un presidente, sono la guida della rivoluzione e tale resterò anche a costo del sacrificio della vita”. Ha lanciato un appello ai suoi sostenitori perché scendano in piazza già da domani per schiacciare i manifestanti, "ratti" diretti da chi sta all'estero, accusando gli Stati Uniti ed il nostro Paese di armare la rivolta fornendo armi ai ragazzi di Bengasi.
Il leader libico ha giocato anche la carta della minaccia islamica, sostenendo che i rivoltosi "vogliono trasformare il paese in un emirato" e che gli scontri di questi giorni "hanno l'obiettivo di consegnare il paese all'America o a Bin Laden".
Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha immediatamente smentito le affermazioni Gheddafi riguardo all'ipotesi di una fornitura italiana di armi e razzi ai manifestanti di Bengasi. In una telefonata al colonnello, durata circa venti minuti, il presidente del Consiglio ha discusso della situazione nel Paese nordafricano e ha rimarcato la necessità di arrivare ad una soluzione pacifica per evitare che la situazione degeneri e per scongiurare una "guerra civile".
Il 23 febbraio iniziano a circolare stime preoccupanti sul numero delle vittime a seguito del rivolgimento libico, come quella di un totale di diecimila morti, diffusa dall’emittente televisiva al-Arabiya, assieme alle foto di fosse comuni nella capitale – altre fonti hanno parlato di meno vittime, ma quasi mai sotto il migliaio. Mentre da parte dei miliziani fedeli a Gheddafi aumenta la stretta sulla capitale, si moltiplicano tuttavia le defezioni in tutto il resto del paese, in corrispondenza della rivendicazione, da parte dei ribelli già in possesso di gran parte della regione orientale, di aver conquistato nuovi territori in direzione di Tripoli.
Tra le defezioni dalle forze armate si segnala quella di due piloti i quali, rifiutando di bombardare una città caduta nelle mani dei ribelli, hanno disertato, lasciando sfracellare i loro aerei nel deserto. A fronte delle minacce francesi e tedesche di colpire la Libia con sanzioni europee per pulire Gheddafi della dura repressione delle proteste, la stessa Unione europea configurava le violenze del paese quali possibili fonti di prova per l’accusa a Gheddafi per crimini contro l’umanità, chiedendo a tale scopo opportune indagini. Anche a livello internazionale viene colpito il prestigio della famiglia del dittatore libico, con l'annuncio della decadenza della figlia Aisha dal ruolo di ambasciatrice volontaria presso l'Agenzia sussidiaria dell’ONU UNDP. Intanto migliaia di libici e lavoratori stranieri in fuga dal paese si dirigono da un lato verso la Tunisia e dall’altro verso l’Egitto, mentre diverse compagnie petrolifere hanno disposto la sospensione completa delle loro attività.
Il Presidente del Consiglio Berlusconi ha espresso la netta contrarietà del Governo italiano alle violenze e ad ogni deriva fondamentalista, manifestando al contempo una posizione di cautela sui possibili sviluppi del quadro politico libico, visto il carattere strategico di Tripoli per l’Italia.
Inoltre, nella stessa giornata del 23 febbraio il ministro degli esteri Frattini ha reso alla Camera un’informativa urgente sugli sviluppi della situazione in Libia.
Ricordati gli sforzi degli ultimi anni dei Governi italiani per mantenere buoni rapporti con la Libia, tra l’altro rivolti a un contrasto efficace dell’immigrazione clandestina, nella mutata situazione il Ministro ha fatto appello a una collaborazione bipartisan e a un efficace coordinamento tra Esecutivo e Parlamento per affrontare le problematiche relative alla drammatica crisi interna della Libia. Il Ministro ha confermato la falsità delle accuse relative all’Italia di aver venduto armi ai rivoltosi libici, richiamando piuttosto la dichiarazione adottata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU nella quale si condanna la violenza e si richiede l'instaurazione di un dialogo civile nazionale, nonché la decisione dell'Unione europea di sospendere i negoziati per l'accordo quadro con la Libia. Il Ministro ha altresì ribadito il rischio di un eventuale fenomeno migratorio di massa, e a tal proposito nella riunione del Consiglio dei Ministri dell'interno e della giustizia del 24 febbraio l’Italia richiederà una comune condivisione degli oneri a tutti i paesi dell’Unione europea. Oltre al pericolo di forti ondate di immigrazione irregolare, il Ministro ha posto in rilievo le negative conseguenze che l'attuale situazione libica determinerà per le imprese italiane ivi operanti nel settore delle infrastrutture.
Nel frattempo il Ministero dell’Interno ha comunica che dall’inizio dei rivolgimenti in Nord Africa vi sono stati in Italia 6.300 arrivi di immigrati irregolari, con i centri di accoglienza ormai al limite della capienza massima. Si tratta fino a questo momento soltanto di tunisini, dei quali solo una piccola minoranza ha presentato domanda per ottenere l’asilo. Il ministro degli interni Maroni ha convocato inoltre i colleghi degli Stati europei maggiormente interessati dai probabili futuri forti flussi di immigrati (Cipro, Grecia, Malta, Spagna e Francia), in vista della richiesta all’Unione europea di istituire un fondo speciale di solidarietà per far fronte alla difficile contingenza. Per quanto riguarda i lavoratori italiani in Libia, al 23 febbraio risultavano rimpatriati con ponte aereo circa 800 di essi, a fronte di un migliaio ancora nel paese, quasi tutti in Tripolitania.
Il 24 febbraio la situazione degli scontri sembra delinearsi più nettamente, con l’estensione verso ovest delle zone controllate dai ribelli – che si assicurano anche il controllo di alcuni impianti e terminal petroliferi a est di Tripoli, e la concentrazione nella capitale delle truppe fedeli a Gheddafi, le quali lanciano una parziale e sanguinosa controffensiva di alleggerimento a ovest di Tripoli. Il colonnello farnetica di ribelli ai quali al-Qaida avrebbe distribuito droghe.
Nel crescere delle preoccupazioni internazionali, i presidenti di USA e Francia tornao a chiedere con forza la fine della repressione, mentre la UE comincia a parlare di possibile intervento militare umanitario.
Mentre continua a salire il prezzo del petrolio di riferimento europeo, che tocca i 120 dollari per barile, la riunione dei ministri degli Stati membri della UE competenti per l’immigrazione delude le aspettative italiane, in quanto soprattutto i paesi della fascia settentrionale dell’Unione si rivelano contrari a una riformulazione delle regole sul diritto d’asilo, ponendo le premesse per l’impossibilità di uno smistamento nel resto dell’Europa degli immigrati irregolari approdati nel territorio di uno fra gli Stati meridionali. Ciononostante il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in visita in Germania, ha rilanciato l’appello a una risposta unitaria dell’Unione europea all’emergenza nordafricana, con la disponibilità del nostro paese anche ad imporre sanzioni alla Libia, da discutere sempre in sede comunitaria.
Il 25 febbraio miliziani fedeli al regime aprono il fuoco contro alcuni manifestanti antigovernativi che, finita la preghiera del venerdì, defluivano da alcune moschee, provocando almeno cinque morti. Comunque le manifestazioni a Tripoli venivano accompagnate da analoghe dimostrazioni di decine di migliaia di persone che si sono riunite nelle città ribelli della parte orientale della Libia, come anche da imponenti manifestazioni in numerose capitali del mondo arabo, in solidarietà con la lotta del popolo libico. Altri diplomatici libici sono tornati a dichiararsi contrari al regime e favorevoli al movimento di rivolta, tra i quali alcuni distaccati presso le agenzie delle Nazioni Unite a Ginevra ed altri operanti presso la Lega araba.
I combattimenti sul campo hanno conosciuto alterne vicende, con la parziale riconquista da parte delle truppe favorevoli a Gheddafi della base aerea di Misurata, attaccata con carri armati provocando la morte di 25 persone.
Intanto, il presidente USA Obama ha firmato un provvedimento per il congelamento di somme e beni detenuti negli Stati Uniti da Gheddafi e da quattro dei suoi numerosi figli. Per tutta risposta il colonnello ha minacciato aprire gli arsenali del paese ai propri sostenitori, con chiaro incitamento alla guerra civile, il che non ha impedito al figlio Seif al-Islam di riconoscere l’avvenuta perdita del controllo sulla parte orientale della Libia.
La NATO e l’Unione europea si sono coordinate per iniziare il salvataggio di stranieri che hanno raggiunto le spiagge libiche, mentre la UE comincia a esaminare le possibilità di imporre sul cielo libico una no fly zone, nonché l’embargo sulle armi e il congelamento dei beni e attività finanziarie, unitamente al divieto dei viaggi, per alcuni esponenti della classe dirigente libica.
Intanto cresce la mobilitazione internazionale: la diplomazia italiana sta cercando di promuovere un’azione condivisa nell’ambito dell’ONU e dell’Unione europea, anzitutto attraverso colloqui telefonici con il presidente Obama – avvenuto il giorno precedente - e il premier britannico Cameron. La diplomazia italiana si dichiara favorevole all’ipotesi di elevare sanzioni mirate contro il regime libico, e intanto il ministro della Difesa La Russa annuncia il via libera del governo italiano alla richiesta britannica e americana di riapertura della base militare di Sigonella agli aerei dei due paesi, con l’obiettivo immediato del rimpatrio degli oltre diecimila cittadini statunitensi presenti in Libia, ma anche contemplando la possibilità dell’imposizione della no fly zone sui cieli libici.
Il rimpatrio degli italiani dalla Libia è proseguito a ritmo sostenuto, superando il numero di 1.100 connazionali rientrati. Sul fronte dei profughi, il Ministero dell’interno ha reso noto di essersi attivato sul territorio nazionale per la ricerca di circa 50.000 posti letto, in previsione di massicci afflussi dal Nord Africa.
Esortato in maniera speciale del Segretario generale Ban Ki-Moon e dalla Francia, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto il 22 febbraio una seduta speciale a porte chiuse, iniziando a valutare le sanzioni da imporre alla Libia, misure appoggiate anche dalla diplomazia britannica, da quella tedesca e dall’Alto rappresentante PESC della UE. A Ginevra il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha votato all’unanimità la sospensione della Libia dall’organismo, con il plauso di un diplomatico della delegazione libica, che ha dichiarato di schierarsi a fianco degli insorti. Inoltre il Consiglio per i diritti umani ha adottato una risoluzione, di iniziativa dei membri europei, di condanna del governo di Gheddafi per la violenta repressione delle proteste, creando un’apposita commissione d’inchiesta per portare alla luce eventuali crimini commessi.
Mentre Gran Bretagna e Francia sospendevano l’attività delle rispettive rappresentanze diplomatiche a Tripoli, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio il Consiglio di sicurezza dell’ONU, in modo insolitamente tempestivo, ha approvato una serie di sanzioni contro Gheddafi e la sua famiglia, decretandone il blocco dei beni e imponendo l’embargo sulla vendita di armi alla Libia.
I principali punti della risoluzione n. 1970 sono:
- il deferimento alla Corte penale internazionale dell’Aja, competente per investigare crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, necessario in quanto la Libia non è parte dello Statuto di Roma e obbligo per il prosecutor di riferire regolarmente al Consiglio di Sicurezza
- l’imposizione di embargo sulle armi e di altre restrizioni
- l’imposizione di sanzioni mirate a colpire figure chiave del regime che prevedono, tra il resto, il divieto di viaggio per una serie di soggetti fedeli o parenti di Gheddafi, congelamento dei beni di Gheddafi e dei suoi stretti familiari, impegno a garantire che i beni sequestrati saranno messi a disposizione nell’interesse della popolazione della Libia, stabilimento di un comitato destinato all’imposizione di sanzioni mirate contro altri individui ed enti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, inclusi gli ordini di attacco e di bombardamenti aerei sulle popolazioni civili o strutture;
- le misure di assistenza umanitaria, volte anche a sostenere il ritorno nel paese delle agenzie umanitarie.
La risoluzione, inoltre, fa riferimento al Capitolo VII della Carta Onu, che autorizza la comunità internazionale ad intervenire se un governo non è in grado di garantire pace e sicurezza ma con espresso riferimento a mezzi non militari: infatti, nella risoluzione, è presente un riferimento esplicito all’articolo 41 della Carta, che prevede l’ipotesi di misure che non coinvolgono le forze armate (come richiesto, secondo quanto riportato da fonti di agenzia, da Russia e Cina).
Va soprattutto sottolineato che la risoluzione adottata al Palazzo di vetro per la prima volta ha visto l’approvazione all’unanimità del deferimento alla Corte penale internazionale di un Capo di Stato, nella fattispecie lo stesso Gheddafi, indiziato di aver commesso crimini contro l’umanità.
Lo Statuto della Corte penale internazionale, infatti, prevede che per i paesi come la Libia, che non l’abbiano ratificato, solo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite può disporre il deferimento di autorità di detto paese alla CPI. Dopo il deferimento del presidente sudanese Bashir nel 2005, che però non avvenne all’unanimità per l’astensione di Stati Uniti e Cina, il deferimento di Gheddafi segna indubbiamente una tappa storica per il ruolo della Corte penale internazionale, ma anche per la compattezza del CdS dell’ONU.
Anche l’Unione europea è giunta (28 febbraio) rapidamente all’adozione di sanzioni contro Gheddafi, di contenuto perfino più restrittivo di quelle varate dalle Nazioni Unite, in quanto l’embargo non riguarderà solo la vendita di armi, ma anche la fornitura di ogni equipaggiamento suscettibile di utilizzazione contro manifestanti e ribelli. L’Unione europea ha inoltre ampliato il novero delle persone alle quali verrà negato il visto e che subiranno congelamento dei beni.
Intanto il 27 febbraio è stato formato a Bengasi un Consiglio nazionale composto da membri delle opposizioni al regime, che hanno anche conquistato una cittadina a una ventina di chilometri da Tripoli - peraltro subito poi circondata dalle truppe fedeli al colonnello, che ha continuato a rifiutare ogni ipotesi di lasciare il potere, lanciando nuovamente accuse contro non meglio precisati elementi stranieri e contro al Qaida di essere alla base del rivolgimento libico.
Al confine tra Libia e Tunisia si registra intanto la prima emergenza sanitaria, per il grande affollamento di profughi in fuga dalla Libia, che secondo le Nazioni Unite alla fine di febbraio avrebbero raggiunto tra Tunisia ed Egitto i 100.000 ingressi. Intanto sia il governo britannico che quello statunitense hanno proceduto a congelare beni libici, inclusi quelli di Gheddafi e famiglia, per un totale che negli Stati Uniti ha raggiunto i 30 miliardi di dollari.
In questo contesto il ministro italiano della Difesa ha affermato che il Trattato bilaterale di amicizia con Tripoli è da considerare inoperante e sospeso in via di fatto per mancanza della controparte, ovvero uno Stato libico in grado di applicarlo per quanto di sua competenza.
Il presidente del Consiglio Berlusconi ha peraltro accentuato le critiche all’atteggiamento di Gheddafi, e in un colloquio telefonico con il segretario generale dell’ONU si è detto favorevole a un’azione per porre fine al bagno di sangue e prestare sostegno al popolo libico. L’ambasciatore libico in Italia Gaddur è passato apertamente dalla parte dell’opposizione, firmando un documento congiunto con altri rappresentanti diplomatici di Tripoli in paesi europei: va peraltro ricordato che presso l’ambasciata libica a Roma, già da giorni, era esposta la bandiera nazionale precedente quella adottata dal regime di Gheddafi.
Il ministro degli affari esteri Frattini, incontrando il 28 febbraio a Ginevra gli omologhi statunitense, francese, tedesco e britannico, ha dichiarato che l’Italia è pronta ad agire nel seno della Comunità internazionale contro Gheddafi, che non considera più proprio interlocutore, per porre fine alle violenze sui civili e portare sostegno al popolo libico.
Il colonnello Gheddafi, pur mantenendo un atteggiamento di sfida, è sembrato inclinare progressivamente verso una visione più possibilista, cercando in qualche modo di avviare trattative con i ribelli – il 1° marzo si è diffusa la notizia di un convoglio umanitario organizzato da Gheddafi con circa 40 camion carichi di cibo e medicinali diretto a Bengasi, che soprattutto in loco verrebbe interpretato come tentativo di mediazione - e tentando di accreditare sui media che ancora controlla la versione per la quale il colonnello non avrebbe mai dato ordini diretti di sparare sulla folla in rivolta. La resilienza di Gheddafi è stata però messa a dura prova perfino da Mosca, che il 1º marzo ha fatto trapelare dichiarazioni sulla “morte politica” del leader libico, poiché l’uso della forza militare contro il proprio popolo viene considerato dalle autorità russe qualcosa di inaccettabile e che non deve trovare posto “nel mondo civilizzato”.
La prima metà del mese di marzo, in riferimento alla situazione dei combattimenti in Libia, ha visto progressivamente sfumare le aspettative di una rapida vittoria della ribellione a Gheddafi, mentre si assiste a una controffensiva delle forze a lui fedeli che appare al momento prevalere. Seppure a prezzo di furiosi bombardamenti aerei e combattimenti sul terreno, le forze filo-governative sono riuscite infatti a spezzare completamente l'assedio che progressivamente pareva stringere la capitale Tripoli, riconquistando posizioni ad ovest e soprattutto ad est, dove è stato completato l'accerchiamento della città di Misurata, respinto l'attacco contro Sirte – città natale di Gheddafi -, e, a quanto sembra, riconquistata la città di Marsa Brega, che dista poco più di 300 km dalla roccaforte dei ribelli, la città di Bengasi.
Tra l’altro il 13 marzo per la prima volta un intervento di un leader di Al Qaida ha spronato gli insorti a proseguire la lotta, dando così in parte ragione agli spettri agitati da Gheddafi all’inizio della rivolta, accusando i ribelli di essere terroristi privi di orizzonte politico e miranti solo a destabilizzare il Paese.
A fronte dei successi che sembra riportare sul campo, il leader libico ha dovuto però registrare il 14 marzo la messa al bando sua e del suo entourage da parte della Russia, paese in cui sarà loro interdetta anche qualsiasi operazione finanziaria.
Per quanto concerne le iniziative della Comunità internazionale, dopo una prima fase in cui è stato demandato all'iniziativa dei governi nazionali il blocco dei beni e delle partecipazioni azionarie riconducibili a Gheddafi e alla sua cerchia di potere - si parla di investimenti pari a 100 miliardi di euro in immobili, fondi e una sessantina di società straniere -, il 3 marzo è entrato in vigore un regolamento dell'Unione europea che prevede una serie misure di congelamento dei beni di persone fisiche riconducibili al colonnello libico. Il 4 marzo, poi, l'Interpol ha diramato un ordine di allerta globale volto a impedire a Gheddafi ed altri 15 membri della sua cerchia, tra i quali alcuni familiari, di lasciare il paese, in relazione alla pericolosità dei loro spostamenti, che include la necessità di bloccarne i beni.
Il 5 marzo si è riunito in Italia il Comitato di sicurezza finanziaria, per verificare il livello di applicazione delle misure già decise a livello europeo, in particolare per chiarire al sistema finanziario italiano la portata delle misure già deliberate. Nei giorni successivi è apparso chiaro che l’Unione europea muoveva verso l'estensione – poi entrata in vigore l’11 marzo - a tutti gli effetti delle misure già adottate ad altre tre entità libiche le quali, pur figurando formalmente come entità istituzionali del paese africano, sono da ricondurre all'entourage di Gheddafi - e in particolare la LIA (Libyan Investment Authority), ovvero il fondo sovrano d'investimento libico, detentore di quote in Unicredit, Finmeccanica ed ENI.
Nel periodo di riferimento è proseguito il dibattito sull'ipotesi di istituire sui cieli libici una no fly zone, richiesta ben presto con forza anche dai combattenti contro il regime di Gheddafi, preoccupati della ripresa delle truppe a lui fedeli. Tuttavia, prevedendo in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite l'opposizione cinese e la possibile opposizione russa, sia la NATO e l'Unione europea, sia gli Stati Uniti, non hanno dato seguito a tale ipotesi: a tale proposito, il 7 marzo il ministro degli affari esteri Frattini ha dichiarato la disponibilità italiana a consentire l'uso delle basi aeree di Sigonella e Gioia del Colle, beninteso, sempre secondo Frattini, per operazioni con il consenso dell'ONU, della Lega araba e dell'Unione africana.
Nonostante le pressioni francesi - Parigi ha riconosciuto ufficialmente il Consiglio nazionale libico di Bengasi e ha caldeggiato per bocca del presidente Sarkozy l'effettuazione di bombardamenti mirati sulla Libia -, il segretario generale della NATO Rasmussen ha ribadito l'indispensabilità di un mandato ONU e di un appoggio a livello regionale per l'attuazione di qualsiasi operazione militare in Libia.
Va rilevato tuttavia che dalla riunione dei Ministri degli esteri della Lega araba del 12 marzo è venuto l'esplicito invito alle Nazioni Unite a decidere immediatamente l’istituzione di una no fly zone sulla Libia. La posizione della Lega araba è collegata al giudizio sui crimini e le gravi violazioni commesse da Gheddafi contro il popolo libico, che lo privano di qualsiasi legittimità. La Lega araba ha invece demandato agli Stati membri la decisione circa la partecipazione ad eventuali azioni militari decise dalle Nazioni Unite, se da queste richiesta. Infine, con quello che è sembrato un riconoscimento di fatto, la Lega araba ha deciso di avviare canali per un contatto con il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, anche a scopo umanitario.
Il 10 ed 11 marzo vi è stata un vero e proprio tour de force politico-diplomatico a Bruxelles, con la riunione presso la NATO dei Ministri della difesa dei paesi membri, con una sessione del Consiglio affari esteri dell'Unione Europea e con il Consiglio europeo straordinario dedicato alla crisi nordafricana.
I Ministri della difesa della NATO hanno raggiunto un'intesa per accrescere la presenza di forze navali dell'Alleanza nel Mediterraneo centrale, per far fronte a ogni evenienza nelle circostanze correnti e accrescere la capacità di monitoraggio, anche in riferimento all'embargo sulle armi deliberato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 1970. Inoltre i Ministri della difesa hanno deciso di delegare alle autorità militari lo sviluppo di un piano dettagliato per l'assistenza umanitaria.
Il Consiglio dei Ministri degli esteri dei Paesi membri dell'Unione europea ha dal canto suo proceduto ad estendere la portata delle sanzioni nei confronti di attività finanziarie ed investimenti della Libia (V. supra).
Per quanto infine riguarda il Consiglio europeo straordinario dei Capi di Stato e di governo, esso ha ribadito la perdita di qualunque legittimità da parte del regime di Gheddafi, che ha cessato di essere un interlocutore per la UE. Ciò non significa peraltro un riconoscimento politico del Consiglio nazionale provvisorio di Bengasi, considerato meramente uno degli interlocutori dell'Unione europea[1].
In riferimento ad eventuali azioni militari la propensione francese e britannica è stata invece frenata dalla Germania, con il sostegno dell'Italia e della Spagna. Il Consiglio europeo ha piuttosto insistito sulla necessità di tenere al più presto un summit tra l'Unione europea, l'Unione africana e la Lega araba, per raggiungere posizioni comuni, senza le quali ogni azione militare è impensabile. Per la prima volta, con soddisfazione del Governo italiano, è stata riconosciuta la necessità di una solidarietà nei confronti degli Stati dell'Europa meridionale più direttamente esposti ai movimenti migratori conseguenti alla vasta crisi in atto nel Nordafrica.
Per quanto concerne la situazione umanitaria, all'inizio di marzo è sembrata aggravarsi per le migliaia di profughi già entrati in Tunisia dalla frontiera libica, mentre numerosi altri premevano per passare. La maggior parte di questi profughi risultavano essere di nazionalità egiziana, impiegati con varie mansioni in Libia. La polizia tunisina si è trovata a gestire con difficoltà l'emergenza, talvolta anche con mano pesante.
L'Italia ha prontamente deciso di far fronte alla difficile situazione, affiancando al personale delle Nazioni Unite già presente in loco una missione umanitaria[2], decisa dal Governo in un vertice serale del 1º marzo, con l'obiettivo di partire dall’Italia entro due giorni. Lo scopo della missione è stato sin dall'inizio esplicitamente, al tempo stesso, quello di fornire aiuti umanitari ai profughi già passati in Tunisia, ma anche di operare un controllo che ne prevenisse l'esodo verso l'Italia.
Nei confronti del nostro Paese Gheddafi ha replicato con durezza al presidente del Consiglio Berlusconi - che aveva detto che il leader libico non gestiva più il paese - ricordandogli l'identificazione tra la Libia e la famiglia Gheddafi. Le iniziative del Governo italiano sono state poi estese anche alla fornitura di aiuti umanitari a Bengasi, e, su richiesta del governo egiziano, l'Italia si è assunta il compito, tramite il Ministero della difesa, di rimpatriare con navi ed aerei militari parte dei profughi ammassati nell'area di prossimo dispiegamento della missione umanitaria italiana.
Le criticità per l’Italia della situazione libica e le linee-guida del Governo per la gestione dell'emergenza umanitaria prodottasi nell'area mediterranea sono state al centro dell’intervento del Ministro dell’interno, Roberto Maroni, presso le Commissioni congiunte Affari costituzionali ed Affari esteri dei due rami del Parlamento il 2 marzo 2011. Il Ministro ha dapprima sottolineato l’entità e il carattere nuovo della prima ondata di immigrazione dal Nord Africa, ponendo in rilievo il rischio che, essendo venuta meno la collaborazione con le autorità libiche per prevenire le partenze da quel paese, un’attenuarsi degli scontri ora in atto potrebbe vedere una seconda e ben più massiccia fase di partenza di immigrati. La maggiore preoccupazione, tuttavia, è rappresentata secondo l’On. Maroni dall’emergenza umanitaria già in atto a cavallo del confine libico-tunisino, con oltre centomila persone in fuga dagli scontri in atto in Libia. Di fronte alla lentezza della risposta internazionale, l’Italia farà partire con effetto immediato una missione umanitaria, realizzando anche, in territorio tunisino, un campo profughi, misura indispensabile per evitare il possibile prossimo riversarsi di questa marea umana sulle nostre coste. Infine il Ministro, segnalando i pericoli che la situazione libica possa evolvere verso uno scenario di tipo somalo, con pericolose infiltrazioni del terrorismo rappresentato nell’area da Al Qaida nel Maghreb, ha ricordato le richieste che i Paesi meridionali della UE, su iniziativa proprio dell’Italia, hanno rivolto all’Unione europea, tra le quali quella di ampliare le competenze dell’Agenzia Frontex, facendo il soggetto gestore delle crisi migratorie, e quella di render possibile una ridistribuzione equa dei richiedenti asilo nell’intero territorio europeo.
Una più ampia e recente illustrazione delle posizioni italiane sulla questione libica è stata resa in occasione delle comunicazioni del Governo alle Commissioni riunite Affari esteri e Politiche dell'Unione europea dei due rami del Parlamento, in ordine al Consiglio europeo straordinario dell'11 marzo, dedicato essenzialmente alla questione libica.
Nella seduta del 9 marzo 2011 il Ministro degli Affari esteri Frattini ha delineato anzitutto i compiti dell'Unione europea e dell'Italia. L'Europa dovrà assumere una forte responsabilità politica per mettere di nuovo in primo piano la questione del partenariato euromediterraneo: il nostro Paese dovrà esercitare un’influenza determinante in tal senso, contribuendo a far superare visioni ormai anacronistiche ed errate per le quali l'elemento della stabilità ha fatto premio in passato sull'elemento della promozione della democrazia. Quanto alla situazione in Libia, il Ministro l'ha definita come una vera propria guerra civile in atto, mettendo in luce l'impossibilità che la Comunità internazionale consideri per l'avvenire il regime di Gheddafi come proprio interlocutore. L'isolamento del regime libico vede ormai la convergenza dell'Occidente e del mondo arabo. Alla luce di quanto esposto, il Ministro ha fornito un elenco delle questioni da affrontare al Consiglio europeo, ovvero anzitutto la conferma della scelta multilaterale per qualsiasi tipo di decisione, poi l'azione umanitaria, collegata all'impatto migratorio potenziale dei rivolgimenti nordafricani, proseguendo con le iniziative per proteggere la popolazione civile libica dalle violenze, per finire con una discussione sulle sanzioni e la loro efficacia. Il Ministro Frattini ha riconosciuto che, seppure con tutta la discrezione del caso, l’Italia ha intrapreso contatti anche con il Consiglio nazionale temporaneo proclamato dai ribelli a Bengasi, con il quale il nostro Paese ha concordato sull'assoluta necessità di mantenere l'integrità territoriale della Libia, senza di che si potrebbe assistere a una situazione di tipo somalo alle nostre frontiere mediterranee. Lo stesso Consiglio nazionale temporaneo ha peraltro espresso con nettezza la propria contrarietà all'ipotesi di una presenza militare straniera, il che aumenta la necessità di considerare seriamente la possibilità dell'imposizione di una no fly zone, per impedire ulteriori e forse più pesanti bombardamenti dell'aviazione di Gheddafi. Per quanto concerne l'azione umanitaria il Ministro ha posto in luce la tempestività dell'azione unilaterale dell'Italia in presenza di un forte ritardo europeo, illustrandone i diversi aspetti. L'Italia è tuttavia consapevole di non poter continuare da sola in tale compito, nel quale deve essere affiancata, oltre che dall'ONU - del resto già presente sul campo - anche dall'Unione europea, per affrontare anche la condizione potenziale di migliaia e migliaia di migranti o richiedenti asilo. Posto in luce che la possibilità dell'imposizione della no fly zone registra ancora numerosi dissensi nella Comunità internazionale, il Ministro ha anticipato che l'Italia sottoporrà alla discussione, al Consiglio europeo, un'iniziativa navale mediterranea congiunta dell'Unione europea e della NATO per assicurare il rispetto delle sanzioni internazionali già deliberate, tra le quali figura quella dell'embargo sulle armi. Le Nazioni Unite dovranno poi rapidamente predisporre una missione in Libia per una constatazione dello stato dei luoghi, dalla quale emerga l’entità dei bombardamenti effettuati su postazioni civili dall'aviazione di Gheddafi. Sull'apparato sanzionatorio, il Ministro ha riferito dell'approvazione di un ulteriore livello di sanzioni economiche da parte dell'Unione europea, concernente la Banca centrale libica, nonché gli investimenti e le partecipazioni azionarie detenute da altre entità finanziarie della Libia, incluso il fondo sovrano di investimento. Il Ministro ha poi accennato all'opportunità di un nuovo Piano Marshall per il Mediterraneo[3], sottolineando come finalmente la Commissione europea abbia deciso lo stanziamento di una somma fino a 10 miliardi di euro per i paesi della sponda sud del Mediterraneo, nel quadro della già annunciata trasformazione dello strumento finanziario euromediterraneo gestito dalla Banca europea degli investimenti in una vera e propria Banca per il Mediterraneo. In questo quadro sarà possibile affiancare agli sforzi di promozione dello sviluppo socio-economico e del settore privato le questioni della collaborazione politica e di sicurezza e quelle relative alla cultura e alla società civile, per imprimere una svolta decisiva in direzione della democrazia. Infine, il Ministro Frattini, in analogia a quello che fu alla fine degli Anni Settanta la Conferenza di Helsinki, ha tratteggiato il progetto di una Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo, capace di coinvolgere gli Stati Uniti, l'Europa, i paesi arabi della regione e la Turchia, tentando di superare finalmente l'opposizione di blocchi ideologici, religiosi e di altro genere che hanno finora pregiudicato il dialogo euromediterraneo: in quest'ottica il Ministro ha auspicato che l'Europa politica riesca a giocare un ruolo stavolta di avanguardia rispetto agli stessi Stati Uniti, e in ciò l'Italia si pone quale fattore propulsore.
In Egitto il 3 marzo il Consiglio supremo delle forze armate ha licenziato il premier che era stato nominato ancora da Mubarak, designando al suo posto Essam Sharaf, già titolare del dicastero dei trasporti qualche anno prima, ingegnere e professore universitario, che aveva partecipato sin dall'inizio alle proteste contro Mubarak.
La designazione di Sharaf, considerata un’altra vittoria dei manifestanti di Piazza Tahrir, è stata salutata con favore da el Baradei, ma con freddezza dai Fratelli musulmani. Lo stesso Consiglio supremo delle forze armate ha indetto per il 19 marzo un referendum sulle modifiche costituzionali, con l'obiettivo prioritario di limitare il mandato presidenziale. Il 5 marzo si è poi aperto il processo contro l'ex ministro dell'interno, con accuse di riciclaggio di danaro e malversazioni: il procedimento appare simbolico nei confronti dell'intero regime di Mubarak e della corruzione di cui è stato accusato dai manifestanti. Nella stessa giornata sono iniziati in diverse località del paese assalti contro sedi del corpo della Sicurezza di Stato, al quale fanno capo la polizia investigativa e quella segreta, certamente invise alla popolazione. Il 6 marzo vi sono stati scontri tra manifestanti ed esercito, intervenuto a protezione di una delle sedi della Sicurezza di Stato.
Il 7 marzo si è avuto il giuramento del nuovo governo, la cui principale novità è stata la sostituzione del ministro degli esteri, con la designazione di un ex giudice della Corte internazionale di giustizia vicino al movimento di el Baradei. Inoltre anche il Dicastero della giustizia ha visto l'arrivo di un nuovo Ministro, impegnatosi nella lotta alla corruzione e nell'assicurazione di procedure e controlli elettorali imparziali. Essam Sharaf ha tenuto a precisare che il nuovo governo si ritiene vincolato ai trattati internazionali vigenti, con evidente allusione distensiva nei confronti di Israele.
Oltre alla questione dell'apparato della Sicurezza di Stato, investito dall'ira dei manifestanti e che vede 47 ufficiali accusati di manomissione e distruzione di documenti, il nuovo governo si è trovato subito di fronte a rinnovate tensioni religiose, dopo l'incendio di una chiesa cristiana copta per una faida familiare tra copti e musulmani. L'8 marzo, dopo tre giorni di proteste seguite all’incendio della chiesa, si è avuta l'uccisione di una donna cristiana in violenti scontri con manifestanti musulmani. Nella notte successiva nuove violenze in tre diversi quartieri della capitale a maggioranza cristiana hanno provocato 13 morti e oltre un centinaio di feriti. Il 10 marzo el Baradei ha finalmente rotto gli indugi annunciando la sua candidatura alle elezioni presidenziali previste nell'anno in corso: el Baradei, tra l'altro, si è detto contrario al referendum del 19 marzo, poiché a suo dire è necessaria una nuova Costituzione, e non semplici emendamenti a quella vigente.
In Tunisia dopo le dimissioni di Ghannouci, che aveva assunto la responsabilità del governo dopo la caduta di Ben Ali, ma che proprio per lo storico legame con il passato regime era stato sempre contestato dalla piazza, per essere infine sostituito dall'anziano Caid Essebsi, già collaboratore del padre della Patria Bourghiba; il 1º marzo è entrato in crisi anche il secondo governo di transizione dalla caduta di Ben Ali, con le dimissioni dei ministri provenienti dall'opposizione al vecchio regime. Il 3 marzo il Presidente ad interim della Repubblica Mebazaa ha rivolto un discorso televisivo al paese, nel quale ha fissato il calendario per la transizione democratica: il 24 luglio si avrà il primo atto, con le elezioni dell'Assemblea costituente. Lo stesso Mebazaa ha anticipato che rimarrà in carica oltre la scadenza del suo mandato, quale garante della transizione democratica.
Il 7 marzo il premier Essebsi ha ufficialmente presentato la nuova compagine governativa, nella quale sono stati cambiati solo cinque ministri, ma si tratta di esponenti di precedenti governi sotto il regime di Ben Ali. Nel nuovo governo non è sembrata invece recepita la richiesta di un massiccio ingresso di tecnici, avanzata dal potente sindacato di sinistra Ugtt. Altro segnale di cambiamento è stato fornito da Essebsi con l'annuncio dello scioglimento della polizia politica, comprensibilmente odiata dal popolo tunisino. Due giorni dopo, il 9 marzo, il tribunale civile di primo grado di Tunisi ha ufficialmente dichiarato lo scioglimento del RCD, partito politico dominante del vecchio regime, del quale è stato anche deciso di liquidare fondi e beni, certamente di cospicua entità.
Nello Yemen non sembra trovare soluzione il contrasto tra il movimento di protesta e il presidente Saleh: decine di migliaia di manifestanti sono tornati in piazza pacificamente nelle strade della capitale il 1º marzo per chiederne le dimissioni, respingendo l'invito del presidente a formare un governo di unità nazionale. Tra l'altro negli ultimi giorni ai giovani universitari si erano uniti esponenti di importanti clan tribali yemeniti e rappresentanti di opposizioni politiche. Il contrasto è proseguito il 4 marzo con grandi manifestazioni nella capitale e sanguinosi scontri tra l'esercito e manifestanti sciiti nel nord del paese: ancora una volta il presidente Saleh ha respinto l'indicazione delle opposizioni di trasferire i suoi poteri entro la fine dell'anno.
La situazione è complicata da rivendicazioni secessioniste degli sciiti nelle province settentrionali e, nel meridione, dai secessionisti di Aden - non a caso il 1º marzo Saleh aveva rimosso i governatori di cinque province meridionali dello Yemen. A tale situazione il presidente in carica ha cercato di reagire nei giorni successivi proponendo il varo di una nuova Costituzione che conceda anche un'ampia decentralizzazione: tutte queste proposte sono state però respinte dal movimento di protesta. Il 12 marzo nuovi scontri in diverse città, con l'uccisione di tre persone, tra le quali un bambino di 12 anni, e un centinaio di feriti, hanno insanguinato nuovamente il paese. Il 13 marzo un manifestante ha perso la vita ad Aden durante l’assalto a un commissariato, mentre gruppi lealisti hanno duramente colpito dimostranti antigovernativi a Sanaa. Il 14 marzo vi sono stati altri 40 feriti in scontri con la polizia, che ha aperto il fuoco in due località a nord-est e ad est della capitale Sanaa.
In Algeria vi sono state il 3 marzo nuove manifestazioni studentesche contro il Ministero dell’istruzione.
In Marocco dopo le manifestazioni del 20 febbraio vi è stata una forte iniziativa della monarchia: il 9 marzo il re Mohammed VI ha annunciato una riforma costituzionale globale con in vista l'espansione delle libertà individuali e collettive. La riforma, il cui articolato sarà presentato al sovrano da un'apposita commissione entro il prossimo mese di giugno, avrà come elementi qualificanti il rafforzamento dello status politico del primo ministro - che sarà scelto nei ranghi del partito politico vincente nelle elezioni per la Camera bassa -, nonché il raggiungimento di uno status indipendente per la magistratura. E’ inoltre prevista l'introduzione di una dimensione regionale per il Regno del Marocco, con particolare riguardo alle province, da decenni contese con il Fronte Polisario, del Sahara occidentale. Nonostante queste aperture, gravi scontri si sono verificati il 13 marzo a Casablanca.
In Giordania, a fronte delle resistenze della monarchia ad avviare un processo di costituzionalizzazione, migliaia di persone hanno dato seguito all’invito degli islamisti a manifestare per riforme politiche.
Nel Bahrein il movimento di protesta guidato dagli sciiti ha presentato al governo la richiesta di dar vita a un’Assemblea per le riforme costituzionali. Dopo scontri tra giovani sciiti e sunniti (questi ultimi pro monarchia) sono stati formulati appelli alla distensione. Presidi di manifestanti hanno costantemente occupato parte della centrale Piazza della Perla. Il 13 marzo decine di persone sono state ferite nel tentativo di occupare il centro finanziario della capitale Manama, mentre il re si è detto disposto a un dialogo sulle principali questioni sollevate dai manifestanti. Intanto però il 14 marzo la forza militare stanziata in Bahrein dal Consiglio di cooperazione del Golfo è stata integrata da un migliaio di soldati sauditi, allo scopo di proteggere infrastrutture strategiche del paese.
In Arabia Saudita hanno preso vita alcuni fermenti di protesta, e un più deciso movimento di piazza da parte della minoranza sciita della parte orientale del paese. In particolare, duemila imprenditori, professori universitari, e liberi professionisti sono stati firmatari di differenti appelli al re Abdullah per una profonda riforma costituzionale del Regno. Gli sciiti della provincia di Qatif sono tornati a più riprese a chiedere la fine delle discriminazioni confessionali e una maggiore rappresentatività nelle istituzioni.
Le autorità saudite hanno comunque predisposto notevoli contromisure di sicurezza per far fronte a ogni evenienza: parallelamente, tuttavia, si è incaricato un centro studi di aprire il dialogo con i sudditi e, con un gesto davvero inedito, il re Abdullah ha deciso di ricevere esponenti sciiti della regione del Qatif. Subito dopo il rientro in patria di due settimane fa, il sovrano aveva inoltre promesso regalie e sussidi ai sudditi per un totale di circa 36 miliardi di dollari, oltre a massicci investimenti in borsa a sostegno del mercato interno in flessione. L’11 marzo la prevista “giornata della collera” è andata praticamente deserta.
Inquietudini hanno percorso anche l’emirato del Qatar e il sultanato dell'Oman, nel quale è stato intrapreso un consistente rimpasto di governo. Perfino nel Kuwait l’8 marzo vi sono state piccole dimostrazioni contro il governo, e per ottenere alcune riforme.
Anche in Iraq il diffuso malcontento nella capitale ha indotto alle dimissioni il sindaco di Baghdad. Tuttavia il giorno successivo (4 marzo) migliaia di manifestanti sono tornati a protestare contro corruzione, disoccupazione e incompetenza degli amministratori.
Il quadro istituzionale
Dal punto di vista della
forma di governo, la Grande Jamahiryia
(traducibile con “masse”) socialista araba del popolo libico, si presenta, a dispetto di una
situazione di fatto che vede un controllo pressoché assoluto della vita
politica e civile da parte di Muammar
Gheddafi, come una sorta di “democrazia diretta” nella quale tutti i cittadini libici
maggiorenni possono partecipare all’attività politica attraverso congressi di
base del popolo. Ciascuno di questi congressi designa un comitato del popolo,
responsabile degli affari locali. I responsabili dei congressi di base e i
componenti dei comitati del popolo costituiscono il Congresso generale del
popolo che si riunisce una volta all’anno per circa una settimana. Il congresso
generale del popolo nomina un suo segretariato e il Comitato generale del
popolo, i cui membri, paragonabili ai ministri di un governo, sono a capo di
specifici dipartimenti.
Questa originale struttura istituzionale è stata creata nel 1977, sostituendo il precedente Consiglio di comando rivoluzionario guidato da Gheddafi che, colonnello ventisettenne dell’esercito libico, aveva preso il potere con un colpo di stato nel 1969: essa si presenta come ispirata ai principi della “rivoluzione del 1969”, una sorta di fusione di motivi socialisteggianti, panarabisti ed islamisti, esposti nel libro verde dello stesso Gheddafi.
Per Freedom House la Libia è uno “Stato non libero” e non è una “democrazia elettorale” mentre il Democracy Index 2010 dell’Economist Intelligence Unit la classifica come “regime autoritario” (per ulteriori elementi cfr. infra Indicatori internazionali sul paese). Al riguardo, con riferimento al rispetto delle libertà politiche e civili, fonti indipendenti indicano che la legge libica proibisce la costituzione di gruppi che si oppongano ai “principi della rivoluzione del 1969” e il codice penale punisce con la pena di morte chi aderisca o supporti tali gruppi (nel 2010 si è però registrato il rilascio di 214 prigionieri politici, ancora detenuti nonostante le autorità giudiziarie ne avessero già disposto la liberazione e l’elargizione di compensazioni per detenzioni illegali di alcuni prigionieri); non esistono organizzazioni non governative indipendenti e persistono pesanti limitazioni alla libertà di associazione. La sola organizzazione che è autorizzata a svolgere compiti di monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani è la “Società per i diritti umani” della fondazione Gheddafi che è guidata dal figlio di Gheddafi, Saif al Islam. Per quel che concerne la libertà di stampa, nel quinquennio precedente al 2010 si è registrata una graduale apertura ad un maggiore libertà di dibattito e di discussione, specialmente su Internet. Con riferimento a tale ultimo aspetto, OpenNet Initiative[4] evidenziava, per l’anno 2009, una situazione di censura selettiva dei siti internet che affrontavano temi politici, mentre non si avevano prove di censure per siti che affrontassero problemi sociali o di sicurezza; il tasso di penetrazione di Internet risultava però nel 2008 ancora basso e pari al 4,7 per cento, anche se la situazione appariva destinata a migliorare con l’introduzione del primo servizio Wimax nel gennaio 2009 (l’unico provider per l’accesso ad Internet risultava comunque quello della compagnia statale Libya Telecom). La situazione della libertà di stampa, però, secondo Human Rights Watch sarebbe tornata a deteriorarsi nel 2010, quando il governo libico avrebbe bloccato l’accesso ad almeno sette siti indipendenti e di opposizione; sospeso le trasmissioni della stazione radio “Good Evening Bendasi”, arrestato brevemente alcuni suoi giornalisti; arrestato almeno 20 giornalisti della Libya Press Agency e sospeso la pubblicazione del periodico “Oea” (sia la Libya Press Agency sia “Oea” sono riconducibili a Saif Al-Islam Gheddafi). Freedom House indica inoltre come già nel 2009 fosse stato nazionalizzato l’unico gruppo editoriale semindipendente, vale a dire quello Al-Ghad anch’esso riconducibile a Saif Al-Islam Gheddafi.
Human Rights Watch indica anche come profilo problematico della realtà libica l’assenza di procedure legali per il riconoscimento dello status di rifugiati agli immigrati presenti sul suolo libico.
Inoltre, sulla realtà libica, continuerebbe a pesare il mancato accertamento delle responsabilità del massacro della prigione di Abu Salim, nel quale morirono nel 1996 circa 1200 persone. In base alle informazioni disponibili, nel marzo 2010, la maggior parte delle famiglie delle vittime, residenti a Bengasi, hanno rifiutato gli indennizzi offerti in cambio della rinuncia all’azione legale.
La situazione politica e sociale
Muammar Gheddafi (n. 1942) non svolge nessun definito ruolo istituzionale, mentre ricopre la carica di leader della rivoluzione.
Nel marzo 2010 la carica di segretario del Congresso generale del popolo risulta ricoperta da Mohamed Abdul Quasim Al-Zwai, mentre il Comitato generale del popolo vede, tra gli altri, Al-Baghdadi Al-Mahmoudi come segretario, Mussa Kussa responsabile del dipartimento esteri, Abdel Fatah Yunis Al-Ubaydi responsabile del dipartimento della sicurezza pubblica.
Forte è il peso nella vicenda politica libica della famiglia Gheddafi ed in particolare dei figli del Rais, come testimoniato dal ruolo di Saif Al Islam Gheddafi, che, come sopra richiamato, sembrava aver inaugurato, negli scorsi anni, una fase di relativa apertura del regime.
Con riferimento ad un altro aspetto meritevole di attenzione, anche alla luce degli eventi recenti, le forze armate libiche risultano, in base ai dati del Military Bilance 2010, dell’International Institute for Strategic Studies relativamente piccole rispetto alla quantità di armamenti in loro dotazione: l’esercito è composto di 50.000 unità, metà delle quali sottoposte a coscrizione (la coscrizione varia da uno a due anni); la flotta da 8000 unità; l’aviazione da 18.000 unità. La spesa in armamenti è stata assai rilevante negli anni Settanta e Ottanta per poi declinare negli anni Novanta: ad un’ampia dotazione di provenienza sovietica si affiancano alcuni armamenti di provenienza occidentale come caccia Mirage di costruzione francese e aerei C-130 da trasporto di costruzione USA. Nell’annuario 2010 il SIPRI evidenzia come la Libia si collochi attualmente al 110° posto nella classifica mondiale degli importatori mondiali di armi e le uniche importazioni significative di armi nel periodo 2005-2009 risulterebbero quelle di elicotteri A-109-K di costruzione italiana per i controlli di frontiera e di missili anti-tank Milan 3 di costruzione francese. A fianco delle forze armate esiste poi la riserva delle milizia del popolo con circa 40.000 persone.
Per ulteriori elementi in ordine alle forze di opposizione al regime di Gheddafi e all’assetto tribale della società libica si rinvia ai sottostanti box 1 e 2.
Le proteste del febbraio 2011 in Libia (per la descrizione delle quali si rinvia alla successiva documentazione che sarà predisposta dal Servizio Studi) si inseriscono in contesto che vede la propagazione di proteste in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente. In proposito, alcuni interpreti hanno individuato uno dei fattori scatenanti della crisi, al di là delle ragioni contingenti, in molti casi associate al rincaro di alcuni generi di prima necessità, a partire dal pane, in una situazione di modernizzazione economica e sociale (confermata anche dai tassi di crescita del PIL) che si è accompagnata al disagio di parte significativa della popolazione ed in particolare delle giovani generazioni. Queste ultime hanno peraltro assunto un peso notevole nell’equilibrio demografico dell’area ed hanno acquisito negli ultimi decenni un livello notevole di scolarizzazione, continuando tuttavia a soffrire di alti livelli di disoccupazione ed esclusione sociale. Pertanto nella tabella 1 è fornito un quadro di sintesi di alcuni indicatori economici e sociali della Libia confrontati con quelli degli altri paesi interessati dalle proteste. Dal confronto emergono alcune peculiarità libiche quali la minore popolazione e il più alto PIL pro-capite (anche a fronte della diminuzione del PIL che, in conseguenza della crisi economica, si è registrata in Libia a differenza di quanto avvenuto negli altri paesi; in proposito si ricorda come i tre quarti del reddito nazionale libico derivino dal petrolio e dal gas naturale). A fronte del più alto PIL pro-capite, peraltro, esistono valutazioni differenziate in ordine all’effettiva distribuzione del reddito. In particolare, si segnala dunque che il PIL libico ha subito nel 2009 un calo del 2,3 per cento; inoltre sempre nel medesimo anno (salvo dove diversamente indicato): il PIL pro-capite è pari a 9,5 dollari; la popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni risulta pari al 17 per cento della popolazione complessiva (stimata nel 2010 a circa 6,5 milioni) e quella tra i 15 e i 29 anni al 28 per cento della popolazione; il tasso di incremento demografico medio registrato nel periodo 2000-2005 è stato di circa il 2 per cento, mentre quello di urbanizzazione nello stesso periodo di circa il 2,1 per cento; il tasso di disoccupazione giovanile (vale a dire quello dei soggetti compresi tra i 15 e i 24 anni) è del 27,4 per cento (28,3 per cento maschile, 34,3 per cento femminile).
Inoltre il 9 febbraio (precedentemente quindi allo scoppio delle più gravi proteste libiche) il settimanale Economist ha elaborato un “indice della protesta politica” negli Stati della Lega araba (qui riportato come grafico 1) che assegnava alla Libia la percentuale più alta (circa 71 per cento), dopo quella dello Yemen, nei rischi di protesta politica. L’indice era elaborato prendendo in considerazione i dati 2010, ovvero quelli dell’ultimo anno disponibile, relativi alla percentuale e al numero assoluto della popolazione con meno di 25 anni di età, alla durata nella permanenza al potere delle leadership politiche dei paesi interessati, alla corruzione percepita ed alla mancanza di democrazia come rilevata dagli indicatori internazionali, al PIL pro-capite e alla situazione della libertà di stampa.
Indicatori internazionali sul paese[5]:
Libertà politiche e civili: Stato “non libero” (Freedom House); regime autoritario (Economist)
Indice della libertà di stampa: 160 su 178
Libertà religiosa: assenza di eventi significativi (ACS); rispetto in generale della libertà religiosa sia pure con controllo della vita religiosa organizzata e limitazioni delle attività dei movimenti islamisti (USA)
Corruzione percepita: 146 su 178
Variazione PIL 2009: - 2,3 per cento
Tabella 1[6]
|
Algeria |
Egitto |
Giordania |
Libia |
Tunisia |
Yemen |
|
Variazione PIL 2009 |
+2,2% (stima) |
+4,7% |
+2,4% (stima) |
- 2,3 % |
+3,1% |
+3,8% (stima) |
|
PIL pro capite |
3,8 $ |
2,45$ |
3,8 $ |
9,5 $ |
3,8 $ |
1,10$ |
|
Popolazione |
34,4
mil |
83
mil |
5,1
mil |
6,5 mil. (stima 2010) |
10,4
mil |
23,6
mil |
|
Tasso di incremento demografico medio 2000-2005 |
1,2 % ca |
1,9 % ca |
2,3 % ca |
2 % ca |
0,8 % ca |
2,4% ca |
|
Percentua-le di popo-lazione giovanile |
15-24 |
20% |
20% |
|
17 % |
22% |
19% |
15-29 |
31% |
29% |
|
28 % |
30% |
29% |
|
Tasso di urbanizzazione 2000-2005 |
2,6 % ca |
1,8 % ca |
2,9 % ca |
2,1 % ca. |
1,6% ca |
4,9 % ca |
|
Tasso di sco-larizzazione se-condaria |
66% |
71% |
84% |
Non disponibile |
66% |
37% |
|
Tasso di disoc-cupazione giovanile |
45,6% |
21,7% |
22,2% |
27,4 % |
27,3% |
18,7% |
|
Maschile |
47,2% |
15% |
17,7 |
28,3 % |
27,1% |
20,5 |
|
Femminile |
56,4% |
41,5% |
39,8 |
34,3 % |
27,8% |
13,5% |
Grafico 1
Box 1: Principali forze di opposizione al regime libico[7]
La dura repressione delle forze di opposizione operata dal regime libico ne influenza oggi la loro attuale consistenza, che appariva fino allo scoppio delle rivolte in atto (delle quali rimangono però ancora da interpretare le dinamiche) debole. Dal punto di vista idelogico, le forze di opposizione appaiono riconducibili a tre diverse aree: quella monarchica; quella democratica e quella islamista.
Gran parte dei movimenti di opposizione, inoltre, opera in esilio (dove sono stati in passato raggiunti dagli attacchi e dagli omicidi mirati dei servizi segreti libici; a loro volta esponenti dell’opposizione si sono resi responsabili dell’omicidio di esponenti governativi libici all’estero). Centro dell’emigrazione politica libica risulta in particolare Londra: nella capitale britannica hanno sede l’Alleanza nazionale; il Movimento nazionale libico; il Movimento libico per il cambiamento e la riforma; il Raggruppamento islamista; il Fronte nazionale di salvezza libico e il Raggruppamento repubblicano per la democrazia e la giustizia. Sempre a Londra ha sede il movimento monarchico che sostiene Mohammed Al Sanusi, nipote dell’ultimo re di Libia Idris, deposto da Gheddafi nel 1969. Questi movimenti hanno costituito nel 2005 l’Accordo nazionale, chiedendo le dimissioni di Gheddafi e la costituzione di un governo transitorio. Il ritorno in Libia, tra il 2005 e il 2006, di circa 787 dissidenti in esilio aveva lasciato intravedere la possibilità dell’avvio di un processo di dialogo, successivamente sfumato.
Sul territorio libico opera in condizioni di semiclandestinità la Fratellanza musulmana libica. Centinaia di componenti della Fratellanza sono stati sottoposti ad ondate di arresti, processi e condanne, lungo tutta la durata del regime di Gheddafi, in particolare nel 1973 e nel 1998. Anche nel 2001-2002 due leader eminenti della Fratellanza sono stati condannati a morte e oltre settanta all’ergastolo. Leader attuale della Fratellanza libica è Suleiman Abdel Qadir, che, nel 2005 ad Al Jazeera, ha descritto gli obiettivi della fratellanza come pacifici ed ha richiesto l’abrogazione delle leggi che sopprimono i diritti politici. Nel 2008, sempre ad Al Jazeera, Qadir ha espresso apprezzamento per gli intenti riformatori di Saif Al Islam Gheddafi, che, a sua volta, era apparso rivolgere alcune aperture nei confronti della Fratellanza.
Presente sul territorio libico è anche il Gruppo di combattimento islamico libico, organizzazione islamista armata. Saif Al Islam Gheddafi ha avviato negli scorsi anni un dialogo con i leader in prigione del gruppo, ottenendo nel 2009 alcuni impegni sulla rinuncia alla violenza da parte del movimento. Allo stesso tempo, nel 2007, il leader di Al Qa’ida Ayman Al-Zawahiri ha annunciato la fusione tra il gruppo ed Al Qa’ida, fusione smentita da esponenti del gruppo a Londra.
Box 2: L’assetto tribale della società libica
La società libica appare ancora oggi fortemente influenzata dai legami di clan e tribali. In attesa di ulteriori approfondimenti, si rileva che nella rivolta contro Gheddafi appaiono coinvolte le tribù del Gebel, zona non distante da Tripoli ed in particolare gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, che già contrastarono l’invasione italiana del 1911. Tra le altre tribù coinvolte si segnalano anche i Warfala, i Rojahan, i Risina, i al Farjane, e ancora i Tuareg, nella zona occidentale del Paese e gli al Zuwayya nel deserto orientale.
In Cirenaica, la zona orientale del paese, con capoluogo Bengasi, appare invece ancora esercitare una forte influenza la tradizione senussa: i senussi sono una confraternita di revival islamico di orientamento sufi sorta alla fine del ‘700 che assunse rapidamente il controllo de facto della Cirenaica. Animatori dell’insurrezione antitaliana nel periodo coloniale, con il loro leader Omar Al Muktar, si schierarono successivamente, durante la seconda guerra mondiale, in funzione antitaliana a fianco dei britannici. Senusso era il re Idris, insediatosi al potere dopo la seconda guerra mondiale.
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[1] Significativamente, il vertice informale dei Ministri degli Esteri UE di Budapest dell’11 e 12 marzo ha auspicato un allargamento del dialogo a tutte le componenti tribali interessate in Libia alla cessazione dei combattimenti.
[2] Il 14 marzo il Presidente del Consiglio Berlusconi, incontrando a Roma il Presidente della Commissione europea Barroso, ha invitato gli altri Stati membri a partecipare allo sforzo italiano.
[3] La proposta era stata rilanciata cinque giorni prima dal Presidente del Consiglio Berlusconi in un vertice del Partito popolare europeo a Helsinki. Nella stessa giornata il Ministro Frattini aveva confermato la posizione già espressa dall’Italia in ordine al Trattato di amicizia italo-libico del 2008, ovvero di considerarlo sospeso, e non annullato, nella prospettiva di una nuova Libia con la quale riprendere a pieno titolo i rapporti bilaterali.
[4] OpenNet Initiative è una partnership tra l’Università di Harvard, l’Università di Toronto e la società di consulenza canadese sui rischi globali SecDev Group istituita allo scopo di informare in maniera indipendente sulle pratiche di censura e controllo di Internet.
[5] Gli indicatori internazionali sul paese, ripresi da autorevoli centri di ricerca, descrivono in particolare: la condizione delle libertà politiche e civili secondo le classificazioni di Freedom House e dell’Economist Intelligence Unit; la posizione del paese secondo l’indice della corruzione percepita predisposto da Transparency International e secondo l’indice della libertà di stampa predisposto da Reporters sans Frontières; la condizione della libertà religiosa secondo i due rapporti annuali di “Aiuto alla Chiesa che soffre” (indicato con ACS) e del Dipartimento di Stato USA (indicato con USA); il tasso di crescita del PIL come riportato dal Fondo monetario internazionale; la presenza di situazioni di conflitto armato secondo l’International Institute for Strategic Studies (IISS). Per ulteriori informazioni sulle fonti e i criteri adottati si rinvia alla nota esplicativa presente in Le elezioni programmate nel periodo febbraio-aprile 2011 (documentazione e ricerche n. 85, 9 febbraio 2011).
[6] Fonti Brookings Institution; Economist Intelligence Unit; Arab Human Development Report 2009. Per quel che concerne il tasso di incremento demografico medio, l’Arab Human Development Report 2009 sottolinea che questo è diminuito, nel complesso dei paesi arabi, dal 3,2% annuo del quinquennio 1970-1975 al 2,1% annuo del quinquennio 2000-2005. La proiezione per il periodo 2005-2010 compiuta dal rapporto è di un incremento medio annuo del 2%, quasi il doppio di quello stimato a livello globale per il medesimo periodo (1,2%)
[7] Fonte: Congressional Research Service, Libya: Background and US relations (16 luglio 2010), in www.opencrs.com