Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||||||
Titolo: | Il ruolo della CSCE-OSCE e dei Movimenti di resistenza civica nel crollo del muro di Berlino e dell'Unione sovietica | ||||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 105 | ||||||
Data: | 09/12/2009 | ||||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | III-Affari esteri e comunitari | ||||||
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Il ruolo della
CSCE-OSCE e dei Movimenti di resistenza civica
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n. 105 |
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9 dicembre 2009 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Affari esteri ( 066760-4939 / 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it |
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File: es0346.doc |
INDICE
CSCE-OSCE: evoluzione e prospettive
§ Le premesse storiche della Conferenza di Helsinki
§ Dalla CSCE all’OSCE: innovazioni e continuità
§ L’International Center on Nonviolent Conflict
Pubblicistica
§ C. Gordon, European Security- Helsinki to Vienna, in Royal United Services Institute. Journal, September 1976, pp. 34 ss.
§ J. Chiama, J.F. Soulet, Histoire de la dissidence. Oppositions et révoltes en URSS e dans les démocraties populaires de la mort de Staline à nos jours, Edition du Seuil, 1982
§ M. Latey, From Helsinki to the Summit, in World Today, October 1985, pp. 177 ss.
§ W. Korey, Making Helsinki Matter, in The New Leader, August 1986, pp. 11 ss.
§ J. Luxmoore, And so to Vienna…The CSCE Eleven Years on, in Contemporary Review, December 1986, pp. 302 ss.
§ G.P. Shultz, Pursuing the Promise of Helsinki, in Department of State Bulletin, January 1987, pp. 47 ss.
§ A. Breslow, Monitoring Eastern Europe’s Transition, in: The Washington Quarterly, n. 4/1991,
§ M. Mascia, I diritti umani nel sistema della CSCE; in: Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, Centro di Studi di Padova, n. 3/1991
§ F. Polsella, La CSCE da Vienna a Parigi, in: Affari esteri, estate 1991
§ C. Giglio, I diritti umani nel processo CSCE: dalla contrapposizione ideologica all'accordo sui principi, in: Rivista internazionale dei diritti dell'uomo, n. 2/maggio-agosto 1993
§ F. Fejtő, Il campo e il mondo, in: La fine delle democrazie popolari, Mondadori 1994
§ F. Fejtő, La linfa della libertà, ibidem
§ A. Catalano, Charta 77: il problema politico dei falliti e degli usurpatori, in: eSamizdar 2007 (V)
DELEGAZIONE ITALIANA PRESSO
L’ASSEMBLEA PARLAMENTARE DELL’OSCE
Convegno
Il ruolo della CSCE-OSCE e dei Movimenti di resistenza civica nel crollo del muro di Berlino e nella fine dell’Unione Sovietica
(Camera dei deputati , Sala del Mappamondo, 10 dicembre 2009, ore 15-18)
PROGRAMMA
Saluto del Presidente della Camera dei deputati, on. Gianfranco Fini
Saluto del Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’OSCE, on. Riccardo Migliori
Intervento dell’on. Matteo Mecacci, Relatore per la terza Commissione Democrazia e diritti umani dell’Assemblea parlamentare dell’OSCE
Intervento di Sir Adam Roberts, Presidente della British Academy
Intervento di Janusz Onyszkiewicz, già esponente di Solidarnosc e Ministro della difesa della Polonia
Intervento del sen. Luigi Compagna, Componente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’OSCE
Intervento di Peter Ackerman, Presidente del Centro internazionale sul conflitto non violento
Intervento del Prof. Giovanni Barberini, Università degli Studi di Perugia
Seguito da dibattito
Conclusioni del Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’OSCE, on. Riccardo Migliori
Le premesse del processo negoziale denominato Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) possono farsi risalire addirittura al novembre 1953: l’Unione Sovietica, infatti, accoglieva in quel momento la proposta di tenere a Berlino una Conferenza tra le quattro Potenze uscite vittoriose dalla Seconda Guerra Mondiale, oggetto della quale avrebbero dovuto essere le questioni dell’equilibrio di potere e della sicurezza in Europa. I mutamenti innescati dalla morte di Stalin (marzo 1953) si annunciavano così sul piano internazionale assai prima di dispiegare i loro effetti sulla politica interna sovietica, anche se Nikita Kruscev – che nel febbraio 1956 avrebbe clamorosamente denunciato i crimini staliniani e il culto della personalità di Stalin - era già divenuto in settembre Segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Cionondimeno, il decollo vero e proprio dei negoziati est-ovest doveva ancora attendere quasi un quarto di secolo, passando dapprima per le aperture internazionali di Kruscev, e successivamente attraverso la Ostpolitik tedesca e la più coperta, ma analoga strategia vaticana.
Solo dopo questi sviluppi poté aver luogo la Conferenza di Helsinki (estate 1975), che si concluse con l'Atto Finale firmato ad Helsinki il 1° agosto 1975: in esso i Paesi aderenti riaffermano il loro impegno di pace, di sicurezza e di giustizia attraverso un'attività rivolta alla garanzia del rispetto delle reciproche sovranità, al non ricorso alla minaccia o all'uso della forza nelle relazioni reciproche, alla regolazione pacifica delle controversie, al non intervento negli affari interni, al rispetto dei diritti umani e dell'autodeterminazione dei popoli, nonché alla cooperazione economico-sociale.
La CSCE, configuratasi come un grande processo negoziale di dimensioni ultracontinentali, dopo Helsinki proseguì con una serie di incontri che vengono comunemente indicati come “i seguiti di Helsinki” - svolti di regola ogni due anni. Fondamentali verifiche dell'attuazione dell'Atto Finale si sono avute nel corso delle Conferenze di Belgrado e di Madrid. Quest'ultima si concluse nel 1983 con l'adozione di un Documento con il quale veniva riaffermata la volontà degli Stati partecipanti di proseguire gli sforzi in favore della sicurezza e del disarmo in Europa. Nel Documento della Conferenza di Madrid del 1983, tra l'altro,viene ribadita la necessità di giungere all'adozione di misure miranti a rafforzare la fiducia e la sicurezza in Europa. Ciò avvenne nel settembre 1986 a Stoccolma con la creazione delle CSBM (Confidence and Security Building Measures), che prevedevano procedure di controllo reciproco e, in particolare: un termine di 42 giorni per la notifica di manovre militari con l'impiego di almeno 13 mila uomini; l'invito obbligatorio a tutti gli Stati in caso di manovre con oltre 17 mila uomini; il divieto di effettuare manovre con oltre 40 mila uomini se non comunicate l'anno precedente; un regime di scambio di informazioni; nonchè una rigorosa regolamentazione di ispezioni bilaterali.
Nella Conferenza di Vienna del 1989 venne adottata,
tra l'altro, la decisione di convocare una Conferenza sulla Sicurezza e la
Cooperazione nel Mediterraneo (CSCM) con la partecipazione dei Paesi
dell'area non aderenti alla CSCE (Algeria, Egitto, Israele, Libano, Libia,
Marocco, Siria e Tunisia), nonchè dei rappresentanti delle
organizzazioni internazionali competenti (UNESCO, ECE, UNEP, OMS, UIT e OMI).
Dopo l'istituzione della CSBM sorse
l'esigenza di passare all'adozione di concrete iniziative per la riduzione
delle armi convenzionali in Europa. A Parigi, infatti, il 19 novembre 1990 si
concluse la prima fase del negoziato CFE
con la firma del relativo Trattato, con il quale si stabiliva una
consistente riduzione di alcuni sistemi d'arma convenzionale fissando per
ciascun Paese e gruppo di Paesi
(NATO ed ex Patto di Varsavia) determinati tetti. Tali riduzioni avrebbero
dovuto concludersi entro 40 mesi dall'entrata in vigore del Trattato CFE
(ratifica da parte di tutti i partecipanti).
Nello stesso mese a Parigi (21 novembre 1990) veniva firmata la "Carta di Parigi per una nuova Europa" con la quale: si convocava per il mese di marzo 1992 la Conferenza di Helsinki; veniva formalizzata la periodicità delle riunioni del Consiglio dei ministri degli Esteri; si stabiliva la cadenza biennale dei Seguiti di Helsinki; si approvava l'attività sino ad allora svolta dalla CSBM - da verificare formalmente nel corso della Conferenza di Helsinki del 1992 -; si auspicava una rapida e positiva conclusione della trattativa Open Skies (Cieli aperti) in materia di reciproca conoscenza delle attività di osservazione aerea; si ponevano le basi per la creazione di un'Assemblea parlamentare CSCE; si sollecitava la conclusione della trattativa sulla Convenzione per la limitazione delle armi chimiche; nonché si provvedeva alla costituzione di un Centro per la Prevenzione dei conflitti (CPC), con la funzione di fornire supporto per l'attuazione delle misure CSBM mediante la cooperazione riguardo ad attività inusuali di natura militare, lo scambio annuale di informazioni militari, una rete di comunicazioni, la cooperazione in relazione ad incidenti pericolosi di carattere militare.
Gli sviluppi descritti avvenivano però a partire dal 1989 nel contesto, assolutamente imprevedibile per la rapidità e le forme che assunse, della dissoluzione del sistema politico ed economico comunista, che, sotto la guida dell’URSS, aveva retto l’Europa centro-orientale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tali eventi rappresentavano ad un tempo un potenziale propellente per l’espansione del processo CSCE, ma solo se esso si fosse posto su nuove basi, in quanto si era verificato il drastico indebolimento di una delle due Superpotenze che facevano da pivot ai negoziati, mentre i Paesi prima satelliti dell’URSS mostravano sempre maggiori aspirazioni ad integrarsi nel blocco euroatlantico.
Va senz’altro osservato che dalla prospettiva degli Anni Novanta quello della CSCE sembra essere stato un processo lineare, che doveva inevitabilmente condurre a un abbassamento delle tensioni in area Europea. E’ tuttavia da ricordare che invece per tutti gli Anni Ottanta diversi momenti di crisi nei rapporti est-ovest avevano posto in forse la stessa prosecuzione della CSCE – basti rammentare le reazioni occidentali all’invasione sovietica dell’Afghanistan e alla proclamazione della legge marziale in Polonia (con la messa al bando di Solidarnosc). Nel campo occidentale la sfida reaganiana – alla fine vincente – non ripercorreva certo i prudenti binari della Ostpolitik di Brandt, e suscitava con il progetto di difesa missilistica strategica (Star Wars) le preoccupazioni dell’URSS, impossibilitata a percorrere una via tanto dispendiosa.
Ciò che in effetti accadde non corrispose dopo il 1989 alle aspettative più ottimistiche di una CSCE capace di compattare in un unicum i due blocchi, ma senza dubbio essa dovette adeguarsi a necessità nuove: infatti il venir meno nell’Europa centro-orientale del vincolo rappresentato dalle dittature comuniste determinò la riproposizione nel nuovo contesto di antichi conflitti etnici, religiosi e “nazionali”, come si vide dal tragico conflitto jugoslavo dei primi Anni Novanta, con l’altrettanto grave appendice del Kosovo alla fine del decennio.
Iniziò così quella che alcuni studiosi hanno denominato come la fase della “nuova CSCE”, quando essa fu costretta a inaugurare nuove procedure (meccanismi) per la prevenzione e la gestione dei conflitti e per i problemi delle minoranze nazionali. Ciò fu indubbiamente possibile in ragione di un diverso rapporto tra i partecipanti alla CSCE che, se non aveva condotto al completo dissolversi delle reciproche diffidenze, si strutturava però molto più di prima su un livello di cooperazione, superando le mere logiche del confronto tra blocchi.
Anche dal punto di vista geografico le prospettive della CSCE subivano mutamenti, dapprima lievi, con l’ammissione del Giappone in qualità di osservatore (1992), ma assai più rilevanti in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, della Cecoslovacchia e dell’URSS: esse facevano aumentare il numero di Stati partecipanti alla CSCE, mentre il venir meno del grande involucro sovietico provocava un certo spostamento verso l’area euroasiatica del baricentro della CSCE, giacché ormai importanti Repubbliche ex sovietiche, come ad esempio il Kazakhstan, erano in grado di determinarsi autonomamente anche sul piano internazionale.
L’insieme di queste spinte al mutamento doveva determinare infine un salto di qualità della CSCE, poiché ad esempio la delicatezza dei compiti connessi alla prevenzione e alla gestione delle crisi, come anche del rispetto di standard accettabili nel campo dei diritti umani e del progredire degli ordinamenti democratici nei nuovi Stati, richiedeva una costanza di azione e di confronto che difficilmente avrebbe potuto ancora attuarsi nella dimensione puramente diplomatico-negoziale, sporadica e sostanzialmente intergovernativa che la CSCE aveva avuto fino a quel momento. Si giunse così nel 1994 (Vertice di Budapest) alla decisione di un cambiamento nella denominazione dal CSCE a OSCE (Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa). SI trattava di un elemento politicamente significativo che - senza mutare sostanzialmente i caratteri e le attività che la CSCE già da alcuni anni poneva in essere - affidava in modo più stabile alla nuova Organizzazione il ruolo che essa era venuta maturando.
Non va tuttavia trascurato che le radici dell’OSCE nella CSCE e nelle problematiche della “Guerra Fredda” rimangono ben visibili in alcune caratteristiche dell’Organizzazione: è il caso dei processi decisionali e della dimensione politico-intergovernativa, che restano collegati all’obiettivo della sicurezza globale – ossia tanto politico-militare quanto socio-economico-ambientale - nell’area di riferimento. Inoltre il perseguimento di queste finalità dovrà svolgersi come in passato nell’ambito di procedure di cooperazione, escludendo ogni utilizzazione della forza, per la quale esistono altre sedi internazionali da investire. Coerentemente, le procedure decisionali sono rimaste ancorate alla deliberazione per consensus, seppure con qualche modesto emendamento.
Il permanere pressoché totale di una dimensione politico-intergovernativa a scapito di un progresso nella dimensione giuridica dell’OSCE, nonostante la grande espansione dell’Organizzazione, dei suoi compiti e delle relative articolazioni burocratiche; è un’altra spia della continuità di fondo tra CSCE e OSCE. L’avversione della maggioranza degli Stati partecipanti ad ogni evoluzione in senso giuridico dell’OSCE è tale che neppure lo status dei suoi numerosi organi amministrativi permanenti nei confronti degli Stati in cui hanno sede ha avuto sistemazione pattizia: piuttosto, nella riunione ministeriale di Roma del dicembre 1993 fu stabilito che ogni Stato avrebbe conferito caso per caso la capacità giuridica agli elementi dell’Organizzazione sul proprio territorio – il che reca la conseguenza che ogni Governo potrebbe revocare unilateralmente e per le ragioni più diverse le immunità e i privilegi in tal modo riconosciuti.
Comunque è emerso fin dall’inizio che la funzione più rappresentativa dell’OSCE doveva divenire quella della prevenzione e gestione dei conflitti, che, per i particolari caratteri dell’area geografica di riferimento dopo il 1989, ha avuto una figura di primo piano nell’Alto commissario per le minoranze nazionali. Tale Organo, pur se raramente sotto l’attenzione mediatica, ha realizzato importanti obiettivi per disinnescare potenziali conflitti relativi all’esistenza, in numerosi Stati appartenenti all’OSCE, e soprattutto in quelli di recente formazione, di consistenti minoranze, spesso alloglotte o comunque di diversa fede religiosa o di diversa etnia. Le frizioni più frequenti tra maggioranze e minoranze riguardano problemi di istruzione per le minoranze, questioni di cittadinanza, l’uso della lingua minoritaria e la mancanza di collegamento tra minoranze e organi di governo dei vari Paesi.
La gestione dei numerosi focolai di tensione interetnica nell’area OSCE è stata inoltre oggetto di un altro strumento dell’Organizzazione, ovvero le missioni a lungo termine in vari Stati, dedite tanto alla prevenzione quanto alla gestione di conflitti già in atto, come anche alla fase post-conflittuale – è stato questo il caso dei compiti affidati all’OSCE in Bosnia-Erzegovina dopo gli accordi di Dayton. La principale attività delle missioni a lungo termine consiste nell’assistenza diretta agli Stati in cui operano, e in questo campo si sono registrati diversi successi. gli Stati interessati hanno però talvolta manifestato segni di insofferenza per l’intrusione internazionale nei loro affari interni, e ciò ha avuto un riflesso in alcune resistenze in seno al Consiglio permanente dell’OSCE, in occasione di discussioni sulla proroga di alcune di tali missioni.
Il caso appena ricordato della Bosnia-Erzegovina ha visto affidare all’OSCE anche un nuovo tipo di competenza, ossia quella elettorale, che si è poi sviluppata soprattutto con riferimento al monitoraggio sulla regolarità delle consultazioni – mentre in Bosnia-Erzegovina, per la precaria situazione istituzionale, il mandato includeva anche un contributo all’organizzazione delle elezioni. La presenza di osservatori dell’OSCE è divenuta nel tempo quasi una costante, e più di recente l’Organizzazione ha osservato lo svolgimento di elezioni anche in Paesi di più radicata democrazia: in Italia, ad esempio, sia in occasione delle elezioni politiche del 2006 che delle consultazioni referendarie e per l’elezione del Parlamento europeo del 2009, sono stati ammessi osservatori OSCE presso gli uffici elettorali di sezione, preventivamente accreditati dal Ministero degli Affari esteri.
Negli anni successivi all’assunzione (1° gennaio 1995) della nuova denominazione e delle nuove competenze l’azione dell’OSCE ha potuto svolgersi in un quadro nel quale il rapporto della Federazione russa con i paesi dell’area euroatlantica era di segno positivo, sotto la presidenza di Boris Eltsin. Un primo momento di crisi rinnovata, con immediati riflessi sul vertice OSCE di Istanbul del novembre 1999, si ebbe con l’inizio della seconda guerra cecena, che fece emergere i limiti di una Organizzazione come l’OSCE vincolata all’unanimità delle decisioni, e dunque incapace di proseguire nella propria attività in caso di forti dissensi interni.
Un altro snodo per le sorti dell’OSCE si è avuto dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti: se infatti il generalizzato appoggio alle prime reazioni americane contro il terrorismo internazionale basato in Afghanistan sembrava poter costituire una base per lo sviluppo delle peculiarità operative dell’OSCE, anche considerando il suo estendersi nell’area euroasiatica, l’approccio militare della lotta contro il terrorismo ha avuto riflessi negativi sul ruolo una Organizzazione che in linea di principio esula dall’impiego di tali mezzi. Si è così assistito a un periodo piuttosto lungo nel quale l’OSCE è sembrata rimanere sullo sfondo, anche perché andavano intanto normalizzandosi i conflitti originatisi dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia e dell’Unione Sovietica.
Tuttavia diversi focolai nei quali l’OSCE è presente operativamente da molti anni rimangono aperti: nell’estate del 2008 il breve ma allarmante conflitto russo-georgiano traeva spunto dalle rivendicazioni autonomistiche dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale sostenute da Mosca, ossia da una di quelle tipiche situazioni di conflitto a base etnica nelle quali l’azione dell’OSCE si è dimostrata efficace. Se nella fase successiva al conflitto l’OSCE ha potuto dispiegare una propria missione di osservatori militari accanto alla più ampia missione di vigilanza dell’Unione Europea, il successivo attenuarsi della tensione tra Federazione russa e Paesi occidentali sembra risalire più ad un’accorta regia diplomatica dei due principali attori - ossia la Federazione russa e gli Stati Uniti - che al ruolo giocato dall’OSCE (o dalla stessa NATO). Da più parti è stato invece sottolineato il ruolo di efficace mediazione della Presidenza UE già nel vivo del conflitto.
Nel corso del 2009 è emersa la proposta russa, e in particolare del Presidente Medvedev, per una nuova architettura della sicurezza europea, che nel mese di novembre è stata precisata in un vero e proprio progetto di Trattato. Certamente volta a impedire alla NATO di assorbire man mano tutte le istanze di sicurezza del Vecchio Continente, la proposta di Medvedev si riferisce esplicitamente a una diversa impostazione del problema, quale ad esempio quella elaborata a Helsinki nel 1975. Gli avvenimenti futuri definiranno la reale portata dell’approccio russo, e in relazione a ciò il possibile rinnovato ruolo di primo piano che l’OSCE potrebbe rivestire.
Infine, un ulteriore scenario di rilancio del ruolo dell’OSCE è stato affacciato nella fase più recente in relazione al carattere euro-asiatico-atlantico dell’Organizzazione: se infatti il nuovo approccio americano al problema della lotta al terrorismo e al fondamentalismo islamico sembra non voler prescindere – al di là di immediate scelte di rafforzamento dell’impegno militare – dagli strumenti del dialogo e dell’allargamento degli strumenti di partecipazione democratica nei Paesi interessati; appare possibile per l’OSCE mettere a disposizione il notevole know-how maturato nel tempo, per dare concretezza alle nuove attese della Comunità internazionale. Non va tuttavia sottovalutata la circostanza che tali sviluppi richiederanno il consenso generalizzato dei Paesi della regione, proprio in relazione ai caratteri fondamentali e alle modalità operative dell’OSCE.
La British Academy è l’Accademia nazionale del Regno Unito per le discipline umanistiche e le scienze sociali. Istituita con patente reale (Royal Charter) nel 1902, è un’associazione indipendente e autogovernata che persegue obiettivi di stimolo, individuazione e supporto dell’eccellenza nell’ambito delle discipline umanistiche e delle scienze sociali, sostenendone il ruolo e il valore, sia nel Regno Unito, sia nel contesto internazionale.
Associazione (fellowship) costituita da oltre 900 studiosi, la British Academy, promuove l’intera gamma delle ricerche afferenti alle discipline umanistiche e alle scienze sociali, quali strumenti interpretativi adatti alla comprensione dei contesti culturali e sociali e alla complessità delle sfide del mondo contemporaneo ai più diversi livelli (dai cambiamenti nella dimensione individuale dell’esistenza sino ai sistemi politici entro i quali si opera). Avvalendosi anche di un’estesa rete di relazioni internazionali l’Academy costituisce una source of advice autorevole e indipendente in grado di fornire un contributo al dibattito e alla definizione delle politiche pubbliche. Il Policy Centre, in particolare, persegue un programma di attività volte a promuovere l’interazione tra ricercatori di primissimo piano e policymakers. Il Centro si avvale di fondi forniti dall’ESRC (The Economic and Social Research Council).
Ogni anno la British Academy elegge alla Fellowship fino a 38 eminenti studiosi operanti nel Regno Unito, che si siano distinti in qualsiasi ramo delle discipline umanistiche e delle scienze sociali; attualmente, come accennato, la British Academy conta circa 900 fellows. L'elezione a membro della British Academy è un riconoscimento di alto valore per l'opera nei campi delle discipline umanistiche o delle scienze sociali, messa in luce da pubblicazioni. I membri possono apporre la sigla "FBA" dopo il nome come titolo (Fellow of the British Academy).
Gli studiosi operanti al di fuori dl territorio nazionale possono essere eletti Corresponding Fellows ed esiste altresì la possibilità di essere eletti Honorary Fellows.
L’ampio spettro delle attività di ricerca degli studiosi della British Academy si rispecchia nella vastità del catalogo editoriale che comprende sia lavori monografici sia cataloghi e collane. I lavori recenti sono pubblicati per i tipi dell’Oxford University Press.
La British Academy riceve ogni anno un finanziamento governativo (Grant-in-aid) attraverso il Department for Innovations, Universities and Skills – DIUS.
Le risorse del piano triennale 2008-2011, cheprevede finanziamenti crescenti (si passa da circa 22,5 milioni di sterline nell’anno accademico 2008-2009 a 26,4 nel 2010-2011) sono rivolte a differenti tipologie di destinatari, tra le quali si segnalano i mid-career researchers, soggetti che, al culmine delle propria fase creativa, vengono messi in condizione di concentrare le proprie energie sulla sola attività di ricerca (e ai quali il piano destina circa il 15% delle risorse annue). Tuttavia, nel piano vengono privilegiate, in particolare, le fasce giovanili di ricercatori (destinatarie di una quota variabile tra il 35 e il 40% delle risorse complessive ogni anno) attraverso il supporto alle early career research e l’incremento numerico delle borse di studio Post-doctoralFellowship. Il piano prevede altresì il lancio parziale di un programma, International Visiting Fellowship, concepito per attirare nel Regno Unito i più promettenti giovani ricercatori stranieri.
L’attività internazionale della British Academy si concentra su due aree:
§ le relazioni internazionali, con l’obiettivo difornire una leadership rappresentativa degli interessi della ricerca e dell’insegnamento sia a livello nazionale sia internazionale, e di promuovere le relazioni e la cooperazione internazionale nei settori di ricerca;
§ la BASES, British Academy Sponsored Institutes and Societies, il meccanismo che dagli anni Cinquanta fa della Academy il principale canale attraverso cui il Governo britannico finanzia una serie di scuole, istituti e società impegnate nel campo della ricerca in discipline umanistiche e scienze sociali: ad aprile 2009 le organizzazioni sponsorizzate dalla British Academy ammontavano a 13[1].
Dal luglio 2009 Sir Adam Robertsè presidente della British Academy. Sir Roberts, che fu eletto alla Fellowship nel 1990, ha sviluppato ricerche nel settore delle relazioni internazionali con particolare riferimento alla sicurezza internazionale, delle organizzazioni internazionali e diritto internazionale, incluso il diritto di guerra. Si è intensamente occupato, inoltre, del ruolo della resistenza civile contro i regimi dittatoriali.
Sir Adam Robertsè Senior Research Fellow, Department of Politics and International Relations, della Oxford University, ed Emeritus Fellow del Balliol College, Oxford.
Solidarnosc ("Solidarietà") è un Sindacato autonomo di lavoratori fondato nel settembre 1980. Il suo primo presidente fu Lech Walesa che nel 1983 fu insignito del premio Nobel per la pace. Oggi Solidarnosc rappresenta 722.000 lavoratori, ossia il 4,35% delle forze lavoro sindacalizzate in Polonia (che si aggira fra l’11 e il 13 per cento del totale)[2].
Solidarnosc nacque a seguito di un ampio movimento di protesta di lavoratori partito il 14 agosto 1980 dai cantieri navali “Lenin” di Danzica, per iniziativa di Walesa e che presto si estese a tutto il paese. Lo sciopero generale condusse agli accordi di Danzica firmati il 31 agosto 1980 tra il comitato di coordinamento dei lavoratori e una commissione governativa.
L’accordo, in 21 punti, che portò alla cessazione dello sciopero di Danzica, fu seguito da uno analogo riguardante i minatori di carbone. I 21 punti prevedevano la possibilità di creare libere associazioni e sindacati di lavoratori, mettendo in discussione i fondamenti stessi del Partito comunista che si considerava l’unico rappresentante delle esigenze popolari. In secondo luogo chiedevano alcune riforme volte a migliorare le condizioni di lavoro e di vita in generale, come una riforma del sistema sanitario, ma soprattutto libertà di parola e di stampa.
Dalla sua nascita fino al 13 dicembre del 1981 Solidarnosc si trasformò in un movimento di massa, cui apparteneva quasi la metà della popolazione polacca. Nel marzo 1981, esso organizzò uno sciopero generale di quattro ore che coinvolse i lavoratori di tutta la Polonia.
Durante il suo primo anno di vita, Solidarnosc chiese elezioni libere e sancì il pluralismo politico all’interno del sindacato. Fallì però il tentativo di dar vita ad un fronte di intesa nazionale con il POUP (Partito operaio unificato polacco), nonostante la mediazione della Chiesa cattolica.
Il conflitto tra Solidarnosc ed il governo esplose nel dicembre 1981 sulla legge sindacale e il sindacato venne sospeso e costretto alla clandestinità. Con la dichiarazione dello stato di guerra (da parte del leader del regime comunitasta, il generale Jaruzelski), e con la creazione del consiglio militare di salute pubblica, Walesa fu imprigionato (per 11 mesi) e con lui molte centinaia di sindacalisti.
Forte dell'appoggio dell'Unione Sovietica, Jaruzelski impose la legge marziale, su tutto il territorio polacco, facendo sospendere i diritti costituzionali, rendendo nulli gli accordi di Danzica e facendo internare Wałesa (eletto nel frattempo presidente del sindacato) assieme a migliaia di militanti.
Nel corso del 1982, tuttavia, la società polacca, confortata dalla solidarietà internazionale, operò una resistenza quotidiana che affiancava quella attiva sostenuta dalla costituita direzione clandestina di Solidarność. Nel maggio furono sciolti tutti i sindacati, fino ad allora sospesi, ma nell'autunno successivo, grazie anche all'attiva mediazione della Chiesa cattolica, si ebbe un momento di distensione che condusse alla liberazione di Wałesa e alla sospensione dello stato di guerra (poi abolito nel luglio 1983).
Sebbene fossero ormai pochi a credere a una possibile rinascita di Solidarnosc, Wałesa, cui venne assegnato nell'ottobre 1983 il premio Nobel per la pace, riuscì a trovare spazi d'azione e di dialogo non violento, nonostante episodi come il rapimento e l'assassinio di padre Popiełuszko da parte di agenti della polizia politica.
Solidarnosc si impose come movimento di massa e punto di raccolta delle opposizioni di matrice cattolica anticomunista, confortate dall’appoggio di Giovanni Paolo II (già arcivescovo di Cracovia) che nel 1979 si recò nel suo paese per la prima volta da papa. Godeva anche del sostegno e dell’apporto di un folto gruppo di intellettuali dissidenti: pertanto Solidarnosc divenne il punto di sintesi degli interessi della classe lavoratrice che pativa le condizioni della dittatura con quelli di un’avanguardia intellettuale guardata con estremo interesse anche dall’estero.
Tra il 1987 e il 1990 funzionò un “Comitato esecutivo temporaneo di Solidarnosc”, diretto da Walesa in maniera solo parzialmente ufficiale. Sono gli anni nei quali l’impegno principale fu diretto al riconoscimento e alla legalizzazione di Solidarnosc che, gradualmente, uscì dalla clandestinità: il Comitato civile di presidenti del sindacato Solidarnosc, teoricamente un organismo consultivo, ma nella pratica una specie di partito politico, vinse le elezioni parlamentari del 1989, le prime elezioni libere della Polonia. Alla fine dell'agosto 1989 Lech Wałesa iniziò a guidare una coalizione di governo e si dimise dalla guida del movimento.
Con la caduta del muro di Berlino (il dibattito sul ruolo di Solidarnosc nell’abbattimento del comunismo in Europa orientale continua ancora), la Polonia, pur rimanendo ancora formalmente, per pochi mesi, un regime comunista, cominciò il processo di transizione della sua economia verso il sistema di libero mercato e il lungo percorso che l’ha portata, nel 2004, a divenire membro dell’Unione europea.
A partire dal 1989, Solidarnosc divenne un sindacato più tradizionale, con un impatto sulla scena politica molto ridotto. Una sua diramazione politica, fondata nel 1996 (Azione Elettorale Solidarnosc - AWS), vinse le elezioni del 1997, ma perse quelle seguenti, nel 2001. In quest’ultima occasione, anzi, non riuscì nemmeno ad entrare in Parlamento non avendo superato la soglia di sbarramento dell’8% prevista per le coalizioni.
La formazione politica, a causa di divisioni interne, è scomparsa dalla vita politica (gli eredi di Solidarnosc sono distribuiti in tutti i partiti politici), mentre sopravvive il sindacato, notevolmente ridimensionato e diviso al suo interno.
L’International Center on Nonviolent Conflict (Centro internazionale sul conflitto non violento) è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro che sviluppa e diffonde lo studio e l’utilizzo di strategie non violente, volte a difendere e promuovere i diritti umani, la democrazia e la giustizia in tutto il mondo.
Il suo obiettivo principale è quello di educare l’opinione pubblica mondiale, all’interno di società con diversi gradi di apertura, al conflitto non violento, con la collaborazione di istituzioni educative e organizzazioni non governative e attraverso l’utilizzo di svariati mezzi di comunicazione di massa (tra i quali internet, TV e radio) per la diffusione di video, supporti bibliografici e materiali didattici per scuole e università.
Il centro organizza riunioni, briefing e conferenze per incoraggiare le istituzioni internazionali e i responsabili politicia sostenere movimenti civili e non violenti e fornisce il supporto per seminari sul tema del conflitto non violento, rivolgendosi in particolare ad attivisti e cittadini che considerano tale azione come un mezzo per promuovere la democrazia e i diritti umani. Tali iniziative puntano alla diffusione di conoscenze concettuali e allo sviluppo di competenze per l’attuazione di strategie non violente in tutto il mondo. Il centro sostiene la ricerca e i progetti educativi promossi da altre organizzazioni non governative al fine di diffondere la conoscenza dei principi e delle competenze coinvolte nel conflitto non violento.
L’organizzazione ha la sua sede principale a Washington e si avvale di consulenti e collaboratori in Africa, Asia, Americhe e Pacifico.
Il suo targetè costituito da cittadini ed attivisti sottoposti a palesi violazioni delle principali libertà e dei diritti democratici, in contesti caratterizzati da forme di violenza, ingiustizia e corruzione, ma anche da educatori, ONG, professionisti dei media e responsabili politici.
Peter Ackerman è il fondatore del Centro e una delle autorità mondiali in materia di conflitti non violenti. Ha conseguito un dottorato alla Fletcher School della Tufts University, dove attualmente ricopre la carica di presidente del consiglio, ed è coautore di due libri sulla resistenza non violenta: "A Force More Powerful: A Century of Nonviolent Conflict" (Palgrave / St. Martino Press 2001) e "Strategic Nonviolent Conflict: The Dynamics of People Power in the Twentieth Century" (Praeger 1994). Inoltre, è Presidente della Freedom House e membro del Consiglio di amministrazione del Council on Foreign Relations e del Consiglio Esecutivo dell'International Institute for Strategic Studies di Londra.
Berel Rodal è il Vicepresidente del Centro. Nell’ambito della sua esperienza professionale in qualità di alto funzionario del Governo del Canada, ha assunto incarichi di responsabilità nel campo degli affari esteri, del commercio internazionale, della difesa, della sicurezza. Ha prestato servizio presso il Dipartimento degli Affari Esteri e al Gabinetto del Canada ed è stato Segretario del Comitato direttivo per l’unità nazionale presso l’ufficio del Gabinetto durante il periodo del primo referendum sull’indipendenza del Québec, nonché Direttore generale della Segreteria politica del Dipartimento della difesa nazionale e membro del team negoziale nell’ambito degli accordi di libero scambio stipulati tra il Canada e gli Stati Uniti.
[1] Si tratta di sedi all’estero quali British Institute at Ankara, British Institute in Eastern Africa,British Institute of Persian Studies, British School at Athens, British School at Rome,Council for British Research in the Levant. Con sede nel Regno Unito sono finanziati dalla British Academy African Studies Association of the UK, Research Committee, Association for South-East Asian Studies UK, British Association for South Asian Studies, British Society for Middle Eastern Studies, Joint Initiative for the study of Latin America and the Caribbean, Society for Libyan Studies, The Council for British Archaeology.
[2] Fonte: http://www.solidarnosc.org.pl/en/about-us.html