Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Altri Autori: Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: L'attività delle Commissioni nella XV legislatura - Commissione Affari esteri (parte seconda)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 1    Progressivo: 3
Data: 15/05/2008
Descrittori:
COMMISSIONI E GIUNTE PARLAMENTARI   POLITICA ESTERA
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari
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Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Documentazione e ricerche

L’attività delle Commissioni
nella XV legislatura

Commissione Affari esteri

 

 

 

 

n. 1/3

parte seconda

 

Maggio 2008

 


La documentazione di inizio legislatura predisposta dal Servizio Studi e, quanto ad alcune parti, dall’Ufficio per i Rapporti con l’Unione europea, dal Servizio Biblioteca, dal Servizio Bilancio dello Stato, dal Servizio Commissioni e dal Servizio per il Controllo parlamentare, si compone di:

§         un dossier ipertestuale su CD-ROM (Documentazione e ricerche, n. 1), che illustra analiticamente le principali politiche legislative e attività istituzionali svolte dalla Camera dei deputati nel corso della XV legislatura;

§         14 fascicoli di accompagnamento (Documentazione e ricerche, nn. da 1/1 a 1/14 – prima parte) recanti, per ciascuna Commissione, una nota di sintesi sulle aree tematiche di interesse, sull’attività svolta e sugli adempimenti governativi nelle materie di competenza;

§         14 volumi (Documentazione e ricerche, nn. da 1/1 a 1/14 – seconda parte) recanti, per ciascuna Commissione, un estratto del dossier ipertestuale concernente le politiche legislative e l’attività istituzionale nelle materie di competenza.

 

 

 

 

 

Dipartimento Affari esteri

SIWEB

 

 

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File: es0001b.doc

 


INDICE

Politiche legislative e attività istituzionale

Affari internazionali

La ratifica di Accordi internazionali5

§      Rilievo e linee di evoluzione della materia  5

§      I trattati multilaterali6

§      I trattati in ambito UE   6

§      I trattati bilaterali7

§      I disegni di legge di ratifica non approvati13

§      Le leggi di ratifica con contenuto normativo innovativo  15

§      La proposta di legge concernente il procedimento per la ratifica dei trattati internazionali15

Afghanistan  17

§      L’aggravamento della situazione  17

§      L’ “operazione Achille” e gli sviluppi più recenti17

§      L’attività parlamentare  20

Pakistan  23

§      L’attività parlamentare  24

La situazione dell’Iraq  25

§      Quadro di sintesi25

§      L’attività della Camera  26

Kosovo  30

§      La dichiarazione di indipendenza e il ruolo dell’UE   30

§      Prospettive future e ripercussioni nell’area balcanica  33

§      L’attività parlamentare  35

Il conflitto in Medio Oriente  38

§      L’attività della Camera  38

Iran  42

§      L’attività parlamentare  45

La situazione in Libano  48

§      L’attività parlamentare  49

La questione del Darfur  54

§      Quadro di sintesi retrospettivo  54

§      L’Accordo di Abuja e le vicende successive  55

§      L’attività parlamentare  59

La situazione della Somalia  61

§      Gli sviluppi più recenti64

§      L’attività parlamentare  65

La situazione in Birmania  68

§      Le proteste del settembre 2007  68

§      L’attività della Camera dei deputati72

La Turchia e la questione curda  75

§      Quadro di sintesi75

§      Gli incidenti al confine e le incursioni in territorio iracheno  76

§      L’attività della Camera  79

Lo scudo missilistico in Europa  81

§      Premessa  81

§      Il progetto della NATO   81

§      La posizione della Russia  82

§      Ultimi sviluppi85

§      L’attività della Camera  87

La questione del Tibet e la Cina  88

§      Origini della vicenda  88

§      La nuova crisi del 2008  90

§      L’attività parlamentare  92

La tutela dei diritti umani94

§      Le iniziative in ambito ONU   94

§      L’attività parlamentare  95

La moratoria sulla pena di morte  100

§      L’attività parlamentare  106

L’Italia e le Nazioni Unite  110

§      L’Italia nel processo di riforma delle Nazioni Unite.110

§      L’attività parlamentare  114

L’Alleanza atlantica  117

§      Il vertice di Riga e la mancata approvazione del nuovo concetto strategico  117

§      L’impegno “fuori area” e la missione in Afghanistan  118

§      I rapporti con l’UE e l’allargamento dell’alleanza  119

§      Il vertice di Bucarest121

§      L’attività della Camera  122

Il Governo della globalizzazione  125

§      L’attività della Camera  125

La cooperazione internazionale  129

Gli italiani all’estero  135

Il Ministero degli Affari Esteri139

§      Premessa  139

§      L’attività della Camera  139

Affari europei

La politica estera dell’Unione Europea  147

§      Premessa  147

§      L’attività della Camera  149

Attività presso le istituzioni dell’Unione europea (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Balcani occidentali157

§      Il processo di stabilizzazione ed associazione  157

§      La comunicazione di marzo 2008  158

§      Il Kosovo  158

PESC   160

§      Politica estera e di sicurezza comune  160

Relazioni esterne  161

§      Politica di vicinato  161

§      Partenariato euromediterraneo  162

§      Relazioni con paesi terzi e gruppi regionali163

§      Politica di sviluppo  164

Schede di approfondimento

Affari internazionali

Patrimonio culturale immateriale  169

Convenzione criminalità informatica  173

Convenzione UNESCO antidoping  177

Convenzione UNESCO diversità culturali183

Convenzione OMS contro il tabagismo  187

Storia e prospettive  191

§      Cenni storici191

§      L’Afghanistan contemporaneo  192

§      La guerra del 2001-2002  195

§      Il nuovo processo democratico  196

Cenni storici e profilo attuale  200

§      La crisi pakistana (maggio 2007-febbraio 2008)204

§      La situazione dopo le elezioni di febbraio  208

Origini ed evoluzione della crisi210

§      Cronologia fino alla crisi del 1999  210

§      Successive vicende politico-istituzionali217

§      La situazione economica  222

Sviluppi recenti224

§      La vittoria elettorale di Hamas  224

§      La guerra civile palestinese e la vittoria militare di Hamas  228

§      I negoziati tra Olmert e Abu Mazen  232

§      La Conferenza di Annapolis e i suoi seguiti233

La situazione generale del paese  238

§      Politica interna  238

§      Sanzioni e stato dell’economia iraniana  243

§      Diritti umani243

§      Relazioni internazionali dell’Iran  245

La questione nucleare  251

§      Origini della controversia e ipotesi sui suoi possibili effetti251

§      Gli argomenti dell’Iran  252

§      Dai tentativi di mediazione all’intervento del Consiglio di Sicurezza  253

§      I negoziati del gruppo 5+1 e il tentativo di negoziato dell’estate 2006  254

§      Le Risoluzioni 1696, 1737 e 1747 del Consiglio di Sicurezza  254

§      Il Rapporto NIE   256

§      Sviluppi recenti257

Sviluppi recenti259

§      L’azione diplomatica italiana per la soluzione della crisi libanese  271

La riforma delle Nazioni Unite  274

La normativa nazionale  280

§      Premessa  280

§      Quadro normativo  281

Le cifre della cooperazione italiana  285

 

 


Politiche legislative e attività istituzionale

 


Affari internazionali

 


La ratifica di Accordi internazionali

Rilievo e linee di evoluzione della materia

Anche nella XV legislatura l'esame di disegni di legge di ratifica di trattati internazionali ha costituito la quasi totalità dell’attività legislativa della III Commissione Affari esteri.

Nei due anni della XV Legislatura il Parlamento ha approvato 41 leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati. Nella XIV legislatura il numero complessivo era stato di 231 leggi.  

Delle 41 leggi di ratifica approvate, 27 sono relative ad accordi bilaterali, 8 atrattati multilaterali e 6 ad accordi europei.

Le Camere hanno inoltre iniziato – senza portarlo a termine - l’esame di alcunidisegni di legge di autorizzazione alla ratifica corrispondenti ad altri 12 trattati.

 


Legislatura

Date

Numero di legge di ratifica

I

08/05/1948 - 24/06/1953

123

II

25/06/1953 - 11/06/1958

156

III

12/06/1958 - 15/05/1963

119

IV

16/05/1963 - 04/06/1968

123

V

05/06/1968 - 24/05/1972

40

VI

25/05/1972 - 04/07/1976

139

VII

05/07/1976 - 19/06/1979

108

VIII

20/06/1979 - 11/07/1983

136

IX

12/07/1983 - 01/07/1987

108

X

02/07/1987 - 22/04/1992

192

XI

23/04/1992 - 14/04/1994

65

XII

15/04/1994 - 08/05/1996

114

XIII

09/05/1996 - 29/05/2001

287

XIV

30/05/2001 - 27/04/2006

231

XV

28/04/2006 – 28/04/2008

41

I trattati multilaterali

I Trattati multilaterali vertono generalmente su materia di rilevante interesse: la tutela dei diritti umani, le problematiche dell’ambiente, le organizzazioni internazionali. 3 di questi trattati riguardano la cultura e lo sport (vedi a pag. 169 e seguenti le schede sulle Convenzioni dell’UNESCO per la tutela del patrimonio culturale immateriale, per la protezione delle diversità delle espressioni culturali e contro il doping), uno la lotta al tabagismo e uno - di grande rilievo – la lotta alla criminalità informatica.

I trattati in ambito UE

Una categoria a sé stante di trattati multilaterali è rappresentata da quelli stipulati nell’ambito dell’Unione europea, relativi sia all’evoluzione delle questioni istituzionali dell’Unione, sia al suo allargamento, oltre che allo sviluppo delle relazioni esterne.

I Trattati e gli accordi conclusi nell’ambito dell’Unione europea e ratificati nella XV legislatura sono prevalentemente Accordi di cooperazione, di associazione o di partenariato con Paesi terzi (5 leggi di ratifica), a cui si aggiunge la legge che ha ratificato due Protocolli relativi alla Convenzione EUROCONTROL sulla navigazione aerea.

Non si registrano, nella XV Legislatura, leggi di ratifica riguardanti accordi diretti alla riforma dei Trattati istitutivi o Trattati di adesione di nuovi membri dell’Unione europea che, viceversa, nella XIV legislatura avevano costituito larga parte dei trattati in ambito UE. Al proposito, si ricorda che il disegno di legge di ratifica del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull' Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea è stato presentato al Senato il 17 gennaio 2008, ma la Commissione di competenza non ne ha iniziato l’esame.

I trattati bilaterali

I Trattati bilaterali autorizzati alla ratifica sono stati 27, pari al 65,8% delle leggi di ratifica (68,8% nella XV legislatura).

Relativamente alle materie che hanno avuto ad oggetto, sono così raggruppabili:

a)        accordi culturali, scientifico-tecnologici  7 (25,9% dei trattati bilaterali);

b)        accordi sulla promozione e protezione degli investimenti  4 (14,8%);

c)        accordi nel settore della difesa  2 (7,4%);

d)        estradizione – trasferimento persone condannate  2 (7,4%);

e)        accordi di cooperazione doganale  1 (3,7%);

f)          accordi per evitare le doppie imposizioni 2 (7,4%);

g)        accordi di coproduzione cinematografica  3 (11,1%);

h)        accordi sui trasporti internazionali (persone e merci)  3  (11,1%);

i)          convenzioni consolari  1 (3,7%);

j)          altre tipologie  2 (7,4%).

 

 


 

 

Quanto invece alla ripartizione per aree geografiche, si conferma la tendenza che vede stipulati la maggior parte degli accordi - 12 su 27 - con Paesi europei: 5 di tali accordi sono stati firmati con Paesi membri dell’Unione europea, mentre 7 con Paesi europei non comunitari, tra cui 2 con la Bulgaria, firmati in data precedente all’ingresso di questo paese nell’UE (1° gennaio 2007).

 


LEGENDA:

7  Accordi con Paesi europei non comunitari (pari al 25%)

5  Accordi con Paesi dell’Asia centrale e meridionale (pari al 19%)

5  Accordi con Paesi appartenenti all'Unione europea (pari al 19%)

4  Accordi con Paesi dell'America Latina (pari al 15%)

3  Accordi con i Paesi Nordafricani e del Medio Oriente (pari all’11%)

2  Accordi con Paesi dell'Africa subsahariana (pari al 7%)

1  Accordo con Paesi dell'America del Nord (pari al 4%)

 

Alcune categorie di accordi bilaterali

Come si è visto, la maggior parte degli accordi bilaterali sottoscritti dall’Italia e giunti al termine dell’iter di autorizzazione alla ratifica riguarda la cooperazione culturale, scientifica e tecnologica. Tali accordi costituiscono strumenti di politica estera che il nostro Paese utilizza per migliorare la conoscenza e rafforzare i legami di amicizia con altri Paesi, fornendo un quadro normativo all’interno del quale si possano svolgere le relazioni e le attività di cooperazionepreviste dall’accordo. I settori oggetto di collaborazione possono essere più o meno numerosi e possono coinvolgere la cultura – compresi la musica, il teatro, il cinema e l’artigianato - l’istruzione, la scienza, la tecnologia, la ricerca, la stampa, la tutela del patrimonio artistico, il turismo e lo sport.

Le modalità di attuazione della cooperazione delineate negli accordi consistono generalmente: nello scambio di artisti e nella reciproca partecipazione a manifestazioni culturali ed artistiche; nella traduzione, pubblicazione e divulgazione di opere letterarie e scientifiche dell’altro paese; nel favorire la collaborazione tra istituzioni scientifiche, biblioteche, archivi e musei; nell’impegno reciproco all’adozione di misure per la tutela del patrimonio culturale e per reprimere il traffico illecito di opere d’arte; nella concessione, sempre su base di reciprocità, di agevolazioni fiscali alle istituzioni culturali che diano impulso alla loro attività; nella concessione di borse di studio; nella realizzazione di programmi di formazione; nello scambio di informazioni e progetti.

Gli accordi contengono talora l’impegno delle Parti per garantire una tutela adeguata della proprietà intellettuale, attraverso - ad esempio - la notifica di ogni invenzione, disegno o modello industriale e delle opere tutelate dal diritto d’autore, realizzati nel quadro dell’Accordo, nonché attraverso la repressione del traffico illecito di prodotti oggetto della normativa sulla proprietà intellettuale vigente nei rispettivi paesi.

 

Altra categoria di accordi piuttosto numerosa  è quella relativa alla protezione e alla promozione di investimenti, che hanno lo scopo di favorire la cooperazione economica bilaterale e gli investimenti italiani all’estero.

Ciascuna delle due Parti si impegna dunque a garantire sul proprio territorio agli investitori dell'altra Parte un trattamento giusto ed equo, assicurando piena e totale protezione agli investimenti da questi operati; tali investimenti sono costituiti da beni e diritti che hanno sede nel territorio del paese contraente, ricompresi in un elenco, non tassativo, solitamente riportato nell’articolato dell’accordo.

Le Parti si obbligano inoltre reciprocamente a concedere agli investimenti esteri e alle attività ad essi collegate un trattamento non meno favorevole di quello riservato ai propri cittadini o agli investitori di paesi terzi (c.d. “clausola della nazione più favorita”). Fanno però eccezione i benefici concessi da una delle Parti ad investitori di Paesi terzi in virtù di specifici accordi, come ad esempio gli accordi per evitare le doppie imposizioni, e fanno altresì eccezione i vantaggi riconosciuti da una delle Parti ad investitori esteri per effetto della partecipazione a Unioni economiche o a zone di libero scambio. La clausola della nazione più favorita trova applicazione anche in caso di risarcimento di danni derivanti da guerre, rivoluzioni, rivolte, stati di emergenza o altri simili eventi eccezionali.

La protezione degli investimenti è assicurata anche dalla clausola che stabilisce che gli investimenti effettuati da soggetti appartenenti ad uno degli Stati contraenti non potranno costituire oggetto di nazionalizzazioni, espropriazioni, requisizioni o altre misure con analogo effetto, se non per fini pubblici o per motivi di interesse nazionale, in conformità alle disposizioni di legge e dietro corresponsione di un adeguato risarcimento. Ognuna delle due Parti contraenti si impegna a garantire il rimpatrio dei capitali investiti e guadagnati, senza ritardo indebito, dopo aver assolto agli obblighi fiscali.

Gli accordi stabiliscono inoltre procedure arbitrali affidate ad organi imparziali per la composizione delle controversie che dovessero insorgere fra investitori e Parti contraenti o fra le Parti stesse in relazione a questioni di interpretazione o applicazione dell'accordo.

Infine, gli accordi permettono alle Parti contraenti o a singoli investitori di avvalersi, qualora siano più favorevoli, di norme di diritto internazionale generale o pattizio, oppure di leggi o regolamenti interni delle Parti contraenti.

 

Gli accordi di cooperazione nel campo della difesa assumono particolare importanza per la speciale valenza politica che essi rivestono in considerazione degli interessi di tipo strategico e degli obiettivi di stabilità perseguiti dal nostro Paese, specie in determinate aree geografiche. Tra gli scopi di tali accordi: dare impulso allo sviluppo dell'industria italiana della difesa, favorire il processo di ammodernamento dello strumento militare, promuovere rapporti amichevoli e forme di collaborazione tra le rispettive Forze armate.

L’attuazione degli accordi in questione, solitamente affidata ai Ministeri della difesa delle due Parti, si può concretizzare, ad esempio, in: scambio di esperti e di informazioni; cooperazione nel campo della formazione e scambio di conoscenze specialistiche nel campo dell’addestramento militare; organizzazione di corsi e di conferenze congiunte; visite alle rispettive strutture militari; svolgimento di esercitazioni congiunte; scambio di materiali d’armamento; ricerca, sviluppo e produzione di oggetti di interesse comune.

 

A partire dalla fine del 1999, la maggioranza degli accordi di cooperazione bilaterale in materia di difesa conclusi dopo l’adozione del regolamento di esecuzione della legge 9 luglio 1990, n. 185 (si tratta del DPCM 25 settembre 1999, n. 448, Nuovo regolamento di esecuzione della L. 9 luglio 1990, n. 185, recante nuove norme per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, entrato in vigore il 16 dicembre 1999 e successivamenteabrogato e sostituito dal D.P.C.M. 14 gennaio 2005, n. 93) con paesi non-NATO e non-UE, relativi a settori quali l’acquisizione di armamenti o di equipaggiamenti militari o di sistemi d’arma, o il trasferimento delle tecnologie relative agli equipaggiamenti di difesa e degli armamenti, sono stati presentati alle Camere accompagnati da una relazione  governativa ove si specifica che la norma volta a consentire l’interscambio dei materiali d’armamento costituisce “un’apposita intesa governativa”, ai sensi della legge 9 luglio 1990, n. 185, che disciplina l’esportazione dei materiali di armamento. Il primo accordo a contenere tale clausola è stato quello con la Repubblica di Gibuti, fatto il 30 aprile 2002 (il cui ddl di autorizzazione alla ratifica è stato presentato al Senato il 7 febbraio 2003, per divenire poi la legge 31 ottobre 2003, n. 327) mentre nella XV legislatura la stessa clausola era contenuta nell’Accordo con l’India, ratificato con legge 7 gennaio 2007, n. 15.

Le apposite intese governative sono disciplinate dall’art. 9, co. 4, della legge n. 185 cit. e dall’art. 5 del nuovo regolamento di attuazione della medesima legge (DPCM 13 gennaio 2005, n. 93). L’art. 5, co. 3, prevede che le “apposite intese governative” debbano presentare tre requisiti:

a)              prevedere che le operazioni di interscambio avvengano tra Stato e Stato oppure tra imprese autorizzate dai rispettivi governi;

b)              prevedere che i rispettivi governi si impegnino a non riesportare il materiale acquisito a paesi terzi senza il preventivo benestare del paese cedente;

c)              fare esplicito riferimento alle categorie di armamenti di cui all’art. 2, c. 2, della legge n. 185, eventualmente integrate secondo il disposto dell’art. 2, c. 3 (si tratta di un decreto interministeriale) della medesima legge.

 

La legge n. 185 prevede un regime più favorevole per le operazioni di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento contemplate da “apposite intese governative”, identico a quello previsto in via generale con riguardo ai paesi NATO e UE. Tale peculiare regime riguarda sia la procedura di autorizzazione alle trattative (art. 9, c. 4,) sia la procedura di autorizzazione all’esportazione ed importazione (art. 11, c. 5), che vengono entrambe semplificate.

 

Gli accordi sulla difesa, inoltre, garantiscono l’uso esclusivo di informazioni, documenti e materiali che le Parti potranno scambiarsi nello svolgimento delle attività di cooperazione militare, nonché un trattamento di riservatezza non inferiore a quello accordato allo stesso tipo di informazioni dall’ordinamento del Paese di origine delle stesse. Il trasferimento a terzi è soggetto alla preventiva approvazione scritta della Parte cedente.

 

Gli accordi di mutua assistenza amministrativa in materia doganale hanno l’obiettivo di ridurre e perseguire le violazioni alla legislazione doganale che danneggiano gli interessi economici, commerciali, fiscali, sociali e culturali delle rispettive Parti e di determinare l’esatto importo dei dazi e degli altri diritti riscossi all’importazione ed all’esportazione delle merci. Il Preambolo di tali accordi evidenzia quasi sempre, tra i vari aspetti e motivi della cooperazione doganale, quello della lotta ai traffici illeciti di stupefacenti, anche con un esplicito richiamo alla Convenzione ONU del 20 dicembre 1988.

La reciproca assistenza nel settore doganale viene assicurata per il tramite delle rispettive Amministrazioni doganali, che agiscono nei limiti dei rispettivi ordinamenti giuridici e delle proprie possibilità. In nessun caso le disposizioni dell'accordo potranno costituire diritti in capo a soggetti privati, ma solo impegni per l'attività delle competenti Autorità.

Le Amministrazioni doganali si scambiano tutte le notizie e le  informazioni utili per la corretta applicazione della legislazione doganale e il perseguimento delle relative infrazioni, comprese quelle sulle nuove tecniche per l'applicazione della legislazione doganale, nonché su nuovi metodi per l'aggiramento di essa.

Nel concreto, le attività di cooperazione tra le Amministrazioni doganali delle Parti contraenti si sostanziano, generalmente:

§         nello scambio di informazioni sulla regolarità delle operazioni di import-export tra i due paesi;

§         nella comunicazione reciproca dell'entità dei valori in dogana di determinate merci, della loro classificazione tariffaria e della loro origine, nonché dell'eventuale applicazione di disposizioni sui divieti, restrizioni o controlli;

§         nello scambio di informazioni ed, eventualmente, nella speciale sorveglianza su persone, merci, mezzi di trasporto o locali in qualche modo connessi a infrazioni doganali vere o presunte;

§         nella reciproca assistenza nelle attività di blocco, sequestro o confisca dei beni e nella liquidazione di quelli che ricadono sotto le rispettive competenze.

Gli agenti doganali di una Parte contraente possono, a richiesta dell'altra Parte, comparire come esperti o testimoni nel corso di procedimenti giudiziari intentati nel territorio della Parte richiedente per infrazioni doganali, producendo anche, se autorizzati, oggetti o documenti. E’, di norma, altresì prevista la possibilità che funzionari di una delle due Parti, con il consenso e le eventuali condizioni dell'altra Parte, possano consultare documenti e assistere a indagini, nel territorio della Parte adita,  su infrazioni doganali di proprio interesse.

Quanto alle informazioni ottenute nel quadro dell'applicazione degli accordi di cooperazione doganale, esse potranno essere utilizzate solo per gli scopi in essi contemplati, e potranno essere comunicate ad organi diversi da quelli previsti solo con il consenso della Parte che le ha trasmesse. A tutela dei dati personali, le Parti si impegnano ad assicurare un’alta protezione, almeno pari a quella prevista da disposizioni normalmente contenute  in un Allegato, parte integrante dell’accordo, che concerne i principi fondamentali in materia di protezione dei dati.

Sono considerati i casi di mancata concessione dell'assistenza amministrativa, possibile quando da essa potrebbe derivare pregiudizio per interessi vitali della Parte adita, nonché per segreti industriali o commerciali, o anche contrasto con norme di legge nazionali.

Il monitoraggio dell'attuazione dell'Accordo e la composizione di eventuali controversie in merito ad esso sono affidati ad una Commissione mista che si riunisce a richiesta di una delle due Parti.

I disegni di legge di ratifica non approvati

Come già ricordato, alcuni disegni di legge di autorizzazione alla ratifica, pur avendo iniziato l’esame, non hanno concluso il loro iter nel corso della XV Legislatura.

Tra di essi due Trattati multilaterali, il cui iter, in entrambi i casi, si è arrestato alla Camera. Si tratta dei Protocolli di attuazione della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi e della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, approvata a Strasburgo il 5 novembre 1992. Per quanto riguarda quest’ultima, l’iter in Commissione esteri della Camera dei vari progetti di legge, tra cui quello governativo, che ne proponevano la ratifica, si è arrestato il 16 ottobre 2007 con la trasmissione del nuovo testo alle competenti Commissioni per l’espressione del parere. Il nuovo testo è stato però oggetto di opposizione da parte del gruppo Lega Nord Padania in quanto non comprendeva il veneto nell’elenco delle lingue tutelate dalla Carta europea. Si può ricordare che analoga sorte aveva avuto il disegno di legge di ratifica della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie nella XIV Legislatura.

Quanto ai Protocolli di attuazione della Convenzione internazionale per la protezione delle Alpi, l’iter del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica si è fermato il 20 dicembre 2007 con una richiesta di rinvio ad altra seduta del gruppo di Forza Italia. Come nella legislatura precedente (il ddl era stato esaminato dalle due Camere ma il Senato aveva votato lo stralcio del Protocollo Trasporti), la discussione si è concentrata principalmente sul Protocollo Trasporti che costituisce un punto cruciale per la delicatezza degli aspetti economici ed ambientali che tratta.

 

Tra i trattati bilaterali, si è arrestato in Commissione alla Camera l’esame del disegno di legge relativo alla ratifica dell’Accordo con il Sudan sulla promozione e protezione degli investimenti. L’esame è stato bloccato per preoccupazioni in merito alla condotta del governo sudanese nella crisi nel Darfur.

Ha presentato notevoli difficoltà, nonché la sospensione dell’esame, l’Accordo con gli USA sulla conduzione di “ispezioni su sfida” da parte dell’OPAC (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche). L'Accordo è applicabile alle “ispezioni su sfida” condotte nel territorio italiano o in qualunque altro luogo sotto la giurisdizione o il controllo dell'Italia in cui impianti utilizzati dagli Stati Uniti si trovino all'interno dell'area ispezionabile e viceversa. La seduta della Commissione difesa (12 settembre 2007) si è conclusa con la rinuncia da parte del relatore a formulare un parere, ritenendo non sufficienti i chiarimenti forniti dal Governo in merito alle procedure adottabili in caso di ispezioni su navi e aeromobili statunitensi stazionanti in territorio italiano.

Infine, si è nuovamente arrestato alla Camera (così come nella XIV legislatura) l’esame dell’Accordo Italia-Cina sulla coproduzione cinematografica,  approvato dal Senato. Come anche il relatore in Commissione ha rilevato, il complesso sistema autorizzatorio previsto dall'accordo sia preventivo che successivo, riguardante la distribuzione degli audiovisivi, appare delineare una forma di censura incompatibile con l'ordinamento italiano. Tutti gli intervenuti hanno concordato nell’affermare che la libertà di espressione è un diritto fondamentale che non può essere messo in discussione da un trattato internazionale.

 

Le leggi di ratifica con contenuto normativo innovativo

In alcuni casi l’inserimento dell’Accordo nell’ordinamento nazionale comporta la necessità (a volte si tratta piuttosto di un’opportunità) di modificare determinate normative interne: su 41 leggi di ratifica varate nella XV legislatura, 2 contengono norme di adeguamento interno o, comunque, norme che innovano l’ordinamento.

In particolare, la legge 18 marzo 2008, n. 48, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno" contiene numerose disposizioni di modificaal codice penale e al decreto legislativo n. 231 del 2001 (che disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica) in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, nonché al codice di procedura penale e al c.d. codice della privacy (d. lgs. n. 196 del 2003).

Le leggi di ratifica che prevedono oneri contengono, in alcuni casi, una norma che affida al Ministro dell’economia e delle finanze il monitoraggio dell’attuazione delle stesse - anche ai fini dell’applicazione dell’articolo 11-ter, comma 7, della legge 5 agosto 1978, n. 468 (Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio) -  e la trasmissione alle Camere degli eventuali decreti emanati ai sensi dell’articolo 7, secondo comma, numero 2) della stessa legge n. 468[1]. E’ il caso, ad esempio della legge 27 settembre 2007, n. 167,  che autorizza alla ratifica la Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, che contiene entrambe le disposizioni.

La proposta di legge concernente il procedimento per la ratifica dei trattati internazionali

Di particolare interesse appare la proposta di legge A.C. 965 Disposizioni concernenti il procedimento per la ratifica dei trattati internazionali. La proposta, presentata dall’on. Ranieri, è stata esaminata dalla Commissione esteri della Camera nella sola seduta del 14 novembre 2007. Data la complessità della materia e la portata innovativa delle norme proposte, la seduta si è conclusa con l’assenso del Presidente circa l'opportunità di un lavoro istruttorio approfondito.

La proposta di legge, infatti, aveva la finalità di introdurre alcuni istituti normativi per la disciplina del procedimento mirato all’autorizzazione parlamentare alla ratifica dei trattati internazionali, dettando altresì norme concernenti il rapporto tra Parlamento e Governo nell’attuazione di tale procedimento.

Le motivazioni della proposta facevano riferimento in primo luogo alla esigenza di razionalizzare e garantire tempi certi al procedimento legislativo di ratifica (di cui all’art. 80 della Costituzione).

 La proposta intendeva quindi fornire una cornice all’interno della quale il Parlamento potrebbe contribuire a soddisfare una esigenza di maggiore coerenza fra i vari episodi della negoziazione diplomatica e fra questi e l’indirizzo politico, superando limiti di episodicità e improvvisazione che ancora vengono registrati nella presenza internazionale dell’Italia.

La proposta di legge introduceva gli istituti normativi necessari per raccogliere i procedimenti parlamentari di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali all’interno di una apposita sessione parlamentare: quelli che oggi vengono presentati al Parlamento come distinti disegni legge verrebbero pertanto riuniti in un unico disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di più trattati sul modello già adottato per l’uniformazione del diritto interno al diritto comunitario.

La sessione parlamentare (la cui disciplina legislativa richiederebbe comunque l’introduzione di apposite disposizioni dei regolamenti delle due Camere) si articolerebbe in una prima fase – di presentazione da parte del Governo ed esame da parte del Parlamento di una relazione annuale sullo stato dei trattati e in due fasi  semestrali legislative, dedicate all’esame parlamentare e all’approvazione dei due disegni di legge semestrali di ratifica, presentati dal Governo ogni anno entro il 30 aprile ed entro il 30 ottobre. Veniva comunque prevista una procedura speciale per l’autorizzazione alla ratifica di singoli trattati – fuori dal disegno di legge semestrale – in particolari casi di urgenza.

 

Si ricorda che l’obiettivo della unificazione dei procedimenti di ratifica era anche compreso in una proposta di legge più articolata e dalle finalità più ampie (essa mirava a disciplinare e riformare l’intero arco dei rapporti fra Parlamento e Governo nella procedura della ratifica e della stessa negoziazione dei trattati), presentata nella XIV legislatura (AC 3886 Calzolaio e altri), di cui la III Commissione iniziò l’esame in sede referente. L’esame – durante il quale furono sollevate numerosi dubbi sulla compatibilità di alcune disposizioni con il quadro costituzionale delle competenze del Governo e con la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 - si concluse con il mandato al relatore a riferire in senso contrario in Assemblea.

 


Afghanistan

L’aggravamento della situazione

In un contesto di perdurante insicurezza per il persistere della guerriglia integralista, episodi sovversivi sono proseguiti in tutto l’Afghanistan, a opera di talebani, ex talebani e di terroristi ostili al processo democratico, per tutto il periodo qui preso in considerazione (primavera 2006-primavera 2008)[2].

In primo luogo, si ricorda che il 31 luglio 2006 la NATO ha iniziato ad estendere l’azione dell’ISAF anche nelle regioni meridionali dell’Afghanistan. La strategia della NATO nel sud del Paese ha fatto peraltro registrare alcune proteste e manifestazioni di dissenso nell’opinione pubblica, soprattutto per il ripetuto coinvolgimento di civili.

La situazione della sicurezza riceveva intanto una conferma negativa da un rapporto reso noto a metà novembre 2006 dal Comitato congiunto di sorveglianza e di coordinamento, in base al quale le vittime complessive del conflitto afghano sono quadruplicate rispetto al 2005, passando a 3.700.  Inoltre, anche il costoso programma USA di addestramento della polizia afghana non sembra aver raggiunto i risultati attesi, anche a causa dei frequenti casi di corruzione e di incompetenza.

In ordine al processo di ricostruzione, si ricorda che il 29 gennaio 2007 l'Unione europea ha annunciato nuovi aiuti finanziari pari a 600 milioni di euro in quattro anni, somma che si aggiunge al miliardo di euro già investito dalla UE dal 2001 per la ricostruzione dell'Afghanistan.

 

Nell’annunciare il pacchetto di aiuti 2007-2010, il Commissario per le Relazioni esterne e la Politica europea di vicinato, Benita Ferrero-Waldner, ha sottolineato come tra gli obiettivi di questo nuovo stanziamento vi siano il rafforzamento del sistema giudiziario per combattere la corruzione, nonché lo sviluppo di colture alternative per contrastare l'industria dell’oppio, motore dell’economia afghana. Il finanziamento si concentrerà pertanto su tre aree prioritarie: la riforma della giustizia, lo sviluppo rurale e la sanità.

L’ “operazione Achille” e gli sviluppi più recenti

Nei primi giorni di marzo 2007 è iniziata l’offensiva della NATO (operazione Achille) contro i taleban (4.500 uomini più mille militari afghani) nel sud del Paese: in conseguenza molti taleban e terroristi sono fuggiti dalla parte settentrionale della provincia di Helmand, e contro la possibilità di loro infiltrazioni nella zona occidentale di Herat – sotto comando italiano – sono iniziate operazioni parallele italiane e spagnole.

 

Il 19 marzo, dopo due settimane di prigionia, è stato liberato il reporter de “la Repubblica” Daniele Mastrogiacomo, vittima di un rapimento da parte dei taleban, assieme al suo autista e all’interprete: l’autista, risultato appartenere ai servizi segreti di Kabul, è stato barbaramente assassinato dai rapitori, mentre il giorno di Pasqua è stato decapitato anche l’interprete. Le modalità di liberazione di Mastrogiacomo hanno prodotto reazioni imbarazzate da parte del governo afghano che si è trovato nelle condizioni di dover liberare cinque esponenti taleban detenuti nelle carceri afghane. Tali modalità hanno anche provocato critiche da parte di USA, Nazioni Unite, Paesi Bassi e Germania, con l’argomentazione del carattere di pericoloso precedente che esse rischiavano di rapresentare.

 

Il 2 aprile 2007 il Consiglio supremo di difesa, presieduto dal Capo dello Stato, ha fornito concrete indicazioni per un rafforzamento in uomini e mezzi del contingente militare italiano in Afghanistan, quale attuazione dell’impegno assunto dall’Esecutivo in Parlamento, senza mutamenti nel carattere della missione, ma in previsione di una sua durata non breve e di maggiori pericoli potenziali. L’operazione è stata completata verso la fine di giugno con l’arrivo di due ricognitori Predator, di cinque elicotteri da combattimento Mangusta e due plotoni di bersaglieri con otto cingolati Dardo.

Frattanto non è sembrata arrestarsi l’escalation degli attacchi terroristici: pur sottoposti a una forte pressione della NATO nella parte meridionale del Paese, i taleban si sono mostrati in grado di portare attacchi micidiali ovunque. Nella provincia occidentale di Herat (relativamente tranquilla e, come si è ricordato, sotto controllo italiano) un’ampia offensiva condotta all’inizio di maggio da truppe USA, ha causato la morte di numerosi civili. Questo fatto  ha causato le proteste del Ministro della difesa italiano, Parisi che ha ribadito l’inaccettabilità delle perdite di civili e denunciato che l’informazione degli alleati americani al contingente italiano è stata inadeguata e intempestiva.

La questione del coinvolgimento di vittime civili nelle azioni militari contro i taleban ha assunto contorni sempre più preoccupanti, provocando vive proteste del presidente Karzai – che ha altresì disposto la creazione di un’apposita commissione d’inchiesta - e durissime reazioni del Parlamento di Kabul. La NATO ha più volte attribuito la responsabilità ai taleban e alla loro tattica di avvalersi di scudi umani; inoltre, sono state aperte inchieste per la verifica dei fatti. La posizione italiana è stata quella di richiamare a una condotta più accorta delle operazioni e ad un maggior coordinamento in esse, ricordando nel contempo la non esaustività della sola dimensione militare nella lotta contro i taleban.

In questo quadro, occorre ricordare  la Conferenza sulla giustizia e sullo stato di diritto in Afghanistan (Roma 2 e 3 luglio 2007) copresieduta da Italia e Nazioni Unite. La discussione più propriamente politica, che si è svolta il secondo giorno, ha visto la partecipazione del presidente afghano Karzai, del segretario generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer e di 26 delegazioni di governi e organizzazioni internazionali. La Conferenza è terminata con l’approvazione di un documento conclusivo nel quale si afferma che la riforma dello Stato di diritto e il sostegno coordinato da parte della comunità internazionale saranno realizzati attraverso un “Programma nazionale di giustizia” e con l’impegno dei donatori a versare, oltre ai fondi precedentemente stanziati, anche nuovi contributi per un totale di 360 milioni di dollari per sostenere progetti a breve termine.

Intanto la situazione sul campo ha fatto registrare numerose situazioni critiche per il contingente italiano, a cui hanno sempre corrisposto dibattiti parlamentari alla presenza dei rappresentanti del Governo (vedi infra).

 

ll 24 settembre 2007 è stato effettuato un blitz militare per la liberazione di due agenti del SISMI presi in ostaggio. In merito all'intervento il governo italiano ha più volte ribadito di essere stato costretto ad autorizzare il blitz in quanto i due ostaggi, soprattutto in ragione della loro accertata appartenenza ai servizi segreti militari, sarebbero stati con elevata probabilità uccisi. Il blitz è stato effettuato con la collaborazione di incursori britannici che attaccavano il convoglio che stava già provvedendo al trasferimento dei due ostaggi. Il 4 ottobre, a causa delle ferite ricevute, è deceduto il maresciallo capo Lorenzo D’Auria, uno dei due ostaggi.

Nella stessa giornata del 24 settembre anche il contingente spagnolo è stato fatto segno di un grave attentato, sempre nei pressi di Farah, con la morte di due soldati e di un interprete afghano a seguito dello scoppio di una mina: il governo di Madrid ha immediatamente confermato il proprio impegno in Afghanistan.

Alla fine di settembre, a fronte dell'uccisione di oltre cento taleban da parte delle forze della coalizione nella regione meridionale di Helmand, un attentatore suicida travestito da militare afghano ha provocato a Kabul la morte di una trentina di soldati che erano a bordo di un autobus.

Il 24 novembre un kamikaze è stato fermato dal maresciallo capo Daniele Paladini mentre si apprestava a compiere un attentato in un assembramento nei dintorni di Kabul. Il kamikaze si è fatto comunque esplodere uccidendo il militare italiano e nove afghani tra i quali quattro bambini. Altri tre soldati italiani hanno riportato ferite. L’intervento di Paladini ha comunque evitato un bilancio assai più grave dell’attentato.

 

Nel contesto di una crescita esponenziale degli attentati anche nella capitale, il 6 dicembre l'Italia ha assunto la guida anche del comando regionale ISAF della capitale, per un periodo di otto mesi.

Tra gennaio e febbraio 2008 si è manifestato il disappunto statunitense per l’insufficiente impegno degli alleati NATO nella lotta alla guerriglia. In proposito il Segretario alla Difesa Robert Gates ha assunto l’iniziativa di inviare una lettera a tutti paesi alleati con una esplicita richiesta di invio di forze e risorse ulteriori in Afghanistan.

Il 7-8 febbraio 2008 si è svolta a Vilnius (Lituania) la riunione dei ministri della difesa dei paesi della NATO nel corso della quale sono emerse opinioni diverse rispetto alle posizioni statunitensi e soltanto la Francia ha preannunciato la disponibilità ad inviare propri uomini anche nelle regioni “calde” dell’Afghanistan. Per quanto concerne gli aspetti civili e della ricostruzione, i ministri della difesa della NATO hanno esortato il governo di Kabul a un sensibile miglioramento negli sforzi per la stabilizzazione del Paese, e alla necessità di conquistare più larghe fasce della popolazione con un “contegno di governo appropriato” (riferimento non troppo velato alla diffusa piaga della corruzione). Non è mancata la sottolineatura della necessità di un maggiore coordinamento degli sforzi tra tutti gli attori internazionali in Afghanistan.

 

Il 13 febbraio si è registrata la morte del dodicesimo militare italiano dall'inizio della missione in Afghanistan, nella persona del primo maresciallo Giovanni Pezzulo, ucciso a 60 km. dalla capitale, mentre distribuiva aiuti umanitari. Nell'agguato è stato ferito in modo non grave anche un alpino paracadutista.

 

Alla metà di febbraio un attentatore suicida ha provocato, a Kandahar, una strage che ha contato ottanta morti e decine di feriti.

In tale contesto di crescenti difficoltà si è inserito un rapporto reso pubblico il 5 febbraio dall'Ufficio ONU per la droga e la criminalità, in base al quale nel 2008 si assisterà in Afghanistan a un nuovo raccolto eccezionale di oppio, pari o solo leggermente inferiore a quello record del 2007, con ulteriori introiti per i taleban.

Il 20 marzo 2008 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all'unanimità unarisoluzione predisposta dall'Italia, con la quale si proroga di 12 mesi il mandato della missione ONU in Afghanistan (UNAMA). La risoluzione amplia i poteri del nuovo inviato delle Nazioni Unite, designato il 6 marzo dal Segretario generale nella persona del diplomatico norvegese Kai Eide, consentendogli di poter coordinare in via diretta gli aiuti internazionali all'Afghanistan.

L’attività parlamentare

Sul piano legislativo il Parlamento italiano ha accompagnato l’evoluzione, tra l’altro, della situazione in Afghanistan con l’approvazione di diversi provvedimenti per l’incardinamento, la proroga o la cessazione di missioni di carattere sia militare che civile.

 

Si tratta in particolare:

-    della legge 4 agosto 2006, n. 247, recante disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali;

-    del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 4, recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali, convertito con modificazioni dalla legge 29 marzo 2007, n. 38;

-    del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria (art. 9), convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2007, n. 127;

-    del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria (art. 1), convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31;

-    del decreto-legge 31 gennaio 2008, n. 8, recante disposizioniurgenti in materia di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 2008, n. 45.

 

Per quanto invece concerne l’attività di indirizzo e informazione, anche nella XV Legislatura è proseguito un intenso rapporto tra Parlamento e Governo in relazione alla situazione afghana e al relativo impegno dell’Italia, mediante, da un lato, la formulazione di indirizzi in merito, e, dall’altro, una puntuale attività informativa delle Camere sui diversi momenti dello sviluppo degli eventi.

In questa sede, per motivi di spazio, si forniscono i dati essenziali sugli atti di indirizzo approvati, non potendosi dare conto dettagliatamente del gran numero di sedute, sia in Commissione che in Aula, e tanto alla Camera quanto al Senato, in cui il Parlamento ha potuto acquisire elementi conoscitivi decisivi per le proprie determinazioni.

Si ricorda anzitutto che l’Assemblea della Camera, nella seduta del 19 luglio 2006, ha approvato una mozione (1-00014 Sereni ed altri) sulle missioni italiane all’estero.

 

La mozione impegnava il Governo, tra l’altro, a promuovere nelle sedi internazionali competenti, in special modo nell'ambito delle Nazioni Unite e della NATO, una “nuova conferenza internazionale sull'Afghanistan allo scopo di favorire un dialogo a livello regionale e di rilanciare l'impegno della comunità internazionale, volto alla ricostruzione economica e civile del Paese, alla pacificazione e al rafforzamento delle istituzioni afghane, all'elaborazione di un piano efficace di riconversione delle colture di oppio, anche ai fini di una loro parziale utilizzazione per le terapie del dolore”. Il medesimo atto di indirizzo impegnava altresì il Governo a sollecitare, nelle medesime sedi, sia “una riflessione sulla strategia politica e diplomatica che deve accompagnare la presenza internazionale in Afghanistan” - al fine di assicurare che l'azione di stabilizzazione, controllo del territorio e sostegno alle forze dell'ordine afghane si muova lungo un percorso di normalizzazione e pacificazione del Paese, con obiettivi e passaggi definiti che prevedano in prospettiva l'affidamento al Governo sovrano di Kabul della responsabilità del mantenimento della pace e dell'ordine sul territorio afghano - sia una “verifica sull'impegno e la presenza internazionale in Afghanistan, valutando risultati ed efficacia delle missioni e delineando un percorso chiaro di rafforzamento delle istituzioni, di ricostruzione economica e civile e di garanzia della sicurezza per la popolazione”.

 

Si ricorda poi che l’Assemblea del Senato, nella seduta del 28 giugno 2007, ha discusso mozioni sulla Conferenza sulla giustizia e sullo stato di diritto in Afghanistan, approvando due degli strumenti in testo modificato.

 

I testi approvati impegnano il Governo a produrre ogni sforzo, “in sede di conferenza, affinché venga definita una strategia dettagliata per il futuro”, con il concorso del governo afghano e dei partner internazionali. In concreto si tratterà di perseguire il processo di riconciliazione nazionale, il miglioramento del sistema carcerario, l'affermazione dei diritti umani – a tale proposito il Governo dovrà attivarsi nelle competenti sedi internazionali perché si giunga ad accertare verità e ristabilire giustizia “sulla violazione dei diritti umani, verificatisi prima e dopo la caduta del regime talebano ed in particolare sulla situazione delle donne afghane attualmente detenute nel Paese”.

 

Infine l’Assemblea del Senato, nella seduta pomeridiana del 24 luglio 2007, ha ascoltato comunicazioni del Ministro degli affari esteri in materia di politica estera, con particolare riferimento allo stato delle missioni internazionali, e ha svolto la conseguente discussione, al termine della quale sono state approvate tre proposte di risoluzione: tra queste, la n. 6-00032, presentata dall’opposizione, impegnava il Governo “a confermare l'impegno e la presenza in Afghanistan, pur profilandosi lunga e complessa, per la costruzione della pace e della stabilità”.

 


Pakistan

Il Pakistan è un paese di notevole rilievo geopolitico: conta circa 165 milioni di abitanti, è situato in una posizione altamente strategica per influenzare l’area iraniana e afghana, da un lato, e l’Asia meridionale, dall’altro, e per di più è dotato dal 1998 di un cospicuo arsenale nucleare. Nonostante ciò, da parecchi anni questo paese non ha ricevuto una attenzione internazionale commisurata al suo ruolo e ai rischi che presenta, con l’eccezione dei soli Stati Uniti.

Nell’arco temporale degli ultimi due anni, e specialmente dell’ultimo, il Pakistan, dal 1999 governato dal Generale Musharraf - che dopo il colpo di Stato si era proclamato Presidente nel 2001 - ha conosciuto un’accelerazione drammatica della latente crisi politica ed economica: basti ricordare che nel periodo gennaio 2007-marzo 2008 vi sono state circa 1.100 vittime di attentati. Responsabili di questa escalation del terrore sono gruppi islamisti di varia filiazione che hanno sottratto allo stato pakistano il controllo di una parte del territorio e hanno una penetrazione capillare in tutto il paese (per la genesi della crisi pakistana si rinvia a p. 200 alla scheda Cenni storici e profilo attuale).

L’incapacità da parte del Governo di garantire all’alleato americano un appoggio concreto alla lotta contro la galassia fondamentalista operante nella vasta area di confine con l’Afghanistan, ha determinato – per tutto il 2006 – un progressivo deterioramento delle relazioni internazionali del Pakistan. La visita a sorpresa del Vicepresidente americano Dick Cheney a Islamabad del 26 febbraio 2007 aveva segnato il punto più critico delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan, mentre già nei mesi precedenti si erano registrate dichiarazioni dello stesso Presidente Bush da cui trapelava la insoddisfazione americana per l’inerzia nella lotta al terrorismo di un alleato che pure è beneficiario di consistenti aiuti.

La debolezza del Governo trovava poi riscontro in una serie di attentati terroristici, manifestazioni di piazza e veri e propri episodi semi-insurrezionali, quale quello che, nel luglio 2007, ha avuto come teatro la Moschea Rossa di Islamabad. La situazione interna del paese è precipitata, infine, in uno stato di gravissima crisi, che ha toccato il proprio apice nel periodo che va dal rientro dall’esilio dell’ex primo ministro Benazir Bhutto (ottobre 2007) alla sua tragica morte (27 dicembre).

Anche se una stabilizzazione del paese appare un obiettivo ancora lontano, la fase più acuta della crisi sembra oggi essersi chiusa, grazie anche alle elezioni del 18 febbraio 2008[3], svoltesi in un clima di tensione ma in modo regolare (secondo gli osservatori internazionali) dalle quali è uscito nettamente ridimensionato il partito del Presidente Musharraf.

L’attività parlamentare

Nel corso della XV Legislatura la Commissione Affari esteri della Camera ha rivolto in due occasioni la propria attenzione alle vicende pakistane, dapprima nella seduta del 13 novembre 2007, con l’audizione del Sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Gianni Vernetti, avvenuta in un momento che sembrava preludere a una distensione, dopo che era stata fissata la data delle elezioni e Musharraf aveva annunciato che avrebbe abbandonato le proprie cariche in seno all’esercito.

In una fase più acuta della crisi pakistana - nel clima reso difficilissimo dall’assassinio di Benazir Bhutto e dopo lo slittamento delle elezioni al 18 febbraio - si è svolta una nuova audizione del Sottosegretario Vernetti (seduta del 10 gennaio 2008).

 


La situazione dell’Iraq

Quadro di sintesi

A cinque anni dalla caduta di Saddam Hussein la situazione in Iraq non è stabilizzata, anche se il paese non è più considerato – oggi - sull'orlo di una guerra civile. La via verso una salda riconciliazione nazionale appare ancora non conclusa, ma comunque avviata. Il bilancio appare comunque molto pesante: in cinque anni sono morti un numero di civili stimato intorno agli 82 mila mentre sono caduti 4.300 soldati della coalizione, dei quali 4.000 americani.

Relativamente al periodo preso in considerazione (aprile 2006-aprile 2008), il primo evento rilevante è stato, il 22 aprile 2006, la conferma alla Presidenza della Repubblica del leader dell'Unione Jalal Talabani, e il successivo conferimento dell’incarico di formare un nuovo governo allo sciita Nuri al-Maliki, governo che viene immesso nei suoi poteri nel maggio 2006. Il governo però non ha avuto vita facile: dapprima le dimissioni di sei ministri fedeli al leader radicale sciita Moqtada al Sadr, poi quella di cinque ministri e del vice premier, tutti facenti riferimento al Fronte della concordia (il maggiore gruppo parlamentare sunnita) hanno messo a dura prova la stabilità dell’esecutivo e ne hanno fortemente limitato i margini di manovra.

Dopo le speranze suscitate dall’annuncio, il 13 gennaio 2008, della imminente formazione di una nuova alleanza che avrebbe messo insieme gruppi politici sciiti e sunniti a sostegno delle politiche nazionali del governo e – ben più importante – dalla decisione di Moqtada al Sadr, resa pubblica il 21 febbraio 2008, di voler prorogare la sospensione delle attività dell’esercito (sciita) del Mahdi fino alla metà del mese di agosto, i violenti combattimenti del 25 marzo a Bassora tra le forze di sicurezza irachene e alcuni combattenti della milizia sciita hanno fatto retrocedere di un passo il processo verso la riconciliazione nazionale.

Solo pochi giorni prima, il 18 marzo, si era aperta la “Conferenza di riconciliazione nazionale” che per due giorni ha riunito a Baghdad centinaia di delegati di quasi tutti i gruppi politici iracheni. Il Fronte della Concordia, principale gruppo parlamentare sunnita, e la lista laica al Iraqiya che fa capo all'ex premier Allawi hanno però boicottato la riunione, definendola una mera operazione propagandistica del governo. La Conferenza, come quella analoga svoltasi il 17 dicembre del 2006 , si è conclusa con un nulla di fatto.

Oggi la situazione del paese appare – pertanto – ancora incerta: superata la fase più acuta di crisi, stenta a consolidarsi un accordo politico di cui però si vanno formando le premesse. Parallelamente, è proseguito – in questi due anni – il ripensamento sulla strategia adottata in una guerra rivelatasi “di tipo nuovo”. Una strategia che ha prodotto una grave divisione all’interno del campo occidentale, fattore – a sua volta – di indebolimento del fronte che si è opposto in questi anni al terrorismo fondamentalista.

Dal marzo 2006 si era posto negli Stati Uniti il problema di rivedere la propria strategia in Iraq, stante il perdurare della situazione di instabilità interna contrassegnata dal ripetersi di violenti scontri le cui vittime sono prevalentemente tra la popolazione civile. Il Rapporto Baker del 6 dicembre 2006, stilato da una Commissione bipartisan del Congresso USA, ha analizzato la situazione irachena ed ha suggerito un graduale ritiro delle truppe americane a partire dai primi mesi del 2008. Ma nel suo nuovo piano per pacificare l’Iraq, reso noto il 10 gennaio 2007, il Presidente Bush, sorprendendo l’opinione pubblica internazionale, ha deciso di potenziare la presenza militare in Iraq inviando altri 21.500 uomini, allo scopo di assicurare condizioni di sicurezza di base e di non lasciare il paese nel caos. Solo il 13 settembre 2007 Il presidente Bush - accogliendo le raccomandazioni del generale David Petraeus - ha annunciato di avere previsto un primo ritiro di 30 mila soldati (sui circa 168 mila presenti sul territorio iracheno) entro l'estate del 2008, ma solo a condizione che l’Iraq abbia raggiunto un grado sufficiente di sicurezza.

Il 2 e il 3 novembre 2007 si è svolta ad Istanbul la Conferenza Internazionale sull’Iraq per promuovere la stabilità in quel Paese che si è conclusa con una dichiarazione finale contenente impegni per la lotta contro il terrorismo. Il premier iracheno Al Maliki ha dichiarato che l’Iraq sta diventando più forte e grazie a questo è stato in grado di respingere il tentativo attuato da Al Qaida di espandere la guerra civile. L’Iraq ha ribadito il proprio impegno a proseguire la cooperazione con la Turchia per combattere il terrorismo del PKK.  La Conferenza di Istanbul era stata preceduta da una prima Conferenza internazionale svoltasi a Baghdad il 10 marzo 2007 e da una seconda a Sharm-el-Sheik il 4 maggio 2007. La prossima sarà organizzata in Kuwait.

L’attività della Camera

La prima seduta dedicata dalla Camera all’Iraq nella XV Legislatura si è avuta, il 6 giugno 2006, in occasione di un’informativa urgente del Governo sull’attentato di Nassiriya che, il giorno precedente, aveva causato la morte del primo caporalmaggiore Alessandro Pibiri, e il ferimento di altri quattro militari del contingente italiano, colpiti mentre scortavano un convoglio logistico britannico.

Successivamente, durante l’audizione del 14 giugno 2006 (il dibattito è poi proseguito, e terminato, nella seduta del 27 giugno 2006) davanti alleCommissioni Esteri della Camera e del Senato sulle linee programmatiche del suo Dicastero, il Ministro degli Esteri ha precisato che il nuovo governo stava predisponendo il rientro del contingente italiano, in accordo con il governo iracheno, coerentemente con il mandato ricevuto, e che sarebbe avvenuto entro la fine dell’anno. Il Ministro ha altresì chiarito che le modalità con cui il Governo avrebbe gestito il rientro della nostra forza militare avrebbero tenuto conto della necessità di garantire il massimo della sicurezza alle popolazioni locali, e il graduale passaggio del territorio  sotto il controllo degli iracheni. L’Italia, tuttavia, avrebbe continuato ad essere presente in Iraq facendo parte della la missione NATO Training Mission per la formazione di personale militare, a Baghdad, una missione di formazione e di training alla quale l’Italia tuttora fornisce il maggior numero di uomini.

La Camera si è occupata di Iraq anche nelle sedute del 17 e del 19 luglio 2006, in occasione della discussione di mozioni sulle missioni italiane all’estero: è stata approvata la mozione Sereni ed altri n. 1-00014 che, tra l’altro, prendeva atto positivamente che il Governo aveva programmato la conclusione della missione Antica Babilonia in Iraq, ed era impegnato nel ritiro integrale del contingente militare italiano. La mozione Elio Vito ed altri n. 1-00013, che impegnava il governo alla continuità della presenza italiana in Afghanistan, in Iraq e nei Balcani, non accettata dal governo, è stata respinta.

Il 9 maggio 2007 si è svolta presso la  Commissione Esteri della Camera l’audizione del Viceministro degli Affari esteri, Ugo Intini, sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente, che ha dato innanzitutto conto delle due conferenze sull’Iraq svoltesi a Sharm El Sheik il 3 e il 4 maggio 2007.

Come ha riferito il Viceministro, il 3 maggio è stata lanciata ufficialmente l'iniziativa dell'International Compact with Iraq – ICIun’iniziativa del governo iracheno per una partnership con la comunità internazionale che consta di un piano nazionale della durata di cinque anni contenente i punti cardine e gli impegni reciproci finalizzati a condurre l’Iraq verso la pace, una buona amministrazione e la ricostruzione economica.

Il 4 maggio si è svolto il seguito della Conferenza di Baghdad (10 marzo 2007) sulla sicurezza e la stabilizzazione dell’Iraq alla quale hanno preso parte i Paesi confinanti con l’Iraq, così come il Bahrein, l'Egitto, i rappresentanti della Lega Araba, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, dellONU, dell’Unione Europea, i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e quelli membri del G8. Fatto straordinario, la Conferenza ha visto seduti attorno allo stesso tavolo rappresentanti di Stati Uniti, Siria e Iran anche se, come il Viceministro ha ricordato in quell’occasione, la stabilizzazione rimane essenzialmente un problema interno al Paese, che il Governo Al Maliki deve affrontare attraverso l'adozione di concrete misure di riconciliazione nazionale.

Intini ha inoltre ricordato che l'Italia ha confermato il proprio impegno per l'Iraq sul piano civile con la firma di un trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, avvenuta a Roma il 23 gennaio 2007.

Della Conferenza regionale sull’Iraq ha nuovamente parlato il Ministro D’Alema alle Commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera (25 luglio 2007) alle quali ha reso comunicazioni sulla partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali. La Conferenza, promossa dagli americani, è stata definita dal Ministro degli Esteri “un primo passo verso un impegno coordinato per la pacificazione dell’Iraq”. Il Ministro ha inoltre sottolineato che, proprio sulla base della Conferenza regionale, si è avviato un intenso dialogo tra Stati Uniti ed Iran - in quel momento ancora ai primi passi ma che tuttavia destava grandi speranze – e che veniva valutato come “l'unica via attraverso la quale contribuire a una pacificazione dell'Iraq”.

Il Ministro D’Alema, infine, ha attribuito in parte alla guerra in Iraq la formazione di un’internazionale jihadista: molti combattenti fondamentalisti, infatti, vengono addestrati in Iraq che sarebbe divenuto, dopo la guerra, il più grande campo di addestramento dei terroristi.

Un altro fronte problematico si è nuovamente aperto per l’Iraq nell’autunno del 2007, ossia le tensioni al confine con la Turchia dovute alla ripresa delle attività terroristiche da parte curda (si rinvia, in proposito, al capitolo La Turchia e la questione curda a pag. 75). La guerriglia del PKK, mai del tutto sopita negli ultimi venticinque anni, ha conosciuto una particolare recrudescenza a partire dal mese di settembre 2007, quando, rompendo per la seconda volta un cessate il fuoco, sono stati portati in rapida successione tre attacchi a civili turchi, ma anche a forze militari dislocate al confine con l’Iraq. Per cercare di porre fine agli attentati, il governo turco ha chiesto l’appoggio degli USA per intervenire militarmente nella zona situata a nord dell’Iraq e controllata dai curdi iracheni e dove si stimava si fossero rifugiati circa 5mila militanti del PKK. Ma la richiesta turca ha ricevuto un netto rifiuto da parte dell’amministrazione americana, creando attriti tra i due paesi tradizionalmente alleati. Nel mese di ottobre il governo turco e il parlamento hanno tuttavia autorizzato le proprie forze armate ad effettuare un intervento in nord Iraq, se e quando necessario, al fine di liquidare i campi di montagna da cui partono i ribelli curdi turchi del PKK per compiere attacchi terroristici in Turchia. L’intervento si è poi avuto nel periodo novembre-dicembre 2007.

Il Sottosegretario per gli affari esteri, Crucianelli, udito dalla Commissione esteri il 7 novembre 2007 sulla situazione al confine turco-iracheno, ha riferito circa la firma di un accordo di cooperazione con l'Iraq per il contrasto al terrorismo, firmato ad Ankara il 28 settembre che , insieme alle reiterate richieste da parte turca di avere l'appoggio americano contro i curdo-iracheni. ha rappresentato il necessario tentativo di risolvere la questione per via diplomatica. Crucianelli ha però anche detto che l’accordo con Baghdad non sembrava stesse portando a cambiamenti significativi sulla questione della sicurezza anche a causa del fatto che il premier iracheno Nuri al Maliki – che pure si è impegnato a incalzare i terroristi del PKK nelle loro stesse sedi e a sradicarli dall'Iraq – non ha grandi possibilità di intervenire sul Nord dell’Iraq, che infatti è controllato dai Peshmerga Nordiracheni di Jalal Talabani e di Massud Barzani, (presidente del Kurdistan iracheno), gli unici che potrebbero offrire una sponda affidabile per una soluzione diplomatica.

Gli unici interventi normativiche hanno avuto ad oggetto l’Iraq hanno riguardato la proroga o l’autorizzazione di missioni internazionali.

In particolare, l’art. 2 della legge 4 agosto 2006, n. 247, Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali ha autorizzato la spesa di 130,4 milioni di euro necessari alla fase di rientro del contingente militare che partecipava alla missione Antica Babilonia, avvenuta nell'autunno 2006.

 

L'operazione "Antica Babilonia" si inquadra nella Forza di stabilizzazione internazionale costituita da più di venti Paesi dopo la conclusione del conflitto in Iraq. La presenza italiana era finalizzata a garantire la cornice di sicurezza essenziale per consentire l’arrivo degli aiuti e a contribuire con capacità specifiche alle attività di intervento più urgente nel ripristino delle infrastrutture e dei servizi essenziali. Tra i compiti del contingente militare italiano: la creazione di un ambiente sicuro; il concorso al mantenimento dell’ordine pubblico; funzioni di polizia militare; il supporto alle attività di sminamento; le rilevazioni biologiche e chimiche; l'assistenza sanitaria; la gestione aeroportuale; il supporto alle attività dell’ORHA (Office of Riabilitation and Humanitarian Assistance).

Il contingente militare italiano era assegnato alla regione meridionale dell'Iraq, posta sotto il comando britannico, ed operava sul territorio iracheno nella provincia di Dhi Qar (area di Nassirya). L'impiego delle forze militari italiane era strettamente connesso alla realizzazione del piano operativo di emergenza messo a punto dalla Task Force coordinata dal Ministero degli esteri, con l'apporto del Ministero della difesa e di altri dicasteri.

Nel corso della missione si sono verificate numerose perdite, sia a causa di attentati che di incidenti. L’attentato più grave si è verificato il 12 novembre 2003, quando un attacco terroristico alla base dei Carabinieri di Nasiriyah ha provocato la morte di 19 persone e il ferimento di altre 21.

 

Come ricordato più sopra, l’Italia è oggi presente in Iraq con un piccolo contingente di uomini assegnati alla missione NATO di assistenza e sostegno alle Forze di sicurezza irachene (NTM-I, NATO Training Implementation Mission in Iraq) nata, in risposta alla richiesta avanzata dal Primo Ministro iracheno, da una decisione del Vertice NATO di Istanbul del 28 giugno 2004[4]. La partecipazione italiana NTM-I è stata da ultimo prorogata al 31 dicembre 2008 dal decreto legge 31 gennaio 2008, n. 8, recanteDisposizioni urgenti in materia di interventi di  cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 2008, n. 45.

 


Kosovo

L’arco temporale della XV Legislatura ha visto la maturazione finale della questione dello status del Kosovo, che rimaneva una delle più gravi questioni aperte al momento della esplosione della crisi jugoslava agli inizi degli anni ’90[5]. Con la dichiarazione kosovara di indipendenza del 17 febbraio 2008 – che rappresenta, comunque, una uscita da un pericoloso e prolungato stato di incertezza - la Comunità internazionale ha dovuto prendere atto dell’insuccesso di ogni tentativo di giungere a una soluzione condivisa con la Serbia. Il fatto che finora lo strappo non abbia provocato reazioni armate è motivo di ottimismo, ma fattori rilevanti di instabilità rimangono ben presenti. In questo quadro dovrà realizzarsi - nel prossimo futuro - un crescente impegno dell’UE in un’operazione non breve e non superficiale di “state building”.

La dichiarazione di indipendenza e il ruolo dell’UE

In coincidenza con la presa d’atto finale del fallimento del negoziato sul futuro status del Kosovo (dicembre 2007) è maturata la decisione europea (fortemente sollecitata dagli Stati Uniti) in direzione di un nuovo e diretto impegno dell’UE affinché il cammino verso l’indipendenza (o comunque verso forme sempre più accentuate di autonomia) fosse accompagnato dall’Europa, e procedesse in modo parallelo alla integrazione della Serbia nell’UE[6].

Il 14 dicembre 2007 il Consiglio europeo di Bruxelles ha approvato all’unanimità l’invio di una missione europea, (che – secondo i programmi originari – avrebbe dovuto essere dispiegata fra febbraio e marzo 2008). E’ stato previsto che la missione europea (EULEX), civile e di polizia, subentri all’UNMIK dell’ONU, con l’ivio di circa 1.800 uomini (in gran parte magistrati e poliziotti).

 

Un fattore non secondario nel complesso gioco politico-diplomatico intorno alla questione del Kosovo è stato dato dalle elezioni presidenziali serbe, svoltesi a doppio turno il 20 gennaio e il 3 febbraio 2008: nel ballottaggio, il Capo dello Stato in carica, Boris Tadic - che al primo turno si era fermato al 35,4 per cento dei consensi contro il 40di Tomislav Nikolic, del Partito radicale serbo – è stato rieletto con un margine del 4 per cento nei confronti di Nikolic. La rielezione di Tadic è apparsa come un’apertura di credito verso l’integrazione europea della Serbia, anche se, per quanto riguarda la questione del Kosovo, il riconfermato Presidente serbo è anch’egli condizionato dalle vaste correnti che nel suo Paese sono irremovibili nell’opposizione all’indipendenza.Tutto ciò è dimostrato con grande evidenza dalla evoluzione della situazione politica interna della Serbia dopo lo strappo del 17 febbraio.

 

Il 16 febbraio 2008 la UE ha ufficialmente dato il via alla missione EULEX, mentre in sospeso è rimasta la questione di una posizione unitaria dell’Unione nei confronti dell’indipendenza kosovara.

Il 17 febbraio 2008, come già annunciato da diversi giorni, si è avuta la proclamazione ufficiale dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riunitosi con urgenza su richiesta della Russia, che mirava a far dichiarare nulla l’indipendenza del Kosovo, ha registrato sostanziali divisioni, soprattutto intorno all’interpretazione della risoluzione 1244 del 1999, e conseguentemente sulla liceità o meno della dichiarazione dell’indipendenza.

Il Presidente serbo Tadic non ha mancato di far rilevare i danni irreparabili alla legalità internazionale causati dalla dichiarazione di indipendenza kosovara, che costituirebbe un precedente invocabile d’ora in avanti da tutte le minoranze etniche del mondo per disgregare i rispettivi Stati di appartenenza. Anche la Cina ha espresso preoccupazione per la sfida al diritto internazionale rappresentata dall’indipendenza unilateralmente dichiarata dal Kosovo. La Russia ha protestato con forza, asserendo per bocca del presidente Putin che il precedente kosovaro potrà avere conseguenze imprevedibili, e comunque devastanti per il sistema delle relazioni internazionali. Con maggior precisione il rappresentante di Mosca presso la NATO, Rogosin, ha constatato che in presenza di una impasse dell’ONU la forzatura di UE e NATO comporta un aumento dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, che rischia di divenire una costante del prossimo futuro. Il 25 febbraio Dmitri Medvedev – che sei giorni dopo sarebbe stato eletto presidente della Russia – visitando la Serbia ha confermato il completo appoggio politico di Mosca[7]alle iniziative contro la secessione kosovara, senza fare cenno ad aspetti militari, che del resto anche la dirigenza serba non pare voler contemplare. Lo stretto legame russo-serbo è stato rafforzato da ulteriori accordi[8] nel campo petrolifero e del gas, collegati al passaggio nei Balcani del gasdotto Southstream.

Il 18 febbraio il Parlamento serbo ha dichiarato la nullità e l’illegalità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo; nel contempo le autorità di Belgrado hanno avviato procedimenti giudiziari nei confronti dei leader kosovari promotori dell’indipendenza, e hanno preannunciato il richiamo in patria degli ambasciatori serbi dai Paesi che dovessero riconoscere il Kosovo indipendente.

Nella stessa giornata, la riunione dei ministri degli Esteri dell’Unione europea a Bruxelles ha visto l’accordo soltanto sull’esigenza di mantenimento della pace e della stabilità nei Balcani, nonché della prospettiva di un’adesione alla UE per l’intera regione. Il nodo cruciale della posizione da assumere sull’indipendenza del Kosovo non è stato sciolto[9]. Gli Stati Uniti, in coerenza con una posizione già chiara da lungo tempo, hanno riconosciuto il Kosovo quale Stato indipendente e sovrano, accettandone altresì la richiesta di apertura di formali relazioni diplomatiche con gli USA.

Nei giorni successivi alla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, nel complesso, non vi sono stati incidenti nella misura che si poteva temere: va tuttavia ricordato che già il 19 febbraio circa 2000 serbi hanno attaccato due posti di controllo al confine tra Kosovo e Serbia, limitandosi ad appiccare il fuoco ad alcune baracche e vetture, ma evitando di fronteggiare il contingente francese della KFOR prontamente intervenuto.

Il 21 febbraio il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte dell’Italia, facendo seguito a quanto preannunciato dal Ministro degli Esteri D’Alema dinanzi alle Commissioni Esteri di Camera e Senato lo scorso 6 febbraio (vedi infra). Avendo la Serbia conseguentemente richiamato l’ambasciatore presso lo Stato italiano per consultazioni, il Ministro degli Esteri D’Alema ha reso noto di aver informato la Serbia sulle specifiche ragioni che hanno motivato il riconoscimento italiano del Kosovo, tra le quali non figura alcun atteggiamento ostile verso Belgrado, quanto piuttosto la volontà italiana di contribuire alla costruzione di un vero Stato di diritto nel Kosovo.

Sempre il 21 febbraiosi è svolta a Belgrado una grande manifestazione convocata dalle autorità per protestare contro la secessione del Kosovo, con una partecipazione che secondo alcune stime ha raggiunto il mezzo milione di persone. Verso la fine dell’adunata, tuttavia, un nutrito gruppo di giovani ha raggiunto l’ambasciata americana, violando i locali della sezione consolare e appiccando il fuoco a diverse stanze, non contrastati dalle forze dell’ordine in maniera adeguata. Negli incidenti è morto anche un dimostrante. Altri gruppi più piccoli hanno continuato nelle violenze fino a tarda ora, con il danneggiamento di altre ambasciate, come quelle turca, canadese, croata, belga, bosniaca, nonché di negozi locali o appartenenti a catene straniere. Nella stessa giornata un gruppo di ex riservisti dell’esercito serbo partiti dal proprio territorio, ha dato vita a una sassaiola al valico di Merdare, il più trafficato della frontiera serbo-kosovara, sorvegliato dalla polizia di Pristina e da un contingente della KFOR.

Queste esplosioni di violenza hanno provocato la dura reazione dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Solana, il quale ha ammonito i serbi per un pronto ritorno alla calma, senza di che ogni progresso sull’accordo di associazione della all’Unione europea diverrebbe impossibile. Con altrettanta decisione la Presidenza di turno slovena ha richiamato Belgrado alla tutela  delle ambasciate straniere, nonché a sconfessare con chiarezza le violenze appena perpetrate.

Il convergere delle tensioni su Belgrado ha provocato l’8 marzo 2008 le dimissioni del premier Kostunica, che ha esplicitamente posto al centro della sua decisione i dissapori con l’ala liberale della coalizione di governo, sia in merito al Kosovo che rispetto alla strategia da seguire nei confronti dell’Unione europea.

Il 17 marzo si sono avuti a Mitrovica i più gravi incidenti dalla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, quando lo sgombero, da parte di unità di polizia della UNMIK, del Palazzo di giustizia nella parte serba della cittadina, con il fermo di 53 degli occupanti serbi, ha innescato la reazione di migliaia di serbo-kosovari, con incidenti protrattisi per ore, e un bilancio di 160 feriti o contusi, distribuiti fra i dimostranti e le forze UNMIK e KFOR. Il giorno successivo è deceduto un poliziotto ucraino della UNMIK. Le reazioni serbe sono state generalmente dure con i contingenti internazionali, mentre dall’altra parte un portavoce NATO ha ammonito a non dar luogo a ulteriori violenze.

Prospettive future e ripercussioni nell’area balcanica

La dichiarazione d'indipendenza del Kosovo ha ricevuto dagli analisti commenti differenziati: sembra tuttavia prevalere il giudizio che essa sia stata una forzatura dettata da esigenze politiche prevalentemente occidentali. Non a caso, da parte europea - e soprattutto americana - si è teso a evidenziare il carattere di unicità del processo che ha condotto all'indipendenza del Kosovo, il suo non costituire un precedente. Tuttavia, l'indipendenza del Kosovo non pare giustificata né in base al diritto interno della Serbia, né tantomeno in base alla risoluzione 1244 del consiglio di sicurezza dell'ONU - sulla quale peraltro si è fondato l'intero arco degli interventi internazionali nella regione nel decennio trascorso. Non va inoltre dimenticato che il riconoscimento dell'indipendenza kosovara sembra in contrasto anche con norme ormai consolidate di diritto internazionale generale, secondo le quali vige il divieto di riconoscere la legittimità di situazioni determinate dall'uso della forza (si ricordi in proposito anche quanto proclamato nel 1975 a Helsinki nell'ambito dell’allora CSCE[10], ovvero il divieto di mutamenti delle frontiere mediante l'uso della forza). Infine, anche dal punto di vista della dottrina internazionalistica - che connette il riconoscimento di una nuova entità statuale all’effettività del potere che essa è in grado di esercitare su un determinato territorio – la situazione del Kosovo appare sui generis, in quanto è evidente che - almeno fino ad ora - l’effettività del potere e delle istituzioni nella regione è assicurata solo dalla presenza internazionale.

Per quanto concerne il decisivo ruolo dell'Unione europea, è stato rilevato da più parti come anche nella vicenda del Kosovo essa si sia dimostrata incapace di approdare a una posizione comune: non si è registrata, infatti, una posizione condivisa in merito all’importante questione del riconoscimento della nuova entità statale. E’ certamente vero che il riconoscimento di nuovi Stati è una prerogativa degli Stati membri dell'Unione, non delegata all'Unione medesima, ma una divergenza così netta di scelte non sembra comunque giovare al ruolo complessivo che l’UE intende giocare nell’area.

Tuttavia, poiché si prevedono difficoltà per il Kosovo sia nell'ingresso alle Nazioni Unite, sia nel riconoscimento di una piena personalità giuridica internazionale - e quindi nella stipula di trattati - l’Unione europea potrà esercitare la propria influenza mediante programmi di assistenza e ricostruzione al di fuori di una dimensione pattizia ufficiale. L'azione dell'Unione europea potrebbe essere – inoltre - facilitata da ciò che emerge dall'atteggiamento russo, nel quale, accanto al tradizionale forte sostegno alle istanze serbe, non sembra però esistere la volontà di provocare una frattura della Serbia con l'Unione europea, soprattutto se si considera il progetto russo di portare attraverso la Serbia ingenti quantità di gas nell'Europa meridionale.

Va infine fatto cenno al possibile peggioramento della cornice di sicurezza nei Balcani a seguito dell'indipendenza del Kosovo, anzitutto il rischio della riemersione di formazioni paramilitari sia da parte serba che albanese. Un chiaro pericolo è poi rappresentato dai serbi del Kosovo settentrionale, che potrebbero tentare di dar vita a loro volta a una secessione dalla restante parte del Paese. Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, invece, iniziative secessionistiche potrebbero provenire soprattutto dalla Repubblica serba di Bosnia, nella quale vi è una forte presenza ultranazionalista, e che ha recisamente rifiutato il riconoscimento del Kosovo. La stessa Macedonia, poi, per quanto presenti una certa stabilità, vede pur sempre una forte minoranza albanese (circa il 25% della popolazione), alcune frange della quale potrebbero far leva sulla recente indipendenza kosovara (unitamente alla grave delusione per il mancato ingresso nella NATO) per alimentare lo scontento. Nel Montenegro (dove risiede una forte minoranza serba a fronte di una assai più piccola minoranza albanese) l'indipendenza kosovara è stata accolta con molta cautela dalle autorità, giacché suscettibile di acuire il problema ancora non risolto dell'integrazione multietnica del piccolo Paese. Non sembra invece alimentare problemi  – almeno in questa fase - l'Albania, che naturalmente ha riconosciuto il nuovo Stato, ma nella quale non sembrano esservi rilevanti correnti politiche che spingono per un progetto di “Grande Albania”.

Per quanto riguarda la Serbia, la situazione interna è molto aperta e rischi di radicalizzazione vengono paventati da tutti gli osservatori. Lo stesso mosaico etnico di questo paese non è stato interamente risolto e non deve essere semplificato (ad esempio: nell'attuale territorio serbo potrebbero innescarsi ulteriori rivendicazioni secessionistiche da parte degli albanesi residenti nella valle di Presevo).

L’attività parlamentare

Esiste un interesse prioritario della politica estera italiana per l’intera area balcanica. Inoltre, gli sviluppi della situazione kosovara hanno un grande rilievo per un paese, come l’Italia, interessato da correnti migratorie e anche dai flussi illegali che trovano in Kosovo una base logistica di primaria importanza.

Date queste premesse, non è difficile spiegare perché le vicende del Kosovo e i loro riflessi sulla situazione dei Balcani occidentali siano state costantemente oggetto di attenzione parlamentare anche nell’arco della XV Legislatura.

 

Sul piano legislativo rilevano i provvedimenti di autorizzazione o proroga di missioni internazionali (vedi a pag. 17 il capitolo Afghanistan), nei quali è ricompresa anche la partecipazione italiana alle varie iniziative internazionali per il Kosovo.

 

Sul piano non legislativo, anche nel caso del Kosovo non è possibile un’illustrazione di dettaglio delle numerose occasioni di dibattito parlamentare intervenute: ci si dovrà piuttosto limitare a una sommaria panoramica, privilegiando anche qui gli atti di effettivo indirizzo approvati.

La Commissione Affari esteri della Camera, nella seduta del 17 gennaio 2007, ha discusso una risoluzione del presidente Ranieri sul Balcani occidentali: la risoluzione conclusiva approvata impegna il governo a farsi carico di qualunque iniziativa affinché per l’intera regione rimanga aperta la prospettiva dell’integrazione nell’Unione europea, previo il consolidamento dello stato di diritto e delle istituzioni democratiche. La risoluzione invita poi a prospettare in sede europea la possibilità di agevolazioni per la conclusione dell’accordo di associazione e stabilizzazione UE-Serbia, consentendo la prosecuzione dei relativi negoziati e subordinando la sola entrata in vigore finale al riconoscimento della piena collaborazione di Belgrado con il Tribunale penale per la ex Jugoslavia.

L’Assemblea della Camera, nelle sedute del 26 e 29 novembre 2007, ha discusso mozioni in merito ai negoziati sullo status del Kosovo: i testi approvati, profilandosi – già a quella data - l’impossibilità di giungere a una soluzione concordata, hanno impegnato il Governo “a proseguire, nel quadro dell’impegno dell’Unione europea, nella ricerca di una necessaria soluzione condivisa anche oltre il termine del 10 dicembre 2007 entro il quale i mediatori incaricati riferiranno sull’esito del loro mandato, scoraggiando iniziative unilaterali”; nonché a “sollecitare la stipula in tempi brevi dell’accordo di stabilizzazione e associazione Unione europea-Serbia” e “a coinvolgere il Parlamento dopo la conclusione definitiva della fase negoziale, qualunque ne sia l’esito e prima di assumere posizioni ufficiali del nostro Paese”.

Come già accennato, tuttavia, l’attività parlamentare sul Kosovo ha avuto molti altri momenti, sviluppatisi in sede di Commissioni, tanto della Camera quanto del Senato. Ad esempio, nell’ambito dell’indagine conoscitiva della Commissione Esteri della Camera sulla politica estera dell’Unione europea, il Kosovo e i Balcani occidentali sono stati trattati nelle sedute del 26 ottobre 2006, nonché del 16 gennaio, del 30 gennaio, e del 12 giugno 2007: in quest’ultima occasione, in particolare, si è svolta l’audizione dell’inviato speciale del segretario generale dell’ONU per il Kosovo, Martti Ahtisaari, cui si deve il piano finale (vedi scheda Origini ed evoluzione della crisi a pag. 210) per un tentativo di soluzione negoziale dell’assetto del Kosovo.

La medesima Commissione Esteri della Camera ha svolto in diverse occasioni l’audizione del Governo sulle varie fasi evolutive della situazione del Kosovo, soprattutto in rapporto ai negoziati in corso tra le parti: si tratta in particolare delle sedute del 25 luglio 2006, del 13 marzo, 6 giugno e 21 novembre 2007. La Commissione Esteri di Montecitorio ha poi proceduto all’audizione del Governo, sulla stessa materia, unitamente all’omologo Organo del Senato (sedute del 6 febbraio e del 20 febbraio 2008), nonché alla Commissione Difesa della Camera (sedute del 14 febbraio e del 5 giugno 2007, la seconda delle quali nell’ambito dell’indagine conoscitiva svolta congiuntamente dalle due Commissioni in merito alla partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali).

 

In particolare il 6 febbraio 2008 il Ministro degli Esteri On. D’Alema ha definito “irreversibile” la marcia del Kosovo verso l’indipendenza. In questa prospettiva, tuttavia, il ruolo dell’Unione europea appare irrinunciabile per evitare possibili gravi squilibri nell’area balcanica. Secondo il rappresentante del Governo italiano, il ruolo della UE dovrà esercitarsi soprattutto mediante l’invio della prevista missione civile di duemila tra magistrati e appartenenti alle forze di polizia – tra i quali duecento italiani (e l’Italia guiderà in particolare la componente magistratuale, che ha il compito di dare impulso alla riforma del sistema giudiziario kosovaro). Un sollecito riconoscimento del nuovo Stato è obiettivo della politica estera italiana, come realistica presa d’atto di un approdo inevitabile, ma al tempo stesso con l’intenzione di indirizzarne gli sviluppi successivi.

 

Infine, la Commissione Esteri della Camera ha ascoltato più volte comunicazioni del presidente concernenti, tra l’altro, gli sviluppi della situazione nel Kosovo e nei Balcani occidentali: nella seduta del 16 novembre 2006, in particolare, le comunicazioni hanno riguardato la missione svolta a Belgrado e Pristina nei giorni 30 e 31 ottobre precedenti, così come nella seduta del 21 novembre 2007, quando il presidente della Commissione ha dato conto della missione appena svolta a Belgrado. Nella seduta del 14 marzo 2007, invece, l’argomento del Kosovo è stato toccato nel contesto della relazione del presidente sulla missione svolta a Berlino per la periodica Conferenza dei presidenti delle Commissioni Esteri dei Parlamenti dell’Unione europea.

Per quanto riguarda il Senato, vanno segnalate le due sedute della Commissione Esteri del 31 maggio e del 12 giugno 2007, rispettivamente dedicate all’audizione del Governo sugli ultimi sviluppi della situazione in Kosovo e all’audizione del già citato Martti Ahtisaari; inoltre, congiuntamente alla Commissione Difesa, la Commissione Esteri di Palazzo Madama ha ascoltato l’11 dicembre 2007 comunicazioni del Governo sugli ultimi sviluppi della situazione nei Balcani con particolare riferimento al Kosovo.

 


Il conflitto in Medio Oriente

Gli sviluppi della questione israelo-palestinese sono stati oggetto di primario interesse per l’attività parlamentare anche nel corso della XV Legislatura, sia in occasione di interventi di contenuto legislativo che nello svolgimento di funzioni di indirizzo, controllo e informazione.

Nei due anni coperti dalla legislatura, si è assistito alla continuazione della contrapposizione tra Israele e formazioni palestinesi estremiste, ad un crescendo degli scontri intestini tra Hamas e Fatah che ha portato ad una separazione di fatto tra Cisgiordania e Striscia di Gaza e alla grave situazione umanitaria all’interno di quest’ultimo territorio, le cui frontiere sono state chiuse dal governo israeliano. Al contempo vanno però segnalati come importante elemento di novità gli sforzi operati da Israele e dai palestinesi di Fatah per la crezione delle premesse di un possibile accordo di pace, concretizzati nella Conferenza di Annapolis (27 novembre 2007) – fortemente voluta dalla amministrazione Bush - dalla quale è scaturita una nuova fase negoziale. Per una descrizione dettagliata degli sviluppi della crisi medio orientale, si rinvia alla scheda Sviluppi recenti (pag. 224).

L’attività della Camera

L’attività informativa ha avuto inizio alla Camera il 5 luglio 2006 con l’audizione di Ugo Intini, Viceministro degli affari esteri con la delega per le relazioni con i Paesi del Medio oriente, che ha riferito sulla situazione a Gaza e in Cisgiordania dopo l'attacco di un commando palestinese al valico di Kerem Shalom il 25 giugno 2006, con l'uccisione dei due soldati israeliani ed il rapimento del caporale Shalit: l’aggravamento della crisi nei Territori seguita alla vittoria di Hamas alle elezioni del 25 gennaio, i continui lanci di razzi da Gaza sul territorio di Israele e la risposta di quest’ultimo con l'avvio dell'operazione militare «Summer Rain», stavano cancellando i minimi risultati raggiunti dal primo incontro informale fra Abu Mazen e Olmert il 22 giugno 2006 a Petra, che aveva fatto sperare in una graduale ripresa dei contatti tra israeliani e palestinesi.

Il Viceministro Intini aveva parlato in tale occasione di “equivicinanza” del Governo italiano verso due diritti profondamente radicati nella storia: da una parte, il diritto del popolo israeliano ad avere uno Stato sicuro e a vivere in condizioni di sicurezza; dall'altra, il diritto del popolo palestinese ad avere una patria.

All’audizione di Intini ha fatto seguito un’informativa urgente resa il18 luglio 2006alla Camera dal Ministro degli esteri D’Alema che ha illustrato gli sviluppi della crisi mediorientale, dando innanzitutto conto del reingresso delle Forze armate israeliane nella striscia di Gaza (27 giugno), dell'arresto di 9 membri del Governo palestinese, di 20 parlamentari e di decine di membri di Hamas, cui è stato contestato il reato di appartenenza a banda armata. Il Ministro ha illustrato la posizione del Governo italiano e dell'Unione europea che, nel condannare fermamente l'azione terroristica dei gruppi radicali islamici, hanno anche invitato Israele a moderare la propria risposta, nell'interesse della sua stessa sicurezza.  Ma, soprattutto, il Ministro D’Alema ha dovuto informare il Parlamento del tragico salto di qualità nella crisi, avvenuto il 12 luglio con l'apertura di un ulteriore fronte di conflitto  che si è trasformato in una vera e propria guerra con il Libano, durata circa un mese[11].

Sulla situazione in Medio Oriente, con particolare riguardo alla guerra tra Israele e Libano si è poi svolta una audizione del Ministro D’Alema presso le Commissioni riunite Esteri della Camera e del Senato (27 luglioe 2 agosto 2006), nonché una nuova audizione del Viceministro Ugo Intini presso la Commissione esteri della Camera (28 novembre 2006).

Dal 20 al 22 novembre 2006 una delegazione della Commissione esteri, guidata dal Presidente Ranieri, si è recata in missione in Israele e nei Territori dell'Autorità nazionale palestinese dove ha incontrato numerosi interlocutori, sia politici che tecnici, delle due parti. Nelle comunicazioni rese dal Presidente della Commissione al ritorno dalla missione (30 novembre) è stato riferito che, circa il processo di pace, tutti gli interlocutori israeliani avevano concordato sulla necessità di provvedere ad un rafforzamento di Mahmud Abbas, attraverso una serie di confidence building measures e di azioni concrete per sostenere la presidenza palestinese, nella speranza di giungere al più presto alla formazione di un governo palestinese pronto ad accettare le condizioni del Quartetto per la road map. Più frammentate, invece,  le opinioni degli stessi israeliani sulle strategie da adottare per riavviare il processo di pace: pessimisti, come di consueto, i rappresentanti del Likud e molto diversificate fra loro le proposte degli esponenti del governo e dei partiti di maggioranza. Nel corso dei colloqui con i rappresentanti dei Territori dell'ANP è stato affrontato il tema del prospettato governo palestinese di unità nazionale. Circa l’effettiva possibilità di arrivare a formare in tempi brevi un tale governo sono emerse perplessità diffuse. A tale proposito, gli interlocutori presso il Consiglio nazionale palestinese hanno chiesto il sostegno concreto degli USA e dell'Europa - e dell’Italia in particolare - affinché potesse essere realizzata la costituzione di un esecutivo stabile intorno alla figura di Mahmud  Abbas.

Il Viceministro Intini è stato poi ancora ascoltato dalla Commissione esteri della Camera nelle sedute del 1° febbraio, del9 maggio, del19 giugnoe del 12 dicembre 2007.

Nell’informare la Commissione sull’evoluzione della situazione in Medio Oriente, il Viceministro ha più volte sottolineato come tutte le crisi presenti nell’area siano strettamente connesse, ma che quella in atto in Palestina debba essere considerata “la madre di tutte le crisi”: la sua soluzione, infatti, determinerebbe una distensione nell’intera regione e potrebbe condurre ad un progressivo ridimensionamento delle altre situazioni di conflitto in atto.

In particolare, nella seduta del 9 maggio, Intini ha sottolineato come la pubblicazione della prima parte del rapporto della commissione governativa d'inchiesta Vinograd sulla guerra del Libano, avvenuta il 30 aprile, avesse complicato il quadro generale della situazione interna israeliana, indebolendo il consenso nei confronti del Primo ministro. Il rapporto accusava infatti Olmert di aver deciso troppo affrettatamente di dichiarare guerra al Libano, in mancanza di una strategia generale e di un piano dettagliato. Anche il ministro della difesa Peres veniva chiamato in causa per aver sopravvalutato lo stato di preparazione delle forze armate.

Sul piano legislativo, si ricordano innanzitutto i provvedimenti di proroga delle missioni internazionali cui l’Italia partecipa, e tra queste in particolare la partecipazione di contingenti italiani alle missioni TIPH II (Temporary International Presence in Hebron,EU BAM Rafah(European Union Border Assistance Mission on the Gaza-Egypt Border-Crossing ed EUPOL COPPS (European Union Mission for the Palestinian Territories).  Tutte e tre le missioni citate sono state prorogate, da ultimo, al 31 dicembre 2008, dall’articolo 3 del decreto legge 31 gennaio 2008, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 marzo 2008, n. 45recante Disposizioni urgenti in materia di interventi di  cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali che ne ha fissato il termine al 31 dicembre 2008 (per un approfondimento si veda la scheda Le missioni internazionali, nel Dossier del Dipartimento Difesa).

La missione TIPH II è attuata sulla base di un accordo israelo-palestinese del 15 gennaio 1997, concernente la zona di Hebron: l’intesa, che riguarda il ritiro di Israele dalla zona di Hebron, all’art. 17 contempla la costituzione di una Forza multinazionale con il compito di contribuire alla sicurezza del territorio, mediante un'opera di monitoraggio e osservazione. La Forza è attualmente composta da truppe provenienti da Danimarca, Norvegia, Svezia, Svizzera, Turchia e Italia, che vi partecipa con 18 carabinieri.

La missione EU BAM Rafah nasce da un’iniziativa dell’Unione europea a seguito del passaggio alla gestione palestinese del valico tra Gaza ed Egitto, dopo il disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza avvenuto alla fine dell’estate 2005. L'apertura del valico, il primo gestito dall'Autorità Nazionale Palestinese, ha avuto luogo il 25 novembre 2005, e nella stessa data ha avuto inizio la partecipazione italiana alla missione (non armata), con 15 Carabinieri, il comandante dei quali ha anche la guida dell’intera operazione. Il contingente (in tutto una settantina di persone provenienti da diversi Paesi dell’Unione europea) ha compiti di monitoraggio e assistenza presso il valico, nonché di istruzione della polizia locale destinata al controllo, al fine di garantire il rispetto dell’intesa israelo-palestinese del 15 novembre che sarà suscettibile in futuro di essere applicata a tutti gli accessi alla Striscia da e per la West Bank. Si ricorda che – a seguito dei gravi incidenti fra al Fatah e Hamas - il valico di Rafah è chiuso dal 30 giugno 2007 (vedi a pag. 224 la scheda Sviluppi recenti).

La missione EUPOL COPPS è stata istituita dal Consiglio europeo[12] nel novembre 2005. Scopo della missione è quello di contribuire all’istituzione di una struttura di polizia sotto la direzione palestinese. A tal fine EUPOL COPPS assiste la polizia civile palestinese nell’attuazione del programma di sviluppo e fornisce ad essa assistenza e sostegno; coordina e agevola l’assistenza dell’UE e degli Stati membri; fornisce consulenza su elementi di giustizia penale collegati alla polizia. La missione ha una durata prevista di tre anni.

Si ricordano infine:

§         la legge 7 gennaio 2008, n. 14, con la quale è stato concesso alla Delegazione generale palestinese in Italia un contributo di carattere forfetario alle spese di funzionamento della struttura, di ammontare pari a 309.875 euro annui per il triennio 2007-2009;

§         la legge 18 marzo 2008, n. 53 con la quale è stata autorizzato alla ratifica l'Accordo di cooperazione relativo ad un sistema globale di navigazione satellitare civile (GNSS) tra la Comunità europea ed i suoi Stati membri e lo Stato di Israele, fatto a Bruxelles il 13 luglio 2004.

 


Iran

Rinviando per le vicende precedenti alla scheda La situazione generale del Paese (pag. 238), si osserva che nell’arco temporale corrispondente alla XV Legislatura, all’interno della leadership iraniana sono progressivamente affiorate delle divisioni tra il partito facente capo al Presidente Ahmadinejad, più incline all’intransigenza, e quello rappresentato dall’establishment clericale conservatore, facente capo alla guida suprema Ali Khamenei. 

Si sono accentuati inoltre segnali di diffuso malcontento nei confronti del Presidente, in particolare degli ambienti riformisti che contestano la politica del muro contro muro adottata per gestire la crisi legata alle ambizioni nucleari iraniane (per la quale vedi a pag. 251 la scheda La questione nucleare) e il conseguente rischio di isolamento internazionale dell’Iran

 

In questo quadro, alcuni osservatori hanno sottolineato come le rivendicazioni nucleari di Teheran, assieme alle ripetute esternazioni di Ahmadinejad contro l’esistenza dello Stato di Israele - culminate nella provocatoria iniziativa della Conferenza negazionista sull’Olocausto del dicembre 2006 - siano temi che servono almeno in parte a coprire le spaccature interne al Paese e alla sua leadership politica, dove Ahmadinejad ha perso progressivamente consenso a vantaggio dei suoi oppositori. 

A  tale ultimo riguardo, si ricorda, ad esempio, che il 15 dicembre 2006, nell’elezione dell’Assemblea degli esperti (l’Organismo che nomina, consiglia e può anche rimuovere la guida suprema del paese: al momento l’ayatollah Khamenei), gli alleati del Presidente hanno subito una pesante sconfitta a beneficio sia dei conservatori più pragmatici sia dei riformisti; si è registrata infatti una significativa vittoria di Rafsanjani, rappresentante dell’ala dei pragmatici e suo contendente nelle elezioni presidenziali.

Ulteriori segnali di crisi della leadership presidenziale si sono avuti con le elezioni municipali del dicembre 2006 e la vittoria del “Fronte della partecipazione”, nel quale erano riuniti sia candidati riformisti khatamisti, sia candidati più legati a Rafsanjani. Le elezioni hanno – soprattutto - segnato il ritorno alle urne di quell’elettorato sociologicamente riformista (giovani e donne) che nel ballottaggio delle presidenziali del 2005 aveva preferito astenersi, esaltando quindi il peso relativo della componente militante pasdaran.

Nel mese di gennaio 2007, inoltre, un gruppo di deputati iraniani che, pur appartenendo al campo conservatore, si erano distinti negli ultimi mesi per le loro critiche al presidente  Ahmadinejad, ha dato vita a una scissione per formare un nuovo gruppo (i “conservatori creativi”) in seno all'Assemblea.

In sostanza, a partire dal dicembre 2006 il Presidente è sembrato aver già dissipato il patrimonio di consenso politico che gli aveva consentito di essere eletto appena l’anno precedente. Si ricorda che nello stesso periodo si è tenuta la già ricordata conferenza internazionale sull’Olocausto, voluta da Ahmadinejad, ma rivelatasi controproducente. Ad essa infatti ostentatamente non ha partecipato Ali Akbar Velayati, massimo consigliere di Khamenei in politica estera, che inoltre si è dissociato dalle posizioni revisioniste e dai bellicosi proclami lanciati in quell’occasione. La stessa Guida Suprema Khamenei è intervenuto pubblicamente subito dopo la diffusione da parte della stampa internazionale delle notizie relative alle minacce all’indirizzo di Israele pronunciate dal Presidente Ahmadinejad, affermando che “la Repubblica islamica non ha mai minacciato nessun paese straniero, né mai lo farà”.

 

Sono apparse quindi man mano moltiplicarsi le critiche ad Ahmadinejad,  non solo dalla fazione riformista ma anche da quella conservatrice, anche in relazione alla sua politica in campo economico.

Occorre tuttavia rilevare che l’ambizione a trasformare la Repubblica islamica in un attore regionale di primo piano in antitesi all’egemonia statunitense è largamente condivisa. La stessa questione nucleare assume infatti i contorni di una questione di orgoglio nazionale su cui anche l’ala dei riformatori non sembra disposta a retrocedere.

Il maggiore fattore di criticità per la fazione radicale sembra collocarsi proprio sul versante dei rapporti internazionali. Il Presidente e il blocco politico che lo sostiene sono accusati di aver provocato un’accentuazione della conflittualità internazionale, rompendo un elemento di continuità della Repubblica Islamica che ha sempre evitato l’isolamento totale.

Questo sbilanciamento strutturale che si è venuto a creare nei delicati equilibri della politica iraniana è probabilmente il principale fattore all’origine del progressivo distacco da Ahmadinejad del gruppo tradizionale dei conservatori (che oggi vengono chiamati conservatori moderati); ciò ha indotto il Presidente a rinunciare alle tradizionali mediazioni che intessevano la tela della politica iraniana, e a ricercare sempre di più l’appoggio della fazione dei conservatori radicali e dei pasdaran, la cui forza non è però sufficiente a garantire un governo stabile e la cui presa sulla società iraniana rimane circoscritta. Non sembrano del resto servire a tale ultimo proposito le rilanciate severe campagne di moralizzazione, invise soprattutto ai giovani, come parimenti controproducenti potrebbero rivelarsi nel medio periodo le rinnovate repressioni contro giornalisti e intelletualli non “allineati”.

Ahmadinejad aveva vinto nel 2005 anche grazie ad una serie di promesse di impronta populista (relative in particolare alla redistribuzione degli introiti petroliferi a vantaggio degli strati più poveri della società iraniana). Il peggioramento della situazione economica – dovuto del resto in parte proprio alle politiche populiste - non ha consentito di realizzare il disegno. In ogni caso, non può sottovalutarsi l’appoggio ad Ahmadinejad tuttora confermato da parte della Guida suprema, né la popolarità del Presidente presso gli strati più poveri.

 

Vanno ricordate le posizioni del Premio Nobel per la pace, avvocatessa Shirin Ebadi, espresse all’inizio di marzo 2008, nell’imminenza delle elezioni legislative: secondo la Ebadi la selezione delle candidature da parte del Consiglio dei Guardiani si pone in violazione della stessa Costituzione vigente, e pertanto la Ebadi ha preannunciato il proprio non voto. Inoltre, sempre secondo la Ebadi, durante gli anni di predominio parlamentare conservatore, e in particolare dopo l’avvento alla Presidenza della Repubblica islamica di Ahmadinejad, si è assistito a un costante peggioramento nella situazione dei diritti umani, con arresti di manifestanti pacifici, ricorso alla tortura, decessi in carcere e punizioni contrarie ai diritti umani, come le amputazioni di arti.

 

Le elezioni parlamentari del 14 marzo 2008 hanno in fondo fotografato assai bene la situazione del Paese: a fronte di una buona affermazione dei riformisti – la cui lieve crescita va inserita nel contesto di una vera e propria falcidia delle candidature operata dagli organi del regime -, si è verificata la prevista affermazione del blocco conservatore facente capo alla Guida Suprema, che pare aver ottenuto oltre due terzi dei seggi. Tuttavia, per quanto detto in precedenza, il dato veramente rilevante sta nella differenziazione interna del blocco conservatore, nel quale sembrano aver prevalso le ali moderate, da tempo impegnate ad allegerire il proprio bagaglio politico delle posizioni più ideologiche ed estremistiche, anche per intercettare parte dell’elettorato riformista. Vi sono stati casi davvero eclatanti nei quali i candidati conservatori moderati hanno prevalso su quelli radicali vicini al presidente: l’ex capo negoziatore iraniano sulla questione nucleare, Larijani, poi dimessosi proprio per divergenze con Ahmadinejad, ha stravinto nella città santa sciita di Qom, in teoria una roccaforte dei radicali, e sembra poter aspirare al ruolo di speaker del nuovo Parlamento, e, in prospettiva, alle presidenziali del 2009.

Va peraltro ricordato l’ampio fronte di critiche internazionali che ha accompagnato lo svolgimento delle elezioni, sia da parte europea che americana: la Presidenza slovena della UE, seguita dal ministro degli Esteri tedesco Jäger, ha accusato l’Iran di aver svolto elezioni prive dei caratteri essenziali della libertà e dell’imparzialità.

Il problema dell’evoluzione della situazione politica iraniana fino alla scadenza presidenziale del 2009 sembra ruotare quasi per intero attorno alla rivalità fra il blocco che sostiene la presidenza e il campo di forze che Rafsanjani sta costruendo, anche utilizzando il cumulo di cariche che si è venuto addensando nella sua persona da quando, oltre alla carica di Presidente del Consiglio per la Determinazione delle scelte (detenuta dal 1997),  egli ha assunto come già ricordato anche quella di Presidente della Assemblea degli Esperti.

In tale prospettiva il nuovo Parlamento si presenta di non facile gestione per Ahmadinejad e i suoi fedelissimi, ma il ruolo-chiave sembra rimanere per ora quello della Guida Suprema: per Khamenei, infatti, la giustificazione del proprio potere è nella stabilità del regime, e lo strumento principe ne è la mediazione tra i diversi interessi, ma entrambi rischiano di essere messi in crisi da una polarizzazione del blocco conservatore. Certamente da parte di Ahmadinejad non vi sono segnali di disponibilità verso i conservatori moderati, quanto invece il probabile disegno – dal quale lo stesso Khamenei non verrebbe avvantaggiato – di una progressiva sostituzione dell’egemonia religiosa con una forte presenza laico-populista e militare, a cominciare dai gangli vitali del sistema economico.

L’attività parlamentare

Sul piano legislativo va ricordata, proprio in chiusura della XV Legislatura, l’approvazione della legge comunitaria 2007 (legge 25 febbraio 2008, n. 34), il cui articolo 26 contiene una delega al Governo per l’introduzione di norme attuative del regolamento (CE) n. 423/2007, concernente misure restrittive nei confronti dell'Iran.

L’articolo 26 in commento delega il Governo ad adottare, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi di attuazione del regolamento (CE) n. 423/2007[13]: lo scopo della delega in commento è l’emanazione di disposizioni dirette a regolamentare, nei confronti dell’Iran, le transazioni connesse con i beni e tecnologie a duplice uso[14], inclusi  i servizi di assistenza tecnica o finanziaria correlati, nonché a stabilire sanzioni penali o amministrative per le violazioni delle medesime disposizioni.

 

Giova ricordare che, in linea con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 1737 (2006)[15] che impone all’Iran di cessare tutte le attività di arricchimento dell’uranio e chiede agli Stati membri delle Nazioni Unite di applicare misure restrittive nei confronti dell’Iran, la posizione comune 2007/140/PESC aveva già previsto una serie di restrizioni, tra cui:

§         restrizioni all’esportazione e all’importazione di beni e tecnologie che potrebbero contribuire ad attività connesse con l’arricchimento, il ritrattamento o alla produzione dell’acqua pesante o allo sviluppo di sistemi di lancio di armi nucleari;

§         divieto riguardante la prestazione di servizi connessi;

§         divieto riguardante gli investimenti connessi ai beni e alle tecnologie in questione;

§         divieto riguardante l’acquisto dei beni e delle tecnologie suddetti dall’Iran;

§         congelamento dei fondi e delle risorse economiche di persone, entità e organismi che partecipano, sono direttamente associati o danno il loro sostegno alle attività o allo sviluppo suddetti.

Il regolamento (CE) n. 423/2007 è intervenuto a dettare disposizioni normative dirette a regolamentare le transazioni connesse con i beni e tecnologie a duplice uso, le forniture di assistenza tecnica e/o finanziaria, di servizi di intermediazione o di investimento relativi a beni e tecnologie di duplice uso nei confronti dell’Iran.

 

L’attività non legislativa ha visto il Parlamento, e soprattutto la Commissione Affari esteri della Camera, seguire costantemente le vicende iraniane.

La prima occasione da ricordare si è però svolta al Senato, ove le Commissioni riunite Esteri e Difesa, nella seduta del 13 settembre 2006, hanno ascoltato comunicazioni del Governo sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente, nel contesto delle quali è emerso il decisivo ruolo dell’Iran nella regione, soprattutto dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, e la necessità di un coinvolgimento di Teheran per la stabilizzazione di tutti i focolai regionali, quali l’Iraq, la Palestina e il Libano.

Nella seduta del 9 maggio 2007 il Governo ha svolto un’audizione di analogo argomento presso la Commissione Affari esteri della Camera, nel corso della quale è stata illustrata la risoluzione 1747 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, intervenuta in relazione alla questione del nucleare iraniano (vedi a pag. 251 la scheda La questione nucleare), e al tempo stesso è stata ribadita la linea di azione dell’Unione europea, ossia di affiancare alla doverosa applicazione della risoluzione la disponibilità a riprendere i negoziati con Teheran, purché da parte iraniana si desse corso alla sospensione dei processi di arricchimento dell’uranio.

La Commissione Affari esteri della Camera ha successivamente (seduta del 14 giugno 2007) discusso e approvato in un nuovo testo una risoluzione dell’On. D’Elia sulla lista dell’Unione europea delle persone ed entità coinvolte in atti di terrorismo. Il testo approvato impegna il Governo a compiere ogni sforzo in sede europea per il pieno rispetto della sentenza del 12 dicembre 2006 del Tribunale di Prima Istanza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, con la quale è stato sostenuto il carattere indebito dell’inclusione, nella “lista nera” europea antiterrorismo, dell'Organizzazione dei Mujahidin del Popolo Iraniano (OMPI), che si oppone al Governo di Teheran. Il Governo dovrà inoltre partecipare attivamente all’aggiornamento semestrale della suddetta lista, onde verificare la pertinenza dell’inclusione in essa dell’OMPI – che lamenta di esservi stata rubricata solo su documentazione del Governo iraniano – come di altre entità.

Nella seduta del 26 settembre 2007 la Commissione Affari esteri della Camera ha svolto una specifica audizione del viceministro degli Affari esteri Intini sulla situazione in Iran, incentrata soprattutto sulla valutazione della difficile gestione del dossier nucleare, alla luce della possibilità di un intervento militare americano contro Teheran, che il Governo italiano ha ritenuto doversi assolutamente scongiurare, tanto per l’indeterminatezza dell’obiettivo, quanto per le gravissime ripercussioni ipotizzabili sull’intera regione mediorientale.

Sulla situazione dell’Iran e la questione nucleare la Commissione Affari esteri della Camera è infine tornata nella seduta del 12 dicembre 2007, nel contesto di un’audizione del Viceministro degli Affari esteri Intini sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente.

Da ultimo, va ricordata la missione di una delegazione della Commissione Affari esteri della Camera, guidata dal Presidente On. Ranieri, che a metà gennaio 2008 si è recata in Iran: qui la delegazione ha potuto constatare la fermezza delle autorità di Teheran, incluso il leader riformista Khatami, nel non voler accedere alle richieste di sospensione dei processi di arricchimento dell’uranio, considerato un diritto dell’Iran, e quindi un argomento che non deve essere posto come pregiudiziale a seri negoziati.

 


La situazione in Libano

Nel corso della XV Legislatura, le Camere si sono occupate frequentemente e con continuità della situazione libanese, stante la situazione di instabilità politica nella quale il Paese versa ormai da tempo e il forte impegno assunto dall’Italia per una soluzione della crisi determinatasi con la breve guerra del luglio-agosto 2006.

In una situazione interna già molto complessa - caratterizzata da una serie di attentati ad uomini politici, inaugurata con l’uccisione dell’ex primo ministro Rafik Hariri il 14 febbraio 2005 e dalle indagini per stabilire le responsabilità di tale attentato, inizialmente condotte da una Commissione stabilita dall’ONU - il nuovo Governo (formato il30 giugno 2005 e guidato dal sunnita Fouad Siniora, esponente della coalizione antisiriana) ha dovuto affrontare il sanguinoso conflitto israelo-libanese (12 luglio – 14 agosto 2006).

I mesi successivi al termine della guerra sono stati connotati dagli scontri tra le forze politiche libanesi che hanno determinato un indebolimento del governo Siniora: l’opposizione filo-siriana (che si è strenuamente opposta alla creazione del Tribunale internazionale su Hariri) mirava alla caduta dell’esecutivo (i ministri sciiti si sono dimessi uno dopo l’altro) per ottenere la creazione di un governo di unità nazionale o, in alternativa, elezioni anticipate; il partito Hezbollah e il suo nuovo alleato cristiano Aoun si sono battuti per una minoranza di blocco di un terzo di propri ministri nel governo di unità nazionale, condizione inaccettabile per i partiti  antisiriani.

Il governo Siniora, in grave crisi di legittimità dopo l'uscita dal governo dell'opposizione sciita, e della parte di quella cristiana che sostiene il Generale Aoun, ha dovuto affrontare, a partire dal maggio 2007, una nuova crisi determinata dagli attacchi di un gruppo islamista sunnita  - stabilitosi nei due maggiori campi profughi palestinesi in Libano, Ein el Helweh, nei pressi di Sidone, a sud di Beirut, e Nahr el Bared, vicino a Tripoli, nel nord -  le cui azioni violente hanno ulteriormente aggravato la già fragile situazione politica del Paese. Il Governo Siniora ha reagito con decisione lanciando, a partire dal1° giugno, un’offensiva contro i miliziani di Fatah al Islam asserragliati nel campo profughi palestinese di Nahr al Bared ed estendendola nei giorni successivi anche nel campo vicino Tripoli.

La situazione di instabilità è aggravata inoltre dal fatto che il Libano è tuttora  privo del presidente della Repubblica. Dal 24 novembre 2007, infatti, quando si è concluso il mandato dell'ex capo dello stato Emile Lahud, le elezioni presidenziali sono state rinviate numerose volte dal presidente del Parlamento e leader sciita d'opposizione, Nabih Berri, per l’impossibilità di trovare un accordo tra le parti.

Per una descrizione più dettagliata degli sviluppi della situazione in Libano tra la primavera del 2006 e la primavera 2008 si rinvia a pag. 259 alla scheda Sviluppi recenti.

L’attività parlamentare

Sotto il profilo dell’attività di indirizzo, di controllo e di informazione,  sono numerosi gli interventi del Ministro degli Affari esteri presso il Parlamento in occasione dello scoppio della guerra tra Israele e Libano, sul suo svolgimento e sugli eventi che ne hanno decretato la fine. Già il 18 luglio 2006,  a tre giorni dall’inizio delle ostilità, il Ministro D’Alema ha riferito all’Aula della Camera sulla crisi che stava minacciando la sicurezza di Israele e provocando numerose vittime a Gaza e nel Libano, innescata dall'ala oltranzista di Hamas con base a Damasco e dal gruppo fondamentalista Hezbollah, proprio nel momento in cui si stava riaprendo la possibilità di un dialogo israelo-palestinese. Il Ministro ha evidenziato il rischio di una potenziale dimensione regionale del conflitto, ragione per la quale si rendeva ancor più necessario porvi fine immediatamente: a tale proposito è stato reso noto che il Governo italiano rappresentato dal Presidente Prodi ha concorso attivamente alla formulazione della dichiarazione sul Medio Oriente adottata dal Vertice del G8 di San Pietroburgo, che chiedeva la creazione delle condizioni per un cessate il fuoco (la liberazione dei soldati rapiti, la cessazione dei lanci di missili sul territorio israeliano, la fine delle operazioni militari israeliane, il ritiro da Gaza e la rimessa in libertà dei ministri e dei parlamentari palestinesi detenuti) e la piena attuazione della risoluzione n. 1559 delle Nazioni Unite (che prevedeva il disarmo delle milizie presenti sul territorio libanese e il pieno controllo su tutto il territorio nazionale da parte dell'esercito regolare libanese). La dichiarazione del G8 faceva inoltre espresso riferimento alla possibilità di una missione di monitoraggio e sicurezza internazionale su mandato del Consiglio di sicurezza dell'ONU.

Il Ministro degli esteri è poi stato ascoltato congiuntamente dalle Commissioni Esteri di Camera e Senato il 27 luglio 2006, all’indomani della Conferenza internazionale per il Libano, che si è svolta a Roma, per iniziativa degli Stati Uniti e dell’Italia. Il Ministro ha sottolineato il ruolo propulsivo dell’Italia e l’importanza della formazione di una coalizione di paesi – formata da USA, Canada, i maggiori paesi europei, compresa la Turchia, e una grande rappresentanza di paesi arabi - che si sono impegnati per ottenere la pace. Come il Ministro ha ricordato, la Conferenza di Roma si era conclusa con l'impegno a lavorare su tre punti essenziali: 1) invio di aiuti umanitari in Libano; 2) sostegno al Governo libanese, nella prospettiva di una ricostruzione del paese ai fini di garantire la stabilità e la ripresa del Libano, in considerazione dell'enormità dei danni subiti dal paese, dalle infrastrutture civili, dalle abitazioni; 3) un'azione internazionale avente come obiettivi quello di fermare le ostilità e, nello stesso tempo, di non ritornare allo status quo ante, ossia di porre rimedio alle cause del conflitto, determinando una nuova situazione al confine tra Israele e Libano, attraverso il dispiegamento di una consistente forza internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite. Ciò allo scopo di impedire violazioni della Blue line e, quindi, il persistere o il ripetersi di attacchi terroristici verso il territorio israeliano, ma anche allo scopo di sostenere l'azione del Governo libanese e delle forze armate libanesi.

La discussione è poi proseguita il 2 agosto 2006, sempre davanti alle Commissioni Esteri della Camera e del Senato, con il Ministro D’Alema reduce da una missione in Israele e dalla riunione del Consiglio europeo. Il Ministro ha riferito di avere illustrato ai rappresentanti del governo israeliano la proposta non solo italiana, ma anche europea, di dispiegare una forza internazionale per ricostruire il Libano per evitare la disgregazione del paese e il suo precipitare in un clima di guerra civile, con gravi rischi anche per la sicurezza di Israele. L'impegno dell'Italia e di altri paesi europei era anche quello di mandare truppe ai confini con Israele per proteggere la sicurezza di Israele. Per la prima volta - il Ministro ha riferito - Israele ha manifestato la propria disponibilità ad accettare una consistente forza militare e ad affidare ad altri di garantire la propria sicurezza, anche se, secondo gli israeliani, la missione internazionale si sarebbe dovuta dispiegare solo una volta raggiunti gli obiettivi della dura offensiva militare. Condizione per il dispiegamento della missione internazionale da parte della comunità internazionale, tuttavia,  era proprio la preventiva dichiarazione di cessate il fuoco.

Il 18 agosto 2006si sono riunite le Commissioni Esteri e Difesa della Camera e del Senato alle quali il Ministro degli esteri ha nuovamente reso comunicazioni sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente e sul contenuto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1701 dell'11 agosto 2006 che prevedeva il ritiro delle forze armate israeliane, il dispiegamento nel sud del Libano delle forze armate libanesi e dell'UNIFIL, nonché l'avvio di negoziati politici tra Israele e Libano.

Al termine della riunione sono state approvate due risoluzioni (una alla Camera e l’altra al Senato) di identico contenuto. La risoluzione Ranieri e Pinotti n. 8-00009, valutata positivamente la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, impegnava il Governo ad adottare ogni iniziativa per assicurare il sostegno umanitario alle popolazioni civili della regione e per assicurare all'Italia un ruolo attivo per la piena attuazione della risoluzione n. 1701, compresa la partecipazione di un contingente militare italiano alla forza UNIFIL.

Poiché le due risoluzioni impegnavano altresì il Governo a tenere costantemente informato il Parlamento, il 13 settembre 2006 i sottosegretari di Stato per gli Affari esteri e per la Difesa hanno recato comunicazioni al Senato, presso le commissioni riunite esteri e difesa. Il Sottosegretario Intini, in particolare, ha sottolineato con soddisfazione il fatto che, in occasione della crisi israelo-libanese, le Nazioni Unite hanno svolto un ruolo chiave, così come l’Europa, soprattutto grazie alla disponibilità di Italia, Germania e Francia.

La Commissione Esteri ha ancora ascoltato il Viceministro degli Affari esteri, Ugo Intini sulla situazione in Medio Oriente(28 novembre 2006). Intini, di ritorno da una missione in Libano, ha illustrato la situazione di forte tensione all’indomani dell’attentato del 21 novembre nel quale ha trovato la morte il leader del partito cristiano maronita e ministro dell’industria, Pierre Gemayel. Il Viceministro ha anche riferito di un colloquio con il Primo ministro Siniora che, nel denunciare interferenze da parte di Siria e Iran, ha chiesto all’Italia e, per suo tramite, alla comunità internazionale, un appoggio contro tali ingerenze, oltre al proseguimento  delle attività – portate avanti principalmente da UNIFIL – volte al mantenimento del cessate il fuoco.

Una delegazione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera si è recata in Libano, 18 e il 19 gennaio 2007, per incontrare le principali autorità e per visitare il contingente italiano impegnato nella missione UNIFIL. Nelle comunicazioni sulla missione, rese dal Presidente della III Commissione, On. Ranieri, nella seduta del 25 gennaio, sono richiamati tutti i termini della crisi, primo fra tutti il problema della ratifica del Trattato per l’istituzione di un tribunale internazionale chiamato a giudicare i responsabili dell’assassinio di Hariri. L’interesse della Commissione Esteri per l’evoluzione della situazione libanese si è concretizzato il 1° febbraio nell’approvazione di una risoluzione di iniziativa del presidente Ranieri (n. 7-00106, sulla situazione in Libano), con la quale si impegna il governo a favorire in tutte le sedi internazionali la ripresa del dialogo tra le forze politiche libanesi, contribuendo, sia a livello bilaterale che in seno all'Unione europea, a mettere a disposizione del Libano le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione e alla ristrutturazione dell'economia. La risoluzione vincola infine il governo italiano “a seguire in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU l'evoluzione della crisi libanese e ad informare puntualmente e tempestivamente il Parlamento sugli ulteriori sviluppi della situazione”.

Numerose nel 2007 le sedute aventi ad oggetto la crisi libanese alle quali ha preso parte il Viceministro degli Affari esteri con la delega per le relazioni con i Paesi del Medio oriente, Ugo Intini. In occasione dell’informativa urgente sugli sviluppi della situazione in Libano, resa all’Assemblea della Camera il 29 gennaio 2007, il rappresentante del Governo ha riconfermato l’appoggio italiano al primo ministro Sinora e alla rivendicazione di legittimità del suo governo.

Nel corso dell’audizione del 9 maggio 2007, il Viceministro Intini ha informato la Commissione Esteri circa la situazione della crisi politica in Libano, in stallo malgrado l’interessamento di vari esponenti della comunità internazionale, tra i quali il Vicesegretario generale dell’ONU per gli affari giuridici, Nicholas Michel. Tra gli altri problemi, la mancata convocazione del Parlamento che impediva l'adozione dello statuto del Tribunale internazionale sull'assassinio di Hariri, fortemente voluto dalla maggioranza, ma che l'opposizione subordinava alla formazione di un nuovo esecutivo.

Nella successiva audizione presso la Commissione Esteri (19 giugno 2007), il Viceministro Intini, ha affermato che la tensione in Libano restava alta, specialmente dopo l'ennesimo episodio di terrorismo che ha causato l'uccisione di una decina di persone, tra cui il presidente della Commissione Difesa del Parlamento, Walid Eido, e del suo figlio primogenito. Eido era un membro della «Corrente del futuro» di Saad Hariri e avversario dell'influenza della Siria nel Paese.

Il 27 giugno 2007il Ministro della Difesa, Parisi, ha reso comunicazioni, davanti alle Commissioni Esteri e Difesa della Camera, sulla situazione in Libano a dieci mesi dall'avvio della missione UNIFIL 2, anche in relazione all'attentato al contingente spagnolo del 24 giugno 2007, limitatamente alle competenze del Ministro della Difesa. La questione libanese è stata poi toccata anche dal Ministro degli Esteri, D’Alema, nella seduta di comunicazioni alle Commissioni Esteri e Difesa della Camera (25 luglio 2007), sulla partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali.

Informazioni sul Libano sono state fornite, da ultimo, ancora dal Viceministro Intini nella seduta della Commissione Esteri del 12 dicembre 2007. Intini ha illustrato una situazione che permane critica e che va dalla difficoltà dei negoziati tra le parti circa l’elezione del prossimo Capo dello Stato, alle dispute sulla formazione, subito dopo la sua elezione, di un esecutivo allargato.

 

Sul piano legislativo, si ricorda innanzitutto la legge 20 ottobre 2006, n. 270, che ha convertito, con modificazioni, il decreto-legge 28 agosto 2006, n. 253, recante disposizioni concernenti l'intervento di cooperazione allo sviluppo in Libano e il rafforzamento del contingente militare italiano nella missione UNIFIL, ridefinita dalla risoluzione 1701 (2006) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La partecipazione italiana ad UNIFIL è stata in seguito prorogata da una serie di altri interventi legislativi, l’ultimo dei quali è il decreto legge 31 gennaio 2008, n. 8, recanteDisposizioni urgenti in materia di interventi di  cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 2008, n. 45  che ne ha fissato il termine al 31 dicembre 2008.

La missione UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon)[16] costituita dall’ONU nel 1978, è stata ridefinita dalla risoluzione n. 1701 dell’11 agosto 2006 del Consiglio di Sicurezza a seguito della guerra dell’estate 2006. La nuova risoluzione ha disposto una azione "cuscinetto" delle forze UNIFIL, dispiegate tra l'Esercito libanese e quello israeliano, in tutto il territorio libanese a sud del fiume Litani.

A tale scopo il contingente UNIFIL è stato incrementato fino a un massimo di 15.000 effettivi (attualmente sono 13.300 circa) ed ha come compiti principali quelli di monitorare l’effettiva cessazione delle ostilità; accompagnare e sostenere le Forze armate libanesi nel loro dispiegamento nel Sud, anche lungo la Linea blu; prestare la propria assistenza per contribuire ad assicurare l’accesso umanitario alle popolazioni civili e il volontario e sicuro ritorno delle persone sfollate. Il mandato dell’UNIFIL è stato prorogato, da ultimo, al 31 agosto 2008 dal Consiglio di sicurezza dell'ONU con la risoluzione n. 1773/2007.

 


La questione del Darfur

Quadro di sintesi retrospettivo

Il conflitto del Darfur, in corso dal febbraio 2003, ha matrice economica (il possesso della terra) e tribale, connesso tradizionalmente alla rivalità tra pastori arabi (prevalentemente) nomadi e agricoltori ed allevatori neri (prevalentemente) stanziali, questi ultimi tradizionalmente marginalizzati dal governo sudanese egemonizzato dai gruppi arabi[17]. Va però precisato che dal punto di vista etnico la popolazione del nord più che araba può considerarsi arabizzata (dalla vicinanza, appunto, al mondo arabo), e quindi il conflitto ha anche un rilevante profilo culturale.

Diversamente poi da quanto accadde per la guerra civile sudanese, finita nel gennaio 2005 e durata quaranta anni, che ebbe una prevalente origine religiosa (in quanto vide contrapposti il nord musulmano e il sud cristiano e animista), nel Darfur la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana.

 

Si ricorda che tensioni – spesso sanguinose - fra popolazioni sedentarie e nomadi interessano l’intera fascia sudano-saheliana (dalla Mauritania, al Mali, fino al Sudan) e che conflitti per il possesso della terra – e quindi collegati da un lato alla desertificazione e ad altre forme di catastrofe ambientale e dall’altra ai grandi processi di esplosione demografica e urbanizzazione forzata - interessano numerose aree del continente africano (Zimbabwe, Costa d’Avorio, Sud Africa, Namibia), oltre ad avere interagito con altre cause (tribali o religiose) anche in altri grandi conflitti del recente passato (a partire dal Ruanda).

Durante una recente missione del Consiglio di Sicurezza nella regione, il Segretario generale dell'ONU Ban Ki Moon ha attribuito al cambiamento climatico provocato dall'effetto serra le ragioni profonde del genocidio nella regione del Darfur. Secondo il Segretario generale, il genocidio del Darfur è cominciato come una ''crisi ecologica'', dovuta, almeno in parte, al cambiamento climatico. Dal 1980 ad oggi le precipitazioni nella regione sono diminuite infatti del 40%. ''Non a caso il conflitto del Darfur è esploso durante la siccità della regione subsahariana'', ha ancora sottolineato Ban Ki Moon: ''Per la prima volta non c'era abbastanza cibo e acqua per tutti:  sono così cominciati i primi scontri, che si sono trasformati nella tragedia che stiamo osservando''.

 

In Darfur, in particolare, quasi tutte le popolazioni non arabizzate sono fortemente interessate al mantenimento dei diritti tradizionali sulla terra, basati sul sistema dei dar (paesi o terre in arabo) e degli hawakir (territori). Contro tali diritti tradizionali si è iniziata a manifestare (ed imporre con la violenza, a partire dal 2003) una azione ostile delle popolazioni arabo-nomadi. Questa azione è imperniata, quindi, sul disconoscimento dei diritti tradizionali e sul tentativo di stabilirsi su territori la cui proprietà era – su base consuetudinaria - riconosciuta ad altri.

In realtà sono ormai in atto da quattro anni in Darfur scontri molteplici, fra sedentari e nomadi, arabi ed africani, sudanesi e ciadiani, musulmani e non musulmani, con una componente quasi comune di volontà di sterminio della parte avversa (simile a quella manifestatasi nel Ruanda).

 

La ribellione sorta negli ultimi quattro anni è condotta principalmente dai gruppi ribelli dell'Esercito di Liberazione del Sudan (Sudan Liberation Movement/Army - SLM/A), del Movimento per la giustizia e l'equità (Justice and Equality Movement - JEM) e dal minoritario Movimento nazionale per la riforma e lo sviluppo  (Mnrd). Questi gruppi hanno iniziato a muoversi quando la trattativa sul conflitto fra Nord e Sud del Sudan (guerra civile sudanese) stava avviandosi verso una soluzione e minacciava di tagliarli fuori dai nuovi accordi che stavano conducendo ad un rifacimento dello Stato sudanese su base federale. La crisi si è sviluppata attraverso alterne vicende, e ha visto una reazione di Khartoum basata sull’armamento e sul sostegno – anche aereo - di gruppi nomadi del Nord, e quindi una progressiva intensificazione delle violenze perpetrate da tali gruppi (i pastori nomadi arabi, i famigerati “Janjaweed”, i “diavoli a cavallo”, responsabili di indiscriminati attacchi contro la popolazione civile e ormai non controllati completamente neanche dai loro mandanti).

E’ difficile calcolare esattamente le conseguenze della crisi: secondo alcune fonti (NU) essa avrebbe prodotto fino ad oggi circa 2,5 milioni di sfollati e rifugiati (in particolare nel Ciad, dove si conta circa mezzo milione di rifugiati), nonché tra le 180 e le 300 mila vittime; la maggior parte delle ONG stima invece un numero totale di morti vicino ai 400.000, su una popolazione di circa 6 milioni di persone.

Con la risoluzione n. 1564 del 2004, il Consiglio di Sicurezza ha espresso grave preoccupazione per la situazione in Darfur e ha prospettato la possibilità di prendere in considerazione l’adozione di sanzioni contro il Sudan, qualora il governo non ottemperasse alla richiesta di fornire sicurezza alla popolazione civile e di disarmare le milizie arabe responsabili delle violenze, assicurando i responsabili alla giustizia. La risoluzione ha inoltre istituito una Commissione con l’incarico di indagare sulla portata e la natura dei crimini commessi in Darfur, che gli Stati Uniti avevano espressamente qualificato in termini di genocidio.

Il governo sudanese, tuttavia, si è sempre opposto in questa fase all’ingresso di truppe ONU nel Darfur nonostante le richieste in tal senso della stessa Unione Africana.

 

L’Accordo di Abuja e le vicende successive

Il 5 maggio 2006 ad Abuja è stato raggiunto un accordo (Darfur Peace Agreement - DPA) tra il Governo sudanese e l’ala maggioritaria del più importante dei movimenti ribelli del Darfur, l’SLM/A; in base all’intesa, il Governo di Khartoum avrebbe dovuto procedere a disarmare le milizie janjaweed, mentre i guerriglieri del SLM/A – al cui disarmo avrebbe provveduto il contingente dell’AMIS (la forza di pace dell’Unione africana operante dall’estate 2004) – sarebbero stati poi incorporati nell’esercito del Sudan. Il punto debole dell’accordo stava nel non esser stato siglato dagli altri due movimenti della guerriglia, e nel clima di perdurante violenza da parte dei janjaweed. L’Accordo di maggio prevedeva, tra l’altro, l’istituzione di una Commissione per il cessate il fuoco, inaugurata nel giugno 2006.

Risale al periodo immediatamente successivo all’accordo una intensificazione delle pressioni dell’ONU e degli Stati Uniti per l’invio nel Darfur di caschi blu delle Nazioni Unite, a rilevare la presenza dell’Unione africana,debole e male equipaggiata: di fronte a tale prospettiva vi è stata a lungo l’opposizione da parte del governo sudanese (sostenuto dalla Lega araba).

 

Si sottolinea, comunque, che anche la pressione delle NU (e degli Stati Uniti) sul governo sudanese incontra un limite nei rischi che un collasso di tale governo potrebbe provocare nell’intera area, con effetti di anarchia (vista la complessità e la litigiosità del panorama politico sudanese) e di destabilizzazione completa di una regione geopoliticamente delicatissima, in quanto cerniera fra mondo arabo e mondo africano. Inoltre, non bisogna dimenticare che la classe di governo sudanese, con una svolta netta – tra il 1996 e il 1998 – riuscì a liberarsi  dal terrorismo islamico (che fino a quegli anni era stato influentissimo in tutte le strutture di quello stato) e ad espellere lo stesso Bin Laden che vi era giunto nel 1991, invitato da al-Turabi).

 

Il 31 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato la risoluzione 1706, che prevedeva l'invio di una forza internazionale di pace nella provincia del Darfur in Sudan. La risoluzione precisava che le truppe (fino a 22.500 uomini) non sarebbero state dislocate senza un esplicito assenso da parte del governo di Khartoum.

Al vertice di Addis Abeba del16 novembre 2006, organizzato dall’ONU, il governo sudanese si è attestato su una posizione contraria ad una forza ONU superiore alle 11/12.000 unità, la cui composizione avrebbe dovuto essere  almeno prevalentemente africana.

La questione del Darfur è stata affrontata anche nel corso dell'VIII Vertice dell'Unione africana  che si è svolto ad Addis Abeba il 29 e 30 gennaio 2007. In quell’occasione il segretario generale dell’ONU ha ribadito l’urgenza e la necessità del dispiegamento di una forza ONU sul territorio, mentre da più parti si è manifestata la preoccupazione per le ripercussioni che il conflitto interno sta avendo sugli stati confinanti (Ciad e e Repubblica Centroafricana): soprattutto nel Ciad orientale vi sono stati ripetuti scontri che hanno coinvolto l’esercito ciadiano (in buona parte della stessa estrazione tribale dei sudanesi dell’ovest) e i ribelli del Darfur, da una parte, e forze irregolari sponsorizzate dal Sudan, dall’altra.

In un rapporto sulla situazione in Ciad del 23 febbraio 2007, il segretario generale dell'ONU  raccomanda il dispiegamento nel Ciad orientale e nel nordest della Repubblica centrafricana di una forza internazionale da 6.000 a 11.000 uomini per proteggere i civili coinvolti nel conflitto nel Darfur[18]: la gran parte dei due milioni di persone fuggite dal Darfur, infatti, si è rifugiata proprio nel Ciad oggetto, a partire dal febbraio 2006, di sanguinose incursioni dei janjaweed a danno non solo dei rifugiati, ma anche gli abitanti del Ciad appartenenti alle medesime etnie dei rifugiati.

Il 12 marzo 2007 sono state presentate a Ginevra le conclusioni dell’indagine compiuta dalla squadra di esperti nominata dal Consiglio per i diritti umani delle NU e guidata dal Premio Nobel per la pace Jody Williams. Il documento rappresenta un grave atto di accusa contro il governo sudanese, accusato non solo di avere “orchestrato e partecipato” ai gravi crimini commessi, ma anche di non avere alcuna intenzione di collaborare con le NU

Nel mese di aprile si è verificato un riacutizzarsi della crisi tra il Sudan e il Ciad, che ha rimesso in discussione gli accordi per la pacificazione della frontiera comune raggiunti, oltre ad aggiungere un ulteriore elemento destabilizzante alla crisi del Darfur.

Il rifiuto del Sudan di accettare sul proprio territorio la forza di pace autorizzata dall’ONU per affrontare la crisi del Darfur, ha sollevato da più parti la richiesta di sanzioni nei confronti di quel paese. La Cina, che è tra i primi acquirenti del petrolio sudanese, si è ripetutamente dichiarata sfavorevole alla richiesta di sanzioni contro il Sudan.

La questione del Darfur ha comunque acquistato progressivamente rilievo nell’opinione pubblica mondiale: il 29 aprile 2007[19], in una trentina di capitali, si sono svolte manifestazioni organizzate da varie Organizzazioni non governative, e con ampia adesione di noti esponenti del mondo dello spettacolo e del cinema. L’8 maggio una denuncia di Amnesty International ha colpito Cina e Russia, che, nonostante l’embargo decretato contro il Sudan dalle Nazioni Unite, rifornirebbero il Paese africano di armi e munizioni.

Si ricorda che con la risoluzione n. 1755 del 30 aprile 2007 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prolungato il mandato della missione UNMIS - avente tra l’altro il compito di un monitoraggio della situazione nel Darfur - fino al 31 ottobre 2007[20].  

Dal 6 all’8 giugno si è svolto ad Heiligendamm, in Germania, il vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi del G8.

 

I paesi del G8 si sono detti ''vivamente preoccupati'' per la grave situazione umanitaria nella regione sudanese del Darfur ed hanno espresso il pieno appoggio agli sforzi degli inviati di Nazioni Unite e Unione Africana finalizzati ad una ripresa dei negoziati per un accordo politico, rilevando peraltro come non esista una “soluzione militare al conflitto in Darfur”. I paesi del G8 hanno quindi invitato il governo sudanese a dare la sua approvazione a una missione di pace internazionale al fine di favorire una soluzione della crisi, sottolineando che se il governo sudanese o i movimenti dei ribelli dovessero continuare a disattendere i loro impegni, i paesi G8 appoggerebbero le misure che verranno adottate dal Consiglio di sicurezza dell'ONU. Durante il G8 il Presidente Sarkozy ha convocato per il 25 giugno a Parigi una Conferenza ministeriale per cercare una soluzione politica alla crisi del Darfur e per affrontare le urgenti questioni umanitarie connesse.

 

Il 25 maggio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha chiesto l’attuazione immediata della relazione congiunta ONU-UA che definisce il mandato e la struttura di una forza “ibrida” di peacekeeping che affiancherebbe ai settemila soldati dell’Unione africana, circa 3000 uomini dell’ONU, tra soldati, poliziotti ed intendenza. In seguito alla revisione del rapporto congiunto tra ONU e UA riguardante la “forza ibrida”, e alla forte pressione internazionale, il governo sudanese ha accettato, il 12 giugno, lo spiegamento di una forza internazionale che, nei limiti del possibile, sarà composta in prevalenza da truppe africane.

Il 25 giugno si è svolta a Parigi la riunione ministeriale del Gruppo di Contatto (decisa a margine del G8, v. supra) allargato sul Sudan, che tuttavia ha rinunciato a partecipare, rendendo noto di giudicare “inopportuno” l’incontro del gruppo e di temere che altre iniziative al di fuori dall'ONU possano "disperdere gli sforzi di pace".  Qualche giorno dopo, il presidente sudanese Beshir, a proposito dell'invio della forza ibrida nella regione del Darfur, ha ribadito che essa dovrà essere composta in prevalenza da truppe africane, avvertendo che il Sudan si opporrà in ogni modo agli eventuali tentativi di imporre forze internazionali o occidentali ed evocando – in questo caso - uno scenario simile a quello iracheno.

 

Nel corso della riunione del gruppo di contatto, il Commissario europeo Louis Michel  ha annunciato l’impegno dell’Unione europea a contribuire sul piano finanziario con altri 71 milioni di euro, in aggiunta ai 460 già versati nel 2004. Nel dichiararsi soddisfatto per il risultato della riunione, il ministro D’Alema ha fatto sapere che l’Italia parteciperà all’operazione con il solo invio di un contributo finanziario.

 

Il 15 e 16 luglio si è svolta in Libia la Conferenza internazionale sul Darfur, convocata e presieduta congiuntamente dall'ONU e dall'Unione africana. La Conferenza ha esaminato una road map finalizzata a concentrare gli sforzi diplomatici in una unica iniziativa finalizzata ad una soluzione politica al conflitto. Ma già il 23 luglio, pochi giorni dopo la chiusura della Conferenza, il Sudan opponeva un rifiuto all’arrivo in Darfur della forza ibrida (denominata UNAMID), mentre il Consiglio di sicurezza approvava (31 luglio) la Risoluzione n. 1769 (presentata dalla Gran Bretagna e fortemente sostenuta, fra gli altri, anche dall’Italia) favorevole all’invio immediato della forza. Anche in occasione della successiva visita (13-14 settembre)  del presidente sudanese Beshir a Roma – visita peraltro criticata da Amnesty International – le dichiarazioni ufficiali degli esponenti sudanesi non hanno consentito di chiarire definitivamente la posizione di Karthoum. In ogni modo, completato il rischieramento di UNAMID, vi sarebbero nel Sudan occidentale un totale di circa ventimila militari, oltre a circa seimila tra poliziotti e operatori civili.

All’inizio del 2008 vi è stato il debutto ufficiale della missione UNAMID nel Darfur settentrionale, ma il Segretario Generale dell’ONU ha ben presto protestato per la lentezza nell’afflusso di uomini e mezzi, mentre sono tutt’altro che risolti alcuni nodi nei rapporti con Khartoum in merito a una effettiva accettazione della missione e alle relative garanzie per i componenti, nonché alle facilitazioni burocratiche e infrastrutturali.

L’attività parlamentare

Sul piano legislativo l’attenzione del Parlamento, nella XV Legislatura,  in merito alle vicende del Darfur è depositata nei vari provvedimenti di autorizzazione o proroga di missioni internazionali (vedi a pag. 17 il capitolo Afghanistan), nei quali è ricompresa anche la partecipazione italiana alla missione AMIS II e, da ultimo (con l’art. 3, comma 8 del D.L. 31 gennaio 2008, n. 8[21]) anche alla citata missione UNAMID.

 

L’attività non legislativa ha visto diverse occasioni di discussione sul Darfur, a cominciare dalla Commissione Affari Esteri della Camera, che nella seduta del 20 dicembre 2006 ha svolto l’audizione del Viceministro degli Affari esteri, Patrizia Sentinelli, sulla situazione in Africa, nell’ambito della quale ha avuto una parte rilevante l’informativa in merito agli sviluppi nel Darfur.

Il profilo della situazione dei diritti umani nella regione del Sudan è stato approfondito dal Comitato permanente sui diritti umani della Commissione Esteri della Camera, nel quadro dell’indagine conoscitiva sulla violazione dei diritti umani nel mondo, nella seduta del 21 giugno 2007, in occasione dell’audizione di alcuni rappresentanti di Organizzazioni non governative.

Nella seduta del 3 luglio 2007 è stata la volta della Commissione Esteri del Senato, che ha affrontato anche il tema del Darfur nella più ampia cornice della situazione nel Corno d’Africa, ascoltando il Viceministro degli Affari esteri, Patrizia Sentinelli.

La Commissione Affari esteri della Camera è tornata sul tema del Darfur nella seduta del 26 luglio 2007, in occasione della discussione di una risoluzione del presidente Ranieri sulla situazione in Darfur: la risoluzione conclusiva approvata impegnava il Governo, tra l’altro, “ad accelerare, in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU, l'approvazione di una risoluzione che consenta di dislocare al più presto, entro il corrente anno, nel Darfur una forza militare e di polizia in grado di tutelare la sicurezza delle popolazioni locali e l'accesso degli aiuti internazionali”, agendo in seno all’Unione europea per assicurare adeguati finanziamenti a tutte le iniziative in loco di peacekeeping, nonché a “sostenere una possibile futura azione dell'Unione europea nelle zone confinanti di Ciad e Repubblica centrafricana per la protezione dei profughi del Darfur dagli sconfinamenti di milizie e bande armate”.

Da ultimo, la crisi del Darfur ha costituito oggetto, accanto alla più complessiva situazione nel Corno d’Africa, dell’audizione del Viceministro degli Affari esteri, Patrizia Sentinelli, da parte della Commissione Affari esteri della Camera nella seduta del 19 dicembre 2007.

 


La situazione della Somalia

A partire dalla caduta di Siad Barre (1991), la Somalia si è venuta a trovare in una situazione di progressivo caos e di isolamento internazionale, in quanto da un lato è rimasta priva di un governo centrale e preda di una deriva localistica e clanica, e dall’altro non è stata più sostenuta dalla Comunità internazionale, dopo le tragiche conclusioni delle missioni di pace dei primi anni `90 (UNOSOM e "Restore Hope").

Dopo numerosi tentativi falliti di riavvio di un normale funzionamento delle istituzioni politiche, esperiti attraverso numerose conferenze di riconciliazione, parziali passi in avanti sono stati raggiunti con la Conferenza di Pace di Nairobi (9-29 gennaio 2004), organizzata sotto l'egida dell'IGAD (Intergovernamental Authority on Development). Fra i risultati principali della Conferenza sono da annoverare la nomina di un Parlamento e di un Governo transitori. Quest’ultimo non è riuscito tuttavia ad affermare se non in minima parte la propria autorità nel Paese, rimanendo confinato nel sud, a Baidoa, giacché non in grado di operare in sicurezza nella capitale Mogadiscio: nel Paese il controllo del territorio è stato mantenuto daicosiddetti “signori della guerra” locali,con pesanti disagi e rischi per l’intera popolazione.

In questo contesto, è comparso sulla scena somala un nuovo protagonista, le Corti islamiche, espressione di una composita galassia politica, generalmente bene accolte dalla popolazione che ha visto nell’azione di queste formazioni un elemento stabilizzante. Infatti, le Corti hanno insediato - ovunque si estendesse il loro controllo - i tribunali islamici, con il compito di ristabilire l'ordine pubblico, e hanno dispiegato una forza militare in grado di garantirne il mantenimento.

In una prima fase – in una situazione di sostanziale impotenza del Governo di transizione - le Corti hanno svolto pertanto una funzione di stabilizzazione, scontrandosi (a partire dal febbraio 2006) con i “signori della guerra”, finché all’inizio di giugno la stessa capitale è passata sotto il controllo delle Corti islamiche dello sceicco Sharif Sheikh Ahmed. A Mogadiscio è stata imposta ufficialmente la shar’ia (la legge coranica), in un clima di sostanziale consenso della popolazione.

Nella notte tra il 24 e il 25 giugno 2006 si verificava però un fatto politico inatteso, ossia un rovesciamento nella leadership delle Corti islamiche, che nella fase successiva alla sostanziale presa di potere a Mogadiscio (4 giugno) si era mantenuta in mani moderate, nella scia dell’islam somalo tradizionalmente lontano dal fondamentalismo. Il nuovo corso fondamentalista ha imposto una capillare applicazione della legge coranica – sia nella capitale che nei territori via via più estesi soggetti al predominio delle Corti islamiche – mentre la concreta prospettiva dell’affermazione in tutta la Somalia di una direzione politico-religiosa fondamentalista ha fortemente allarmato l’Etiopia. L’interesse dell’Etiopia alla evoluzione della situazione somala è dovuto soprattutto alla presenza nei suoi confini (regione dell’Ogaden, già oggetto in passato di una lunga guerra contro il regime di Siad Barre) di popolazioni somale islamiche.

E’ in questo quadro che il 20 luglio le truppe etiopiche sono entrate in Somalia, raggiungendo Baidoa a sostegno del Governo federale di transizione, con l’obiettivo dichiarato di prevenire eventuali azioni armate delle Corti islamiche. Tuttavia nei giorni successivi è proseguita l’avanzata delle milizie islamiche, che il 24 settembre, dopo giorni di trattative, sono entrate senza combattere nel porto meridionale di Chisimaio. E’ allora riemersa nel Governo di transizione una profonda spaccatura sull’atteggiamento da tenere verso le Corti, i cui reparti armati peraltro hanno continuato ad avanzare, configurando quasi una manovra di accerchiamento su Baidoa. Nel clima di pericolo oggettivo per il Governo di transizione è andata crescendo la preoccupazione del suo principale alleato,  l’Etiopia -  sino ad allora presente solo de facto in Somalia - a difesa del Governo di transizione. A sua volta il principale alleato dell’Etiopia, gli Stati Uniti, si defilava dalle trattative in corso, accusando le Corti islamiche di essere ormai totalmente controllate dalla rete terroristica internazionale di Al Qaeda.

In questo contesto, quando a partire dal 20 dicembre gli attacchi contro il Governo di transizione si sono intensificati con nutriti cannoneggiamenti, l’Etiopia ha rotto gli indugi e il 24 dicembre il Premier Meles Zenawi ha ufficialmente autorizzato l’intervento in Somalia.

Il 28 dicembre è stata presa Mogadiscio, nella quale tuttavia sono entrate solo le truppe somale del Governo di transizione.

Il 29 dicembre, con il ritorno a Mogadiscio del  primo ministro Ali Mohamed Gedi, giunto dopo una serie di colloqui con i capi dei clan regionali, si è formalmente insediato nella capitale il governo somalo, a due anni dalla sua formazione.  La guerra in Somalia si è (ma solo apparentemente) conclusa il 1° gennaio 2007 con la messa in fuga delle milizie islamiche dall’ultimo loro insediamento, il porto di Chisimaio.

 

Il Governo di transizione, dopo la sconfitta delle Corti islamiche, ha chiesto con forza che venisse dato seguito alla decisione, presa dall’Unione africana e dall’IGAD, di costituire una forza di pace panafricana. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 1725 del 6 dicembre 2006, aveva autorizzato i Paesi africani alla creazione di una forza di pace per sostenere il governo transitorio somalo e per rilanciarne il dialogo con le Corti Islamiche.

La riunione plenaria del Gruppo di contatto sulla Somalia, del quale, oltre ai membri europei (Italia, Germania, Svezia, Norvegia, Gran Bretagna e Unione europea) facevano parte l’Unione Africana, la Lega Araba, l’IGAD, la Tanzania, l’ONU e gli USA si è svolta a Nairobi il 5 gennaio. L’accordo conclusivo della riunione ha previsto aiuti alla Somalia e l’invio di una forza di peacekeeping panafricana. Il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana (UA) ha quindi approvato i piani per il dispiegamento della una forza di pace (AMISOM, African Mission to Somalia), con un mandato iniziale di soli sei mesi.

Ad ogni modo, il 29-30 gennaio si è svolto ad Addis Abeba l'VIII vertice dell'Unione africana; il documento finale sulla Somalia approvato dal Vertice esprime l’approvazione dell'intervento etiopico in Somalia, la soddisfazione per l'avvio del ritiro di quelle truppe e la richiesta di un immediato invio della forza di pace. La Comunità internazionale è stata invitata a provvedere subito al supporto finanziario, logistico e tecnico necessario alla missione, senza frapporre vincoli di ordine politico all’elargizione degli aiuti.

 

A partire dalla metà di febbraio 2007 la situazione della Somalia ha conosciuto un progressivo aggravamento, soprattutto nella zona della capitale: qui infatti si è progressivamente rafforzato un composito schieramento di resistenza al Governo di transizione e alle truppe etiopiche, che ha operato mediante una escalation di attentati.

 

La guerriglia è stata condotta dalle residue milizie delle Corti islamiche in accordo tattico con alcuni signori locali della guerra e con articolazioni del principale clan di Mogadiscio, quello degli Hawiye.

La popolazione ha manifestato un crescente consenso verso la guerriglia: ciò non è apparso tanto come un sostegno alle Corti islamiche, quanto piuttosto come opposizione di principio alla presenza etiopica e ostilità verso le pesanti azioni di “pulizia” di interi quartieri della capitale condotte dalle truppe governative e dal ben più potente contingente etiopico.

Alla guerriglia gli etiopici hanno risposto con diverse offensive, progressivamente più pesanti; si è quindi determinata una crescente spirale di violenza, che oltre a causare numerose vittime civili, ha provocato un massiccio esodo dalla capitale somala.

Dall’altra parte, l'arrivo della forza di pace panafricana ha registrato molte difficoltà: nonostante la decisione di inviare le truppe dell'Unione Africana (circa 8.000 uomini), gli Stati che possono mandare soldati hanno espresso l’esigenza di un più ampio sostegno logistico e finanziario che la comunità internazionale è tuttavia disposta a fornire a fronte di un contesto politico mutato, che dia vita ad un governo di ampia unità nazionale. Allo stato pertanto nel Paese, e segnatamente a Mogadiscio, è giunto solo un contingente di soldati ugandesi – pari a circa 1.300 unità -  peraltro esposto fin dall’inizio della missione ad attentati che hanno prodotto alcune vittime e diversi feriti.

Tuttavia, a partire dal 19 aprile gli etiopici hanno sferrato attacchi sempre più massicci, fino a conseguire il 26 aprile una apparentemente netta vittoria sulla guerriglia. Conseguentemente, si è andata configurando la possibilità di avviare da una posizione di maggior forza colloqui negoziali con i clan, anche se permaneva il rifiuto del Governo di transizione a considerare un possibile dialogo con gli islamici.

Dopo la vittoriosa offensiva di fine aprile, il premier Ali Gedi, nell'annunciare la sostanziale conquista della capitale, ha infatti espresso segnali di apertura, chiedendo ai combattenti antigovernativi dei clan di ritirarsi, di rompere ogni legame con gli islamici, accusati di essere legati ad al Qaida, e di attendere che le condizioni permettano loro di reinserirsi in pieno nella società e nell'esercito.

Gli sviluppi più recenti

Nonostante nel mese di maggio il presidente somalo Yusuf avesse assicurato al Viceministro italiano degli Esteri Patrizia Sentinelli di voler “aprire” alle componenti islamiche moderate in vista della Conferenza di pace per la Somalia - inizialmente prevista per il 14 giugno, e successivamente slittata, per le precarie condizioni di sicurezza a Mogadiscio, al 15 luglio -; all'apertura della Conferenza stessa non solo le componenti islamiche moderate non avevano raggiunto alcun accordo per una partecipazione, ma le perduranti condizioni di insicurezza a Mogadiscio sconsigliavano anche ai rappresentanti dell'Unione europea e dell'ONU di partecipare alla Conferenza. Dopo appena due ore dall'apertura, del resto, proprio mentre interveniva il presidente Yusuf, una nutrita serie di colpi di artiglieria sparati nelle vicinanze del luogo in cui si svolgeva la Conferenza ha obbligato ad un aggiornamento dei lavori. La situazione non è comunque cambiata quando il 19 luglio, alla seconda giornata la Conferenza, ancora una volta si sono ripetute le minacce alla sicurezza dei partecipanti.

In uno scenario di costante peggioramento delle condizioni di sicurezza, culminate nell’attentato con un’autobomba a Baidoa, che ha fatto decine di vittime tra i soldati di Addis Abeba, il mese di ottobre 2007 ha visto la maturazione del dissidio che da più di un anno opponeva il presidente Yusuf al primo ministro Gedi, e le cui motivazioni sono probabilmente da rinvenire sia in contrasti di tipo clanico, sia, soprattutto, in  diverse impostazioni per quanto concerne i rapporti con società estere per alcune concessioni petrolifere. A metà ottobre la crisi è venuta allo scoperto, con le dimissioni di 22 ministri su 33, significativamente mentre un’autobomba sembrava non risparmiare neanche la città sede delle autorità ufficiali, ancorché provvisorie, della Somalia, Baidoa, colpendo un accampamento di truppe etiopiche e facendo decine di vittime tra i soldati di Addis Abeba. Il 29 ottobre la conclusione obbligata della crisi sono state le dimissioni del premier Gedi.

Nel mese di novembre si è assistito ad una accelerazione del coinvolgimento dei civili nella crisi somala, che secondo dati delle Nazioni Unite raggiungevano la cifra di oltre 850.000 sfollati solo dall'inizio del 2007, gran parte dei quali profughi dalla capitale. Un esodo di tali proporzioni - in un Paese già disastrato - ha prodotto una catastrofe umanitaria, con la mancanza di cibo, medicinali, condizioni igieniche minime, e l'incubo di epidemie e di una diffusa denutrizione. Ad aggravare il quadro, le reazioni – sempre più indiscriminate e violente - delle truppe etiopiche agli attacchi degli oppositori islamici.

Il 21 novembre, mentre il totale dei profughi dall'inizio del 2007 raggiungeva il milione, veniva nominato il nuovo premier, nella persona di Nur Hassan Hussein (detto Nur Adde), fino a quel momento presidente della mezzaluna rossa somala. Il neopremier ha subito mostrato un orientamento favorevole al dialogo con tutte le frange dell'opposizione. Il primo tentativo di Nur Adde, tuttavia, è fallito, e a metà dicembre il suo governo, dopo neanche venti giorni, ha dovuto dimettersi. Nur Adde, tuttavia, ha dato vita a una nuova compagine di governo, la quale il 10 gennaio 2008 ha avuto l'approvazione del Parlamento di Baidoa. L'impostazione di fondo di Nur Adde, quella del dialogo con l'opposizione, è stata confermata: nel nuovo esecutivo - con solo 18 ministri, dei quali nove membri del Parlamento e nove scelti tra la società civile ed elementi tecnici - 3 posti sono rimasti inizialmente vacanti, e secondo alcuni analisti ciò sarebbe stato in qualche modo il segnale di una disponibilità ad assegnarli a membri dell'opposizione, una volta compiuti alcuni passi sulla via del dialogo. Peraltro va sottolineato come il dialogo non sia limitato all'opposizione ufficiale - appoggiata dall'Eritrea e che non a caso ha le proprie sedi all'Asmara - ma deve investire anche i clan di Mogadiscio e la diaspora somala, che conta ormai circa 3 milioni di individui rispetto a un massimo di 10 milioni residenti attualmente in Somalia. Un altro possibile elemento favorevole al dialogo è l'evidente stanchezza dell'Etiopia, la quale, esaurita l'illusione di una spallata decisiva agli elementi islamici somali, si è sostanzialmente ritrovata impantanata in un paese completamente ostile, anche per motivi religiosi (di fronte all'Islam somalo - che pure, fino a tempi recenti, aveva rivestito un carattere moderato - l'Etiopia rappresenta un avversario prestigioso e quindi pericoloso, essendo uno Stato cristiano plurisecolare).

Alla metà di marzo del 2008 la speranza dell’avvio di un dialogo fra le parti in lotta è stata ulteriormente alimentata da due documenti, approvati rispettivamente dal governo federale di transizione e dagli oppositori dell’ARS, l'alleanza per la ri-liberazione della Somalia (l'opposizione islamica). I due documenti sembrano entrambi rivolti a marginalizzare le frange più militariste dei rispettivi schieramenti, e le speranze di successo di una strategia di dialogo sembrano ora fondarsi anche sulla propensione etiopica a uscire dalla situazione di stallo in Somalia, parallela a quella degli americani, più disponibili oggi a distinguere tra i terroristi islamici di al Qaeda e l'opposizione politica islamica somala. Elemento comune ai due documenti è la disponibilità, dato veramente nuovo della situazione somala, a una mediazione a livello internazionale - il documento dell’ARS si spinge addirittura fino all'accettazione della possibilità dell'intervento delle Nazioni Unite in Somalia. Inoltre il documento degli islamici, pur mantenendo la pregiudiziale del ritiro delle truppe etiopiche per l'avvio del dialogo, si esprime in termini assai sfumati, che di fatto giungono a far coincidere in un processo parallelo il progressivo ritiro etiopico e la prima fase del dialogo.

L’attività parlamentare

Sul piano legislativo l’attenzione del Parlamento sulla Somalia, nel periodo corrispondente alla XV Legislatura, si è espressa nei provvedimenti di autorizzazione o proroga di missioni internazionali (vedi a pag. 17 il capitolo Afghanistan), nei quali è ricompresa la partecipazione italiana alla missione AMISOM e, da ultimo (con gli artt. 1, comma 1 e 2, comma 1, del D.L. 31 gennaio 2008, n. 8[22]) anche la realizzazione di interventi di cooperazione in Somalia, nonché di finanziamenti volti al conseguimento di migliori livelli di sicurezza e al rafforzamento dei processi di pace nel Paese.

 

Per quel che riguarda l’attività non legislativa si ricordano anzitutto due audizioni del Viceministro degli Affari esteri Patrizia Sentinelli presso la Commissione Affari esteri della Camera, rispettivamente del 20 dicembre 2006 e dell'8 gennaio 2007: la prima delle due audizioni, dedicata in generale alla situazione in Africa, ha visto una parte non secondaria dedicata alla situazione della Somalia, ma è stato soprattutto nel corso della seconda che il Governo ha potuto esporre il punto di vista italiano dopo quella che sembrava al momento la vittoria schiacciante delle truppe etiopiche sulle Corti islamiche.

 

In particolare, il Viceministro Sentinelli ha sottolineato come all’Italia non sfuggisse il carattere precario della riscossa del Governo federale di transizione nei confronti delle Corti islamiche, in quanto troppo dipendente dall’intervento di un Paese, l’Etiopia, considerato nemico da gran parte della popolazione somala. Pertanto, la posizione che l’Italia ha sostenuto nei consessi internazionali si è basata su un processo inclusivo di dialogo politico e riconciliazione, capace di comprendere rappresentanti dei clan, esponenti religiosi, comunità di affari e altri gruppi contrari alla violenza. In tale quadro, anche l’ala non estremista delle Corti islamiche – non dimenticando il largo consenso in un primo tempo registrato da queste tra la popolazione vessata dagli abusi dei signori della guerra – dovrebbe essere coinvolta nel processo di stabilizzazione del Paese.

 

Va poi ricordato che nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla violazione dei diritti umani nel mondo, portata avanti dal Comitato permanente sui diritti umani della Commissione esteri della Camera, il 17 maggio 2007 vi è stata l'audizione dei rappresentanti della diaspora internazionale somala, i quali, come già rilevato, costituiscono un elemento non secondario delle possibili trattative fra tutte le parti somale per una soluzione della tragica vicenda del Paese.

Nelle sedute del 3 luglio e del 18 dicembre 2007 il Viceministro degli Affari esteri Patrizia Sentinelli è di nuovo tornata sul tema somalo, nell'ambito di due audizioni presso la Commissione Affari esteri del Senato, dedicate alla più generale situazione nel Corno d'Africa.

L'ultima occasione di dibattito parlamentare sulle vicende della Somalia, si è avuta presso la Commissione Affari esteri della Camera (seduta del 19 dicembre 2007), in occasione dell'audizione del Viceministro degli Affari esteri Patrizia Sentinelli sulla situazione nel Corno d'Africa e la crisi del Darfur.

 


La situazione in Birmania

Le proteste del settembre 2007

La crisi che è esplosa nel settembre 2007nella ex-Birmania (ribattezzata Myanmar nel 1989) ha suscitato l’attenzione di tutto il mondo e la netta condanna delle violente repressioni del dissenso da parte  di molti rappresentanti della comunità internazionale.

Myanmar è governata da un regime militare dal 1962. L’attuale giunta risale al 1988 e ha cancellato i risultati delle elezioni democratiche del 1990 che furono vinte di larghissima misura dal partito guidato da Daw Aung San Suu Kyi, la figlia di Aung San, uno degli eroi della conquista dell’indipendenza dall’Inghilterra (1948). Nonostante Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, sia agli arresti domiciliari, costituisce ancora un simbolo e una guida per la popolazione birmana, e quindi un pericolo per il regime.

Le proteste sono cominciate il 19 agosto 2007 a causa di un forte aumento del prezzo dei carburanti al dettaglio (è stato raddoppiato il prezzo del diesel e quintuplicato quello del gas naturale) che, a sua volta, ha determinato un cospicuo aumento del costo dei trasporti e dei beni di consumo in un paese afflitto da grande povertà. La poca trasparenza del regime e della stessa vita economica del paese rende poco chiare le ragioni per le quali la Birmania, tanto ricca di materia prima, importi a prezzi elevatissimi il combustibile raffinato.

L’inizio delle manifestazioni ha di poco preceduto la conclusione del lavoro (durato ben 14 anni anche se in maniera discontinua) della Convenzione Costituzionale, avvenuto il 3 settembre, che costituisce, secondo la giunta militare, la prima fase della roadmap verso la democrazia, ossia un processo in sette fasi, annunciato nel 2003, che dovrebbe concludersi con la trasformazione del regime in una “democrazia controllata” e con lo svolgimento di libere elezioni. Nel mese di febbraio - spiazzando l’opinione pubblica internazionale che si era abituata a pensare alla roadmap verso la democrazia come ad un processo infinitamente lungo - la giunta ha annunciato che la nuova Costituzione è pronta e che sarà sottoposta a referendum popolare il prossimo maggio (la Birmania e' priva di una costituzione dal 1988) mentre le elezioni si terranno nel 2010. Il nuovo progetto di costituzione, però, riserva il 25 per cento dei seggi ai militari ed esclude dalla competizione elettorale la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi (con la motivazione di essere stata sposata con uno straniero). Tutto ciò solleva dubbi sul carattere democratico del documento fondamentale su cui dovrebbe rifondarsi lo stato birmano. Gli Stati Uniti hanno chiesto – pertanto - alla Birmania di rivederne il testo.

Tuttavia, non solo la giunta si è pronunciata contro la proposta americana di emendare la bozza della nuova Costituzione, ma ha anche respinto la proposta delle Nazioni Unite di inviare una missione di osservatori per monitorare lo svolgimento del referendum e delle elezioni.

 

Alle iniziali – contenute - dimostrazioni di studenti, si è presto unito un grande numero di monaci buddisti, molto rispettati dalla popolazione. La situazione è divenuta incandescente quando, il 24 settembre, circa 100.000 persone si sono unite ad un corteo guidato dai monaci. Circa 500 di essi si sono diretti verso la casa di Aung San Suu Kyi che, per la prima volta in quattro anni, è ricomparsa in pubblico.

I religiosi hanno aderito, e in alcuni casi capeggiato, le manifestazioni dei ceti popolari non solo per protestare contro l’aumento dei prezzi, ma anche contro l’intollerabile e reiterata violazione dei diritti umani fondamentali che da anni ormai si verifica in Birmania: più di mille oppositori del regime sono tuttora in carcere e Aung San Suu Kyi è agli arresti domiciliari da dodici anni; centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono costretti al lavoro forzato - da parte dei militari e delle autorità locali - e sono spesso oggetto di deportazioni forzate; sono comuni la detenzione e le esecuzioni, le torture e gli stupri, utilizzati come mezzo per esercitare il potere; il sindacato birmano Ftub è stato dichiarato dalla giunta militare “organizzazione terroristica”.

La repressione delle proteste è stata durissima e molto violenta: oltre ad almeno 30 persone uccise e 1.400 arrestate sono state denunciatesparizioni, percosse e torture ai danni dei detenuti. In una nota del 2 aprile 2008, Amnesty International comunica che  in Birmania vi sono oltre 1.850 prigionieri politici e prigionieri di coscienza, tra i quali  Daw Aung San Suu Kyi è solo la più nota.

 

Immediate sono state le reazioni da parte della comunità internazionale anche se le misure adottate non sono tali da poter realmente influire sull’operato della giunta. Sia la Francia che il Regno Unito hanno fatto sentire la propria voce per condannare il regime militare birmano e il premier Gordon Brown ha chiesto - e ottenuto - la convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove non è però stato possibile approvare una risoluzione di condanna né l’adozione di sanzioni economiche, data la contrarietà di Russia e Cina.

Il Consiglio di Sicurezza ha approvato invece, l’11 ottobre, una Dichiarazione presidenziale – un testo non vincolante ma che necessita l’approvazione all’unanimità – con il quale si deplora l'uso della violenza contro i dimostranti pacifici in Myanmar e si ribadisce l'importanza di una rapida scarcerazione di tutti i prigionieri politici ancora detenuti. Il testo, approvato in una versione più blanda rispetto a quella presentata nei giorni precedenti da Francia, Regno Unito e USA, non chiede la fine degli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, ma si limita ad auspicare un dialogo fra lei e il regime militare. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONUha poi rinnovato alla giunta militare birmana, il 14 novembre 2007, la richiesta di rilasciare i prigionieri politici arrestati durante le manifestazioni di settembre.

Gli Stati Uniti hanno quindi adottato unilateralmente delle sanzioni economiche, seguiti poi anche dall'Unione europea che ha rafforzato il regime di misure restrittive già in vigore riguardante l’embargo sulle armi, sanzioni economiche e sospensione della cooperazione in materia di sicurezza: le misure adottate includono l'embargo verso le pietre preziose, il legno e i metalli birmani, il divieto di esportazione di macchinari per la produzione di questi prodotti e il divieto di ingresso nella UE di decine di persone legate alla giunta militare di Rangoon (Regolamento 194 del 25 febbraio 2008).

Ma le sanzioni dei Paesi occidentali non hanno raggiunto lo scopo, in parte perché la Birmania è un Paese abituato all’isolamento, in parte perché alcuni Paesi orientali hanno approfittato delle sanzioni per riempire gli spazi economici improvvisamente aperti.Da più parti si rileva che senza la collaborazione della Cina, uno dei più stretti partner commerciali della Birmania e fornitore di armi della giunta, e dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico, di cui fa parte anche la Birmania), è impensabile che le sanzioni possano essere efficaci.

Le testimonianze della repressione cruenta degli oppositori al regime hanno avuto vasta eco ed hanno costretto alcuni dei Paesi vicini ad abbandonare il consueto atteggiamento di non interferenza. La Cina ha lanciato il 30 settembre un appello alla giunta militare birmana affinché ponga fine alla violenta repressione delle manifestazioni e promuova la riconciliazione, necessaria per ottenere democrazia e sviluppo. La Cina ha inoltre esortato la Birmania ad accelerare la realizzazione di riforme democratiche ed ha espresso il suo sostegno per l’impegno delle Nazioni Unite volto alla soluzione della  crisi. Ma la risposta del capo della giunta militare, generale Than Shwe, è consistita nella conferma delle posizioni note, secondo cui l'unico modo per ottenere le riforme sarebbe la realizzazione dei sette punti della roadmap per la democrazia, già bocciata dai Paesi occidentali. Il Giappone ha minacciato un taglio degli aiuti dopo l’uccisione di un giornalista giapponese durante i disordini. La risposta più debole è arrivata dall’India le cui richieste di dialogo pacifico sono state seguite dalle dichiarazioni del nuovo capo dell’esercito che ha precisato che l’India vuole mantenere i suoi stretti rapporti con il regime birmano.

 

L'inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, si è recato in Birmania tre volte dopo i disordini del settembre scorso per mettere a disposizione del Paese l’esperienza delle Nazioni Unite nell’assistenza al processo di riconciliazione nazionale attraverso il dialogo.

Solo nel corso della prima visita, però, (dal 29 settembre al 2 ottobre) Gambari è stato ricevuto dal capo della giunta militare al potere, Than Shweh, mentre tutte e tre le volte ha potuto avere colloqui con Daw Aung San Suu Kyi, anche se sotto lo stretto controllo dei militari.

Nel corso dell’ultima missione (6-10 marzo 2008) Gambari ha incontrato i rappresentanti di alcuni partiti politici ma non il generale Than Shweh, né ha avuto il permesso di incontrare i rappresentanti delle minoranze. Gambari ha avuto invece un ulteriore colloquio con il ministro dell’informazione, generale Kyaw Hsan, che da poco aveva ufficialmente confermato l’indisponibilità della giunta a qualsiasi modifica al testo della Costituzione ed aveva accusato le Nazioni Unite di un atteggiamento troppo favorevole nei confronti di San Suu Kyi.

 

Su invito delle autorità birmane anche il Relatore Speciale dell'Onu per i Diritti umani Paulo Sergio Pinheiro si è recato in Myanmar l’11 novembre 2007 per una prima missione ricognitiva, dopo quattro anni di assenza. Successivamente però il governo birmano ha negato il visto a Pinheiro che chiedeva di tornare nel Paese per ulteriori visite.

Ciononostante il Relatore Speciale ha redatto un Rapporto che ha presentato al Consiglio dell'ONU sui diritti umani nel quale denuncia la morte di almeno 31 persone nella repressione delle proteste pacifiche del settembre 2007, anche se il bilancio non è definitivo. Il Rapporto afferma che è stata consegnata al governo birmano una lista di 653 persone detenute, di 74 persone scomparse e 16 uccise, che si sommano all'elenco di 15 morti fornito dalle autorità: la lista, tuttavia, dà conto solo dei casi in cui sia conosciuto il nome delle persone coinvolte, ma gli incidenti riguardanti persone non identificate sono molti di più. L’elenco è quindi suscettibile di successivi aggiornamenti. Viene inoltre riferito che tra le vittime figurano monaci e civili, uomini, donne e addirittura bambini e che la pratica della tortura è molto diffusa.

 

Il Consiglio dell'ONU sui diritti umani, oltre ad aver rinnovato il mandato al Relatore Speciale, ha approvato il 28 marzo una risoluzione che esprime preoccupazione per la situazione dei diritti umani in Birmania e la repressione violenta delle dimostrazioni pacifiche del settembre 2007, e che condanna le violazioni sistematiche dei diritti umani e dei diritti fondamentali che ancora hanno luogo, le detenzioni arbitrarie e la presenza in carcere di un alto numero di prigionieri politici. La risoluzione chiede al governo birmano di ricevere la missione guidata dal Relatore Speciale e di uniformarsi alle raccomandazioni dell’ONU.

La risoluzione, presentata dalla presidenza slovena dell'Unione europea, è stata approvata senza votazione ma molti Stati membri -  specialmente quelli vicini alla Birmania e i paesi dell’ASEAN - hanno espresso preoccupazione in merito al testo. Il rappresentante delle Filippine – ad esempio - ha dichiarato che Myanmar deve essere incoraggiata in modo costruttivo e non condannata; la Malaysia avrebbe preferito un testo che desse conto anche degli sviluppi positivi della situazione nel Paese; il Pakistan ha definito il testo poco equilibrato. 

Il rappresentante di Myanmar ha rifiutato la risoluzione, lamentando il fatto che essa non prende affatto in considerazione la reale situazione politica e tenta di politicizzare gli affari interni del suo Paese prendendo “a pretesto” il rispetto dei diritti umani.

 

Piero Fassino, nominato Inviato Speciale dell'UE per la Birmania il 6 novembre, ha svolto un ruolo di supporto delle azioni intraprese da Ibrahim Gambari e da Sergio Pinheiro per conto delle Nazioni Unite finalizzate ad assicurare il rispetto dei diritti umani in Birmania, la scarcerazione dei detenuti politici, la cessazione delle misure restrittive riguardanti Aung San Suu Kyi e l’avvio di un dialogo genuino che conduca alla riconciliazione nazionale e alla democrazia.

Fassino ha affermato che la Comunità internazionale deve pretendere dalla giunta militare birmana assicurazioni riguardo alla regolarità e alla trasparenza nello svolgimento del prossimo referendum e delle elezioni previste per il 2010. Tuttavia, l’approccio al problema birmano presenta alcune differenze tra i paesi occidentali - per i quali è prioritario il rispetto della democrazia e dei diritti – e quelli orientali – che privilegiano la stabilità. La sfida, secondo l’Inviato Speciale dell’UE, è la costruzione di “una strategia che riesca a coniugare entrambe le priorità”.

L’attività della Camera dei deputati

Il Parlamento si è frequentemente occupato della situazione dei diritti umani in varie parti del mondo, in particolare con l’istituzione – ormai reiterata a partire dalla X Legislatura – di un Comitato permanente per i diritti umani in seno alla Commissione esteri della Camera.

Nella XV Legislatura, il 26 luglio 2007 (poco prima che iniziassero le prime grandi manifestazioni di protesta in Birmania), nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulla violazione dei diritti umani nel mondo condotta dal Comitato, è stata udita Cecilia Brighi, consigliere di amministrazione dell'OIL (Organizzazione internazionale del lavoro).

La signora Brighi ha ripercorso brevemente la storia della Birmania degli ultimi decenni soffermandosi in particolare sulle proteste del 1988 contro la dittatura, quando grandi movimenti sindacali, attraverso scioperi generali che hanno coinvolto non solo i lavoratori ma anche i monaci buddisti e gli studenti, sono stati repressi con l’uso della violenza.

Venendo in particolare alla questione dei diritti dei lavoratori, Cecilia Brighi ha riferito che l'OIL ha sanzionato più volte la Birmania per la reiterazione dell’uso del lavoro forzato e per non aver attuato le decisioni prese dalla Commissione d'indagine costituita dall'OIL stessa. Nel 2000 l’OIL ha inoltre approvato con l'accordo di tutti i governi, delle organizzazioni imprenditoriali e  dei sindacati, una risoluzione che chiede ai medesimi soggetti di rivedere i propri rapporti economici e commerciali con la Birmania e di esserne informata.

Nel 2005 questa risoluzione è stata rafforzata, ma è mancato un vero e proprio monitoraggio, sia sul piano internazionale che su quello nazionale.

Riferendosi alle sanzioni adottate dall’Unione europea (prima del loro inasprimento deciso dopo i fatti di settembre) Brighi ha sottolineato che, purtroppo, anche in questo caso esse sono state concepite in modo tale da permettere alle grandi imprese europee di continuare a lavorare con la Birmania; a tale proposito, la rappresentante dell’OIL ha citato l’impresa francese Total Fina ed altre, che hanno consistenti interessi di carattere economico in quel Paese.

Assai preoccupante il dato presentato all’OIL dal sindacato clandestino birmano nel giugno 2007 che registra l’insorgenza di 4.500 nuovi casi di lavoro forzato nel periodo giugno 2006 - giugno 2007, con la specificazione che si tratta di casi collettivi che quindi coinvolgono molte migliaia di persone nelle varie zone del Paese. Secondo l’OIL molto spesso il lavoro forzato comporta anche stupri su donne e bambine.

 

A seguito dei gravi episodi di violenza, il 27 settembre 2007, il Governo ha riferito – sia alla Camera che al Senato - sulla situazione in Myanmar. Dopo aver informato sulle varie tappe che hanno condotto alla sangunosa giornata del 24 settembre, il Viceministro Intini ha riferito che l'Italia ha sostenuto la dichiarazione della Presidenza dell'Unione europea che ha riaffermato l'intenzione di continuare ad esercitare ogni possibile pressione sul regime di Myanmar in stretto coordinamento tra i Paesi europei.

Intini ha preannunciato i successivi passi che l’Unione europea avrebbe intrapreso, fra i quali l'inasprimento delle sanzioni nei confronti della Birmania e appelli a Cina, India ed ASEAN  affinché cessino di sostenere la giunta birmana ed esercitino su quest’ultima un'influenza moderatrice.

Il nostro Paese, ha riferito Intini, ha ripetutamente espresso solidarietà alle manifestazioni per la democrazia in corso a Myanmar attraverso il Presidente del Consiglio Prodi ed il Ministro degli esteri D'Alema, a New York per partecipare ai lavori dell'Assemblea generale dell'ONU.

 

La Commissione esteri ha inoltre approvato, il 25 ottobre 2007, la risoluzione Ranieri ed altri n. 8-00089che impegna il Governo, tra l’altro:

ad adoperarsi per la libertà dei prigionieri politici e delle persone arrestate in seguito alle manifestazioni di settembre e per la rimozione degli arresti domiciliari cui è confinata da molti anni Aung Saan Suu Kyi;

a contribuire all'assistenza ai profughi birmani che hanno trovato rifugio in Tailandia;

ad esercitare pressioni sul Consiglio di Sicurezza dell'ONU per l’adozione di misure efficaci che possano incidere sulla crisi in atto e promuovere il ripristino della democrazia;

a sensibilizzare i grandi Paesi asiatici vicini, come l'India, e tutti quelli che ancora si oppongono alle sanzioni richieste dalle Nazioni Unite;

ad esercitare la più ampia pressione sui piani diplomatico, economico e commerciale, perché la giunta militare al potere in Birmania cessi la repressione degli oppositori, il ricorso ad arresti arbitrari e l'utilizzo della tortura nei confronti dei detenuti”.

 


La Turchia e la questione curda

Quadro di sintesi

Le particolarità della Turchia – paese in avvicinamento all’UE, ma allo stesso tempo ancora esposto a rischi di traumi laceranti delle proprie istituzioni democratiche - sono state messe in evidenza dalla recente crisi della primavera-estate del 2007, aperta dalla clamorosa – ed invasiva – presa di posizione dei militari contro il tentativo del partito di governo filoislamico Akp, guidato dal premier Tayyp Erdogan, di eleggere l'allora ministro degli esteri Abdullah Gul alla presidenza del Paese.

L’interpretazione del risultato delle elezioni del 22 luglio 2007 (che ha segnato l’uscita dalla fase più acuta della crisi) può quindi rappresentare il punto di partenza per una sintetica ricostruzione della situazione politica interna.

Tutti i commentatori ed osservatori della realtà politica turca concordano nel ritenere che la vittoria dell’AKP sia da considerare non una vittoria del fondamentalismo o radicalismo religioso, ma piuttosto un riconoscimento del successo delle politiche – e in particolare della politica economica - realizzate dal Governo Erdogan, leader del partito che occupa il centro della scena politica turca sin dalle elezioni politiche del novembre 2002.

Il successo dell’AKP nell’elettorato turco (confermato ed ampliato nelle elezioni anticipate del luglio 2007) si deve in buona parte al fatto che - dopo la grave crisi finanziaria del 2001 - la Turchia ha intrapreso un cammino di forte ripresa economica che si è concretizzato in tassi di crescita del PIL - per 4 anni consecutivi – intorno al 7%. Ancora nel 2006 e nel 2007 il tasso di crescita si è mantenuto elevato (rispettivamente al 6,1% e al 3,9%). Le previsioni dell’Economist Intelligence Unit indicano una nuova ripresa del forte tasso di crescita già nel 2009 – anno in cui si dovrebbe tornare a superare il 5% - a seguito di aumenti sia della domanda interna, sia delle esportazioni.

Le previsioni economiche sembrano pertanto ottimistiche, in presenza di uno sviluppo sostenuto da una forte spinta imprenditoriale e da un altrettanto forte desiderio dei turchi di migliorare la propria condizione economica, oltre che dalle rimesse degli emigrati. Anche le disuguaglianze di reddito – pur alte – stanno mostrando lentamente un trend positivo verso una progressiva attenuazione.

Tuttavia, anche nella situazione economica del paese esistono evidenti elementi di precarietà: rimane alta la diffusione del lavoro nero (secondo i sindacati turchi, il 51% dei lavoratori) e del lavoro minorile, e le condizioni di lavoro sono talvolta molto pesanti (orari di 14-16 ore giornaliere non sono infrequenti). Il tasso di disoccupazione (attorno al 10%) non appare coerente con il grande slancio dell’economia, mentre povertà e sottosviluppo allignano tuttora ampiamente nelle aree sud-orientali del Paese, a maggioranza curda.

Sul piano politico - nonostante il chiaro risultato elettorale e la soluzione del “caso Gul” (eletto alla Presidenza della Repubblica dopo le elezioni parlamentari del luglio) - le cause della instabilità non sembrano in via di superamento. La rotta di collisione tra la tradizione laicista - fortemente radicata nel paese e nei quadri che ne guidano le istituzioni - e il successo popolare del partito filoislamico produce periodiche tensioni che mettono a dura prova la stessa tenuta del quadro democratico. Questi rischi sono stati anche di recente messi in evidenza dalla eclatante decisione della Corte costituzionale del 31 marzo di dichiarare ammissibile la richiesta del procuratore della Cassazione Yalcinkaya di chiudere il partito al governo Akp (perché non laico come stabilisce invece la Costituzione turca) e di interdire per 5 anni dalla vita politica del paese 71 dirigenti dell'Akp, tra cui lo stesso premier Erdogan. Nei prossimi mesi la Corte dovrà esaminare la questione nel merito.

Le relazioni internazionali della Turchia sembrano attualmente improntate alla volontà di mantenere aperto il processo di integrazione nell’UE e – allo stesso tempo – di non introdurre alcun elemento di rottura rispetto alla tradizionale ottima relazione con gli Stati Uniti.

La posizione geografica della Turchia, nonché interessi comuni sulla questione curda, raccomandano anche il mantenimento delle buone relazioni esistenti con Siria e Iran. Infine, la Russia e la sua centralità in campo energetico offrono promettenti prospettive economiche che il governo di Ankara ha già dimostrato di saper sfruttare.

In realtà la proiezione internazionale della Turchia – anche grazie alla credibilità economica e politica acquisita dal paese negli ultimi anni – si è notevolmente accresciuta. Per le sue caratteristiche interne e per la ottima organizzazione delle proprie forze armate – sodati turchi sono impegnati con successo in operazioni di peacekeeping in Afghanistan, Congo, Libano ed ex-Yugoslavia - la Turchia occupa oggi un ruolo unico di cerniera fra le aree più importanti ai fini degli equilibri geopolitici: Balcani, Medio Oriente, Europa, Mediterraneo, Caucaso, Caspio e Asia centrale.

Gli incidenti al confine e le incursioni in territorio iracheno

I curdi sono un popolo non arabo, in prevalenza musulmani sunniti, che parlano una lingua molto simile al persiano e vivono in un territorio montagnoso diviso tra Turchia, Iraq, Iran e Siria.

Circa la metà del popolo curdo – che assomma a 25-30 milioni di individui – vive in Turchia, dove costituisce il 20 per cento della popolazione ed è distribuito prevalentemente nella parte sudorientale del Paese.

La questione dell'indipendenza dei curdi risale all’incirca alla fine dell’Impero Ottomano, contro il quale i curdi si batterono nella speranza di vedere riconosciuto il proprio diritto alla creazione di uno Stato. Il governo turco mise in atto, già a partire dal 1930, delle politiche di assimilazione forzata, alle quali i turchi di origine curda risposero dando vita ad un vasto movimento di resistenza. A partire dal 1984, però, la resistenza si è tradotta non solo in attività pacifiche di rivendicazione dei diritti civili, ma anche in ribellioni armate per la costruzione di uno Stato separato.

La resistenza curda ha presto trovato forme organizzate per esprimere le proprie rivendicazioni e, tra i movimenti con il maggior numero di aderenti, si segnala il PKK, Partito dei lavoratori curdi,gruppo armato nato nel 1970 e guidato fino al 1999 da Abdullah Ocalan. L’Unione europea, la NATO e gli USA hanno classificato il PKK come organizzazione terroristica.

Negli anni dal 1984 al 1999 si è combattuta una vera e propria guerra tra il PKK e le forze  militari turche, che ha prodotto lo spopolamento delle campagne situate nella parte sudorientale del Paese (circa 400.000 persone e 3.000 villaggi sarebbero le vittime di quegli eventi).

Subito dopo la sua cattura, nel 1999, Ocalan invitò il PKK, di cui era ancora il leader, a non abbandonare i propri obiettivi, ma ad agire in modo pacifico. Nello stesso anno fu dichiarato il primo cessate-il-fuoco e il PKK cambiò il proprio nome in KADEK (Congresso per la Libertà e la Democrazia in Kurdistan), per dare il segno del proprio spostamento su posizioni più moderate. Tuttavia da più parti questa svolta è stata letta come un tentativo strumentale di sottrarsi alle conseguenze dell’inserimento del PKK nella lista delle organizzazioni terroristiche a livello internazionale. Il cessate-il-fuoco ha retto fino al settembre 2003 quando, approfittando dell’instabilità nel Nord dell’Iraq, sono gradualmente ricominciate le azioni di guerriglia contro il territorio turco.

A partire dal 2004 sono andati aumentando gli attentati del PKK rivolti contro forze militari e di polizia e contro obiettivi governativi, particolarmente in aree prossime al confine con l’Iraq, che hanno causato centinaia di vittime.

Intanto, con leelezioni del luglio 2007 i curdi,dopo 15 anni, sono rientrati nelParlamento turco: infatti, 23 nazionalisti curdi, membri del Partito per la Società democratica (DTP), sono stati eletti come indipendenti, aggirando in tal modo la alta soglia di sbarramento del 10% posta dalla legge elettorale turca. Oltre a rinunciare a prestare il giuramento in lingua curda, i neoeletti hanno mandato segnali distensivi, assicurando di voler cambiare le norme sui diritti delle minoranze in modo democratico e di volersi adeguare a quelle in vigore.

Tuttavia nei mesi di settembre e ottobre 2007 i terroristi del PKK hanno teso sanguinosi agguati, provocando la minaccia del governo turco di penetrare nel territorio iracheno per catturare i ribelli.

Sebbene da tutto il mondo occidentale siano pervenuti alla Turchia inviti alla moderazione al fine di scongiurare operazioni militari nel nord dell'Iraq, nella notte del 13 ottobre l’artiglieria turca ha iniziato a  bombardare alcuni villaggi del Kurdistan iracheno, mentre - dopo l’approvazione da parte del governo - il Parlamento turco il 17 ottobre ha autorizzato le forze militari a effettuare un intervento in nord Iraq, se e quando lo ritenessero necessario, al solo fine di liquidare i campi di montagna da cui partono i ribelli curdi turchi per compiere attacchi terroristici in Turchia. La mozione è stata approvata con una larghissima maggioranza: 507 voti a favore e 19 voti contrari, quelli del Partito nazionalista curdo DTP.

Alle minacce hanno fatto seguito una serie di incursioni – anche via terra – in territorio iracheno per tutto il periodo dicembre 2007-febbraio 2008.

La reazione statunitenseè stata immediata e molto dura: il Presidente Bush ha manifestato la propria contrarietà alle incursioni sul territorio iracheno, ribadendo che esse non costituiscono la soluzione del problema, né sono nell’interesse della Turchia. Gli americani temono una destabilizzazione dell’area, nonché ripercussioni negative sulla concessione dell’uso della base aerea di Incirlik (situata nella Turchia meridionale), indispensabile per rifornire le truppe Usa in Iraq e in Afghanistan.

Dal canto suo, il premier iracheno Nuri al Maliki si è impegnato a stanare i terroristi curdi dalle loro sedi e a sradicarli dall'Iraq, anche se gli analisti ritengono improbabile che Al Maliki sia effettivamente in grado di mantenere questa promessa: il Nord dell’Iraq, infatti è controllato dai Peshmerga Nordiracheni di Jalal Talabani e di Massud Barzani (presidente del Kurdistan iracheno), gli unici che potrebbero garantire una soluzione diplomatica.

Dopo i sanguinosi attacchi di febbraio, gli Stati Uniti hanno iniziato a lavorare alacremente per evitare un conflitto nel Nord dell’Iraq, l’unica parte del Paese non ostile agli americani.

Gli osservatori concordano nel ritenere che dal punto di vista turco un Kurdistan indipendente creato in Iraq o in Iran sarebbe il più grave dei pericoli, in quanto base per i curdi di Turchia in lotta per l’indipendenza da Ankara.

Nel delineare un quadro di relazioni bilaterali che appare del tutto in movimento gli analisti sottolineano che al momento gli Stati Uniti hanno bisogno della Turchia - per ragioni che trascendono la questione dei rifornimenti alle truppe in Iraq e riguardano la stabilità di un’area totalmente turbolenta - molto più di quanto la Turchia abbia bisogno degli Stati Uniti. E ciò apre ad Ankara ampi spazi di azione.

Non sono da trascurare neanche i risvolti di politica interna impliciti nell’azione turca in territorio iracheno. Alla difficile partita fra Erdogan e l’esercito, bastione del laicismo turco, parecchi osservatori riconnettono molte delle scelte relative alla tempistica dell’azione in Iraq e al livello di forza impiegata.

 

L’attività della Camera

Sulla situazione in Turchia, si ricordano in primo luogo due atti di sindacato ispettivo esaminati dalla III Commissione.

La risoluzione n. 7-00068, presentata dall’On. Ramon Mantovani il 27 ottobre 2006 e discussa nel novembre-dicembre, infine approvata con un’ampia convergenza dei gruppi politici (sia pure in un testo modificato) nella seduta del 20 dicembre 2006, impegnava fra l’altro il Governo “ad attivarsi per ottenere che nell'agenda negoziale per l'ingresso della Turchia nell'Unione europea sia presente il riconoscimento dell'esistenza della minoranza nazionale kurda in Turchia e la garanzia conseguente dei diritti culturali ed amministrativi secondo gli standard europei “.

Il 23 ottobre 2007, nel pieno della crisi lungo il confine (non ancora degenerata nella invasione del territorio nord-iracheno da parte dell’esercito di Ankara), l’On. Rivolta presentava la risoluzione n. 7-00294, con la quale si intendeva impegnare il Governo “ad agire nelle sedi internazionali affinché si condanni unanimemente e si isoli politicamente il gruppo terrorista PKK;

ad intervenire, considerata l'amicizia e il grande senso di collaborazione esistente tra l'Italia e la Turchia, presso il Governo turco incoraggiandolo a continuare nell'atteggiamento moderato, seppur fermo, dimostrato fino ad ora, e rinunciando ad accettare la provocazione del PKK e non consentendo il debordamento del proprio esercito dai confini turchi;

ad intervenire presso il Governo iracheno, affinché esso, con la collaborazione del Governo della Regione autonoma curda, disponga azioni di polizia nella regione curdo-irachena al fine di identificare e neutralizzare, con tutti i mezzi a disposizione, eventuali illegittime basi di terroristi situate all'interno dei territorio iracheno”.

La discussione si svolgeva in III Commissione nella seduta del 14 novembre 2007, ma durante il dibattito non si riscontrava la stessa convergenza di posizioni registrata l’anno precedente in occasione dell’esame della risoluzione n. 7-00068. Esponenti della maggioranza criticavano il mancato riferimento ai diritti della minoranza turca, mentre il rappresentante del Governo sembrava comunque favorevole alla ricerca di una convergenza su un testo modificato.

Nei giorni successivi i firmatari ritiravano la risoluzione.

Si ricorda, infine, che una settimana prima dell’esame della risoluzione n. 7-00294, nella seduta del 7 novembre 2007il Governo – nella persona del Sottosegretario Crucianelli – aveva riferito in III Commissione sulla situazione al confine turco-iracheno, ma dedicando anche la prima parte del proprio intervento alla situazione interna del paese creatasi a seguito delle elezioni del luglio 2007. In proposito, il Sottosegretario aveva affermato che la “tesi che interpreta il successo di Erdogan e dell'AKP come una vittoria dell'Islam politico contro i laici appare riduttiva e, in qualche misura, fuorviante. Il partito di maggioranza relativa raccoglie, infatti, anche il voto dei laici, nonché delle forze produttive e di larghi strati della popolazione. Si è trattato di una rivoluzione svoltasi nel pieno rispetto delle regole costituzionali e democratiche e si è così aperta una fase nuova ed inedita della vita politica turca, i cui futuri sviluppi dipenderanno, in larga parte, dalla capacità del nuovo Esecutivo di misurarsi con la crisi in corso ai confini dell'Iraq e con i problemi di carattere interno”.

In merito agli scontri tra i gruppi curdi e l’esercito turco, il Sottosegretario esponeva un lungo elenco di motivazioni contrarie all’escalation militare (nello stesso interesse di Ankara) e riferiva delle iniziative tese a scongiurare tale esito intraprese sia dall’UE, sia dal Governo italiano.

 


Lo scudo missilistico in Europa

Premessa

Il progetto di scudo antimissilistico europeo è stato elaborato dalla Missile Defence Agency del Pentagono e costituisce la prima componente di un sistema più ampio di difesa antimissilistica concepito per proteggere gran parte del territorio europeo da attacchi di missili a lungo raggio provenienti da gruppi terroristici o da cd “Stati canaglia” come Iran e Corea del Nord. Il progetto, che prevede un sito di lancio per dieci missili intercettori in Polonia e un sistema radar di scoperta nella Repubblica ceca, è stato proposto ai due Paesi interessati dal governo americano nel gennaio del 2007.

Il fatto che l’iniziativa sia stata assunta dal governo americano al di fuori di qualunque coordinamento con l’Alleanza atlantica, l’assenso al negoziato di Polonia e Repubblica ceca, nonché la ferma opposizione della Russia al progetto di scudo europeo, hanno suscitato tensioni in Europa e un dibattito ampio all’interno della NATO.

Reazioni fredde - o comunque interlocutorie - sono state espresse da quasi tutti i paesi europei: valga per tutte la posizione assunta il 6 marzo 2007 dal Cancelliere tedesco Merkel che, pur dichiarandosi convinta della natura difensiva delle installazioni americane, ha comunque chiesto che la questione sia affrontata in un negoziato USA – Russia, “meglio se in una cornice NATO”. A loro volta, uomini di governo polacchi e soprattutto cechi, hanno manifestato insofferenza verso un atteggiamento, ritenuto troppo attivo, di altri partner europei in ordine ad una decisione ricadente nella propria sovranità nazionale.

Quanto alla reazione della NATO, il 12 marzo 2007, in un’intervista rilasciata al Financial Times, il segretario generale, Jaap de Hoop Scheffer, dichiarava che il rischio di attacchi missilistici da parte iraniana o nord-coreana è reale, ma che (anche per questo) lo scudo americano potrebbe integrarsi al piano della NATO per un sistema di difesa antimissili di teatro (ALTMD) - un dispositivo che dovrebbe essere dislocato entro il 2010, del costo di 20 miliardi di dollari, sul quale è disponibile, sin dal 2006, un dettagliato studio di fattibilità.

Il progetto della NATO

La NATO sta infatti lavorando a un sistema multi-livello di difesa antimissile di teatro ALTBMD (Active Layered Theatre Ballistic Missile Defence) contro le minacce da missili balistici a medio e corto raggio e altre armi aeree. L’ALTBMD prevede l’impiego di diversi sistemi di difesa antimissile a bassa e alta quota per l’intercettazione dei missili in fase di lancio (attraverso UAV e laser aviotrasportati), o in fase intermedia (tramite il sistema THAAD di produzione americana), e finale (tramite MEADS, Pac-3 e il sistema franco-Italiano SAMP/T, basato sul missile Aster 30). Il sistema ALTBMD prevede anche una componente navale, formata da un sistema Aegis di produzione americana e dall’anglo-franco-italiano PAAMS. Alla NATO spetterà il segmento di comando, controllo e comunicazioni dell’ALTBMD, il cui spiegamento è previsto entro il 2010.

E’ inoltre da segnalarsi la cooperazione tra NATO e Russia sulla difesa missilistica di teatro (TMD), cominciata nel 2002: il gruppo di lavoro costituito ad hoc sta elaborando nuove proposte per rendere interoperabili le forze TDM della NATO e della Russia.

La posizione della Russia

La Russia ha considerato fin dall’inizio lo scudo antimissile americano in Europa una potenziale minaccia per i suoi armamenti nucleari, ritenendo che esso fosse puntato contro il proprio territorio.

La prima dura reazione è avvenuta alla Conferenza sulla politica di Sicurezza di Monaco (10 febbraio 2007): annunciando che la Russia stava preparando un accordo per la prevenzione del dispiegamento di armi nello spazio, sulla quale chiedeva la collaborazione dei rappresentanti dei Paesi presenti, il Presidente Putin denunciava la contrarietà ai piani per espandere la difesa anti-missile all'Europa e il rischio che questi costituiscano l'innesco di una inevitabile corsa agli armamenti. Putin metteva in dubbio che i Paesi dai quali – stando alle posizioni ufficiali - l’Europa si vorrebbe difendere possiedano missili con portata di 5-8 mila chilometri, capaci di minacciare realmente i Paesi europei.

Dimostrando quindi di non credere alla motivazione della difesa dei Paesi europei dagli “Stati canaglia”, Putin ha adombrato la possibilità di rompere il Trattato che bandiva i missili a corto e medio raggio stipulato nel 1987 da Reagan e Gorbaciov, e che ha privato Europa e Russia di missili reciprocamente puntati sui propri territori. Ciò potrebbe riaprire un tema (quello dell’Europa come terreno di crisi militari) che sembrava ormai definitivamente chiuso da almeno 20 anni. Putin obiettava inoltre che molti Paesi detengono questi missili, incluse le due Coree, India, Iran, Pakistan e Israele, e che molti altri stanno lavorando su questi sistemi e progettano di inserirli tra i loro arsenali militari: in queste condizioni, ha concluso Putin, e poiché è impossibile approvare la comparsa di nuove, destabilizzanti armi ad alta tecnologia, la Russia deve pensare a garantire la propria sicurezza.

Il Presidente Putin ha inoltre citato il Trattato sulle forze convenzionali in Europa. Il CFE - che limita il numero di aerei, carri armati ed altri armamenti pesanti non nucleari in Europa - firmato nel 1990 e poi modificato nel 1999 perché riflettesse i cambiamenti avvenuti sul continente dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La Russia ha ratificato la versione emendata del CFE, ma gli Stati Uniti e altri Stati membri della NATO si sono rifiutati di farlo finché la controparte non avrà ritirato le proprie truppe dalle Repubbliche ex sovietiche in Transnistria (Moldova) e Georgia, un fatto che la Russia considera invece di propria esclusiva competenza e pertanto non collegato ad altre questioni.Anche tale richiesta è stata quindi interpretata da Mosca come la conferma di un accerchiamento in atto da parte della NATO. Sempre in occasione della Conferenza di Monaco, Putin ha precisato che l’esercito russo sta comunque lasciando la Georgia, ed anche prima del tempo stabilito, mentre in Moldavia restano 1.500 militari per condurre operazioni di mantenimento della pace e sorvegliare i depositi di munizioni rimasti dai tempi dell’Unione Sovietica.

In risposta al rifiuto americano di ritirare il progetto sullo scudo europeo, e come già annunciato nel Consiglio NATO-Russia del precedente aprile, il 14 luglio 2007 il Presidente Putin ha deciso di sospendere la propria adesione al Trattato CFE sull’armamento convenzionale in Europa: il decreto di sospensione è stato ratificato dalla Duma ed è entrato in vigore il 30 novembre 2007.

Anche se la decisione russa costituisce una violazione del CFE, che non prevede sospensioni, è soprattutto il significato politico della mossa di Putin che va sottolineato, nel senso di una conferma del rinnovato protagonismo della politica estera russa, consapevole di poter trattare ormai con l’Occidente da una posizione assai più solida di quanto non sia avvenuto nei lunghi anni della transizione e dell’incertezza, dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Insieme alle reiterate minacce circa la possibilità che strumenti offensivi russi possano tornare ad essere puntati contro città ed obiettivi militari europei, ai primi di giugno del 2007 la Russia ha effettuato un test missilistico con il lancio di una testata intercontinentale. Anche in quell’occasione il presidente russo aveva spiegato che l'operazione era connessa con la decisione unilaterale degli Stati Uniti sullo scudo antimissilistico in Europa centro-orientale e con il mancato rispetto del Trattato per la riduzione e il controllo degli armamenti convenzionali in Europa (CFE): nell’annunciare la riuscita del test di lancio per un nuovo missile balistico intercontinentale (Icbm) a testata nucleare multipla, la Russia aveva in particolare definito “inefficaci” il Trattato sulle forze intermedie (INF) e il Trattato sulle forze convenzionali in Europa (CFE).

Un calo di tensione nei rapporti fra Russia e Stati Uniti si è registrato quando, amargine della riunione dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi del G8 di Heiligendamm (7-8 giugno 2007), il presidente russo ha proposto agli USA una diversa collocazione dello scudo antibalistico, offrendo in particolare una possibile integrazione funzionale con analoghe postazioni russe site in Azerbaigian, e precisamente nella base di Qabala. Bush sulle prime ha definito "interessante" l'offerta russa, ma nella visita effettuata poco dopo a Varsavia ha confermato al Presidente Lech Kaczynski l'intenzione di andare avanti con il progetto originario. La Russia da parte sua ha ribadito l’opportunità di congelare il progetto di scudo antimissile fino a quando non sarà completato l'esame delle alternative proposte da Mosca; in caso contrario le mosse statunitensi avrebbero rischiato, secondo la Russia, di "complicare seriamente" e di "interferire" negli sforzi dell'ONU per risolvere un altro problema centrale: la disputa sul nucleare iraniano.

Analoga proposta di collocare la base per l’installazione dello scudo in un sito alternativo, forse nella Russia meridionale, è stata rilanciata dal Presidente Putin in viaggio negli Stati Uniti il 2 e 3 luglio 2007, registrando tuttavia una forte opposizione del Presidente Bush. I toni dell’incontro, moderati nonostante le forti divergenze, hanno subito una brusca inversione quando, a soli due giorni dal termine della visita di Putin negli Stati Uniti, il primo vicepremier russo, Sergei Ivanov ha rilasciato dichiarazioni minacciose secondo le quali, se le proposte russe sullo scudo europeo non fossero state accolte, la Russia avrebbe potuto rispondere con il dispiegamento di testate nella parte occidentale del Paese, e più precisamente a Kaliningrad.

Dopo la sospensione del CFE annunciata dalla Russia il 14 luglio, il ministero della difesa russo ha proposto di negoziare un nuovo accordo sulle armi convenzionali in Europa, oppure di modernizzare il CFE, poiché, come ha spiegato il generale Ievgeni Buzhinski, capo del dipartimento del ministero della difesa, il  Trattato CFE sarebbe ormai obsoleto e non corrisponderebbe più alle esigenze della situazione attuale.

Per cercare di avvicinare le posizioni di Russia e USA e far scaturire un accordo, sono state effettuate sia consultazioni a livello di esperti sulle componenti dello scudo anti-missile europeo che numerosi incontri tra i responsabili della difesa e degli esteri dei due Paesi. Ma, nonostante gli sforzi negoziali, permangono divergenze profonde sulla funzione dello scudo missilistico  e sui potenziali di collaborazione in questo settore.

Una prima tornata negoziale nell’ottobre 2007 fra il segretario di stato americano Condoleezza Rice e il responsabile della difesa Robert Gates, da un lato, e gli omologhi russi degli esteri Serghei Lavrov e della difesa Anatoli Serdiukov, dall’altro, aveva assunto i toni di un duro scontro e aveva approfondito la distanza tra i due Paesi con reciproche minacce: di uscita dal trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces) sui missili a medio e corto raggio (500-5500 Km) e di assunzione di contromisure da parte di Mosca; di sanzioni all’Iran da parte di Washington. Di più: riguardo all’Iran e alla sua politica nucleare, la Rice si era spinta ad ammonire la Russia su una possibile applicazione del Capitolo VII della Carta dell’ONU, che prevede, oltre alle sanzioni, anche l’uso della forza. Gli USA avevano chiarito inoltre che nessuna sospensione del programma sarebbe stata attuata finché fossero state in corso le trattative e che inoltre sarebbero continuati i contatti con i due Paesi europei interessati.

Colloqui deludenti anche quelli avuti – tra i medesimi soggetti – il 13 dicembre 2007 a Budapest, conclusi con un nulla di fatto dovuto all’arroccamento delle due Parti sulle proprie posizioni.

Ancora a Budapest si è svolto, il 21 febbraio 2008, il successivo round negoziale. Fra i temi affrontati, anche la rinegoziazione dell’accordo START sugli armamenti strategici e del CFE sulle armi convenzionali.

Ultimi sviluppi

In un’atmosfera più positiva si sono svolti a Mosca il 18-19 marzo ulteriori incontri fra i competenti ministri russi e americani. Nonostante il ribadito disaccordo, un clima più disteso ha portato alla ammissione da entrambe le parti dell’importanza di minimizzare le divergenze.

Un’ulteriore, positiva, svolta si è avuta con il Vertice di Soci, sul Mar Nero, tra il Presidente americano Bush e quello russo Putin, entrambi alla fine del loro mandato (6 aprile 2008). Al termine dell’incontro è stata firmata una Dichiarazione congiunta dove, tra l’altro, i due Paesi manifestano la “ferma determinazione a lavorare insieme e con altri Paesi per risolvere i problemi legati alle sfide globali del XXI secolo, passando le relazioni russo-americane dallo stato di rivalità strategica a quello di partnership strategica”.

Sulla questione dello scudo spaziale i due Presidenti hanno espresso il loro interesse a creare un sistema per rispondere alle potenziali minacce missilistiche, nel quale la Russia, gli USA e l'Europa partecipino come partner paritari. Nel ribadire il proprio disaccordo all'installazione dello scudo spaziale USA nell'Europa dell'est, la Russia ha tuttavia apprezzato le misure proposte, perché – se attuate correttamente - potranno tranquillizzare i propri timori.

Fra le garanzie richieste dalla Russia, e ribadite subito dopo la conclusione del Vertice di Soci, quella della presenza costante e permanente degli ufficiali russi nei siti in Polonia e nella Repubblica Ceca e l'uso di mezzi sicuri nel monitoraggio tecnico.

 

Per quanto riguarda la NATO, si ricorda che nella sessione dell’Assemblea parlamentare del 6-9 ottobre 2007, è stata approvata la risoluzione 366 sulla difesa missilistica.

La risoluzione prendeva atto che la proposta americana di installare elementi del suo sistema di difesa antimissile in Polonia e nella Repubblica ceca aveva causato tensioni con la Federazione russa e preoccupazioni circa una possibile diseguale copertura del territorio europeo, così come per una possibile ripresa della corsa al riarmo. Nonostante il riconoscimento del diritto degli Stati membri dell’Alleanza a stipulare accordi bilaterali in materia di difesa, la risoluzione proponeva il coinvolgimento della NATO nel disegno di difesa antimissilistica, che deve riguardare tutto il territorio europeo. La risoluzione chiedeva pertanto agli Stati membri di impegnarsi in un dettagliato studio di fattibilità che, entro il vertice di Bucarest del 2008, potesse dare una risposta sulla costruzione di un’architettura europea di difesa da missili balistici integrabile con quelle già esistenti e con altre future, in modo che si possa garantire l’indivisibilità della sicurezza dell’Alleanza.

Da ultimo, la risoluzione 366 invitava il Governo russo ad approfondire la collaborazione sulla questione nel quadro del Consiglio NATO-Russia.

Il Vertice NATO di Bucarest del 3-4 aprile 2008 ha quindi approvato il sistema di scudo antimissilistico americano. Nel comunicato finale si legge (punto 37) che la proliferazione dei missili balistici costituisce un rischio crescente per le forze dell’Alleanza, il suo territorio e la popolazione; l’Alleanza perciò riconosce il sostanziale contributo alla protezione degli Alleati che verrebbe dato dal previsto spiegamento delle strutture antimissilistiche statunitensi che avranno sede in Europa. Il comunicato aggiunge che si stanno cercando i modi per collegare queste attività alle capacità della NATO nello stesso settore, per assicurare che le installazioni americane possano far parte integrante della futura architettura antimissilistica dell’Alleanza. Il Vertice NATO dà quindi mandato al Consiglio in sessione permanente di studiare le opzioni per un sistema antimissilistico totale, che estenda la sua copertura a tutti i territori Alleati non protetti dallo scudo americano, e di riferire al Summit del 2009.

Alla fine del Vertice di Bucarest si è svolta una sessione del Consiglio NATO-Russia (NRC), questa volta – per la seconda volta dopo la sua istituzione a Roma nel 2002 - a livello di Capi di Stato e governo: il Segretario generale della NATO, Jaap de Hoop Scheffer, presidente del NRC, ha definito la riunione ad altissimo livello “un forte segnale del continuo impegno nello spirito di Roma”. I partecipanti hanno sottolineato le numerose aree di cooperazione, tra le quali appare la difesa contro i missili di teatro.

 

Continuano anche i colloqui tra Russia e Polonia sul progetto di scudo spaziale. Nell’incontro a Mosca del 7 aprile 2008 tra il vice ministro degli esteri polacco Witold Waszcykovski e il suo collega russo Serghei Kisliak è emersa la disponibilità della Polonia a discutere della possibilità di concedere ai russi un accesso limitato ad alcuni elementi del dispositivo anti-missile, escludendo tuttavia l'ipotesi della presenza permanente di ispettori militari russi, come era stato chiesto nel Vertice di Soci.

Anche il governo ceco ha respinto l'ipotesi di una presenza permanente di soldati russi nella base radar a Brdy, proponendo in alternativa un accordo che conceda ispezioni russe e il monitoraggio del radar.

L’attività della Camera

La Camera ha dedicato alla questione dello scudo antimissile alcune sedute di sindacato ispettivo.

In particolare, nella seduta del 12 aprile 2007, il Sottosegretario alla Difesa Verzaschi – in risposta all’interpellanza Deiana n. 2-00452 - ha precisato la posizione dell'Italia che, unitamente ad altri alleati, ha sollecitato l'avvio di una riflessione sulle opportunità di integrazione fra i programmi di cooperazione in materia di difesa antimissile della NATO e degli USA, anche a sostegno delle sollecitazioni provenienti dai due paesi più direttamente interessati, la Repubblica Ceca e la Polonia.

 


La questione del Tibet e la Cina

Origini della vicenda

Il Tibet - come è oggi individuato - ebbe la sua prima sistemazione nel VII secolo d.C., e da allora fino al XIII secolo è stato una delle maggiori potenze dell'Asia. A partire dalle conquiste mongole di Gengis Khan, e ancor più dall'assoggettamento della Cina operato da uno dei suoi successori, Kublai Khan, nel XIII secolo effettivamente il Tibet iniziò a intrattenere un rapporto più stretto con la Cina, senza peraltro rinunciare ad una propria autonomia territoriale. Nel XVIII secolo il rapporto fra le due entità divenne più stretto con interventi delle truppe imperiali cinesi più volte inviate nel Tibet per difenderne l'integrità contro gli attacchi di mongoli o Gorkha. Il Tibet divenne così una sorta di Stato satellite della Cina, ma la progressiva decadenza della dinastia Qing sotto i colpi della colonizzazione occidentale, e soprattutto la rivoluzione democratica cinese del 1911 recisero ogni legame tra Cina e Tibet, e il Dalai Lama esplicitò tale nuova situazione in un apposito proclama.

Tale dichiarazione non è mai stata accettata da parte cinese e i governi che si sono succeduti in Cina, dopo la caduta dell’ultima dinastia imperiale, hanno continuato ad affermare il diritto di sovranità sul Tibet.

Nell’ottobre 1950 il Tibet venne occupato dalle forze armate della Cina comunista: dopo un breve conflitto l’esercito tibetano venne sconfitto e nel maggio 1951 il governo tibetano – a capo del quale dal novembre 1950 era l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso, appena sedicenne - dovette sottoscrivere l’”Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet”. L’accordo, pur riconoscendo uno statuto di autonomia, sanciva la fine dell’indipendenza del Tibet.

Negli anni seguenti l’occupazione cinese del territorio tibetano non si limitò all’azione delle forze militari ma fu sostenuta anche da incentivi ai civili cinesi per trasferirsi in massa nel Tibet dalle regioni confinanti - al punto che oggigiorno il numero dei tibetani nel Tibet è inferiore a quello dei cinesi. Nel frattempo era iniziata la persecuzione del clero buddista e il saccheggio dei monasteri. Per reazione si ebbero già dal 1955 i primi episodi di resistenza armata tibetana: l'anno seguente, tuttavia, i cinesi operarono una spietata repressione, con l'invio di circa 150.000 uomini e bombardamenti a tappeto. È questo il momento del  coinvolgimento degli Stati Uniti, con l'incarico alla CIA di addestrare la resistenza tibetana: proprio con il supporto statunitense venne organizzata nel 1959 una rivolta (10 marzo 1959), che venne repressa dai cinesi duramente. Secondo alcune stime vi furono circa 80.000 morti e 300.000 profughi. Già il 17 marzo 1959 il Dalai Lama dovette espatriare e chiedere asilo politico in India, ove fu stabilito un governo tibetano in esilio, nella città di Dharamsala.

Intanto i cinesi mettevano fine al dominio dei monaci buddisti sul Tibet, arrivando alla distruzione di molti monasteri. Nel settembre 1965 una parte del Tibet storico[23] fu annessa de facto alla Cina divenendone una regione autonoma, ma la maggior parte dei tibetani continuò ad essere insofferente verso la presenza cinese, provocando frequenti disordini.

Sul piano internazionale va ricordata l’approvazione, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di tre risoluzioni, rispettivamente nel 1959, nel 1961 e nel 1965, dalle quali emerge progressivamente la preoccupazione della Comunità internazionale per le vicende del Tibet, nelle quali la violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, unitamente alla soppressione dei caratteri distintivi della cultura e della religione locali, avrebbero condotto a una crescita nelle tensioni internazionali. Pertanto l’Assemblea Generale richiamava solennemente alla cessazione di tutte le pratiche privative dei diritti e delle libertà di cui i tibetani avevano sempre goduto.

 

Nel 1962 la Cina dispiegò l'esercito alla frontiera tibetana con l'India, sfruttando dispute circa la posizione dei confini, sino ad allora indefiniti. L'India rifiutò i negoziati proposti dai cinesi, affermando che le frontiere erano state definite dagli inglesi prima dell'indipendenza indiana. La tensione sfociò in un conflitto quando l'esercito indiano tentò di espellere le truppe cinesi da una posizione contestata. La Cina ne uscì vincente ma, nonostante avesse potuto procedere all'invasione dell'Assam indiano, si ritirò sulle posizioni rivendicate prima del conflitto. Il sostegno sovietico all'India in quell'occasione peggiorò considerevolmente le relazioni tra Cina e URSS.

 

A partire dal 1966 nel clima della rivoluzione culturale, le “guardie rosse” cinesi si abbandonarono in Tibet ad atti vandalici su larga scala contro monasteri e simboli della cultura tibetana, nonché contro i tibetani stessi,dei quali si calcola che circa un milione vennero uccisi. Alla fine del biennio 1966-68 la quasi totalità dei monasteri era stata distrutta. Una qualche forma di sorda resistenza, con scoppi episodici, proseguiva tuttavia nel Tibet: i tumulti etnici del 1988, a seguito dei quali fu imposto il coprifuoco, coincisero con l'inizio di una protesta che percorse tutta la Cina, culminando nel movimento per la democrazia di Piazza Tienanmen nel giugno 1989 a Pechino, anch’esso represso nel sangue. Nell'ottobre 1989 il Dalai Lama ha ricevuto il premio Nobel per la pace e nell'aprile 1991 è stato ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti, in entrambi i casi con grandi proteste del governo di Pechino.

La nuova crisi del 2008

Il 10 marzo 2008, nell'anniversario della rivolta del 1959, vi sono state manifestazioni pacifiche contemporanee sia della diaspora tibetana in India, sia nella stessa regione autonoma del Tibet: tra le iniziative in territorio indiano, si segnala una marcia degli esuli tibetani con l'obiettivo di raggiungere la frontiera sino-indiana, fermata dalla polizia indiana in maniera civile (non va peraltro dimenticato che una delle condizioni per l'ospitalità che l'India accorda da decenni agli esuli tibetani, a cominciare dal Dalai Lama, è l'astensione da attività politiche anticinesi in territorio indiano). Per quanto invece concerne le iniziative nel Tibet, esse sono state perlopiù promosse da religiosi, che il 10 e l'11 marzo hanno inscenato proteste e scioperi della fame nei principali monasteri della capitale tibetana Lhasa, comunque provocando un primo intervento a carattere repressivo della polizia cinese.

A partire dal 12 marzo, tuttavia, le manifestazioni hanno coinvolto anche la popolazione, che si è mobilitata non solo in Tibet ma altresì nelle regioni limitrofe con una significativa presenza di tibetani. Estendendosi, le manifestazioni hanno in parte mutato natura, degenerando anche in scontri violenti con elementi cinesi e in attacchi a proprietà degli stessi. L'intervento della polizia cinese ha allora assunto un profilo assai duro, che ha incluso l'utilizzazione di armi da fuoco e ha provocando diverse vittime.

Parallelamente agli scontri e alla repressione, il governo di Pechino ha messo in rilievo la volontà dei manifestanti di sfruttare l'occasione delle imminenti Olimpiadi in Cina per ricondurre la questione tibetana sulla ribalta internazionale, con esplicite richieste di indipendenza. Al centro di tale disegno vi sarebbe per Pechino lo stesso Dalai Lama, che pure da molti anni ha rinunciato alla richiesta dell'indipendenza ed è sembrato muovere verso una più realistica richiesta di ampia autonomia amministrativa, e soprattutto culturale e religiosa.

Il 14 marzo il governo cinese ha rivolto un ultimatum alla popolazione tibetana in rivolta, scaduto il quale, la polizia ha dato inizio a sistematici rastrellamenti, mentre iniziavano le proteste ufficiali della comunità internazionale, a partire dal governo olandese. Il ministero italiano degli esteri, a sua volta, ha convocato l'ambasciatore cinese alla Farnesina, al quale è stata prospettata la possibilità dell’invio a Pechino della trojka dell’Unione europea.

Le accuse di Pechino al Dalai Lama sono nuovamente risuonate nella sede dell'Assemblea nazionale del popolo, mentre il Dalai Lama ha continuato a marcare la distanza tra le proprie prospettive e quelle dei dimostranti insofferenti rispetto alla strategia non violenta del capo spirituale tibetano.

Nei giorni successivi il contrasto è emerso in maniera ancora più chiara, quando la parte dei tibetani in esilio favorevole all'indipendenza si è pronunciata altresì per il boicottaggio delle Olimpiadi, respinto invece recisamente dal Dalai Lama. In tale contesto, l'atteggiamento delle autorità cinesi si è mostrato sempre più chiuso alle esortazioni internazionali al dialogo.

Particolarmente rilevante è stata poi, la visita a Dharamsala (21 marzo) del presidente della Camera dei rappresentanti statunitense, Nancy Pelosi, la quale ha chiesto l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale per verificare la fondatezza delle accuse cinesi al Dalai Lama di essere l’ispiratore delle rivolte. Ancora una volta la reazione di Pechino è stata assai fredda, considerando le prese di posizione di Nancy Pelosi alla stregua di ingerenze indebite negli affari interni cinesi.

Numerose manifestazioni di protesta in tutto il mondo hanno accompagnato il percorso della fiaccola olimpica dalla Grecia al territorio cinese.

Il 26 marzo il Parlamento europeo ha ospitato il presidente del Parlamento tibetano in esilio Karma Chopel, che ha riferito in ordine alla misura della repressione in corso nel Tibet, confermando altresì le posizioni del Dalai Lama di rifiuto del boicottaggio delle Olimpiadi. Chopel ha anche chiesto l'invio in Tibet di una commissione indipendente. Il presidente dell'Europarlamento Hans-Gert Pöttering ha invitato il Dalai Lama a recarsi a Strasburgo, e ha lanciato l'idea della diserzione perlomeno della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi.

Il 29 marzo i ministri degli esteri dei 27 Paesi membri dell'Unione europea, riuniti in Slovenia, messa da parte la questione del boicottaggio delle Olimpiadi o di parte di esse, sulla quale non vi era unità di vedute, hanno raggiunto un consenso su un forte invito al dialogo tra le parti, ponendo al più presto fine alle violenze. I 27 ministri hanno altresì ventilato la possibilità di inviare a Pechino una missione europea ad alto livello per favorire l'individuazione delle vie di una possibile pacificazione nel Tibet.

Notizie attendibili hanno poi riferito di scontri nella provincia occidentale cinese del Sichuan, nel corso dei quali il 3 aprile la polizia paramilitare, aprendo il fuoco su centinaia di dimostranti e monaci tibetani - anche nella regione è presente una cospicua minoranza tibetana - avrebbe causato la morte di otto persone, impegnate assieme alle altre a chiedere la liberazione di un monaco di 74 anni, arrestato dopo l’irruzione della polizia nel suo monastero.

L'evoluzione dei fatti, e soprattutto l'atteggiamento reciso del governo cinese, hanno progressivamente modificato il fronte delle posizioni internazionali, tanto che l'8 aprile la stessa Casa Bianca ha reso noto che il presidente Bush potrebbe a sua volta non partecipare alla cerimonia delle Olimpiadi a Pechino: il presidente francese Sarkozy, dal canto suo, è sembrato riassumere la posizione già palesata all'inizio della crisi tibetana, condizionando la propria presenza in Cina all'apertura del dialogo di Pechino con il Dalai Lama.

Il 10 aprile il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza unarisoluzione che prevede espressamente il boicottaggio della cerimonia di apertura delle Olimpiadi nel caso in cui le autorità cinesi non abbiano avviato un dialogo costruttivo e in buona fede con il Dalai Lama. La risoluzione chiede inoltre un'indagine aperta e indipendente, sotto l'egida delle Nazioni Unite, in ordine alla repressione dei manifestanti tibetani, richiamando Pechino al rispetto dei valori cui si era impegnata al momento di accettare l'organizzazione dei Giochi. La Cina viene diffidata a non approfittare delle Olimpiadi per operare arresti di dissidenti, giornalisti e attivisti dei diritti umani: viene inoltre richiesto di riaprire il Tibet alla stampa estera e ai diplomatici stranieri, cessando dalle pratiche di censura e blocco dei siti Web.

Nella stessa giornata del 10 aprile il Congresso statunitense ha approvato una risoluzione che chiede alla Cina di aprire un dialogo con il Dalai Lama, e di fermare la repressione contro i tibetani, qualificati come non violenti. La reazione di Pechino è stata di dura indignazione.

A fronte di queste forti prese di posizione, il Comitato olimpico internazionale ha invece evitato ogni riferimento alla situazione tibetana, e ha approvato il mantenimento del progetto iniziale di Pechino di far transitare la torcia olimpica anche nella capitale tibetana Lhasa.

La lunga serie delle repliche cinesi alle accuse internazionali in merito alla situazione nel Tibet ha toccato il massimo livello il 12 aprile, con l'intervento del presidente Hu Jintao: in occasione del Forum asiatico di Boao, Hu Jintao ha ribadito con la massima durezza il concetto che il Tibet è parte integrante della Cina, la cui unità non è in discussione nemmeno nell'anno delle Olimpiadi. Il conflitto con il Dalai Lama e i suoi seguaci non sarebbe secondo Hu Jintao né etnico, né religioso, né tantomeno legato alla dimensione dei diritti umani: si tratterebbe, ha ribadito, solo di un problema di unità nazionale. D'altra parte, Hu Jintao si è detto pronto a incontrare il Dalai Lama, purché egli rinunci alle proprie posizioni separatiste, a incitare alla violenza e a boicottare le Olimpiadi – posizioni, peraltro, che difficilmente si possono in questa fase storica attribuire effettivamente al Dalai Lama, il quale si è pronunciato più volte e di recente in senso diametralmente opposto.

L’attività parlamentare

Il Parlamento italiano, durante la XV Legislatura, si è occupato della questione del Tibet in diverse occasioni, la prima delle quali è stata un’interrogazione a risposta immediata dell’On. D’Elia, svolta presso la Commissione Affari esteri della Camera nella seduta del 19 ottobre 2006, e dedicata alla persecuzione cinese verso i profughi tibetani.

L’Assemblea del Senato, nella seduta pomeridiana del 16 novembre 2006, ha svolto interrogazioni a risposta immediata sui diritti umani in Cina, uno dei principali oggetti delle quali era appunto il mancato rispetto dei diritti dei tibetani.

Successivamente, la Commissione Affari esteri della Camera nella seduta del 1° agosto 2007, ha svolto un’interrogazione a risposta immediata dell’On. D’Elia, dedicata al tema del trasferimento forzato di pastori e nomadi tibetani.

Infine, dopo il divampare della nuova crisi nel Tibet a partire dal 10 marzo 2008, le Commissioni Esteri riunite dei due rami del Parlamento, appositamente convocate (19 marzo 2008), hanno ascoltato comunicazioni del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Tibet, nel corso delle quali il Sottosegretario agli Affari esteri Gianni Vernetti ha svolto una puntuale informazione in merito agli avvenimenti nel Tibet, nonché a quelli che hanno coinvolto i profughi tibetani in India e alle prime reazioni della comunità internazionale. Inoltre, il Sottosegretario Vernetti ha informato le due Commissioni parlamentari sulle diverse iniziative intraprese o previste dal Governo italiano, incluso l’interessamento della dimensione europea nei rapporti con la Cina e le iniziative politiche connesse alla prossima scadenza delle Olimpiadi di Pechino.

 


La tutela dei diritti umani

Le iniziative in ambito ONU

L’organismo delle Nazioni Unite deputato a promuovere la protezione dei diritti umani a livello internazionale curandone il coordinamento con gli altri organi ONU è il Consiglio per i diritti umani[24], che dal 2006 ha sostituito la precedente Commissione.

 L’Italia - presente quasi ininterrottamente, sin dal 1957, nella Commissione per i diritti umani -  il 17 maggio 2007 è stata eletta nel Consiglio per i diritti umani per il triennio 2007-2010. Tra gli argomenti posti al centro dell’azione italiana in seno al Consiglio figurano la promozione della democrazia e dello stato di diritto, l’impegno per l’abolizione della pena di morte nel mondo, la protezione dei diritti dei bambini e delle donne contro fenomeni di violenza e discriminazione, il contrasto a razzismo e xenofobia.  

L’architettura istituzionale del Consiglio è ancora in fase di completamento; da ultimo, nel corso della settima sessione dei suoi lavori (3-28 marzo 2008) si è proceduto all’elezione dei 18 membri del Comitato consultivo[25]che si riunirà per la prima volta a Ginevra dal 4 al 15 agosto 2008. Sebbene il Consiglio per i diritti umani non corrisponda ancora pienamente alle aspettative che ne avevano accompagnato l’istituzione, mirate a creare un organo in grado di pronunciarsi in maniera efficace e tempestiva sulle più gravi violazioni dei diritti umani, tuttavia sul piano istituzionale va segnalata la notevole importanza della “Revisione Universale Periodica” (UPR), un meccanismo in virtù del quale tutti i Paesi dovranno sottoporsi periodicamente a un esame complessivo della situazione dei diritti umani al loro interno.

I temi posti dall’Italia al centro della settima sessione hanno riguardato l’azione contro la pena di morte da portare avanti promuovendo la concreta applicazione a livello mondiale della risoluzione sulla moratoria approvata nel dicembre 2007 (si veda a pag. 100 il capitolo La moratoria sulla pena di morte), nonché, in particolare, il rinnovo del mandato dell'esperto indipendente sulla Somalia.

Sul versante nazionale, il sistema italiano di controllo del rispetto della normativa delle Nazioni Unite in materia di diritti umani si basa principalmente sulla presentazione di rapporti governativi, da parte del Comitato interministeriale dei diritti dell’uomo (CIDU),[26] ai comitati di esperti istituiti nel quadro dei Patti[27] e delle altre convenzioni internazionali adottate in materia.

Nella XV legislatura è stato istituito il Comitato dei Ministri per l'indirizzo e la guida strategica in materia di tutela dei diritti umani[28]al quale, al fine di assicurare la coerenza degli interventi con gli indirizzi fissati dal Governo, è riservata sia l’adozione delle linee programmatiche sia le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività del CIDU e degli altri organismi che svolgono attività istituzionali in materia di diritti umani; il CIDU, in particolare, è tenuto anche a fornire supporto tecnico al Comitato.

L’attività parlamentare

In primo luogo si ricorda che - in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo[29]- è stato disposto lo stanziamento di 1 milione di euro per l’anno 2008 per la promozione e il coordinamento - da parte di un comitato da istituire presso il Ministero degli affari esteri  - di iniziative e manifestazioni per le celebrazioni da svolgere nel quadro delle attività patrocinate dall’ONU[30].

La tutela dei diritti umani è – inoltre - una delle tematiche principali e di costante interesse nei lavori delle Commissioni Esteri di Camera e Senato.

All’interno della Commissione Affari esteri della Camera svolge la propria attività il Comitato permanente per i diritti umani che, istituito in tutte le legislature a partire dalla X, è preposto all'esame delle tematiche generali relative ai diritti umani, con particolare riferimento allo stato della loro tutela a livello internazionale. Il Comitato, inoltre, ha il compito di seguire l'iter dei singoli provvedimenti in materia, svolgendo un lavoro di carattere istruttorio rispetto alle attività della Commissione.

Nella XV legislatura il Comitato - istituito il 17 ottobre 2006 - si è prevalentemente dedicato allo svolgimento dell’indagine conoscitiva sui diritti umani, deliberata dall’Ufficio di presidenza della Commissione esteri il 5 dicembre 2006  e non conclusa per termine anticipato della legislatura.

Le attività conoscitive del Comitato, postosi anche come sede per ricevere testimonianze e denunce di violazione dei diritti umani, hanno avuto inizio il 5 dicembre 2006 con un’audizione dedicata alla situazione dei diritti umani a Cuba nella quale sono intervenuti esponenti del mondo politico e sindacale cubano in esilio e un rappresentante della società civile[31]. Al Governo e al Parlamento italiano è stato chiesto di attivarsi a sostegno della transizione democratica a Cuba.

Nella seduta del 7 marzo 2007il sottosegretario agli affari esteri, Gianni Vernetti, ha illustrato le linee di indirizzo del Governo sul tema della promozione di una cultura della tutela dei diritti umani nel mondo. Pur nella considerazione che i primi mesi di attività del nuovo Consiglio dei diritti umani[32] non hanno ancora evidenziato gli attesi segnali di rinnovamento, è stata sottolineata l’introduzione di innovativi elementi statutari, quali le cosiddette universal periodic review, consistenti nell'obbligo per i paesi membri del Consiglio (47 eletti nella membership delle Nazioni Unite) di sottoporsi a una revisione periodica sui propri standard dei diritti umani e della democrazia. Nell’esporre le linee guida della candidatura italiana a un seggio nel Consiglio dei diritti umani dell’ONU per il triennio 2007-2010, il sottosegretario ha precisato che essa si fonda sia sulla tutela dei diritti umani, sia sulla promozione della democrazia, evidenziando, in tali ambiti, l’importanza dei dialoghi istituzionalizzati in materia di diritti umani tra Unione europea e paesi terzi, quali Cina, Russia e Iran, divenuti strumento tramite il quale l’Ue è in grado - spesso su segnalazione di organizzazioni non governative - di individuare casi specifici di violazione. E’ stato richiamato, altresì, il dialogo avviato dall’Ue con gli Stati Uniti sui profili di tutela dei diritti umani nella lotta al terrorismo. 

Nella seduta del 21 marzo si è svolta l’audizione della signora Aminatu Haidar, dirigente del Collettivo per i diritti umani nel Sahara occidentale,  la quale ha messo al corrente la Commissione del progressivo peggioramento della già grave situazione della popolazione sahrawi (costituita da gruppi tribali) a causa degli ostacoli frapposti dalle autorità marocchine sulle attività dei difensori dei diritti umani. Nella medesima seduta si è svolta anche l’audizione di monsignor Raúl Vera López, dirigente del Centro per i diritti umani Frà Bartolomé de Las Casas che ha informato sulle violazioni dei diritti umani della popolazione indigena nello stato messicano del Chiapas.

Si segnala che sulla situazione dei diritti umani in Messico la Commissione ha approvato, nella seduta del 25 luglio 2007, una risoluzione[33] che impegna il Governo a verificare in seno al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nonché nell'ambito delle scadenze istituzionali del partenariato tra l'Unione europea e il Messico, l'evoluzione della situazione dei diritti umani e del rispetto dei principi dello Stato di diritto nel Paese.

La situazione della «diaspora» internazionale somala è statarappresentata il 17 maggio,mentre nella seduta del 31 maggioè intervenuto il presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani (CIDU) presso il Ministero degli affari esteri, Valentino Simonetti, che nell’illustrare i meccanismi internazionali di tutela dei diritti umani, con particolare riguardo al nuovo Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha sottolineato il carattere sistematico dell’approccio del Consiglio alle questioni di sua competenza. Tale approccio consiste nello stimolare ciascun Paese al progressivo adeguamento della propria situazione agli standard internazionali ed è quindi differente da interventi di tutela dei diritti umani attivate sulla base di ricorsi individuali (tipico, ad esempio, della Corte europea dei diritti dell'uomo). Nella medesima seduta ha avuto luogo l’audizione di un rappresentante della Asociación de Usuarios Campesinos de Arauca (Colombia) che ha denunciato, ancora una volta[34], l’aggravarsi della violazione dei diritti umani nel Paese, risalente agli anni '40 del secolo scorso ma oltremodo accentuatasi con l’ascesa del Presidente Alvaro Uribe, eletto una prima volta nel 2002 e riconfermato per altri quattro anni nel maggio 2006. Alla Colombia è stata dedicata un’ulteriore seduta, il 12 luglio 2007 dedicata all’audizione del senatore Gustavo Petro, rappresentante del Polo democratico alternativo.

Rappresentanti di talune ONG intervenuti nella seduta del 21 giugno 2007hanno esposto la situazione dei diritti umani in Darfur (si veda a pag. 54 il capitoloLa questione del Darfur); il 18 ottobre 2007 rappresentanti dell'ONG Save the children hanno riferito alla Commissione sul programma di educazione ed istruzione in sud Sudan  Riscriviamo il futuro.

Nella seduta dell’11 luglio 2007 il presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)[35], Mauro Palma, ne ha illustrato l’attività.

Esponenti di Amnesty International hanno presentato, il 17 luglio 2007, il rapporto annuale dell’organizzazione, che documenta la situazione dei diritti umani nel corso del 2006 e mette in luce vastità e conseguenze dei conflitti armati, della repressione e delle discriminazioni, nonché la diffusa esposizione delle donne al rischio di violenza e la povertà ed esclusione sociale che colpiscono intere comunità.

La deputata afghana Malalai Joya ha riferito alla Commissione sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan (si veda a pag. 17 il capitoloAfghanistan)nell’audizione del 24 luglio 2007. Cecilia Brighi, consigliere di amministrazione dell'Organizzazione internazionale del lavoro OIL[36], ha riferito  sulla situazione dei diritti umani in Birmania (26 luglio) sottolineando la diffusa presenza di lavoro forzato in quel Paese[37], emblematico di un modello di globalizzazione totalmente sbagliato. Il 25 ottobre 2007 la Commissione esteri ha approvato una risoluzione[38]che impegna il Governo a mantenere elevata l’attenzione della comunità internazionale sulla gravissima situazione birmana attuando in ogni sede internazionale misure atte a isolare il regime militare.

Vladimiro Zagrebelsky, giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) di Strasburgo nella seduta dell’11 ottobre 2007 ne ha illustrato le attività sottolineando anche taluni profili problematici in ordine al suo funzionamento.

La trasgressione delle regole internazionali sui diritti dell'uomo nella Repubblica democratica popolare del Laos è stata oggetto della seduta del 25 ottobre 2007, cui ha partecipato la  signora Vanida Thephsouvanh,Presidente del MLDH-Movimento Lao per i diritti umani.

Le ultime due sedute prima della fine anticipata della legislatura sono state dedicate, rispettivamente, all'audizione di rappresentanti della Campagna internazionale contro le mine antiuomo (30 ottobre 2007) e di esponenti di dell'organizzazione Medici senza frontiere (7 novembre) sulla situazione umanitaria nella regione somala dell'Etiopia dell'Ogaden, dove l’intensificazione degli scontri tra il Governo regolare e i ribelli dell'Ogaden National Liberation Front hareso praticamente impossibile l’accesso ai soccorsi umanitari.

 

Con riguardo alla promozione dei diritti umani e della democrazia nel quadro della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU)[39]e delle iniziative del Consiglio d’Europa, si segnala che l’Assemblea della Camera dei deputati (seduta del 30 ottobre 2007) ha approvato due mozioni: la mozione 1/00225cheimpegna il Governo ad adoperarsi per contribuire a risolvere in tutte le sedi, nazionali e internazionali, i principali deficit democratici che si sostanziano in violazione dei diritti umani rilevati dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa in occasione del primo dibattito annuale sul tema (18 aprile 2007); la mozione 1/00237 che impegna il Governo ad adottare le iniziative di carattere normativo[40] necessarie a dare seguito ai rilievi formulati all’Italia a seguito delle procedure di monitoraggio compiute dagli organi del Consiglio d’Europa.

 

Si rammenta – infine - che l’Assemblea del Senato ha approvato, il 7 febbraio 2007,  la mozione n. 20 per l’istituzione di una Commissione speciale per la tutela e la promozione dei diritti umani. La Commissione si è riunita una sola volta.

 


La moratoria sulla pena di morte

Il 18 dicembre 2007 la 62a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato - con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti - una risoluzione per la moratoria sulla pena di morte[41].

La risoluzione accoglie favorevolmente “le decisioni, adottate da un numero crescente di membri dell’ONU, di applicare una moratoria sulle esecuzioni, in molti casi seguita dall’abolizione della pena di morte", e manifesta preoccupazione per il fatto che la pena capitale continua ad essere applicata in alcuni Paesi.

La moratoria invita i Paesi che prevedono la pena di morte ad assicurare gli standard minimi concordati a livello internazionale “sulle garanzie per i rischi di esecuzione” e a fornire al Segretario Generale delle Nazioni Unite le informazioni relative al  ricorso alla pena capitale e al rispetto delle regole.

La risoluzione, infine, chiede ai Paesi di limitare progressivamente l'uso della pena di morte, anche riducendo il numero di reati per i quali può essere comminata e invita gli Stati che hanno abolito tale pratica “a non reintrodurla”[42].

 

L’approvazione della moratoria costituisce l’esito di un lungo percorso.

Nella sessione del 1994, una risoluzione a favore della moratoria internazionale, presentata dall’Italia, non fu accolta dalla III Commissione dell’Assemblea generale (affari sociali, umanitari e culturali) che la respinse per 8 voti[43].

Nel 1997 la risoluzione[44] per la moratoria in vista della completa abolizione della pena di morte, introdotta dall’Italia e co-presentata da altri 45 Paesi, fu presentata alla Commissione per i diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite (sostituita dal Consiglio per i diritti umani a partire dal maggio 2006); la risoluzione invitava gli Stati che non avevano ancora abolito la pena di morte a prendere in considerazione la sospensione di tutte le esecuzioni. Negli anni successivi e sino al 2005, la Commissione Diritti Umani dell’ONU ha approvato altre risoluzioni che ribadiscono il principio che l’abolizione della pena di morte costituisce un rafforzamento della dignità umana e un progresso dei diritti umani fondamentali.

Nella sessione del 1999 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, fu la stessa Unione europea, che aveva presentato una risoluzione sottoscritta dai 15 Paesi appartenenti all’UE e da altri 57 Stati, a chiederne l’aggiornamento, cioè il rinvio della trattazione; alcuni Paesi, infatti, fra i quali Egitto e Singapore, avevano presentato emendamenti che - se accettati - avrebbero snaturato il significato della risoluzione e, conseguentemente, l’Italia si era trovata isolata rispetto alle posizioni oltranziste assunte da alcuni paesi del Nord Europa.

 

Nel corso della XIV legislatura, in concomitanza con la presidenza italiana dell’Unione europea (secondo semestre 2003), la ripresa dell’iniziativa era stata promossa dalla Camera dei deputati, dove l’Assemblea aveva approvato duemozioni; in tali atti di indirizzo, pur prendendo atto della mancanza di accordo a livello europeo, si sollecitava il Governo a proseguire ogni azione diplomatica e politica utile a far maturare il consenso in favore di una moratoria generalizzata delle esecuzioni capitali.

 

Nella XV legislatura il tema della moratoria sulla pena di morte è apparso fin dall’inizio nel dibattito parlamentare. Già in sede di replica durante la discussione sulla fiducia svolta alla Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri, ha affermato[45] di ritenere “opportuno riprendere l’iniziativa italiana riguardo la moratoria della pena di morte, che è uno dei punti fermi della nostra cultura e della nostra civiltà”.

Il primo impulso alla ripresa dell’iniziativa internazionale si è avuto con l’approvazione all’unanimità, il 27 luglio 2006, da parte dell’Assemblea della Camera di una mozione(1-00016, D’Elia e altri)che impegna il Governo “a presentare alla prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite[46], in consultazione con i partner dell’Unione europea, una proposta di risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali in vista dell’abolizione completa della pena di morte”, nonché ad operare per assicurare alla risoluzione la co-promozione, non vincolante, di Paesi Stati membri dell’Ue e il sostegno di Paesi rappresentativi di tutti i continenti.

Nel dare attuazione al mandato ricevuto dal Parlamento, il Governo ha deciso, tuttavia, di intraprendere un percorso differente, consistente nel presentare, alla a 61a sessione dell’Assemblea generale ONU, una “Dichiarazione di associazione contro la pena di morte” predisposta dall’Unione europea e aperta alla sottoscrizione da parte dei Paesi membri dell’ONU, rimandando la presentazione di una proposta di risoluzione sulla moratoria alla sessione successiva (62a).  La scelta di coinvolgere pienamente gli Stati dell’Unione europea nel percorso che, pur avendo per obiettivo la risoluzione sulla moratoria universale della pena capitale, ne differiva la presentazione a un momento successivo, è stata effettuata dal Governo in considerazione delle resistenze sussistenti in ambito comunitario su tale progetto e responsabili, già in precedenti esperienze, del suo fallimento. Il quadro “non ottimistico” circa la possibilità di successo di una proposta di risoluzione presentata dall'Ue era emerso, inoltre, anche da rapporti predisposti dalle rappresentanze permanenti degli Stati membri dell'Unione Europea presso le Nazioni Unite. In tale contesto, ma anche in considerazione del fatto che erano in costante aumento, nel mondo, i Paesi abolizionisti, l'iniziativa della “Dichiarazione di Associazione” aperta all’adesione  dei Paesi membri dell’ONU era stata giudicata dal Governo lo strumento più adatto da un lato a consolidare il consenso all’interno dell'Unione europea senza impegnarla ancora per la risoluzione, e dall’altro a capitalizzare la massa critica costituita dalla montante onda abolizionista nel mondo. E tale linea strategica è stata considerata dall’esecutivo perfettamente coerente anche con l’obiettivo dell’abolizione della pena di morte, che non solo è una priorità della politica estera italiana, ma anche, e soprattutto, un elemento fondante della politica estera comune[47].

 La “Dichiarazione di associazionesull'abolizione della pena di morte e sull'introduzione di una moratoria delle esecuzioni, sottoscritta-grazie all’intensa azione diplomatica italiana -da 85 Paesi membri delle Nazioni Unite, tra cui tutti gli Stati membri dell’Unione europea, è stata presentata il 19 dicembre 2006 all’Assemblea Generale dell’ONU dalla Presidenza finlandese dell’Ue.

La Commissione Esteri della Camera, ritenendo che il percorso intrapreso dal Governo disattendesse il mandato conferito dalla mozione approvata  a luglio, il  19 ottobre 2006 ha approvato all’unanimità, con il parere contrario del Governo, una risoluzione[48] il cui dispositivo “impegna il Governo a dare tempestiva attuazione alla mozione del 27 luglio presentando all’Assemblea Generale dell’ONU in corso [la 61a] una proposta di risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali in vista dell’abolizione completa della pena di morte; e impegna, altresì, il Governo a operare per assicurare alla risoluzione il sostegno di Paesi rappresentativi di tutti i continenti”.

 

Con l’ingresso dell’Italia, dal 1° gennaio 2007, tra i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (si veda a pag. 110 il capitolo L’Italia e le Nazioni Unite) il Governo si è impegnato ad avviare le procedure formali perché l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite mettesse all’ordine del giorno la questione della moratoria universale delle esecuzioni capitali sulla base del documento presentato a dicembre.

L’opportunità che le Nazioni Unite lavorassero per l’abolizione della pena di morte, nonostante la prevedibile lunghezza del processo dovuta alla mancanza di accordo sul punto tra i 192 Paesi membri, è stata espressa negli stessi giorni dal neo segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon.

 

Nella riunione, tenutasi il 22 gennaio 2007 a Bruxelles, del Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne (CAGRE) dell’Unione Europea, cui ha partecipato il Ministro D’Alema, è stata sollevata la questione dell’impegno italiano sulla moratoria internazionale della pena di morte, al fine di ottenere un’azione congiunta di tutti i membri dell’Unione Europea, e dell’Unione Europea in quanto tale, per rilanciare il dibattito nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.  Sebbene non siano maturate le condizioni per assumere una posizione comune, come auspicato dall’Italia – poste le perplessità non di principio ma sostanzialmente di metodo espresse dalla Gran Bretagna e da alcuni governi dell'Europa dell'est – la condivisa contrarietà alla pena capitale come principio fondamentale di carattere giuridico ed etico ha consentito di ottenere l'impegno, da parte della Presidenza tedesca, di seguire la questione in seno al Palazzo di vetro, consultando la presidenza dell'Assemblea generale al fine di individuare tempi e modi opportuni per riaprire il dibattito sulla moratoria durante la sessione in corso.

 

Anche il Parlamento europeo intervenivaa sostegno della causa della moratoria approvando[49], il 1° febbraio 2007, una risoluzione[50] nella quale si esprime fermo sostegno “all’iniziativa della Camera dei Deputati e del Governo italiano” in ordine alla presentazione di una risoluzione per una moratoria universale in materia di pena di morte e si sollecita la Presidenza tedesca dell’Ue ad attivarsi per garantire che ciò avvenga in tempi brevi e presso l’Assemblea generale ONU in corso.” Il 26 aprile 2007 il Parlamento europeo ha approvato una seconda risoluzione[51] il cui dispositivo invita gli Stati membri a “presentare immediatamente, con la co-sponsorizzazione di Paesi di altri continenti, una risoluzione per una moratoria universale” all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

 

In Italia, il 13 aprile 2007 il Consiglio dei Ministri conferiva al Ministro degli Affari esteri il mandato di avanzare al CAGRE in programma per il 23 aprile la proposta per l’abolizione della pena di morte e la contestuale moratoria, da presentare all’ONU. Come è noto, il successivo CAGRE del 14 maggio, ha affidato all’Italia e alla Presidenza tedesca dell’Ue il mandato formale per la presentazione di una risoluzione sulla moratoria.

La decisione sui tempi di presentazione della proposta di risoluzione - se cioè presentarla alla sessione in corso dell’Assemblea Generale, la 61a, dove da più parti si riteneva sussistessero le condizioni politiche favorevoli al raggiungimento del quorum di 97 voti necessario per la sua approvazione, o se rimandarne la presentazione alla sessione che si sarebbe aperta a New York il 25 settembre 2007 - non era affatto pacifica all’interno dell’Unione europea.

Alla vigilia della partenza del Ministro degli Esteri per la riunione del CAGRE prevista per il 18 giugno 2007 a Lussemburgo e destinata a sciogliere tale nodo, la Commissione Esteri, nella seduta del 14 giugno 2007 ha approvato all’unanimità una risoluzione[52] che, nella parte dispositiva, ancora una volta sollecita il Governo a “procedere con la massima urgenza e senza altri rinvii alla presentazione della risoluzione pro moratoria” all’Assemblea Generale in corso” (61a sessione).

Come è noto, i Ministri degli esteri dell’Unione Europea il 18 giugno hanno deciso che l’UE avrebbe presentato, “nell’ambito di un’alleanza interregionale, una risoluzione contro la pena di mortealla 62a Assemblea Generale delle Nazioni Unite[53].

L’assunzione dell’impegno formale da parte dell’Unione europea di presentare una proposta di risoluzione per una moratoria internazionale sulla pena di morte rappresenta il compromesso tra la posizione del Governo italiano da un lato, impegnato a far rispettare il mandato ricevuto - e a più riprese ribadito - dal Parlamento; e quella, dall’altro, degli altri Paesi membri dell’Ue, che, sotto la guida della Presidenza tedesca,eranoorientati a proporre al CAGRE del 18 giugno non solo la posposizione della presentazione della risoluzione alla successiva sessione dell’Assemblea Generale, ma anche, con riferimento al dispositivo della proposta di risoluzione, ad affidare la redazione del testo a un gruppo da costituire appositamente. Il punto di equilibrio è stato raggiunto anche conquistando l’appoggio di Francia, Spagna e Germania alla linea dell’Italia, il cui successo diplomatico è stato reso possibile - ha affermato il Ministro degli Esteri, D’Alema  - anche dall’impegno profuso dalla società civile[54].

 

Sul delicato tema del dispositivo della proposta di risoluzione il testo definito in ambito Ue ricalcava sostanzialmente quello della “Dichiarazione di Associazione” presentata all’ONU il 19 dicembre 2006, ed era incentrato sulla moratoria delle pene capitali nella prospettiva dell’abolizione della pena di morte. Non era stato adottato, quindi, un testo connotato in senso più abolizionista, come chiesto da alcuni Paesi europei favorevoli a una formulazione che indicasse la moratoria come mera fase di passaggio. Una formulazione abolizionista, infatti, sarebbe stata meno condivisa in seno all’Assemblea Generale, e pertanto inidonea a conseguire la maggioranza assoluta necessaria per l’approvazione della risoluzione; non l’avrebbero potuta sostenere i non pochi Paesi che, pur contemplando la pena di morte nei rispettivi ordinamenti, attuano una moratoria de facto[55].  

 

L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, riunita a Strasburgo il 26 giugno 2007 ha approvato all’unanimità la mozione di sostegno alla moratoria sulla pena di morte presentata dalla delegazione italiana.

 

Anche il Parlamento europeo ribadiva alla Presidenza portoghese dell’Ue e agli Stati membri che “il principale contenuto politico della risoluzione doveva essere l’adozione di una moratoria universale quale passo cruciale verso l’abolizione della pena di morte” nel dispositivo della terza risoluzione[56] approvata in otto mesi (27 settembre 2007) sul tema della moratoria.

 

Una serie di tensioni non risolte sia in seno all’Ue, dove alcuni Paesi (Belgio e Olanda) intendevano comunque battersi per un testo apertamente abolizionista delle esecuzioni capitali, sia in ambito extra-europeo, con Nuova Zelanda, Brasile, Filippine e Messico fattisi promotori di modifiche in senso contrario, e quindi volte a mettere in secondo piano l’obiettivo di una completa abolizione della pena di morte, hanno minacciato di far saltare tutto all’ultimo momento. A pochi giorni dallo scadere del termine - 1° novembre 2007 - per la presentazione della proposta di risoluzione presso la III Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite[57], infatti, non esisteva ancora un testo condiviso. Solo dopo una concentratissima serie di incontri bilaterali, che ha visto tra i protagonisti il Ministro italiano per il commercio internazionale e le politiche europee, Emma Bonino, si è pervenuti, finalmente, all’accordo su un testo nel quale l’accento è posto sulla moratoria.

 

La proposta di risoluzione, costituita da sei paragrafi di preambolo e cinque prese di posizione, è stata formalmente depositata presso la III Commissione da Nuova Zelanda e Brasile a nome di 72 Paesi co-sponsor, tra i quali l’Italia e tutti i Paesi dell’Ue, diventati in seguito 87. Dopo due giorni di discussione, la proposta di risoluzione è stata approvata dalla Commissione, senza emendamenti[58], il 15 novembre, con 99 voti a favore, 52 contrari e 33 astenuti (era richiesta la maggioranza semplice).

 

Il 18 dicembre 2007 l’Assemblea generale, a sua volta, ha approvato la risoluzione che chiede una moratoria sulla pena di morte con 104 voti favorevoli, 54 contrari e 29 astenuti. Tra i contrari, con Cina e gli Stati Uniti – questi ultimi, tuttavia, hanno comunque mantenuto un basso profilo durante la discussione – numerosi Paesi arabi, caraibici e asiatici. Tra i favorevoli, molti Paesi latinoamericani, africani (tra cui il Ruanda), la Russia e le repubbliche centro-asiatiche ex satelliti dell’Urss[59].

 

Un primo bilancio sul reale impatto della moratoria e sulla sua applicazione potrà essere fatto già a fine 2008, quando il Segretario generale dell’Onu riferirà in merito nel corso della 63a sessione dell’Assemblea Generale, in ossequio al mandato conferitogli dalla moratoria stessa[60].

L’attività parlamentare

Un’intensa attività parlamentare ha orientato, accompagnato e sottolineato il complesso percorso di formazione della moratoria sulla pena di morte.

Come già accennato, nella seduta del 27 luglio 2006l’Assemblea della Camera ha approvato all’unanimità la mozione 1/00016 (D’Elia e altri) sulle iniziative per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, accolta dal Governo e finalizzata, come sottolineato in  sede di illustrazione, a “portare a compimento l’iniziativa italiana per la moratoria ONU delle esecuzioni capitali promossa dodici anni fa dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Il dispositivo impegna il Governo a presentare alla 61a Assemblea generale delle Nazioni Unite, in consultazione con i partner dell’Unione europea, una proposta di risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali in vista dell’abolizione completa della pena di morte, nonché ad operare per convincere i Paesi membri dell’Ue a farsi co-promotori della risoluzione e a conquistare alla risoluzione medesima il sostegno di Paesi rappresentativi di tutti i continenti. I riferimenti alla consultazione e al coinvolgimento di Paesi dell’Ue nella proposta e nella promozione della risoluzione presso le Nazioni Unite sono stati inseriti nel corso del dibattito su proposta del rappresentante del Governo. La riformulazione del testo che ne è conseguita è stata accolta dai presentatori dell’atto di indirizzo nel presupposto che l’esito della consultazione con i partner comunitari non fosse vincolante rispetto alla decisione del Governo italiano di portare, comunque, in Assemblea generale ONU la proposta di risoluzione.

 

Il secondo atto di indirizzo cui si è già fatto cenno è la risoluzione conclusiva di dibattito in Commissione 8/00018[61]D’Elia ed altri, sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali approvata all’unanimità, con il parere contrario del Governo, dalla Commissione Esteri nella seduta del 19 ottobre 2006. In sede di illustrazione, il primo firmatario ha affermato che il Governo[62], “dando sostegno alla proposta francese favorevole alla presentazione presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di una dichiarazione di associazione finalizzata alla presentazione di una proposta di risoluzione non prima della 62a Assemblea Generale”, aveva disatteso il dispositivo della mozione del 27 luglio 2006[63]. L’oratore rilevava, inoltre, che dal minor peso politico della dichiarazione  - non sottoposta, a differenza della mozione, al voto dell’Assemblea Generale - sarebbe derivato il differimento della questione della moratoria. Veniva, pertanto, respinta la proposta del Governo di riformulare la parte dispositiva dell’atto di indirizzo nel senso di intendere la “Dichiarazione di Associazione” come passo preliminare alla presentazione di una risoluzione concertata con i partner europei alla 62a Assemblea Generale, e da ciò il parere contrario del Governo. Il voto unanime della Commissione confermava, quindi, il dispositivo della risoluzione originaria, che impegna il Governo a dare tempestiva e piena attuazione alla mozione approvata dalla Camera il 27 luglio 2006. 

Nella seduta del 7 febbraio 2007[64] il rappresentante del Governo ha indicato come primo risultato dell’azione che vede l’esecutivo impegnato nell’attuazione della mozione del 27 luglio 2006 la presentazione alla 61a sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu, avvenuta il 19 dicembre 2006, della “Dichiarazione di Associazione” sulla moratoria e abolizione della pena di morte. Il documento, aperto alla sottoscrizione da parte dei Paesi membri, è stato sottoscritto da 85 Stati, tra i quali tutti i 27 Stati membri dell’Unione europea. Il rappresentante del Governo ha quindi anticipato che il rilancio dell’iniziativa comunitaria si sarebbe orientato sia nella direzione dell’ampliamento delle adesioni alla Dichiarazione attraverso una nuova campagna di sensibilizzazione, sia verso l’apertura del dibattito sulla moratoria in seno all’Assemblea Generale dell’ONU[65]. Nel corso del dibattito è stata sottolineata, altresì, la necessità di un’azione diplomatica capace di trasformare i firmatari[66] della “Dichiarazione di associazione” in co-sponsor dell’iniziativa, nonché di valorizzare le potenzialità delle diplomazie parlamentari[67].

 

Gli “elementi di novità” della duplice azione preannunciata dal Governo sono stati riferiti alla Commissione nel corso dell’audizione svoltasi nella seduta del 4 aprile 2007: le adesioni alla “Dichiarazione di Associazione” destinata a essere trasformata nella risoluzione da presentare alla ripresa del dibattito presso l’Assemblea generale ONU erano salite a 89, risultato giudicato “ampio ma non ancora soddisfacente”; l’azione italiana nell’ambito del Consiglio dei ministri Ue, dove il tema della moratoria era stato posto all’attenzione, aveva portato alla costituzione di una  task force “pena di morte” di cui fanno parte, con l’Italia, i Paesi comunitari più attivi. Pur riconoscendo che l’azione svolta fino a quel momento potesse risultare “ancora non soddisfacente”, il rappresentante del Governo ha affermato non potersi sostenere essere stati disattesi gli impegni posti dal Parlamento, ribadendo, altresì, l’impegno dell’esecutivo a proseguire nella direzione intrapresa.

 

Nella seduta del 6 giugno 2007 il rappresentante del Governo ha riferito alla Commissione la decisione assunta dal CAGRE del 14 maggio di affidare all’Italia e alla presidenza tedesca dell’Ue il mandato formale per la presentazione di una risoluzione sulla moratoria. In quella stessa circostanza è stato precisato che la bozza di risoluzione - sostanzialmente la traduzione della “Dichiarazione di Associazione”[68] presentata all’Assemblea Generale il 19 dicembre - era  già  stata inviata a nove Paesi[69] ritenuti potenziali co-presentatoriNel corso del dibattito il rappresentante del Governo ha sottolineato gli effetti positivi, per l’acquisizione di un consenso sempre più ampio sulla moratoria, degli incontri e dei contatti bilaterali promossi nell’ambito della campagna che ha condotto all’elezione dell’Italia nel Consiglio dei diritti umani per il triennio 2007-2010 (si veda a pag. 94 il capitolo La tutela dei diritti umani),incontri che, a giudizio di taluni parlamentari, avrebbero invece depotenziato la parallela campagna per la moratoria.

 

Nella seduta del 14 giugno 2007 la Commissione Esteri ha approvato all’unanimità, e con la rimessione del Governo, per il parere, alla Commissione, la risoluzione in Commissione 7/00209. Il dispositivo, seppur formulato in termini di invito, richiama il mandato già conferito dai precedenti atti di indirizzo e invita il Governo a “procedere con la massima urgenza e senza altri rinvii alla presentazione della risoluzione pro moratoria” all’Assemblea Generale in corso” (61a sessione).

 

L’ultimo momento di confronto tra Governo e Parlamento sulla vicenda della moratoria si è avuto con le comunicazioni rese alle Commissioni Riunite III Camera e 3a Senato nella seduta dell’11 settembre 2007. Il rappresentante del Governo ha rivendicato la coerenza e la funzionalità della linea scelta sin dall’inizio per costruire il consenso sulla moratoria in tutti e 5 i continenti e che partiva dalla “massa critica” rappresentata dai 27 Paesi dell’Ue titolari, tutti insieme, di una forte iniziativa politica internazionale. Ciò ha collocato la moratoria sulla pena di morte “in un solco europeo” senza, peraltro, ledere “il forte protagonismo italiano sull’iniziativa”. La moratoria, inoltre, era stata messa al riparo dal rischio di fallimento già sperimentato in passato, quando astensione, disimpegno o motivata posizione contraria erano stati assunti da taluni Paesi dell’Ue proprio in conseguenza di una “mancata solidarietà europea.

 

Si rammenta che nel corso della XV legislatura è stata approvata la legge costituzionale 2 ottobre 2007, n. 1 (Modifica dell’articolo 27 della Costituzione, concernente l’abolizione della pena di morte), che ha adeguato la Costituzione all’abolizione della pena di morte, già disposta nella legislazione ordinaria dalla legge 13 ottobre 1994, n. 589[70] (si veda a pag. 100 il capitolo La moratoria sulla pena di morte).


L’Italia e le Nazioni Unite

L’Italia nel processo di riforma delle Nazioni Unite.

La riforma dell’Onue delle sue principali attività al fine di migliorarne il funzionamento e aumentarne l’efficacia d’azione - processo intrapreso a più livelli e in diverse sedi - è stata, come è noto, fortemente rilanciata dal Vertice ONU del 2005 (si veda a pag. 274 la scheda La riforma delle Nazioni Unite). Al termine del World Summit svoltosi nel settembre di quell’anno a margine della 60a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, infatti, venne rilasciato un documento (Outcome Document) nel quale si indicava l’obiettivo di rafforzare l’autorità e l’efficienza dell’Onu, ossia di riformare l’Organizzazione per metterla in condizione di affrontare effettivamente le sfide attuali. Per quanto riguarda i due principali organi delle Nazioni Unite, l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza, l’Outcome Document si limita a fornire alcune indicazioni di carattere generale.

 

Il documento ribadisce la centralità dell’Assemblea generale, principale organo deliberativo, politico e rappresentativo dell’ONU. Nell’esprimere consenso con le misure adottate nel tempo e volte a rafforzare il ruolo e l’autorità del Presidente dell’Assemblea, si auspica un’intensificazione delle relazioni dell’Assemblea con gli altri organi delle Nazioni Unite al fine di garantire un coordinamento sulle questioni che richiedono un intervento concertato.

L’Italia ha in più occasioni ribadito di condividere l’obiettivo di restituire all’Assemblea Generale il ruolo di centro di impulso politico delle Nazioni Unite, che le viene assegnato dalla Carta societaria[71], nonché quello di migliorare il coordinamento con gli altri organi dell’ONU. 

 

Al Consiglio di sicurezza l’Outcome Document riconosce la primaria responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza, e sostiene l’opportunità di una riforma complessiva che lo renda maggiormente rappresentativo, più efficiente e più trasparente. Si raccomanda, inoltre, l’adozione di metodi di lavoro che consentano di coinvolgere gli Stati non membri del Consiglio[72]. Va segnalato, in proposito, che nell’ultima seduta della 61a Sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, tenutasi il 17 settembre 2007, è sembrata prevalere la tesi enunciata un anno prima dal Presidente del Consiglio italiano, Prodi e dal Capo dello Stato pakistano, Musharraf, secondo la quale non si deve procedere in tempi brevi ad un allargamento del Consiglio di Sicurezza, quanto piuttosto ad un rilancio del negoziato, senza precondizioni, per un accordo generale sulla materia.

La posizione italiana in materia di riforma del Consiglio di sicurezza, infatti, si è sempre caratterizzata per la ferma contrarietà ad ogni ipotesi di allargamento che comporti l'aumento del numero dei membri permanenti, in quanto esso non è ritenuto dal nostro Paese utile ad accrescere l'efficacia dell'azione del Consiglio né tanto meno  la sua rappresentatività. L’Italia ritiene, al contrario, che l’aumento dei membri permanenti rafforzerebbe il carattere gerarchico del Consiglio di Sicurezza con la conseguenza che i poteri decisionali - primo fra tutti la legittimazione dell'uso della forza – resterebbe nelle mani di un numero assai limitato di Stati, perpetuando in tal modo assetti non più rispondenti alla complessità e all'articolazione dell'attuale situazione delle relazioni internazionali. L’Italia ha quindi sempre sostenuto riforme centrate sulla periodica elezione dei nuovi membri del Consiglio, unico strumento per assicurare una loro effettiva responsabilizzazione nei confronti della membership, anche nella consapevolezza della necessità di garantire presenze prolungate in Consiglio ai Paesi con maggiori strumenti per contribuire alla pace e alla sicurezza. L’Italia, inoltre[73], ha da sempre sostenuto la necessità di raggiungere consensi molto ampi per riforme di portata costituzionale, come quella del Consiglio di Sicurezza, che dovrebbero essere approvate con maggioranze larghissime.

Dal primo gennaio 2007[74], e per tutto il biennio 2007-2008, l'Italia è membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, di cui ha assunto la presidenza di turno –caricache ruota di mese in mese secondo l'ordine alfabetico – per il mese di dicembre 2007[75].

 

Durante la prima parte del mandato, che scadrà il 31 dicembre 2008, l’Italia ha confermato il proprio impegno nelle operazioni di pace dell’ONU. Il Paese, che con la partecipazione a UNIFIL[76] (si veda a pag. 259 la scheda Sviluppi recenti)  è tornato a essere tra i principali contributori di Caschi Blu – il primo fra i Paesi occidentali – si è posto, altresì, tra gli attori primari nella trattazione delle questioni medio-orientali in Consiglio di Sicurezza.

L’Italia, ha contribuito a negoziare alcune importanti risoluzioni: la 1747 del 24 marzo, che stabilisce nuove sanzioni contro l’Iran in materia di non proliferazione di armi di distruzione di massa (si veda a pag. 42 il capitolo Iran); la 1757 del 30 maggio, che istituisce il Tribunale Speciale per il Libano (risoluzione che l’Italia ha anche cosponsorizzato); la 1773 del 24 agosto (risoluzione della quale l’Italia è stata coautore insieme alla Francia) che ha rinnovato il mandato di UNIFIL.

Oltre ai temi Mediorientali, l’Italia svolge un ruolo di punta sulla questione dell’Afghanistan (si veda a pag. 17 il capitolo Afghanistan), anche nella veste di Paese coordinatore del dossier in Consiglio di Sicurezza; l’Italia ha  preparato e negoziato con tutte le parti interessate la risoluzione 1746 del 23 marzo che ha rinnovato il mandato della missione ONU in Afghanistan, UNAMA[77],  ottenendo che venisse data una sempre maggiore enfasi agli aspetti politico-civili e di ricostruzione istituzionale del Paese, rispetto a quelli più strettamente di sicurezza[78]. L’Italia ha inoltre contribuito alla preparazione della risoluzione per il rinnovo del  mandato di ISAF[79]. (Per un approfondimento sulle missioni Onu cui partecipa personale italiano si veda la scheda Le missioni internazionali, nel Dossier del Dipartimento Difesa).

Un’altra area oggetto dell’impegno italiano in Consiglio di Sicurezza è rappresentata dal continente africano, dove si  concentrano ben sette missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite[80]. Tra le crisi seguite con la maggiore attenzione vi è il Sudan riguardo al quale l'Italia presiede il relativo comitato Sanzioni del Consiglio; su tale area di crisi a fine luglio si è registrato un importante progresso con l'approvazione della risoluzione 1769 che ha dato vita alla forza ibrida Unione Africana - Nazioni Unite (26 mila unità) per contribuire alla sicurezza del Darfur (si veda a pag. 54 il capitoloLa questione del Darfur).

 

L’Italia è stata, inoltre, Presidente del Comitato Sanzioni contro la Corea del Nord.

 

Si rammenta che il 17 maggio 2007 l’Italia è stata eletta nel Consiglio per i diritti umani - l’organismo Onu che ha sostituito la precedente Commissione di Ginevra - per il triennio 2007-2010 (si veda a pag. 94 il capitolo La tutela dei diritti umani).

 

Il World Summit del 2005 ha deciso, inoltre, l’istituzione di un altro organismo,  la Commissione per il peacebuilding, PBC. L’Outcome document sottolinea, infatti, l’importanza del peacebuilding per i Paesi che emergono da situazioni di conflitto e necessitano di complessi interventi di ricostruzione di carattere istituzionale ed economico, e propone quindi l’istituzione di un’apposita Commissioneavente la natura di organo intergovernativo consultivo, sussidiario del Consiglio di Sicurezza. La Commissione ha il compito di riunire tutti gli attori rilevanti per la mobilitazione delle risorse e per la definizione di strategie complessive per il peacebuilding e il ripristino delle condizioni di normalità dopo un conflitto, con particolare attenzione alla ricostruzione, al rafforzamento delle istituzioni ed all’elaborazione di strategie per uno sviluppo sostenibile.

La Commissione per il peacebuilding si convoca in varie configurazioni ed è costituita da un Comitato organizzativo e da Comitati che rappresentano specifici Paesi. Dei 31 membri che formano il Comitato organizzativo, sette provengono dal Consiglio di Sicurezza, sette dal Consiglio economico e sociale (ECOSOC), cinque, tra cui l’Italia – con Germania, Giappone, Olanda e Norvegia - dai primi dieci contributori al bilancio ONU[81], cinque dai dieci paesi che maggiormente contribuiscono alle missioni ONU dal punto di vista militare; vi sono, infine, sette membri addizionali – eletti dall’Assemblea Generale - la cui provenienza serve a bilanciare gli eventuali squilibri geografici.

La Commissione, che si è riunita per la prima volta il 23 giugno 2006, ha finora preso in esame Burundi, Sierra Leone e Guinea-Bissau.

A seguito della presentazione del rapporto del Segretario generale[82] l’Assemblea generale ha adottato l’8 settembre 2006, senza procedere al voto, un documento[83] sull’istituzione del Fondo per il Peacebuilding, finalizzato all’erogazione immediata di risorse da destinarsi al sostegno degli interventi cruciali nei processi di peacebuilding. La gestione del Fondo sarà affidata all’UNDP (United Nations Development Programme) ma – sempre in base al Rapporto del Segretario generale – anche l’Assemblea Generale e la Commissione per il Peacebuilding avranno un ruolo nell’organizzazione dell’amministrazione.

L’attività parlamentare

Le Camere seguono tradizionalmente con grande attenzione le vicende relative alle Nazioni Unite. Un’importante opportunità di conoscenza e di approfondimento della realtà dell’Organizzazione è rappresentata dalla partecipazione di una delegazione delle Commissioni Affari esteri delle due Camere all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha luogo di norma nel mese di settembre di ogni anno, a New York. In tale occasione, oltre ad assistere alla discussione dell’Assemblea generale, presso la quale intervengono i Capi di Stato e di Governo o i Ministri degli Esteri dei diversi Paesi, i parlamentari hanno la possibilità di incontrare i responsabili dei vari settori di attività dell’Organizzazione e di affrontare insieme a loro le principali problematiche internazionali.

Nel corso della XV legislatura ledelegazioni parlamentari hanno partecipato ai lavori del segmento ministeriale della 61a sessione dell’Assemblea generale (18-22 settembre 2006) e della 62a sessione  (24-29 settembre 2007).

 

Nell’Assemblea generale del settembre 2006 (61a sessione) la delegazione parlamentare a New York ha partecipato alla messa a fuoco di taluni tra i temi principali in discussione vertenti, in particolare, sulla situazione in Medio Oriente, sulla questione nucleare iraniana nonché sulla riforma del Consiglio di sicurezza[84].

 

I dibattiti svolti nel corso dell’Assemblea generale del settembre 2007 (62a sessione) si sono incentrati, principalmente, sugli effetti dispiegati dai  cambiamenti climatici sugli equilibri internazionali, sul finanziamento per lo sviluppo nonché sull'implementazione della strategia globale di lotta contro il terrorismo.

 

Con riguardo all’attività svolta nella sede parlamentare, pochi mesi prima dell’elezione (16 ottobre 2006) dell’Italia a membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’Assemblea della Camera dei deputati ha approvato[85] una mozione[86] che, nella parte dispositiva, impegna il Governo a portare avanti un'azione di rafforzamento delle organizzazioni internazionali, a partire dall'Onu, “insostituibili sedi multilaterali di confronto, nonché a promuovere iniziative volte a costituire un contingente militare di pronto intervento per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, alle dirette dipendenze della Segreteria generale delle Nazioni Unite”.

 

Il tema della riforma delle Nazioni Unite è stato oggetto di un’audizione svolta presso la III Commissione (seduta del 28 luglio 2006). Con riferimento alla riforma del Consiglio di sicurezza, il rappresentante del Governo ha sottolineato l’impegno a favore di un ruolo più incisivo dell’Unione europea in Consiglio di sicurezza, volto all’istituzione, seppure in prospettiva non immediata, di un seggio unico per l’Europa.

 

Nella seduta del 28 novembre 2006 la Commissione esteri ha approvato una risoluzione[87]che impegna il Governo a valorizzare in senso europeo il biennio di permanenza dell’Italia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il Governo è, pertanto, invitato a rafforzare il coordinamento e la concertazione comunitaria sui dossier all'esame del Consiglio di Sicurezza, nonché a sfruttare le possibilità offerte dagli attuali trattati comunitari per incoraggiare, in prospettiva, la realizzazione di un seggio europeo. Il Governo è altresì impegnato a contribuire al miglioramento dei meccanismi consultivi europei[88] al fine di coinvolgere nei processi decisionali del Consiglio di Sicurezza anche i Paesi comunitari che non ne sono membri, nonché a favorire la concertazione tra i membri Ue che siedono in Consiglio. Infine, il Governo deve operare per favorire la partecipazione, alle riunioni formali del Consiglio di sicurezza, di rappresentanti della Presidenza di turno dell'Unione e del Segretario generale del Consiglio - a seconda della rilevanza della materia trattata per la politica estera dell'Unione.

 

La XV legislatura ha registrato incontri della Commissione con i massimi esponenti delle Nazioni Unite.

Il 27 febbraio 2007 il Presidente della 61a Assemblea generale delle Nazioni Unite, Haya Al Khalifa, ha incontrato l’Ufficio di Presidenza della Commissione Affari esteri della Camera, integrato dai rappresentanti dei Gruppi.

Il 18 aprile 2007 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, in visita ufficiale in Italia, ha incontrato le Commissioni Affari esteri della Camera e del Senato riunite, soffermandosi, nell’occasione, sulla necessità di rafforzare le Nazioni Unite e di realizzare tale risultato mediante la ricerca del consenso. Il Segretario Generale si è dichiarato favorevole alla proposta italiana per una moratoria sulla pena di morte e ha anche osservato come vada crescendo nella comunità mondiale la tendenza a procedere all’abolizione delle pene capitali.

 

Con riguardo al finanziamento delle Nazioni Unite, costituito da contributi obbligatori e contributi volontari, si rammenta che i contributi obbligatori annuali corrisposti dai Paesi membri sono versati a budget indipendenti  (budget ordinario, per le operazioni di peacekeeping, per i tribunali dell’Onu e per le istituzioni specializzate).

 

 Il budget ordinario - approvato dall’Assemblea generale ogni biennio - per il 2006-2007 ammonta a 4,1 miliardi di dollari(cioè 2,05 miliardi per ciascuno dei due anni); il contributo dell’Italia, nel 2007, è stato di 102 milioni di dollari,  pari a circa il 5 per cento del bilancio complessivo riferito a quell’anno, come stabilito dall’Assemblea generale[89].

Il bilancio per le operazioni di mantenimento della pace, per il periodo in corso (1° luglio 2007-30 giugno 2008) si aggira attorno a 5,2 miliardi di dollari mentre il budget per i Tribunali dell’ONU (Tribunali internazionali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e in Ruanda) per il 2007 è stimato a 316 miliardi di dollari.

 

Con riferimento alle norme, si rammenta che la legge 19 dicembre 2007, n. 256 dispone l’erogazione di un contributo straordinario pari a 500.000 euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 in favore dello Staff College di Torino[90].

 

Si segnala infine che, nel corso della XV legislatura, la 3° Commissione Affari esteri ed emigrazione del Senato ha deliberato (seduta del 5 luglio 2006) lo svolgimento di un’indagine conoscitiva sulle prospettive di riforma delle Nazioni Unite. La Commissione ha dedicato otto sedute a tale indagine che non è stata conclusa per la fine anticipata della legislatura.

 


L’Alleanza atlantica

La XV legislatura ha coinciso con un biennio particolarmente delicato della lunga transizione iniziata - per l’Alleanza atlantica – con la caduta del muro di Berlino e che auspicabilmente dovrebbe concludersi con il vertice del 2009 (il vertice del sessantesimo anniversario). Il processo di ripensamento delle finalità strategiche dell’Alleanza è comunque ancora in pieno corso e – a tutt’oggi – non sembra scontato che l’Alleanza sarà in grado di cogliere le opportunità offerte sul piano simbolico dalla scadenza del 2009. 
Mentre appaiono legittimi i dubbi sulla capacità dell’Alleanza di presentare al mondo – entro la data del 2009 - un risultato credibile e consolidato del suo processo di transizione, l’elemento di maggiore novità della fase più recente è il nuovo atteggiamento verso l’Alleanza assunto dalla Francia di Sarkozy.

Il vertice di Riga e la mancata approvazione del nuovo concetto strategico

Il 28 e 29 novembre 2006 – quindi in coincidenza con la fase iniziale della legislatura - si è svolto a Riga il vertice della NATO[91], incentrato essenzialmente sui nuovi assetti strategici dell’alleanza, sulle prospettive di allargamento e sulla missione in Afghanistan.
In quella occasione si è delineata un'Alleanza atlantica proiettata verso un rafforzamento della sua presenza in Afghanistan (in questo senso, soprattutto, le pressioni americane), pronta ad allargarsi ancora nei Balcani - e, in prospettiva, dentro i confini dell'ex impero sovietico - e più duttile nelle capacità di reazione alle minacce del XXI Secolo, in primo luogo il terrorismo.
In Afghanistan, già nel vertice di Riga sono emerse le resistenze di alcuni importanti Paesi, come Germania, Spagna e Italia (e allora anche Francia[92]) ad un maggiore impegno su un teatro estremamente pericoloso. Il segretario generale dell'Alleanza atlantica Jaap de Hoop Scheffer valutava – durante il vertice - che solo 26.000 dei 32.000 uomini allora presenti in territorio afghano fossero effettivamente utilizzabili in combattimento dai comandanti militari (si trattava, allora, come ora, soprattutto di truppe USA, britanniche, canadesi e olandesi).
Sul fronte dell’allargamento, il vertice ha indicato una prospettiva di adesione, a partire dal 2008, fissando a quella data la formulazione degli inviti ufficiali a tre Paesi dei Balcani: Croazia, Albania e Macedonia. Inoltre a Riga fu prefigurato un passo verso l'adesione - con la partecipazione al programma Partnership for Peace - di altri tre Paesi balcanici, Serbia, Montenegro e Bosnia.

Da segnalare anche che all’esito del vertice è stata dichiarata la piena capacità operativa ('Full operability') della Forza di reazione rapida (NATO Response Force, Nrf), una forza di 25.000 uomini tecnologicamente avanzata e schierabile in 5-30 giorni in qualsiasi angolo della Terra.

Il vertice di Riga non ha approvato – come pure era stato ipotizzato – un nuovo “concetto strategico”. Tale esito sembrava invece essere insito negli sviluppi internazionali degli ultimi anni (in particolare gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti nel 2001 e la risposta a tali attacchi). Tale esigenza era infatti emersa già nei vertici NATO di Praga del novembre 2002 e di Istanbul del giugno 2004.

Il “concetto strategico” è, infatti, accanto al testo originario del Trattato dell’Atlantico del Nord, il documento fondamentale della NATO, in quanto definisce gli obiettivi e i compiti dell’alleanza, le prospettive strategiche, l’approccio degli alleati alla sicurezza internazionale, e fornisce infine le linee guida per lo sviluppo delle forze militari. Un nuovo “concetto strategico” si impone dunque ogni qualvolta si verifichi un’importante trasformazione del quadro strategico entro il quale la NATO si trova ad operare.

L’ultimo “concetto strategico” fu adottato al vertice di Washington del 1999. Data la mancata approvazione del concetto strategico sia a Riga sia nel successivo e recente (aprile 2008) vertice di Bucarest, è stato proposto che sia proprio il vertice del sessantesimo anniversario nel 2009 la sede in cui procedere alla approvazione dell’importante documento.

L’impegno “fuori area” e la missione in Afghanistan

Lo stato presente dell’Alleanza va letto – pertanto - all’interno di un quadro in evoluzione in cui, cessata la funzione di mera difesa territoriale, dagli anni ’90 è risultato significativamente ampliato il raggio e l’ambito delle operazioni. L’alleanza ha infatti svolto un ruolo centrale nel processo di pacificazione dei Balcani a seguito della disgregazione della ex-Jugoslavia. Essa mantiene tuttora un cospicuo numero di forze in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo ed ha contribuito negli ultimi anni in modo rilevante alla stabilizzazione della Macedonia. Sempre nell’area del peacekeeping, l’Alleanza sta offrendo supporto alla missione della Unione Africana volta a gestire le conseguenze della guerra civile nella regione sudanese del Darfur.

La NATO è poi andata oltre i suoi compiti tradizionali di alleanza militare per svolgere funzioni di soccorso civile, anche in occasione di gravi catastrofi naturali.

La missione in Afghanistan – che ha posto la NATO alla guida della transizione del paese - costituisce un test rilevantissimo per il futuro dell’alleanza, in primo luogo perché essa ha segnato il definitivo abbandono della riluttanza dell’Alleanza ad operare al di fuori del territorio europeo e nordamericano (cosiddette operazioni “fuori area”).

Altri motivi che rendono cruciale la missione in Afghanistan sono da connettersi al ruolo che questo paese ha assunto nella campagna internazionale contro il terrorismo, così come alla opportunità che proprio in Afghanistan si offre di verificare sul campo l’utilità delle partnerships della NATO con i paesi non membri, compresi alcuni paesi extra-europei: tra le 37 nazioni che contribuiscono attualmente alle forze ISAF, numerosi sono i paesi partner della NATO (tra cui, Albania, Austria, Azerbaijan, Croazia, Finlandia, Macedonia, Svezia e Svizzera), ma vi partecipano anche paesi, come la Nuova Zelanda e l’Australia, che non sono né membri né partner.

Infine, la missione in Afghanistan costituisce un banco di prova per gli alleati anche perché la NATO svolge nel paese una serie di funzioni non tradizionali che l’alleanza è andata assumendo dopo la fine della Guerra Fredda (addestramento di eserciti locali, disarmo di gruppi armati presenti sul territorio, fornitura di beni di necessità alla popolazione e promozione della  ricostruzione delle principali infrastrutture economiche, ecc.).

Uno dei problemi aperti più difficili sta oggi nella disponibilità degli alleati a fornire nuove truppe e mezzi, anche a fronte delle gravi perdite sul campo.

La situazione è complicata dal fatto che non tutti i governi dei Paesi NATO sono attualmente coinvolti allo stesso livello nelle operazioni, in ragione dei cd. caveat (più o meno restrittivi) imposti ai rispettivi contingenti. In particolare, canadesi, britannici e olandesi hanno finora svolto la parte più rischiosa della missione nel sud del paese (vedi a pag. 17 il capitolo Afghanistan)

I rapporti con l’UE e l’allargamento dell’alleanza

Il processo di trasformazione dell’alleanza negli ultimi anni si è svolto secondo due direttrici di fondo: quella dei rapporti con l’UE e quella dell’allargamento.

Per quanto riguarda i rapporti con l’UE, il quadro giuridico che regola la cooperazione tra le due istituzioni è costituito dalle cosiddette intese Berlin Plus. Con tale termine si indica l'insieme degli accordi - finalizzati nel marzo del 2003, a conclusione di oltre tre anni di complesse trattative - che concorrono a delineare il quadro istituzionale di riferimento di quello che è stato definito il partenariato strategico tra la NATO e l'Unione Europea.

Un'intesa specifica regola la gestione delle informazioni classificate, che si è rivelato un aspetto particolarmente delicato, poiché le due istituzioni hanno sviluppato, in materia, regole e prassi non sempre compatibili ed hanno membri con esigenze e caratteristiche differenziate.

Sotto il profilo delle competenze, gli accordi finalizzati nel marzo 2003 delineano il quadro di una collaborazione operativa, ispirata a criteri di flessibilità: all'Unione Europea viene assicurato l'accesso alle capa­cità di pianificazione della NATO per le operazioni a guida Unione, in cui la NATO non sia direttamente impegnata. All'Unione Europea la NATO offre in definitiva, con la propria cooperazione e assistenza, possibilità di iniziativa e spazi di manovra sul piano della pianificazione e della condotta delle operazioni militari.

Per quanto riguarda il problema dell’allargamento dell’Alleanza, cioè la sua composizione interna o “membership”, si ricorda che negli anni ‘90 la NATO ha promosso l’allargamento con il proposito dichiarato di riportare nell’alveo dell’occidente democratico i paesi dell’Europa centrale ed orientale impegnati in una delicata transizione politica dopo il crollo del blocco sovietico (1999: ingresso di Repubblica Ceca, Polonia ed Ungheria; 2004: ingresso di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia; oggi la NATO conta 26 stati membri).

Nonostante a livello ufficiale la NATO enfatizzi una politica della “porta aperta”, un ulteriore allargamento dell’alleanza si scontra con problemi appartenenti a diversi ordini. In primo luogo vi sono quelli di ordine politico: le diffidenze della Russia (recentemente riaffermate con nettezza da Putin), nonché la stessa difficoltà da parte degli alleati occidentali a produrre una chiara sintesi strategica. C’è inoltre da considerare che, come in tutte le organizzazioni internazionali, e in particolare quelle che deliberano in base al principio dell’“unanimità”, l’ingresso di nuovi membri non può che avere un impatto sul meccanismo decisionale e in ultima istanza sull’efficienza dell’alleanza. Né si può trascurare che l’impegno alla difesa comune incorporato nell’articolo 5 del trattato comporta un’estensione degli obblighi degli alleati ogni qualvolta un nuovo candidato sia accettato.

L’ingresso di Albania, Croazia e Macedonia, sostanzialmente deliberato a Riga, avrebbe costituito un altro tassello decisivo di quella riunificazione dell’Europa dopo le divisioni geopolitiche della Guerra Fredda e un passo importante verso l’integrazione dei Balcani nella NATO e quindi in quell’idea di “area di pace e sicurezza europea” che sia gli americani sia le nazioni europee hanno coltivato almeno sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma le vicende del veto della Grecia all’ingresso della Macedonia (su cui vedi infra) hanno messo in evidenza le problematicità insite nell’allargamento dell’Alleanza.

Il vertice di Bucarest

Dal 2 al 4 aprile 2008 – quindi ormai a Camere sciolte – si è svolto a Bucarest un importante vertice (anticipato di sei mesi rispetto alla data originariamente programmata per evitare la coincidenza con le elezioni americane di novembre).

Le decisioni più rilevanti hanno riguardato l’allargamento, i rapporti con Mosca e l’impegno in Afghanistan.

In merito al primo punto, il vertice ha formalmente invitato Albania e Croazia ad aderire pienamente all’Alleanza (come previsto già a Riga), ma ha “congelato” l’invito alla Macedonia, non sbloccando in tal modo la situazione di stallo che si era creata nell’imminenza del vertice. La Grecia, infatti, avrebbe esercitato i diritti statutari di veto per bloccare una decisione favorevole alla Macedonia in assenza di un accordo sulla denominazione dello stato macedone[93]. Poiché tale accordo non è stato raggiunto entro la data di inizio del vertice, la NATO non ha potuto estendere l’invito di adesione anche alla Macedonia. I 26 hanno comunque concordato che la Macedonia entrerà nell’Alleanza non appena sarà risolto il conflitto bilaterale con la Grecia.

Alla vigilia del vertice un polemico intervento di Putin aveva provveduto a ribadire la forte opposizione russa ad ulteriori passi di avvicinamento di Ucraina e Georgia. Nonostante le dichiarazioni di Putin, gli Stati Uniti avevano manifestato l’intenzione di porre la questione durante il vertice, forti della posizione molto favorevole all’ingresso nella NATO sia del governo che della maggior parte dell’opinione pubblica nei due paesi. Ma Francia e Germania si sono rifiutate di sostenere una posizione di troppo aperto contrasto con la Russia e quindi il vertice di Bucarest ha evitato di esprimere la forte apertura a Ucraina e Georgia che gli USA avrebbero sostenuto.

Nonostante su Ucraina e Georgia abbia prevalso la linea moderata, lo stato dei rapporti fra NATO e Russia non sembra aver fatto sostanziali passi in avanti al Consiglio NATO-Russia svoltosi in chiusura del vertice. Sia con riguardo alla collaborazione russa con la missione NATO in Afghanistan, sia con riguardo alla difesa antimissilistica (che sono oggi le due principali questioni sul tappeto), non si registrano significativi passi in avanti. La partnership non ha quindi avuto quel salto di qualità che molti auspicavano.

Rispetto alla situazione afghana e alla missione ISAF, il vertice ha approvato un piano strategico in quattro punti che ribadisce “l’impegno di lungo periodo” in Afghanistan. Anche a Bucarest si sono riprodotte le linee di divisione già registrate a Riga fra paesi più impegnati (e soprattutto più coinvolti sui fronti pericolosi) e paesi che non ritengono possibile aumentare il loro livello di impegno. Ma una importante differenza è stata rappresentata dalla posizione della Francia che – questa volta – ha espresso invece una posizione più aperta verso le richieste di un maggiore impegno, provenienti principalmente dagli USA, assicurando l’invio di un nuovo contingente di 700 uomini. Oltre alla Francia, altri 11 paesi hanno dichiarato la propria disponibilità ad aumentare il numero degli uomini impegnati sul territorio.

Relativamente alla importante scadenza del vertice del sessantesimo anniversario, a Bucarest è stata assunta la decisione di tenerlo in due località lungo il confine franco-tedesco. La decisione intende suggellare, anche simbolicamente, il nuovo clima dei rapporti franco-tedeschi e il nuovo impegno della Francia all’interno dell’Alleanza.

Infine – per quanto attiene alle decisioni assunte in merito al sistema di scudo antimissilistico americano e alle installazioni in Polonia e Repubblica ceca -  si rinvia al capitolo Lo scudo missilistico in Europa (pag. 81).

L’attività della Camera

Nella XV Legislatura – con limitatissime eccezioni - non si segnala una attività parlamentare concentrata su tale specifico tema.

Tuttavia i temi accennati nelle pagine precedenti sono stati spesso dibattuti nel corso di attività parlamentari dedicate ai principali terreni che vedono impegnata l’Alleanza - in primo luogo l’Afghanistan[94] - o in passaggi parlamentari che hanno riguardato anche altri aspetti della politica internazionale.

Si ricorda che immediatamente dopo il vertice di Riga il Ministro degli Esteri D’Alema ha riferito dinanzi alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato, nella seduta del 12 dicembre 2006

Lo stesso non è potuto avvenire dopo il vertice di Bucarest a causa dello scioglimento delle Camere.

Si ricordano, infine, l’audizione del Sottosegretario Crucianelli sulla situazione nel Kosovo e nel Balcani tenuta il 6 giugno 2007 presso la III Commissionenella quale furono chiariti - fra l’altro – i rapporti fra NATO e Unione Europea (e quindi PESD), nei seguenti termini: “Nell'ambito della PESC e della PESD gli Stati membri dell'Unione europea possono potenzialmente discutere ogni questione di loro interesse. Tuttavia, l'Unione europea non è in un'alleanza militare e non può assumere decisioni relative alla difesa comune del continente, decisioni che rimangono di competenza dei singoli Paesi e della NATO. Di conseguenza, questioni quali l'iniziativa americana sulla difesa missilistica sono prioritariamente di competenza della NATO, che può essere chiamata ad assumere le relative decisioni. Ciò non esclude che, una volta sviluppatosi il dibattito alla NATO e avviato un dialogo fra questo e la Russia, anche in sede di Unione europea si possa eventualmente discutere degli sviluppi in corso, soprattutto al fine di coinvolgere politicamente quei Paesi membri dell'Unione europea che non sono membri della NATO. Tuttavia, nella fase attuale della costruzione europea, l'Unione europea non può adottare decisioni su questioni quali la partecipazione dei Paesi europei alle iniziative per la difesa missilistica”.

Il tema dei rapporti fra NATO e PESD è stato anche svolto dinanzi alla IV Commissione Difesa della Camera nel corso della audizione del rappresentante d'Italia presso il Comitato politico di sicurezza dell'Unione europea, ambasciatore Andrea Meloni, sui modelli di difesa adottati dagli Stati membri dell'Unione europea, tenuta nella seduta del 24 gennaio 2007.

Si segnala inoltre un dettagliato inquadramento degli aspetti giuridici riguardanti l’Alleanza e i rapporti fra l’Italia e l’organizzazione, esposto dinanzi alla IV Commissione dal professor Sergio Marchisio, ordinario di diritto delle organizzazioni internazionali presso l'Università di Roma «La Sapienza», nella seduta del 26 giugno 2007, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle servitù militari.

 

In merito alla missione in Afghanistan e alla partecipazione italiana, si ricorda che l’impegno militare italiano nella missione ISAF, è stato sensibilmente incrementato, sia in termini di uomini che di mezzi, a seguito dell’accoglimento, da parte del Governo, il 27 marzo 2007, presso l’Assemblea del Senato, di un ordine del giorno relativo all’esigenza di dotare il nostro contingente di mezzi più adeguati per una maggiore sicurezza e dopo che sull’argomento si era espresso il Consiglio supremo di Difesa, nella riunione del 2 aprile 2007.

Il 15 maggio 2007 il Ministro della Difesa, riferendo alle Commissioni riunite esteri e difesa della Camera e del Senato in merito alle dotazioni del contingente militare italiano impegnato nella missione ISAF, ha annunciato l’invio in Afghanistan di 5 elicotteri A-129 “Mangusta”, di 8 veicoli corazzati “Dardo” e di 10 veicoli blindati “Lince”, accompagnati da 145 militari.

Dal giugno 2007, inoltre, due velivoli Predator (a pilotaggio remoto) sono operativi nel teatro afghano, per il pattugliamento ed il controllo della zona di Herat.

Successivamente lo stesso Ministro dava comunicazione al Parlamento, nella seduta del 26 luglio 2007 presso la Commissione Difesa del Senato, della piena operatività delle nuove dotazioni.

Il Ministro ha precisato, nelle diverse sedi parlamentari, che tale rafforzamento non altera “in alcun modo né la natura della partecipazione del nostro contingente alla missione ISAF né, tanto meno, le finalità ultime della nostra presenza” e che i nuovi mezzi non corrispondono “ad un aumento del nostro profilo di impegno politico di fronte alla comunità internazionale” ma sono “invece la doverosa risposta tecnico-militare all’evolversi delle condizioni sul terreno.”

Il 26 luglio 2007 il Ministro della Difesa, comunicava infine alla Commissione difesa del Senato, che il contingente nazionale a Kabul, da dicembre 2007 e per un periodo di otto mesi, sarebbe stato incrementato di circa 250 uomini in relazione all'assunzione di responsabilità del Regional Command Capital (RC-C). Infatti, nel quadro degli accordi trilaterali (Italia-Francia-Turchia), l'Italia dal 6 dicembre 2007, e fino ad agosto 2008, ha assunto il Comando del RC-C a Kabul in qualità di "Commanding Nation". Il RC-C è uno dei 5 Comandi multinazionali dipendenti da ISAF, la cui principale componente è fornita dall'Italia.

 


Il Governo della globalizzazione

Il tema della globalizzazione – e soprattutto della accelerazione delle sue dinamiche registrata negli anni più recenti – si è intrecciato in vario modo con l’attività del Parlamento italiano nella XV legislatura.

Si rinvia - in primo luogo - alla attività parlamentare relativa alla attuazione del Protocollo di Kyoto (vedi scheda Il Protocollo di Kyoto, nel Dossier del Dipartimento Ambiente),e alla attività parlamentare relativa agli approvvigionamenti energetici (vedi sezione relativa alla attività della X Commissione).

Si segnala, ad esempio, l’iniziativa assunta dallaVIII Commissione in materia di cambiamenti climatici (vedi capitolo Cambiamenti climatici e tutela dell’aria,nel Dossier del Dipartimento Ambiente), nella cui relazione per l’Aula sono riportati ampi riferimenti ai profondi nessi fra tensioni sugli approvvigionamenti di combustibili fossili, catastrofi ambientali e processi di globalizzazione.

Anche il dibattito politico sulla competitività complessiva dell’economia italiana (vedi sezione relativa alla attività della X Commissione), così come quello sulla immigrazione e sulle ipotesi di riforma della relativa legislazione (vedi capitolo Immigrazione, nel Dossier del Dipartimento Istituzioni)si è sempre collocato all’interno di una cornice di riferimento più ampia che ha dovuto tener conto del tessuto sempre più fitto di interdipendenze creato dalla forte apertura ed internazionalizzazione dei mercati.

Tuttavia le maggiori occasioni per una considerazione complessiva ed unitaria del tema della globalizzazione si sono determinate sul terreno della politica internazionale: alle trasformazioni straordinarie nella distribuzione del peso economico fra le diverse parti del pianeta sta infatti corrispondendo un riassestamento geopolitico, con effetti cumulativi in alcune aree geografiche (Medio Oriente, Africa) e su alcune linee di tensione (materie prime, energia) e quindi con una complessiva crescita di instabilità internazionale.    

Nei venti mesi della XV legislatura le preoccupazioni per la mancata pacificazione dell’Iraq e della Palestina (e dell’intera area del Medio Oriente allargato) e il micidiale intreccio fra crisi politica e catastrofe ambientale nella fascia subsahariana, della quale il Darfur rappresenta solo l’epicentro, sono state costantemente al centro dell’attenzione del Parlamento, e quindi – in primo luogo – della Commissione Affari esteri.

L’attività della Camera

Dalla consapevolezza della profondità delle nuove cause di generale instabilità e del loro intreccio con la nuova realtà dell’economia internazionale ha avuto origine la decisione dell’Ufficio di Presidenza della III Commissione – nel luglio 2006 - di porre il tema dei processi di globalizzazione al centro di una indagine conoscitiva, cioè di una attività ad ampio raggio di acquisizione di informazioni e documenti, secondo le previsioni dell’articolo 144 del regolamento della Camera dei deputati.

Per evitare i rischi di dispersione dovuti alla trasversalità e pervasività del tema, l’organo parlamentare ha scelto di focalizzare l’indagine sulle istituzioni che guidano – o dovrebbero guidare - i processi di globalizzazione.

La Commissione ha lavorato con l’obiettivo di verificare la fondatezza di una ipotesi: che i processi di globalizzazione in atto richiedano forme di governance nuove rispetto a quelle già operanti. Nell’attuale assetto del sistema multilaterale delle relazioni economiche, commerciali e politiche fra gli stati, sembra infatti riscontrabile una inadeguatezza istituzionale, cioè una insufficiente capacità di governo dei flussi produttivi, distributivi e finanziari prodotti dalla globalizzazione e delle loro conseguenze sociali e ambientali.

L’indagine, durata oltre un anno, si è svolta in 27 sedute, tenute dalla Commissione fra l’ottobre 2006 e l’ottobre 2007, durante le quali sono state svolte 42 audizioni di rappresentanti della società civile (20), di organizzazioni internazionali (10), di banche e istituti finanziari (4), di università e istituti di ricerca (3), della diplomazia (3) e dell’industria (1). Nella seduta del 14 marzo 2007 è stato audito il Ministro del commercio internazionale e per le politiche europee, Emma Bonino.

Il lavoro parlamentare ha fornito molti dati e informazioni e ha confermato l’ipotesi iniziale di lavoro: l’esigenza di un migliore governo della globalizzazione – oggi larghissimamente condivisa – trova ampi riscontri oggettivi.

Nella diversità degli accenti, sia da parte dei soggetti auditi, che da parte dei parlamentari intervenuti nei dibattiti che hanno sempre fatto seguito alle audizioni, è comunque rintracciabile una convergenza di impostazione, registrata dal documento finale dell’indagine conoscitiva, approvato all’unanimità.

Si riassumono di seguito gli elementi più significativi del documento finale.

I fattori di crescita - determinati dalla accelerazione dei processi di internazionalizzazione e apertura dei mercati, intervenuta a partire dal 1994 - sono innegabili.

La direzione generale di questa crescita è anche tale da rendere insostenibile una opposizione e una ostilità dei paesi appartenenti al “primo mondo”.  Infatti la globalizzazione si è tradotta in una diminuzione rilevante della parte della popolazione collocata al di sotto della soglia di povertà e in un vantaggio competitivo di dimensioni straordinarie per i paesi in via di sviluppo, con una profonda trasformazione dei rapporti di forza complessivi rispetto alla situazione della fine degli anni ’80. Motivi etici impongono quindi di accogliere positivamente questo riequilibrio, anche in quelle società e in quei paesi – come l’Italia – che dal cambio dei rapporti di forza rischiano di uscire ridimensionati.

Tuttavia, la globalizzazione non può essere esemplificata come un semplice travaso di ricchezza da una parte all’altra del mondo. Né ci si può fidare che gli automatismi del mercato abbiano un effetto di bilanciamento dei momentanei squilibri che si determinano sul piano sociale ed economico. Le analisi più approfondite dimostrano come la globalizzazione stia producendo nuove iniquità (ad esempio nella distanza tra parte ricca e parte povera della popolazione, del pianeta e all’interno di moltissimi paesi). Ma soprattutto, l’indagine conoscitiva ha offerto un quadro dei crescenti rischi - alcuni già in atto, altri ancora latenti – riconducibili proprio alla dinamica della moltiplicazione esponenziale degli scambi.

Insieme alla accelerazione della crescita del PIL globale, quelli che sembrano essere oggi i tre elementi indispensabili a descrivere sinteticamente l’evoluzione economica internazionale degli ultimi quindici anni sono: disuguaglianze crescenti di reddito, instabilità del sistema degli approvvigionamenti della materia prima energetica, squilibri finanziari. Tre fattori, dunque, di rischio, tutti idonei a rovesciarsi in tensioni politiche internazionali.

La pericolosità di questo quadro dovrebbe dare vigore alle posizioni favorevoli a potenziare gli istituti e i meccanismi multilaterali di negoziazione e di governo della globalizzazione.

L’indagine conoscitiva ha dedicato un ampio ventaglio di audizioni proprio a far luce sul complesso sistema delle organizzazioni internazionali impegnate nella gestione di fenomeni legati alla globalizzazione: dai rifugiati alle nuove e sempre più allarmanti emergenze alimentari, dagli aiuti allo sviluppo al degrado ambientale. Particolare rilievo è stato dato alla verifica dello stato complessivo del sistema di organizzazioni finanziarie nate dagli accordi di Bretton Woods e allo stallo del negoziato sul commercio internazionale. E’ risultato che proprio su questo terreno si registra una enorme sproporzione fra esigenze di governance e effettive capacità messe in campo dalla “comunità internazionale”.

Anche guardando retrospettivamente alla storia degli ultimi anni, questo deficit di governo dei processi di liberalizzazione è all’origine di molti degli squilibri che si manifestano oggi nell’economia internazionale. Probabilmente è stato un errore liberalizzare integralmente i movimenti di capitali senza che il processo di riforma strutturale nelle cosiddette economie emergenti avesse raggiunto uno stadio più maturo. In futuro occorrerà considerare con anticipo gli effetti distorsivi di asimmetrie prodotte proprio da una liberalizzazione che procede in modo non sufficientemente governato. Un secondo esempio è quello della asimmetria determinatasi nella mobilità internazionale dei fattori di produzione, ove ad una fortissima mobilità internazionale di capitali e di lavoro altamente qualificato non ha corrisposto un livello paragonabile di mobilità del lavoro a bassa qualificazione; proprio a questa asimmetria viene oggi attribuito un ruolo molto negativo nella crescita di alcuni indici di disuguaglianza nella distribuzione del reddito.

Quanto alla insufficienza di istituti concepiti in altre epoche storiche, è stata registrata la progressiva perdita di capacità di incidere sia del Fondo Monetario, sia della Banca mondiale. Anche l’intero sistema degli aiuti pubblici allo sviluppo occupa ormai una frazione insignificante dei flussi finanziari diretti verso i paesi più poveri, dove invece crescono in modo esponenziale sia le rimesse degli emigrati, sia – soprattutto – i flussi attivati da un paese come la Cina, con finalità anche politiche.

Infine, la drammatica inadeguatezza degli strumenti di governance internazionale si riassume nella interdipendenza fra energia e ambiente che rappresenta oggi un grande elemento di rischio sistemico, se non di minaccia alla sopravvivenza del sistema economico e produttivo che conosciamo e alla (relativa) stabilità delle relazioni internazionali di cui una parte del mondo gode.

Nel prossimo futuro, la capacità del sistema delle organizzazioni internazionali di essere qualcosa di efficace si misurerà oltre che dalla capacità di far cessare i conflitti, anche da quella di prevenirli, governando appunto la globalizzazione e le sue conseguenze: crisi finanziarie, migrazioni, approvvigionamenti alimentari ed energetici, catastrofi ambientali. Solo un sistema efficace su queste sfide potrà rappresentare quel fattore di attenuazione della anarchia delle relazioni fra gli stati e di affermazione di interessi e valori universali preconizzato oltre sessanta anni fa alla nascita delle Nazioni Unite.

Infine, il governo della globalizzazione – come emerge dall’indagine – deve esercitarsi anche a livello di politiche nazionali e a quel livello particolare costituito dalla miscela fra politiche nazionali e politiche comunitarie.

L’Europa ha un ruolo cruciale da svolgere in questa nuova realtà internazionale, che l’indagine ha preconizzato e auspicato al tempo stesso.

Questo ruolo dipende non solo dal peso economico e politico che il continente europeo può far pesare sulla bilancia mondiale, quanto dal profilo specifico – di potenza stabilizzatrice – che l’Unione ha acquisito e dalla sua stessa esperienza di governo negoziato di processi sovranazionali, di temperamento della sfera di sovranità nazionale - ma in un quadro comunque governato – e quindi dalla sua naturale propensione ad affrontare le crisi internazionali in termini multilaterali. L’Europa, però, dovrà affinare i suoi strumenti di risposta, che appaiono ancora deboli: gli ammortizzatori necessari ad assorbire dinamiche che si rivelano più veloci e traumatiche del previsto, il recupero di capacità innovativa e creativa dei sistemi economici, la ideazione di forme di integrazione sociale adeguate ad una realtà in veloce mutazione.

 


La cooperazione internazionale

E’ in atto da tempo il tentativo di pervenire ad una riforma organica della normativa sulla cooperazione allo sviluppo, tuttora disciplinata dalla legge 26 febbraio 1987, n. 49, ritenuta ormai lacunosa sotto il profilo dei meccanismi decisionali, di attuazione e di controllo della cooperazione stessa, nonostante i successivi interventi modificativi.

L’importanza attribuita dalla nostra politica estera alla cooperazione con i PVS (Paesi in via di sviluppo) e con i Paesi con economie in transizione, l’esigenza di assicurare efficienza e trasparenza agli interventi di cooperazione e la tendenza ad attuare questi ultimi sempre più attraverso il sostegno a programmi di ampio respiro (e sempre meno con singoli progetti di assistenza tecnica) hanno fatto crescere l’esigenza di aggiornare gli strumenti di cooperazione.

A tale proposito si deve segnalare l’esame congiunto, presso la 3a Commissione del Senato, dei numerosi disegni di legge di riforma della disciplina della cooperazione, primo fra tutti il disegno di legge delega del governo. L’esame si è concluso con l’adozione di un testo base (il testo unificato proposto dal Comitato ristretto) e con la prosecuzione dell’indagine conoscitiva sulla politica della cooperazione allo sviluppo e sulle prospettive di riforma della relativa disciplina, anche al fine di ascoltare le valutazioni dei soggetti previsti nel relativo programma sull’articolato del testo base.

 

Le prospettive della politica italiana di cooperazione sono state oggetto dell’audizione presso la Commissione esteri della Camera, il 18 ottobre 2006, del Viceministro con delega alla Cooperazione allo Sviluppo, Patrizia Sentinelli, che ha posto l’accento sul problema della quantità delle risorse e sul tema della riqualificazione dell'intervento. Il Viceministro ha ricordato come l'Italia si sia da sempre contraddistinta in tante parti del mondo proprio per la sua generosità ma come, purtroppo, si sia assistito negli ultimi anni ad una riduzione delle risorse per l’APS (aiuto pubblico allo sviluppo).

Quanto alla qualità dell'intervento, Sentinelli ha segnalato il percorso di valorizzazione della struttura tecnica del MAE in atto, anche se non ancora supportata da un’adeguata presenza di esperti nell’organico; ha inoltre elencato gli impegni immediatamente assunti in materia di cooperazione che, oltre a riguardare interventi in alcuni paesi poveri, comprendono anche la volontà di valorizzare gli attori della cooperazione. Tra i primi impegni, inoltre, è stata posta anche la programmazione dell’attività per il periodo di un triennio - per ridurre le frammentazioni e renderla maggiormente coordinata – nonché l’obiettivo di portare a conclusione l’ampio dibattito in corso sulla riforma della cooperazione per addivenire finalmente ad un nuovo quadro legislativo.

La Commissione Esteri ha nuovamente udito il Viceministro Patrizia Sentinelli nelle sedute del 20 dicembre 2006 sulla situazione in Africa e del  21 novembre 2007 in sede diComitato Permanente sull'Africa, sulle linee direttrici della politica italiana in Africa.

Nell’audizione del 20 dicembre 2006, dedicata alle scelte, agli orientamenti e all'azione del Governo per quanto concerne l'Africa, il Viceministro Sentinelli è tornata sugli obiettivi della riforma della normativa sulla cooperazione e della messa a punto di una programmazione triennale, affermando tra l’altro che un approccio politico nuovo troverebbe proprio in Africa un terreno particolarmente fecondo di prospettive, a partire dalla valorizzazione delle comunità dei migranti.

Di un nuovo approccio con l’Africa si è parlato anche nel Consiglio Affari generali dei ministri dell’UE del 19 novembre, come riferito dal Viceministro Sentinelli al Comitato permanente sull’Africa (costituito in seno alla Commissione esteri) nella seduta del 21 novembre 2007. Il Commissario europeo per lo sviluppo e l’aiuto umanitario, Louis Michel, ha rivolto a tutti gli Stati membri l’invito ad assumere un approccio maggiormente dinamico e politico verso il continente africano perché l'Africa, nonostante la povertà, la fame e le pandemie ancora presenti, è oggi un continente diverso da com'era in passato. Secondo Sentinelli, l'Africa va considerata nella sua unitarietà, ma vanno valutate anche le diversità esistenti tra i suoi Paesi, sia i 48 dell'Africa subsahariana – destinatari anche per il triennio 2008-2010 della maggior parte degli interventi italiani - sia quelli dell'Africa mediterranea.

Vanno tenuti in conto i processi che si stanno sviluppando dal punto di vista istituzionale e democratico: lo svolgimento di elezioni, la dinamicità di taluni  Parlamenti, la vivacità delle istituzioni locali. La cooperazione, in questo quadro, assume maggiormente i caratteri del sostegno di queste istituzioni, dal punto di vista della capacity building e della governance: non più mero aiuto pubblico allo sviluppo, ma anche relazioni paritarie per la costruzione ed il rafforzamento, attraverso la partnership, di quelle istituzioni nazionali e locali.

Altro tema affrontato dal Viceministro Sentinelli è la novità costituita  dall'Unione africana, che si propone, non senza difficoltà, di avere una rappresentanza unitaria dei paesi africani, questione sulla quale, fino a qualche tempo fa, pochi erano disposti a scommettere.

Sempre in ordine alla necessità di un nuovo approccio politico nei confronti dell’Africa, il Viceministro ha ricordato il percorso di costituzione e rafforzamento delle istituzioni interregionali, a partire dal NEPAD (New Partnership for Africa's Development), la proposizione e la nuova collocazione della società civile (associazioni dei sindacati, degli imprenditori, delle donne e del volontariato) e, molto importante, il problema energetico, inteso come le conseguenze dei mutamenti climatici, che costituisce uno degli elementi principali della relazione politica ed economica con questo continente.

 

Nella seduta della Commissione Esteri della Camera del 19 ottobre 2006 sono state rese comunicazioni del Presidente circa due missioni svolte da delegazioni della Commissione stessa: una ad Helsinki in occasione della Conferenza dei Presidenti delle Commissioni Affari esteri e Cooperazione allo sviluppo (27-29 settembre 2006) e l’altra a Bruxelles in occasione dell'incontro congiunto sulle ”politiche europee di sviluppo” tra le competenti Commissioni dei Parlamenti degli Stati membri dell'Unione europea, del Parlamento europeo e dei Parlamenti dei Paesi aderenti e candidati (4 ottobre 2006).

La Conferenza di Helsinki è stata aperta dal presidente della Commissione Affari esteri del Parlamento finlandese, Liisa Jaakonsari, che ha segnalato come questioni di fondo il nesso tra sicurezza e sviluppo, l'individuazione degli strumenti per rafforzare la cooperazione tra gli strumenti civili e militari nella gestione delle crisi e il ruolo della cooperazione allo sviluppo nella prevenzione dei conflitti. Sullo stesso registro il Segretario generale dell'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), José Angel Gurrìa, che ha sottolineato come la sicurezza rappresenti il cuore del mandato dell'OCSE, poiché la sicurezza rappresenta la precondizione per uno sviluppo sostenibile economico, sociale e politico.

Nel corso dell'incontro di Bruxelles, dopo l’intervento della presidente Morgantini che ha sottolineato il nesso che sussiste tra la politica estera e le politiche di sviluppo, è stato ancora una volta posto in evidenza il legame tra sviluppo e sicurezza, cosa che dovrebbe far considerare l'agenda di Doha parte della sicurezza globale, così come l'allargamento dell'Unione europea.

E’ stato rilevato come l'impegno per la cooperazione allo sviluppo non abbia ancora consentito la realizzazione degli Obiettivi del Millennio: essa ha però permesso di conseguire notevoli risultati nel corso degli ultimi venti anni, fra i quali l'innalzamento del tasso globale di scolarizzazione, il rispetto dei diritti umani e dell'aspettativa di vita. Anche nella sede di Bruxelles è stato ribadito che il volume e la qualità degli aiuti devono aumentare in modo direttamente proporzionale di anno in anno per conseguire l’obiettivo dello 0,7 per cento del PIL entro il 2015, fissato dagli Obiettivi del Millennio.

Le Organizzazioni non governative presenti  hanno segnalato la necessità che la Commissione europea non trascuri la società civile nell'esercizio della sua azione di governo al fine di non generare un deficit democratico: i rappresentanti delle ONG hanno avanzato la proposta di un'azione comune con le istituzioni comunitarie per la realizzazione di maggiore consapevolezza e responsabilità dei governi nella erogazione degli aiuti.

 

Nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla partecipazione italiana a missioni umanitarie ed internazionali, l’8 maggio 2007 le Commissioni Riunite Esteri e Difesa della Camera hanno proceduto all’audizione del ministro plenipotenziario Armando Sanguini, direttore generale del Ministero degli affari esteri per i paesi dell'Africa sub-sahariana. Parlando della situazione dei Paesi sub-sahariani, Sanguini ha citato due casi in cui gli interventi – anche di cooperazione – hanno dato significativi risultati: in Mozambico l’Italia ha affiancato all'operazione militare una forte azione politico-diplomatica e un'attività di cooperazione molto consistente, al punto che oggi il Mozambico è un partner a tutto campo per l’Italia; anche nella Repubblica democratica del Congo l’Italia ha partecipato alle missioni di pace, svolgendo contemporaneamente, insieme all’UE, un’azione politica di incoraggiamento al processo elettorale, volta anche a far accettare l'esito delle elezioni, qualunque esso fosse stato. Oggi il Congo si presenta come un'area su cui lavorare, sia dal punto di vista della cooperazione, sia come partner economico di prima grandezza.

Anche il ministro Sanguini, tuttavia, lamentava la diminuzione delle risorse per gli aiuti: riportando l’iniziativa dell'ICE, che con il Ministero del commercio estero sta aprendo alcuni punti di osservazione, rilevava che le insufficienti iniziative di cooperazione e la scarsità dei fondi per la promozione commerciale e per le missioni, stanno limitando fortemente l’intervento dell’Italia, che da questa politica non potrà che ricevere risultati molto modesti.

 

La Commissione Esteri della Camera ha altresì condotto un’indagine conoscitiva sulle istituzioni ed i processi di governo della globalizzazione (vedi a pag. 125 il capitolo Il governo della globalizzazione). In occasione delle sedute del 2 agosto e del 19 settembre 2007, sono stati ascoltati rappresentanti di Organizzazioni non governative che, nel più ampio ambito del loro intervento, hanno affrontato questioni riconducibili al tema della cooperazione allo sviluppo. In particolare, si segnala l’audizione di Andrea Baranes, membro del consiglio nazionale dell'Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l'aiuto ai cittadini (ATTAC) che, in tema di reperimento di fondi da destinarsi agli aiuti, riproponeva la tassazione sulla transazione delle valute (la c.d. Tobin tax), considerando che tale mercato ammonta a circa 1.900 miliardi di dollari al giorno e che – contrariamente a quello che avviene per tutti gli altri mercati - al momento quello delle valute non è sottoposto ad alcuna forma di tassazione.

Sulle possibili soluzioni a livello internazionale, Baranes ha informato la Commissione del fatto che da qualche tempo opera un gruppo per studiare proposte innovative per finanziare la cooperazione internazionale, formato da 53 Paesi (l'Italia ne fa parte principalmente su iniziativa del Ministero per gli affari esteri). Una proposta già implementata su iniziativa della Francia, cui hanno aderito più di 30 Paesi, è una minima imposta sui biglietti aerei, il cui gettito viene utilizzato per acquistare medicinali e vaccini e combattere l'AIDS, la tubercolosi e la malaria nei Paesi del sud del mondo.

Un'altra proposta – che legherebbe la cooperazione allo sviluppo con la finanza internazionale - consiste nella creazione di un gruppo di lavoro che studi l'impatto dei paradisi fiscali sui Paesi più poveri e della conseguente fuga di capitali dagli stessi.

 

Gli interventi della Commissione esteri sono stati numerosi anche dal punto di vista normativo.

La legge 4 agosto 2006, n. 247, Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali prevede, tra l’altro, un'autorizzazione di spesa per 17,5 milioni di euro, finalizzati ad interventi di cooperazione in Afghanistan e Sudan destinati ad assicurare il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione (art. 1, co. 10).

La  legge 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007) ha invece previsto, al comma 1310, la possibilità di convertire i crediti di aiuto (vedi a pag. 280 la scheda La normativa nazionale) accordati dall’Italia ai Paesi colpiti da catastrofi naturali o da gravi crisi umanitarie.

Anche il decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 4, Proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali,  convertito con modificazioni nella legge 29 marzo 2007, n. 38, prevede, all’articolo 1, stanziamenti per l'anno 2007 per la realizzazione di interventi di cooperazione: 40 milioni di euro per l'Afghanistan, 30 milioni di euro per il Libano e 5,5 milioni di euro per il Sudan destinati, tra l'altro, al sostegno dello sviluppo socio-sanitario in favore delle fasce più deboli della popolazione.

Con il decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81, Disposizioni urgenti in materia finanziaria,  convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 2007, n. 127,  si è poi autorizzata la spesa di 260 milioni di euro per l'anno 2007 al fine di consentire l'erogazione del contributo italiano al Fondo globale per la lotta contro l'AIDS, la tubercolosi e la malaria.

Il Fondo globale per la lotta contro l'AIDS, la tubercolosi e la malaria viene ulteriormente finanziato (130 milioni di euro) dal decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, Interventi  urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222. L’articolo 18 del D.L. 159/2007 autorizza la spesa complessiva di 499 milioni di euro per il 2007  finalizzata a consentire l’adempimento di impegni internazionali. In particolare, oltre che per il  Fondo globale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria (Global health fund), vengono previsti  interventi a favore del Fondo italiano per attività di mantenimento della pace in Africa (Peace Facility), del Fondo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per le Forze di Pace della Corte penale internazionale, delle organizzazioni umanitarie operanti a favore dei Paesi in via di sviluppo, dell’attività di assistenza per la distruzione delle armi chimiche in Russia, dell’UNICEF. Viene poi autorizzata la spesa relativa alla partecipazione dell’Italia a banche e fondi multilaterali di sviluppo internazionali (vedi a pag. 280 la scheda La normativa nazionale) per aiuti finanziari ai Paesi in via di sviluppo, da ripartire con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

 

La legge 27 dicembre 2007, n. 246, Partecipazione italiana alla ricostituzione delle risorse di Fondi e Banche internazionali ha autorizzato la partecipazione finanziaria dell’Italia alla ricostituzione di alcuni Fondi e Banche internazionali (vedi a pag. 280 la scheda La normativa nazionale).

Gli articoli 1-11, permettono il rinnovo di crediti d’aiuto, erogati attraverso il canale multilaterale, ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49, Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo  e riguardano: il Fondo africano di sviluppo, il Fondo asiatico di sviluppo, l’Associazione internazionale per lo sviluppo (IDA), il Chernobyl shelter e il Fondo comune per i prodotti di base.

 

Infine, il decreto legge 31 gennaio 2008, n. 8, (Disposizioni urgenti in materia di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali)  convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 13 marzo 2008, n. 45, ha previsto l'integrazione delle risorse finanziarie necessarie per consentire la realizzazione o il proseguimento degli interventi di cooperazione allo sviluppo in Afghanistan, Sudan, Libano, Iraq e Somalia.

 


Gli italiani all’estero

La XV Legislatura - anche in considerazione della chiusura anticipata - non ha apportato novità di rilievo alla normativa concernente gli italiani all’estero, che resta, pertanto, definita da due importanti leggi approvate durante la XIV Legislatura: la legge 27 dicembre 2001, n. 459 sull’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero, e la legge 23 ottobre 2003, n. 286, che ha dettato una nuova disciplina per i COMITES (Comitati degli italiani all’estero).

L’unico intervento normativo è stato quello operato dall’art. 1, comma 20, del decreto-legge 18 maggio 2009, n. 181 (recante Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri), convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2006, n. 233: questa disposizione, modificando l’art. 10, co. 1, del D.Lgs. 303/1999[95], ha attribuito nuovamente al Ministero degli Affari esteri le funzioni in materia di italiani nel mondo, contestualmente trasferendo le corrispondenti strutture e le relative risorse finanziarie, materiali ed umane.

 

Il testo originario del D.Lgs. 300/1999 – che ha riformato l’organizzazione del Governo – all’art. 10, co. 1, lett. b) già poneva tali attribuzioni in capo al Ministero degli affari esteri, fatta eccezione per quelle riconducibili alle autonome funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio; in seguito, una modifica testuale recata dal D.Lgs. 257/2002[96] aveva riportato tutte le competenze in materia alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Con successivo D.P.C.M. 3 dicembre 2002 era stato poi istituito presso la Presidenza del Consiglio il Dipartimento per gli italiani nel mondo, che si articolava nei seguenti Uffici:

§         I Ufficio: “Per la promozione culturale e per l’informazione delle comunità italiane all’estero”;

§         II Ufficio: “Per la promozione e per la tutela dei diritti politici e civili degli Italiani residenti all’estero”;

§         III Ufficio: “Per l’intervento coordinato dello Stato e delle Regioni a favore delle comunità italiane all’estero”;

§         IV Ufficio: “Politiche generali concernenti le comunità italiane all’estero, con particolare riferimento alla valorizzazione del ruolo degli imprenditori italiani”.

 

La legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), inoltre, al comma 943 dell’articolo unico, ha autorizzato una spesa di 24 milioni di euro per il 2007 e una spesa di 14 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009, per le politiche di sostegno, integrazione, aggiornamento e promozione culturale delle collettività italiane all’estero, nonché a favore degli imprenditori italiani all’estero e del rafforzamento e razionalizzazione della rete consolare italiana.

 

Il comma in oggetto, pur riferendosi in maniera generica ai vari ambiti di attività beneficiari dello stanziamento, trova tuttavia una sua unitarietà nel riferimento agli interventi da compiere sulla rete consolare: questa, infatti, che certo può necessitare di autonomi provvedimenti di razionalizzazione, trova nel proprio rafforzamento anche un potenziamento delle numerose competenze che la vigente normativa (essenzialmente DPR 5 gennaio 1967, n. 200) attribuisce ad essa nei confronti dei nostri connazionali residenti all’estero.

Più recentemente hanno assunto particolare importanza gli atti consolari inerenti al servizio elettorale, che in precedenza si limitavano all’organizzazione delle elezioni per gli organismi di rappresentanza locale (COMITES – Comitati degli italiani all’estero) e generale (CGIE – Consiglio generale degli italiani all’estero) dei nostri connazionali all’estero, nonché all’allestimento di apposite sezioni elettorali in occasione delle elezioni europee. Con l’approvazione nella XIII Legislatura delle necessarie modifiche costituzionali, e nel dicembre 2001 della legge 27 dicembre 2001, n. 459, i cittadini italiani residenti all’estero hanno acquistato il diritto di partecipare alle consultazioni politiche e referendarie in Italia, con la modalità del voto per corrispondenza, affidata per la preparazione, appunto, alla rete consolare.

Per quanto concerne poi la promozione culturale a favore delle collettività italiane, essa corre, nell’attività della rete diplomatico-consolare, parallelamente al più ampio contesto della diffusione della cultura e della lingua italiane all’estero, che il Ministero degli Affari esteri svolge in stretta collaborazione con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’istruzione, università e ricerca.

Oltre agli 89 Istituti italiani di cultura all’estero, è soprattutto la rete delle scuole italiane all’estero ad assicurare la diffusione della lingua italiana: nei confronti delle collettività italiane all’estero, in particolare, assumono importanza peculiare i corsi di lingua e cultura italiana previsti dall’art. 625 e disciplinati dall’art. 636 del D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (“Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado”). I corsi sono attualmente circa trentamila, e sono organizzati da enti, associazioni, comitati o scuole a livello locale, tutti finanziati dal Ministero degli Affari esteri. I docenti impiegati sono assunti in base alla normativa locale, purché in possesso di un titolo di studio valido per l’insegnamento. Si stima che gli allievi dei corsi di lingua italiana siano nel mondo oltre mezzo milione. La vigilanza sulla conduzione dei corsi spetta al Consolato competente per territorio, ove sono istituiti uffici scolastici con personale dei ruoli dirigenziale, docente e amministrativo.

Talora, e più spesso nei Paesi europei, a provvedere ai corsi sono insegnanti di ruolo distaccati presso il Ministero degli Affari esteri, che provvede ad assegnarli alle varie circoscrizioni consolari.

Un’ulteriore modalità per la diffusione della lingua italiana è quella della stipula, nelle circoscrizioni consolari ove maggiore è la presenza di una comunità italiana, di convenzioni con le autorità scolastiche locali per l’inserimento dell’italiano nei rispettivi sistemi educativi. Le autorità italiane contribuiscono in tal caso alla formazione dei docenti locali, nonché con la fornitura di materiale didattico.

Per quanto poi concerne la valorizzazione del ruolo degli imprenditori italiani all’estero, essa si inquadra nella recente rinnovata consapevolezza dell’importanza dell’internazionalizzazione del ‘sistema Italia’, registrata e ad un tempo rilanciata dalla legge 31 marzo 2005, n. 56 (“Misure per l'internazionalizzazione delle imprese, nonché delega al Governo per il riordino degli enti operanti nel medesimo settore”). In tale contesto i circa 150 Uffici commerciali presso le Rappresentanze diplomatico-consolari, unitamente ai 104 Uffici dell’I.C.E. (Istituto per il commercio estero) e alle 66 Camere di commercio italiane all’estero, vengono a costituire una rete di primaria importanza, tanto più che la citata legge n. 56/2005 ha previsto la costituzione di Sportelli unici all’estero, operanti in accordo con le Rappresentanze diplomatico-consolari, per la consulenza e l’assistenza alle imprese, e soprattutto mediante il coordinamento delle iniziative promozionali realizzate localmente da tutti gli attori nazionali, incluse le regioni. La prima fase dell’iniziativa ha visto già nel 2004 l’integrazione fra rappresentanze diplomatico-consolari e Uffici dell’I.C.E.

 

La medesima legge finanziaria per il 2007, al comma 1319, ha attribuito ai Consolati, a decorrere dal 1° giugno 2007, la competenza per il rilascio della carta di identità ai cittadini italiani residenti all’estero e iscritti all’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero).

 

Va ricordato che, secondo la previgente normativa, gli uffici consolari erano competenti per il rilascio del passaporto, mentre la carta di identità veniva rilasciata dal Comune presso il quale è iscritto il richiedente. In particolare, il D.P.R. 22 ottobre 1999, n. 437, che disciplina le modalità di rilascio della carta di identità elettronica, prevede infatti, all’art. 2, che “la carta di identità elettronica e il documento di identità elettronico sono rilasciati dal comune di residenza o di iscrizione all’Anagrafe italiani residenti all’estero”.

Il comma 1319 in esame precisa che il costo per il rilascio del documento di identità da parte degli uffici Consolari deve essere fissato in misura identica a quello previsto per i cittadini residenti in Italia.

In attuazione di detta disposizione è stato emanato dal Ministro dell’interno il Decreto 17 maggio 2007, recante sostituzione del modello della carta d'identita' cartacea per i documenti emessi dagli uffici consolari, ai sensi dell'articolo 1, comma 1319, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.

 

 

Sul piano dell’attività non legislativa vanno anzitutto ricordati i numerosi momenti di presenza del Governo, in entrambi i rami del Parlamento, con riferimento alle materie di interesse dei connazionali residenti all’estero: la prima di tali occasioni è stata la doppia audizione (seduta del 4 luglio 2006seduta dell’11 luglio 2006) del Viceministro degli Affari esteri, Sen. Franco Danieli, presso la Commissione Affari esteri del Senato, in ordine agli indirizzi del Governo riguardanti gli italiani nel mondo.

Il Sen. Danieli è tornato nella stessa sede parlamentare nella seduta del 15 novembre 2006, per riferire sul funzionamento e le prospettive di razionalizzazione della rete consolare, una buona parte dei cui servizi rivestono – come in precedenza accennato - la massima importanza per le collettività italiane all’estero.

Il Comitato permanente sugli italiani all’estero, costituito anche nella XV Legislatura dalla Commissione Affari esteri della Camera, ha ascoltato a sua volta il Viceministro Danieli nella seduta del 10 ottobre 2007, mentre nelle sedute del 24 ottobre e del 14 novembre 2007 ha esaurito l’audizione dell’Ambasciatore Giampiero Massolo, Segretario generale del Ministero degli Affari esteri, in ordine alla razionalizzazione della rete diplomatica e consolare.

Anche il Senato si è dotato nella XV Legislatura di un organo per le questioni relative agli italiani all’estero, mediante la costituzione di un apposito Comitato, che ha svolto diverse attività, per lo più di carattere istruttorio o conoscitivo.

A seguito di diverse polemiche sull’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani all’estero in occasione delle elezioni politiche del 2006, la Giunta delle elezioni di Montecitorio ha svolto alcune audizioni di funzionari investiti di compiti rilevanti in materia, e precisamente:

§         Audizione del Presidente dell’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero, dottor Claudio Fancelli, e dei componenti dell’Ufficio (seduta del 28 giugno 2006);

§         Audizione del direttore della Direzione centrale dei servizi elettorali del Ministero dell’interno, Adriana Fabbretti, nonché del direttore della Direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del Ministero degli Affari esteri, Adriano Benedetti (seduta del 19 luglio 2006).

La Giunta delle elezioni del Senato, a sua volta, in base alle medesime motivazioni ha svolto un’indagine conoscitiva sulle operazioni di voto e di scrutinio nella circoscrizione Estero, nel corso della quale, dopo l’audizione del Presidente e di alcuni componenti dell’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero (seduta del 14 novembre 2006), la Giunta – dopo un congruo periodo di discussione – ha deliberato (seduta del 24 ottobre 2007) la costituzione di due comitati di revisione schede, uno per la ripartizione dell’America meridionale e l’altro per le restanti tre ripartizioni della circoscrizione Estero.

Infine, va ricordato l’unico atto di indirizzo di interesse degli italiani all’estero approvato nella XV Legislatura, vale a dire la risoluzione dell’On. Spini, approvata in un nuovo testo dalla Commissione Affari esteri di Montecitorio nella seduta del 4 ottobre 2006, e concernente il sollecito alla ratifica di Convenzioni pensionistiche con il Cile, il Brasile e il Canada.

 


Il Ministero degli Affari Esteri

Premessa

L’organizzazione interna del Ministero degli Affari Esteri e il suo progressivo adeguamento agli obiettivi generali della riforma del 1999, sono stati costantemente seguiti dall’organo parlamentare competente per materia, nella consapevolezza della importanza cruciale – ai fini di un rafforzamento della proiezione internazionale del paese - di una struttura altamente qualificata e in grado di esprimere  capacità di visione strategica. Poiché anche l’efficacia delle politiche rivolte agli italiani all’estero e delle strategie di penetrazione commerciale è subordinata alla capacità operativa della rete diplomatica e consolare e quindi alle dotazioni rese disponibili, risulta evidente come l’organizzazione del Ministero e di tutte le sue propaggini abbiano costantemente occupato una posizione primaria nell’interesse e nella attività degli organi parlamentari.

Alla fine del 2007, sulla base di una deliberazione in tal senso dell’Ufficio di Presidenza della III Commissione (28 novembre 2007), il Presidente della Camera aveva già autorizzato l’avvio di un’indagine conoscitiva sull’organizzazione e il funzionamento del Ministero degli Affari esteri. La crisi di governo e la fine anticipata della legislatura non hanno permesso l’effettivo avvio dell’indagine.

L’attività della Camera

Durante la XV legislatura, il principale intervento normativo nel settore si è avuto con la legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296) che, all’art. 1, comma 404, ha introdotto norme mirate alla semplificazione e razionalizzazione delle strutture dell’amministrazione centrale[97]. Tali norme hanno disposto l’emanazione di regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 4-bis della legge n. 400 del 1988, al fine di raggiungere i seguenti obiettivi: 

o        riorganizzazione degli uffici di livello dirigenziale generale e non generale, procedendo alla riduzione in misura non inferiore al 10 per cento di quelli di livello dirigenziale generale ed al 5 per cento di quelli di livello dirigenziale non generale;

o        gestione unitaria del personale e dei servizi comuni anche mediante strumenti di innovazione amministrativa e tecnologica;

o        rideterminazione delle strutture periferiche;

o        riorganizzazione degli uffici con funzioni ispettive e di controllo;

o        riduzione degli organismi di analisi, consulenza e studio;

o        riduzione delle dotazioni organiche in modo da assicurare che il personale utilizzato per funzioni di supporto non ecceda comunque il 15 per cento delle risorse umane complessivamente utilizzate da ogni amministrazione.

Una specifica previsione era poi dedicata al Ministero degli Affari esteri. Infatti la lettera g) del comma 404 prescriveva l’” avvio della ristrutturazione” della rete diplomatica, consolare e degli istituti di cultura ed in particolare l'unificazione dei servizi contabili degli uffici della rete diplomatica aventi sede nella stessa città estera.

A dare attuazione alle previsioni del comma 404 – relativamente al Ministero degli Affari esteri – ha provveduto il DPR 19 dicembre 2007, n. 258.

Lo schema di decreto (Atto del Governo n. 180) è stato esaminato per il parere dalla I Commissione nella seduta dell’8 novembre 2007, mentre rilievi sono stati espressi dalle Commissioni III e V.

Con il DPR n. 258 del 2007, si è – di fatto – riordinata l’intera disciplina organizzativa del MAE in quanto tale atto ha interamente sostituito le  disposizioni previgenti riguardanti l’organizzazione centrale del Ministero degli Affari esteri: l’art. 13, infatti, provvede ad abrogare integralmente il DPR n. 267 del 1999 e il DPR n. 157 del 2002[98]; vengono inoltre abrogati molti articoli riguardanti l’organizzazione centrale del MAE contenuti nel DPR n. 18 del 1967, recante Ordinamento dell’Amministrazione degli Affari esteri e contenente tutte le disposizioni che regolano l’attività non solo dell’amministrazione centrale, ma anche delle rappresentanze diplomatiche, degli uffici consolari, degli istituti italiani di cultura, dei servizi amministrativi e tecnici.

Il DPR – composto da 13 articoli e 2 tabelle allegate – ha provveduto:

                in primo luogo, alla rideterminazione delle strutture di livello dirigenziale generale e delle loro articolazioni interne, con riduzione generale del loro numero, secondo le prescrizioni recate dalla legge finanziaria;

                all’avvio della ristrutturazione della rete delle rappresentanze diplomatiche, consolari e degli istituti di cultura, in attuazione della lettera g) del comma 404 della legge finanziaria, attraverso alcuni accorpamenti;

                alla istituzione di un secondo Vice Segretario generale;

                alla ridefinizione e razionalizzazione delle funzioni dell’Ispettorato generale del Ministero e adalcuni adattamenti della struttura delle direzioni generali per materia.

Una serie di disposizioni hanno inoltre la finalità di coordinare le norme introdotte con altre vigenti e di autorizzare i successivi atti attuativi della nuova disciplina. Infine, alcune disposizioni di minima portata innovativa o di mero coordinamento hanno riguardato anche il Cerimoniale diplomatico, le Direzioni generali geografiche, il Servizio stampa e il Servizio per l’informatica, le comunicazioni e la cifra, il Consiglio di amministrazione, i Comitati speciali per l’esame di determinate questioni attinenti il diritto internazionale e gli studi storici ed archivistici che il Ministro può istituire con proprio decreto.

 

Successivamente, in attuazione delle disposizioni del DPR n. 258, è stato emanato anche il DM 15 febbraio 2008, recante Disciplina delle articolazioni interne degli uffici di livello dirigenziale generale istituiti presso l'amministrazione centrale del Ministero degli affari esteri con il decreto del Presidente della Repubblica 19 dicembre 2007, n. 258, con il quale è stata introdotta la disciplina (di rango non regolamentare) relativa alla ridefinizione dei compiti delle strutture di livello dirigenziale non generale, dei compiti della Segreteria generale, dei compiti del Cerimoniale diplomatico, dei compiti delle strutture dirigenziali di secondo livello delle direzioni generali geografiche, dei compiti delle strutture dirigenziali di secondo livello delle direzioni generali per materia e dei compiti degli uffici dirigenziali non generali del Servizio per l’informatica.

 

Un secondo intervento parlamentare di modifica della disciplina organizzativa del Ministero si è avuto in occasione dell’esame dello Schema di regolamento recante modifiche al regolamento di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro degli affari esteri, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 2001, n. 233 (Atto del Governo n. 172)[99], divenuto il DPR 14 novembre 2007, n. 218. Molte modifiche al regolamento del 2001 derivano dalla necessità di provvedere al mero coordinamento normativo (anche in termini di semplice aggiornamento dei rinvii) rispetto alla disciplina intervenuta successivamente al 2001 (es. legge n. 145 del 2002).

Altre modifiche hanno adeguato la struttura degli Uffici di diretta collaborazione alle innovazioni introdotte – a inizio legislatura – dal decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito dalla legge n. 233 del 2006, con il quale si è inciso sull’articolazione in Ministeri (il cui numero complessivo è stato innalzato, da 14 a 18) e sul riparto di competenze tra i Ministeri, e tra la Presidenza del Consiglio ed i Ministeri stessi.

Per quanto riguarda il MAE, le modifiche principali alla disciplina degli uffici di diretta collaborazione hanno riguardato la nuova figura dei Vice Ministri, ai quali è stata garantita una corrispondente dotazione organica all’interno degli uffici di diretta collaborazione.

 

Un terzo intervento normativo attuato nella XV Legislatura è stato il varo del decreto legislativo 15 dicembre 2006, n. 307. Lo schema di decreto è stato trasmesso al Parlamento il 29 novembre 2006 ed esaminato, in sede referente, dalla III Commissione (con rilievi della V).

Il decreto legislativo reca l’attuazione della delega di cui all’art. 4 della legge 28 novembre 2005 n. 246,Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005, concernente il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di gestione amministrativa e contabile degli uffici all’estero del Ministero degli affari esteri. Vengono introdotte modifiche alle funzioni delle diverse figure professionali amministrative e contabili operanti negli uffici all’estero, in connessione con le innovazioni normative che hanno interessato negli anni tali professionalità, e rinviando alla contrattazione collettiva per i contenuti e le specifiche professionali riferiti al profili del personale interessato. Vengono anche individuate, specificamente, le tipologie delle spese di competenza degli uffici all’estero e coordinate queste disposizioni con quelle di cui al D.L. 35/2005 e alla legge n. 267/2005, in materia di flussi finanziari da e per l’estero. Viene, inoltre,  prevista l’istituzione di Centri interservizi amministrativi che operino presso le Ambasciate, per coordinare la gestione delle spese degli uffici all’estero, l’art. 7 attribuisce al titolare dell’ufficio all’estero la piena competenza in ordine alla dismissione di beni mobili di pertinenza dell’ufficio. Infine, l’art. 8 prevede interventi volti all’applicazione del d.lgs. n. 82 del 2005 (Codice dell’amministrazione digitale) anche alla comunicazione fra la sede centrale e gli uffici all’estero; l’art. 9 rinvia ad un successivo regolamento per le norme di attuazione del decreto legislativo[100] e l’art. 10 dispone le abrogazioni esplicite delle norme vigenti che risultano sostituite o comunque assorbite dalle modifiche introdotte con il decreto. 

 

Si ricorda anche che – nelle sedute del 24 ottobre 2007 e del 14 novembre 2007 – il Comitato permanente sugli italiani all’estero, istituito presso la III Commissione della Camera, ha audito il Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri, Ambasciatore Giampiero Massolo, in merito alla riorganizzazione della rete diplomatica e consolare (vedi in proposito a pag. 135 il capitolo Gli italiani all’estero).

 

Si segnala, infine, che nel corso della XV Legislatura sono stati approvati altri decreti che hanno inciso sulla disciplina del Ministero, pur senza essere sottoposti all’esame del Parlamento. Si elencano di seguito i principali:

§         il DPR n. 95 del 14 maggio 2007, recante Regolamento per il riordino degli organismi operanti presso il Ministero degli affari esteri, a norma dell’art. 29 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248[101](Contenimento della spesa per commissioni, comitati ed altri organismi);

§         il DPCM 11 maggio 2007, recante Riordino del Comitato interministeriale per i diritti umani operante presso il Ministero degli affari esteri, ai sensi dell’art. 29 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248;

§         Il DPCM n. 153 del 20 luglio 2007, recante Regolamento di riordino della disciplina delle modalità di valutazione periodica dei funzionari diplomatici appartenenti ai gradi di segretario di legazione e di consigliere di legazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

 

 


Affari europei

 


La politica estera dell’Unione Europea

Premessa

Il 18 e 19 ottobre 2007 i Capi di Stato dei 27 Paesi membri dell’Unione hanno approvato a Lisbona il Trattato di riforma dell’Unione europea che entrerà in vigore non appena concluso il processo di ratifica in tutti i 27 Stati membri. L’auspicio è che questo processo si concluda prima delle prossime elezioni del Parlamento europeo, e quindi entro il mese di giugno del 2009.

Particolarmente rilevante, ai fini della politica estera dell’UE, il nuovo articolo 10A del Trattato, nel quale vengono esplicitamente richiamati i principi  - in primis il multilateralismo - che hanno informato la creazione e l’allargamento dell’Unione “e che essa stessa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. L’Unione si adopera per sviluppare relazioni e istituire partenariati con i Paesi terzi e con le organizzazioni internazionali, regionali e mondiali, che condividono i principi (…). Essa promuove soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite”.

La politica estera dell’Unione europea sarà elaborata anche sulla base di proposte avanzate dalla nuova figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Si tratta, forse, della maggiore novità introdotta dal Trattato in tema di politica estera, dalla quale ci si attende una rinnovata capacità dell’Unione di parlare con una sola voce agli interlocutori internazionali.

L’Unione europea, con i suoi 500 milioni di abitanti, con le dimensioni della sua produzione complessiva - pari al quarto del reddito mondiale e al quinto del commercio internazionale - e anche grazie al valore complessivo dell’aiuto allo sviluppo (più della metà dell’aiuto allo sviluppo e dell’aiuto umanitario mondiale), ha oggi le credenziali necessarie a divenire attore globale. Nel mondo va crescendo una vera e propria domanda di azione europea, riconducibile anche ai valori democratici, alle tradizioni culturali e agli stili di vita che l’Europa propone.

 Nel mondo dei prossimi decenni l’Europa ha grandi potenzialità di presentarsi e agire come protagonista responsabile e capace di promuovere stabilità e benessere, mentre la stessa esperienza della costruzione europea può costituire un modello di integrazione regionale e stabilizzazione, esportabile anche in altre aree del pianeta.

Nel dicembre 2003, il Consiglio europeo che concluse il semestre di presidenza italiana adottò la Strategia Europea in materia di Sicurezza nella quale furono individuate le sfide (conflitti regionali, terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa, Stati falliti e criminalità organizzata) e fu definito il metodo della politica estera europea, in un contesto di cooperazione definito di “multilateralismo efficace”.

 In questi anni la base istituzionale di tale politica è stata quella prevista nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC), istituita e disciplinata dai Trattati di Maastricht e Amsterdam, integrata dall’Alto rappresentante per la PESC.

Per quanto riguarda le iniziative nell’ambito della politica europea di sicurezza e difesa comune (PESD), nel periodo che va dalla adozione della Strategia ad oggi  l’Unione europea ha avviato 16 operazioni di gestione di crisi: 11 di natura civile, 4 militari, una con componenti sia civili che militari. Di queste, 11 sono ancora attive. In ambito PESD è – inoltre – in preparazione una futura missione dell’Unione in Kosovo sulla rule of law e per l’attuazione delle decisioni assunte a livello internazionale sul futuro status del paese e che dovrebbe assumere le funzioni finora svolte dalla missione UNMIK. A tale proposito è già attiva in Kosovo, da circa un anno, la missione European Union Planning Team (EUPT) che ha il compito di predisporre l’insediamento della nuova missione civile (vedi il capitolo Kosovo, a pag. 30). Tra le maggiori iniziative intraprese in questo ambito sono inoltre da ricordare l’intervento al posto di frontiera di Rafah, l’assistenza al governo dell’Iraq per la formazione del law enforcement, la collaborazione con l’Unione africana, la missione di assistenza alle missioni dell’Unione Africana in Darfur e quella di assistenza ai profughi sudanesi in Ciad e le tre missioni nella Repubblica Democratica del Congo a sostegno del peace keeping delle Nazioni Unite (per un quadro riassuntivo di tutte le missioni con partecipazione italiana, si rinvia alla scheda Le missioni internazionali, nel Dossier del Dipartimento Difesa).

Per quanto attiene agli strumenti finanziari, l’Unione ha definito misure ad hoc, come il meccanismo di reazione rapida, introdotto nel 2001, mentre negli anni è stato incrementato il budget a disposizione dell’azione esterna (interventi in materia di aiuto umanitario, assistenza macrofinanziaria, cooperazione allo sviluppo e cooperazione economica, politica europea di vicinato e partenariato, preadesione e stabilizzazione), che dovrà raggiungere, nel 2013, il 9,9% del complessivo bilancio dell’Unione.

Al momento l’azione esterna dell’Europa si fonda dunque su un approccio flessibile, basato su strumenti diversificati, inseriti in un contesto di dialogo politico a diversi livelli, rete di relazioni negoziali, accordi-quadro e piani di azione.

L’attività della Camera

Il tema della politica estera europea è stato trattato in numerosi casi, sia nel corso di dibattiti parlamentari (soprattutto presso le Commissioni III e IV), sia all’interno di mozioni, risoluzioni e altri atti di indirizzo e controllo. Fra questi, si ricorda, in particolare, l’audizione del Sottosegretario Famiano Crucianelli nella seduta della III Commissione della Camera del 6 giugno 2007, nella quale – oltre alla situazione nel Kosovo – è stato affrontato anche il tema della dimensione della sicurezza dell’UE. In quell’occasione, il rappresentante del Governo ha ricordato che la PESD non comporta necessariamente, in questa fase, la creazione di un esercito europeo, bensì si riferisce alla capacità esistente negli Stati membri e si sviluppa compatibilmente con la NATO e in maniera coordinata con essa. Sul piano operativo, la cooperazione tra le due organizzazioni è stabilita dai cosiddetti «accordi Berlin Plus» che prevedono, nel caso di missioni militari e a determinate condizioni, l'utilizzo da parte dell'Unione europea di mezzi e di capacità appartenenti alla NATO.

Le iniziative che vengono realizzate dal Consiglio dell'Unione europea nell'ambito della PESD hanno quindi una natura diversa rispetto a quelle intraprese dalla Commissione europea nell'ambito delle relazioni esterne dell'Unione. Le prime sono orientate alla gestione della crisi, le seconde sono principalmente rivolte allo sviluppo economico e sociale e all'institution building. Pur nell’ambito delle rispettive e distinte competenze, le due dimensioni richiedono maggiore coordinamento e sinergie, al fine di giungere ad una politica estera sempre più coerente. La PESD deve ancora sviluppare tutte le sue potenzialità per poter diventare politica di difesa comune vera e propria.

Occorre comunque considerare che l'Unione europea non è in un'alleanza militare e non può assumere decisioni relative alla difesa comune del continente, decisioni che rimangono di competenza dei singoli Paesi e della NATO. In questo quadro il Sottosegretario ha fatto riferimento a “questioni quali l'iniziativa americana sulla difesa missilistica”, chiarendo che esse sono prioritariamente di competenza della NATO. Tale circostanza non esclude, tuttavia,  che anche in sede di Unione europea “si possa eventualmente discutere degli sviluppi in corso, soprattutto al fine di coinvolgere politicamente quei Paesi membri dell'Unione europea che non sono membri della NATO” (vedi, in proposito, il capitolo Lo scudo missilistico in Europa, a pag. 81).

L’On. Crucianelli ha offerto – in quella occasione -  un quadro completo delle missioni europee in corso a quella data, annunciando inoltre che in Kosovo “è previsto per l'autunno prossimo, successivamente alla definizione dello spazio della provincia, l'avvio di una missione civile nel campo dello stato di diritto, finalizzata a rilevare buona parte delle attività attualmente svolte da UNMIK nel settore della polizia, della giustizia e della dogana: si tratterà della più impegnativa operazione civile PESD intrapresa fino ad oggi, con un impiego di personale internazionale di quasi 1.800 unità” (si rinvia, in proposito, al capitolo Kosovo a pag. 30).

 

Si ricordano, inoltre le Conferenze dei Presidenti delle Commissioni esteri dei Parlamenti dei Paesi membri dell'Unione europea, del Parlamento europeo e dei Paesi candidati, che si svolgono con cadenza semestrale nel Paese che detiene il turno di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, e alle quali prendono parte componenti degli uffici di presidenza delle Commissioni esteri dei Paesi rappresentati. I temi della politica estera europea sono di solito al centro dei dibattiti che si svolgono in questa sede e di tali dibattiti viene solitamente riferito in Commissione (vedi, in proposito, le sedute della III Commissione del 19 ottobre 2006 e del 14 marzo 2007).

 

Ma l’occasione più importante – nel corso della XV Legislatura - in cui i lavori della Camera dei deputati si sono focalizzati sul tema oggetto del presente capitolo è stata l’indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Unione europea che la III Commissione ha deliberato, nel luglio 2006, ai sensi dell’articolo 144 del Regolamento.

I lavori della Commissione si sono articolati seguendo tre direttrici geografiche, corrispondenti a tre versanti di impegno, strategici e prioritari per l’Unione europea: il Mediterraneo, i Balcani Occidentali e l’area interessata dalla Politica europea di vicinato (PEV).

La Commissione ha avviato il proprio lavoro il 5 ottobre 2006 con l’audizione di Javier Solana, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione europea. Le successive 14 audizioni si sono svolte fino al 17 ottobre 2007, data in cui si è tenuta l’audizione conclusiva del lavoro della Commissione, svolta dal Commissario europeo per le relazioni esterne, Benita Ferrero Waldner.

Nel documento conclusivo, approvato dalla III Commissione nella seduta del 17 dicembre 2007, si dà conto delle principali questioni che – oggi – impegnano l’Unione europea nella sua proiezione internazionale, a partire dalle complesse relazioni con la Turchia, che, nelle parole del Commissario Rehn, “è un partner strategico fondamentale per l'Europa, nonché una cosiddetta «àncora di stabilità» nella regione instabile del grande Medio Oriente ed un riferimento democratico per gli altri Paesi del mondo musulmano”.

Le direttrici geostrategiche dell’indagine hanno poi riguardato – come si è detto - i seguenti tre punti:

 

Balcani Occidentali

Il dato di partenza è quello del miglioramento generale della situazione dell’area, a circa un decennio dai conflitti degli anni Novanta, sia sul piano della pacificazione e del raggiungimento di equilibri politici che del consolidamento istituzionale, nonché dell’economia (si tratta della regione europea con il più alto tasso di crescita del Pil, pari al 5-7 per cento annuo) e della condizione generale della popolazione.

Fra gli elementi di incertezza, invece, assumono particolare rilievo le questioni – fra loro connesse - del Kosovo e dell’isolamento della Serbia, paese esposto al rischio di derive radicali e nazionalistiche.

E’ da ricordare che l’indagine si svolgeva (e si concludeva) prima della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo. In quel contesto, il documento conclusivo sottolineava la necessità di mantenere la prospettiva di integrazione europea per tutti i Paesi dei Balcani occidentali, senza eccezioni e secondo una tabella di marcia il più possibile definita, in linea con le conclusioni del Consiglio europeo di Salonicco nel 2003.

Si rilevava, inoltre, che  la crisi serbo-kosovara - da cui dipende, di fatto, la stabilità dell’area – è “una priorità che impone il pieno coinvolgimento dell’Unione europea, che si accinge peraltro ad intervenire, come unico attore multilaterale nella regione, con una propria missione, militare e civile, in sostituzione delle forze della missione UNMIK, presenti nel Paese dal 1999 sulla base della risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1244”.

Si registrava come la questione sullo status del Kosovo sia divenuta nel corso del 2007 un elemento sempre meno negoziabile per il consolidarsi di posizioni antitetiche tra le parti, condivise da Stati Uniti e Russia, per il radicato attaccamento delle popolazioni alle posizioni assunte dalla leadership politica dei due Paesi e, infine, per l’inadeguata attenzione al problema da parte della comunità internazionale negli anni successivi al 1999. E si concludeva ricordando la posizione dell’Unione europea, tradizionalmente favorevole al riconoscimento della vocazione all’indipendenza da parte della popolazione kosovara, ma vigile sulla esigenza di affrontare il problema della protezione delle minoranze serbe in Kosovo e ferma nella volontà di evitare l’isolamento della Serbia.

L’indagine ha anche potuto verificare come i Balcani occidentali, insieme al Caucaso, costituiscano uno snodo cruciale per il futuro dell’azione esterna dell’Unione europea, anche perché includono regioni a forte presenza islamica - di un Islam prevalentemente moderato, che opera nel quadro di contesti politico-istituzionali laici, circostanza che a maggior ragione richiede da parte dell’Unione europea la definizione di una strategia regionale preventiva, e non reattiva, nell’ottica di un rapporto equilibrato e risolto con l’universo islamico extraeuropeo.

 

Politica europea di vicinato (PEV)

Inaugurata nel 2003, la PEV è stata istituita per dare impulso alle relazioni con i Paesi terzi confinanti, e non destinati ad entrare a far parte dell’Unione europea, sulla base di valori politici ed economici condivisi, al fine di “evitare nuove linee di demarcazione sul territorio europeo”. Un’importante novità ha riguardato nel 2007 l’introduzione di uno strumento di finanziamento esclusivo, che dal 1 gennaio ha sostituito i programmi MEDA e TACIS, denominato “Strumento europeo di vicinato e partenariato” (ENPI), destinato in modo particolare al finanziamento della cooperazione regionale e transfrontaliera. La PEV è stata inizialmente indirizzata verso i Paesi situati a est dell’Unione ma, per merito di alcuni Paesi, tra cui l’Italia, essa è stata estesa a sud in un’ottica di complementarità strategica con il Partenariato Euromediterraneo.

Di particolare interesse è risultata l’analisi geostrategica dell’area interessata dalla Politica europea di vicinato che vede il formarsi di una sorta di linea di faglia che ha inizio nell’area baltica e prosegue in Bielorussia, Paese a vocazione europea, i cui rapporti con l'Europa sono attualmente molto rarefatti, per continuare in Ucraina, paese dall’anima orientale e occidentale, e in Moldova, Stato su cui grava una serie di problemi quali la Transnistria, la cospicua presenza militare ex-sovietica, nonché la rete radicata di crimine organizzato e commistioni tra poteri locali e traffici illeciti. La linea di faglia includerebbe altresì la regione del Caucaso, caratterizzata da conflitti congelati, ma a forte rischio di recrudescenza, e la regione dell'Ossezia del sud. Più a sud vi sarebbero poi la Georgia, Paese con una doppia vocazione storico-politica e storico-culturale, il Nagorno-Karabakh, dove è in atto un conflitto in cui sono coinvolte truppe dell’Armenia, Paese a sua volta in contenzioso con l'Azerbaigian e con la Turchia. Proseguendo lungo la linea, si incontrano le Repubbliche centro-asiatiche, che l’Unione europea ha sempre trascurato e che si accinge a “scoprire” per la necessaria attenzione alle rotte energetiche verso cui convergono gli interessi russi, americani e cinesi. Secondo l’analisi svolta in Commissione, si tratta di un’area poco familiare all’interesse europeo ma di crescente importanza per l’evidente interconnessione con le maggiori questioni internazionali.

Per quanto riguarda il partenariato euromediterraneo, i lavori dell’indagine hanno fatto registrare – pur nel riconoscimento di alcuni importanti risultati conseguiti - un consenso in ordine al suo mancato successo, che difficilmente realizzerà l’obiettivo originario dell’area di libero scambio estesa a tutto il bacino entro il 2010. Oggi occorre prendere atto della insoddisfazione dei Paesi della sponda sud per l’insuccesso della strategia di Barcellona e della diffusa preoccupazione  per la politica non sufficientemente attiva dell’Europa per lo sviluppo dei Paesi della sponda sud.

In questo quadro, due sembrano essere gli strumenti che potrebbero risultare efficaci per un rilancio della politica euromediterranea: l’istituzione di una banca euromediterranea con un maggiore apporto di capitali privati e l’istituzione di un’università paritetica. Un nodo importante da affrontare rimane, inoltre, la politica agricola comune (PAC), attualmente impostata secondo una logica di sussidi agli agricoltori che non procede nella direzione di una promozione dello sviluppo dei Paesi della sponda sud.

In generale, si è comunque rilevato che il Partenariato euromediterraneo rappresenta lo strumento regionale più strutturato e avanzato nell’ambito delle relazioni esterne dell’Unione europea. La principale ragione del suo mancato decollo è apparsa in realtà essere la mancata soluzione del conflitto in Medioriente, considerato che l’Euromediterraneo forniva una risposta congiunta regionale che non poteva funzionare senza la volontà unanime di tutti i partecipanti al dialogo.

 

Europa in Medio Oriente

La soluzione del conflitto israelo-palestinese rappresenta una priorità  strategica assoluta per l’Europa. Come ricordato dall’Alto Rappresentante Solana al termine dei lavori della Conferenza di Annapolis, svoltasi il 26 novembre, l’Europa partecipa in modo attivo all’impegno della Comunità internazionale per la soluzione della crisi israelo-palestinese, che è unanimemente considerata condizionale al positivo esito delle altre tensioni nel cosiddetto “Grande Medio Oriente”: l’Europa è infatti membro del Quartetto, insieme agli Stati Uniti, alla Russia e alle Nazioni Unite, è presente sul terreno con proprie missioni, rappresenta il massimo donatore del popolo palestinese, ed è presente attraverso l’impegno per la pace e la ricostruzione profuso dai suoi Stati membri.

Gli approfondimenti sul ruolo dell’Unione europea nella regione mediorientale si sono concentrati – in primo luogo - sull’analisi della situazione in Libano, che ha costituito, per opinione condivisa dai soggetti auditi,  il maggior successo della politica estera dell’Unione europea di questa fase.

La convergenza tra Unione europea e Nazioni Unite, determinatasi in occasione della crisi libanese, ha rinvigorito il concetto di multilateralismo efficace nella direzione di un’azione concertata degli organismi internazionali e regionali.

La questione della crisi internazionale che gravita intorno alla presenza militare internazionale in Afghanistan è stata invece considerata di rilievo primario ai fini del futuro chiarimento su quello che potrà essere un ruolo esterno dell’Unione europea. L’impegno europeo in quell’area è destinato ad essere un impegno di lunga durata che vedrà una robusta presenza sostanzialmente europea in Afghanistan – peraltro la stessa presenza della Nato è percepita come europea - sul versante della ricostruzione civile e della normalizzazione del Paese. Nel corso dei lavori la questione afghana si è intrecciata con quella di altri Paesi dell’area, come ad esempio il Pakistan, con la conseguenza di segnalare l’esigenza che l’Unione europea giunga al più presto a definire una politica autonoma coerente nei confronti di un’area vasta, che comprende Paesi ad alta instabilità e che destano, a vario titolo, la preoccupazione della comunità internazionale, come l’Iran, l’Afghanistan, l’India o il Pakistan.

In particolare, l’Iran rappresenta probabilmente il principale problema per l’intera Comunità internazionale e forse l’unico dossier internazionale per il quale i partner d’oltreoceano confidano e si affidano al contributo europeo, considerato che da decenni non intrattengono rapporti né diplomatico-politici né commerciali con il Paese e che l’Unione europea rappresenta il principale interlocutore economico dell’Iran. La necessità di un approccio necessariamente anche europeo nella soluzione della questione iraniana potrebbe costituire la chiave di volta per un rafforzamento del ruolo esterno dell’Unione europea.

In generale, la linea di politica estera perseguita dall’Unione europea ha principalmente mirato a sostenere l’attività del Consiglio di Sicurezza per quanto concerne il dibattuto iter per la definizione di ulteriori sanzioni nei confronti dell’Iran. In numerosi interventi è stata auspicata un’iniziativa autonoma dell’Unione europea, che peraltro mantiene una fruttuosa collaborazione con l’Iran sul terreno della lotta al traffico di droga e considera tale Paese un interlocutore regionale essenziale per la soluzione dei conflitti in Iraq.

Infine, per quanto riguarda l’Iraq,è stato ricordato come l’Europa sia presente con la missione civile EU JUST LEX, adottata nell’ambito PESC e finalizzata al ripristino dello stato di diritto attraverso programmi di formazione rivolti al settore del law enforcement. In quest’area la scelta europea dovrà essere inquadrata nell’ambito di un progetto unitario per il Grande Medio Oriente, che dovrebbe tenere conto dei rischi connessi ad un improvviso vuoto occidentale nell’area e al ruolo di attori come la Russia, la Cina o l’Iran. E’ stato inoltre sottolineato il ruolo fondamentale che la Turchia può giocare per la stabilizzazione dell’Iraq, a condizione che la Turchia non sia coinvolta in un’escalation di azioni militari nel territorio nordiracheno (vedi, in proposito, il capitolo La Turchia e la questione curda a pag. 75).

 

 


Attività presso le istituzioni dell’Unione europea
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

 


Balcani occidentali

Come ribadito in più occasioni dalle Istituzioni europee, la prossima fase del processo di allargamento riguarderà i paesi dei Balcani occidentali[102] che, già in occasione del Consiglio europeo tenutosi a Feira il 19 e 20 giugno 2000, sono stati definiti “candidati potenziali all’adesione all’Unione europea”. Tale approccio è stato ribadito da ultimo dal Consiglio europeo del dicembre 2007.

Il processo di stabilizzazione ed associazione

Attualmente le relazioni tra l’Unione europea e i cinque paesi dei Balcani occidentali si svolgono prevalentemente nel quadro del Processo di stabilizzazione ed associazione (PSA), istituito nel 1999.

 

Il processo è la cornice entro cui diversi strumenti - elevato livello di assistenza finanziaria, dimensione regionale, programma di assistenza finanziaria, preferenze commerciali, supporto tecnico, dialogo politico, cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni - sostengono gli sforzi compiuti da questi paesi nella fase di transizione verso democrazie ed economie di mercato stabili; come già anticipato, nel lungo periodo la prospettiva è quella della piena integrazione nell’Unione europea, sulla base delle previsioni del Trattato sull’Unione europea e dei criteri di Copenaghen.

 

La pietra angolare del PSA è rappresentata dalla conclusione con ciascun paese della regione di un accordo di stabilizzazione ed associazione, basato sul rispetto dei principi democratici e degli elementi fondanti del mercato unico europeo. A tale proposito accordi di stabilizzazione ed associazione sono già in vigore con la Croazia[103] e con la ex Repubblica iugoslava di Macedonia[104] e sono stati firmati con Albania[105] (12 giugno 2006) e Montenegro[106] (15 ottobre 2007).  La Bosnia Erzegovina e l’UE hanno siglato l’accordo il 4 dicembre 2007. Per quanto riguarda la Serbia, il 7 febbraio 2008 era prevista la firma di un accordo politico provvisorio proposto dall’UE alla Serbia a fronte dell’opposizione di Belgio e Paesi Bassi alla firma dell’Accordo di stabilizzazione ed associazione, già siglato il 7 novembre 2007[107]. La decisione dell’UE di avviare la missione EULEX in Kosovo[108] ha comportato al momento il rinvio da parte della Serbia della firma dell’accordo politico provvisorio con l’UE[109].

La comunicazione di marzo 2008

Sulla base delle indicazioni contenute nelle relazioni periodiche sui singoli paesi presentate il 6 novembre 2007 e facendo seguito all’invito del Consiglio, il 5 marzo 2008 la Commissione ha presentato la comunicazione “Balcani occidentali: rafforzare la prospettiva europea[110], il cui obiettivo è quello di proporre nuove iniziative e di potenziare quelle esistenti per sostenere lo sviluppo politico ed economico dei paesi della regione. Tra le iniziative proposte si segnalano: l’eliminazione dei visti per i cittadini dei Balcani occidentali che viaggiano in Europa[111]; l’incremento del numero delle borse di studio per gli studenti dei Balcani occidentali che vengono a studiare in Europa; maggiore sostegno allo sviluppo della società civile e al dialogo; ulteriore apertura di programmi e agenzie europei alla partecipazione dei paesi dei Balcani occidentali, per favorire contatti e cooperazione tra istituzioni scientifiche ed educative; rafforzamento della cooperazione regionale, azioni transfrontaliere coordinate per fronteggiare eventuali disastri nella regione, come evidenziato dai vasti incendi verificatisi nell’estate del 2007.

Il Kosovo

Dopo il fallimento dei negoziati sulla definizione dello status del Kosovo[112], la presenza dell’Unione europea sul luogo è stata rafforzata ed articolata in tre diverse componenti, con un obiettivo condiviso, quello di sostenere le autorità locali a tutti i livelli, ivi inclusa la prospettiva europea:

 

-         un’entità politica, nella persona del Rappresentante speciale dell’UE (RSUE), destinata ad aiutare le autorità kosovare a rispettare i loro obblighi e a promuovere i valori europei. Nello stesso tempo il RSUE assume anche la funzione di rappresentante civile internazionale. Il 4 febbraio 2008 con l’azione comune 2008/123/PESC del 4 febbraio 2008, Pieter Feith è stato nominato Rappresentante speciale dell’UE. Il suo mandato scadrà il 28 febbraio 2009;

-         un’entità operativa, rappresentata dalla missione PESD EULEX istituita il 4 febbraio 2008, con l’azione comune 2008/124/PESC[113]. Il suo obiettivo è quello di sostenere le autorità le autorità kosovare nel monitoraggio e nel potenziamento di tutti gli ambiti relativi allo stato di diritto, con particolare attenzione a forze di polizia, sistema giudiziario e sistemi di correzione;

-         un’entità incaricata di guidare le riforme, costituita dalla Delegazione della Commissione europea in Kosovo che fornisce assistenza nelle riforme di lungo periodo, nello sviluppo economico e nell’integrazione regionale ed europea.

 

A seguito della dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte dell’Assemblea del Kosovo, il Consiglio affari generali e relazioni esterne del 18 febbraio 2008 ha preso innanzitutto atto degli impegni assunti nel testo della risoluzione approvata dall’Assemblea del Kosovo; ha riconfermato l’impegno dell’UE a giocare un ruolo di primo piano nel rafforzamento della stabilità della regione; ha ribadito il rispetto dei principi di sovranità ed integrità territoriali, sottolineando che, in considerazione del conflitto scoppiato negli anni 1990 e del lungo periodo di amministrazione internazionale, il Kosovo costituisce un caso sui generis che non mette in questione i suddetti principi. Si segnala infine che, come dichiarato dal ministro sloveno degli affari esteri  Rupel – Presidente di turno del Consiglio – in una conferenza stampa a conclusione della riunione, l’Unione europea in quanto unione di 27 Stati non riconosce alcun paese; pertanto, l’eventuale riconoscimento del Kosovo spetta ai singoli Stati membri.

 

A tale proposito si segnala che al momento hanno riconosciuto il Kosovo oltre all’Italia altri 17 Stati membri.


PESC

Politica estera e di sicurezza comune

In occasione del Consiglio europeo del 13 e 14 marzo 2008, l’Alto rappresentante per la PESC ha presentato una relazione sull’impatto dei cambiamenti climatici in corso sulla sicurezza internazionale, evidenziando i diversi fattori di rischio (conflitti causati da penuria di risorse agricole, alimentari e idriche; danni economici e rischi in particolare per le città costiere e le infrastrutture critiche; perdite di territorio dovute ad arretramento dei litorali e sommersione di vaste aree, con conseguenti controversie frontaliere; migrazioni provocate da cause ambientali; aumento delle situazioni di instabilità e fragilità; tensione per l’approvvigionamento energetico). In tale situazione, la relazione rileva la necessità di un intervento dell’Unione europea, anche in considerazione del suo ruolo guida nella politica di sviluppo, della sua politica globale sul clima nonché dell’ampia gamma di strumenti e mezzi di cui dispone, suggerendo di: intensificare le proprie conoscenze; migliorare le capacità di intervento in caso di calamità e conflitti; rafforzare la propria leadership internazionale, in particolare in vista della definizione di un accordo post 2012; attribuire al tema maggiore spazio nei dialoghi politici e nella cooperazione con i paesi terzi.

Il Consiglio europeo nelle sue conclusioni ha sottolineato l'importanza di tale questione, invitando il Consiglio ad esaminare il documento e a raccomandare, al più tardi entro dicembre 2008, appropriate misure di intervento, in particolare sulle modalità per intensificare la cooperazione con regioni e paesi terzi.

Nell’ambito del processo di elaborazione di una strategia comunitaria di lungo termine avviato nel 2006, il 5 febbraio 2008 la Commissione ha presentato la comunicazioneRiservare ai minori un posto speciale nella politica esterna dell’UE” (COM(2008)55), accompagnata dal piano d’azione “Diritti dei minori nell’azione esterna” e dal documento di lavoro “I minori in situazioni di emergenza e di crisi”. L'iniziativa si prefigge di predisporre un quadro per un approccio comunitario a largo raggio, basato su una concezione multidisciplinare e universalmente applicabile dei diritti dei minori e inserito in più ampie strategie di sviluppo e di riduzione della povertà.


Relazioni esterne

Politica di vicinato

Nel contesto del rafforzamento della politica europea di vicinato avviato dall’Unione europea a partire dal 2006, il 5 dicembre 2007 la Commissione ha presentato la comunicazioneUna forte politica europea di vicinato[114], in cui fissa gli obiettivi per il 2008 e gli anni successivi (impegno politico più deciso per favorire l'integrazione economica e migliorare l'accesso al mercato; agevolazione dei viaggi di breve durata effettuati legalmente, in vista di sviluppi più ambiziosi, a più lungo termine, per quanto riguarda la migrazione gestita; ulteriore impegno con i partner PEV per risolvere i conflitti latenti; maggiore sostegno dell'UE alle riforme settoriali dei paesi partner).

Si segnala che la Commissione ha anche provveduto a valutare lo stato di attuazione della politica di vicinato nel corso del 2007. Tale valutazione è esposta nel pacchetto presentato il 3 aprile 2008 e composto da una comunicazione che fa il bilancio complessivo dei progressi compiuti[115], da relazioni singole per ciascuno dei paesi dotati di piano d’azione[116], nonché da un documento di lavoro articolato per settori.

Nell’ambito della PEV rafforzata e, in particolare, dopo l’adesione di Bulgaria e Romania, è di grande importanza per l’UE potenziare le relazioni con la regione del Mar Nero, un'area geografica distinta, ricca di risorse naturali e strategicamente situata al punto d'incrocio fra Europa, Asia Centrale e Medio Oriente. A tal fine l’11 aprile 2007 la Commissione ha presentato la comunicazione “Sinergia del Mar Nero” (COM(2007)160) volta a concentrare l'attenzione sul livello regionale e a rinvigorire i processi di cooperazione in corso per promuovere la stabilità e le riforme nei paesi che si affacciano sul Mar Nero.

Il Consiglio del 14 maggio 2007 ha invitato le prossime presidenze e la Commissione a proseguire nell’iniziativa. La Commissione in particolare è invitata ad effettuare nel primo semestre del 2008 un esame dell'evoluzione dell'iniziativa, sul quale il Consiglio baserà un eventuale ulteriore coinvolgimento nei confronti della regione nel suo complesso.

Si segnala inoltre che il 14 febbraio 2008 si è tenuta la prima riunione dei ministri degli affari esteri dell’Unione europea e della regione del mar Nero che hanno espresso il proprio favore all’iniziativa assunta dall’Unione europea.

Partenariato euromediterraneo

Il 5 e 6 novembre 2007 si è tenuta a Lisbona la nona Conferenza dei ministri degli affari esteri euromediterranei[117], che ha concordato le attività prioritarie per il 2008, tra le quali si segnala: collaborazione nella lotta al terrorismo, compresa l'applicazione del codice di condotta definito nel 2005[118]; liberalizzazione degli scambi di servizi e diritto di stabilimento[119] e istituzione di un meccanismo di composizione dei conflitti[120]; avvio del primo anno del dialogo interculturale euromediterraneo; conferenze ministeriali su società dell'informazione, industria, commercio, turismo e occupazione; ulteriore cooperazione tra partner del nord e del sud in materia di cambiamenti climatici; ulteriore attuazione del piano di azione sul rafforzamento del ruolo delle donne nella società[121]; avvio di un partenariato per promuovere il distacco e lo scambio di funzionari e tirocinanti.

Il Consiglio europeo del 13 e 14 marzo 2008 ha approvato il principio di un'Unione per il Mediterraneo che comprenderà gli Stati membri dell'UE e gli Stati costieri mediterranei non appartenenti all'UE e ha invitato la Commissione a presentare al Consiglio le proposte necessarie per definire le modalità di quello che si chiamerà "Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo", in vista del vertice che si terrà a Parigi il 13 luglio 2008.

Relazioni con paesi terzi e gruppi regionali

Si ricorda che sono in corso numerosi negoziati con paesi terzi e gruppi regionali, volti a concludere accordi di diverso contenuto e livello. Tra di essi si segnalano in particolar modo quelli con l’Ucraina[122], l’Iraq[123], l’India[124], la Cina[125].

Per quanto riguarda le relazioni con la Russia, nel corso della riunione informale del Consiglio affari generali e relazioni esterne del 28 marzo 2008 è stata espressa la volontà di tutti gli Stati membri di approvare nel più breve tempo possibile – probabilmente entro la fine del semestre di Presidenza sloveno - la proposta di mandato negoziale presentata dalla Commissione il 3 luglio 2006 su un nuovo accordo tra l’Unione europea e la Russia che dovrebbe sostituire quello attualmente in vigore, fissando obiettivi più ambiziosi per le relazioni reciproche[126]

Facendo seguito ad un invito del Consiglio in tal senso e in considerazione dei notevoli progressi registrati negli ultimi anni nelle relazioni reciproche, il 27 febbraio 2008 la Commissione ha presentato una proposta di mandato negoziale per un accordo quadro con la Libia, con la quale l’Unione europea non ha al momento alcuna relazione formale.

Nell’ambito delle relazioni esterne a partire dal 2005 una priorità dell’Unione europea è rappresentata dall’Africa. In particolare si segnala che in occasione del secondo Vertice UE-Africa tenutosi a Lisbona alla fine del 2007 sono stati adottati la strategia comune UE-Africa, che propone una visione di lungo termine attraverso un partenariato strategico tra le parti, ed un piano d’azione 2008-2010 che individua le priorità da attuare nei prossimi tre anni.

Politica di sviluppo

Il 9 aprile 2008 la Commissione ha presentato la comunicazioneL’Unione europea – un partner globale per lo sviluppo. Accelerare i progressi verso gli Obiettivi di sviluppo del Millennio” (COM (2008) 173),  in cui evidenzia  che, secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel corso del 2007 l’UE – pur rimanendo il maggior donatore al mondo - ha speso 1,7 miliardi di euro in meno per gli aiuti allo sviluppo, con ciò contravvenendo agli impegni assunti nel quadro degli Obiettivi di sviluppo del millennio[127]. In tale contesto, la Commissione individua quattro aree prioritarie di intervento: aumento sostanziale dei contributi; miglioramento dell’efficacia degli aiuti; impostazione di politiche settoriali più coerenti, che consentano tra l’altro di evitare il fenomeno della “fuga dei cervelli”; finanziamento degli aiuti al commercio.

Il 25 ottobre 2007 la Commissione ha presentato la comunicazioneVerso una risposta dell'Unione alle situazioni di fragilità: l'intervento in circostanze difficili per lo sviluppo sostenibile, la stabilità e la pace”(COM (2007)643), con cui intende gettare le basi per una strategia coordinata dell’Unione europea che inglobi l'ampia gamma di dispositivi esistenti sia a livello degli Stati membri che a livello comunitario.

Il Consiglio del 2007 nell’approvare l’iniziativa ha invitato la Commissione, in stretta cooperazione con gli Stati membri, a fare un inventario degli strumenti finanziari comunitari e bilaterali nonché delle possibilità di intervento degli Stati membri e a presentare entro il 2009 un piano d'attuazione basato sull'esperienza acquisita in alcuni casi "pilota".

Il 18 settembre 2007 la Commissione ha presentato una comunicazione in cui propone di istituire un'alleanza mondiale contro il cambiamento climatico tra l'Unione europea ed i paesi poveri in via di sviluppo maggiormente esposti e ne individua obiettivi e modalità di funzionamento.

Il Consiglio del 19 novembre 2007 nell’accogliere positivamente l’iniziativa ha sottolineato la necessità di avviare ampie consultazioni cui partecipino tutte le parti interessate, in particolare i paesi poveri e esposti al fenomeno.

 

 


Schede di approfondimento

 


Affari internazionali

 


La ratifica di accordi internazionali

Patrimonio culturale immateriale

La tutela del patrimonio culturale immateriale (o intangibile) è da molti anni all’attenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO).

L’adozione della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale è infatti il punto di arrivo di un lungo percorso - iniziato nel 1973 con la proposta della Bolivia di aggiungere uno specifico Protocollo alla Convenzione Universale sul diritto d’autore, finalizzato alla protezione delle tradizioni popolari.

Fra il 1973 e il 2003 si è avuta non solo una successione di studi, ricerche e incontri internazionali, ma anche l’adozione di alcuni strumenti quali, ad esempio, la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e popolare del 1989.

Con il lancio del Programma sulla Proclamazione dei Capolavori del Patrimonio orale e immateriale dell’umanità (1997) si è per la prima volta creata a livello internazionale un criterio che, attraverso la compilazione di liste, avrebbe consentito di individuare i beni che sarebbero entrati a far parte del sistema di tutela previsto dalla futura Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. La creazione di questo nuovo criterio ha avuto il merito di attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla questione e, dopo qualche anno, di approdare alla larga condivisione dell’idea di adottare uno strumento internazionale giuridicamente vincolante.

La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale è stata quindi adottata il 17 ottobre 2003, nel corso della 32° sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO ed è entrata in vigore il 20 aprile 2006, dopo tre mesi dalla data di deposito del trentesimo strumento di ratifica. L’Italia ha provveduto a ratificarla con la legge 27 settembre 2007, n. 167.

 

In base alla Convenzione, il patrimonio culturale immateriale, definito anche “patrimonio vivente”, è considerato la base della diversità culturale e la sua tutela rappresenta la garanzia per una continua creatività. L’articolo 2 definisce il patrimonio culturale immateriale come l’insieme delle pratiche, delle rappresentazioni, delle espressioni, nonché delle conoscenze e delle abilità che le comunità, i gruppi o, in alcuni casi anche gli individui, riconoscono come parte della propria ricchezza culturale.

Sempre nell’articolo 2 vengono poi citati i principali settori nei quali si manifesta tale patrimonio:

 

Tra gli esempi più significativi di questo patrimonio si trovano i capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità proclamati tali dall’UNESCO nel 2001, nel 2003 e nel 2005. Fra di essi: le tradizioni e le espressioni orali dei Pigmei Aka (Rep. Centrafricana) o degli Ifugao (Filippine); alcune arti dello spettacolo come il balletto reale della Cambogia; il carnevale di Binche in Belgio; le feste dedicate ai morti dagli indigeni messicani; i disegni sulla sabbia dei Vanuatu; la cosmovisione andina dei Kallawaya (Bolivia), esempio di conoscenza e di pratica che concerne la natura e l’universo; la lavorazione del legno degli Zafimaniry in Madagascar; gli spazi culturali come la Piazza Jemaa el- Fna in Marocco o il distretto di Boysun in Uzbekistan.

 

Il patrimonio tutelato dalla Convenzione, inoltre, è tradizionale e vivente allo stesso tempo ed ha le seguenti caratteristiche:

 

L’insieme degli Stati parte della Convenzione costituisce l’Assemblea Generale, l’organo sovrano che si riunisce in sessione ordinaria ogni due anni o in sessione straordinaria nel caso in cui essa stessa lo ritenga necessario o se il Comitato Intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale – altro organo della Convenzione - lo richiede.

Nel corso della prima sessione dell’Assemblea generale, svoltasi dal 27 al 29 giugno 2006, sono stati eletti i primi 18 membri del Comitato Intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale il cui numero è salito a 24 dopo l’adesione del 50° Stato, come previsto dalla Convenzione stessa (li ulteriori 6 membri sono stati eletti dalla sessione straordinaria dell’Assemblea generale il 9 novembre 2006).

Nella prima sessione del Comitato Intergovernativo, che si è svolta ad Algeri il 18 e 19 novembre 2006, sono stati preparati i documenti necessari per la piena efficacia della Convenzione affinché essa possa diventare uno strumento effettivo di tutela del patrimonio mondiale immateriale. Le funzioni fondamentali del Comitato sono quelle di promuovere gli obiettivi della Convenzione, dare istruzioni sulle migliori prassi e sulle misure per la salvaguardia del patrimonio culturale. Il Comitato è incaricato inoltre di esaminare e di decidere sulle richieste presentate dagli Stati parte in merito all’iscrizione di elementi del Patrimonio immateriale nelle liste e sul loro monitoraggio.

La Convenzione, infatti, istituisce una Lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, per garantire maggiore visibilità a tale patrimonio, e una Lista del Patrimonio Culturale che necessita di una salvaguardia urgente i cui elementi sono inseriti non già sulla base di un loro straordinario od universale valore, ma per il fatto che siano rappresentativi della creatività e della diversità culturale dell’umanità o che esprimano il patrimonio immateriale di gruppi e comunità.

I beni già proclamati “Capolavori del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità” (v. supra) sono stati inseriti d’ufficio nella Lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità prima dell’entrata in vigore della Convenzione, in seguito alla quale non saranno più possibili ulteriori proclamazioni (art. 31).

Il Comitato aggiorna e pubblica le due liste.

 

Gli Stati parte si impegnano a farsi carico della salvaguardia del proprio patrimonio nazionale compilando innanzitutto gli inventari dei beni culturali immateriali presenti sul proprio territorio; essi si impegnano inoltre: a creare e a rafforzare le istituzioni per la formazione nella gestione del patrimonio culturale immateriale e  nella trasmissione di questo patrimonio; ad assicurare un accesso al patrimonio in questione che sia rispettoso delle consuetudini che regolano l’accesso ad esso; a creare istituzioni per la documentazione del patrimonio culturale intangibile. Gli Stati parte si impegnano altresì a facilitare l’accesso delle comunità e dei gruppi alle attività di salvaguardia.

E’ previsto inoltre l’obbligo per le Parti di presentare rapporti periodici al Comitato che diano conto delle disposizioni, legislative o di altro tipo, adottate per l’applicazione della Convenzione.

La Convenzione accorda agli Stati parte la possibilità di chiedere l’assistenza internazionale per la realizzazione di programmi e progetti. Il Comitato Intergovernativo ha il compito di selezionare periodicamente i programmi, i progetti e le attività rivolti alla salvaguardia del patrimonio immateriale che meglio rispondano ai principi ed agli obiettivi della Convenzione, tenendo in particolare conto le necessità dei Paesi in via di sviluppo.

Per finanziare tali programmi, progetti e iniziative, è istituito un Fondo per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale costituito prevalentemente da contributi degli Stati Parte - da versarsi almeno ogni due anni -, da fondi stanziati dalla Conferenza Generale dell’UNESCO e da altri contributi, donazioni o lasciti.

Il contributo obbligatorio degli Stati Parte al Fondo è calcolato secondo una percentuale uniforme, applicabile a tutti gli Stati, decisa dall’Assemblea Generale. La percentuale uniforme decisa per il periodo che va dall’entrata in vigore della Convenzione (20 aprile 2006) al 31 dicembre 2007 è, per ogni Stato, dell’1% del suo contributo al bilancio generale dell’UNESCO. La Convenzione stabilisce (art. 26) l’1% come percentuale massima e consente agli Stati parte di dichiarare, al momento del deposito dello strumento di ratifica, la volontà di sottrarsi al vincolo costituito dal contributo al Fondo nella misura stabilita dall’Assemblea Generale. Anche in questo caso, tuttavia, il contributo di questi Stati deve essere versato almeno ogni due anni e l’importo deve avvicinarsi il più possibile a quello che avrebbero dovuto versare se non avessero effettuato la suddetta dichiarazione.

In aggiunta ai contributi regolari, come già accennato, viene incoraggiato il versamento di contributi volontari, i quali si prevede che avranno un ruolo fondamentale nell’applicazione della Convenzione e nel rafforzamento e nell’ampliamento delle attività e dei programmi di salvaguardia.

 


La ratifica di accordi internazionali

Convenzione criminalità informatica

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica è il primo accordo internazionale riguardante i crimini commessi attraverso internet o altre reti informatiche. La accezione di reati informatici assunta dalla Convenzione è ben più ampia della classica area dei reati cibernetici, in quanto  estende la sua portata  a tutti i reati in qualunque modo commessi attraverso un sistema informatico e a quelli di cui si debbano o possano raccogliere prove in forma elettronica.

Come si può leggere nel suo Preambolo, la Convenzione si propone di perseguire una politica comune fra gli Stati membri, attraverso l’adozione di una legislazione appropriata, che consenta di combattere il crimine informatico in maniera coordinata. La Convenzione è il risultato di un lavoro condotto per quattro anni da un Comitato di esperti del Consiglio d’Europa costituito ad hoc, al quale hanno dato il proprio contributo anche alcuni Paesi non appartenenti a tale istituzione quali gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone.

La Convenzione è entrata in vigore il 1° luglio 2004; attualmente risulta ratificata da 22 Paesi fra i quali tuttavia non ne compaiono alcuni di quelli a più alto sviluppo tecnologico quali la Germania, il Regno Unito, la Spagna, la Svezia e la Svizzera. Gli Stati Uniti sono l’unico paese non membro del Consiglio d’Europa ad avere ratificato la Convenzione. L’Italia ha provveduto alla ratifica della Convenzione con la legge 18 marzo 2008, n. 48.

Un Protocollo addizionale alla Convenzione, relativo all’incriminazione di atti di natura razzista e xenofobica commessi a mezzo di sistemi informatici è stato aperto alla firma il 28 gennaio 2003 ed è entrato in vigore il 1° marzo 2006: anche in questo caso mancano gli atti di ratifica di alcuni dei principali Paesi europei - tra questi, l’Italia, il Regno Unito e la Spagna – che non lo hanno ancora sottoscritto.

 

La Convenzione consta, oltre che del Preambolo, di 46 articoli raggruppati in quattro Capitoli.

Gli obiettivi fondamentali possono essere così sintetizzati: 1) armonizzare gli elementi fondamentali delle fattispecie di reato del diritto penale dei singoli ordinamenti interni e tutte le altre disposizioni riguardanti la criminalità informatica; 2) dotare le leggi e le procedure penali dei Paesi parte della Convenzione degli strumenti necessari allo svolgimento delle indagini e al perseguimento dei crimini correlati all’area informatica; 3) costruire un efficace regime di cooperazione internazionale.

 

Il Capitolo I, formato dal solo articolo 1 definisce i termini fondamentali utilizzati: in particolare, la Convenzione considera  “sistema informatico” tutte le apparecchiature che, in base ad un programma, sono in grado di elaborare automaticamente dei dati, ricomprendendo quindi nella definizione una grandissima varietà di apparecchiature tecnologiche.

 

Il Capitolo II (articoli da 2 a 22) è dedicato ai provvedimenti da adottare a livello nazionale. Contiene tre Sezioni: diritto penale sostanziale (artt. 2-13), diritto procedurale (artt. 14 – 21) e competenza (art 22).

In base alla Sezione I, ogni Parte si impegna ad adottare le misure legislative e di altra natura atte a sanzionare come reati comportamenti quali l’accesso illegale ad un sistema informatico (articolo 2), l’intercettazione senza autorizzazione (articolo 3), l’attentato all’integrità dei dati o di un sistema (articoli 4 e 5), l’abuso di apparecchiature, la falsificazione informatica (art. 7), la frode informatica (art. 8), la pornografia minorile (art. 9) e i reati contro la proprietà intellettuale (art. 10).

 

La lista di tali reati, che rappresenta un accordo minimo tra le Parti, è suscettibile di essere ampliata nei singoli ordinamenti interni. Essa si basa essenzialmente sulle linee guida sviluppate in seguito alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa R (89) 9 riguardante appunto i reati informatici e quelli ad essi connessi, nonché sui lavori prodotti da altre organizzazioni internazionali (OCSE, ONU, Associazione Internazionale di Diritto Penale) e tenendo altresì conto di alcune esperienze più recenti riguardanti abusi nell’espansione di reti di telecomunicazione.

 

L’articolo 11 stabilisce che debbano essere considerati reati anche le complicità e i tentativi di commettere i reati poco sopra descritti.

In base all’articolo 12 le Parti vengono lasciate libere di decidere se la responsabilità delle persone giuridiche è da ritenersi penale, civile o amministrativa, in base ai principi giuridici di ciascuna Parte. L’articolo 13 prevede che le sanzioni – anche quelle comminate alle persone giuridiche – debbano essere effettive, proporzionate e dissuasive.

La Sezione II  del Capitolo II (diritto procedurale) ha una portata che va oltre quella dei reati definiti nella Sezione I, in quanto essa si applica a qualunque reato commesso a mezzo di un sistema computerizzato, nonché nel caso in cui la prova del reato sia sotto forma elettronica. Nella Sezione II vengono innanzitutto delineate le disposizioni comuni e le norme di tutela applicabili a tutti gli articoli contenenti le misure procedurali previste nel Capitolo II e in seguito vengono stabilite le misure procedurali relative ai reati descritti negli articoli da 2 a 12: la conservazione rapida di dati informatici immagazzinati in sistemi informatici; la conservazione e la divulgazione rapida dei dati relativi al traffico; l’ingiunzione di produrre i dati immagazzinati; la perquisizione e il sequestro dei dati informatici immagazzinati; la raccolta in tempo reale dei dati relativi al traffico; l’intercettazione dei dati relativi al contenuto. Il Capitolo II termina con le disposizioni relative alla competenza.

 

Il Capitolo III (cooperazione internazionale) contiene norme relative all’estradizione e alla assistenza tra le Parti.

L’articolo 23 stabilisce tre principi generali secondo i quali la cooperazione internazionale: a) deve essere fornita nella misura più ampia possibile; b) deve essere estesa a tutti i reati relativi ai sistemi e ai dati informatizzati e c) deve rispettare non soltanto le disposizioni della Convenzione, ma anche essere conforme agli accordi internazionali in materia.

L’articolo 24 consente l’applicazione dell’estrazione ai reati previsti dagli articoli da 2 a 11 ma solo se essi sono punibili dalla legge di entrambe le Parti con la privazione della libertà di almeno un anno, o con una pena più severa.

L’articolo 25 fissa i principi generali relativi alla mutua assistenza tra le Parti al fine delle indagini o dei procedimenti sui reati relativi a sistemi e dati informatici o per la raccolta di prove in formato elettronico. La mutua assistenza è soggetta alle condizioni previste dalla legislazione della Parte richiesta o dai Trattati di mutua assistenza applicabili.

In assenza di Accordi internazionali applicabili le procedure relative alle richieste di mutua assistenza sono fissate dagli articoli 27 e 28.

Gli articoli da 29 a 35 (Sezione II  del Capitolo III) contengono disposizioni specifiche al fine di poter intraprendere un’azione internazionale efficace e concertata, nei casi di reati informatici e di prove su supporto elettronico.

Gli articoli 29 e 30 prevedono meccanismi a livello internazionale – riguardanti, rispettivamente, la conservazione rapida di dati informatici e di dati di traffico – equivalenti a quelli previsti a livello nazionale dagli articoli 16 e 17; gli articoli 33 e 34, poi, obbligano le Parti alla reciproca assistenza nella raccolta in tempo reale di dati sul traffico e in materia di intercettazione di dati relativi al contenuto di specifiche comunicazioni.

Per consentire una risposta realmente rapida alla richiesta di dati che consentano alle autorità preposte di indagare sui crimini cibernetici, l’articolo 35 (Rete 24/7) prevede la costruzione di una rete attraverso l’obbligo delle Parti a designare un punto di contatto - disponibile tutti i giorni senza eccezione alcuna per 24 ore su 24 – che assicuri una assistenza immediata alle indagini.

 

Il Capitolo IV  contiene le disposizioni finali.

Viene in particolare chiarito che tra gli effetti della Convenzione vi è quello di completare le disposizioni contenute in alcuni trattati bilaterali e multilaterali in materia e segnatamente: la Convenzione europea di estradizione (Parigi, 13 dicembre 1957), la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale e il suo Protocollo aggiuntivo (fatti a Strasburgo, rispettivamente, il 20 aprile 1959 e il 17 marzo 1978).

Vengono inoltre descritte le procedure per l’apposizione e la cancellazione delle riserve, nonché quelle per la proposizione di emendamenti.

Infine, è stabilito che le eventuali controversie tra le Parti sull’interpretazione o l’applicazione della Convenzione vengano da esse risolte attraverso negoziati oppure mediante altri mezzi pacifici, ad esempio la sottoposizione della questione al Comitato Europeo per i Problemi Criminali (CDPC), ad un tribunale arbitrale (la cui decisione è vincolante), o alla Corte Internazionale di Giustizia, secondo quanto concordato tra le Parti.

La denuncia della Convenzione avrà effetto dal primo giorno del mese.


La ratifica di accordi internazionali

Convenzione UNESCO antidoping

La Convenzione dell'UNESCO contro il doping nello sport del 19 ottobre 2005 è in vigore a livello internazionale dal 1° febbraio 2007: attualmente ne sono Parti 66 Stati. L’Italia ha provveduto alla ratifica con la legge 26 novembre 2007, n. 230.

I negoziati che hanno condotto alla adozione della Convenzione hanno visto la partecipazione di circa 90 paesi, nonché di rappresentanti del Comitato olimpico internazionale, dell'Agenzia mondiale antidoping e del Consiglio d'Europa. In particolare, è stato deciso che la nuova Convenzione dovrà salvaguardare comunque gli strumenti normativi esistenti a livello internazionale, tra i quali spicca la Convenzione antidoping del Consiglio d'Europa.

 

La Convenzione del C.d’E. contro il doping, ratificata con legge 29 novembre 1995, n. 522, è in vigore per l’Italia dal 1° aprile 1996. La Convenzione, aperta alla firma nel 1989, si compone di un testo principale e di un'appendice contenente l'elenco di riferimento delle classi farmacologiche di sostanze e metodi di doping considerati dalla Convenzione. Quest'ultima costituisce il coronamento di una serie di risoluzioni e raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, dirette a combattere la pratica del doping nello sport. La Convenzione impegna le Parti contraenti ad adottare tutte le misure idonee a controllare la detenzione, la circolazione, l'importazione e la vendita di agenti e metodi di doping e, in particolare, di steroidi anabolizzanti, anche in ossequio ai principi etici ed ai valori educativi sanciti da documenti internazionali, quali la Carta olimpica e la Carta internazionale dello sport e dell'educazione fisica dell'UNESCO. E’ prevista in ciascun Paese l'istituzione di uno o più laboratori anti-doping riconosciuti dagli organismi internazionali e approvati dall'apposito gruppo di vigilanza istituito dalla Convenzione, che dovranno essere incoraggiati a promuovere la formazione di personale qualificato e ad intraprendere appropriati progetti di ricerca e di sviluppo. Si impegnano altresì le Parti ad elaborare e attuare programmi educativi e campagne di informazione che pongano in rilievo i rischi per la salute inerenti al doping, nonché il pregiudizio che ne deriva per i valori etici dello sport. Le Parti dovranno incoraggiare le organizzazioni sportive ad adottare regolamenti che rechino elenchi di agenti e metodi di doping vietati, sistemi di controllo e di analisi, procedimenti disciplinari efficaci e ispirati a criteri garantisti, sanzioni effettive a carico dei responsabili; ad istituire controlli anti-doping seri durante le gare e anche al di fuori di esse, senza preavviso; a cooperare con le organizzazioni sportive internazionali e di altri Paesi per conseguire gli obiettivi stabiliti dalla Convenzione. Gli Stati contraenti sono inoltre invitati a concedere sovvenzioni e altri aiuti alle organizzazioni sportive nazionali per agevolare la pratica dei controlli anti-doping, e comunque a condizionare l'erogazione di tali aiuti alla rigorosa applicazione delle norme vigenti nel settore.

Esiste anche un Protocollo aggiuntivo alla Convenzione del C.d’E., aperto alla firma a Varsavia il 12 settembre 2002, ed entrato in vigore a livello internazionale il 1° aprile 2004; come altri 8 Stati, l’Italia lo ha solo firmato, in data 12 settembre 2002. Il Protocollo, a tutt’oggi ratificato da 23 Paesi, ha lo scopo di assicurare il reciproco riconoscimento dei controlli anti-doping, e più in generale di rafforzare l'applicazione della Convenzione. Pertanto il Protocollo prevede il riconoscimento, operato da ciascuno Stato Parte della Convenzione, dei controlli anti-doping eseguiti sul proprio territorio a carico di sportivi provenienti da uno degli altri Stati parte della Convenzione. In tal modo non sarà necessaria la laboriosa conclusione di molteplici accordi bilaterali, e ne sarà accresciuta l'efficacia dei controlli stessi. Il Protocollo, inoltre, è il primo strumento di diritto internazionale che riconosce la competenza dell'Agenzia mondiale antidoping ad effettuare controlli al di fuori delle competizioni. Per quanto concerne il profilo del rafforzamento dell'applicazione della Convenzione, il Protocollo prevede un meccanismo di monitoraggio vincolante; il monitoraggio sarà a cura di un team di valutazione, e si effettuerà tramite visite agli Stati investiti, seguite da un rapporto valutativo. In seguito all'entrata in vigore del Protocollo, anche la Convenzione antidoping del Consiglio d'Europa è entrata nel (ristretto) novero delle Convenzioni internazionali dotate di un meccanismo di controllo realmente vincolante.

 Non va inoltre dimenticato, nel delineare il quadro normativo preesistente alla Convenzione dell'UNESCO, il Codice mondiale antidoping, il quale, istituito dall'Agenzia mondiale antidoping nel 2003 ed entrato in vigore il 1º gennaio dell'anno successivo, ha ricevuto l'adesione di 80 governi e delle più importanti Federazioni sportive. Va d'altra parte notato che tanto la Convenzione del Consiglio d'Europa quanto il Codice mondiale antidoping presentano limiti di diversa natura: la prima per quanto concerne l'estensione territoriale, che, pur riguardando anche Paesi estranei all’area europea come Australia e Canada, fa pur sempre riferimento a un'Organizzazione regionale come è appunto il Consiglio d'Europa. Il Codice mondiale antidoping, senza dubbio di maggiore generalità, difetta nella cogenza, poiché la natura sostanzialmente privatistica dell'Agenzia mondiale antidoping non conferisce al Codice alcuna forza coercitiva reale.

Per quanto invece concerne il quadro normativo nazionale in materia di contrasto al doping, la legge di riferimento è la legge 14 dicembre 2000, n. 376, recante disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping: l'articolo 3 di detta legge istituisce una Commissione interministeriale per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive. L'articolo 9, poi, prevede norme di carattere penale sia per chi procura ad altri, ovvero somministra, sia per chi assume farmaci o sostanze dopanti suscettibili di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti. Il decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, concedendo un contributo all'Agenzia mondiale antidoping, ha di fatto autorizzato l'adesione dell'Italia alla medesima. Infine va ricordato che la precedente legge 13 dicembre 1989, n. 401, sugli interventi nel settore del gioco e delle scommesse clandestine, nonché per la tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive, disciplina per l'appunto all'articolo 1 la frode in competizioni sportive, una delle cui concrete fattispecie viene perpetrata con la somministrazione o l'assunzione di sostanze dopanti.

 

La Convenzione dell'UNESCO contro il doping dello sport si compone di 43 articoli, e ne costituiscono altresì parte integrante due Allegati, il primo dei quali contiene l’elenco delle sostanze e delle metodologie proibite, e si articola in più livelli, passando dalle proibizioni totali (in gara e fuori), ai divieti nelle sole gare, alle proibizioni limitate soltanto ad alcuni sport, e infine alle sostanze specifiche (diffusamente presenti nella farmacopea e suscettibili pertanto di determinare una violazione accidentale dei regolamenti antidoping). Il secondo Allegato riguarda gli standard per l’autorizzazione all’uso di determinate sostanze a fini terapeutici.

La Convenzione è infine accompagnata da tre Appendici, che, al contrario dei due Allegati, non ne integrano il testo, e dunque “non creano alcun obbligo vincolante di diritto internazionale per gli Stati Parte”: si tratta rispettivamente del Codice mondiale antidoping, degli standard internazionali per i laboratori e degli standard internazionali per i controlli.

Gli articoli 1-6 concernono il campo d'azione della Convenzione: è previsto in particolare che gli Stati si impegnino ad adottare adeguate misure interne e a livello internazionale, in conformità dei principi del Codice mondiale antidoping. Essi dovranno altresì fare ogni sforzo di cooperazione internazionale, nonché di cooperazione con le Organizzazioni internazionali impegnate in modo particolare nella lotta al doping, in primis l'Agenzia mondiale antidoping. In tal modo l'Agenzia, attraverso l'esplicito richiamo contenuto all'articolo 3, nonché al precedente articolo 2, dedicato alle definizioni, riceve una legittimazione internazionale prima sconosciuta. In questa sezione della Convenzione viene altresì precisato il rapporto tra essa e il Codice mondiale antidoping, i cui principi gli Stati parte si impegnano a rispettare (pur non costituendo il Codice, come abbiamo visto, elemento giuridicamente vincolante). D'altra parte, non vi sono preclusioni per gli Stati parte nell'adottare ulteriori misure di complemento al Codice. Vi è infine (articolo 6) quella che appare essere una clausola di salvaguardia reciproca fra la Convenzione e strumenti internazionali precedenti, purché, beninteso, tali strumenti siano compatibili con l'oggetto della Convenzione.

Gli articoli 7-12 riguardano le misure antidoping da adottare negli ordinamenti interni degli Stati parte: questi ultimi assicurano l'attuazione della Convenzione coordinando la propria azione con le esistenti Organizzazioni nazionali antidoping, e le autorità e organizzazioni sportive. Gli sforzi principali saranno diretti a limitare alla disponibilità di sostanze e metodi oggetto di divieto ai sensi della presente Convenzione, sì da ridurne l'utilizzo da parte degli sportivi, salvo l'eccezione ai fini terapeutici. Viene anche precisato, comunque, che nessuna misura in base alla Convenzione restringe la legittimità della detenzione dell'uso di sostanze altrimenti vietate nell'ambito sportivo. Anche il personale di supporto degli sportivi è oggetto delle attenzioni della Convenzione, la quale prevede espressamente per essi la possibilità di essere oggetto di sanzioni e penalità. Un altro aspetto della lotta contro il doping è quello dell'incoraggiamento al circuito di produzione e distribuzione di integratori alimentari a rendere possibile la conoscenza della composizione analitica di tali prodotti. Dal punto di vista finanziario, gli Stati Parte inseriscono in bilancio finanziamenti per un programma nazionale di controlli antidoping in ogni settore dello sport, anche mediante sostegno alle organizzazioni sportive e alle organizzazioni antidoping; verrà inoltre ritirato il sostegno finanziario agli sportivi e al relativo personale di supporto che abbiano subito una squalifica per violazione delle norme antidoping, e ciò per tutta la durata della squalifica stessa. Anche le organizzazioni sportive che non rispettino il Codice mondiale antidoping o le norme derivate si vedranno ritirare in tutto o in parte i finanziamenti. Di capitale importanza, infine, il disposto dell'articolo 12, in base al quale gli Stati parte da un lato incoraggiano controlli antidoping sul proprio territorio, inclusi i controlli improvvisi e fuori gara; e dall'altro facilitano il raggiungimento di intese tra organizzazioni sportive di diversi paesi, al fine di autorizzare squadre di controllo antidoping debitamente accreditate, ma provenienti da altri paesi, ad effettuare controlli sui propri sportivi nazionali.

Le misure di cooperazione internazionale sono oggetto degli articoli 13-18, in base ai quali gli Stati parte favoriscono la cooperazione tra le organizzazioni sportive e antidoping dei rispettivi Paesi per la realizzazione degli scopi della Convenzione. Viene inoltre riconosciuta l’importanza del ruolo dell’Agenzia mondiale antidoping, che gli Stati parte si impegnano a sostenere. A tale proposito è previsto che il bilancio annuale dell’Agenzia venga finanziato paritariamente dai poteri pubblici, da un lato, e dal movimento olimpico, dall’altro. Vengono inoltre dettagliatamente specificate le forme di cooperazione con le altre Parti della Convenzione, e con l’Agenzia mondiale antidoping, sulla scorta dell’assunto che “l’efficacia della lotta al doping sportivo dipende esclusivamente dalla possibilità di sottoporre gli sportivi a controlli improvvisi e di inviare i campioni in tempo utile ai laboratori di analisi”. Un Fondo per l’eliminazione del doping sportivo è istituito in conformità al Regolamento finanziario dell’UNESCO, ed aperto a contributi di carattere strettamente volontario; al Fondo affluiscono contributi degli Stati parte, nonché versamenti, donazioni o lasciti effettuati da altri Stati, da Organizzazioni facenti parte del Sistema ONU, da altre Organizzazioni internazionali, da organismi pubblici o privati, o da privati cittadini. Il Fondo sarà altresì alimentato a valere sugli interessi dovuti a titolo di deposito delle risorse del Fondo, nonché sulle entrate delle raccolte di fondi e delle manifestazioni a tale scopo organizzate. Viene specificato con chiarezza che i contributi che gli Stati parte versano al fondo non sostituiscono le somme che essi sono obbligati a versare quali partecipanti all'Agenzia mondiale antidoping. Viene anche specificato che le risorse del Fondo per l'eliminazione del doping sportivo sono stanziate dalla Conferenza delle Parti di cui al successivo articolo 28, che, oltre che all'attuazione di programmi antidoping, può decidere di destinarli a finanziare il funzionamento della Convenzione.

Gli articoli 19-23 riguardano le attività di educazione e formazione: queste, in base all'articolo 19, sono intese a fornire informazioni aggiornate sugli effetti negativi del doping in rapporto al contenuto etico delle attività sportive, nonché sulle conseguenze negative del doping sulla salute. Con particolare riguardo agli sportivi e al loro personale di supporto, i programmi educativi e informativi dovranno fornire precise informazioni sulle procedure di controllo antidoping e sui diritti e le responsabilità degli sportivi in materia di lotta al doping, non trascurando l'illustrazione delle conseguenze di eventuali violazioni. Gli sportivi e i loro collaboratori dovranno inoltre ricevere adeguate informazioni sull'elenco delle sostanze e dei metodi proibiti e sulle esenzioni a fini terapeutici, nonché sulle caratteristiche degli integratori alimentari.

Le attività di ricerca sono oggetto degli articoli 24-27, nei quali rileva soprattutto l'impegno di cui all'articolo 24, in base al quale gli Stati parte promuovono la ricerca antidoping in collaborazione con le organizzazioni sportive e le altre organizzazioni competenti. La ricerca dovrà incentrarsi in particolare sulla prevenzione, i metodi di individuazione e le conseguenze sulla salute che il doping riveste; sull'elaborazione di programmi scientifici di allenamento compatibili con l'integrità dell'individuo; sull'apertura all'utilizzazione di tutte le nuove sostanze derivate dai progressi scientifici. E’ naturalmente previsto (articolo 25) che la ricerca antidoping rispetti le pratiche deontologiche riconosciute a livello internazionale ed eviti un uso distorto dei propri risultati, magari addirittura a favore del doping.

Gli articoli 28-34 riguardano l’attuazione della Convenzione e il relativo monitoraggio: il citato articolo 28 istituisce allo scopo una Conferenza delle Parti, organo sovrano della Convenzione, la quale, salvo casi straordinari, si riunisce con cadenza biennale. L’Agenzia mondiale antidoping partecipa con status consultivo alle riunioni della Conferenza delle Parti, mentre in qualità di osservatori vi intervengono il Comitato olimpico e il Comitato paraolimpico internazionali, il Consiglio d’Europa e il Comitato intergovernativo per l’educazione fisica e lo sport. Altre organizzazioni competenti possono partecipare nella medesima veste su invito della Conferenza delle Parti. L’articolo 30 attribuisce una serie di funzioni estremamente importanti alla Conferenza delle Parti, oltre a quelle già illustrate in precedenti sezioni della Convenzione: tra queste, le principali sono le relazioni con l’Agenzia mondiale antidoping, inclusi i meccanismi di finanziamento di essa; l’adozione di un piano di stanziamento delle risorse del Fondo per l’eliminazione del doping sportivo; l’esame dei rapporti biennali presentati dagli Stati parte sull’attuazione della Convenzione; l’esame dei progetti di emendamenti alla Convenzione, nonché delle modifiche agli allegati I e II adottate dall’Agenzia mondiale antidoping. Le funzioni di segretariato della Conferenza delle Parti sono assicurate dal Direttore Generale dell’UNESCO. Gli emendamenti alla Convenzione, proposti inizialmente al Direttore Generale dell’UNESCO, sono adottati dalla Conferenza delle parti a maggioranza di due terzi degli Stati presenti e votanti. Per quanto concerne, invece, le modifiche agli allegati I e II, queste, una volta discusse dalla Conferenza delle Parti, si ritengono approvate, salvo opposizione dei due terzi degli Stati parte.

Infine, gli articoli 35-43 contengono le disposizioni finali della Convenzione. L’art. 35, in particolare, riguarda l’applicazione della Convenzione negli Stati federali o non unitari, e prevede che, mentre il potere legislativo centrale contrae obblighi equivalenti a quelli degli Stati Parte non federali, le disposizioni della Convenzione per la cui applicazione siano competenti le entità locali di uno Stato federale o non unitario – tali entità non avendo competenze legislative -, vengano trasmesse con un semplice parere favorevole dal Governo federale alle competenti autorità di quelle entità, ai fini dell’adozione.

La relazione introduttiva del Governo afferma che questa clausola, che l’Italia ha contrastato con forza, ma invano, rappresenta un “escamotage” degli Stati federali come il Canada e gli USA per attenuare la portata degli obblighi di applicazione della Convenzione nei propri ordinamenti.

In base all’art. 39, qualsiasi Stato parte può denunciare la Convenzione tramite uno strumento scritto inoltrato al Direttore Generale dell’UNESCO, il quale, ai sensi del successivo art. 40 svolge anche le funzioni di depositario della Convenzione.

Infine, l’art. 43 dichiara l’inammissibilità di riserve incompatibili con l’oggetto e con lo scopo della Convenzione.

 


La ratifica di accordi internazionali

Convenzione UNESCO diversità culturali

L’UNESCO, Agenzia dell’ONU responsabile per la cultura, ha la duplice missione di promuovere la feconda diversità delle culture, oltre al libero corso delle idee, espresse in parole e in immagini.

Questi principi fondamentali per il progresso della reciproca comprensione appaiono costantemente associate, all’interno dell’obiettivo generale dell’UNESCO di assicurare il concerto di culture separate. Tale concerto deve essere assicurato senza produrre uniformità, ma piuttosto secondo il principio dell’unità nella diversità. In tal modo gli individui, senza rimanere segregati nelle rispettive culture, possono condividere i benefici di un’unica cultura mondiale diversificata.

Tale approccio si concretizza attraverso il riconoscimento della pari dignità di tutte le culture, la protezione della proprietà culturale, la promozione del dialogo interculturale, la formulazione di politiche per la diversità culturale, la conservazione del patrimonio culturale.

In tal modo la cultura rimane, nella prospettiva dell’UNESCO, uno strumento essenziale per la costruzione della pace anzitutto nella coscienza di ogni singolo individuo. Al tempo stesso, tuttavia, l’evoluzione dello scenario internazionale non poteva non modificare in senso adattativo anche l’originaria impostazione dell’UNESCO, unitamente ai programmi e alle azioni concrete.

Come emerge nel Preambolo della Dichiarazione universale sulla diversità culturale del 2001, il concetto di cultura si è esteso fino ad includere l’insieme delle caratteristiche distintive che in un gruppo sociale o in una società concernono le sfere spirituale, materiale, intellettuale ed emozionale: pertanto la cultura, oltre ai tradizionali campi delle arti e della letteratura, comprende modi e stili di vita comuni, sistemi valoriali, tradizioni e credenze.

Retrospettivamente è possibile distinguere, nel processo di trasformazione dei significati e delle funzioni della cultura nell’approccio dell’UNESCO, l’allargamento progressivo da un prima fase (1950-1970 ca.) in cui l’Agenzia si impegnò a fondo per l’emersione del concetto di identità culturale, funzionale al riconoscimento della pari dignità di tutte le culture e quindi alla loro difesa nel periodo della decolonizzazione massiccia; a un secondo periodo (1970-1990 ca.), nel quale venne posto l’accento anche sulla costruzione di una chiara consapevolezza dell’essenziale legame tra cultura e sviluppo, da porre alla base di ogni sforzo di cooperazione internazionale. Successivamente (1980-2000 ca.) un nuovo ambito di interesse si fece strada, ossia il riconoscimento dell’importanza delle aspirazioni e dei fondamenti culturali per la costruzione della democrazia: vennero maggiormente in rilievo, in tale periodo, le questioni legate alla discriminazione e all’esclusione degli appartenenti alle minoranze, fossero esse nazionali, indigene o costituite da immigrati. A partire dagli Anni Novanta, infine, l’enfasi è stata posta sul dialogo interculturale, nel quale – all’interno del quadro di riferimento comune rappresentato dal patrimonio culturale del genere umano - deve esprimersi la grande diversificazione delle esperienze cultural. E’ questo l’approccio che emerge dalla Dichiarazione universale sulla diversità culturale, in cui questa pone una doppia sfida. Da un lato, infatti, è necessario assicurare l’interazione armonica tra gruppi e persone che, pur avendo diverse identità culturali, desiderano coesistere; dall’altro, occorre difendere la diversità creativa. E’ qui evidente la nuova esigenza di soddisfare le urgenze di società delle quali la globalizzazione accelerata ha accresciuto grandemente i caratteri plurali.

Dal punto di vista più strettamente giuridico, tutte le istanze sopra illustrate si sono tradotte da parte dell’UNESCO in una rilevante attività volta alla fissazione di standard legali internazionali nei quattro settori del patrimonio culturale e naturale, dei beni culturali mobili, del patrimonio culturale immateriale e della creatività contemporanea.

 

La Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, aperta alla firma a Parigi il 20 ottobre 2005, è in vigore a livello internazionale dal18 marzo 2007, ed è stata autorizzata alla ratifica dall’Italia con la Legge 19 febbraio 2007, n. 19.

La Convenzione non copre tutti i profili della diversità culturale quali esplicitati nella citata Dichiarazione universale del 2001, bensì si limita alle specifiche tematiche di cui agli artt. 8-11 della Dichiarazione medesima. Si tratta da un lato del necessario riconoscimento del carattere peculiare dei beni e dei servizi nel campo della cultura, che sono veicoli di identità, valori e significati, e dunque non possono essere considerati alla stregua di beni di consumo qualunque; d’altro canto, emerge l’esigenza che gli Stati adottino ogni misura appropriata al fine di proteggere e dare impulso alla diversità delle espressioni culturali, in un contesto di libero corso delle idee e delle opere. Inoltre occorre ridefinire le modalità della cooperazione internazionale in materia, giacché le espressioni culturali – senza riguardo ai mezzi di produzione o di diffusione di esse – sono veicolate da attività e beni che rivestono il duplice profilo di valori economici e culturali, e non possono perciò essere trattati come oggetto di mero negoziato commerciale.

L’obiettivo primario della Convenzione è il rafforzamento dei cinque anelli della catena creativa culturale, ossia la creazione stessa, la produzione, la distribuzione/diffusione, l’accesso e la fruizione dei beni culturali, con particolare riguardo ai Paesi in via di sviluppo.

Va in ogni caso tenuto presente che il termine “protezione”, nella dimensione legale degli strumenti elaborati dall’UNESCO, differisce dall’accezione che esso riveste nel campo, ad esempio, del copyright: utilizzato unitamente a “promozione”, il termine “protezione” mira piuttosto a tener vive le espressioni culturali messe a rischio dal ritmo accelerato della globalizzazione. Tale scopo va perseguito impedendo che le espressioni culturali restino confinate nei musei, ovvero ristrette in schemi folcloristici.

Tra i principi-guida della Convenzione fa spicco quello per il quale in nessun caso la protezione e la promozione della diversità culturale possono essere assicurate comprimendo i diritti umani e le libertà fondamentali, quali la libertà di espressione, informazione e comunicazione, come anche la libertà di scelta di ciascuno per le proprie espressioni culturali.

Inoltre, il principio dell’apertura e bilanciamento assicura che le azioni intraprese da uno Stato per sostenere la diversità delle proprie espressioni culturali vengano equilibrate da altre misure suscettibili di accrescere l’apertura alle altre culture mondiali.

In relazione ai problemi dello sviluppo, la Convenzione non manca di sottolineare la complementarità degli aspetti economici e di quelli culturali, come anche i profili del concetto di sviluppo sostenibile e di interesse per la difesa delle diversità culturali. Infine, rileva la duplice valenza del principio dell’accesso equo, che se da  un lato vuol dire possibilità di fruizione di una ricca e diversificata gamma di espressioni culturali, dall’altro implica che tutte le culture possano accedere a strumenti appropriati di espressione e diffusione dei propri valori.

Uno degli obiettivi fondamentali della Convenzione rimane senza dubbio la riaffermazione del diritto sovrano degli Stati a mantenere o adottare politiche e misure concrete volte alla tutela della diversità delle espressioni culturali nei rispettivi territori. Ciò non va inteso in nessun caso come impulso alla creazione di monopoli pubblici della cultura, quanto piuttosto nella direzione di una governance della cultura, nella quale anche le iniziative degli individui e della società civile abbiano una posizione di rilievo.

Tra i diritti su cui la Convenzione pone l’accento, rileva anzitutto il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali, unico vero antidoto alla possibile deriva delle diversità culturali verso un completo relativismo, che si risolverebbe nel progressivo venir meno dei fondamenti universali del dialogo tra i popoli, nonché nell’adozione di pratiche culturali potenzialmente contrarie ai principi del diritto internazionale generale.

La Convenzione, peraltro, consente alle Parti di delimitare speciali contesti nei quali si ritenga che determinate espressioni culturali dei propri territori siano a rischio di estinzione o sotto seria minaccia, e di adottare le misure necessarie in tali casi. Più in generale, è sancito il diritto sovrano delle Parti a formulare proprie politiche culturali.

Ciascuno Stato membro dell’UNESCO depositerà uno strumento di ratifica o di adesione presso il Direttore generale dell’Organizzazione. Altri Stati, purché membri dell’ONU o di qualcuna delle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite, potranno aderire alla Convenzione previo invito da parte della Conferenza generale dell’UNESCO. Alla Convenzione potranno inoltre aderire le organizzazioni di integrazione economica regionale.

Al momento dell’entrata in vigore della Convenzione è prevista la formazione di due organi:

-            la Conferenza delle Parti, organo di vertice e plenario;

-            il Comitato intergovernativo, che sarà responsabile della attuazione della Convenzione.

I due organi sono assistiti dal Segretariato dell’UNESCO responsabile della documentazione per le riunioni e dei rapporti sull’applicazione delle decisioni.

I mezzi necessari alle Parti per l’applicazione della Convenzione saranno forniti anzitutto a valere sul Fondo internazionale per la diversità culturale, al quale afferiscono contributi volontari delle Parti, fondi erogati dalla Conferenza generale dell’UNESCO, donazioni.

L’UNESCO contribuirà inoltre a facilitare la raccolta, l’analisi e la diffusione delle informazioni, statistiche e buone pratiche in merito alla diversità dell’espressione culturale; inoltre l’UNESCO darà vita ad una banca dati sulle varie organizzazioni governative, private o no-profit operanti nel campo delle espressioni culturali.

Infine, per quanto concerne possibili controversie sull’interpretazione o l’applicazione di disposizioni della Convenzione, la loro composizione è anzitutto demandata a trattative dirette, ed eventualmente a un meccanismo di mediazione.

 


La ratifica di accordi internazionali

Convenzione OMS contro il tabagismo

Come informa l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di salute), l’uso di tabacco rappresenta la prima causa evitabile di morte al mondo, essendo responsabile della morte di una persona adulta su dieci. Nel 2005 il tabacco ha causato 5,4 milioni di vittime, che corrispondono ad una morte ogni 6 secondi e, più grave ancora, viene stimato che, se non si inverte la tendenza attuale, nel 2030 le vittime ogni anno saranno 8,3 milioni.

L’OMS informa, inoltre, che il 29% della popolazione mondiale è tabagista e che il fumo è molto più diffuso fra gli uomini che fra le donne. Più di un miliardo dei fumatori (corrispondente all’84% del totale) vive nei Paesi in via di sviluppo ed entro il 2030 il 70% delle morti causate dal tabacco si verificheranno proprio in quella parte del mondo.

Come tutti ormai sanno, i fumatori, ma anche coloro che non fumano, sono esposti ai danni provocati dalle circa 4000 sostanze chimiche che si sprigionano dal fumo di sigaretta, una cinquantina delle quali è sicuramente cancerogena. L’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che ogni anno almeno 200 mila lavoratori muoiono per via dell’esposizione al fumo sul luogo di lavoro, arrecando tra l’altro anche danni economici a carico degli individui e della società nel suo complesso, per il sostenimento delle spese mediche e l’incidenza sulla produttività.

L’idea di creare uno strumento internazionale per il controllo del tabacco è sorta per la prima volta nel maggio 1995 alla 48a sessione dell’Assemblea  Mondiale della Sanità. L’anno seguente, la 49a sessione ha adottato una risoluzione con cui veniva chiesto al Direttore generale di dare formalmente avvio alla stesura di una Convenzione sul controllo del tabacco. Solo nel 1999, tuttavia, il tema del controllo del tabacco è diventato prioritario per l’OMS, che ha cominciato a lavorare per negoziare la Convenzione.

La Convenzione Quadro sul Controllo del Tabacco (FCTC) è stata quindi adottata il 21 maggio 2003 durante la 56a sessione dell’Assemblea dell’OMS, dopo circa quattro anni di trattative, e costituisce il primo strumento internazionale vincolante sulla salute negoziato sotto gli auspici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Entrata in vigore il 27 febbraio 2005 (il Senato ha approvato definitivamente – il 27 febbraio 2008 - il ddl di autorizzazione alla ratifica ma al momento la legge non è ancora pubblicata) essa fornisce agli Stati parte gli strumenti di base per attuare una corretta politica di controllo del tabacco.

Le disposizioni fondamentali prevedono:

§      il divieto totale di pubblicizzare, promuovere e sponsorizzare il tabacco;

§      l’obbligo di apporre avvisi sui rischi del tabacco sulle confezioni che coprano almeno il 30 per cento della superficie della confezione stessa;

§      il divieto dell’uso di termini fuorvianti o ingannevoli come “light” e “mild”, che possono creare confusione nel consumatore;

§      la protezione dei cittadini dall’esposizione al fumo nei posti di lavoro, sui mezzi di trasporto pubblico e nei locali pubblici;

§      l’adozione di misure volte a eliminare la fabbricazione illegale di sigarette e il contrabbando;

§      l’aumento delle tasse sul tabacco.

 

La Convenzione è formata da un Preambolo e da 38 articoli raggruppati in in undici Parti.

 

Nella Parte introduttiva (Parte I), vengono dapprima definiti i termini e viene poi chiarito che la Convenzione fornisce un quadro di base e che gli Stati parte possono adottare al loro interno misure più restrittive di quelle in essa contenute, nonché stipulare accordi bilaterali o multilaterali sulla stessa materia, a condizione che essi siano compatibili con la Convenzione OMS.

 

La Parte II delinea l’obiettivo della Convenzione, cioè la protezione delle generazioni, anche future, dai rischi derivanti dal consumo o dall’esposizione al tabacco, offrendo un quadro per l’attuazione di misure di lotta al tabagismo.

Vengono poi elencati i principi direttivi ai quali gli Stati parte si debbono uniformare. Tra di essi, la necessità di una informazione capillare sui danni alla salute, anche mortali, e sulla assuefazione da tabacco, nonché l'importanza di adottare misure di contrasto e di protezione della salute fortemente sostenute a livello politico. Tali misure devono favorire la prevenzione del consumo e la promozione della disassuefazione, la partecipazione degli individui e delle comunità ai programmi di controllo del tabagismo e, naturalmente, la protezione dal fumo passivo.

 

La Parte III  è dedicata alle misure relative alla riduzione della domanda di tabacco, che possono essere di natura finanziaria e fiscale (tra le quali, eventualmente, l’aumento dei prezzi o, nel caso di viaggiatori internazionali, la restrizione della vendita in esenzione da dazi) ma anche di natura non finanziaria.

Le Parti adottano, tra l’altro, misure a tutela del fumo passivo, direttive per i controlli e le analisi della composizione dei prodotti del tabacco, misure legislative sulle informazioni riguardo il contenuto, che devono apparire sulle confezioni dei prodotti del tabacco. Le confezioni, inoltre, non devono in alcun modo costituire mezzo di promozione del prodotto e hanno l’obbligo di recare una comunicazione che renda il consumatore consapevole dei rischi che il consumo di tabacco comporta.

La Convenzione ritiene che la prevenzione non possa prescindere dalla realizzazione di programmi di informazione e di educazione sui rischi per la salute, e sull'importanza di adottare stili di vita più sani. Tali programmi sono rivolti in primis agli operatori sanitari, ma anche agli operatori sociali, agli educatori, agli esperti di comunicazione e, più in generale, alla popolazione interessata.

La Convenzione prevede che le Parti si adoperino per la riduzione immediata della pubblicità e di ogni forma di sponsorizzazione, con l’obiettivo di giungere ad un divieto totale di esse nei cinque anni successivi alla sua entrata in vigore. Viene promossa altresì l'elaborazione e la diffusione di linee guida, basate sull'evidenza scientifica, sulla disassuefazione dal tabacco, e l'adozione di programmi di sostegno per aiutare i cittadini a smettere di fumare.

 

La Parte IV contempla le misure relative alla riduzione dell’offerta del tabacco.

Viene ritenuta di fondamentale importanza l’adozione di misure per il contrasto del commercio illegale nelle sue varie forme: contrabbando, produzione illegale e contraffazione dei prodotti del tabacco. Tra le misure suggerite, la realizzazione  di un sistema efficace di individuazione e di tracciabilità di questi prodotti, nonché l'elaborazione e l'attuazione di leggi nazionali in questo settore.

La Convenzione impegna le Parti ad adottare misure per vietare sia la vendita di prodotti del tabacco ai minori, sia la vendita da parte di minori;  invita inoltre le Parti a promuovere alternative valide per i lavoratori del settore del tabacco.

 

 La Convenzione (Parte V) promuove la tutela dell'ambiente e della salute delle persone in relazione alle attività di coltivazione e di manifattura del tabacco.

 

La Parte VI, in materia di responsabilità, impegna le Parti ad adottare provvedimenti legislativi in materia di responsabilità civile e penale, compresi eventuali risarcimenti.

 

La Parte VII riguarda la cooperazione scientifica e tecnica e la comunicazione di informazioni. Le Parti si impegnano a sviluppare e a coordinare - a livello nazionale, internazionale e regionale - programmi di ricerca e di valutazione sulle conseguenze del consumo e dell'esposizione al fumo di tabacco e sulla possibilità di sviluppare colture alternative. Le Parti sono incoraggiate a sviluppare sistemi di sorveglianza epidemiologica sul consumo di tabacco e i relativi indicatori sociali economici e sanitari e a cooperare con l’OMS per l'elaborazione di specifiche linee guida per la raccolta, l'analisi e la diffusione dei dati di sorveglianza.

 

La Parte VIII contiene le disposizioni istituzionali e quelle relative alla risorse finanziarie.

Organi della Convenzione sono la Conferenza delle Parti e il Segretariato. La Conferenza delle Parti, che ha tra gli altri compiti quello di esaminare l’applicazione della Convenzione, si è riunita per la prima volta dal 6 al 16 febbraio 2006, ad un anno di distanza dall’entrata in vigore della Convenzione stessa, come previsto dall’articolo 23. Vengono poi delineate le funzioni del Segretariato che al momento, tuttavia, non è ancora stato designato dalla Conferenza delle Parti. In sua sostituzione funziona un Segretariato ad interim che, fin dal momento dell’adozione della FCTC (Framework Convention on Tobacco Control), ha lavorato prevalentemente  nella direzione di assicurare il maggior numero di adesioni alla Convenzione.

Quanto agli aspetti finanziari, le Parti si impegnano a sostenere finanziariamente i loro programmi nazionali di lotta contro il tabagismo e ad incoraggiare l'uso e la promozione delle forme di finanziamento già esistenti per lo sviluppo di programmi per la lotta contro il tabagismo.

 

Le eventuali controversie sull’interpretazione o sull’applicazione della Convenzione saranno risolte in via amichevole, anche ricorrendo a mediatori terzi o alla conciliazione. Le Parti possono dichiarare di accettare come vincolante il fatto di sottoporre le controversie ad un tribunale arbitrale ad hoc, se è fallita la composizione per via amichevole (Parte IX).

 

Nella Parte X si esaminano le procedure per emendare la Convenzione, mentre la Parte XI  contiene le clausole finali riguardanti la firma, la ratifica e l’entrata in vigore. Le Parti, inoltre, possono proporre alla Conferenza delle Parti protocolli su temi specifici, che saranno vincolanti solo per le Parti che vi aderiranno.

 


Afghanistan

Storia e prospettive

Cenni storici

Posto al crocevia tra le diverse aree dell’Asia, il territorio dell’attuale Afghanistan ha conservato le tracce degli innumerevoli passaggi o invasioni di popoli, a partire da quella ariana avvenuta 2000 anni prima di Cristo. Una vera impronta, pur nell’intrico di etnie, lingue e culture, è rinvenibile tuttavia nel costante rapporto con l’elemento iranico, e nel sostrato religioso islamico subentrato nel VII secolo dopo Cristo.

Dopo che gli Arabi ebbero invaso (642 d.C.) il paese e introdotto la religione musulmana, si ebbero varie vicissitudini, in prevalenza connotate dalle relazioni con la Persia, fino a che, all’inizio del XIII secolo, l’Afghanistan divenne parte dei vasti domini mongoli di Gengis Khan, e successivamente, dei successori Tamerlano e Babur (il fondatore dell’impero islamico moghul nell’India settentrionale).

Fu nuovamente dai rapporti con i persiani che emerse una leadership afghana destinata a caratterizzare l’Afghanistan moderno e contemporaneo: infatti, la fazione Ghilzai dei Pashtun afghani, già protagonista prima dell’invasione mongola, guidò all’inizio del XVIII secolo la rivolta afghana contro il rinnovato dominio che i persiani avevano lentamente instaurato. La ribellione ebbe un esito clamoroso, con la sconfitta totale dei persiani e il dominio, stavolta, degli afghani sulla Persia, che si protrasse per un decennio. La reazione persiana condusse però gli afghani al disastro, con l’occupazione di Kabul e addirittura di Lahore (nell’attuale territorio pakistano). Il discredito della fazione Ghilzai provocò l’arrivo al potere della fazione Durrani dei Pashtun, alla quale apparteneva il fondatore dell’Afghanistan moderno, Ahmed Shah Durrani, che iniziò il proprio governo nel 1747, eletto da una Loya Jirga (Gran Consiglio).

 

L’istituto della Loya Jirga sembra derivare da analoghe riunioni comuni presso i popoli di stirpe turco-mongola: in un’assemblea di questo genere i mongoli avrebbero scelto, ad esempio, Timujin quale loro capo, dandogli l’appellativo di Gengis Khan. Tuttavia proprio i regni derivati dalla conquista mongola posero progressivamente ai margini l’istituto della Loya Jirga, non consono al carattere centralizzato del loro potere. Furono invece i pashtun, nel momento del consolidamento del loro potere alla metà del XVIII secolo, come sopra ricordato, a ricercare nuovamente legittimazione nella Loya Jirga, ma ciò fu possibile in quanto l’istituto era stato mantenuto da alcuni gruppi etnici divenuti pashtun grazie alla loro islamizzazione, ma di origine non iranica o indoeuropea, bensì turco-mongola. Nel corso del tempo alla Loya Jirga furono ammessi anche rappresentanti di gruppi etnici diversi dai pashtun, ma si tentò di tenerli ai margini. Il re Amanullah Khan (1919-1929) istituzionalizzò la Loya Jirga, da lui convocata tre volte. L’assemblea fu comunque per lo più composta da membri della famiglia reale allargata – sempre pashtun Durrani e, dal 1818 in avanti, appartenenti al solo clan Mohammadzai – da capi tribali e da esponenti religiosi. Per le riunioni non è stata mai prevista una cadenza regolare, ed esse durano fino a che i problemi in discussione – che vanno da scelte di politica estera, inclusa la guerra, all’acclamazione di nuovi capi o all’esame di nuove leggi - non trovano una unanime convergenza di opinioni, senza peraltro procedure di voto regolamentate. L’istituto della Loya Jirga non si limita all’Afghanistan, ma è in uso anche in altri Paesi dell’area centroasiatica, come il Pakistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan e la Mongolia.

 

Durrani ebbe un sostanziale successo nello sforzo di unificare il mosaico di tribù e principati che fino ad allora era stato l’Afghanistan: il Paese era pronto per un ingresso nella comunità delle nazioni, il che avvenne fin dal principio del XIX secolo. Tuttavia la posizione geografica afghana fece sì che il Paese si trovasse coinvolto nell’attrito tra l’impero zarista e quello britannico: gli inglesi cercarono di estendere il proprio controllo dalle loro basi nell’India settentrionale all’Afghanistan, onde controbilanciare la crescente influenza russa sull’Iran. Se la prima guerra anglo-afghana (1839-42) si concluse assai male per gli inglesi, diverso fu l’esito della seconda guerra anglo-afghana (1878-80), a seguito della quale vi fu un avvicendamento sul trono afghano. I confini attuali del Paese furono fissati negli anni successivi, mentre i britannici mantenevano il controllo della politica estera afghana.

Durante la Prima Guerra Mondiale l’Afghanistan rimase neutrale, ma notevole fermento percorse le classi dirigenti, buona parte delle quali avrebbe voluto sbarazzarsi dell’ipoteca inglese con un intervento a fianco degli Imperi Centrali. Il risultato fu l’assassinio del re Habibullah nel 1919. Uno dei suoi figli, il già citato Amanullah Khan, gli succedette sul trono e provocò - attaccando l’India - la terza guerra anglo-afghana (1919), a seguito della quale gli inglesi rinunciarono al controllo sull’Afghanistan.

L’Afghanistan contemporaneo

Amanullah Khan tentò di mettere fine alla condizione di isolamento dell’Afghanistan e – influenzato dall’esempio di Kemal Ataturk – introdusse alcune riforme radicali dei tradizionali costumi tribali e religiosi. Ma ciò provocò una reazione che lo costrinse all’abdicazione (1929).

La via delle riforme fu ripresa, ma con assai maggior cautela, dai successori Nadir Shah e Zahir Shah, l’ultimo re afghano, il quale, salito al trono giovanissimo nel 1933 dopo l’assassinio del padre, solo dopo il 1963 poté dare una propria impronta alla politica del Paese. La Costituzione del 1964 e la parziale parlamentarizzazione – solo un terzo dei parlamentari era eletto direttamente dal popolo – del regime politico diedero comunque il via alla costituzione di partiti politici, tra i quali il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), di orientamento comunista e strettamente legato all’URSS, ma esso stesso soggetto alle dinamiche etniche e tribali afghane, che nel 1967 ne provocarono la scissione in due fazioni rivali.

Nel luglio 1973,Mohammed Daoud Khan, che dieci anni prima aveva dovuto dimettersi da Primo Ministro, portò a termine un golpe militare, con la destituzione del re Zahir Shah – che alla fine riparò in Italia, per restarvi trenta anni – e la proclamazione della repubblica: Daoud ne fu sia il presidente che il premier. Il permanere delle difficoltà economiche che avevano concorso alla caduta della monarchia, nonché della cronica instabilità politica, condussero dopo un quinquennio alla caduta dello stesso Daoud (aprile 1978), che venne assassinato insieme a quasi tutta la famiglia. Autore del nuovo colpo di Stato fu il PDPA, il cui segretario generale, Noor Mohammed Taraki (esponente della fazione radicale e pashtun), divenne presidente del Consiglio rivoluzionario e capo del governo della neonata Repubblica Democratica dell’Afghanistan, con il sostegno sovietico.

Il nuovo regime attuò prontamente una serie di misure di stampo socialista, ma in realtà tali da condurre soprattutto a una modernizzazione dell’Afghanistan: si trattava anzitutto della redistribuzione delle terre a seguito di una riforma agraria, dell’abolizione della decima tradizionalmente corrisposta dai braccianti ai latifondisti – tra i quali vi erano le autorità religiose islamiche -, dell’imposizione di un calmiere sui prezzi dei generi di pirma necessità, della statalizzazione dei servizi sociali. Sul piano politico fu concesso il diritto di voto alle donne e furono legalizzati i sindacati. Furono infine smantellati tradizionali istituti tribali e religiosi, e si diede il via all’alfabetizzazione e scolarizzazione di massa, ponendo fine alla discriminazione delle bambine e ai matrimoni combinati.

Si trattava indubbiamente per la società afghana di un forte shock, sia per gli interessi colpiti che per le forzature nella mentalità degli individui e dei gruppi: ben presto, con il decisivo impulso delle gerarchie islamiche, si organizzò la guerra santa dei mujaheddin contro il regime, accusato ateismo e comunismo. A partire dal luglio 1979 anche l’Amministrazione USA intervenne, assieme a numerosi Paesi arabi, a sostegno dei mujaheddin, mediante invio di aiuti militari e finanziamenti: dopo la rivoluzione khomeinista in Iran, infatti, l’Afghanistan rappresentava una pedina assai importante nello scacchiere geopolitico regionale, e il suo regime filocomunista non lasciava presagire nulla di buono per gli Stati Uniti. Si costituì così progressivamente – avendo poi nuovo impulso con l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel 1980 – una vera e propria rete internazionale di sostegno alla guerriglia antigovernativa, con base in Pakistan, ove nacquero anche numerosi campi di addestramento per i mujaheddin, non solo afghani. In questa rete ebbe un posto di primo piano Osama bin Laden.

Nel contesto della guerriglia islamica da un lato, e di dure rappresaglie governative dall’altro, si verificò lo scontro finale tra le due fazioni del PDPA, che vide soccombere Taraki, ucciso nel settembre 1979 dal suo vice, Hafizullah Amin. L’Unione sovietica, a questo punto, sfruttando l’occasione dei contrasti interni al PDPA, invase militarmente il Paese (dicembre 1979) e in pochi giorni, ucciso Amin, consentì a Babrak Karmal, esponente della fazione tagika e più moderata del PDPA, di divenire capo dello Stato.

La guerriglia islamica ricevette nuovo impulso sia – come già accennato – dall’acuirsi della guerra fredda tra USA ed URSS dopo l’avvento di Reagan alla Presidenza, sia dal trovarsi ora a fronteggiare non solo un nemico ideologico o etnico, ma addirittura una superpotenza straniera e dichiaratamente atea. Nonostante un massiccio impiego di uomini e mezzi l’Armata Rossa, dopo alcuni iniziali successi, iniziò a patire il tipo di guerra che si svolgeva in Afghanistan, con terreni montuosi e una tattica feroce ed efficace mujaheddin: dopo la destituzione di Karmal, al vertice del potere arrivò Sayd Mohammed Najibullah, che nel 1987 propose senza successo un cessate il fuoco alla guerriglia islamica. Dopo una serie di pesanti rovesci militari per l’Armata Rossa, nell’aprile 1988 gli Accordi di Ginevra avviarono il ritiro sovietico dall’Afghanistan, che si concluse l’anno dopo.

Continuava però la guerriglia contro il regime di Najibullah, con i consueti schieramenti dietro l’una e l’altra delle parti in lotta: la dissoluzione dell’URSS alla fine del 1991 fu fatale al presidente, che fu destituito nell’aprile 1992, quando i mujaheddin presero Kabul e proclamarono lo Stato islamico dell’Afghanistan, a capo del quale fu posto il tagiko Burhanuddin Rabbani. Iniziava così un periodo di lotte intestine tra i principali leader e gruppi protagonisti della resistenza antisovietica, soprattutto per la volontà dell’etnia maggioritaria pashtun di recuperare il potere mediante l’appoggio pakistano. Va ravvisata in questo momento (1994) la nascita del movimento integralista degli studenti islamici, i talebani: dalla sede originaria di Kandahar questi allargarono rapidamente il loro dominio a gran parte del Paese, forti del rinnovato appoggio pakistano e statunitense, e sotto la guida del Mullah Omar nel settembre 1996 entrarono a Kabul, instaurando un regime islamico radicale, mentre Rabbani e il governo riparavano nel nord-est del Paese.

Il regime taleban comportò l’abolizione di ogni istanza elettiva, inclusi il Parlamento insediato nel gennaio 1993 e, in seguito, la Loya Jirga, un’interpretazione ultrafondamentalista della legge coranica, e il regresso sociale e giuridico delle donne, simbolo del quale era l’imposizione del pesante burqa. Il nuovo corso afghano ricevette tuttavia il solo riconoscimento del Pakistan, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, mentre le Nazioni Unite e la comunità internazionale continuarono a fare riferimento a Rabbani quale legittimo capo dello Stato. Lo stesso Rabbani, assieme al leggendario comandante mujaheddin Massud, costituirono nel nord-est afghano l’Alleanza del nord, nella quale confluirono vari gruppi della resistenza antitalebana.

In ogni modo, il regime taleban costituiva la migliore base per la rete terroristica Al Qaeda, che Osama bin Laden era andato autonomamente strutturando dopo il 1988. Nel 1998, reagendo ad attentati contro le ambasciate USA in Kenya e Tanzania, gli Stati Uniti bombardarono alcuni campi di addestramento di Al Qaeda in Afghanistan, e le Nazioni Unite imposero sanzioni economiche e un embargo aereo al regime guidato dal Mullah Omar.

La guerra del 2001-2002

Il conflitto afghano tuttora in corso è stato una diretta e quasi immediata conseguenza degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il giorno successivo agli eventi, ha adottato la risoluzione 1368, nel cui preambolo si riconosceva il diritto di legittima difesa individuale e collettiva degli Stati Uniti. Va aggiunto che il par. 1 definiva gli attacchi terroristici “una minaccia alla pace” e nel par. 5 si affermava che il Consiglio era “pronto ad adottare tutte le misure necessarie per rispondere agli attacchi terroristici”. In sostanza il Consiglio, nel riconoscere la possibilità di esercizio della legittima difesa, non è sembrato in un primo momento escludere neppure l’eventualità di un intervento dell’Organizzazione.

Gli sviluppi internazionali successivi sono stati tuttavia di segno diverso. Lo stesso 12 settembre 2001, il Consiglio atlantico ha adottato una determinazione in cui si affermava che, qualora fosse stata accertata l’origine esterna degli attacchi terroristici, avrebbe trovato applicazione l’articolo 5 del Trattato di Washington del 1949, istitutivo della NATO, ai sensi del quale un attacco armato contro un membro dell’Alleanza deve essere considerato come un attacco contro tutti i membri dell’Alleanza stessa.

Il 4 ottobre i Ministri degli esteri e della difesa, dopo che al Consiglio atlantico l’ambasciatore statunitense aveva prodotto le prove del coinvolgimento dell’organizzazione terroristica Al Qaeda negli attentati, determinando il verificarsi della condizione per l’applicazione dell’art. 5 del Trattato, hanno riferito alle Commissioni riunite esteri e difesa di Camera e Senato sulla situazione, e in particolare sull’impegno richiesto all’Italia anche per effetto della sua appartenenza all’Alleanza atlantica.

A breve, è risultato chiaro che la grande maggioranza della comunità internazionale, con la sola eccezione di Iraq e Iran, concordava - o non nutriva in ogni caso obiezioni - sull’equiparazione dell’azione terroristica dell’11 settembre ad un attacco armato ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Una coalizione di Stati a guida statunitense ha quindi autonomamente avviato il 7 ottobre l’Operazione Enduring freedom, con l’obiettivo di colpire le cellule dell’organizzazione terroristica Al Qaeda presenti in Afghanistan, nonché il regime talebano complice di quest’ultima.

Le operazioni militari, iniziate il 7 ottobre, si sono protratte nei due mesi successivi dando luogo soprattutto ad attacchi aerei contro obiettivi militari e basi terroristiche in territorio afghano – causando tuttavia numerose vittime tra la popolazione civile -  e provocando la caduta del regime talebano.

L’Italia ha partecipato alla missione a partire dal 18 novembre 2001 con un Gruppo navale d’altura composto dalla portaeromobili Garibaldi, da due fregate e da una rifornitrice di squadra. Successivamente l’impegno italiano si è ridotto prima a due e poi ad una sola unità navale.

A seguito della Conferenza di Bonn, rappresentativa delle diverse espressioni della società afghana, svoltasi sotto il patrocinio dell’ONU, si è quindi giunti alla costituzione di un governo ad interim, che ha guidato il paese a partire dal primo semestre del 2002. Il 13 giugno 2002 la Loya Jirga ha eletto il premier Hamid Karzai alla guida del governo per un periodo di due anni, fino allo svolgimento delle elezioni generali.

Il nuovo processo democratico

Il processo avviato a Bonn si è compiuto con l’approvazione di una nuova Costituzione da parte di una Loya Jirga Costituzionale il 5 gennaio 2004: le elezioni presidenziali si sono tenute il 9 ottobre 2004 e hanno confermato Karzai nella carica di presidente. Successivamente vi è stata la celebrazione delle elezioni parlamentari il 18 settembre 2005, e il nuovo Parlamento democraticamente eletto si è insediato il 19 dicembre 2005.

Al termine del conflitto, la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 1386 del 2001, come previsto dall’allegato 1 dell’accordo raggiunto a Bonn, aveva autorizzato la costituzione di una forza di intervento internazionale (International Security Assistance Force: ISAF) con il compito di garantire un ambiente sicuro nell’area di Kabul, a tutela dell’Autorità provvisoria afghana guidata da Hamid Karzai. Successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza hanno prorogato il mandato della forza internazionale che, sulla base della risoluzione 1510 del 13 ottobre 2003, ha svolto la propria attività anche al di fuori dell’area di Kabul. A partire dall’aprile del 2003,la NATO ha assunto i compiti di comando, coordinamento e pianificazione della missione ISAF.

 

La partecipazione italiana ad entrambe le missioni ha, nel tempo, mutato le proprie caratteristiche. Per quanto riguarda Enduring Freedom, dal 15 marzo al 15 settembre 2003 è stata operativa in Afghanistan la Task Force “Nibbio”, costituita da circa mille unità dell’Esercito, con il compito di impedire infiltrazioni di talebani e di terroristi in una zona al confine tra Afghanistan e Pakistan. Inoltre, dal gennaio 2003 al dicembre 2004 la componente italiana ha operato nell’ambito della forza marittima europea EUROMARFOR che, con l’operazione Resolute Behaviour ha svolto compiti di sorveglianza, interdizione e monitoraggio di traffici illeciti nella zona del Corno d’Africa e del Golfo Arabico. Nel corso del 2006 è cessata la partecipazione italiana a Enduring Freedom, mentre prosegue la missione Active Endeavour ad essa collegata (dispiegamento nel Mediterraneo orientale, a partire dal 9 ottobre 2001, della Forza Navale Permanente della NATO nel Mediterraneo, esteso dal 2004 all’intero quadrante).

Per quanto riguarda invece la missione ISAF, l’Italia, dopo che il vertice NATO di Istanbul del giugno 2004 aveva deciso di rafforzare la presenza militare in vista delle elezioni presidenziali afghane, ha potenziato il proprio contingente con l’invio, da metà settembre a metà novembre, di 500 unità dell’esercito. A partire dal marzo del 2005, nel quadro della strategia NATO di estensione dell’attività di ISAF su tutto il territorio afghano, l’Italia ha assunto il compito di coordinare la FSB (Forward Support Base) di Herat ed i PRT (Provincial Reconstruction Team) della regione ovest del paese. Dalla seconda metà del 2005 l’impegno italiano si è ulteriormente rafforzato passando da 600 a circa 2000 unità in vista dell’assunzione del comando di ISAF, avvenuta il 4 agosto 2005 per un periodo di sei mesi.

 

Dopo l’insediamento, il 19 dicembre 2005, del nuovo Parlamento democraticamente eletto, che ha approvato la composizione del governo Karzai e della Corte Suprema proposta dal medesimo,  il 31 gennaio e 1° febbraio 2006 si è tenuta a Londra una Conferenza sull’Afghanistan, che ha visto la partecipazione di 60 Paesi e dei rappresentanti delle principali Organizzazioni Internazionali.

Durante la Conferenza, che ha inaugurato una nuova stagione affidando alle giovani istituzioni del Paese un ruolo primario nel processo di ricostruzione (Afghan ownership), sono state raccolte risorse finanziarie per un ammontare pari a circa 10,5 miliardi di dollari. In tale ambito è stato, inoltre, adottato un documento (Compact for Afghanistan”) contenente le linee guida della strategia quinquennale della cooperazione internazionale in tre principali settori: sicurezza, stato di diritto (che comprende anche la giustizia) e sviluppo socioeconomico, oltre naturalmente alla lotta al narcotraffico, considerata un tema trasversale.   

 

Il Compact ha previsto un Coordination and Monitoring Board, che comprende 7 rappresentanti del Governo afghano e 21 della comunità internazionale, che costituisce nella sostanza l’organo guida della ricostruzione del Paese in tutti i settori. L’Italia, in quanto partner prioritario, fa parte del Board, così come del gruppo ristretto chiamato “Tea club” nel quale figurano Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Canada,  Italia,  UE,  Nazioni Unite, che ha il compito di preparare un consenso fra i maggiori donatori sulle questioni che verranno discusse successivamente dal Board.

 

Rinviando per le vicende degli ultimi due anni al capitolo Afghanistan a pag. 17, va rilevato che nonostante i progressi compiuti nel processo di ricostruzione civile e istituzionale – visibili, tra l’altro, nella rinnovata partecipazione femminile alla vita sociale e politica e nell’ampia scolarizzazione – il processo di stabilizzazione e di rafforzamento delle istituzioni democraticamente elette registra ancora elementi di criticità. Il profilo di maggiore preoccupazione concerne in particolare la precaria situazione della sicurezza, soprattutto nella parte meridionale del Paese e nelle zone al confine con il Pakistan, nelle quali si è assistito a una progressiva ripresa di influenza degli stessi talebani. La popolazione manifesta inoltre un certo scontento, sia per il permanere della grande arretratezza e povertà, sia per la mancanza di ordine pubblico e l’accresciuto potere regionale dei vari signori della guerra, che hanno peraltro un ruolo primario nella produzione dell’oppio in costante crescita, e che tuttora  costituisce la principale risorsa economica del Paese. 

Diverse risultano essere le cause delle rinnovate difficoltà della situazione afghana. In primo luogo, non è ancora risolto il problema degli appoggi che i taleban e gli altri combattenti contro il governo di Kabul ricevono lungo la porosa frontiera nord-occidentale del Pakistan: al contrario, le recenti difficili vicende politiche di Islamabad (v. a pag. 23 il capitolo Pakistan) hanno distolto uomini e mezzi da tale area, in presenza di più pressanti necessità di controllo del territorio interno pakistano.

In secondo luogo, la tradizionale struttura tribale della società afghana non permette il raggiungimento di una vittoria militare risolutiva, che necessariamente – stante la vastità del Paese – dovrebbe investire pochi punti nevralgici: il carattere diffuso e frammentato del potere rende però tutto ciò illusorio.

In terzo luogo, la presenza militare internazionale, articolata nella missione Enduring Freedom a guida USA, e nella missione ISAF a guida NATO, è apparsa fin qui intimamente contraddittoria, non riuscendo l’amalgama tra il carattere di combattimento diretto della prima e quello di peace keeping della seconda. L’estensione di ISAF a buona parte del territorio meridionale (luglio 2006) e orientale (ottobre 2006) afghano, resa possibile dall’aumento degli effettivi, che hanno superato le 40.000 unità, ha ulteriormente acuito il contrasto, soprattutto laddove ISAF è subentrata a Enduring Freedom, con una drastica caduta delle operazioni di contrasto diretto alla guerriglia.

Va inoltre tenuto presente che con la ripresa di iniziativa dei taleban le azioni di stampo prettamente terroristico decrescono percentualmente rispetto a forme varie di guerriglia, che possono evidentemente contare sull’appoggio crescente di settori della popolazione,per ragioni etniche, di comunanza di costumi, religiose, o  anche solo per la profonda delusione rispetto al nuovo corso del Paese, incapace di garantire un livello sufficiente di sicurezza e di progresso economico. Tali nuovi caratteri dell’opposizione armata al governo di Kabul e alle forze occidentali riflettono probabilmente una differenziazione anche nel fronte della guerriglia, nel quale l’elemento prevalentemente “internazionalista” islamico, rappresentato dal mosaico di forze facenti riferimento ad Al Qaeda, è affiancato dai risorgenti taleban, più radicati nel territorio e per i quali proprio la vittoria in Afghanistan costituisce l’obiettivo ultimo.

La necessità di fronteggiare un nuovo livello del conflitto afghano ha creato diverse tensioni in seno alle forze militari internazionali, soprattutto in merito alle accuse dei Paesi i cui contingenti sono impegnati nelle aree più “calde”: da essi sono venute infatti più volte esortazioni a un maggiore impegno degli altri contingenti nello sforzo bellico, sia con l’aumento degli effettivi che mediante una ridislocazione e una ridefinizione delle regole di ingaggio dei contingenti medesimi. Finora, tuttavia, la risposta è stata tiepida – con l’eccezione della Francia[128], che ha preannunciato l’invio di rinforzi nell’area meridionale -, riflettendo un’obiettiva divergenza nella considerazione delle rispettive missioni nazionali in Afghanistan: solo gli Stati Uniti hanno già programmato l’invio di 2.200 marines nella zona di Kandahar.

Non mancano inoltre altri contrasti tra le forze multinazionali e tra queste e il governo di Kabul, in ordine anzitutto alla strategia di contrasto alla guerriglia: l’approccio britannico, più portato alla trattativa con elementi locali, è stato criticato dagli americani. Le modalità per combattere le colture oppiacee registrano parimenti un disaccordo di fondo tra USA e britannici, con gli americani più favorevoli a un approccio di sradicamento tramite irrorazione dall’alto, senza le mediazioni indispensabili per una distruzione sistematica e concordata. Anche i rapporti fra il presidente Karzai e Londra non sono attualmente facili: agli inglesi è stato contestato di voler trattare sotto banco con elementi taleban moderati – cosa che peraltro anche Karzai non pare proprio voler escludere -, e c’è stato il rifiuto afghano di accettare il britannico Paddy Ashdown quale nuovo inviato dell’ONU nel Paese, con poteri di coordinamento accresciuti.

 


Pakistan

Cenni storici e profilo attuale

Nato nel 1947 per rispondere all’esigenza di dare una specificità statuale a una parte della ex India britannica connotata da una larga prevalenza della religione musulmana, il Pakistan non ha però registrato nei primi decenni della sua esistenza particolari accentuazioni religiose. Ciò che invece caratterizzava allora il Paese erano le profonde differenze etniche e l’instabilità politica – con continui interventi dei militari e assassinii politici -, mentre sul piano internazionale rimaneva aperta la controversia con l’India rispetto all’ampio territorio di frontiera del Kashmir: proprio con riferimento al Kashmir furono combattute due guerre indo-pakistane, nel 1947-48 e nel 1965.

Dopo un ennesimo conflitto con l’India (1971), nel quale il governo di New Delhi si inserì nei contrasti tra il Pakistan occidentale – la parte preponderante del Paese – e il Pakistan orientale, la cui etnia bengalese lamentava la marginalizzazione politica, si giunse all’indipendenza del Pakistan orientale, che assunse il nome di Bangladesh. Le autorità pakistane, che già dopo il conflitto del 1965 avevano visto affacciarsi un preoccupante declino del Paese, iniziarono un lento ma progressivo sforzo di reislamizzazione volto a far acquisire al Paese una identità che il complesso mosaico etnico interno evidentemente non riusciva a sedimentare.

Nel luglio 1977 l’ennesimo intervento militare nella vita politica portò al potere il Generale Zia-ul-Haq, che diede nuovo impulso all’islamizzazione, anche in funzione del consolidamento del proprio potere: le vicende seguite all’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) consentirono a Zia-ul-Haq di presentarsi come campione dei valori democratici e liberali, e di riscuotere il convinto appoggio della nuova Amministrazione USA di Ronald Reagan. Fu proprio nella prima metà degli Anni Ottanta che il Pakistan divenne il principale attore nella preparazione e nel sostegno delle attività di guerriglia condotte in Afghanistan dai mujaheddin, e per le quali ebbe importanza decisiva il richiamo a valori religiosi islamico-integralisti, contrapposti all’ateismo di Stato che caratterizzava gli invasori sovietici. Un ruolo speciale fu rivestito dai servizi pakistani di intelligence, già esperti nella preparazione e nell’utilizzo di estremisti islamici in ragione del persistente contrasto con l’India per la regione del Kashmir.

Va in proposito ricordato che nel delicato equilibrio regionale il Pakistan ha ricevuto costantemente l’appoggio cinese, sia sulla questione del Kashmir, sia negli sforzi di controbilanciare la potenza indiana mediante l’acquisizione di tecnologie nucleari e missilistiche. La collaborazione tra i due Paesi è proseguita anche dopo la svolta dell’11 settembre 2001 (v. infra), con lo schierarsi di entrambi contro il terrorismo islamico-integralista, ma la valenza di tali prese di posizione non è probabilmente stata univoca – e certamente non sembra esserlo stata per vasti ambienti pakistani.

Dopo la sconfitta sovietica, il complesso intreccio plurinazionale di movimenti fondamentalisti islamici, che aveva avuto le proprie basi nei territori pakistani limitrofi all’Afghanistan, concepì la prospettiva della creazione di uno Stato islamico afghano, che fu portata a compimento nel 1996 dal movimento dei taleban. Tuttavia, una parte della centrale di coordinamento in territorio pakistano, facente capo a Osama Bin Laden, concepì un piano assai più ambizioso, ossia una guerra di lungo periodo contro l’Occidente e gli Stati arabi moderati, volta alla creazione di un unico Califfato retto dalla legge coranica. Rispetto a tale prospettiva, l’Afghanistan avrebbe dovuto costituire la piattaforma di lancio, nonché un punto di riferimento per gli adepti di altre due letture ultrafondamentaliste del Corano, quella wahabita dell’Arabia Saudita e quella salafita dell’Egitto e del Maghreb. Vi fu quindi un forte coinvolgimento del Pakistan nella rinascita fondamentalista che si è posta alla base di una vasta campagna terroristica islamico-integralista.

Come già accennato, nel 1998 il Pakistan, reagendo a una serie di test nucleari indiani, portò a termine a sua volta una serie di esperimenti con armi atomiche, rivelandosi così alla Comunità internazionale quale nuovo Stato in possesso di armamenti nucleari. Non è forse priva di legami con la preoccupazione destata da tale nuovo status del Paese la nuova svolta politica realizzata con il colpo di Stato (ottobre 1999) dell’allora Capo di stato maggiore dell’esercito, Generale Pervez Musharraf, che riportava sotto il controllo militare le complesse dinamiche pakistane. Nonostante una iniziale diffidenza, gli Stati Uniti si avvicinarono progressivamente al nuovo corso della politica del Pakistan. Tuttavia furono gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a far considerare Musharraf – intanto proclamatosi in giugno Presidente - quale interlocutore obbligato degli USA nella Guerra globale contro il terrorismo, proprio in considerazione del ruolo strategico del Pakistan, sia per i 2.000 chilometri di frontiera con l’Afghanistan, sia per i legami dei taleban con gruppi armati e con livelli istituzionali radicati in Pakistan. Di conseguenza, a partire dal 2001 sono affluiti in Pakistan ingenti aiuti americani, prevalentemente di carattere militare, che a tutt’oggi hanno superato i 10 miliardi di dollari.

Il regime di Musharraf, tuttavia, non è sembrato corrispondere pienamente alle aspettative americane di collaborazione: se infatti a ridosso dell’attacco USA all’Afghanistan (ottobre 2001) la cooperazione logistica e militare pakistana si rivelò preziosa, e se nel 2002 e nel 2003 vennero arrestati proprio in Pakistan importanti corresponsabili degli attacchi contro il World Trade Center e il Pentagono, tra cui il probabile ideatore degli stessi; negli anni successivi la necessità di fronteggiare le controspinte antioccidentali e antiamericane determinate proprio dall’alleanza con gli Stati Uniti ha fatto sì che la pressione sui gruppi fondamentalisti si sia attenuata, anche considerando i legami di importanti settori delle forze armate e dei servizi segreti con gli ambienti integralisti.

Oggi diversi osservatori internazionali considerano il Pakistan il centro di gravità di Al Qaeda e il campo di battaglia cruciale dei prossimi anni. Occorre considerare in primo luogo la componente islamica che caratterizza tutta la vita politica del paese e la forza dei partiti islamismi riuniti nell’alleanza Muttahida Majlis-e-Amal, guidata dal leader Qazi Hussain Ahmed, che è favorevole alla instaurazione di una teocrazia. Tale alleanza si è opposta alla scelta del 2001 di Musharraf di supporto agli Stati Uniti e alla campagna in Afghanistan, che rappresentò all’epoca un vero e proprio capovolgimento di alleanze, dati gli strettissimi rapporti fra il Pakistan e l’Afghanistan sotto i talebani. Si ricorda che nel febbraio 2002 Musharraf fu costretto a smantellare l’unità dell’ISI (servizi segreti) responsabile per l’Afghanistan, sospettata di sostenere attivamente l’estremismo islamista.

Ma un elemento che rende particolarmente permeabile il paese alla infiltrazione terrorista e talebana è la tradizionale situazione di autonomia dei territori posti sul lungo confine con l’Afghanistan, la cd “tribal belt”. Questa autonomia ha radici storiche: l’Inghilterra – dopo le due guerre anglo-afghane e al fine di creare una zona cuscinetto fra la propria sfera di influenza e quella dell’impero russo - definì un confine fittizio (la c.d. Durand Line che oggi costituisce il confine politico tra i due paesi, ma che non è mai stato accettato dall’Afghanistan) considerando acquisite alla propria sfera (che divenne nel 1947 lo stato pakistano) aree sotto il governo delle tribù pashtun. Tali aree in realtà non sono mai state sotto il controllo pieno del governo di Islamabad.

In base agli articoli 246-247 della Costituzione del 1973, dapprima sospesa dopo il colpo di Stato che nel 1999 ha condotto al potere il Generale Musharraf (attuale Presidente), e parzialmente rimessa in vigore a partire dal 2002, il Pakistan si suddivide in quattro Province, un Territorio e un Distretto federale.

 

Le Zone tribali ad amministrazione federale (FATA) si inseriscono nel più ampio concetto delle Zone tribali, delle quali una parte è amministrata a livello della Provincia di appartenenza, e un’altra parte – le FATA, appunto – sono amministrate a livello federale, costituendo il Territorio prima ricordato, non facente parte di alcuna Provincia, e nel quale risiedevano nel 2000 circa 3.341.000 persone.

Vi sono complessivamente undici Zone tribali ad amministrazione federale, quattro delle quali costituiscono Regioni di frontiera, mentre le altre sette sono organizzate come Agenzie.

Secondo la Costituzione, l’autorità di governo federale si estende alle FATA; nel contempo, nessun atto del Parlamento federale troverà applicazione all’interno di una delle FATA, se non per espressa indicazione del Presidente, il quale potrà anche emanare disposizioni per la pace e il buon governo di una delle Zone tribali ad amministrazione federale, o parte di essa.

Rispetto alle Zone tribali in senso più generale, poi, il loro status – o quello di una parte di esse - può essere revocato in qualunque momento dal Presidente, che deve però consultare, nelle forme che riterrà opportune, la popolazione interessata, rappresentata nella Jirga tribale.

Inoltre, salvo quando diversamente stabilito dalla legge, né la Corte suprema né altra Alta Corte del Paese eserciteranno alcuna giurisdizione in relazione a una Zona tribale.

Dal punto di vista dell’effettivo potere, nelle FATA il controllo centrale è più nominale che reale. In realtà, i rapporti con Islamabad non erano particolarmente problematici fino alla fine del 2001, quando il crollo dei taleban afghani – con i quali la maggioranza delle popolazioni delle FATA ha in comune l’appartenenza all’etnia pashtun – ha prodotto crescenti tensioni, determinate anche dall’essersi molti taleban afghani e (probabilmente) molti appartenenti ad Al Qaeda rifugiati proprio nel limitrofo Territorio pakistano. Formalmente, le tribù delle FATA sono soggette alla normativa penale di frontiera introdotta al tempo della dominazione coloniale inglese. Dal punto di vista politico, le tribù locali hanno propri rappresentanti in entrambe le Camere del Parlamento pakistano, per lo più eletti come indipendenti: va tuttavia tenuto presente che all’incirca il trenta per cento del Territorio sfugge ad ogni controllo politico o amministrativo.

Tutto ciò spiega anche come il primo consistente ingresso nelle FATA di truppe regolari pakistane nella storia del Paese si sia avuto solo nel 2004, dopo vari negoziati. Da allora sono state portate a termine anche operazioni coordinate tra l’esercito regolare e truppe USA, ma gli “effetti collaterali” di tali azioni hanno acuito i contrasti con l’elemento tribale locale.

Non va infine dimenticato che le FATA sono un’importante sede di produzione e soprattutto di contrabbando di oppio (di provenienza afghana), nonostante i tentativi di contrasto da parte del Governo afghano.

 

Durante la campagna Enduring Freedom il governo pakistano ha inviato nelle zone tribali al confine con l’Afghanistan truppe e forze di polizia (circa 80.000 uomini) con il compito di evitare che le milizie talebane e i gruppi di Al-Qaeda  espulsi dall’Afghanistan creassero in quei territori le loro basi logistiche. Fra l’altro in queste regioni, già dagli anni della invasione russa, sono stati accolti circa 2,5 milioni di afghani. Oggi vi rimangono meno di un milione di afghani (prevalentemente volontari). Ma il tentativo pakistano di acquisire il controllo del territorio non ha mai avuto successo e ha suscitato una vasta impopolarità del governo di Islamabad.

Il 5 settembre 2006 il governo Musharraf ha firmato un accordo con le tribù del nord Waziristan. L’accordo, che ha avuto come conseguenza il totale ritiro delle truppe dell’esercito regolare ha rappresentato – per molti analisti – la creazione di una ampia zona franca per Al-Qaeda e i talebani. Fra l’altro, due anni fa un accordo analogo era stato stipulato per il sud Waziristan, con il risultato che già in quella regione i talebani avevano cominciato a creare i loro campi di addestramento.

Musharraf ha comunque sempre respinto con nettezza le accuse di essere sceso a patti con i talebani, chiarendo che i suoi accordi sono intervenuti solo con i leader pashtun. Ciò è in parte vero (in quanto sono i capi pashtun ad essersi progressivamente avvicinati ai talebani e ad avere stretto accordi con questi e con la stessa Al-Qaeda), in parte nasconde invece il dato rilevato da tempo dalla stampa internazionale che accusa i servizi segreti pakistani di svolgere una propria azione di infiltrazione e finanziamento di frange di milizie islamiche che operano in Afghanistan.

Nonostante, poi, una certa crescita economica indotta dagli aiuti americani, gli squilibri nella distribuzione dei benefici hanno rinfocolato alcuni conflitti a base etnica, come quello del Belochistan (sud-ovest del Paese), mentre non hanno favorito una migliore integrazione dell’elemento pashtun, etnicamente omogeno alla maggioranza degli afghani, e presente proprio nelle aree settentrionali e centrali della frontiera tra i due Paesi. Questi elementi, unitamente a una diffusa insoddisfazione per la perdurante mancanza di democrazia, costituiscono il crogiolo della crisi che ha attanagliato il Pakistan fra la metà del 2007 e il febbraio 2008.

La crisi pakistana (maggio 2007-febbraio 2008)

Il 12 maggio 2007 si sono verificati gravi scontri nella città meridionale di Karachi fra polizia e manifestanti pro e contro il giudice Chaudhry, ex presidente della Corte suprema, che gode nel paese fama di difensore dei diritti umani e che poco tempo prima era stato rimosso dal presidente Musharraf. Chaudhry aveva in diverse occasioni sostenuto l'impossibilità che il presidente Musharraf potesse ricandidarsi alla elezione per la suprema carica dello Stato - che in Pakistan avviene in Parlamento - senza prima dimettersi dal comando supremo delle forze armate.

L'atmosfera del paese si è confermata estremamente tesa quando il 15 maggio un attentatore suicida si è fatto esplodere in un ristorante affollato di Peshawar, provocando la morte di almeno 25 persone e il ferimento di una quarantina.

Dopo un periodo di relativa calma, la settimana dal 3 al 10 luglio ha visto esplodere in modo drammatico la vicenda della cosiddetta Moschea Rossa di Islamabad, la cui scuola coranica era da tempo nel mirino dell'antiterrorismo pakistano sospettata di essere un vivaio del terrorismo islamico. Falliti i negoziati per uno sgombero pacifico delle diverse centinaia di studenti in armi che avevano occupato la Moschea, il 10 luglio è stato effettuato l’ attacco alla Moschea da parte dell’esercito pakistano che ha portato allo sgombero definitivo da parte degli occupanti. Il bilancio finale della sanguinosa operazione è stato di otto soldati e 50 integralisti islamici che si aggiungo alle sedici vittime e agli oltre centoquaranta feriti delle sparatorie dei giorni precedenti.

Dall'esilio l'ex primo ministro Benazir Bhutto aveva espresso con prontezza il proprio appoggio alla decisione presa da Musharraf nella vicenda. Già l'11 luglio, si è verificato uno sviluppo foriero di un successivo clamoroso cambiamento di scena, poiché è emerso un accordo sotterraneo tra Musharraf e la Bhutto, due personaggi che non avevano mai avuto reciproca vicinanza. Grande sponsor di tale accordo è stata generalmente ritenuta essere l’amministrazione USA, per la quale un ritorno della Bhutto avrebbe restituito un'immagine democratica al paese, considerato indispensabile alleato nella lotta al terrorismo islamico, nonché sorvegliato particolare in quanto unico Stato islamico dotato di armamento nucleare.

L'escalation terroristica è proseguita il 4 settembre, quando un duplice attentato terroristico nella città di Rawalpindi, non lontana da Islamabad e vero e proprio cuore del quartiere generale militare, ha provocato la morte di 26 persone e il ferimento di una settantina

Il 28 settembre la Corte suprema ha deciso la legittimità della ripresentazione del generale Musharraf per la carica di capo dello Stato, nonostante egli mantenesse le funzioni di capo delle forze armate. La sezione della Corte suprema, dalla quale era stato tenuto lontano il giudice Chaudhry, ha adottato la decisione a maggioranza.

Il 5 ottobre il capo dello Stato Musharraf ha firmato l’amnistia sui reati di corruzione, condizione indispensabile posta da Benazir Bhutto per l'accordo politico. Musharraf inoltre ha confermato l'impegno di lasciare il comando delle forze armate in caso di rielezione a presidente (essendo le due cariche incompatibili in base alla Costituzione pakistana).

Il 6 ottobre Musharraf  è stato rieletto presidente con un voto congiunto del Parlamento e delle Assemblee provinciali.

Negli stessi giorni nelle zone tribali è nuovamente divampata la battaglia tra le forze di sicurezza pakistane e gli elementi locali, tra i quali è pressoché certa la presenza di elementi di al Qaida, ripiegati dall'Afghanistan.

Il 18 ottobre Benazir Bhutto è rientrata dall’esilio, ma durante il passaggio del corteo a Islamabad due esplosioni hanno ucciso 140 persone. Questo episodio ha subito segnato un momento di distacco della Bhutto dall'intesa con Musharraf.

Il 3 novembre vi è stata una nuova svolta nella vita politica del Pakistan: il presidente Musharraf ha proclamato lo stato di emergenza.

Lo stato di emergenza ha comportato la sospensione della Costituzione del 1973, e di conseguenza di alcuni diritti fondamentali della persona come la libertà di movimento, di riunione, di espressione. Inoltre, i rimanenti magistrati della Corte suprema hanno dovuto giurare fedeltà al presidente generale, e alla Corte stessa è stato proibito di discutere ulteriormente in merito allo stato di emergenza, come anche di prendere decisioni contrarie all'interesse del presidente o del primo ministro. Nel campo dei media, è stato proibito ogni commento diffamatorio delle autorità costituite, nonché di dare pubblicità, seppure indirettamente, ai terroristi, mostrando le loro immagini o pubblicandone le dichiarazioni. È stato previsto inoltre che il Parlamento nazionale e le assemblee provinciali continuassero a funzionare fino alla fine della Legislatura, fissata per il 15 novembre, dopo di che un governo ad interim di due mesi avrebbe provveduto all'organizzazione di elezioni per la metà di gennaio 2008, come già previsto.

Benazir Bhutto ha qualificato il provvedimento alla stregua di una mini legge marziale, imposta allo scopo di rinviare le elezioni legislative dell'inizio 2008. Per la verità, la proclamazione dello stato di emergenza non ha troppo sorpreso gli analisti interni e internazionali, poiché essa è sembrata inserirsi in una precisa tempistica. Non va infatti dimenticato che lo status di presidente rieletto di Musharraf dipendeva dalla conclusione dell'esame, da parte della Corte suprema, delle petizioni di illegittimità presentate dall'opposizione: la riunione della Corte era stata fissata per il 5 novembre, e i risultati dell'esame avrebbero dovuto essere comunicati entro il 12 novembre.

Otto giudici della Corte suprema, fra i quali il presidente Chaudhry, nel frattempo integrato, hanno dichiarato illegale anche la proclamazione dello stato di emergenza. Musharraf ha quindi destituito Chaudhry, sostituendolo con un giudice di proprio gradimento.

Sul piano internazionale, è apparso chiaro che né gli Stati Uniti né l’Unione europea hanno visto con favore la proclamazione dello stato di emergenza: ambienti di Washington si sono dichiarati preoccupati e hanno manifestato profondo disappunto sulla questione.

Nei giorni successivi, l'applicazione dello stato di emergenza ha condotto all'arresto di numerosi capi dell'opposizione: il più forte movimento della società civile, quello degli avvocati, ha annunciato uno sciopero a partire dal 5 novembre. Benazir Bhutto, dal canto suo, ha esortato il popolo a sollevarsi contro la legge marziale e contro la violazione da parte di Musharraf degli impegni già presi nei suoi confronti per un accordo di transizione alla democrazia. Secondo dati ufficiali comunicati il 7 novembre, nei primi cinque giorni dall'imposizione dello stato di emergenza sono state arrestate oltre duemila persone. In questa prima fase la prevalenza della protesta è sembrata nelle mani della società civile.

Benazir Bhutto, dal canto suo, ha chiesto il ripristino della vera composizione della Corte suprema per decidere sull'elezione del presidente, riconfermando, nonostante lo stato di emergenza, lo svolgimento per il 9 novembre di un raduno del suo Partito popolare a Rawalpindi. Proprio tale manifestazione è stata poi infatti impedita dalle forze governative, con la Bhutto confinata agli arresti domiciliari (anche se il governo ha motivato il provvedimento con le esigenze di sicurezza personale della medesima Bhutto). Anche contro tale misura gli Stati Uniti si sono espressi; tale pressione ha avuto successo in quanto gli arresti domiciliari della Bhutto sono durati poche ore. Washington ha in particolare sottolineato che senza la revoca dello stato di emergenza veniva meno una condizione fondamentale di libere elezioni.

L'11 novembre il presidente in persona ha annunciato la data delle elezioni legislative (8 gennaio 2008) e ha ribadito che avrebbe deposto la divisa  e giurato in qualità di presidente civile. Cionostante, Benazir Bhutto – confinata il 12 novembre agli arresti domiciliari a Lahore, per impedire l’annunciata marcia di protesta Lahore-Islamabad - ha rilanciato, chiedendo per la prima volta le dimissioni di Musharraf da Capo dello Stato. Contemporaneamente, la Bhutto ha offerto all’ex premier Nawaz Sharif – che nel 1999 era stato destituito proprio da Musharraf, e che si trovava ancora in esilio in Arabia Saudita – di collaborare per il rovesciamento di Musharraf.

Il 22 novembre la Corte Suprema pakistana – nella configurazione successiva all’allontanamento dei giudici sfavorevoli al Presidente – ha respinto anche l’ultimo dei ricorsi contro l’avvenuta rielezione di Musharraf a Capo dello Stato.

Il ritorno di Nawaz Sharif dall’esilio (25 novembre) è preceduto da due gravi attentati a Rawalpindi, quartier generale delle forze armate pakistane.

Dopo aver deposto la carica di capo delle forze armate (28 novembre), il giorno seguente Musharraf presta giuramento come Presidente civile: salutato con favore dagli alleati occidentali del Paese, l’evento non induce Benazir Bhutto ad attenuare la sua richiesta di dimissioni di Musharraf.

In ogni modo, il 15 dicembre viene annunciata la revoca dello stato di emergenza, che Musharraf ha attribuito alla necessità di contrastare il terrorismo, una presunta cospirazione giudiziaria nei suoi confronti e l’atteggiamento antipresidenziale dei media. Secondo il Presidente tali obiettivi sarebbero stati raggiunti, e pertanto si sarebbe reso possibile il regolare svolgimento delle elezioni già fissate per l’8 gennaio.

Il cammino verso le elezioni viene tuttavia funestato dapprima, il 21 dicembre, da un attentato suicida con il probabile obiettivo di uccidere l’ex ministro Sherpao, uomo vicino al Presidente Musharraf e candidato alle imminenti elezioni politiche: Sherpao è sopravvissuto, ma il bilancio è stato di oltre 50 vittime e più di cento feriti.

Ma l’apice della crisi si raggiunge allorché, il 27 dicembre a Rawalpindi un attentatore suicida provoca la morte di Benazir Bhutto[129], che percorreva in auto le strade della città dopo aver tenuto un comizio in un albergo. Nei giorni successivi un’ondata di violenze ha scosso il Paese, provocando una sessantina di morti e gravi danneggiamenti: i sostenitori del Partito popolare pakistano hanno accusato il governo per l’attentato, mentre Musharraf ha attribuito la responsabilità ad Al Qaeda e ai capi tribali con essa in combutta nelle regioni nord-occidentali del Paese.

Il 2 gennaio 2008 il Presidente Musharraf annuncia in un discorso televisivo lo slittamento delle elezioni al 18 febbraio, in considerazione del grave stato di agitazione determinatosi nel Paese: i due principali partiti di opposizione, il PPP e la Lega musulmana di Nawaz Sharif hanno preannunciato la loro partecipazione al voto.

Pur dovendo registrare un ennesimo duro colpo ai propri sostenitori quando il 16 febbraio un’autobomba ne ha fatto strage a Parachimar, nel nord-ovest del Paese, il PPP ha tuttavia riportato un grande successo nelle elezioni del 18 febbraio, che hanno visto anche l’affermazione della Lega musulmana di Nawaz Sharif. Il partito del Presidente Musharraf è uscito invece chiaramente ridimensionato. In dettaglio, l’Assemblea Nazionale di Islamabad – il Senato non è eletto a suffragio diretto -, considerando anche i seggi non elettivi riservati alle donne e alle minoranze, sarà composta da 120 deputati del PPP, da 90 della Lega musulmana di Sharif, mentre il partito di Musharraf avrà solo 51 parlamentari. Una grave sconfitta è stata quella dei partiti islamici, presentatisi in ordine sparso, mentre una significativa affermazione hanno registrato partiti etnici come quello pashtun (ANP) della zona nord-occidentale del Paese, cui sono andati 13 seggi e quello dei mohajir, gli immigrati dall’India (dai quali proviene la famiglia dello stesso Musharraf), che ha ottenuto 25 seggi.

Le elezioni sono state generalmente considerate corrette dagli osservatori, malgrado la bassa affluenza alle urne, il che non esclude un certo livello di brogli, magari finalizzato a impedire che i due partiti maggiori dell’opposizione conseguissero un totale di 2/3 dei seggi, con il quale avrebbero potuto avviare una procedura di impeachment contro il Presidente.

La situazione dopo le elezioni di febbraio

Il 9 marzo i due partiti di opposizione a Musharraf hanno firmato un accordo per dar vita a un governo di coalizione, contestualmente chiedendo al Presidente l’immediata convocazione del nuovo Parlamento, richiesta alla quale Musharraf ha dato seguito l’11 marzo, prevedendone la prima riunione per il 17 marzo.

Dopo due attentati perpetrati con autobomba a Lahore, che hanno provocato una trentina di vittime e oltre cento feriti, il 15 marzo è stata la volta di un ristorante italiano nella capitale Islamabad, con la morte di una cittadina turca e numerosi feriti, tra i quali la proprietaria del locale. Dal 2002 in Pakistan non venivano fatti oggetto di attacchi terroristici luoghi frequentati da stranieri.

Il 17 marzo, come previsto, si è svolta la prima seduta del nuovo Parlamento, nella prospettiva della formazione di un governo di coalizione tra il PPP, La Lega musulmana di Sharif e l’ANP.

Le priorità emerse non fanno presagire tempi facili per il Presidente Musharraf: infatti il PPP ha posto subito all’ordine del giorno un voto per richiedere un’inchiesta indipendente dell’ONU sull’assassinio della Bhutto, mentre altrettanto chiaramente è emersa la volontà di emendare la Costituzione, sì da privare Musharraf dei poteri di licenziare il premier e sciogliere il Parlamento. L’Assemblea Nazionale, poi, entro un mese dall’insediamento del nuovo governo, dovrà adottare una risoluzione per il reinsediamento dei giudici a suo tempo rimossi da Musharraf, il che potrebbe sollevare nuovamente la questione della costituzionalità della sua rielezione a Capo dello Stato, avvenuta, in contrasto con la Costituzione, quando ancora era capo delle forze armate. Il 19 marzo, per la prima volta nella storia del Paese, una donna è stata eletta Presidente dell’Assemblea Nazionale, nella persona di Fehmida Mirza, dal 1997 presente in Parlamento nelle file del PPP.

 

Il futuro immediato del Pakistan non è di facile decifrazione: infatti diverse incognite gravano sugli sviluppi politici ed economici, anzitutto la dinamica successiva alle elezioni del 18 febbraio 2008 (v. a pag. 23 il capitolo Pakistan), dalle quali il potere del Presidente Musharraf potrebbe essere stato solo apparentemente messo in pericolo. In primo luogo, non si prospetta molto facile la collaborazione di governo tra il Partito popolare pakistano e la Lega musulmana di Nawaz Sharif, che hanno referenti sociali piuttosto diversi, oltre che un orizzonte di valori divergente (laico il PPP, più legata alla religione la Lega musulmana). Inoltre, per accrescere la base parlamentare della coalizione di governo la strada più percorribile appare quella del coinvolgimento del partito etnico pashtun (ANP), che proprio in quanto tale potrebbe riproporre dinamiche centripete nella nevralgica zona di frontiera nord-occidentale. L’ANP potrebbe poi costituire un problema per quanto concerne i rapporti con gli Stati Uniti (lotta al terrorismo), poiché, pur su posizioni laiche, non accetta interferenze dei militari nelle province in cui è presente. A maggior ragione tollererebbe l’impiego di truppe americane: del resto il carattere etnico dell’ANP costituisce un collante non meno forte del cemento religioso nei riguardi delle popolazioni afghane pashtun.

Anche le previsioni in merito al futuro di Musharraf non appaiono facili: se è scontata la totale avversione di Nawaz Sharif alla sua figura, non va dimenticato che da parte statunitense non si è certo rinunciato al progetto di collaborazione tra il Presidente e il PPP, anche se dopo l’assassinio di Benazir Bhutto tale prospettiva è stata comprensibilmente congelata. Alcune affermazioni del vedovo della Bhutto, Zardari – attuale leader di fatto del PPP – in ordine alla possibilità di collaborazione anche con il partito MQM, radicato soprattutto nel sud del Paese, che rappresenta gli interessi degli immigrati dall’India ed è vicino a Musharraf, hanno fatto pensare a una posizione possibilista del PPP.

Tuttavia, alcune dichiarazioni del nuovo Capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Kiyani, fanno presagire un prossimo ritiro delle forze armate da alcuni centri dell’amministrazione e del potere, con possibile effetto di indebolimento di Musharraf.

 


Kosovo

Origini ed evoluzione della crisi

Cronologia fino alla crisi del 1999

La vicenda del Kosovo ha origini antiche. In un certo senso essa ha inizio nel 1389, quando i serbi furono sconfitti dall’esercito ottomano nella battaglia di Kosovo Polje (a nord dell’attuale Pristina), che è tuttora simbolo di orgoglio etnico per i serbi.

In tempi più recenti, la regione ha fatto parte del primo regno jugoslavo (1918), della 'Grande Albania' controllata dall'Italia fascista (1941-1943) e, dal 1946, della Jugoslavia socialista.

1989: la revoca dell’autonomia

Dal 1974, il Kosovo aveva goduto di uno statuto di autonomia all’interno della Serbia (a sua volta Repubblica della Jugoslavia federale), che garantiva l’insegnamento della lingua albanese ed il rispetto delle festività della religione musulmana.

Nel 1989 la nuova costituzione serba revocava lo statuto, aprendo un periodo di sostanziale emarginazione della maggioranza albanese. In questo nuovo clima, veniva dispiegato un ingente apparato militare e di polizia nella regione e licenziati migliaia di kosovari impiegati nella pubblica amministrazione o nelle imprese pubbliche.

1992: la maturazione della crisi

La reazione degli albanesi del Kosovo fu quella di autoproclamare la Repubblica indipendente e procedere (maggio 1992) all'elezione, quasi clandestina, di una Assemblea parlamentare e di un Presidente (lo scrittore Ibrahim Rugova, sostenitore della linea della resistenza pacifica). Venne  altresì formato un governo in esilio, con sede a Stoccarda; da allora gli albanesi del Kosovo rifiutarono sistematicamente di prendere parte alle competizioni elettorali nazionali. Il rinnovo degli organi di rappresentanza del Kosovo, che sarebbe dovuto avvenire nel maggio 1997, ma venne a più riprese rinviato, si svolse infine il 22 marzo 1998. Rugova fu rieletto Presidente con una maggioranza quasi assoluta, mentre il suo partito, la Lega democratica del Kosovo, ottenne 84 seggi su 100 alle elezioni parlamentari[130].

1996: la radicalizzazione della crisi

Nel periodo 1996-1997 si verificò una serie di azioni terroristiche, rivendicate dall’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e dal Movimento nazionale di liberazione del Kosovo.

La delusione seguita alla mancata inclusione della questione del Kosovo negli accordi di Dayton – che posero fine al dramma della Bosnia-Erzegovina - ed al riconoscimento della Serbia-Montenegro da parte della Unione Europea, nell'aprile 1996, aveva infatti minato l'autorità della Lega democratica del Kosovo (LDK) e del Presidente Rugova.

Emerse allora la figura di Adem Demaci, intellettuale ed 'eroe nazionale' (aveva trascorso 27 anni in prigione), prima presidente del Partito parlamentare del Kosovo (PPK) - movimento in crescita che rivendicava l'autodeterminazione del Kosovo con mezzi più radicali di quelli propugnati dall'LDK - e successivamente leader dell’UCK.

1998: il Piano Holbrooke

 L’escalation di tensione e di violenze determinò un progressivo coinvolgimento della comunità internazionale, culminato (ottobre 1998) in una forte pressione da parte della NATO per far cessare le ostilità con la minaccia di un intervento armato. Tale minaccia assunse, il 12 ottobre 1998, un carattere operativo, con l’adozione dell’Activation Order[131].

La pressione ebbe un effetto immediato: il 13 ottobre 1998 il mediatore USA Richard Holbrooke annunciò il raggiungimento di un accordo con il Presidente della Federazione jugoslava, Milosevic. Quest’ultimo accettò innanzitutto di adempiere alle richieste contenute nella risoluzione del Consiglio di sicurezza 1199 del 23 settembre 1998, che prevedeva tra l’altro la cessazione immediata delle ostilità, l’avvio del dialogo tra le Parti, il ritiro delle forze di sicurezza jugoslave utilizzate per la repressione della popolazione civile.

La mediazione di Holbrooke si sostanziava in tre punti principali: il dispiegamento di una missione dell’OSCE composta da circa 2000 osservatori disarmati, con il compito principale di verificare il rispetto di tutte le richieste della risoluzione n. 1199; la sorveglianza aerea NATO, svolta con aerei non da combattimento, anch’essa finalizzata a verificare il rispetto della risoluzione 1199; il consenso sulla ricerca di una soluzione politica del conflitto che comportasse ampi poteri di autogoverno del Kosovo.

Da tale mediazione scaturirono poi due appositi accordi conclusi, il primo, tra la Federazione jugoslava e la NATO, ed il secondo tra la stessa Federazione e l’OSCE, ed entrambi recepiti dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu n. 1203 del 24 ottobre 1998.

Il ritiro delle truppe serbe dal territorio del Kosovo, completato il successivo 27 ottobre, determinò un allentamento della pressione internazionale, e soprattutto l’assicurazione da parte della NATO di non procedere ad attacchi immediati, pur mantenendo la minaccia in caso di violazione degli accordi: l’Activation Order restava infatti valido.

Nei mesi di novembre e dicembre si registrò una cessazione delle ostilità, che consentì il ritorno di molti profughi alle loro località di origine. Ma rimase una conflittualità strisciante, in particolare alle frontiere con l’Albania, in relazione al traffico clandestino di uomini e armamenti, ed al tentativo dell’UCK di acquisire il controllo delle aree abbandonate dall’esercito di Belgrado in attuazione degli accordi.

1999: gli accordi di Rambouillet e l’intervento della Nato

In questo quadro, nel gennaio 1999 esplosero nuove violenze, culminate nel ritrovamento dei corpi di 45 kosovari nel villaggio di Racak, nel sud del paese.

Riprese così vigore l’intervento internazionale, attraverso l’attivazione dei fori competenti (NATO, OSCE e Gruppo di contatto), e, dopo l’esito negativo dei colloqui tra due generali NATO ed il Presidente Milosevic, si tornò a parlare di opzione militare.

Dopo un nuovo ammorbidimento di Belgrado, la parola passò alla diplomazia e ai progetti di risoluzione della crisi. Sulla falsariga del piano del Gruppo di contatto messo a punto dall’ambasciatore USA in Macedonia, Cristopher Hill, le trattative si intensificarono, allo scopo di far superare alle due parti in conflitto le rispettive obiezioni.

Il Gruppo di contatto convocò una riunione delle parti a Rambouillet (Francia), nella quale stringere i tempi della fase finale della trattativa. I negoziati si rivelarono estremamente difficili: mentre i serbi si dichiararono disponibili ad accettare la parte politica dell’accordo, concernente l’autonomia del Kosovo, si dimostrarono irremovibili nel rifiuto della presenza di truppe straniere sul territorio della regione. I kosovari albanesi, dal canto loro, sembravano pronti ad accettare l’accordo, ma non altrettanto disponibili alla consegna delle armi alla prevista Forza di pace della NATO, e alcuni tornarono a chiedere il referendum sull’indipendenza.

La seconda fase negoziale si aprì a Parigi il 15 marzo e condusse, il 18 marzo, alla firma di una nuova versione degli accordi di Rambouillet da parte albanese: i serbi, invece, rifiutarono anche la parte politica in precedenza accolta, proponendo modifiche al testo degli accordi. I copresidenti della Conferenza di pace, i Ministri degli Esteri francese Védrine e britannico Cook, annunciarono un’ulteriore proroga fino al 24 marzo, che mirava a condurre i serbi alla firma degli Accordi, senza ulteriori proposte o ritardi: anche la Russia esortò Belgrado in tal senso, nel contempo ammonendo la NATO a non attuare i minacciati attacchi, che avrebbero compromesso le relazioni reciproche.

Mentre proseguiva lo spiegamento di forze serbe nel Kosovo, il 20 marzo vennero ritirati i 1.380 osservatori della missione OSCE presenti nel Kosovo, che furono condotti in Macedonia. I paesi occidentali disposero il ritiro dalla Federazione jugoslava del personale diplomatico non indispensabile, ed esortarono i propri connazionali a lasciare il paese.

Mentre il negoziato di Parigi sembrava fallire, i colloqui proseguivano tra Holbrooke e Milosevic, ma senza alcun risultato, fino al 23 marzo: lo stesso giorno il Parlamento serbo ribadiva a grande maggioranza l’opposizione alla presenza di forze straniere nel Kosovo. Alle ore 23.17 il Segretario Generale della NATO Solana annunciava a Bruxelles di aver impartito al Comandante supremo delle Forze dell’Alleanza in Europa, Gen. Wesley Clark, l’ordine di iniziare le operazioni aeree contro la Federazione jugoslava.

La sera del 24 marzo la NATO iniziò a bombardare una serie di obiettivi strategici in tutta la Federazione jugoslava. La risposta serba fu immediata: nei giorni successivi cominciarono ad affluire alle frontiere di Albania e Macedonia centinaia di migliaia di profughi kosovari. Si diffondevano intanto voci di massacri, rappresaglie, deportazioni, esecuzioni di massa commesse dalle forze militari e paramilitari serbe in Kosovo.

Il problema dei profughi divenne presto una componente essenziale ed imponente dell'intervento, le cui finalità dichiarate inizialmente erano proprio quelle di difendere la popolazione kosovara. Dopo una prima fase di polarizzazione tra chi proponeva di accogliere i profughi all'estero e chi invece di farli restare il più vicino possibile ai loro luoghi di provenienza, prevalse infine quest'ultima posizione, sia pur temperata da un limitato accoglimento all'estero su base volontaria.

Nel frattempo, la diplomazia russa, attraverso il mediatore Cernomyrdin, tentava di far avvicinare le posizioni delle parti ed indicava nel G8 la possibile sede negoziale. Tale ipotesi, guardata dapprima con diffidenza dagli alleati, prendeva corpo il 6 maggio a Petersberg, dove i Ministri degli esteri dei 7 paesi maggiormente industrializzati più la Russia concordarono un piano per la cessazione dei bombardamenti. Benché l'intervento continuasse per oltre un mese, fu il piano dei G8 a costituire la base dell'accordo.

Negli ultimi giorni di maggio, si accavallarono elementi di pressione sul Governo di Belgrado: segnali di protesta si levavano sia dalla società civile, che cominciava a risentire pesantemente degli attacchi, sia dall'esercito, che registrava numerose diserzioni; il Consiglio politico della NATO decideva di aumentare da 28.000 a 50.000 uomini la forza di intervento per il Kosovo; il Tribunale per la ex Jugoslavia incriminava Milosevic, insieme ad altri quattro esponenti, per crimini contro l'umanità. Il Presidente finlandese Ahtisaari, inviato speciale dell'Unione europea, affiancava Cernomyrdin nei negoziati, ed il 2 giugno si recava a Belgrado con quest'ultimo per verificare l'intenzione dichiarata da Milosevic nei giorni precedenti di accettare il piano dei G8. Il giorno successivo Milosevic sottoponeva al Parlamento il piano di pace, che veniva approvato a larga maggioranza.

Fecero seguito giornate di intensi negoziati su due piani: quello politico, nella sede del G8, dove si lavorava per concordare un testo di risoluzione da sottoporre al Consiglio di sicurezza dell’ONU; quello tecnico-militare, tra i vertici militari serbi e NATO, per concordare le modalità ed i tempi del ritiro delle truppe serbe dal Kosovo e l'entrata delle truppe NATO.

Il 10 giugno il Consiglio di sicurezza dell’ONU approvava, con 14 voti a favore e l'astensione cinese, la risoluzione (1244/1999) che prendeva atto dell'avvenuto accordo di pace.

Le cifre del conflitto

In 78 giorni di bombardamenti, le missioni aeree sono state oltre 35.000 (circa il 30 per cento d'attacco); sono stati impiegati mille aerei, partiti da 31 basi, e 30 unità navali nell'Adriatico; sono stati lanciati 21.000 missili; impegnati 200.000  uomini. I dati forniti da Belgrado e dalla NATO sul numero delle vittime sono molto diversi: per Belgrado sarebbero stati uccisi 462 militari e feriti 114, mentre le vittime civili ammonterebbero a 2.500. Secondo la NATO, invece, i militari uccisi sarebbero 5000, ed i civili 400. Ingenti anche i danni strutturali: 60 ponti, 5000 edifici, 200 tra fabbriche e centrali elettriche, 9 aeroporti, oltre 200 tra ospedali e scuole.

Dei circa due milioni di abitanti del Kosovo, di cui un milione e seicentomila di etnia albanese, duecentomila erano fuggiti prima dell'intervento; durante l'intervento 780.000 si sono riversati nei paesi confinanti, soprattutto Albania e Macedonia, e 82.000 sono stati accolti all'estero. Si stima che gli sfollati all'interno del Kosovo siano stati circa 600.000. Dei 200.000 serbi del Kosovo, si valuta che ne siano rimasti circa la metà.

I costi dell'operazione, sono stati stimati complessivamente intorno ai 7 miliardi di dollari, oltre 13.000 miliardi di lire. 100 milioni di dollari è stato il costo di una giornata di bombardamenti.

Gli accordi di pace

Le principali differenze tra gli accordi poi confluiti nella risoluzione ONU n. 1244 del 10 giugno 1999, che formano nel complesso il quadro del processo di pace, e gli accordi di Rambouillet e di Parigi (febbraio-marzo 1999), non sottoscritti dalla Federazione jugoslava, sono anzitutto nel carattere della Forza di pace internazionale, che ebbe una composizione mista tra paesi NATO, Russia ed altri, per un totale di circa 50.000 uomini (tra cui 5.000 italiani), mentre secondo gli accordi precedenti doveva contare su circa 30.000 effettivi provenienti solo da paesi della NATO.

L’elemento più significativo è tuttavia il ritorno in primo piano delle Nazioni Unite, che nella logica di Rambouillet e Parigi avrebbero dovuto limitarsi a ratificare con una risoluzione il dispiegamento in Kosovo della Forza NATO, mentre negli accordi definitivi ebbero esse stesse, con risoluzione, conferito il mandato per lo schieramento delle presenze internazionali civile e di sicurezza; la composizione di quest’ultima rimandava inoltre alla generalità della comunità internazionale e non più alla sola Alleanza Atlantica. In questo caso si può parlare di una significativa affermazione della visione russa, che aveva richiesto sin dall’inizio un attivo intervento dell’ONU nella crisi.

Negli accordi la presenza serba e federale nel Kosovo fu ridotta a qualche centinaio di uomini, mentre gli accordi di Rambouillet e Parigi contemplavano la permanenza di circa 4.500 effettivi tra polizia ed esercito.

Dal disarmo dell’UCK – un punto che ai tempi di Rambouillet si era rivelato piuttosto difficile da far accettare agli albanesi del Kosovo –, che alcuni avevano inteso come limitato ad alcuni armamenti, ma non alla loro totalità, si passò nei nuovi accordi al concetto di smilitarizzazione delle milizie kosovaro-albanesi.

Rimasero alcuni punti non chiariti, soprattutto per quanto concerne le istituzioni dell’autonomia kosovara e l’approdo alla fine del periodo di amministrazione provvisoria della regione: sia il documento del 6 maggio che la risoluzione n. 1244 (punto 11, e) ) fanno riferimento agli accordi di Rambouillet, i quali avevano previsto per il periodo provvisorio – allora fissato in tre anni – un’assai larga autonomia istituzionale del Kosovo, non lontana dallo status di Repubblica federata, e poi la convocazione di un incontro a livello internazionale per l’assetto definitivo della regione, con consultazione della popolazione – anche se non si utilizzava il termine referendum. Negli accordi di pace i contorni di entrambi i periodi rimangono sfumati, ma resta chiaro il riferimento a Rambouillet, ossia al punto di disaccordo.

 

 

La risoluzione ONU n. 1244 del 10 giugno 1999 e il conseguente assetto istituzionale

 

Lo status e le prospettive politiche ed istituzionali del Kosovo sono state definite dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1244 del 10 giugno 1999. La risoluzione rinvia peraltro al contenuto di due accordi conclusi in ambito G8 rispettivamente il 6 maggio ed il 2 giugno 1999 nonché agli accordi di Rambouillet, la cui ultima formulazione era stata accettata, il 18 marzo 1999, dalla delegazione kosovaro-albanese ma non dalla parte serba.

La risoluzione contiene esattamente due rinvii a tali accordi, il primo si riferisce al riconoscimento, nella fase transitoria, di una autonomia e di un autogoverno sostanziali del Kosovo, il secondo invita invece a tenere conto dell’obiettivo di “facilitare un processo politico finalizzato a determinare il futuro status del Kosovo”. E’ tale secondo rinvio ad apparire il più problematico e di difficile interpretazione. Gli accordi di Rambouillet prevedevano che, tre anni dopo la loro entrata in vigore, fosse indetto un incontro internazionale per determinare un meccanismo per la sistemazione definitiva del Kosovo, sulla base della volontà della popolazione, delle opinioni delle pertinenti autorità, e degli sforzi di ognuna delle Parti per l’attuazione degli accordi. Anche se non  veniva fatto un esplicito riferimento ad un referendum popolare, la necessità di tenere conto della volontà della popolazione, rappresentava una richiesta kosovara fortemente osteggiata dalla parte serba. Il termine di tre anni per la durata della fase transitoria non risulta accolto dalla risoluzione n. 1244.

Per quanto riguarda gli accordi conclusi nell’ambito del G8, si ricorda il ruolo riconosciuto alle Nazioni Unite in ordine alla crisi del Kosovo. L’accordo in seno al G8 prevedeva la fine immediata e controllabile delle violenze nella regione, con il ritiro delle forze militari, paramilitari o di polizia jugoslave e serbe e lo schieramento nel Kosovo di Forze civili e di sicurezza su mandato dell’ONU. La stessa ONU doveva assicurare un periodo di amministrazione provvisoria della regione per ristabilire condizioni di vita pacifica e normale per tutti gli abitanti, contestualmente al ritorno in condizioni di sicurezza di tutti i profughi o deportati e al libero accesso delle Organizzazioni umanitarie internazionali. Veniva inoltre previsto l’inizio di un processo politico per l’instaurazione di un accordo-quadro politico provvisorio che assicurasse una sostanziale autonomia al Kosovo, tenendo pienamente conto degli accordi di Rambouillet, nonché dei principi di sovranità e integrità territoriale di tutti i paesi dell’area, e assicurando altresì la smilitarizzazione dell’UCK.

Con un accordo del 2 giugno successivo – sottoscritto dalla Federazione jugoslava - articolato in dieci punti, sono stati specificati i contenuti del predetto accordo del 6 maggio.

La risoluzione n. 1244 del 10 giugno 1999, oltre a fare propri esplicitamente i due accordi sopra descritti del 6 maggio e del 2 giugno, chiede al Segretario Generale dell’ONU di nominare un Rappresentante speciale che sovrintenda alla presenza civile internazionale nel Kosovo, coordinandone l’azione con la presenza di sicurezza. Il Segretario Generale ha il compito di istituire l’amministrazione provvisoria per il Kosovo, sotto la quale si dovranno sviluppare le locali istituzioni di autonomia e autogoverno. Tra i compiti della presenza civile rientra la garanzia del rispetto delle leggi e dell’ordine pubblico anche istituendo forze di polizia locali in collaborazione con quelle di polizia internazionale, nonché del ritorno sicuro di tutti i profughi e rifugiati, il rispetto dei diritti umani e la fornitura di aiuti umanitari e di urgenza, sostenendo altresì la ricostruzione economica della regione.

La risoluzione autorizza gli Stati membri e le Organizzazioni internazionali interessate ad istituire una presenza internazionale di sicurezza, con le seguenti responsabilità: 

§         scoraggiare la ripresa delle ostilità, facendo rispettare il cessate il fuoco, controllando il ritiro delle forze serbe e jugoslave e prevenendone eventuali rientri non autorizzati in base all’accordo del 2 giugno;

§         smilitarizzare l’UCK e altri gruppi armati di kosovari albanesi, in base al successivo punto 15 della risoluzione;

§         creare un contesto generale di sicurezza e di libertà di movimento per il rientro dei profughi, la loro assistenza da parte delle Organizzazioni umanitarie e l’avvio dell’amministrazione provvisoria della regione;

§         garantire l’ordine pubblico e sorvegliare le attività di sminamento fino al subentrare in tali compiti della presenza civile internazionale, con la quale dovrà strettamente coordinarsi;

§         esercitare nei termini richiesti un controllo sui confini.

Viene fissato in 12 mesi il periodo iniziale dell’attività delle presenze internazionali civile e di sicurezza, trascorsi i quali esse proseguiranno nella loro azione salvo diverso parere del Consiglio di Sicurezza (non viene quindi posto un termine finale per la presenza internazionale).

 

Successive vicende politico-istituzionali

Il 14 ottobre 2003, a Vienna, furono avviati colloqui tra una delegazione del Kosovo, guidata dal presidente Rugova, e una delegazione di serbi, guidata dal premier Zivkovic, per trovare una definizione dello status politico del Kosovo. I kosovari hanno chiesto la totale indipendenza, mentre la delegazione di Belgrado ha chiesto l'attuazione della risoluzione ONU 1244 (autonomia del Kosovo, sotto la sovranità jugoslava), rivendicando il pieno rispetto assicurato da parte serba alle condizioni da essa poste, nonché la possibilità del ritorno dei profughi e di una seria ricerca dei dispersi. I colloqui sono ripresi il 4 marzo 2004 con un incontro a livello tecnico che riguardava i problemi dell’energia e il 9 marzo con la riunione di un gruppo di lavoro sulle persone scomparse.

 

Il 17 marzo 2004 violenti disordini hanno provocato la morte di dieci persone e il ferimento di oltre 250, fra le quali quattordici soldati del contingente di pace di KFOR. Il giorno successivo il Kosovo è stato investito da una ondata di scontri fra serbi e albanesi senza precedenti dalla fine della guerra: migliaia di dimostranti sono scesi in piazza e hanno dato fuoco a case di serbi e a chiese ortodosse. Anche la missione UNMIK è stata presa di mira, rendendo necessaria l’evacuazione di tutto il personale della sede di Kosovska Mitrovica. I deputati albanesi hanno rilanciato dal Parlamento la proposta dell’indipendenza. Il 19 marzo 2004 ha registrato durissime reazioni di condanna per gli incendi e gli atti di saccheggio operati dagli albanesi che sono stati accusati di “pulizia etnica” dal comandante della Nato per il Sud-est Europa, Johnson. La NATO ha deciso di mobilitare altri 3000 uomini (500 italiani) per contribuire a riportare la calma nel Kosovo. Il bilancio finale degli scontri è stato di 31 morti e circa 600 feriti, tra i quali si contano 61 militari della Kfor e 100 agenti della polizia internazionale e locale. Sono stati oltre 3.600 i profughi serbi evacuati dai villaggi dati alle fiamme e ospitati in alloggi d’emergenza o all’interno delle basi militari di KFOR.

Il 31 marzo 2004 il Rappresentante Speciale dell’ONU per il Kosovo ha consegnato al governo albanese di Pristina il documento (“Kosovo's Standards Implementation Plan”) con gli standard da applicare per l’avvio dei negoziati finalizzati alla definizione dello status della provincia.

Il 29 aprile 2004, con voto pressoché unanime, il Parlamento di Belgrado ha approvato il piano del Governo – peraltro presentato dal premier Kostunica come uno stadio interlocutorio sulla via della soluzione finale per lo status del Kosovo – per un assetto “cantonale”, in base al quale le zone del Kosovo a maggioranza serba sarebbero state costituite in cinque cantoni con amplissima autonomia, in particolare nei settori istituzionale ed elettorale, della pubblica sicurezza e giudiziario, della lingua e dell’istruzione, delle scelte economiche e della gestione del patrimonio pubblico.

Nelle seconde elezioni politiche generali in Kosovo, tenutesi il 23 ottobre 2004,si è registrata una sostanziale tenuta della Lega democratica di Ibrahim Rugova, che ha conquistato 47 seggi in Parlamento, mentre 30 seggi sono andati al Partito democratico e 9 seggi all’Alleanza per il futuro del Kosovo: il magnate dell’editoria Surroi ha ottenuto 7 seggi con il suo movimento “Ora”. Tuttavia, il dato forse più significativo delle elezioni dell’ottobre 2004 è stata la totale astensione dal voto dei serbi kosovari[132], che hanno seguito le indicazioni delle ali politiche più nazionaliste della Serbia, rappresentate dal premier Kostunica, e alle quali si era contrapposto - senza successo in quell’occasione - il Presidente serbo Boris Tadic.

Il 3 dicembre 2004 ha suscitato allarme la nomina a nuovo premier del Kosovo, da parte del Parlamento del Kosovo, del capo dell’ Alleanza per il futuro del Kosovo, Haradinaj, popolare ex comandante della guerriglia kosovaro-albanese, avvenuta contestualmente alla rielezione di Rugova a Presidente, nel quadro di un accordo tra i due leader che ha consentito a Rugova di raggiungere il quorum necessario alla rielezione. L’8 marzo 2005 Haradinaj si è dovuto dimettere[133], mettendosi a disposizione del Tribunale de l’Aja per i crimini nei territori della ex Jugoslavia, dopo essere stato incriminato. All’inizio di giugno 2005 Haradinaj, dopo aver palesato un atteggiamento collaborativo, ha ottenuto la libertà condizionata, con invito ad astenersi dall’attività politica[134].

Quanto la definizione del futuro assetto del Kosovo rimanesse un problema spinoso è emerso il 7 e l’8 giugno 2005 con la visita in Italia del premier serbo Kostunica, che ha incontrato i massimi vertici istituzionali e politici: Kostunica, sulle cui posizioni pesava probabilmente anche il fatto che il suo Gabinetto – di minoranza – si reggeva grazie  all’appoggio esterno del Partito socialista fondato da Slobodan Milosevic, ha espresso chiaramente l’inaccettabilità per Belgrado di ogni approccio che mirasse all’indipendenza del Kosovo.

 

La questione dello status finale per il Kosovo ha subito una forte accelerazione a partire dall’inizio di ottobre 2005, quando sia il Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan, che il Dipartimento di Stato degli USA, hanno espresso con chiarezza la necessità dell’inizio dei negoziati al più presto: il 24 ottobre il Consiglio di Sicurezza ha approvato all’unanimità una Dichiarazione di appoggio alle raccomandazioni di Kofi Annan, e il 21 novembre è iniziato il negoziato formale, con l’arrivo a Pristina dell’inviato ONU per il Kosovo Martti Ahtisaari, che nei giorni seguenti si è recato nelle altre capitali dei Balcani.

La trattativa si è presentata subito molto ardua, tanto più che qualche giorno prima il Ministro degli esteri russo Lavrov, in visita a Belgrado, aveva insistito sul rispetto degli accordi di pace del 1999, che prevedevano il mantenimento dell’integrità dell’allora Federazione jugoslava e la sovranità di essa anche sul Kosovo.

 

Dopo una breve ma grave malattia, frattanto, il 21 gennaio 2006 moriva Ibrahim Rugova, destando grande cordoglio a livello internazionale, insieme a forti preoccupazioni di una possibile radicalizzazione del clima politico kosovaro.Tali preoccupazioni sono state tuttavia in un primo tempo fugate quando il 10 febbraio il Parlamento di Pristina eleggeva Fatmir Sejdiu quale nuovo Presidente. Sejdiu era infatti considerato un moderato pragmatico (principalmente a lui si devono, in particolare, nella fase precedente la precipitazione dello scontro con i serbi del 1998-1999, la creazione di un governo e di un parlamento kosovari in esilio). L’elezione, inoltre, è stata favorita dalla convergenza su Sejdiu anche di buona parte dei voti controllati dal radicale - ex guida politica dell’UCK - Hashim Thaqi. L’elezione di Sejdiu è stata salutata con favore sia dal Presidente serbo Tadic che dai vertici delle  istituzioni euroatlantiche.

Quando tuttaviail 1° marzo il premier Kosumi è stato costretto alle dimissioni dal proprio partito, l’Alleanza per il futuro del Kosovo di Haradinaj, e al suo posto è stato subito indicato il generale Agim Ceku, le preoccupazioni internazionali sono tornate a salire (tanto più che anche il Presidente del Parlamento, Nexhat Daci, è stato indotto alle dimissioni dal suo partito, la Lega democratica del Kosovo già guidata da Rugova, del quale Daci era stato oppositore interno). Secondo alcuni osservatori la doppia sostituzione si spiegava con la necessità di contrastare una possibile strategia di convergenza trasversale tra i due esponenti politici, nel clima affatto nuovo seguito alla scomparsa di Rugova. Il 10 marzo Agim Ceku ha ricevuto la fiducia del Parlamento.

Va comunque osservato che il generale Ceku non aveva a livello internazionale il profilo del “duro”: storico combattente antiserbo, prima per la Croazia e poi nella sua terra, il Kosovo, Ceku è anche l’uomo che ha gestito la difficile fase del disarmo della guerriglia dopo gli accordi di pace del 1999. Non a caso la sua designazione a premier ha ricevuto i commenti positivi dell’Unione europea. Peraltro, per la legge serba, Ceku era a tutti gli effetti un genocida ricercato, cui Belgrado addebitava l’uccisione di oltre seicento serbi del Kosovo.

 

Nessuna novità di rilievo emergeva invece sul fronte dei negoziati sullo status finale del Kosovo, ripresi come previsto a Vienna nel febbraio 2006: nelle more della loro auspicata conclusione, il governatore delle Nazioni Unite per il Kosovo ha differito il 16 giugno le elezioni locali, a non oltre sei mesi dopo la conclusione delle trattative, proprio allo scopo di non turbare queste ultime e di favorire una maggiore concentrazione dei negoziatori nel difficile round diplomatico. Nel mese di giugno è stata registrata una recrudescenza degli attacchi e degli atti vandalici contro le chiese ortodosse, che non ha destato un diffuso allarme.

Il 5 luglio 2006 il premier della Serbia, Kostunica - nell’ambito di una serie di visite internazionali destinate a toccare Russia, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, e con la definizione dello status finale del Kosovo quale argomento principale - ha incontrato a Roma i vertici del Governo e i presidenti delle Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento: nel corso dei colloqui la parte italiana ha inteso inquadrare l’intera materia nella prospettiva europea dei Balcani occidentali, mentre Kostunica non ha nascosto le divergenze sul punto centrale della possibilità che il Kosovo approdasse all’indipendenza, eventualità inaccettabile per la Serbia (lo stesso Kostunica aveva in precedenza qualificato l’indipendenza kosovara alla stregua di una rapina ai danni della Serbia).

Recandosi a Pristina il 1° settembre 2006 per assistere all’avvicendamento del comando della forza di pace della NATO per il Kosovo (KFOR), passato dall’Italia alla Germania, il Ministro della Difesa Parisi ha assicurato un’invarianza dell’impegno militare italiano nel Kosovo – il contingente maggiore fra tutti i teatri operativi all’estero delle forze italiane – almeno fino alla conclusione dei negoziati sullo status finale.

Nell’ottobre 2006 un nuovo grave fattore di tensione ha agitato i rapporti tra Serbia e Kosovo: il 30 settembre 2006, infatti, il Parlamento di Belgrado – dopo la scelta del Montenegro per l’autodeterminazione, risultata vincente nel referendum di maggio - ha approvato all’unanimità una nuova Costituzione, della quale è parte il riconoscimento al Kosovo di una larga autonomia, ma non dell’indipendenza. Per di più, era previsto che il nuovo testo costituzionale fosse sottoposto a referendum in tutto il territorio serbo, e dunque anche nel Kosovo. La consultazione si è poi svolta il 29 ottobre 2006 – gli albanesi del Kosovo l’hanno disertata -, raggiungendo appena il quorum per la validità, e la Costituzione è stata approvata: tuttavia, l’alto tasso di astensionismo anche da parte della popolazione serba è stato interpretato come un sintomo di forte scollamento nei riguardi dell’intera classe dirigente di Belgrado.

Il 2 febbraio 2007 veniva intanto reso noto il piano messo a punto dall’inviato delle Nazioni Unite per il Kosovo.

 

 

 

Il piano Ahtisaari

 

Consistente in 14 articoli (che pongono i principi base) e di dodici Allegati, il piano contemplava l’adozione di una Costituzione della quale indicava alcuni principi fondamentali: stato di diritto, multilinguismo e multietnicità, protezione dei diritti di tutte le comunità, decentramento. Veniva inoltre indicato un percorso di progressivo trasferimento di poteri dalle autorità internazionali a quelle del Kosovo. Il piano prevedeva, infine, che il Kosovo potesse far parte dei più importanti organi internazionali normalmente riservati agli stati sovrani, nonché usare la propria bandiera e il proprio inno. Erano anche previste misure per promuovere uno sviluppo economico sostenibile, tra cui l'abilitazione del Kosovo a diventare membro delle principali istituzioni finanziarie. Tuttavia il 10 marzo 2007, in occasione del vertice conclusivo sul futuro status del Kosovo svoltosi a Vienna, l’inviato Ahtisaari, preso atto dell’inutilità di proseguire per la mancanza di volontà dei dirigenti serbi e kosovari di arrivare a un compromesso, rimandava ulteriormente la presentazione al Consiglio di sicurezza dell’ONU dell’ultima versione del piano.

La proposta sullo status del Kosovo è stata poi presentata ufficialmente il 3 aprile 2007; essa prefigurava una sorta di “indipendenza sorvegliata” dalla presenza internazionale, in cui alla minoranza serba era riconosciuta ampia autonomia. In questa occasione la Russia ha liquidato il piano, non considerarlo una base valida di negoziato.

 

 

Dopo ulteriori consultazioni, il 31 maggio 2007 i paesi europei (Gran Bretagna, Germania, Italia, Francia, Belgio e Slovacchia) e gli Usa hanno presentato al Consiglio di Sicurezza una bozza emendata di risoluzione che nel proporre l'indipendenza del Kosovo sotto supervisione internazionale recepiva senza sostanziali modifiche le indicazioni contenute nel rapporto Ahtisaari ma non teneva conto della proposta russa di nuovi negoziati tra le parti.

La Russia ha respinto la proposta minacciando il ricorso al diritto di veto ma ha altresì reso noto, per voce dell’ambasciatore all'ONU Vitaly Churkin, di essere favorevole "al trasferimento della responsabilità dall'ONU", oggi tutore del Kosovo, "all'Unione europea, ma sempre nel quadro dell'attuale status".

Gli ulteriori round negoziali non hanno modificato il quadro e i rapporti di forza. Fallita la mediazione dell'ONU tentata con il Piano Ahtisaari, la soluzione della questione è stata messa nelle mani dei negoziatori del Gruppo di contatto. Le divergenze si sono comunque subito riproposte: infatti, mentre per il commissario europeo per l'allargamento, Olli Rehn, il piano doveva continuare a essere il punto di partenza per ogni successiva proposta, Mosca escludeva tale approccio ribadendo la permanenza in vigore della risoluzione ONU 1244 sullo status provvisorio del Kosovo.

Il 25 luglio 2007 il Gruppo di contatto si è riunito a porte chiuse a Vienna nella sede dell’ambasciata tedesca, dove si è decisa la costituzione della troika negoziale (composta da UE, USA e Russia). Da allora si sono avuti diversi incontri, l’ultimo dei quali a Baden il 28 novembre – dopo le elezioni in Kosovo – si è concluso con un’ennesima e definitiva conferma della situazione di stallo. Il mandato della troika è infatti scaduto il 10 dicembre 2007. In quella data si è avuta la presentazione dei risultati, che non contenevano alcuna proposta, ma la semplice descrizione dei punti aperti che avevano impedito di concludere positivamente il negoziato.

 

Il 17 novembre 2007 si erano intanto svolte le elezioni parlamentari e municipali: il Partito democratico del Kosovo (Pdk) dell’ex comandante Uck Hashim Thaci ha ottenuto la maggioranza relativa con il 36% dei voti, superando per la prima volta la Lega democratica (Ldk), formazione del defunto presidente moderato Ibrahim Rugova, e dell’attuale presidente Fatmir Sejdiu, ininterrottamente al potere dall’insediamento dell’amministrazione Unmik dopo la guerra del 1999, che con il 21% dei voti ha peggiorato di ben 24 punti percentuali il risultato del 2004. Nel parlamento sono entrati anche tre partiti etnici albanesi, due dei quali di recente formazione, che hanno superato la soglia di sbarramento del 5%: si tratta della Alliance for the Future of Kosovo di Ramush Haradinaj, che ha ottenuto l’11% dei voti ; della New Kosovo Alliance, fondata a marzo 2006 dall’imprenditore Bejet Pacolli, che ha ottenuto il 10%; e della Democratic League of Dardania, fondata nel  gennaio 2007 da Nexhat Daci, ex speaker del parlamento, dopo il fallito tentativo di diventare il leader della Lega democratica, che ha ottenuto il 10% dei voti. Nel parlamento della regione serba a maggioranza albanese (90% della popolazione) sono entrati anche venti deputati appartenenti alle minoranze etniche – pochi Rom e un numero di serbi stimati tra i 60 e i 100 mila - dieci dei quali attribuiti ai partitini serbofoni, nonostante la partecipazione al voto da parte serba abbia toccato il minimo storico dell’1% scarso. Il dato generale di affluenza alle urne, minata dal malcontento economico e sociale oltre che dal boicottaggio della minoranza serba, attestandosi al 45%, segna un deciso arretramento rispetto al 2004 (quando fece registrare il 49,52%). La vittoria di Hashim Thaci, ex signore della guerra - autocandidatosi subito dopo il voto alla carica di primo ministro, e incaricato l’11 dicembre a formare il nuovo governo – ha creato i presupposti per la formazione di una ulteriore coalizione[135] tra il suo Pdk e la Lega democratica, con posizioni di forza invertite rispetto all’esecutivo precedente, e uno spostamento dell’asse politico kosovaro in direzione ancor più nazionalista. con una accelerazione del cammino verso la secessione senza ulteriori indugi diplomatici.

 

Per le vicende successive al definitivo fallimento dei negoziati – che ha portato alla proclamazione unilaterale di indipendenza e al riconoscimento della nuova entità da parte di alcuni stati, fra cui l’Italia - si rinvia a pag. 30 al  capitolo Kosovo.

La situazione economica

Per quanto l’attenzione di tutti gli osservatori sia concentrata sugli aspetti politici della vicenda kosovara, non bisogna trascurare che molti economisti nutrono dubbi sulle possibilità di “sopravvivenza economica” di un Kosovo indipendente.

Con un'area di circa 10.000 chilometri quadrati, pari a un terzo del Belgio, e una popolazione di due milioni di abitanti, il Kosovo è una delle regioni più povere d'Europa (reddito annuo pro capite pari a circa 1.000 euro) ma con il più alto tasso di natalità del continente. L'età media della popolazione tra la maggioranza albanese è di 28 anni e la disoccupazione tra i giovani tocca il 60 per cento. Il quasi completo distacco dall’economia serba avvenuto dal 1999 ha aggravato una situazione economica già difficile in conseguenza della guerra. Ormai oltre un terzo del PIL è rappresentato dai contributi stranieri, e un ulteriore 13 per cento dalle rimesse degli emigrati che vivono all'estero.

Sul piano del potenziale di sviluppo rivestono un certo rilievo le risorse minerarie; anche l'industria energetica[136] e l'agricoltura potrebbero essere sviluppate, ma attualmente nessuno di questi settori è sfruttato in modo appropriato.

Va peraltro segnalato che un rapporto della Commissione europea del novembre 2007 rileva alcuni elementi di miglioramento, a cominciare dal PIL, in lenta ma continua crescita dal 2005, a fronte di un’altrettanto costante diminuzione degli aiuti internazionali. Mentre l'inflazione è quasi azzerata, la spesa pubblica appare sotto controllo, e per di più in un quadro di programmazione di medio termine. Le esportazioni, cresciute in modo significativo, segnalano una certa ripresa di capacità produttiva.

L’intero quadro economico va però considerato in rapporto al radicamento nel Kosovo di un’economia criminale imponente, che ha sfruttato la precarietà istituzionale del paese per farne un crocevia di traffici illeciti di ogni specie, appoggiato sulle arcaiche ma efficienti strutture e usanze della potente mafia kosovara, la quale intrattiene forti legami con quasi tutto il mondo e soprattutto opera in Italia e in Europa in collaborazione con altre organizzazioni criminali. Un dato di grande incertezza in merito all’evoluzione della situazione nel prossimo futuro è costituito proprio dal dubbio se il processo di normalizzazione istituzionale ed economica del Kosovo farà diminuire la dipendenza del paese dall’economia illegale, o – al contrario - se questa condizionerà la direzione di marcia della nuova entità, dimostrando capacità di infiltrazione negli apparati dello stato e del governo.


Il conflitto in Medio Oriente

Sviluppi recenti

La vittoria elettorale di Hamas

Il 2006 si è aperto con un evento che in vario modo ha influito sull’aggravamento generale delle condizioni del conflitto mediorientale e della situazione di crescente divisione e disperazione della parte palestinese: la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi (avvenute il 26 gennaio) che ha dato al movimento integralista la maggioranza assoluta dei seggi.

A seguito delle dichiarazioni di Abu Mazen che, su richiesta di Hamas ha dovuto promettere la scarcerazione di alcuni detenuti fra i quali Ahmed Saadat (capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e responsabile dell’omicidio, nel 2001, del ministro israeliano per il turismo Zeevi) alla metà di marzo 2006  il Governo israeliano ha attaccato con ingenti forze militari il carcere di Gerico, città sotto il controllo dell’ANP.

 

Si ricorda che avendo rivendicato l’omicidio del ministro Zeevi, Saadat si trovava nel carcere di Gerico in attuazione di un’intesa mediata dagli Stati Uniti: rifugiatosi nel quartier generale di Arafat a Ramallah, Saadat fu destinato alla detenzione di Gerico in cambio della fine di un pesante assedio a Ramallah da parte israeliana. I palestinesi non processarono mai Saadat per essere il mandante dell’omicidio di Rehavam Zeevi.

 

Il blitz al carcere di Gerico e le successive violente reazioni palestinesi hanno-a loro volta - portato ad un ulteriore indebolimento di Abu Mazen e della sua visione più moderata, allontanando ulteriormente la prospettiva di un Governo palestinese di coalizione tra Hamas e Fatah. Non a caso, dopo ulteriori contrasti in merito al mancato riconoscimento, da parte di Hamas, dell’OLP quale vertice rappresentativo di tutto il popolo palestinese, si è giunti alla formazione di un Governo del solo Hamas, guidato da Ismail Haniyeh, che il 28 marzo 2006 ha ottenuto la fiducia del Consiglio legislativo palestinese.

Nello stesso giorno si sono svolte le elezioni politiche israeliane, nelle quali il Partito di Olmert, Kadima, ha conquistato 29 seggi alla Knesset, maggioranza relativa ma meno ampia del previsto. Ne è seguito un accordo di governo tra il Partito Kadima e i laburisti, e il 4 maggio il Governo Olmert ha ricevuto la fiducia della Knesset.

Il movimento di Hamas al Governo ha subito confermato di non voler procedere al riconoscimento di Israele, preferendo inoltre parlare di “tregua” più che di pace con Tel Aviv. In questo contesto i ministri degli Esteri della UE, riuniti a Lussemburgo il 10-11 aprile 2006, hanno deciso di interrompere gli aiuti finanziari diretti al Governo palestinese, mantenendo solo gli aiuti a carattere umanitario somministrati dalla comunità internazionale.

Il 25 giugno 2006, una grave provocazione palestinese viene perpetrata alla frontiera tra Gaza e lo Stato ebraico con il rapimento del militare israeliano Gilad Shalit:l’episodio ha dato inizio ad una serie di azioni militari da parte di Israele nella Striscia di Gaza, e che avevano provocato fino alla metà di agosto 160 vittime tra i palestinesi.

Il 27 giugno Hamas e Fatah hanno entrambe accettato per intero il “Documento dei prigionieri”, un piano di pace redatto da cinque prigionieri appartenenti a Fatah, Hamas, Jihad islamica, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Il documento ha fatto ricorso a formule linguistiche tali da essere interpretato come un riconoscimento implicito del diritto all’esistenza dello Stato di Israele (e quindi un passo in avanti significativo).Nonostante ciò, il Premier israeliano Olmert si è pronunciato sfavorevolmente al Piano dei prigionieri, in quanto in esso si chiede il ritorno dei profughi palestinesi e il ritiro di Israele da tutti i territori della West Bank.

 

Il 27 luglio 2007, il Presidente dell’ANP Abu Mazen si è recato in visita in Italia, dove ha incontrato il Presidente del Consiglio e il Ministro degli esteri. Il tentativo di Abu Mazen di rompere l’isolamento internazionale della causa palestinese, dando vita a un governo di ampia coalizione, è apparso a lungo assai arduo, tanto più che le condizioni poste da Hamas non erano di scarsa rilevanza: il movimento integralista intendeva riservare a sé la scelta del premier, modellare la distribuzione dei ministeri in base ai rapporti di forza parlamentari – che attualmente lo avvantaggiano – e agire secondo un programma di governo che ricalcasse il “Documento dei prigionieri”.

 

Intanto, le divisioni politiche interne palestinesi, che avevano impedito la formazione di un governo di coalizione, sono presto degenerate in un vero e proprio attacco da parte di Hamas, volto alla eliminazione fisica della componente più moderata del movimento palestinese.

A partire dal 1° ottobre si sono succeduti duri scontri che hanno visto le forze speciali del governo di Hamas e i miliziani islamici dare la caccia agli uomini di Fatah, scatenando nei territori palestinesi una vera e propria guerra civile, e paralizzando il Parlamento palestinese.

A queste vicende si sono accompagnate una successione di provocazioni contro Israele, il cui territorio è stato fatto oggetto di continui lanci di razzi. Per fermare il lancio di razzi, il 1° novembre 2006 l’esercito israeliano, a distanza di un anno dal ritiro israeliano da Gaza, è ritornato a invadere il territorio palestinese penetrato nella città di Beit Hanun dalla quale si è ritirato dopo sei giorni di scontri e con un bilancio di oltre 50 morti e 300 feriti. Ovviamente l’effetto è stato quello di provocare nuovamente una situazione di caos nei territori (obiettivo perseguito con determinazione e coerenza da Hamas).

L’11 dicembre si è verificata l’uccisione di tre bambini di 6, 7 e 9 anni, figli di un ufficiale dei servizi segreti palestinesi vicino ad Abu Mazen, a seguito della quale si sono svolte a Gaza manifestazioni di insofferenza verso il deterioramento ormai insopportabile delle condizioni di sicurezza e di vita. Hamas è sospettato di essere il mandante della strage.

 

Il 13 dicembre 2006 il premier israeliano Olmert si è recato in visita in Italia, incontrando i massimi vertici dello Stato e del Governo. Nei colloqui con le autorità italiane si è registrata un’ampia convergenza di vedute, salvo che nell’atteggiamento da tenere verso la Siria e nel ruolo di quel Paese anche per la soluzione della crisi libanese.

 

Dopo un periodo relativamente calmo, che aveva riaperto qualche spiraglio di possibile trattativa, alla fine di gennaio 2007 nei Territori è divampato un nuovo violentissimo conflitto armato provocato dalle milizie di Hamas e che ha avuto come bersaglio il partito del presidente palestinese, al-Fatah. Questa nuova fase del conflitto ha causato decine di morti e feriti e ha finito di distruggere le istituzioni palestinesi, con i reparti della Sicurezza preventiva (fedele al presidente Abu Mazen) opposti – in armi - a quelli della Forza esecutiva (alle dipendenze del ministro degli interni di Hamas, Said Siam).

Intanto, come rispondendo ad una regia accuratamente predisposta, dopo mesi di tregua si riapriva anche la piaga del terrorismo suicida: in Israele, il 29 gennaio 2007, sono riapparsi i kamikaze: un giovane terrorista palestinese si è fatto esplodere in un panificio della periferia della città turistica di Eilat sul Mar Rosso, causando tre morti, oltre all'attentatore, e numerosi  feriti. L’attentato veniva questa volta rivendicato dalla Jihad Islamica, gruppo armato integralista che non ha mai aderito alle tregue con Israele (e rappresenta quindi la carta da giocare quando viene ritenuto opportuno operare fuori da ogni schema). Il gruppo fondamentalista ha agito in associazione con le brigate dei martiri di al-Aqsa, il gruppo armato vicino ad al-Fatah, le cui cellule locali, soprattutto a Gaza, operano tuttavia secondo strategie autonome. Meno di 24 ore dopo l’attentato l'aviazione israeliana ha compiuto un attacco di rappresaglia nella Striscia di Gaza, rompendo oltre due mesi di tregua.

Anche grazie a diversi tentativi di mediazione da parte di Stati arabi, il 30 gennaio, dopo il quarto giorno consecutivo di combattimenti, le due fazioni palestinesi rivali hanno raggiunto un accordo per un immediato cessate il fuoco e per una ripresa del dialogo per la costituzione di un governo di unità nazionale. L'accordo prevedeva il rientro alle loro basi di tutte le milizie che per giorni si sono date battaglia nella Striscia di Gaza, oltre allo smantellamento di tutti i posti di blocco e alla cessazione immediata di ogni tipo di sobillazione attraverso comunicati stampa o altri tipi di propaganda. Il governo palestinese veniva riconosciuto come l'unico responsabile del mantenimento dell'ordine pubblico, della sicurezza e del rispetto della legge. I due movimenti si erano anche impegnati a liberare gli ostaggi rapiti.

Il presidente Abu Mazen, intervenuto il 25 gennaio 2007 ad un dibattito nel corso del World Economic Forum di Davos, assieme al ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ed al vicepremier Shimon Peres, aveva affermato che le circostanze erano propizie alla ripresa di negoziati e si è pronunciato per la creazione di uno Stato palestinese all'interno delle frontiere del 1967 che coesista in pace con tutti i suoi vicini, Israele incluso. Si era inoltre dichiarato pronto a riprendere al più presto i negoziati di pace con Israele sotto gli auspici del Quartetto, rimarcando peraltro come nei Territori povertà e disoccupazione avessero raggiunto livelli molto elevati, posto che si stimava che il 79% della popolazione nella Striscia di Gaza vivesse sotto la soglia di povertà ed il 51% in condizioni di povertà estrema.

Nei mesi di febbraio e marzo 2007 la situazione del conflitto israelo-palestinese ha conosciuto ulteriori sviluppi: dopo una coda di violenze tra Hamas e Fatah nella striscia di Gaza(1° e 2 febbraio), che hanno provocato la morte di 25 persone e circa 250 feriti; il vertice convocato a La Mecca dal re saudita Abdullah aveva registrato un accordo tra Abu Mazen e il leader di Hamas in esilio, Khaled Meshaal, per la formazione di un governo palestinese di unità nazionale (8 febbraio). Anche se l’intesa ha scongiurato il pericolo di una guerra civile palestinese, e ha posto le basi di un esecutivo con un certo grado di rappresentatività, i nodi politici che condizionavano negativamente i rapporti con Israele e con la comunità internazionale rimanevano aperti, stante l’indisponibilità di Hamas a riconoscere pienamente le tre condizioni poste dal Quartetto di mediazione: riconoscimento di Israele, rispetto dei precedenti accordi internazionali sottoscritti dall' OLP e rinuncia incondizionata alla violenza. Non a caso le reazioni internazionali hanno visto, in diverse gradazioni, una certa cautela nella valutazione dell’intesa, e il successivo vertice tra Condoleeza Rice, Ehud Olmert e Abu Mazen, svoltosi a Gerusalemme (19 febbraio) si è concluso senza decisioni concrete.

In effetti le trattative per la formazione della nuova compagine di governo palestinese hanno impegnato a lungo le due fazioni; in ogni modo, il 17 marzo 2007 il nuovo Governo ha ricevuto a larghissima maggioranza la fiducia dal Parlamento palestinese, il che tuttavia non ha potuto mascherare le profonde e persistenti divisioni tra l’approccio di Abu Mazen e quello di Hamas. Il premier Haniyeh aveva tra l’altro posto dei limiti alle possibilità negoziali del Presidente, stabilendo, tra l’altro, che ogni eventuale intesa con Israele avrebbe dovuto essere sottoposta al Consiglio nazionale palestinese.

Molte speranze aveva destato il Vertice della Lega Araba di Riad (28-29 marzo) circa la possibilità di emendare il piano di pace del 2002 che offriva a Israele la piena normalizzazione dei rapporti con gli Stati arabi in cambio del suo totale ritiro dai territori arabi occupati nel 1967, della costituzione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano (con capitale Gerusalemme est) e di una equa soluzione del problema dei profughi palestinesi. La Lega araba proponeva, appunto, di modificare tale piano con proposte atte ad incontrare il favore dello stesso Olmert – essenzialmente il ritiro di Israele non dai territori occupati nel 1967 tout court, bensì da un’area di estensione equivalente, e la previsione del rientro dei profughi, una volta creato lo Stato palestinese, solo all’interno di questo. Il concreto svolgimento del summit, però, non ha prodotto novità sostanziali, ad eccezione della previsione di incontri regolari tra Olmert e Abu Mazen due volte al mese. La 'Dichiarazione di Riad'  - nella quale si afferma in particolare come una ''pace giusta e globale'' costituisca ''un'opzione strategica per la nazione araba'' e come l'iniziativa adottata nel 2002 rimanga ''il giusto cammino per una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano, basata sulla pace in cambio dei territori'' -  è stata comunque salutata con favore dalla Comunità internazionale e ha prodotto un miglioramento nel clima dei negoziati.

A ulteriore riprova dell’estrema difficoltà della ricerca di una pace durevole nella regione, tuttavia, proprio mentre si svolgeva una missione del Presidente Prodi a Riad (21-22 aprile), vi è stato un riaccendersi della tensione, con la morte di nove palestinesi ad opera dell’esercito israeliano, a seguito di scontri sia a Gaza che in Cisgiordania. A seguito di questi ultimi episodi il braccio armato di Hamas ha posto fine alla tregua  - pur con alcune eccezioni – del novembre 2006, e il 24 aprile, giorno di festa in Israele per l’anniversario dell’indipendenza, salve di mortaio e lanci di razzi dalla Striscia di Gaza hanno raggiunto il territorio israeliano, iniziando una vera e propria escalation.

 

Il riaccendersi della violenza ha creato non poco imbarazzo e preoccupazione al Presidente Abu Mazen in visita a Roma (24-25 aprile), ove ha incontrato i massimi vertici dello Stato e del Governo, oltre a recarsi in Vaticano. Nel complesso, Abu Mazen ha tenuto a rassicurare sul carattere di eccezionalità della rottura della tregua, e sulla volontà palestinese di giungere infine a un accordo di pacificazione con Israele. Le autorità italiane hanno da un lato sostenuto con forza il diritto dei palestinesi a uno Stato libero e indipendente  e dall’altro hanno richiamato Abu Mazen all’indispensabile osservanza dei tre principi fissati dal Quartetto. Non si presentava tuttavia incoraggiante la differenza di posizioni emersa in occasione dell’incontro del Cairo del 27 aprile tra Abu Mazen e il capo in esilio di Hamas, Meshaal, secondo il quale vige il diritto palestinese a difendersi dalle aggressioni israeliane, ed era ormai insopportabile la situazione dei palestinesi sottoposti all’embargo degli aiuti finanziari internazionali.

La guerra civile palestinese e la vittoria militare di Hamas

Fra il maggio e il giugno 2007 la situazione nei territori è precipitata a causa del decisivo attacco da parte delle milizie di Hamas contro al-Fatah, finalizzato alla soluzione attraverso lo scontro militare (ma anche attraverso l’assassinio di vittime inermi, come testimoniato da numerosi documenti filmati) di ogni problema politico interno palestinese. Hamas ha riportato una vittoria militare che lascia – come eredità – la divisione fra Striscia di Gaza e Cisgiordania, una situazione di catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza e nuove, gravissime lacerazioni e perdita di credibilità delle fatiscenti istituzioni palestinesi.

Il 14 giugno 2007 il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) – a causa della sostanziale conquista dell’intera striscia di Gaza da parte delle milizie di Hamas - ha sciolto il governo palestinese formato appena tre mesi prima. Nonostante la sconfessione dell’iniziativa di Abu Mazen da parte dei suoi avversari e le immediate dichiarazioni di Ismail Haniyeh, volte ad escludere la volontà di Hamas di proclamare  “uno stato” nella Striscia di Gaza, la dichiarazione di Abu Mazen – giunta al termine di scontri che hanno causato un bilancio pesante di morti e feriti - ha sancito la separazione di due entità palestinesi in conflitto fra loro: quella araba islamica, sostenuta dai Paesi radicali come l'Iran e la Siria e dalle organizzazioni transnazionali del terrorismo fondamentalista – cioè da tutte le forze che hanno bisogno di alimentare uno stato di permanente tensione nell’area - e quella araba laica, sostenuta dai regimi moderati e dall'Occidente.

E’ impossibile sottovalutare le profonde differenze politiche (e culturali) fra le due entità: solo per una di esse – quella che riconosce le proprie radici nel socialismo, nel panarabismo e nel nazionalismo - lo Stato palestinese è un fine. Per i sostenitori di Hamas, invece, lo Stato palestinese non è che una tappa verso un diverso obiettivo strategico, di carattere sovranazionale e islamista.

Inoltre, esistono profonde differenze sociali ed economiche. In Cisgiordania è tradizionalmente presente una borghesia araba con esperienza cosmopolita e con una rete sviluppata di attività, anche nel settore dei servizi, basata su meccanismi di mercato. La situazione sociale di Gaza è molto più arretrata e condizionata da legami tribali e clanici. La stessa sopravvivenza di ampi strati della popolazione dipende dall’iniziativa assistenziale di Hamas (che su tale iniziativa ha costruito il suo patrimonio di consenso popolare): i profughi e i loro discendenti diretti rappresentano una netta maggioranza della popolazione. Inoltre, i palestinesi della Cisgiordania hanno un passaporto giordano e possono quindi viaggiare, mentre Gaza si configura, anche per questo motivo, come una sorta di vastissimo campo profughi, cioè una piaga di disperazione nella quale far prosperare ogni forma di violenza estremistica.

In Cisgiordania il nuovo governo si è costituito immediatamente dopo la crisi del 14 giugno. La scelta del Primo Ministro da parte di Abu Mazen è caduta su Salam Fayyad, ex economista della Banca mondiale e del Fondo monetario, due volte ministro delle Finanze dell'Autorità nazionale palestinese, politico moderato molto apprezzato negli ambienti internazionali.

Abu Mazen ha inoltre dichiarato fuorilegge gli organismi militari e paramilitari di Hamas, dalla Forza Esecutiva alle brigate Ezzedine al-Qassam (“per aver compiuto una ribellione armata contro la legalità palestinese e le sue istituzioni", si legge nel decreto presidenziale), congelando nel contempo il conto bancario facente capo all'ex-governo di unità nazionale.

Nei giorni immediatamente successivi il nuovo governo palestinese ha ricevuto segnali internazionali di sostegno e incoraggiamento: gli Stati Uniti hanno confermato la fine dell'embargo politico ed economico nei confronti dell'Autorità nazionale palestinese; contemporaneamente anche Bruxelles ha annunciato ha una decisione molto simile, mentre i ministri degli Esteri dell'Unione europea – già il giorno successivo alla designazione del nuovo Primo Ministro palestinese - hanno deciso di riallacciare relazioni normali con l'ANP, garantendo “pieno sostegno finanziario e politico”. Gerusalemme – per parte sua - ha ribadito l’intenzione di restituire al nuovo Governo parte dei dazi doganali all'import spettanti all'ANP.

Un sostegno al governo di emergenza palestinese di Salam Fayyad è giunto anche dai paesi arabi moderati e in particolare dall'Egitto,mentre un certo significato politico assume la posizione espressa dal movimento islamico egiziano dei Fratelli musulmani che, immediatamente dopo il tragico epilogo degli scontri, ha preso le distanze da Hamas, cui è tradizionalmente legato.

In questo quadro, si rileva come secondo analisti arabi l'occupazione di Gaza sia stato l'ultimo errore compiuto da Hamas, che in tal modo sarebbe caduta in una trappola ordita da Israele e Stati Uniti. ''Hamas si è messo in prigione da solo e ha consegnato le chiavi al nemico'', ha dichiarato Emad Gad, il principale esperto egiziano di affari israeliani, secondo il quale ''chiuso dentro a 360 chilometri quadrati, Hamas si troverà a gestire un milione e mezzo di persone alle quali Israele può togliere tutto, acqua, elettricità, cibo. Come previsto dunque da molti analisti internazionali, Gaza, sotto il controllo di Hamas, nonostante gli aiuti provenienti dal mondo arabo, si è da subito trovata di fronte ad una situazione di crescenti difficoltà.

Grave anche la situazione politica, a causa dell’isolamento internazionale. Accanto ad una scontata condanna dei Paesi occidentali – quelli del Quartetto innanzitutto -  anche i Paesi arabi riuniti al Cairo il 16 giugno per una Sessione di emergenza sulla situazione nei Territori avevano espresso parole di condanna per gli atti violenti e criminali che avevano preceduto l’occupazione (provocando più di cento morti in una settimana) e hanno offerto il loro appoggio al presidente Abu Mazen. Il 19 settembre 2007 il governo israeliano ha dichiarato l'intera Striscia di Gaza “entità nemica” annunciando la chiusura delle frontiere al transito di uomini e di merci,  ma assicurando l’accesso agli aiuti umanitari.

Si ricorda che la Striscia di Gaza, una lingua di terra lunga 45 km e larga nei suoi punti massimi 13, ha una densità abitativa elevatissima, poiché sui suoi 360 kmq di superficie vivono un milione e mezzo di palestinesi. L’annuncio dell’introduzione di sanzioni economiche - nel settembre 2007 - è stato pertanto accolto con preoccupazione sia dall’ONU, che ha invitato Israele a rivedere la sua decisione, sia dall’Unione europea e dalla Russia.

 

Sono numerosi i gruppi armati che operano nella Striscia di Gaza.

Quelli che fanno capo a Hamas sono:

§         le Brigate Ezzeddin Al Qassam, l'ala militare del movimento integralista.

§         la cosiddetta Forza Esecutiva, una forza speciale di polizia creata dal ministro dell'interno (ora destituito) Said Siam, dopo la vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006. Forza Esecutiva è per lo più formata da miliziani del movimento integralista e conta circa 9.000 effettivi. Abu Mazen si era opposto alla sua formazione, definendola ''illegale'' e ''incostituzionale''.

Altri gruppi di matrice integralista non legati a Hamas sono:

§         Le Brigate Al Quds, ala armata della Jihad islamica

§         La Spada dell'islam, che ha rivendicato attacchi a internet-café, negozi di musica, donne senza velo

§         L'esercito dell'Islam nella Terra Del Ribat, un gruppo semisconosciuto che ha rivendicato - e messo in rete un filmato - il rapimento del giornalista della BBC Alan Johnston. E' anche uno dei gruppi che hanno rivendicato il sequestro del soldato israeliano Ghilad Shalit.

§         le Brigate Salaheddin, braccio militare dei Comitati di resistenza popolare, che raggruppano elementi integralisti e laici nazionalisti.

E’ inoltre opinione di alcuni ricercatori che Al Qaida si stia infiltrando nella Striscia di Gaza attraverso alcuni clan familiari – ad esempio il potente clan dei Doghmouch, un esponente dei quali è leader dell’Esercito dell’Islam - e che il movimento di Hamas stia cercando di opporsi a tale pressione concorrenziale.

 

I lanci di missili Qassam contro Israele non si sono arrestati né prima né dopo l’annuncio delle sanzioni economiche di settembre, allo scopo di provocare reazioni dell’esercito israeliano e tenere sempre viva la tensione.

Il 26 settembre, in risposta ad un attacco particolarmente intenso, decine di carri armati e bulldozer dell'esercito israeliano sono entrati nel sud della Striscia di Gaza occupando le strade del popoloso campo profughi di Beit Hanun causando almeno una decina di morti. Nel corso dell’operazione sono stati uccisi 5 miliziani appartenenti all'Esercito dell'Islam che sembra stessero organizzando un nuovo attacco con razzi Qassam. Il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, ha reso noto che la costruzione di un sistema d’arma per abbattere i missili a corto raggio è già in fase avanzata e potrebbe essere operativo entro il 2010.

E sono continuati anche gli scontri tra Hamas e Fatah, che – a sua volta - dai primi di ottobre ha cominciato ad utilizzare la tattica della guerriglia per rovesciare il governo di Haniyeh. Secondo i dati resi noti da Amnesty International, il 23 ottobre 2007, il conflitto nella Striscia di Gaza tra al Fatah a Hamas ha causato 350 vittime solo nei primi sei mesi dell'anno. Amnesty riferisce di gravi violazioni dei diritti umani da parte di  Hamas che, da quando si è impossessata della Striscia ha inflitto torture ai detenuti, spesso imprigionati arbitrariamente. Secondo il Rapporto di Amnesty, intitolato “I Territori palestinesi occupati dilaniati dalle lotte intestine”, le cose non vanno molto meglio in Cisgiordania, dove l'Autorità palestinese del presidente Abu Mazen detiene illegalmente in carcere centinaia di seguaci di Hamas al contempo tollerando i comportamenti dei militanti di Fatah, responsabili di rapimenti, incendi dolosi e di altri atti illegali.

Incidenti particolarmente violenti nella giornata del 12 novembre 2007 - i più duri a Gaza dopo le terribili giornate dello scorso giugno – si sono verificati nel corso di una cerimonia pubblica indetta da al Fatah per commemorare il terzo anniversario della morte del suo fondatore, Yasser Arafat. La cerimonia si è conclusa con scontri e sparatorie in cui otto persone – fra cui un bambino di 12 anni – sono morte e circa cento sono state ferite. Il giorno successivo la polizia di Hamas ha arrestato decine di membri di Fatah ed è stato indetto uno sciopero generale in tutta la Striscia di Gaza. Il presidente Abu Mazen ha invece proclamato il lutto nazionale in Cisgiordania.

Ancora prima di questi avvenimenti, il 30 ottobre, Abu Mazen aveva escluso di poter riprendere il dialogo con Hamas fino a quando questa organizzazione non avrà rinunciato al controllo della Striscia di Gaza. In precedenza, e del tutto inaspettatamente, il premier di Gaza Haniyeh aveva invece annunciato che l’amministrazione di Hamas a Gaza è temporanea e che era stata decisa la ripresa del dialogo con Fatah, circostanza però smentita da Abu Mazen.

I negoziati tra Olmert e Abu Mazen

Già dal mese di luglio 2007 si era andato registrando un clima di distensione tra il governo israeliano e il presidente Abu Mazen, al quale è stato riconosciuto un ruolo di alleato di fatto nella lotta contro la violenza estremistica di Hamas. Importanti segnali di apertura al dialogo erano infatti giunti molto presto al gabinetto di emergenza di Abu Mazen dal primo ministro israeliano Ehud Olmert, che nel corso di una visita negli Stati Uniti si èdichiarato pronto a “cooperare con il nuovo Governo” e a discutere con il Presidente palestinese “l'orizzonte politico per quella che diventerà (...) la base di un accordo permanente tra noi e i palestinesi''.

I negoziati, presto ripresi tra i due leader, si sono svolti  all’insegna dell'obiettivo di realizzare la costituzione di uno stato palestinese democratico che possa coesistere pacificamente accanto allo Stato di Israele (la cosiddetta ''visione del presidente George Bush''). I negoziati israelo-palestinesi, ripresi anche grazie alla mediazione internazionale, sono innanzitutto sostenuti dal “Quartetto” (Usa-Ue-Onu-Russia) guidato da Tony Blair che ha dato il proprio sostegno alla proposta americana di indire la Conferenza di pace di Annapolis e che aveva annunciato una serie di progetti per far decollare l'economia palestinese: costruzione di zone industriali a Hebron e Gerico, rilancio del turismo dei pellegrini verso Betlemme. Uno dei progetti prevede anche la costruzione di una rete fognaria a Gaza, ed è stato approvato dagli israeliani.

Nei numerosi incontri tra Olmert e Abu Mazen dell’estate-autunno 2007 è stato più volte ribadito che la base dei negoziati di pace è, e resterà, la Road map, che è stata accettata da entrambe le Parti. I punti centrali del disaccordo che separa israeliani e palestinesi sono però stati toccati per la prima volta solo nell’incontro del 28 agosto, in un clima piuttosto teso, che si è concluso, al pari dei successivi, senza documenti o proposte scritte.

La Conferenza di Annapolis e i suoi seguiti

La Conferenza sul Medio Oriente si è svolta ad Annapolis, nello Stato americano del Maryland, il 27 novembre 2007, con la partecipazione delle delegazioni di oltre 40 paesi, nonché di numerose istituzioni internazionali, (fra cui Nazioni Unite e Unione europea). Particolarmente rilevanti le partecipazioni della Siria e dell’Arabia Saudita.

La Conferenza si è aperta con un incontro a tre fra il presidente americano Bush, il premier israeliano Olmert e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, nel corso del quale il presidente Bush ha letto una Dichiarazione comune di intenti – ossia uno strumento giuridico internazionale meno impegnativo del Memorandum d’intesa, in quanto non mirante all’applicazione di un accordo già sottoscritto, ma solamente all’esplicitazione della volontà comune delle parti di portare avanti un progetto futuro.

La Dichiarazione esprime la determinazione di entrambe le parti a metter fine allo spargimento di sangue e a decenni di conflitto tra i rispettivi popoli, aprendo una nuova era di pace fondata sul rispetto e il reciproco riconoscimento. Una nuova cultura di pace e contraria alla violenza dovrà guidare gli sforzi delle due parti nella lotta contro il terrorismo e le provocazioni di qualsiasi matrice, e soprattutto nel perseguire l’obiettivo di due Stati che possano convivere in pace e in sicurezza.

In tale contesto si conviene di avviare immediatamente negoziati bilaterali per giungere alla conclusione - entro la fine del 2008 - di un trattato di pace in cui trovino soluzione tutte le questioni pendenti, senza alcuna eccezione. Una Commissione di orientamento guidata congiuntamente dai capi delle due parti si riunirà con regolarità, metterà a punto un piano di lavoro congiunto e stabilirà e controllerà il lavoro dei team di negoziazione delle due parti.

Abu Mazen e Olmert continueranno a incontrarsi ogni due settimane per catalizzare al massimo grado la riuscita dei negoziati.

Le parti si impegnano inoltre ad adempiere finalmente ai rispettivi obblighi come fissati nella road map enunciata dal Quartetto nell’aprile 2003: a tale scopo si darà vita a un meccanismo tripartito americano, palestinese e israeliano, guidato dagli Stati Uniti. Il progressivo adempimento degli obblighi derivanti dalla road map sarà sottoposto alla valutazione degli Stati Uniti, ma è previsto in qualche modo che l’adempimento completo degli impegni di cui alla road map non sia più condicio sine qua non della possibilità di giungere a un trattato di pace, poiché le parti potranno di comune accordo svincolare quest’ultimo dalla rigida qualificazione di momento finale della road map.

La Conferenza ha segnato un temporaneo successo della diplomazia statunitense, sia per la quantità che per la qualità delle partecipazioni. Ben più problematica è la valutazione degli osservatori in merito agli sviluppi futuri di quanto previsto ad Annapolis: la realistica valutazione di quanto finora accaduto nel conflitto israelo-palestinese impone molta cautela, soprattutto in considerazione della debolezza interna sia di Olmert che di Abu Mazen.

I commenti si sono in gran parte focalizzati sul riconoscimento dell’importanza della partecipazione della Siria, che appare in qualche modo suscettibile di attenuare il legame di Damasco con Teheran. I paesi arabi partecipanti alla Conferenza, in primis l’Arabia Saudita, non hanno mancato di sottolineare con forza la necessità di aprire un tavolo negoziale anche tra Israele e la Siria, con al centro esplicitamente la questione della restituzione delle alture del Golan, conquistate da Israele nel conflitto del 1967. Questo lato dell’intricata situazione mediorientale è stato peraltro colto con tempismo dalla Russia, che si è offerta di ospitare a Mosca al principio del 2008 l’inizio dell’eventuale negoziato israelo-siriano.

Vi sono state tuttavia anche puntualizzazioni che hanno fatto capire quanto ilcammino che attende le due parti possa essere arduo: a cominciare dal fatto che la dichiarazione congiunta letta dal presidente Bush ha registrato l’accordo delle parti solo otto minuti prima dell’inizio della Conferenza, nel corso della quale, poi, il presidente palestinese ha voluto toccare uno dei punti più critici, ribadendo la necessità che la capitale del futuro stato palestinese sia Gerusalemme est (si ricordi che Israele, che nella Guerra dei Sei giorni aveva occupato anche i quartieri arabi orientali, nei quali si trovano i luoghi santi di tutte le tre grandi religioni monoteiste, aveva poi proclamato nel 1980 Gerusalemme come capitale eterna e indivisibile dello Stato ebraico).

Come già rilevato, poi, le delegazioni arabe hanno posto espressamente al centro della trattativa l’abbandono da parte di Israele di tutti i territori occupati nella guerra del 1967: la Siria ha posto la restituzione come chiara precondizione della normalizzazione dei rapporti con Israele.

Molti commenti alla Conferenza di Annapolis hanno poi affrontato non il tema dei possibili sviluppi del negoziato israelo-palestinese, quanto quello degli effetti della Conferenza sulla situazione geopolitica della regione. La presenza dell’Arabia Saudita (seppure portatrice di un forte scetticismo nei confronti di Israele) e addirittura della Siria fanno ipotizzare (o sperare) una sorta di inizio di un riposizionamento geopolitico regionale, nella direzione dell’isolamento di un Iran, la cui aggressività nella questione del nucleare, e il cui peso in Iraq, Libano e Gaza allarmano evidentemente gli Stati sunniti, moderati o meno. Tuttavia tale prospettiva è assai problematica, sia per le divisioni profonde che permangono tra gli Stati arabi, sia per la debolezza politica interna dei leader protagonisti ad Annapolis, manifestata nell’immediatezza dalle dure critiche di Nethanyau, capo del Likud, ad Olmert, e nel disconoscimento della rappresentatività di Abu Mazen da parte di Hamas.

Inoltre, il rapporto di alleanza tra Damasco e Teheran - che risale al 1980 e semmai di recente ha registrato un approfondimento a livello economico, con notevoli investimenti iraniani in Siria – non appare tanto facilmente smantellabile, sostanziato com’è anche da un comune sostegno ai palestinesi di Hamas e agli sciiti libanesi di Hezbollah.

Sul versante israelo-siriano la restituzione delle alture del Golan alla Siria appare altrettanto problematica, giacché se è vero che gli armamenti missilistici attuali ne hanno diminuito – ma solo in parte – l’importanza strategica, non è meno vero che la presenza di importanti falde acquifere rende il controllo della zona ormai pressoché irrinunciabile per Israele.

Il Libano rappresenta un altro punto critico, soprattutto per quanto concerne il ruolo degli sciiti di Hezbollah, sostenuti a tutti i livelli da Damasco, ma il cui riarmo è considerato da Israele un pericolo gravissimo, come dimostrato dalla deludente esperienza della guerra del 2006.

I negoziati di pace fra israeliani e palestinesi decisi dalla Conferenza di Annapolis sono iniziati il 12 dicembre in un’atmosfera piuttosto fredda: alla vigilia della prima riunione della Commissione congiunta per definire le linee-guida dei negoziati, l’esercito israeliano ha compiuto un’azione incisiva nel sud della Striscia di Gaza, causando la morte di sette miliziani palestinesi, in risposta a ricorrenti lanci di razzi contro città e villaggi israeliani. Inoltre, l’annunciata costruzione di 300 appartamenti in un rione ebraico situato a Gerusalemme est - e dunque in territorio ebraico solo in base alla citata legge del 1980, ma non riconosciuto come tale dalla comunità internazionale, ha sollevato proteste vigorose da parte dei palestinesi e irritazione da parte degli Stati Uniti, che vedono nella gara d'appalto un passo nettamente contrario allo spirito di Annapolis. Anche il rilascio di 429 prigionieri palestinesi da parte di Israele, avvenuto il 3 dicembre, non ha contribuito significativamente a una distensione degli animi, in quanto giudicato assai al di sotto delle aspettative dai palestinesi, e probabilmente dello stesso presidente Abu Mazen. E’ a causa di questo clima che l’incontro del 12 dicembre a Gerusalemme ha avuto un carattere meramente interlocutorio, con le parti intente a ribadire i rispettivi cahiers de doléances.

All’insegna della violenza anche l’apertura del 2008: in un’ennesima incursione, effettuata il 15 gennaio dalle truppe israeliane nella Striscia di Gaza, sono stati uccisi 17 palestinesi. La risposta palestinese, costituita come al solito da lanci di razzi Qassam sulle cittadine del Negev ha provocato una pesante contromossa da parte del governo israeliano che, il 18 gennaio, ha disposto la chiusura delle frontiere. Come reso noto dall'UNRWA (Agenzia ONU per i profughi palestinesi) il blocco ha riguardato inizialmente anche i camion che trasportavano aiuti umanitari, senza i quali la maggior parte della popolazione palestinese non può sopravvivere.

Il 20 gennaio è stata sospesa l’erogazione di energia elettrica da parte di Israele alla Striscia di Gaza, portando all’esasperazione una situazione già molto tesa: tre giorni dopo, uomini di Hamas hanno fatto esplodere degli ordigni contro la barriera alla frontiera tra la Striscia di Gaza e l'Egitto, aprendo diverse brecce per permettere a decine di migliaia di palestinesi di entrare in Egitto per rifornirsi di cibo, di medicine e di altri beni di prima necessità ormai introvabili a Gaza.

Durante un incontro tra Olmert e Abu Mazen (27 gennaio), il governo israeliano si è impegnato a consentire l’ingresso di aiuti umanitari e di generi essenziali nella Striscia di Gaza per scongiurare una crisi umanitaria. La questione del valico di Rafah, che Hamas pretende di mantenere aperto fino alla sospensione definitiva dell’embargo da parte di Israele, è stata invece rinviata.

Nonostante un attentato terroristico perpetrato a Dimona (Neghev), il 5 febbraio si è svolto un nuovo incontro tra il ministro israeliano degli esteri Tzipi Livni e il negoziatore capo palestinese  Abu Ala nell’ambito dei negoziati di pace decisi ad Annapolis. Non sono stati resi noti i risultati di questa riunione, ma era apparsa chiara la volontà di dimostrare che i negoziati proseguono, nonostante  gli attentati e le continue violenze.

Il premier israeliano Olmert, il presidente palestinese Abu Mazen e i negoziatori delle due parti si sono incontrati ancora il 19 febbraio in un clima non particolarmente ottimistico: il premier palestinese Salam Fayad aveva appena dichiarato che nei mesi successivi alla Conferenza di Annapolis non sono stati realizzati grandi progressi nelle trattative e che la speranza di concludere un accordo entro la fine del 2008 sembrava azzardata. Permangono infatti forti dissensi sulle questioni più spinose, quale ad esempio il destino di Gerusalemme su cui il partito ortodosso di governo Shas e la formazione ultranazionalista Yisrael Beitenu non vogliono trattare. Uno dei negoziatori dell’ANP, Yasser Abed, inoltre, ha dichiarato che i palestinesi potrebbero prendere in considerazione una dichiarazione unilaterale di indipendenza - così come è avvenuto per il Kosovo – ipotesi però rigettata dallo stesso Abu Mazen.

Sempre nell’ambito dei negoziati, va segnalato che sono stati costituiti gruppi di esperti, che si riuniscono dal 24 febbraio, che hanno il compito di prendere in esame alcune questioni, di carattere economico e ambientale, che dovranno poi fare parte del futuro accordo di pace.

Una battuta di arresto dei negoziati si è verificata a partire dal 1° marzo a seguito della vasta operazione militare condotta dalle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza nel tentativo di bloccare il lancio incessante di razzi Qassam verso il Neghev. L’incursione israeliana, che ha causato la morte di più di 70 palestinesi, ha provocato la richiesta di una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’ONU da parte di Abu Mazen.

Con la mediazione dell’Egitto che si è molto adoperato per concordare un cessate il fuoco tra Israele e Hamas, si era giunti nelle ultime settimane ad una situazione di relativa calma nella Striscia di Gaza, anche se nessun accordo di tregua è stato formalmente siglato. La situazione è nuovamente precipitata tra il 16 e il 17 aprile quando sono ripresi i raid aerei da parte di Israele e i lanci di razzi Qassam da parte palestinesi.

Erano da poco ripresi i negoziati di pace con un incontro, il 7 aprile, tra il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, al termine del quale i due leader hanno ribadito di voler firmare l’accordo di pace entro la fine dell’anno. Al centro del colloquio i temi scottanti delle costruzioni negli insediamenti ebraici, le restrizioni alla libertà di movimento della popolazione palestinese, lo sviluppo dell'economia palestinese e, infine, le preoccupazioni di Israele circa l’impegno dell’ANP per sconfiggere i gruppi terroristici palestinesi.

 


Iran

La situazione generale del paese

Politica interna

Il panorama politico iraniano post-rivoluzionario è sempre stato molto più eterogeneo di quanto la sua proiezione internazionale non permetta immediatamente di cogliere: le istituzioni statali hanno infatti caratteri e regole interne particolari che non rendono agevoli – per gli osservatori occidentali – comparazioni e previsioni; tuttavia la vita politica iraniana conosce e pratica forme di democrazia e di pluralismo, prima fra tutte le elezioni[137].

Nel febbraio 2004, allorché il popolo iraniano votò per il rinnovo del Parlamento (Majles) era in atto una offensiva politica antiriformista, causata da una effettiva delusione per gli scarsi risultati della presidenza Khatami (all’epoca ormai nel suo ultimo anno di mandato) che si accompagnò però anche ad una espulsione in massa dalle liste di candidati riformisti da parte del Consiglio dei guardiani, in virtù dei poteri di controllo e selezione delle candidature attribuiti a tale organo dalla stessa Costituzione. Tale azione sistematica (a cui è difficile non attribuire l’intenzione politica di agevolare la parte conservatrice) ebbe certamente effetto e contribuì ad accentuare la sconfitta elettorale e l’isolamento di Khatami.

L’evoluzione del quadro politico ha subito una brusca accelerazione nel giugno 2005, a seguito delle elezioni presidenziali, dalle quali è emersa – grazie all’appoggio di Khamenei, ma comunque a sorpresa – la leadership di Ahmadinejad. Dietro la sua vittoria vi fu – da un lato - il logoramento dell’ipotesi riformista, dopo gli otto anni dell’era Khatami (1997-2005), dall’altro il successo della operazione di mediazione condotta da Khamenei, che riuscì a ritessere la alleanza fra la componente conservatrice religiosa e la componente radicale che aveva dominato la scena politica iraniana durante l’era di Khomeini.

 

 

 

 

Risultati delle elezioni presidenziali del 17 e 24 giugno 2005

Candidati

Voti (1° turno)

%

Voti (1° turno)

%

Akbar Hashemi Rafsanjani

6.211.937

21,13

10.046.701

35,93

Mahmoud Ahmadinejad

5.711.696

19,43

17.284.782

61,69

Mehdi Karroubi[138]

5.070.114

17,24

-

-

Mostafa Moeen

4.095.827

13,93

-

-

Mohammad Bagher Ghalibaf

4.083.951

13,89

-

-

Ali Larijani

1.713.810

5,83

-

-

Mohsen Mehralizadeh

1.288.640

4,38

-

-

Bianche e nulle

1.224.882

4,17

663.770

2,37

Totale

(partecipazione al voto 62,66% e 59,6%)

29.400.857

100

27.959.253

100

 

 

In quell’occasione Rafsanjani non riuscì invece a saldare in un unico fronte l’ala pragmatica dei conservatori e la parte del fronte riformista più interna al sistema[139], che invece – in gran parte – disertò le urne, aprendo in tal modo la strada al candidato dei pasdaran.

 

E’ opportuno ricordare che anche in quell’occasione vi furono contestazioni sulla regolarità delle operazioni di voto. In particolare, il candidato riformista Karroubi rivolse accuse ai Guardiani della rivoluzione per la mobilitazione illegale di forze in favore del loro candidato, indicando lo stesso figlio di Khamenei, Mojtaba, come uno degli organizzatori di un’azione organizzata volta a condizionare il risultato elettorale. Al giornale Eghbal, vicino ai riformisti - che intendeva pubblicare informazioni e prese di posizione in merito alle accuse di Karroubi - fu impedito di uscire nelle edicole.

 

E’ comunque in atto nel paese – per unanime riconoscimento degli osservatori internazionali – un processo politico autentico, di trasformazione e ricomposizione degli equilibri, iniziato immediatamente dopo l’elezione di Ahmadinejad.

Secondo la maggior parte delle analisi (ma non tutte) il nuovo presidente si sarebbe rivelato infatti incapace di mediare e rappresentare unitariamente tutte le componenti del composito mondo (laico e religioso) del conservatorismo iraniano, legandosi sempre più strettamente a quella parte, sia pure importante, ma non autosufficiente, che lo ha più convintamene sostenuto nel 2005 - i Guardiani della Rivoluzione – e finendo per trasformarsi in una sorta di esecutore della potente lobby.

 

I Guardiani della rivoluzione islamica (pasdaran)costituiscono,com’è noto, uno dei pilastri del regime iraniano. Originariamente un semplice corpo paramilitare, fondato dallo stesso Khomeini nel 1979, si è successivamente evoluto in vera e propria forza armata, che affianca l’esercito regolare (Artesh). Sebbene quest’ultimo conti più uomini (420.000) e i Guardiani della rivoluzione fra i 150.000 e i 200.000, tuttavia sono i pasdaran a godere di equipaggiamenti più moderni, ma anche di una influenza di gran lunga maggiore nelle sfere politiche, così come nella società. Sotto il loro controllo è posta la milizia Basij (circa 90.000 volontari paramilitari) e le forze speciali Quds, accusate dai servizi occidentali di tenere la rete dei contatti con gruppi terroristici e combattenti sul piano internazionale. I pasdaran possono contare poi su una forza di almeno 2 milioni di riservisti e sono ufficialmente investiti della responsabilità dell’armamento missilistico. Anche se dispongono di ogni tipo di armamento di terra, di mare e di aria, oltre che di forze di intelligence, i pasdaran si sono specializzati in compiti di sicurezza e in azioni asimmetriche (in particolare il controllo del contrabbando di armi e il pattugliamento dello Stretto di Hormutz).

I pasdaran rispondono direttamente alla Guida Suprema Khamenei, mentre il Comandante in Capo è Mohammed Ali Safari (nominato da Khamenei nel settembre 2007).

Sin dalla fine della guerra con l’Iraq, i pasdaran hanno utilizzato politicamente l’enorme prestigio conquistato con il martirio sui campi di battaglia e hanno operato come lobby dotata di forte spirito di appartenenza. Ma il dato che spesso non viene sufficientemente messo in luce è la potenza economica che la lobby è venuta assumendo.

I pasdaran controllano infatti non solo una rete di iniziative solidaristiche (le fondazioni – bonyad – gestite dai veterani) ma anche una quantità crescente di imprese economiche ad alto rendimento, da cui traggono ingenti risorse finanziarie utilizzare anche per finanziare le componenti politiche più organiche al loro potere. In primo luogo è sotto il loro controllo gran parte della produzione di armamenti, secondo una linea di autosufficienza e autarchia che il governo di Khatami aveva cercato di invertire attraverso l’apertura al commercio internazionale ma che ora ha ripreso forza. Molte attività pubbliche sono poi affidate ad imprese legate ai pasdaran eludendo qualunque procedura di gara. Tali intrecci sono chiaramente aumentati in misura notevole durante la presidenza di Ahmadinejad. Un esempio fra i più rilevanti: nel giugno 2006 il comandante Abdolriza Abed – alto ufficiale dei Guardiani – ha annunciato l’affidamento di un contratto del valore di 2,9 miliardi di dollari per la costruzione della nuova piattaforma petrolifera off-shore di South-Pars, condivisa fra Iran e Qatar (senza gara di appalto).Infine i pasdaran controllano i porti iraniani (e quindi il contrabbando). Secondo fonti dei dissidenti iraniani con questo sistema rifornirebbero la Cina con grosse quantità di petrolio, ricevendone in cambio aiuti per la realizzazione del programma nucleare.

Secondo alcuni osservatori la forza dei pasdaran (in continua crescita dal 2005) sarebbe oggi tale da tenere in ostaggio addirittura la leadership clericale, oltre che il governo.

Secondo un’altra linea interpretativa – invece - lo stesso crescente coinvolgimento dei pasdaran nell’economia e nell’amministrazione, ne starebbe trasformando la natura intrinsecamente sovversiva e settaria, contribuendo a farne una forza di stabilizzazione.

E’ importante ricordare (sia per i suoi effetti sul piano internazionale, sia per i suoi effetti interni) la recente decisione del Governo USA (Executive Order 13382 del 25 ottobre 2007), che fa seguito ad una risoluzione parlamentare approvata in settembre, con la quale l’intera organizzazione dei Guardiani della rivoluzione è stata inserita nell’elenco delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato[140]. Le autorità americane potranno – in virtù di questo atto amministrativo – congelare tutti gli asset e proibire ogni relazione commerciale da parte di cittadini americani con questa organizzazione.

 

L’indurimento estremistico di Ahmadinejad, nonostante i segnali pervenuti anche da Khamenei, ha ricevuto diverse letture: la forza di condizionamento dei pasdaran, o più semplicemente le scarse capacità di leadership, o ancora la crescente influenza di correnti del radicalismo religioso, sembrano essere le spiegazioni più diffuse (almeno sul piano dell’evoluzione interna).

 

Su quest’ultimo punto, occorre ricordare che mentore di Ahmadinejad è Mohammad Taqi Mesbah Yazdi, leader religioso oltranzista, che fu fra gli allievi e compagni di percorso dell’Ayatollah Khomeini. È membro del Consiglio degli esperti, il collegio che elegge la Guida Suprema della Rivoluzione, e dirige l’Istituto Imam Khomeini per la Formazione e la Ricerca. Inoltre è stato il fondatore della Scuola Haqqani nella quale l’Islam viene insegnato in un’interpretazione estremamente restrittiva[141]. La Scuola Haqqani è una delle fucine che sfornano i personaggi-chiave della Repubblica Islamica, una scuola dalla quale sono usciti molti di coloro che oggi occupano posizioni di alto rango nel paese. Mesbah Yazdi, come direttore, è da tempo attivo nella lotta contro tutte le correnti di riforma del paese. Quando, mesi fa, un giornale riformista ha pubblicato un articolo che chiedeva l’abolizione della pena di morte, Yazdi ha spiegato che chiunque metta in dubbio i fondamenti dell’Islam deve essere immediatamente ucciso. Poiché il suo radicalismo mette in ombra personaggi altrettanto radicali, anche in questa area politica è ormai diffusa la preoccupazione sulla sua crescente influenza.

 

In ogni caso, dalle elezioni amministrative del dicembre 2006 (v. a pag. 42 il  capitolo Iran) è indubbiamente uscito rafforzato Rafsanjani, i cui uomini hanno conquistato nuove posizioni di potere, sia a livello amministrativo, sia nella concomitante elezione dell’Assemblea degli esperti, l’organo elettivo formato da 86 esponenti religiosi che ha – fra gli altri – anche il compito di scegliere la Guida suprema (Rahbar).

 

Ali Akbar Hashemi Rafsanjani(oggi 74enne) comparve sulla scena politica iraniana già alla fine degli anni ’70 – ancora prima della caduta dello Scià – quale rappresentante dei piccoli commercianti del bazar di Teheran. Dopo la rivoluzione khomeinista, grazie alla posizione già da anni rivestita all’interno del più stretto entourage dell’ayatollah Khomeini, divenne Presidente del Parlamento (1980-1989), svolgendo però anche un ruolo politico rilevante nel Consiglio di Guerra ed esercitando quindi una notevole influenza nella gestione della guerra contro l’Iraq.

Due mesi dopo la morte di Khomeini (5 giugno 1989) Rafsanjani – che nel frattempo ha assunto il profilo di leader della corrente maggioritaria tradizionalista ma pragmatica - viene eletto Presidente della Repubblica islamica. Ricopre la carica, ininterrottamente, per due mandati, fra il 1989 e il 1997, plasmando la politica iraniana secondo due indirizzi strategici che ne costituiscono tuttora le coordinate fondamentali: continuità con la rivoluzione khomeinista ma smussandone gradualmente le asperità e posizione internazionale di netta autonomia.

Al termine della parentesi khatamista (1997-2005), anche approfittando del bilancio non altrettanto brillante presentato dal leader riformista, ha tentato di ottenere un terzo mandato ma è stato battuto – a sorpresa - dall’attuale Presidente Ahmadinejad.

Sembrava a questo punto che la sua carriera politica stesse volgendo al termine, ma le stesse difficoltà incontrate da Ahmadinejad stanno rilanciando il ruolo e le prospettive di una figura centrale, quale quella di Rafsanjani, che mantiene ancora una forte presa sul ceto politico e su correnti di opinione pubblica, oltre che una notorietà in campo internazionale. Non è esclusa – a questo punto – una sua successione a Khamenei (già da tempo malato), mentre motivi di età impedirebbero una sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2009.

 

Un nuovo – forte – segnale non solo della presenza di tensioni nel blocco di governo, ma anche del fatto che la vicenda nucleare (v. a pag. 251 la scheda La questione nucleare) è investita da tali tensioni, sono state le dimissioni, nell’ottobre 2007 di Ali Larijani (capo negoziatore iraniano sul nucleare) e la sua sostituzione con un uomo molto più vicino al Presidente (Said Jalili). Le dimissioni sono giunte immediatamente dopo la visita di Putin nella quale si ipotizza che il Presidente russo abbia messo in guardia Teheran dai rischi di isolamento insiti nella radicalizzazione perseguita da Ahmadinejad. A questo punto Larijani – da tempo in contrasto con il Presidente – avrebbe colto l’occasione per marcare pubblicamente una differenza, anche in vista delle elezioni parlamentari di marzo – v. a pag. 42 il capitolo Iran - o addirittura presidenziali del 2009, nelle quali potrebbe capitalizzare il suo crescente prestigio politico[142].

Alle dimissioni di Larijani ha fatto subito eco una dichiarazione preoccupata di un altro uomo politico di prestigio e vicino alla Guida suprema come Ali Akbar Velayati (per 16 anni Ministro degli Esteri iraniano).

 

Sanzioni e stato dell’economia iraniana

Il quadro economico dell’Iran è in netto peggioramento. Tale trend negativo è in parte compensato (e comunque mascherato) dall’aumento del prezzo del petrolio, che da solo costituisce quattro quinti delle esportazioni iraniane.

Non è facile valutare (e fra gli osservatori non vi è unanimità) se le responsabilità maggiori di tale costante peggioramento siano da attribuire alla cattiva gestione dell’economia del paese, alla sua struttura statalista o all’effetto delle sanzioni decise dalle Nazioni Unite con le risoluzioni 1737 e 1747 del Consiglio di Sicurezza (v. scheda La questione nucleare a pag. 251).

Il tasso di crescita del PIL è in calo: secondo stime dell’Economist, dal 4,3% di crescita del biennio 2007-2008 dovrebbe scendere al 3,7% nel biennio 2008-2009.

Ci sono timidi tentativi di privatizzare, in attuazione di un indirizzo generale che parte dallo stesso Khamenei e che non sta però trovando effettiva applicazione. Continua peraltro a crescere la spesa pubblica, con politiche di sussidi e aumenti delle retribuzioni nel settore pubblico.

Il tasso di inflazione per i prodotti alimentari e le abitazioni è attorno al 17%, nonostante le politiche di prezzi amministrati diffusamente adottate. La Banca centrale non ha un effettivo controllo della politica di espansione fiscale voluta dal Governo. Lo scorso settembre è stato proprio un abbassamento dei tassi d’interesse dal 14% al 12% preteso dal Presidente a indurre il Governatore della Banca centrale alle dimissioni.

In aumento anche la disoccupazione, mentre gli investimenti esteri subiscono comunque gli effetti – anche indiretti – delle sanzioni. In particolare, il calo degli investimenti esteri minaccia di peggiorare la già bassa produttività dell’industria degli idrocarburi.

Infine, vanno ricordati alcuni gravi ritardi strutturali del sistema economico iraniano, fra i quali assumono un rilievo prioritario la scarsa diffusione della proprietà privata (e quindi la debolezza degli istituti giuridici a tutela della stessa) e l’inefficienza complessiva del sistema creditizio.

Diritti umani

La situazione dei diritti umani in Iran è oggi particolarmente grave.

Oltre al diffuso ricorso alla pena di morte (l’Iran è, al mondo, nelle prime posizioni quanto al numero di esecuzioni, e in proporzione al numero complessivo di abitanti eguaglia addirittura la Cina), le questioni in ballo sono anche altre: repressione politica attraverso arresti di esponenti sindacali, oppositori e studenti, diffuso uso della tortura, ricorso a pene inumane (fustigazione, taglio delle mani, lapidazione e – secondo notizie di stampa – addirittura esecuzione capitale mediante lancio da una rupe[143]), discriminazione delle donne, repressione degli omosessuali, repressione delle minoranze religiose ed etniche (in particolare delle minoranze curda e azera).

Il 25 ottobre 2007 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui diritti umani in Iran che richiama sinteticamente ma in modo circostanziato l’intero quadro delle violazioni, esprimendo preoccupazione e condanna e rivolgendo – direttamente ai membri del parlamento di Teheran – un appello per la modifica del codice penale e per l’adozione di provvedimenti legislativi che perlomeno  vietino l’esecuzione di minori ed escludano la pena di morte per omosessualità e adulterio. La risoluzione ha proposto, infine, di riavviare il dialogo UE-Iran sui diritti umani interrotto nel giugno 2004.

 

In Iran la pena di morte è prevista per un numero considerevole di reati: omicidio, rapina a mano armata, stupro, blasfemia, apostasia, cospirazione contro il Governo, adulterio, prostituzione, omosessualità, reati legati alla droga (addirittura per il semplice possesso di più di 30 grammi di eroina o di 5 chili di oppio) e – in caso di recidiva – anche per consumo di alcolici.

Esistono – inoltre – sospetti da parte delle organizzazioni umanitarie che la pena di morte venga anche usata per colpire oppositori politici, ufficialmente accusati di reati comuni e processati senza adeguate garanzie.

Si ricorda anche che - in base al codice penale iraniano, le femmine di età superiore a nove anni e i maschi con più di quindici anni sono considerati adulti e, quindi, possono essere condannati a morte[144],.

Queste disposizioni legislative violano due patti internazionali ratificati dall’Iran: il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Onu sui Diritti del Fanciullo, i quali vietano l’esecuzione di persone che avessero meno di 18 anni all’epoca del reato.

Nel dicembre 2003, il parlamento iraniano ha approvato una legge che stabilisce tribunali speciali per giudicare i minorenni ed esclude l’esecuzione di persone minori di 18 anni al momento del fatto. La proposta, che dopo l’approvazione del parlamento attende quella dell’organo superiore di controllo legislativo, il Consiglio dei Guardiani, escluderebbe i minori anche dall'ergastolo e dalle frustate.

Nel 2006, l’Iran ha visto quasi raddoppiare le esecuzioni che sono state 215, a fronte delle 113 del 2005. Un ulteriore, impressionante, aumento si registra nel 2007. Ma i dati reali sono praticamente sconosciuti: le autorità non forniscono statistiche ufficiali e i numeri riportati sono relativi alle sole notizie pubblicate dai giornali iraniani, che evidentemente non riportano tutte le esecuzioni.

 

 

Relazioni internazionali dell’Iran

L’Iran è membro del Movimento dei Paesi Non allineati, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica e fa parte del G77.

I negoziati per l’ammissione dell’Iran all’OMC sono fermi al settembre 1996, a causa dell’opposizione degli USA; la Commissione Europea, invece, si è sempre espressa a favore di un esame della domanda in base unicamente alla valutazione di parametri economici oggettivi.

I paesi del Golfo

I rapporti dell’Iran con i Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) sono sostanzialmente buoni nonostante tutti questi paesi fossero schierati a favore dell’Iraq nella guerra combattuta nel 1980-1988 e nonostante un contenzioso territoriale con gli EAU.

I rapporti di politica estera sono in gran parte influenzati dai timori che, a diverso livello, suscita il programma nucleare iraniano. I paesi del CCG, ad esempio, hanno manifestato la propria preoccupazione sia riguardo l’impatto ambientale derivante dalla costruzione di impianti nucleari, sia per la possibilità di un attacco militare statunitense.

La Siria

Le relazioni con la Siria, anche se non prive di problemi, sono buone fin dalla rivoluzione iraniana del 1979[145]. Secondo alcuni analisti, i caratteri del legame tra i due paesi saranno ridisegnati se e quando la Siria farà la pace con Israele ma, fino ad oggi, l’amicizia è parsa sufficientemente solida da resistere ai tentativi di isolamento promossi in varie occasioni dagli Stati Uniti.

Da ultimo, il processo che è stato inaugurato ad Annapolis (v. scheda Sviluppi recenti a pag. 224) reca con sé anche l’obiettivo di spostare l’asse della Siria verso l’Occidente (per questo motivo l’amministrazione americana ha insistito affinchè l’agenda della Conferenza comprendesse anche la questione della restituzione delle alture del Golan) e l’isolamento internazionale dell’Iran rappresenta per tutti gli osservatori uno degli scopi della missione in Medio oriente del Presidente Bush del gennaio 2008.

L’alleanza con la Siria si basa sull’ideologia religiosa integralista che lega il regime di Teheran con l’organizzazione di Hezbollah, sostenuto dalla Siria, le cui attività si fondano sui principi della rivoluzione khomeinista. Attraverso Hezbollah l’influenza dell’Iran giunge fino al Libano e l’alleanza degli sciiti di Hezbollah con i sunniti di Hamas chiude il cerchio che salda Iran-Siria-Gaza (e parti del Libano).

Israele

L'Iran considera Israele (spesso non nominato espressamente ma appellato spregiativamente “regime sionista”) insieme a USA e Regno Unito “un asse del male contro il mondo islamico e l'intera umanità”. In numerose occasioni Ahmadinejad ha dichiarato di augurarsi la scomparsa di Israele e ha provocatoriamente messo in dubbio l’esistenza dell’Olocausto. I rapporti con Israele si risolvono quindi – al momento – solo in manifestazione di ostilità. Ahmadinejad ha fatto sapere che se fosse attaccato per il suo programma nucleare, l'Iran reagirebbe colpendo interessi degli USA nel mondo e Israele. Il governo israeliano ha fatto intendere di non volersi fidare del tutto delle valutazioni del rapporto NIE (v. scheda La questione nucleare a pag. 251) e non ha mancato di rilevare che, in ogni caso, la conversione da progetti nucleari civili a quelli militari può richiedere solo pochi mesi[146]. Israele si prepara pertanto al fatto che l'Iran potrà disporre di un primo ordigno atomico nel 2009. Le preoccupazioni per lo sviluppo del nucleare in Iran hanno anche portato Israele a chiedere le dimissioni del direttore dell’AIEA El Baradei, dopo la pubblicazione dell’ultimo rapporto al Board dei governatori, considerato troppo conciliante.

Gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti fin dall’inizio della presidenza Bush, hanno collocato l’Iran tra i paesi nemici e pericolosi[147]. Come si è già detto, il problema principale consiste nello sviluppo da parte dell’Iran di un programma nucleare non trasparente, che si affianca alle provocatorie e minacciose dichiarazioni riguardanti lo Stato di Israele. Oltre a questo, vi è la convinzione da parte delle autorità militari statunitensi che l’intelligence e alcune organizzazioni paramilitari iraniane stiano collaborando con i ribelli iracheni nell’organizzare attentati contro le forze militari americane. Il Presidente Bush aveva inoltre dichiarato, nell’agosto 2007, che estremisti sciiti sostenuti dall’Iran stavano addestrando gli iracheni a compiere attentati contro militari americani e contro la popolazione civile, aggiungendo di aver autorizzato i comandi militari in Iraq a rispondere alle “attività omicide di Teheran”. La guerra in Iraq è sembrata acquisire – in tutte le fasi di inasprimento dei rapporti con l’Iran – un carattere assai diverso rispetto a quelli originari del marzo 2003, diventando ormai una sorta di battaglia strategica tra Stati Uniti e Iran per l’affermazione di egemonia su un’area geopolitica di importanza cruciale.

Questo sembra essere il motivo per cui l’opzione militare degli Stati Uniti contro l’Iran non è stata accantonata nemmeno dopo le informazioni rese note dal Rapporto NIE. E questo è anche il motivo per cui periodicamente riprendono invece quota il dialogo e forme (più o meno segrete) di negoziato.

 

All’interno dell’amministrazione Bush vi è una linea (che solo in parte coincide con la corrente neocon supportata dal vicepresidente Dick Cheney) che sostiene la necessità (o la inevitabilità) di un attacco militare all’Iran, anche allo scopo di scongiurare che esso divenga in breve la potenza egemone del Medio Oriente. Non è escluso che anche qualora l’Iran rinunciasse all’atomica continuerebbero ad essere attive correnti favorevoli all’opzione militare, in quanto la vera ragione per intervenire con le armi risiederebbe nella esigenza di ristabilire un rapporto di forze geopolitico nella regione mediorientale che dal 2003 si è pericolosamente sbilanciato a favore dell’Iran.

Al momento sembra però maggioritario il partito di coloro che respingono l’idea di un intervento militare (Dipartimento di Stato e intelligence), non tanto perché ritengano l’Iran un paese poco pericoloso, quanto perché l’uso della forza non viene giudicato risolutivo per determinare l’ auspicato cambiamento di regime e perché costituirebbe un fattore di rischio elevatissimo sulle alleanze con i paesi dell’area.

Dietro questa contrapposizione vi è anche un problema più generale di interpretazione della natura del regime iraniano. Negli USA – e in una certa misura anche in Europa - sono presenti due diverse ipotesi: quella che interpreta il regime di Teheran come un regime rivoluzionario, e quindi dominato – anche nella sua politica estera – dalla logica interna della rivoluzione e dall’imperativo categorico di mantenerne vivi i caratteri; e quella che invece ritiene possibile che i governanti di Teheran facciano effettivamente quei compromessi tipici di (e vantaggiosi per) una potenza nazionale, per quanto in ascesa. Ogni valutazione in materia di politica estera presuppone, come sottolineato più volte da Henry Kissinger, una interpretazione coerente di questo aspetto.

In ogni caso, per quanto riguarda la politica estera statunitense, l’eventuale uso della forza comunque assumerebbe ora contorni diversi da quelli immaginati negli scorsi mesi: l’opinione pubblica americana – ormai persuasa, dopo la pubblicazione del Rapporto NIE[148], che l’Iran non costituisce una minaccia nucleare immediata - non potrebbe offrire ad un attacco su larga scala il necessario supporto. La pianificazione di un eventuale attacco potrebbe comprendere ora solo bombardamenti “chirurgici”, diretti non tanto contro gli impianti nucleari quanto, principalmente, contro le strutture facenti capo ai Guardiani delle rivoluzione.

Un evento di grande rilievo sul piano dei rapporti fra i due paesi è stata la approvazione da parte del Senato americano (26 settembre 2007) di una risoluzione che chiede di definire la Guardia Rivoluzionaria Iraniana un gruppo terroristico. La risoluzione, presentata dal repubblicano Jon Kyl e dall'indipendente Joseph Lieberman, è stata approvata con 76 voti favorevoli (fra i quali 28 di senatori democratici) e 22 contrari. Nella risoluzione si mette anche in luce la funzione di deterrenza costituita dei militari americani nei confronti di Teheran e della sua minaccia per la stabilità nel Medio Oriente. La risoluzione appare politicamente rilevante, dato il ruolo che la Guardia Rivoluzionaria riveste nell’establishment iraniano (vedi supra): si tratta infatti di mettere al bando un’intera componente della forza armata di un paese straniero.

 

L’Unione Europea

La pubblicazione del NIE non ha determinato alcun cambiamento nella posizione dei paesi membri dell’ Unione europea e della NATO, che hanno dichiarato di voler proseguire con la politica delle sanzioni, restando però aperti ad un dialogo che possa portare ad un accordo politico ed economico con l’Iran.

Francia e Germania – convinte entrambe  che la strada della fermezza e delle sanzioni  sia l’unica percorribile – convengono con gli Stati Uniti che il rapporto NIE non deve far abbassare la guardia, perché l’Iran continua a costituire una minaccia: questa sarà la posizione che i due Paesi intendono sostenere in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, garantendo, insieme al Regno Unito, l’appoggio all’impostazione USA favorevole ad un inasprimento delle sanzioni. Contrarie Russia e Cina, che con la loro opposizione avevano fatto sì che la Francia formalizzasse nell’ottobre 2007 la richiesta di nuove misure a livello comunitario.

La Russia

La Russia ha buoni rapporti economici con l’Iran soprattutto nel campo dell’energia. Russia e Iran, che sono i due maggiori produttori di gas del mondo, hanno concluso nel 2006 un accordo per la costruzione di un gasdotto che collegherà l’Iran al Pakistan e all’India.

Riguardo al nucleare (v. scheda La questione nucleare a pag. 251), la Russia ha anche offerto a Teheran un accordo bilaterale che consentirebbe lo svolgimento delle attività iraniane di arricchimento dell'uranio sul territorio russo e in collaborazione tra i due governi. Con la partecipazione della Russia è stata costruita anche la centrale di Busher, dotata di una capacità di 1.000 MW, che si prevede entrerà in funzione la prossima estate: il 17 dicembre 2007 la Russia ha consegnato la prima fornitura di combustibile nucleare, destinato al funzionamento della centrale. Il combustibile resterà sotto il controllo dell'AIEA per tutto il tempo in cui si troverà nel territorio iraniano (l’importazione di uranio arricchito dall'estero era una delle opzioni prese in esame per arrestare il processo di arricchimento condotto in Iran).

Ma la cooperazione russo-iraniana riguarda altresì l’ambito militare ed ha avuto particolare slancio a partire dal 2000, in seguito alla sospensione del protocollo "Gore - Cernomyrdin", siglato cinque anni prima fra Russia e Stati Uniti e relativo alle restrizioni di forniture di armamenti all’Iran. Dal 2000, quindi, sono stati possibili per la Russia esportazioni di tecnologie e attrezzature militari  verso l’Iran.

La Russia, che, come già detto è contraria alle sanzioni, si è proposta come mediatore tra l’Iran, la UE gli Stati Uniti che però, finora, non hanno mai voluto trattare direttamente con gli iraniani.

La Cina

Come la Russia, anche la Cina è sempre stata contraria all’adozione di sanzioni contro l’Iran e, dopo la diffusione del Rapporto NIE, ha chiesto l’apertura di negoziati per la soluzione della questione riguardante il programma nucleare iraniano.

In ogni caso sembra evidente che – almeno al momento – le relazioni fra i due paesi sono molto condizionate dalle opportunità che la Cina intravede nelle risorse economiche (ma anche nella posizione geografica) dell’Iran, ai fini della realizzazione delle proprie aspirazioni ad assurgere rapidamente al rango di grande potenza economica e di player globale.

La Cina è già oggi un partner economico fra i più importanti dell’Iran. Risale al 9 dicembre 2007 la firma con la compagnia petrolifera cinese Sinopec di un contratto di molti miliardi di dollari per lo sviluppo del giacimento petrolifero iraniano di Yadavaran, nel sudovest del Paese. Secondo il direttore dello sfruttamento della Compagnia nazionale petrolifera iraniana (Nioc) Mahmud Mohades, Yadaravan contiene 18,3 miliardi di barili di petrolio, di cui la parte recuperabile è di 3,2 miliardi di barili. Secondo gli esperti, l'investimento necessario per sviluppare Yadavaran è dell'ordine di vari miliardi di dollari.

 

A fronte di questo investimento, tuttavia, sempre all’inizio di dicembre è stata resa pubblica la notizia (da Asadollah Asgaroladi, direttore della Camera di commercio irano-cinese) che negli ultimi tempi le banche cinesi si sono rifiutate di aprire le linee di credito richieste da banche iraniane e dalle aziende che collaborano con aziende cinesi. Il governo di Teheran suppone che il cambiamento di atteggiamento delle banche cinesi vada attribuito alle pressioni degli Stati Uniti che, forti dei 343 miliardi di dollari di interscambio con la Cina, sarebbero riusciti a persuadere quest’ultima ad aderire almeno in parte alle sanzioni contro l’Iran.

Asgaroladi ha fatto sapere anche che nel 2006 l'interscambio tra Iran e Cina si aggirava intorno ai 18 miliardi di dollari mentre nel 2007 – a fronte di una previsione di crescita molto maggiore – ci si sarebbe invece a stento avvicinati alla quota di 20 miliardi di dollari.

L’Iraq

Da ultimo, va ricordata la storica visita del presidente iraniano Ahmadinejad a Baghdad (2-3 marzo 2008), la prima in assoluto dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Non sorprende tanto il riavvicinamento tra i due Paesi – dopo la caduta del regime sunnita di Saddam Hussein la maggioranza sciita dell’Iraq ha potuto legittimamente accedere al governo, capeggiato da Nuri al Maliki -, quanto la forza con la quale un Iran pure soggetto a critiche e sanzioni internazionali ha ribadito il proprio ruolo di potenza regionale, affacciandosi in un Paese tuttora sede di un esercito USA. Non va tuttavia dimenticato che rispetto alla stabilizzazione dell’Iraq Stati Uniti e Iran hanno obiettivi non del tutto divergenti, e non a caso nel 2007 si erano svolte sulla materia tre tornate negoziali bilaterali tra USA e Iran.

 


Iran

La questione nucleare

Origini della controversia e ipotesi sui suoi possibili effetti

La contesa che contrappone l’Iran alla comunità internazionale riguarda un processo (l’arricchimento dell’uranio, fase principale del ciclo di produzione del combustibile nucleare) che non è – di per sé - proibito dal Trattato di Non Proliferazione del 1968 (TNP), in quanto esso è sì necessario per la fabbricazione di ordigni nucleari, ma lo è anche per la produzione di energia.

Tuttavia, il problema ha origine da violazioni accertate da parte dell’Iran degli obblighi internazionali in materia nucleare che risalgono ormai a diversi anni fa. Infatti nel 2002 - grazie alla denuncia di un gruppo dissidente – la comunità internazionale seppe dell’esistenza di due impianti tenuti fino ad allora segreti dalle autorità di Teheran: ad Arak, un reattore ad acqua pesante e a Natanz, un impianto per l’arricchimento dell’uranio. Tali attività non erano state notificate all’ Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), come prescritto dal Trattato.

Nel 2003 (quindi durante la presidenza Khatami) l’Iran, anche per reagire al discredito internazionale derivato dalla clamorosa scoperta, si impegnò a sospendere ogni attività di arricchimento dell’uranio.

L’ascesa di Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica islamica nell’agosto del 2005 e il suo dichiarato proposito di riprendere le attività di arricchimento dell’uranio su larga scala ha destato allarme nella comunità internazionale.

 

Diffusa è infatti la convinzione che il piano nucleare iraniano non sottenda finalità solo civili bensì rifletta l’aspirazione dell’Iran a divenire una potenza nucleare nella regione del Golfo[149]. Molto temuta è la coincidenza fra conquista dell’arma nucleare e aumento dell’aggressività iraniana nei confronti di Israele (e quindi di possibili reazioni dello stato ebraico, a sua volta dotato di armamento nucleare), così come i rischi di effetto domino sull’intero Medio oriente e di moltiplicatore delle ambizioni nucleari di altri Paesi dell’area che già da tempo hanno manifestato un forte interesse in tal senso (Arabia Saudita, Egitto e Turchia in primis). Altra ipotesi interpretativa che periodicamente si affaccia è quella in chiave di rivalità religiosa, e quindi del rischio di una contromossa dei paesi arabi, che sarebbero sospinti a dotarsi di una “atomica sunnita”. Secondo una diversa linea interpretativa[150], invece, le rivalità fra i paesi islamici dell’area (così come quelle fra Iran e Israele) – e quindi anche la questione nucleare – non dovrebbe essere letta in termini ideologici, ma meramente geopolitici: l’armamento nucleare è perseguito da Teheran solo per suggellare i nuovi equilibri geopolitici che si sono determinati nell’area a seguito della sconfitta dei taleban in Afghanistan e di Saddam Hussein in Iraq. Paradossalmente, sarebbero state proprio le due iniziative americane a creare le premesse dell’ascesa dell’Iran al rango di potenza regionale, e l’arma atomica sarebbe quasi la necessaria conseguenza di tali nuovi equilibri.

 

In ogni caso, i fattori su cui sembra convergere un consenso internazionale sono due. Da un lato la fase critica che attraversa già oggi il processo di non-proliferazione (crescenti critiche alle potenze del club nucleare per il mancato disarmo; indizi convergenti di una intensificazione del contrabbando di materiale nucleare, pressioni proliferatrici costanti): in questo contesto il raggiungimento dell’obiettivo da parte dell’Iran potrebbe rappresentare un colpo definitivo per il TNP. Inoltre, data la rete di rapporti dell’Iran con gruppi armati in tutto il Medio Oriente, il possesso di armi nucleari potrebbe amplificare il rischio (già alto) del trasferimento di tecnologie nucleari ad organizzazioni terroristiche.

Gli argomenti dell’Iran

Pur aderendo, fin dal 1970, al Trattato di Non proliferazione (TNP)[151], l’Iran non ha garantito il pieno accesso degli ispettori dell’AIEA (Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica)ad alcune infrastrutture regolarmente denunciate, ed ha in un primo tempo accolto, ma in seguito apertamente disatteso, l’invito della stessa AIEA a sospendere il proprio programma di arricchimento dell’uranio.

Già nel febbraio 2003, l’AIEA ha confermato l’esistenza in Iran di un avanzato programma nucleare; da allora ha cominciato a diffondersi il sospetto che tale programma avesse in realtà una segreta destinazione militare.

Nel marzo 2004 l’AIEA ha quindi espresso preoccupazione per le omissioni nelle dichiarazioni dell’Iran a proposito delle sue attività in campo nucleare, oltre che per importazioni di uranio avvenute senza notifiche.

Dalle ispezioni dell’AIEA, effettuate dopo molte pressioni, si evince complessivamente come l’Iran sia impegnato a sviluppare l’intero ciclo del combustibile nucleare (alla base della possibile realizzazione di un dispositivo militare).

Da parte sua, l’Iran ha sempre sostenuto che gli scopi del programma di nuclearizzazione sono pacifici. Quanto alle mancate denunce all’AIEA, Teheran sostiene che l’interpretazione letterale del Trattato non impone la denuncia degli impianti, se non nell’imminenza dell’avvio delle attività di arricchimento dell’uranio, stadio al quale nel 2002 non si era ancora arrivati. Sostiene, inoltre, che era intenzione del governo effettuare la denuncia non appena si fosse pervenuti a questo stadio e che quindi non vi sono gli estremi giuridici per accusare l’Iran di violazione del TNP.

Dai tentativi di mediazione all’intervento del Consiglio di Sicurezza

All’attività dell’AIEA si è affiancata, a partire dall’agosto del 2003, l’iniziativa dei governi di Francia, Germania e Regno Unito per indurre l’Iran a sospendere temporaneamente le attività per la produzione di uranio arricchito, a fronte di una collaborazione a livello commerciale, tecnologico, nucleare ed economico.

Nel 2004 l’Unione europea ha deciso di associare al processo avviato dai tre paesi europei l’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune, Javier Solana. Il negoziato condusse, nel novembre 2004, all’ Accordo di Parigi, nel quale si prevedeva la sospensione delle attività di Teheran nel settore della produzione di uranio arricchito in cambio di un pacchetto di incentivi, che includesse accordi commerciali e cooperazione nucleare, nonché dialogo politico sulle questioni di sicurezza cui l’Iran è più sensibile.

Nel marzo 2005 l’amministrazione Bush, in origine sostanzialmente contraria a coinvolgere l’Iran in una trattativa, aveva deciso di appoggiare l’iniziativa degli europei. Ma nell’agosto del 2005 i negoziati promossi dalla UE sono naufragati in seguito alla decisione unilaterale del governo iraniano diriprendere la conversione dell’uranio (un procedimento preparatorio dell’arricchimento): nel giugno di quell’anno Ahmadinejad aveva assunto la presidenza.

Gli europei, pur lasciando aperta la possibilità di riaprire un dialogo, hanno appoggiato – a questo punto - la richiesta americana di porre la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Il 29 marzo 2006 il Consiglio di sicurezza ha invitato formalmente l’Iran a sospendere le attività di arricchimento dell’uranio e le attività connesse, nonché a riprendere la piena cooperazione con l’AIEA, alla quale veniva richiesto di fornire - entro trenta giorni - un rapporto aggiornato sulla vicenda.

Alla fine di aprile il rapporto del direttore generale dell’AIEA El Baradei denunciava il mancato adeguamento dell’Iran alle richieste dell’ONU e la conseguente impossibilità per l’Agenzia di certificare l’assenza di attività nucleari non dichiarate.

In precedenza, l’11 aprile 2006, il presidente iraniano Ahmadinejad aveva provocatoriamente annunciato che l’Iran era riuscito ad arricchire un piccolo quantitativo di uranio in una percentuale sufficiente ad essere impiegata in un reattore (3%) e che il Paese avrebbe continuato nel suo programma nucleare fino alla produzione in massa di uranio arricchito. L’annuncio ha suscitato la reazione preoccupata anche di paesi come il Giappone e la Federazione russa, che hanno subito ribadito la richiesta all’Iran di sospendere sia le attività di arricchimento dell’uranio sia quelle di ricerca.

I negoziati del gruppo 5+1 e il tentativo di negoziato dell’estate 2006

Le iniziative internazionali per una soluzione negoziata sono state in seguito rilanciate dal gruppo dei paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) e dalla Germania (c.d. gruppo “5+1”), che nel corso di un incontro svoltosi a Vienna all’inizio del mese di giugno 2006 hanno definito una proposta di mediazione. Tale proposta era il frutto dell’iniziativa congiunta di americani ed europei e derivava dalla decisione degli USA di ammorbidire le proprie posizioni intransigenti.

In cambio di un pacchetto di incentivi offerti[152], si chiedeva all’Iran di rinunciare alla prosecuzione delle attività di arricchimento di uranio. L’alto Rappresentante UE, Solana, ha discusso di tali proposte con l’allora rappresentante del Governo iraniano Ali Larijani il 6 giugno 2006. Le reazioni del governo iraniano sono state inizialmente positive, ma l’aggravarsi della crisi tra Israele ed Hezbollah libanesi – appoggiati dall’Iran -  l’intensificarsi degli scontri in atto nella regione meridionale del Libano ed ulteriori dichiarazioni del presidente iraniano circa il diritto del suo paese a proseguire il suo programma nucleare, hanno determinato il dissolversi della soluzione negoziata che in un certo momento era sembrata vicina.

 

Le Risoluzioni 1696, 1737 e 1747 del Consiglio di Sicurezza

Nel tentativo di vanificare tattiche dilatorie degli iraniani, il 31 luglio 2006 il Consiglio di Sicurezza ha approvato – con il solo voto contrario del Qatar – una risoluzione (n. 1696/2006) proposta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, con la quale si chiedeva all’Iran di sospendere entro il 31 agosto le proprie operazioni di arricchimento dell’uranio. In caso di inadempimento la risoluzione prevedeva misure provvisorie (ex art. 40 della Carta ONU) ed eventuali sanzioni economiche (ex art. 41), escludendo tuttavia l’uso della forza.

Il termine del 31 agosto 2006 è tuttavia scaduto senza che Teheran abbia interrotto le procedure di arricchimento dell’uranio, come risulta dal rapporto trasmesso dall’AIEA alla Presidenza del Consiglio di Sicurezza.

Nel settembre2006 si è verificata una significativa evoluzione nelle posizioni russe, in seguito all’atteggiamento di rifiuto nei confronti delle aperture che Mosca aveva avanzato nei mesi precedenti: il Ministro degli esteri Lavrov si è infatti detto disposto a valutare l’ipotesi di sanzioni, pur continuando ad escludere con nettezza ogni possibilità di intervento militare contro l’Iran.

Il 23 dicembre 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, al termine di due mesi di trattative, ha approvato la risoluzione 1737, che impone sanzioni all’Iran per non aver interrotto il processo di arricchimento dell’uranio.

La risoluzione, proposta da Gran Bretagna, Francia e Germania e approvata  all'unanimità dal Consiglio di sicurezza, richiama il capitolo VII, articolo 41, della Carta delle Nazioni Unite, che prevede l'applicazione obbligatoria delle misure, pur escludendo azioni di tipo militare.

 

In particolare, la risoluzione vieta di esportare in Iran materiali o tecnologie che contribuiscano alle attività relative all'arricchimento e al riprocessamento (dell'uranio) e alle attività legate all'acqua pesante, nonché allo sviluppo di sistemi di trasporto di testate nucleari, quali i missili balistici. Singoli Paesi possono peraltro decidere in autonomia se esportare materiali o tecnologie suscettibili di doppio uso (civile o nucleare), ma in tal caso hanno l’obbligo di verificarne finalità e destinazione e devono comunque informare il comitato per le sanzioni del Consiglio di sicurezza. Le sanzioni non si applicano invece a materiali per la costruzione di impianti nucleari ad acqua leggera o ad uranio a basso arricchimento quando questi sia una delle parti di un combustibile nucleare composito[153].

La risoluzione dispone poi il congelamento di finanziamenti o fondi di proprietà o controllati da persone, società o organizzazioni legate ai programmi nucleare o missilistico iraniani; tale congelamento si applica, tra l’altro, all'Organizzazione per l'energia atomica iraniana, a tutti gli impianti legati al programma iraniano di arricchimento dell'uranio, al reattore ad acqua pesante di Arak e all'impianto di centrifughe di Natanz. Viene inoltre fatto obbligo agli Stati di segnalare l’ingresso sul proprio territorio di persone legate al programma nucleare iraniano indicate nell’Annesso alla risoluzione stessa.

Le sanzioni possono essere sospese qualora il direttore generale dell'AIEA ritenga che l'Iran abbia interrotto l'arricchimento dell'uranio e la costruzione delle centrali ad acqua pesante e torni al tavolo dei negoziati, ma possono invece essere ulteriormente aggravate se l'Iran non si conforma ai dettami della risoluzione entro 60 giorni dall’adozione della medesima.

 

Le reazioni del Governo di Teheran all’adozione della risoluzione 1737 sono state durissime e minacciose. Il documento è stato definito ''un pezzo di carta straccia” che non potrà fermare il programma nucleare iraniano.

Alla scadenza del termine di 60 giorni imposto all’Iran dalla risoluzione 1737 del 23 dicembre 2006, il direttore generale dell'Aiea Mohammed El Baradei ha inviato al Consiglio di sicurezza dell'Onu un ulteriore rapporto nel quale si certifica che Teharan ha ignorato l'intimazione delle Nazioni Unite a sospendere ogni attività nucleare.

 

In particolare, in base al rapporto, l'Iran non solo non avrebbe sospeso il processo di arricchimento dell'uranio ma, in aperta sfida alla Comunità internazionale, lo avrebbe persino intensificato. Oltre a non ottemperare a nessuna delle misure richieste di trasparenza, Teheran avrebbe proseguito l'attività di arricchimento nell'impianto pilota di Natanz con l'installazione di quattro cascate di 164 centrifughe (le macchine per produzione di combustibile nucleare) e pianificato l'allaccio progressivo entro maggio 2007 di tutte le 3.000 centrifughe previste per arrivare alla produzione di uranio arricchito su scala industriale.

 

Intanto, a partire dal marzo 2007, si registrava anche un certo peggioramento dei rapporti fra Iran e Russia e un crescente isolamento di Teheran, che ha portato all’approvazione all’unanimità da parte del Consiglio di Sicurezza di una nuova Risoluzione (la n. 1747), recante una nuova raffica di sanzioni (24 marzo 2007). Le più significative consistono nel limite alle esportazioni di armi iraniane e nel limite agli aiuti internazionali (esclusi quelli umanitari). Alcuni esperti hanno, comunque, giudicato sostanzialmente blande queste sanzioni (e, in parte, anche difficili da applicarsi).

In occasione dell'apertura della sessione annuale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite,il presidente iraniano Ahmadinejad il 25 settembre 2007 – ricorrendo ancora una volta a toni sprezzanti verso la comunità internazionale - ha definito la questione del dossier nucleare un “caso chiuso per il suo paese”,suscettibile solo di sviluppi di routine nei colloqui con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica.

Il Rapporto NIE

La pubblicazione il 3 dicembre 2007 del rapporto National Intelligence Estimate on Iran - NIE, ha offerto ulteriori elementi per inquadrare i termini della questione. Il rapporto, elaborato da 16 agenzie di intelligence americane, afferma che l'Iran ha disposto una interruzione del proprio programma di sviluppo di armi nucleari nell'autunno del 2003, grazie alla pressione internazionale. Tuttavia il rapporto non è in grado di escludere che dopo quella data non vi sia stata una ripresa. Inoltre, il rapporto conferma che l’attività di arricchimento dell’uranio è in corso e stima che – se tale attività fosse finalizzata ad usi militari, il che oggi non può essere né escluso, né provato – l’Iran potrebbe essere in grado di sviluppare un'arma nucleare tra il 2010 e il 2015. Immediatamente dopo la pubblicazione del rapporto, l'AIEA ha sottolineato la convergenza di tali conclusioni – per altre vie - con quelle a cui sono giunti i suoi ispettori negli ultimi anni e cioè che il nucleare iraniano non rappresenta – in ogni caso - un pericolo immediato, e che ci sono ancora margini di tempo per un negoziato.

Il Presidente Bush ha reso pubblica una dichiarazione imperniata sulla tesi che  il rapporto NIE non cambia la sostanza del problema perché l’Iran era pericoloso e continuerà ad esserlo se possiede gli strumenti per costruire un ordigno nucleare o se progredisce verso questo obiettivo senza una adeguata reazione internazionale[154].

Una portavoce del ministero degli Esteri francese ha sottolineato che il rapporto dell'intelligence americana conferma in ogni caso che l'Iran non ha rispettato i suoi obblighi internazionali, e che pertanto la Francia ritiene necessario ''continuare a lavorare all'introduzione di misure restrittive nel quadro delle Nazioni Unite''. Israele ha dichiarato di voler mantenere aperta anche l'opzione militare per contrastare comunque il programma nucleare iraniano, anche se ritiene che, per il momento, debba essere percorsa la via diplomatica. Nei giorni successivi alla pubblicazione del rapporto, il ministro della Difesa israeliano Barak aveva riferito che, secondo informazioni fornite da agenzie di intelligence del proprio paese, attualmente sarebbe in corso in Iran un programma di sviluppo di armi nucleari.

Sviluppi recenti

Rispettivamente il 21 gennaio e il 4 febbraio 2008, due iniziative di Israele e dell’Iran hanno introdotto nuovi elementi di tensione: da parte israeliana è stato messo in orbita da un poligono di lancio situato in India un nuovo satellite spia, capace di fotografare ad alta risoluzione, e in qualunque condizione atmosferica, anche oggetti assai piccoli: appare evidente che uno degli scopi primari del nuovo satellite sarà il monitoraggio delle installazioni nucleari in Iran[155]. Successivamente l’Iran ha proceduto al lancio sperimentale di un missile vettore, che nei prossimi mesi dovrebbe mettere in orbita un satellite di fabbricazione interamente iraniana, presentato da Ahmadinejad come reazione all’umiliazione tecnologica inflitta per decenni dai Paesi avanzati a tutti gli altri.

Anche l’ultimo rapporto del Direttore generale dell’AIEA, El Baradei al Consiglio dei governatori sul nucleare iraniano - presentato il 22 febbraio 2008 – non incoraggia a trarre conclusioni ottimistiche.

Il rapporto informa che, pur avendo fatto progressi in tema di cooperazione in merito al suo programma nucleare, l'Iran continua tuttavia a non voler fornire chiarimenti circa aspetti determinanti delle sue attività, mantenendo così una situazione di ambiguità sui reali intenti di Teheran. L’Iran non ha poi ottemperato a quanto già previsto nelle risoluzioni ONU in precedenza illustrate, in particolare proseguendo nei processi di arricchimento dell’uranio, e anzi ha iniziato la sperimentazione di nuove centrifughe con le quali produrre in tempi più ristretti il materiale fissile.

La reazione iraniana sul rapporto è stata duplice: all’interno del paese esso è stato presentato – sintomo significativo – come suscettibile di disinnescare la tensione internazionale, in quanto favorevole a Teheran. Sul rapporto si è invece pronunciato con asprezza il portavoce del governo iraniano, per il quale le relazioni con l’AIEA sono da considerare ormai concluse, così’ come l’intera vicenda del dossier nucleare; conseguentemente, l’Iran non intratterrà più alcuna trattativa in materia, considererà come illegali ulteriori determinazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ed esigerà anzi il risarcimento dei danni provocati dai regimi sanzionatori già vigenti.

Il 3 marzo 2008 il Consiglio di Sicurezza ha approvato, con la sola astensione dell’Indonesia, la risoluzione n. 1803, che si limita a inasprire solo lievemente quanto già previsto con le precedenti nei confronti dell’Iran: in particolare, un elenco allegato alla risoluzione amplia la platea delle società e più in generale dei soggetti ed entii cui beni verranno congelati- in ragione del loro rapporto con i programmi militari e nucleari dell’Iran - nonché la lista dei funzionari ed esponenti del regime di Teheran cui saranno applicate restrizioni alla possibilità di movimento internazionale. Viene inoltre interdetta la fornitura all’Iran di beni dual use, ossia suscettibili di applicazione militare, e si esortano gli Stati membri ad un attento monitoraggio di ogni operazione finanziaria che coinvolga banche iraniane. Anche questa volta all’Iran sono concessi tre mesi di tempo per adeguarsi al disposto della risoluzione, sospendendo anzitutto i processi di arricchimento dell’uranio.

 


[La situazione in Libano]

Sviluppi recenti

Il 29 marzo 2006 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato la risoluzione 1664 che dava incarico al segretario generale dell'ONU di negoziare un accordo con il governo del Libano volto all’istituzione di un Tribunale internazionale - basato sui più alti standard di giustizia penale - per processare i responsabili dell’uccisione dell’ex premier Rafik Hariri (avvenuta a Beirut il 14 febbraio 2005): il Tribunale, poi istituito con la risoluzione 1757 del 30 maggio 2007, sta per avviare le sue attività. E’ però da tempo in funzione una Commissione internazionale investigativa indipendente (IIIC), istituita dal Consiglio di Sicurezza, incaricata di indagare sull’assassinio di Hariri e delle altre 22 persone rimaste vittima dell’attentato: nell’ultimo rapporto (28 marzo 2008), la Commissione afferma che esistono le prove che l’attacco è stato perpetrato da un gruppo organizzato e che lo stesso gruppo, o parte di esso, è da mettere in relazione ad alcuni altri casi di uccisione di uomini politici.

Sul fronte interno, intanto, procedeva con molte difficoltà il “Dialogo nazionale” tra i leader degli opposti schieramenti, quello filosiriano e quello antisiriano, per trovare un accordo sulle numerose questioni che contrappongono le due parti. Tra queste, la richiesta di dimissioni del capo dello Stato, il filosiriano Emile Lahoud (il cui mandato era stato prorogato di tre anni nell’ottobre 2004 dietro forti pressioni della Siria), avanzata dalla maggioranza antisiriana dopo la vittoria delle elezioni legislative della primavera 2005. Oggetto di trattativa anche il disarmo delle milizie di Hezbollah (previsto dalla risoluzione ONU 1559/2004) che, a partire dal ritiro israeliano del maggio 2000, controllava il confine con lo Stato ebraico.

Il Dialogo è però stato interrotto dal nuovo conflitto israelo-libanese cominciato il 12 luglio 2006 con un’offensiva verso Israele da parte di Hezbollah  il cui leader, Nasrallah, aveva promesso di catturare soldati israeliani per scambiarli con i tre libanesi detenuti in Israele. In risposta all’attacco libanese, le forze militari israeliane sono penetrate nel territorio libanese, autorizzate dal governo israeliano che ha considerato l’attacco di Hezbollah un vero e proprio atto di guerra. Sono così cominciati, da parte israeliana, bombardamenti aerei, blocchi navali e incursioni terrestri nel sud del Libano, mentre gli Hezbollah hanno bombardato città del nord di Israele tra le quali Haifa.

Il governo libanese ha condannato le azioni di Hezbollah, ha invocato fin dall’inizio il cessate il fuoco e ha chiesto alla comunità internazionale l’invio di peacemakers per porre fine al conflitto, anche se in seguito il Ministro della Difesa ha avvertito che l’esercito libanese era pronto a respingere con le armi qualunque invasione del territorio.

Dopo giorni di aspri combattimenti e nell’impossibilità di trattare per un immediato cessate il fuoco, su iniziativa dell’Italia è stata convocata una conferenza a Roma il 26 luglio 2006  per trovare una comune via d’uscita dalla crisi. I ministri degli esteri di 15 Paesi, tra i quali quelli del “gruppo di contatto” sul Libano (Usa, Italia, Francia, Russia, Gran Bretagna, Egitto, Arabia Saudita) affiancati da Onu, UE,  Banca Mondiale e lo stesso Libano hanno discusso le diverse posizioni dei paesi partecipanti al fine di raggiungere una mediazione. Esclusi dagli invitati Israele e i due paesi sostenitori degli  Hezbollah, Siria e Iran. La conferenza si è conclusa con una dichiarazione congiunta delle due presidenze - quella italiana e quella americana - che rappresenta, tra l’altro, l’urgenza posta dalla comunità internazionale per l’avvio di iniziative di assistenza umanitaria e di passi concreti che possano permettere ad un Libano libero, indipendente e democratico di esercitare un effettivo controllo su tutto il suo territorio. I partecipanti alla conferenza di Roma hanno altresì invitato Israele ad esercitare il massimo della moderazione ed hanno espresso la propria determinazione ad operare per il raggiungimento di un cessate il fuoco  tra le parti duraturo, permanente e sostenibile.

L’episodio culminante della guerra è costituito dal bombardamento di Cana (30 luglio) da parte dell’aviazione israeliana, dove sono rimasti uccisi 60 civili. Di fronte alla condanna unanime della comunità internazionale, che non si è ridimensionata nemmeno di fronte alle spiegazioni di Olmert secondo il quale la cittadina sud-libanese era divenuta una rampa di lancio di razzi verso la Galilea, Israele ha accettato una tregua aerea di 48 ore.

All’indomani della strage di Cana si è riunito in seduta straordinaria il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che tuttavia ha dovuto attendere fino all’11 agosto per l’approvazione, all’unanimità della risoluzione n. 1701.

Il documento esprime profonda preoccupazione per la situazione in Libano e pone l’incondizionata liberazione dei soldati israeliani rapiti tra gli obiettivi irrinunciabili per rimuovere le cause del conflitto, unitamente alla soluzione urgente della questione dei prigionieri libanesi detenuti in Israele.

La risoluzione invita alla completa cessazione delle ostilità, in particolare attraverso l’immediata cessazione di ogni attacco da parte dell’Hezbollah e di tutte le operazioni militari offensive da parte di Israele e prevede a tregua avvenuta, il dispiegamento congiunto delle forze libanesi e della Forza multinazionale di pace (UNIFIL) nel Libano meridionale, nonché il contestuale ritiro di Israele dalla regione.

La risoluzione, che proroga il mandato di UNIFIL al 31 agosto 2007, pone le basi per un successivo rafforzamento del suo mandato.

Dopo l’appello alla Comunità internazionale perché assuma iniziative immediate per prestare il suo aiuto finanziario e umanitario al popolo libanese, anche per la ricostruzione del Paese, la risoluzione 1701 invita alla costruzione di una fascia di sicurezza tra la “linea blu” e il fiume Litani suscettibile di prevenire una ripresa delle ostilità, nella quale vi sia esclusiva presenza di forze armate e armamenti sotto il diretto controllo del Governo libanese, assistito dall’UNIFIL. Si invita inoltre all’applicazione integrale delle pertinenti disposizioni degli Accordi di Taef – che nel 1989 posero fine alla lunga guerra civile libanese -, nonché delle risoluzioni 1559 (2004) e 1680 (2006), tutte volte al disarmo dei gruppi armati in Libano.

La risoluzione impegna il Governo libanese a sorvegliare i propri confini in modo da impedire l’ingresso illegale in Libano di armamenti e materiali connessi, e tutti gli Stati ad adoperarsi affinché armamenti, materiali bellici e assistenza tecnico-militare siano forniti solo su autorizzazione del Governo libanese o dell’UNIFIL.

Anche a seguito dell’approvazione della risoluzione 1701, accettata sia dal Governo libanese che da quello israeliano, si è arrivati, il 14 agosto 2006, alla cessazione delle ostilità.

Come reso noto in occasione della Conferenza dei donatori del 31 agosto 2006, nella guerra dell’estate tra Israele e Hezbollah sono morti più di 1.100 libanesi, di cui un terzo erano bambini sotto i 12 anni, mentre oltre un milione sono stati costretti a lasciare le loro case. I danni più ingenti comprendono il danneggiamento di 150 ponti, oltre a una fuoriuscita di petrolio che ha riversato in mare 15.000 tonnellate di greggio, inquinando 140 chilometri di costa (secondo quanto riferito dalla Inter Press Service News Agency). Nella stessa occasione, l’Alto Commissario ONU per i rifugiati ha reso noto che sarebbero rimaste danneggiate 60.000 unità abitative, di cui almeno 15.000 completamente rase al suolo, mentre 15.000 colpite da danni ingenti.

 

La cessazione delle ostilità, tuttavia, non è stata ancora seguita dalla firma di un “cessate il fuoco” permanente che avrebbe permesso anche la definitiva soluzione delle numerose questioni ancora aperte, tra le quali quella delle fattorie di Shebaa, una piccola porzione di terra, al confine tra i due Stati, che è rimasta sotto il controllo di Israele anche dopo il ritiro del 2000 e sulla quale il Libano rivendica la propria sovranità; analoga la questione del villaggio di Ghajar, attraversato dalla Linea Blu.

Ancora aperte, inoltre, le questioni riguardanti i soldati israeliani Eldad Regev e Ehud Goldwasser, catturati dagli Hezbollah il 16 luglio 2006 - dei quali non si ha più notizia - e la scarcerazione dei detenuti libanesi in Israele; il rilascio seia dei primi come dei secondi era imposto dalla risoluzione 1701 dell’ONU.

 

All’interno di Israele la fine della guerra è stata seguita da forti polemiche riguardanti la tattica adottata nelle operazioni belliche, che hanno coinvolto anche il significato della strategia dei ritiri unilaterali, che sia per quanto riguarda quello dal Libano (2000) che quello da Gaza (2005) non hanno ottenuto l’effetto sperato di aumentare la sicurezza dello Stato ebraico. Sotto la spinta dell’opinione pubblica, e in particolare dei riservisti, il governo ha deciso l’istituzione di una Commissione di inchiesta sulla conduzione del conflitto contro gli Hezbollah che, presieduta dal giudice Eliahu Winograd ha presentato le proprie conclusioni il 30 gennaio 2008.

Il rapporto Winograd è composto da oltre 600 pagine e contiene anche una parte classificata con informazioni di carattere militare. La parte pubblica del rapporto assolve sia Olmert che il ministro della difesa Peretz, in quanto hanno operato sinceramente e nell’interesse di Israele. Vengono tuttavia registrate gravi mancanze nel processo decisionale del governo e nel comportamento dei vertici militari, anche se non vengono espresse accuse di carattere personale. Il rapporto considera la guerra contro Hezbollah una occasione persa, poiché evidenzia che questi ultimi hanno potuto resistere per alcune settimane all'esercito più forte del Medio oriente, nonostante l’assoluta superiorità e che l'avanzata di terra non e' stata in grado di fermare i lanci di razzi Katiusha a breve gittata per l'intera durata del conflitto.

 

Le settimane successive al termine della guerra dell’estate 2006 sono state caratterizzate in Libano da scontri tra le forze politiche che hanno determinato una grave crisi istituzionale e un indebolimento del governo Siniora: l’opposizione filo-siriana (che si è strenuamente opposta alla creazione del Tribunale internazionale su Hariri) non ha fatto mistero di puntare alla caduta dell’esecutivo (i ministri sciiti si sono dimessi uno dopo l’altro) per ottenere la creazione di un governo di unità nazionale o, in alternativa, elezioni anticipate. Il partito Hezbollah e il suo alleato cristiano Aoun puntavano invece ad ottenere una minoranza di blocco di un terzo di propri ministri nel governo di unità nazionale, nodo sul quale si incentra lo scontro con i partiti  antisiriani.

E’ quindi in un clima di grande tensione, che si temeva potesse sfociare in una nuova guerra civile, che è avvenuto l’ennesimo attentato ad un uomo pubblico: il 21 novembre 2006 è stato assassinato il ministro dell’industria Pierre Gemayel, provocando, fra l’altro, anche un inasprimento dello scontro tra cristiani anti-siriani e i sostenitori di Michel Aoun. Aoun, come è stato appena accennato, aveva cambiato schieramento per allearsi con i gruppi filo-siriani sciiti di Hezbollah e di Amal.

Nei primi giorni del mese di dicembre 2006 ha avuto inizio una straordinaria mobilitazione popolare per chiedere le dimissioni del governo Siniora al quale veniva rimproverato, tra l’altro, un “tradimento” a favore di un’alleanza con Stati Uniti, Israele e Unione europea. Il 1° dicembre, in particolare, una manifestazione di più di un milione di libanesi (su un totale di quattro milioni scarsi di abitanti) guidati da Hezbollah, dal leader Aoun e dalle varie componenti sciite e pro-siriane, ha costretto il governo in carica, ritenuto ormai illegittimo dopo le dimissioni dei ministri sciiti, ad asserragliarsi nella sua sede. I manifestanti, minacciando il proseguimento della protesta ad oltranza, hanno chiesto le immediate dimissioni di Siniora e la formazione di un governo di unità nazionale. Nonostante la gravità della situazione, le dimissioni non sono state prese in considerazione dal premier, che ha rinviato al Parlamento l’eventuale decisione di sciogliere il governo.

Il 10 dicembre una nuova imponente manifestazione di piazza ha visto un milione e mezzo di persone (all’incirca il 40 per cento della popolazione) chiedere le dimissioni di Siniora che, con i suoi ministri rimaneva trincerato nel Palazzo del governo protetto dall’assedio iniziato il 1° di dicembre. Per la prima volta, però, anche la componente antisiriana ha organizzato una manifestazione, nella città portuale di Tripoli, a sostegno del governo: la contromanifestazione è stata organizzata dalla coalizione delle “Forze del 14 marzo” i cui due principali leader sono il druso Walid Jumblatt e il sunnita Saad Hariri, figlio dell’ex premier ucciso nel febbraio 2005.

Tentativi di mediazione per risolvere la crisi libanese sono arrivati sia dalla Conferenza episcopale maronita che dalla Lega araba. I vescovi maroniti hanno invitato le parti ad accordarsi per la formazione di un governo di intesa che permetta di arrivare pacificamente ad elezioni anticipate, prevedendo al contempo la sostituzione del discusso capo dello stato, il filosiriano Emile Lahud. Favorevole a questa proposta è anche la Lega araba il cui inviato, Mustafa Osman Ismail, dopo aver incontrato le parti, ha formulato un piano, articolato in sette punti, che, oltre ad elezioni presidenziali anticipate, propone un allargamento del governo da 24 a 30 ministri per consentire una rappresentanza paritaria di maggioranza ed opposizione.

Tra i punti più controversi vi era la creazione del Tribunale per giudicare gli imputati dell’assassinio dell’ex premier Hariri, per la cui formazione avrebbe dovuto essere convocato il Parlamento, atto che il presidente Berri si è rifiutato di compiere. Nel corso dei negoziati però, è stato raggiunto l’accordo (il 14 dicembre 2006) sulla creazione di un comitato - formato da sei personalità - al quale affidare la discussione sulla formazione di tale organismo. La crisi, tuttavia, è continuata anche nel mese di gennaio 2007, nonostante la disponibilità dichiarata da Siniora a modificare lo Statuto del Tribunale per andare incontro alle richieste degli oppositori.

La questione della successione al Presidente Emile Lahud ha cominciato ad occupare la scena politica libanese a partire dalla primavera del 2007 (in previsione della scadenza del mandato che avrebbe avuto termine il 24 novembre) e già da quel momento erano evidenti le difficoltà che l’elezione del nuovo capo dello Stato avrebbe portato con sé. Gli Accordi di Taif del 1989, che avevano posto fine alla guerra civile durata quindici anni (dal 1975 al 1990), avevano accolto e formalizzato un principio – a garanzia del pluralismo e della rappresentatività di tutte le confessioni religiose all’interno del sistema politico - secondo il quale il Presidente della Repubblica deve appartenere alla comunità cristiano-maronita, il Premier a quella musulmano sunnita e il Presidente del Parlamento a quella sciita. Ma in un paese lacerato da una crisi interna così profonda non è certamente facile trovare un accordo su una candidatura che metta d’accordo tutte le parti in causa: il governo del premier Siniora è sostenuto da Stati Uniti, Unione europea e monarchie del Golfo ma è allo stesso tempo pesantemente minacciato dall’opposizione sciita di Hezbollah, appoggiato da Iran e Siria che, nonostante abbia ritirato le proprie truppe dal Libano nell’aprile 2005, esercita tuttora una forte influenza su quel Paese. Particolare avversione aveva provocato nell’opposizione filo-siriana – come accennato - l’approvazione della bozza dello Statuto del Tribunale internazionale su Hariri, in quanto proprio la Siria veniva indicata da più parti come uno dei mandanti del feroce attentato.

Come veniva dichiarato dal leader cristiano libanese antisiriano Samir Geagea in un’intervista del maggio 2007, la crisi politica era (ed è) destinata a durare a lungo perché non si tratta di una crisi “tattica” ma è il frutto di due differenti visioni del Libano: la maggioranza antisiriana – secondo Geagea – vuole costruire un'identità libanese con frontiere ben definite e uno Stato che si faccia carico dall’interno di tutti i suoi problemi e che assuma da solo, senza influenze esterne, le decisioni strategiche necessarie. La visione del Libano di Hezbollah e del suo alleato Aoun, invece, è molto lontana da tutto questo e si scontra con quella della maggioranza parlamentare. Proprio partendo da questo assunto Geagea arrivava a mettere in discussione il principio della spartizione delle tre principali cariche tra le tre maggiori componenti religiose e rivendicava alla maggioranza parlamentare antisiriana il diritto ad eleggere un proprio candidato alla presidenza della Repubblica, nella convinzione che l’elezione di un candidato di compromesso non avrebbe in ogni caso contribuito a risolvere la grave crisi interna.

Ma oltre alla crisi istituzionale che ha condotto alla paralisi dell’attività politica e alle preoccupazioni per l’imminente scadenza del mandato presidenziale, il Libano si è trovato coinvolto, nel mese di maggio 2007, in una nuova crisi dovuta alle azioni violente di un gruppo islamista sunnita, Fatah al-Islam, ritenuto vicino sia ad al-Qaeda che ai servizi segreti siriani[156], stabilitosi nei due maggiori campi profughi palestinesi in Libano: Ein el Helweh, nei pressi di Sidone, a sud di Beirut, e Nahr el Bared, vicino a Tripoli, nel nord del Paese. Il 20 maggio 2007 si sono verificati i primi violenti scontri tra l'esercito libanese e militanti palestinesi di Fatah al-Islam, nei pressi del campo dei rifugiati palestinesi di Nahr al-Bared, nel nord del Libano. In questo campo, Fatah al-Islam ha installato il proprio quartier generale lo scorso novembre, dopo la scissione da Fatah al-Intifada, formazione armata apertamente appoggiata dal regime di Damasco.

Il governo Siniora ha reagito con forza e a partire dal 1° giugno 2007 l’esercito libaneseha lanciato un’offensiva contro i miliziani di Fatah al Islam asserragliati nel campo profughi palestinesi di Nahr al Bared; i combattimenti hanno di fatto segnato l’abbandono della prassi seguita all’Accordo del 1969 tra Libano e Lega Araba (per impulso soprattutto di Nasser), che riconosceva una completa immunità ai campi profughi palestinesi, sovente estesa anche ai movimenti delle milizie in territorio libanese.

Il pericolo di una escalation delle violenze nei campi profughi ha indotto l’OLP, e al suo interno tanto le fazioni islamiste che quelle laiche, ad inviare una forza congiunta palestinese per isolare le postazioni di Jund al-Sham (Soldati del Levante), il gruppo integralista vicino a Fatah al-Islam insediatosi nel campo profughi di Ein el Helweh, da quelle libanesi. La conclusione dell’assedio al campo profughi di Nahr al Bared si è avuta il 2 settembre, dopo più di tre mesi di durissimi combattimenti, costati la vita a 155 militari libanesi e circa 40 civili, oltre ai numerosi miliziani uccisi.

Per quanto tutte le fazioni politiche libanesi abbiano deplorato la spirale di violenza, gli scontri con i miliziani sunniti hanno aggiunto ulteriori elementi di conflitto nel già instabile scenario politico libanese. All’inizio del conflitto, i partiti filogovernativi hanno infatti sostenuto che il gruppo fondamentalista sunnita è uno strumento della Siria che deve essere sradicato senza esitazioni, mentre i gruppi d'opposizione guidati dal movimento sciita Hezbollah si sono mostrati contrari ad un confronto militareche, come effetto collaterale,  avrebbe potuto attirare al Qaida in Libano.  Secondo taluni analisti la ''cautela'' dello sciita Nasrallah nei confronti dei militanti sunniti si spiegherebbe con il desiderio di evitare che il Paese scivoli in uno scontro interconfessionale sul modello iracheno, posto che la retorica radicale di Fatah al-Islam contro sciiti e cristiani può avere ripercussioni negative sugli equilibri interconfessionali interni al Paese.

E non si è arrestata neppure la catena di attentati diretti contro uomini pubblici libanesi - quasi sempre schierati su posizioni antisiriane - cominciata nel 2005 con l’assassinio di Rafik Hariri (prima di lui, il 1° ottobre 2004, un attentato a Beirut ovest aveva “solo” ferito l’ex ministro dell’economia e deputato Marwan Hamade ma ucciso la sua guardia del corpo) .

Il 13 giugno, in un attentato sul lungomare di Beirut,  hanno perso la vita il parlamentare libanese antisiriano Walid Eido (musulmano sunnita, membro del partito al-Mustaqbal della Famiglia Hariri), suo figlio Khaled, due guardie del corpo e altri due civili. In quell’occasione il premier Fuad Siniora ha chiesto che le Nazioni Unite assicurino al Libano assistenza tecnica per scoprire i responsabili anche di questo attentato, ed ha inoltre invitato la Lega Araba ad assumersi le proprie responsabilità per “proteggere il Libano”. Da più parti sono arrivate accuse alla Siria sospettata di complicità nel grave attentato, ma la Siria ha espresso la più ferma condanna per il grave atto criminale insieme alla sua totale disapprovazione per le accuse provenienti innanzitutto dagli Stati Uniti.

Il 19 settembre un’autobomba ha provocato la morte del cristiano-maronita Antoine Ghanem, deputato del Partito delle falangi Kataeb. Insieme a lui sono rimaste vittima dell’attentato anche due guardie del corpo e quattro passanti. Dopo l’uccisione di Ghanem la maggioranza antisiriana può contare solo su 68 parlamentari, su un totale di 128.

Il 12 dicembre 2007 il generale Francois Hajj, e' rimasto ucciso assieme ad altre tre persone in un attentatocon un’autobomba a Beirut. Hajj era il secondo più alto ufficiale libanese, subito dopo Michel Suleiman, e probabile nuovo capo dell’esercito se Suleiman, come appariva in quel momento quasi scontato, fosse divenuto il nuovo capo dello Stato. L’assassinio di Hajj è stato quindi interpretato come un attacco agli accordi raggiunti in tal senso.

Il 25 gennaio 2008 un attentato, sempre effettuato con un’autobomba, nel quartiere cristiano di Furn al Shebak, ha causato la morte di cinque persone e il ferimento di altre 38. Fra i morti il capitano della polizia Wissam Eid – impegnato nelle indagini sulla strage nella quale ha perso la vita l'ex premier Rafik Hariri.

Questi attentati fanno purtroppo parte di un fenomeno ben più ampio, che denuncia una conflittualità interna, ormai da troppo tempo in atto,  che non lascia presagire facili né rapide soluzioni: i dati registrati alla fine di gennaio del 2008 rivelavano che, a partire dal 1° ottobre 2005, data del fallito attentato a Beirut ovest contro il deputato Marwan Hamade, si erano verificati 33 attentati (uno ogni 5 settimane) che avevano causato ben 79 morti e 520 feriti, per lo più fra la popolazione civile. A questi vanno aggiunte le vittime degli scontri tra sostenitori della maggioranza antisiriana e dell’opposizione di Hezbollah che hanno causato 9 morti negli scontri del gennaio 2007 ed altrettanti in quelli del gennaio 2008. (Fonte: Limes online).

Il Libano è un Paese senza capo dello Stato da quando, il 24 novembre 2007, il presidente Lahud ha rassegnato le proprie dimissioni rifiutandosi di cedere, come prevede la Costituzione, i poteri al governo Siniora, accusato da più di un anno (dall’abbandono dei ministri sciiti) di essere “incostituzionale”. Le dimissioni di Lahud sono state precedute dalla dichiarazione dello stato di emergenza e dall’affidamento della sicurezza del Paese alle Forze armate, cui sarebbero state subordinate tutte le altre forze di polizia o milizie. In mancanza di un accordo tra le parti sulla nomina del nuovo Presidente, ma anche sul futuro del prossimo governo e sulla spartizione delle cariche dell'apparato amministrativo e di sicurezza, le Forze armate si sono dimostrate più volte le uniche in grado di mantenere la stabilità all’interno del Paese e sono considerate l’unica istituzione garante dell'unità dello Stato.

La prima seduta per l’elezione del nuovo capo dello Stato era prevista per il 25 settembre 2007 ma il Presidente del Parlamento, lo sciita Berri, preso atto dell’impossibilità di raggiungere il quorum di due terzi dei votanti, richiesto per la prima seduta per l’elezione del nuovo Capo dello Stato (nei turni successivi è sufficiente la maggioranza assoluta), ha rinviato di un mese lo svolgimento della medesima. Di rinvio in rinvio (18 fino al 22 aprile) il Parlamento è ora convocato in data da definire, senza che si sia proceduto finora ad alcuna votazione.

Fin dall’inizio l’opposizione filo-siriana aveva offerto la propria disponibilità a rinunciare alla richiesta della formazione di un governo di unità nazionale se la maggioranza si fosse dichiarata disponibile a trovare un accordo su una candidatura comune (e avesse quindi abbandonato l’idea di poter eleggere un proprio candidato con la maggioranza assoluta dei voti).  Dal canto suo, Hariri aveva invece invitato l'opposizione ad abbandonare la richiesta del quorum di due terzi per eleggere il nuovo capo dello Stato in cambio dell' impegno della maggioranza a non eleggere un presidente con la metà più uno dei voti in Parlamento. Ma l’opposizione guidata da Hezbollah ha continuato a boicottare le sedute del Parlamento facendo venir meno – con la propria assenza – la possibilità (teorica) che si potesse raggiungere il richiesto quorum dei due terzi.

La prova di forza tra la maggioranza antisiriana, convinta di poter alla fine votare a maggioranza assoluta del Parlamento un proprio candidato alla Presidenza, e l'opposizione filosiriana, per la quale un'elezione presidenziale senza un ampio consenso significherebbe di fatto dare inizio al conflitto civile nel paese continua ancora. In sostanza, la spaccatura del paese tra filosiriani e antisiriani si è addensata, nell'imminenza delle elezioni presidenziali, sull'analoga divisione all'interno del campo cristiano tra i seguaci del generale Aoun, per la fazione filosiriana, e i gruppi riuniti attorno all'ex capo dello Stato Amin Gemayel e a Samir Geagea, leader del gruppo delle Forze libanesi. In questo contesto, diverse parti hanno individuato nel patriarca cattolico-maronita Nasrallah Sfeir la sola autorità capace di indicare una rosa di nomi di candidati capaci di attrarre il necessario consenso. Dopo un atteggiamento di iniziale prudenza, nel novembre 2007 Nasrallah Sfeir ha indicato la propria rosa di candidati consensuali alla Presidenza, nella quale figuravano due esponenti graditi alla maggioranza anti-siriana, quattro indipendenti e il candidato dell’opposizione filosiriana, il generale Michel Aoun, ma è stato presto chiaro che neanche sui nomi indicati dal patriarca si sarebbe raggiunta alcuna intesa.

Tra le proposte avanzate in questa fase di paralisi, va ricordata quella del leader di Hezbollah, Nasrallah che, sempre nel mese di novembre, aveva chiesto elezioni politiche anticipate per dar vita a un nuovo Parlamento avente al suo interno una maggioranza ampia per l'elezione di un nuovo Presidente.

In questo difficilissimo snodo della vita politica libanese hanno cominciato a manifestarsi voci preoccupanti per l'assetto democratico, come quella del capo dell'esercito generale Suleiman, che si è offerto di “proteggere la nazione“. In effetti, come è appena stato ricordato, il 23 novembre, alla vigilia della scadenza del mandato del Presidente Lahud, la Presidenza della Repubblica ha annunciato la dichiarazione dello stato di emergenza, con l'affidamento della sicurezza del paese alle forze armate. La misura è stata giustificata con l'ennesimo rinvio della seduta per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica: poiché l'elezione del capo dello Stato sarebbe avvenuta con la carica vacante, la dichiarazione dello stato di emergenza sarebbe valsa come misura di cautela per prevenire i pericoli del groviglio istituzionale. Questa interpretazione è stata però duramente contestata dal governo: il premier Siniora infatti questi ha negato i presunti pericoli per la pace interna del paese, richiamandosi invece alla Costituzione, secondo la quale in caso di mancata elezione del Capo dello Stato i relativi poteri passano al governo in carica. Tale governo, tuttavia, è stato più volte giudicato come illegittimo dallo stesso capo dello Stato, dopo che nel novembre 2006 era stato amputato dalle dimissioni di tutti i ministri sciiti.

La mossa di Lahud, pur suscettibile di creare allarme all'interno e all'esterno del Libano, non sembra aver modificato eccessivamente il già difficile quadro del paese: non a caso gli Stati Uniti, ad esempio, non si sono mostrati aprioristicamente contrari a una funzione di garanzia della sicurezza esercitata dalle forze armate, purché finalizzata allo sbocco democratico previsto (ma si ricordi che il Presidente uscente Lahud è collocato nettamente nello schieramento filosiriano).

Le fazioni politiche in campo hanno riconfermato di non voler sconvolgere l'equilibrio del paese, il che sembra una tacita accettazione del ruolo di garanzia assunto dalle forze armate. Il capo del governo in carica, Siniora, si è intanto affrettato a incontrare il patriarca Nasrallah Sfeir e a ribadirgli di voler rispettare la Costituzione, che prevede comunque l'elezione al vertice dello stato di un cristiano maronita. E d'altra parte è chiaro che proprio la comunità cristiana libanese si trova attualmente nelle più gravi difficoltà: la divisione tra l’ala fedele al generale Michel Aoun e la restante parte della comunità, raccolta intorno alla famiglia Gemayel e alle Forze libanesi di Samir Geagea potrebbe provocare la perdita della casella istituzionale suprema, che alla comunità cattolico maronita spetta in base alla Costituzione.

Un segnale incoraggiante di buona volontà è venuto il 26 novembre dal leader druso Walid Jumblatt, appartenente allo schieramento antisiriano, che sorprendendo tutti ha lanciato un appello per un compromesso con le fazioni filosiriane libanesi: rispetto al superamento delle difficoltà interne, secondo Jumblatt, anche l’applicazione delle risoluzioni dell’ONU – che lo stesso Jumblatt aveva sin qui invocato con forza e rigore - può essere posta in secondo piano e differita. La mossa di Jumblatt sembra sia stata motivata dalla necessità di svincolare la situazione libanese dalla Conferenza di Annapolis che si sarebbe svolta di lì a poco, nella quale, in cambio di un atteggiamento comprensivo della Siria in merito alla questione israelo-palestinese, si temeva che gli Stati Uniti potessero fare concessioni che avrebbero fatto ripiombare il Libano in una grave dipendenza da Damasco.

Nel mese di dicembre le forze politiche sembravano aver trovato finalmente un’intesa su un candidato comune alla presidenza: il comandante dell'esercito, generale Michel Suleiman, cattolico-maronita, cui viene riconosciuto il merito, tra l’altro, di essere riuscito - dal 2005 - a mantenere neutrale l'apparato militare e ad evitare che la tensione tra la maggioranza parlamentare antisiriana e l’opposizione guidata da Hezbollah causasse episodi diffusi di violenza. Per poter eleggere Suleiman, tuttavia, sarebbe stato necessario emendare l’articolo 49 della Costituzione, che vieta ai massimi funzionari statali di partecipare ad elezioni. Per superare tale problema, Nabih Berri, presidente del Parlamento, ha tempestivamente formato un comitato giuridico ad hoc per studiare il modo di modificare correttamente la Costituzione. Ma anche cercare di raggiungere un’intesa sulle modalità di approvazione dell'emendamento alla Costituzione non si è dimostrato compito facile: non solo Hezbollah e Aoun avevano subordinato l’approvazione della candidatura di Suleiman alle preventive dimissioni del gabinetto Siniora, ma Aoun ha dichiarato che non avrebbe dato il suo assenso  ad alcun emendamento costituzionale in assenza di un accordo politico globale sul futuro governo, che dovrebbe garantire all’opposizione il 45 per cento delle cariche ministeriali e la nomina di un “premier di compromesso”, condizioni entrambe rifiutate dalla maggioranza.

Un tentativo di mediazione per rimuovere gli ostacoli all'elezione a presidente della Repubblica del comandante in capo dell'esercito, Suleiman, è stato portato avanti dal  ministro degli esteri francese Bernard Kouchner che, il 5 dicembre - alla sua settima missione in Libano da maggio - ha incontrato il premier Siniora, il Patriarca cattolico-maronita Nasrallah Sfeir, il presidente del Parlamento e leader sciita d'opposizione Nabih Berri, il leader della maggioranza parlamentare antisiriana Saad Hariri e il leader cristiano d'opposizione Michel Aoun. Nonostante le dichiarazioni ottimistiche di Kouchner, l’accordo - che sembrava ad un passo dall’essere definito - non è stato concluso e tale fallimento è stato per di più seguito dalle dichiarazioni del Presidente Sarkozy, il 30 dicembre, che ha annunciato un interruzione dei contatti con la Siria fino a quando questa non dimostrerà di essere pronta a lasciare che il Libano elegga il suo presidente.

Un ulteriore tentativo di sbloccare la situazione di impasse, con tutti i pericoli di destabilizzazione che essa porta con sé, ha visto (e vede ancora) impegnato Amr Mussa, segretario generale della Lega Araba. All’inizio di gennaio  Mussa si è recato a Beirut per tentare di convincere l’opposizione filo-siriana ad aderire ad una proposta presentata da 22 paesi arabi (sulla quale ha subito dato il proprio assenso la maggioranza parlamentare libanese) che chiedeva l'immediata elezione di Suleiman a Capo dello Stato, proponeva la riforma della legge elettorale e presentava un piano per la formazione contestuale di un nuovo governo. In base a tale piano, la maggioranza e l'opposizione avrebbero avuto ciascuna un terzo dei ministri, mentre il restante terzo sarebbe stato deciso da Suleiman.

La situazione si è ulteriormente aggravata verso la fine di gennaio quando un’autobomba ha causato la morte di quattro persone, fra le quali il capitano di polizia  Wissam Eid e il ferimento di altre 38 (25 gennaio) e soprattutto quando una manifestazione contro le continue interruzioni di elettricità a Beirut (27 gennaio) è degenerata in violenti scontri tra manifestanti ed esercito nel corso sono morte nove persone e decine sono rimaste ferite. Il giorno seguente, il 28 gennaio, è stata proclamata dal premier una giornata di lutto nazionale.

La morte in un attentato di Imad Mughniyeh, ucciso a Damasco il 12 febbraio non ha di certo contribuito a calmare gli animi. Mughniyeh era il capo del braccio operativo di Hezbollah, da anni ricercato dalla giustizia americana per una lunga serie di attentati in Libano e all'estero negli anni '80 e '90. Mentre il leader di Hezbollah Nasrallah, nel corso dei funerali di Mughniyeh minacciava guerra aperta a Israele - i cui servizi segreti sono ritenuti da Hezbollah responsabili dell’attentato – la maggioranza anti-siriana organizzava una grande manifestazione con la parola d’ordine “no alla cultura della morte”. Hariri e Jumblatt, inoltre, hanno lasciato capire di ritenere responsabile della morte di Mughniyeh  il regime siriano.

Così come tensione ha creato la decisione degli Stati Uniti, annunciata il 29 febbraio, di inviare il cacciatorpediniere lanciamissili Cole al largo delle acque libanesi per “appoggiare la stabilità regionale” in appoggio alle forze marittime dell’ONU. Nonostante i chiarimenti forniti da Siniora, che ha smentito qualsiasi richiesta del governo agli americani in tal senso, l’opposizione ha reagito duramente, accusando gli USA di voler appoggiare i propri alleati locali con la minaccia di navi da guerra.

Nuove critiche agli Stati Uniti sono state avanzate dal presidente del Parlamento Berri dopo che gli USA avevano deplorato l’ennesimo rinvio (10 marzo) della seduta per l’elezione del capo dello Stato. Berri, appartenente all’opposizione sciita, ha accusato gli USA di aver ostacolato i tentativi di risolvere la crisi istituzionale e, fra questi, la mediazione della Lega araba e quella francese.

Il 29 e il 30 marzo si è svolto a Damasco il 20° Vertice della Lega araba. Alla riunione non ha partecipato il Libano, che ha accusato la Siria di ostacolare la soluzione della crisi che sta paralizzando la vita istituzionale del Paese. La Siria aveva pubblicizzato il Vertice come un'occasione per unire gli arabi intorno all'impegno comune di porsi a fianco dei palestinesi e per risolvere le questioni irachena e libanese. Ma il governo libanese rifiuta alla Siria un ruolo di mediazione nell'attuale impasse politico-istituzionale, oltre a non voler riconoscere a Damasco alcun ruolo regionale.

Nell’annunciare l’assenza del Libano al Vertice, il premier Siniora ha dichiarato che per avviare un nuovo capitolo nella storia dei rapporti tra Libano e Siria sono necessari alcuni cambiamenti, tra i quali relazioni diplomatiche tra governo e governo e non tra governo e parti politiche o militari.  Il premier ha quindi chiesto alla Siria di chiudere le basi dei guerriglieri palestinesi in Libano e di risolvere la questione dei detenuti libanesi in Siria. Quanto al rapporto con Israele, Siniora ha chiesto la demarcazione della frontiera comune, in particolare nella contesa zona di Shebaa – ancora sotto controllo israeliano – per permettere al Libano di liberare i suoi territori e tornare alla negoziazione di un accordo di tregua con Israele. Infine, Siniora ha chiesto ancora ai leader arabi di collaborare in direzione di un miglioramento dei rapporti tra Libano e Siria, per esempio con la convocazione di una riunione straordinaria dei ministri degli esteri arabi.

Il Regno Saudita ha deciso di partecipare al Vertice della Lega Araba solo “a basso livello” per protestare implicitamente contro l’ingerenza siriana e iraniana nella vita politica del Libano, accusando l’opposizione parlamentare libanese di avere sistematicamente respinto tutte le proposte arabe per risolvere la crisi istituzionale.

L’azione diplomatica italiana per la soluzione della crisi libanese

L’Italia ha svolto un ruolo molto attivo per la pacificazione del Libano sconvolto dalla guerra del luglio-agosto 2006. Già il 26 luglio, a pochi giorni dall’inizio delle azioni militari, su iniziativa del nostro paese, è stata convocata la Conferenza di Roma dalla quale ha avuto origine la richiesta della autorizzazione all’invio di una forza internazionale in Libano sotto il mandato ONU.

Dopo la cessazione delle ostilità, si ricorda la visita in Libano del Ministro degli esteri D’Alema (20 dicembre) durante la quale il ministro si è detto in favore dell’iniziativa della Lega araba per il raggiungimento di un accordo di collaborazione tra le parti, anche se ha espresso riserve circa il coinvolgimento della Siria nelle trattative di pace. A pochi giorni di distanza (24 dicembre) anche il  Presidente del Consiglio ha effettuato una visita a Beirut, seguita da un incontro con il contingente italiano inquadrato nella forza di interposizione delle Nazioni Unite.

Inoltre, una delegazione delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera ha compiuto il 18 e 19 gennaio 2007 una missione in Libano, al termine della quale è stata ribadita la necessità del rispetto scrupoloso, da parte di tutti i contendenti, della risoluzione 1701 del consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha posto fine al conflitto israelo-libanese dell’estate 2006. La delegazione del Parlamento italiano ha inoltre sostenuto la tesi della sovranità libanese sul territorio circostante alle fattorie di Sheeba, sovranità non riconosciuta da Tel Aviv.

Esattamente un mese dopo è stata la volta di una delegazione delle Commissioni Esteri e Difesa del Senato, la quale ha constatato la sostanziale tenuta della tregua assicurata dalla risoluzione 1701 e dalla missione UNIFIL. D’altro canto, però, la situazione interna libanese si è mostrata bloccata in una preoccupante impasse.

Si ricorda inoltre la visita del Presidente della Camera, on. Fausto Bertinotti, in alcuni Paesi del Medio Oriente, iniziata il 5-6 maggio 2007 proprio dal Libano, ove ha incontrato esponenti di governo e di opposizione, oltre a recarsi presso la base italiana nell’ambito della missione UNIFIL.

I temi libanesi hanno poi costituito uno dei principali argomenti discussi il 5 giugno 2007 durante la visita del Ministro degli Esteri D’Alema a Damasco e a Beirut.

In Siria, il Ministronon ha mancato di rappresentare al Presidente Bashar Al Assad l’insostenibilità dello stallo politico libanese, soprattutto dopo l’inizio dei combattimenti nei campi profughi palestinesi. Damasco da parte sua ha ribadito di non avere alcun legame con i qaedisti di Fatah Al-Islam: ai giornalisti che gli chiedevano di specificare tale affermazione, il Ministro siriano si è limitato ad accusare l'invasione statunitense dell'Iraq che "ha attivato la presenza di Al Qaeda nel Paese e la sua diffusione in Siria e in Libano". Da parte sua, il Ministro D’Alema ha manifestato la volontà del Governo italiano di "rilanciare un rapporto di collaborazione con la Siria" ed incoraggiarne un "contributo positivo e attivo" per la soluzione delle crisi regionali, dal Libano, all'Iraq, sino al conflitto israelo-palestinese. In merito al Tribunale speciale, la Siria ha ribadito che avrebbe preferito che una tale decisione fosse stata presa dalle autorità e dal Parlamento libanesi, anziché dalle Nazioni Unite. In ogni caso, ha aggiunto D'Alema, questo Tribunale "non vuole costituire una minaccia nei confronti di nessuno, ma vuole essere una garanzia di giustizia".

A Beirut, il Ministro degli Esteri italiano ha quindi portato il messaggio di disponibilità della Siria a cooperare sulle più importanti questioni regionali. In particolare, durante la visita, D'Alema ha espresso la sua solidarietà "al Libano, al popolo libanese e alle forze armate per l'attacco che hanno subito" da parte dei qaedisti asserragliati nei campi profughi palestinesi nel nord e nel sud del Paese, nonché un particolare apprezzamento per la "risposta forte del governo Siniora, sostenuta dalla grande maggioranza dei gruppi palestinesi e dalla totalità delle forze politiche libanesi" che va, però, equilibrata con l'impegno a "evitare le sofferenze dei civili palestinesi". Il titolare della Farnesina ha poi voluto ricordare il "consenso italiano alla decisione del Consiglio di Sicurezza di istituire un Tribunale per accertare le responsabilità dell'omicidio dell'ex premier libanese Rafik Hariri"; un Tribunale che, ha ribadito, "non è una minaccia verso nessun paese”, ma anzi, è un modo per dimostrare che "il Libano non intende più subire il condizionamento della violenza e dell'omicidio politico".

Il ministro D'Alema è tornato a occuparsi direttamente della situazione libanese in una missione congiunta con i colleghi francese Kouchner e spagnolo Moratinos, conclusasi il 20 ottobre 2007. Le risultanze della missione hanno messo in rilievo l'indubbia delicatezza della situazione di stallo politico nel paese, impossibilitato a trovare un candidato capace di raccogliere consensi sufficienti per vincere nelle elezioni presidenziali. I tre ministri hanno peraltro rilevato in tutte le parti incontrate una comune consapevolezza della necessità indefettibile di un accordo per salvare il Libano. La delegazione si è inoltre recata in visita ai militari della missione UNIFIL, nella quale vi sono contingenti dei tre Paesi. Il terzetto di ministri degli Esteri ha poi compiuto, nella situazione di stallo rivelatasi insuperabile, una nuova missione-lampo il 22 novembre.

Il 25 novembre 2007 il Presidente del Consiglio Romano Prodi, intervenendo al Parlamento degli Emirati Arabi Uniti, ha esortato tutte le forze politiche libanesi ad assumersi le proprie responsabilità, mettendo fine alle divisioni che paralizzano il Libano e ne pregiudicano la ricostruzione dopo il conflitto del 2006. Ricordando anche l'impegno forte assunto dall'Italia nella missione UNIFIL rinnovata, il Presidente Prodi ha caldeggiato il mantenimento del Libano come modello di convivenza tra diverse confessioni religiose.

 


L’Italia e le Nazioni Unite

La riforma delle Nazioni Unite

Negli ultimi anni le Nazioni Unite (intese come “sistema” che comprende non solo le strutture centrali permanenti ma anche programmi, agenzie specializzate e fondi) hanno avviato un processo di riforma, finalizzato a rafforzare l'efficacia dell'organizzazione e a renderla più aderente alle istanze della politica internazionale del terzo millennio.

Tale processo è stato intrapreso a più livelli ed in diverse sedi. Tra di esse il World Summit, che si è svolto nel settembre 2005 a margine della 60a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel cui documento finale (Outcome Document) viene dichiarato l’obiettivo di rafforzare l’autorità e l’efficienza dell’Onu, ossia di riformare l’Organizzazione affinché possa affrontare le sfide attuali con quella legittimità ed autorevolezza necessarie anche per garantire l’applicazione delle decisioni che periodicamente adotta. Per quanto riguarda i due principali organi delle Nazioni Unite, l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza, l’Outcome Document si limita a fornire alcune indicazioni di carattere generale.

Le proposte di riforma dell’Assemblea generale contenute nel Documento Finale del 2005, sono volte a migliorare l’efficienza dell’Assemblea, a rafforzare il ruolo e l’autorità del suo Presidente, nonché a intensificare le relazioni dell’Assemblea con gli altri organi delle Nazioni Unite, al fine di garantire il coordinamento sulle questioni che richiedono un intervento concertato e di evitare le troppo frequenti sovrapposizioni. Il vertice del settembre 2005 ha istituito un Gruppo di lavoro ad hoc per la rivitalizzazione dell’Assemblea Generale.

La necessità di una riforma del Consiglio di Sicurezza è anch’essa da molti anni oggetto di dibattito, anche in seno all’Assemblea Generale, che tuttavia non è ancora riuscito a trovare un esito concreto, a causa della molteplicità e diversità di interessi  di cui sono portatori gli Stati membri che vorrebbero entrare a farne parte. Si rammenta che qualsiasi modifica di disposizioni contenute nella Carta necessita della maggioranza dei due terzi dell’Assemblea Generale. Il dibattito in corso verte da tempo sui temi dell’allargamento del Consiglio di sicurezza, del potere di veto, della rappresentanza regionale, dei metodi di lavoro e delle relazioni con l’Assemblea generale. Il vertice del 2005 ha riconosciuto al Consiglio di sicurezza il ruolo di primo responsabile nel mantenimento della pace e della sicurezza, con compiti che si sono andati estendendo nel tempo, ed ha sostenuto l’opportunità di una riforma complessiva che lo renda maggiormente rappresentativo, più efficiente e più trasparente. Nella stessa sede si raccomandava, inoltre, l’adozione di metodi di lavoro tali da consentire il coinvolgimento degli Stati non membri del Consiglio. Il mancato accordo sulla riforma del Consiglio di sicurezza ha deluso le aspettative di cambiamento volte a rendere l’organo più attuale e confacente alla situazione internazionale[157]. Come è noto, il Consiglio di Sicurezza si compone di 15 membri, di cui soltanto 5, i principali Stati vincitori della II Guerra Mondiale, restano membri permanenti, nonché gli unici a poter esercitare il diritto di veto su qualsiasi decisione del Consiglio.

L’Assemblea Generale si è occupata della questione il 20-21 luglio 2006 (60a Sessione). Il dibattito ha visto il confronto dei tre schieramenti principali:

·         il Gruppo c.d. G4, costituito da Giappone, Germania, India e Brasile, che chiede un incremento di 6 nuovi seggi permanenti senza diritto di veto e 4 non permanenti, e che porterebbe il numero dei seggi del Consiglio ad un totale di 25 membri, di cui 11 permanenti e 14  elettivi; la proposta è stata tradotta in un progetto di risoluzione, identico a quello presentato nel corso della 59a Sessione ma, questa volta, senza l’adesione del Giappone che sta cercando una nuova strada per ottenere l’appoggio determinante degli USA.

·         il Gruppo dei Paesi africani, che chiede di elevare a 11 il numero dei membri permanenti – di cui 2 africani – tutti con diritto di veto, e a 15 i membri elettivi, di cui 5 riservati all’Africa, per un Consiglio di sicurezza composto complessivamente da 26 membri; anche in questo caso è stata ripresentata  - questa volta da Nigeria, Sudafrica, Ghana e Senegal - la proposta di risoluzione già formulata nella Sessione precedente dalla stragrande maggioranza degli Stati africani, sulla base degli accordi raggiunti in seno all’Unione Africana. Il consenso del numeroso Gruppo dei paesi africani (53 seggi) è essenziale per raggiungere il quorum prescritto per la riforma del Consiglio di Sicurezza.

·         il Gruppo United for Consensus - tra cui Italia, Canada, Pakistan, Spagna, Argentina, Messico e Corea - che avversa qualunque ipotesi di aumento del numero dei paesi aventi diritto di veto, proponendo la creazione di 10 nuovi seggi non permanenti (rieleggibili) da assegnare sulla base di criteri di rappresentanza regionale. Il movimento United for Consensus aveva presentato nel 2005 un proprio progetto di risoluzione sulla riforma del CdS, alternativo a quello del G4, che prevedeva l'allargamento del CdS a 25 membri con la creazione di dieci nuovi seggi con un mandato di due anni. Sarebbe spettato ai cinque gruppi geografici all'ONU definire al proprio interno le modalità di elezione/rielezione (nel caso abolendo l'attuale divieto di rielezione immediata) e gli eventuali meccanismi di rotazione sui nuovi seggi. Tale facoltà era intesa a garantire la responsabilizzazione dei membri del Consiglio nei confronti dei gruppi regionali di appartenenza. Inoltre, assicurando a tutti gli Stati membri la possibilità di concorrere per l'elezione e – ove gli accordi in seno ai singoli gruppi regionali lo avessero preveduto – per la rielezione ai nuovi seggi, la proposta di United for Consensus rispettava il principio della eguaglianza tra gli Stati membri, lasciando tuttavia aperta la possibilità di presenze più prolungate per i membri in grado di dare un maggiore contributo alla pace e alla sicurezza.

La posizione italiana in materia di riforma del Consiglio di sicurezza si è sempre caratterizzata per la ferma contrarietà ad ogni ipotesi di allargamento che comporti l'aumento del numero dei membri permanenti, in quanto esso non è ritenuto dal nostro Paese utile ad accrescere l'efficacia dell'azione del Consiglio né tanto meno  la sua rappresentatività. L’Italia ritiene, al contrario, che l’aumento dei membri permanenti rafforzerebbe il carattere gerarchico del Consiglio di Sicurezza con la conseguenza che i poteri decisionali - primo fra tutti la legittimazione dell'uso della forza – resterebbe nelle mani di un numero assai limitato di Stati, perpetuando in tal modo assetti non più rispondenti alla complessità e all'articolazione dell'attuale situazione delle relazioni internazionali. L’Italia ha quindi sempre caldeggiato riforme centrate sulla periodica elezione dei nuovi membri del Consiglio, unico strumento per assicurare una loro effettiva responsabilizzazione nei confronti della membership, anche nella consapevolezza della necessità di garantire presenze prolungate in Consiglio ai Paesi con maggiori strumenti per contribuire alla pace e alla sicurezza. L’Italia, inoltre, così come gli altri Paesi del Gruppo Unitied for Consensus, ha da sempre sostenuto la necessità di raggiungere consensi molto ampi per riforme di portata costituzionale, come quella del Consiglio di Sicurezza, che dovrebbero essere approvate con maggioranze larghissime.

 

Nel corso della 60a Sessione dell’Assemblea generale sono stati presentati due progetti di risoluzione (quello del G-4 e quello del Gruppo dei Paesi africani), ma il dibattito è terminato senza alcuna richiesta di votazione su di esse, stante l’acclarata impossibilità di raggiungere la soglia procedurale di 128 voti stabilita dall’Assemblea per l’approvazione di qualsiasi documento inerente la riforma del Consiglio di sicurezza. Il dibattito sulla riforma del Consiglio di sicurezza ha quindi subito una battuta d’arresto nonostante i tentativi di allargare i consensi, fra i quali si annovera quello avviato dal gruppo G4 e dal Gruppo degli africani per avvicinare i rispettivi progetti di riforma. Il cosiddetto G-4 ha cercato da ultimo di rilanciare una intesa al fine di promuovere un rapido aggiornamento della composizione del Consiglio entro la conclusione dell’Assemblea generale in corso.

La soluzione dell’ingresso in blocco delle quattro potenze regionali continua tuttavia a suscitare divisioni  all’interno delle Nazioni Unite: al Giappone si oppongono sia la Corea del Sud che la Cina (che negli ultimi tempi ha cominciato a sostenere la posizione del Gruppo United for Consensus), al Brasile quasi tutti i Paesi dell’America Latina, all’India il Pakistan e il Bangladesh – che continuano a rivendicare il loro contributo di uomini al peacekeeping dell’ONU – mentre l’ipotesi di un seggio permanente alla Germania rischierebbe di mettere in crisi le ambizioni di una politica estera unitaria dell’Unione europea.

Tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, gli Usa sostengono l’ingresso del Giappone ma si oppongono alla proposta del G4, anche perché ritengono eccessivo un allargamento del numero dei seggi fino a 25. La Russia, invece, anche se favorevole alla proposta italiana, mantiene di fatto una posizione più defilata.

Tra le proposte alternative che si cominciano ad affacciare, si segnala quella di Panama, che prevede un allargamento del Consiglio di Sicurezza a 21 membri, con un incremento quindi di 6 membri che sarebbero eletti per un periodo di 5 anni; la rielezione per la quarta volta consecutiva di un membro ne determinerebbe l’automatico cambiamento di status in membro permanente, ma senza potere di veto.

Analoga a questa proposta, quella di Cipro, che prefigura un Consiglio di Sicurezza composto da 23 membri con la creazione di 8 membri eletti per 2 anni: anche in questo caso, dopo 5 elezioni consecutive, il Paese rieletto assumerebbe lo status di membro permanente.

L’8 febbraio 2007 la Presidente dell’Assemblea generale, Haya Rashed al-Khalifa, ha nominato – sulla base delle provenienze regionali -  cinque ambasciatori con il compito di avviare consultazioni con gli Stati membri per facilitare e ridare slancio al dibattito sulla riforma del Consiglio di Sicurezza, dibattito che è stato contemporaneamente riavviato all’interno dell’organismo ad hoc istituito in seno all’Assemblea Generale,  il “Working  Group on  the  Question of  Equitable  Representation  on and  Increase in the  Membership  of  the Security Council”.

A fronte di tale situazione, il Ministro degli Esteri D'Alema, in una conferenza stampa del 23 febbraio con la presidente dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha assicurato il sostegno dell’Italia alla proposta di consultazione lanciata dalla presidenza dell’Assemblea generale, alla quale ha dichiarato di voler partecipare “con animo aperto” affinché si arrivi a "nuove soluzioni" sulla riforma del Consiglio di Sicurezza; ha inoltre ribadito che tra le diverse posizioni che si confrontano, l’Italia continua a favorire un meccanismo più democratico di rotazione, quale quello ipotizzato dal movimento United for consensus, che prevede, come accennato, la creazione di seggi semipermanenti da assegnare sulla base di criteri di rappresentanza regionale.

 

Il Consiglio economico e sociale (ECOSOC) è il principale organo per il coordinamento, la valutazione delle politiche e la formulazione di raccomandazioni sui temi dello sviluppo economico e sociale. Nel sopra citato Outcome Document si auspicava un rafforzamento del ruolo dell’ECOSOC incaricandolo, tra l’altro, della promozione di un dialogo globale sulle tematiche dello sviluppo. Facendo seguito alle raccomandazioni contenute nell’Outcome Document, l’Assemblea Generale ha adottato, il 20 novembre 2006 la risoluzione 61/16 per il rafforzamento del Consiglio economico e sociale. La risoluzione sottolinea il ruolo centrale dell’ECOSOC nel coordinamento delle politiche sociali ed economiche, responsabile della verifica puntuale del conseguimento degli obiettivi di sviluppo fissati da conferenze e vertici dell’ONU e dispone che il Consiglio debba continuare a promuovere il dialogo globale attraverso, tra l’altro, l’utilizzazione di strumenti già esistenti, tra i quali le riunioni ad alto livello con le Istituzioni di Bretton Woods, del WTO e la Conferenza ONU sul Commercio e lo Sviluppo.

 

Se le condizioni per una riforma del Consiglio di sicurezza non sono ancora maturate, occorre ricordare quali elementi di rilievo le due recenti innovazioni organizzative (entrambe previste dal World Summit del 2005): l’istituzione del Consiglio per i diritti umani e della Commissione per il peacebuilding,.

 

Il Consiglio per i diritti umani, che ha sostituito la precedente Commissione, ha il compito di promuovere la protezione dei diritti umani a livello internazionale e di curare il coordinamento con gli altri organi delle Nazioni Unite. Nel corso della prima sessione, che si è svolta dal 19 al 30 giugno 2006, il Consiglio ha adottato la Convenzione Internazionale contro le sparizioni forzate delle persone e la Dichiarazione sui diritti dei popoli autoctoni.

 

La Commissione per il peacebuilding ha invece il compito di riunire tutti gli attori rilevanti per la mobilitazione delle risorse e per la definizione di strategie complessive per il peacebuilding e il ripristino delle condizioni di normalità dopo un conflitto, con particolare riferimento alla ricostruzione, al rafforzamento delle istituzioni e all’elaborazione di strategie per uno sviluppo sostenibile. La Commissione, che si è riunita per la prima volta il 23 giugno 2006, si convoca in varie configurazioni ed è costituita da un Comitato organizzativo, di cui l’Italia fa parte, e da Comitati che rappresentano specifici paesi.

Infine, si ricorda che - al di là della questione della riforma del Consiglio di Sicurezza - una più generale riforma interna è anch’essa una questione da molto tempo all’ordine del giorno delle Nazioni Unite. Negli anni i diversi Segretari generali che si sono succeduti hanno spesso riorganizzato dipartimenti e introdotto nuove linee di comando. Ma la questione ha assunto nuovi contorni a seguito del World Summit del 2005, nel quale è apparsa dominante la posizione di coloro - gli Stati Uniti, in particolare - che sostengono che le Nazioni Unite non debbono essere considerate un “governo”, bensì andrebbero amministrate come se si trattasse di una azienda di cui il Segretario generale dovrebbe essere il principale degli “Executive Officer”. L’Outcome document  del World Summit riconosce quindi la debolezza amministrativa dell’Organizzazione e la necessità di accrescere l’indipendenza delle strutture di controllo, rilevando altresì l’esigenza di introdurre nuovi criteri e modalità per la gestione delle risorse umane e finanziarie. Il documento sostiene pertanto la riforma interna avviata dall’ex Segretario generale K. Annan, finalizzata in particolare a rafforzare la responsabilità e il controllo, migliorare la qualità e la trasparenza della gestione e rafforzare l’eticità della condotta dei funzionari. A tale ultimo proposito si ricorda che in seguito al World Summit 2005 è stato istituito l’Ufficio per l’Etica, avente il compito di assistere il Segretario generale nella verifica del rispetto dei più alti standard di integrità richiesti allo staff dalla Carta delle Nazioni Unite, attraverso la promozione della deontologia professionale e della trasparenza.

 

All’indomani dell’insediamento, il nuovo Segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha presentato alcune proposte di riforma del Segretariato, sostenute da USA e UE, ma criticate dalla maggioranza dei Paesi del Terzo Mondo riuniti nel Gruppo dei G-77 (ora formato da 130 paesi e presieduto dal Pakistan) e nel Gruppo dei non-allineati (attualmente presieduto da Cuba).

La nuova proposta di Ban Ki-moon – che tiene in parte conto delle critiche avanzate – prevede la trasformazione del Dipartimento per il Disarmo (DDA) in un Ufficio alle dirette dipendenze del Segretario generale, sotto la guida di un Rappresentante Speciale (la proposta iniziale prevedeva l’incorporazione del DDA nel Dipartimento per gli affari politici – DPA – di cui sarebbe stato responsabile un terzo Vice Segretario generale.)  Rimane invece immutata la proposta di divisione del Dipartimento per le Operazioni di mantenimento della pace (DPKO) in due Dipartimenti (uno per la conduzione delle operazioni sul terreno e uno per la logistica), alle dipendenze di due Vice Segretari generali.

Il 15 marzo 2007 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato due risoluzioni che riguardano la ristrutturazione del Segretariato e, in particolare, il rafforzamento del Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping e l’istituzione di un Ufficio per il Disarmo.

 


La cooperazione internazionale

La normativa nazionale

Premessa

La politica italiana di cooperazione allo sviluppo ha assunto un assetto sistematico a partire dal 1979, data dalla quale la crescita qualitativa e quantitativa degli interventi in diverse aree geografiche ha reso necessario un riordino complessivo della materia (legge 49/1987 vigente), tale da rendere la cooperazione allo sviluppo un aspetto essenziale della politica estera del nostro Paese.

La cooperazione bilaterale italiana agisce in base a criteri di priorità geografica e di concentrazione degli aiuti, realizzando piani di intervento integrati. Questi a loro volta possono limitarsi ad assistenza tecnica, ovvero estendersi alla messa in atto di progetti  più complessi.

 Uno degli aspetti più importanti della cooperazione italiana risiede nel trasferimento di conoscenze scientifiche e tecniche disponibili nel sistema produttivo nazionale e nella rete delle istituzioni di ricerca. Non va inoltre trascurato il ruolo delle Regioni e degli Enti locali (cosiddetta “cooperazione decentrata”), le cui iniziative sono coordinate a livello centrale in un’apposita struttura presso la Direzione generale della cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari Esteri.

Un’altra parte importante della politica di cooperazione allo sviluppo è attuata mediante collaborazione con organismi multilaterali internazionali. La partecipazione italiana alla dimensione multilaterale allo sviluppo si attua anzitutto mediante il cofinanziamento del capitale di varie banche e fondi di sviluppo; inoltre rileva particolarmente il sostegno al bilancio e alle attività di vari organismi internazionali, tra i quali fanno spicco gli Istituti specializzati dell’ONU.

Non va poi dimenticato che l’Italia compartecipa agli stanziamenti per l’aiuto allo sviluppo determinati in sede di Unione Europea. Quasi un terzo dell’APS italiano è canalizzato tramite la Commissione Europea, per due distinte finalità:

1) quale quota-parte nazionale dovuta al Fondo Europeo di Sviluppo (FES), per finanziare le attività previste dal nuovo accordo ACP-UE, firmato a Cotonou nel giugno 2000 (la quota italiana per il IX FES-2002/2007 è pari al 12,54 %; il X FES, che copre il periodo 2008-2013, dispone di una dotazione finanziaria di oltre 24 miliardi di euro, circa il 35% in più rispetto al IX FES, che giunge a termine a dicembre 2007. Nel periodo 2008-2013 l’Italia verserà al X FES 2.916.905.200 di euro mantenendo il quarto posto tra i paesi contributori - dopo Germania, Francia e Regno Unito;

2) come contributo dell’Italia (il 13% circa) per le attività ordinarie sul bilancio comunitario a titolo di aiuto allo sviluppo.

Ulteriore aspetto fondamentale della cooperazione allo sviluppo è nel ruolo del settore privato dell’economie dei PVS. Va infatti notato che i flussi finanziari originati dall’APS a livello internazionale verso i PVS rappresentano soltanto un quinto del totale dei movimenti di capitali privati e degli investimenti diretti (IDE) verso i PVS. In tale contesto, uno dei risultati fondamentali della Conferenza di Monterrey sul finanziamento dello sviluppo risiede nella nozione per la quale l’APS è fondamentale per instaurare nei PVS un ambiente economico favorevole al settore privato e capace di attrarre ulteriori investimenti.

Quadro normativo

La più recente regolamentazione organica in Italia in materia di cooperazione allo sviluppo, come sopra già ricordato, è rappresentata dalla legge 26 febbraio 1987, n. 49, "Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo",la cui adozione poté poggiare su un vasto consenso politico. La legge pone come fine della cooperazione allo sviluppo sia gli interventi di medio-lungo periodo, sia gli interventi straordinari.

Essa introduce inoltre una notevole innovazione definendo la cooperazione come parte integrante della politica estera dell'Italia, differenziando così lo strumento della cooperazione dal ruolo di promozione dell'economia italiana sul mercato internazionale. A questo principio si affianca quello in base al quale la politica di cooperazione dell'Italia deve ispirarsi ai criteri sanciti dalle Nazioni Unite e dalla Comunità europea, riconoscendo così l'importanza della interrelazione tra i diversi strumenti di aiuto internazionale.

La legge disegna un complesso sistema di organi, procedure e strumenti caratterizzati da una forte autonomia e specialità rispetto alle norme generali. Essa traccia le linee portanti dell'intervento di cooperazione, rinviando la disciplina di dettaglio non solo ad atti normativi secondari del Governo (regolamento di esecuzione, adottato con DPR 12 aprile 1988, n. 177, e decreti ministeriali) ma anche alle delibere degli organi istituiti dalla legge stessa, ossia il Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo (CICS), organo ad hoc subentrato nelle funzioni già assegnate al CIPE prima e al CIPES poi, ed il Comitato direzionale[158].

I principali strumenti d'intervento per realizzare le iniziative di cooperazione bilaterale sono il dono e il credito d'aiuto. La scelta dello strumento da utilizzare nei singoli casi dipende essenzialmente dalle condizioni economiche del paese beneficiario e dal tipo e dimensione dell'intervento, secondo criteri stabiliti dal CICS con proprie delibere.

Da un punto di vista finanziario, i mezzi per provvedere rispettivamente ai doni ed ai crediti vengono destinati su base annuale, con legge finanziaria, a due diversi fondi: il Fondo speciale per la cooperazione allo sviluppo ed il Fondo rotativo presso il Mediocredito centrale. Entrambi i fondi sono dotati di una speciale autonomia che li sottrae alle procedure di contabilità ordinaria.

Ai sensi della legge n. 49 del 1987, l'attività di cooperazione si svolge attraverso due canali: quello degli accordi bilaterali tra l'Italia e i singoli paesi in via di sviluppo, di cui si è detto, e quello degli accordi multilaterali. Questo secondo canale raccorda la politica di cooperazione dell'Italia con quella svolta a livello internazionale dall’Unione europea e da organizzazioni internazionali (per lo più agenzie specializzate dell'ONU). Le singole nazioni partecipano alla politica internazionale degli aiuti ai paesi in via di sviluppo attraverso la contribuzione a banche o fondi internazionali oppure il versamento di contributi volontari o obbligatori agli organismi delle Nazioni Unite.

Anche la materia della partecipazione dell'Italia a banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale è disciplinata dalla legge 26 febbraio 1987, n. 49. In particolare, l'articolo 4 della legge n. 49, attribuisce al Ministro dell’economia, in conformità con i criteri stabiliti dal Comitato interministeriale e d'intesa con i Ministri degli esteri e dell’economia, la cura delle relazioni con tali banche e fondi di sviluppo, nonché il compito di assicurare la partecipazione finanziaria dell'Italia alle risorse di detti organismi e la concessione dei contributi obbligatori agli altri organismi multilaterali di aiuto ai paesi in via di sviluppo. La concessione di contributi volontari ad organismi multilaterali rientra invece tra le finalità proprie della cooperazione a dono ed è gestita dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri.

Pur senza giungere ad una riforma organica della disciplina della cooperazione allo sviluppo, a partire dalla fine del 1991 sono intervenute una serie di modifiche legislative, alcune delle quali fortemente incisive; la ratio che unifica molti degli interventi in questione è quella di ricondurre all'ordinario molte delle norme che caratterizzavano la specialità, ormai entrata in crisi, dell'intervento di cooperazione.

Tra gli interventi predetti, occorre anzitutto citare l'articolo 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 559 "Disciplina della soppressione delle gestioni fuori bilancio nell'ambito delle amministrazioni dello Stato", che ha soppresso il Fondo speciale per la cooperazione allo sviluppo, prevedendo che, a decorrere dal 1° gennaio 1995, i mezzi finanziari destinati al fondo stesso siano iscritti in apposita rubrica dello stato di previsione del Ministero degli affari esteri.

La legge 24 dicembre 1993, n. 537 "Interventi correttivi di finanza pubblica", collegata alla manovra di finanza pubblica per il 1994, reca poi norme che incidono sulla disciplina della politica di cooperazione, in particolare per quanto riguarda gli organi. Al fine di razionalizzare e semplificare l'organizzazione amministrativa sono stati infatti soppressi numerosi Comitati interministeriali, tra i quali il Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo (CICS): le funzioni del CICS sono state in seguito attribuite al CIPE (con DPR n. 373/1994), ossia nuovamente ad un organo con competenze economiche generali per la parte relativa all'indirizzo e programmazione e al Ministro degli affari esteri per quelle relative ai criteri di utilizzo del Fondo rotativo per il credito d'aiuto. Sono stati poi soppressi il Comitato consultivo e la Commissione per le organizzazioni non governative.

 

Si ricorda anche il tema della riduzione del debito estero dei Paesi in via di sviluppo, e in particolare la legge 25 luglio 2000, n. 209, recante “Misure per la riduzione del debito estero dei Paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati”.

Tale normativa ha dato seguito alle misure concordate al G-7 di Colonia del 1999, promuovendo una serie di iniziative di annullamento parziale o totale dei crediti vantati dall’Italia nei confronti dei cosiddetti Paesi HIPC (Paesi poveri altamente indebitati).

Il provvedimento citato è diretto a rendere operative le intese raggiunte dai Paesi creditori in ambito multilaterale in tema di trattamento del debito estero, nonché a favorire e promuovere misure destinate alla riduzione della povertà delle loro popolazioni. Per i soli Paesi aderenti all’Iniziativa HIPC, tale annullamento può essere concesso a condizioni diverse da quelle concordate in ambito multilaterale.

I Paesi beneficiari devono rispettare una serie di criteri minimi in materia di rispetto dei diritti dell’uomo, ripudio della guerra e perseguimento di obiettivi di sviluppo della persona. Per i Paesi diversi da quelli individuati, si applicano le condizioni concordate fra Paesi creditori a livello multilaterale.

I crediti annullabili rientrano in due categorie:

a)               crediti di aiuto concessi ai sensi delle leggi 9 febbraio 1979, n. 38, 3 gennaio 1981, n. 7, e 26 febbraio 1987, n. 49, e successive modificazioni;

b)               crediti commerciali assicurati ai sensi delle leggi n. 955/1953, n. 635/1961, n. 131/1967 e n. 227/1977, nella cui titolarità la SACE è succeduta per effetto del relativo pagamento dell'indennizzo, e assistiti da “controgaranzia sovrana”.

L’annullamento dei soli crediti commerciali, per i quali è previsto l'obbligo di “controgaranzia sovrana” (ossia che i crediti siano stati garantiti dagli Stati beneficiari), può avvenire anche mediante formule innovative, quali la riduzione o rinegoziazione dei crediti con accordi diretti bilaterali, la loro conversione in investimenti, da realizzare in loco a cura di soggetti non governativi che si impegnino in specifiche campagne per la riduzione del debito, la conversione dei crediti, mediante accordi diretti con i Paesi beneficiari, in spese sociali e per la riduzione della povertà.

 

Infine, si ricorda che, ai sensi dell’art. 3, comma 6, lettera c), della legge 26 febbraio 1987, n. 49, il Ministro degli esteri presenta annualmente la “Relazione sull’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo”. L’ultima relazione (Doc. LV, n. 1) è stata presentata alla Presidenza della Camera il 26 luglio 2007 e riporta i dati riferiti all’anno 2005.

Nella medesima data è stata presentata la “Relazione sull’attività di Banche e Fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla partecipazione finanziaria italiana alle risorse di detti organismi” per l’anno 2005 (Doc. LV, n. 1-bis), allegata, ai sensi dell’art. 4, comma 2-bis, della L., n. 49/1987, alla predetta Relazione sull’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo.

 


La cooperazione internazionale

Le cifre della cooperazione italiana

Per comprendere le dimensioni del contributo italiano alla cooperazione internazionale occorre fare un chiarimento preliminare.

I fondi che ciascun Paese destina alla cooperazione internazionale (con stanziamenti su una specifica voce del proprio bilancio) costituiscono solo una parte del più ampio aggregato denominato APS (Aiuto pubblico allo sviluppo), stimato dall’OCSE e che rappresenta il più significativo e il più noto indicatore in materia. Questo aggregato supera ad esempio notevolmente gli stanziamenti di bilancio italiani per la cooperazione allo sviluppo (gestiti dal Ministero degli Affari Esteri[159]), in quanto include anche tutta una serie di operazioni finanziarie -  come ad esempio la riduzione o cancellazione del debito – tanto a livello di iniziative multilaterali, quanto nei rapporti bilaterali dell’Italia con i PVS.

Ciò premesso, i fondi dell’APS italiano[160] nel 2005, secondo dati definitivi dell’OCSE, assommavano a 5,05 miliardi di dollari USA (circa 3.885 milioni di euro), con un incremento, rispetto al 2004, pari al 105,2 per cento: nel 2004, infatti, il totale dell’APS italiano era stato di 2,46 miliardi di dollari, pari all’incirca a 1.892 milioni di euro. Il notevole incremento dell’APS italiano si evince anche dal raffronto percentuale con il Prodotto interno lordo (PIL), passato da 0,15% nel 2004 a 0,29% nel 2005.

Il trend positivo in tal modo evidenziato è andato però successivamente invertendosi: sempre secondo i dati dell’OCSE, nel 2006 l’APS italiano assommava a 3,64 miliardi di dollari USA (pari allo 0,2% del PIL) e nel 2007 a 3,93 miliardi di dollari USA (pari allo 0,19 del PIL).

Va ricordato che già da 15 anni è stato fissato a livello internazionale l’obiettivo, per i Paesi sviluppati, di stanziamenti per l’APS pari al rapporto di 0,7% sul PIL. Per quanto riguarda l’Unione europea, il Consiglio europeo di Barcellona del marzo 2002 ha stabilito un’impegnativa tabella di marcia in tale direzione che prevedeva entro il 2006 una media di 0,39% degli Stati membri, con un risultato minimo di 0,33% per ciascuno di essi. Secondo l’UE, l’Italia dovrebbe raggiungere la percentuale dello 0,51% nel 2010 (mentre la media comunitaria dovrebbe essere, sempre nel 2010 dello 0,56%). Come si vede, i dati nazionali sono ancora lontani dall’obiettivo, soprattutto se si confermasse la tendenza regressiva degli ultimi due anni.

I maggiori donatori nel 2007 sono stati gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Francia, Regno Unito e Giappone, ma gli unici Paesi a raggiungere l’obiettivo dello 0,7% del PIL fissato dall’ONU sono stati Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Olanda e Svezia.

La Relazione previsionale e programmatica sulle attività di cooperazione per il 2008 (trasmessa alla Camera l’8 gennaio 2008) indica tra l’altro le priorità settoriali di intervento per l’Italia: salute[161], istruzione, tematiche di genere e ambiente. E’ evidente l’ampia interazione di tali priorità con gli obiettivi di sviluppo del Millennio, contenuti della Dichiarazione sottoscritta l’8 settembre 2000, nel corso del Millennium Summit dell’Assemblea Generale dell’ONU, e la cui attuazione è stata prevista per l’anno 2015. Si tratta in dettaglio di intraprendere azioni allo scopo di conseguire:

1.    Eliminazione della miseria e della fame

2.    Istruzione primaria per tutti

3.    Promozione della parità fra i sessi e l'autonomia delle donne

4.    Riduzione della mortalità infantile

5.    Miglioramento della salute materna

6.    Lotta ad HIV/AIDS, malaria e altre malattie

7.    Ambiente sostenibile

8.    Allargamento del  partenariato mondiale per lo sviluppo

Per quanto poi riguarda le priorità geografiche, la cooperazione italiana, soprattutto quella a livello bilaterale, continueràad indirizzarsi largamente verso l’Africa sub-sahariana, la regione in assoluto più povera della terra. In secondo luogo essa investirà Paesi verso i quali sono stati assunti rilevanti impegni nel contesto di missioni internazionali di pace, quali l’Afghanistan, il Libano e il Sudan. Infine, la cooperazione dell’Italia manterrà il proprio impegno in tradizionali aree di intervento, quali l’America latina, il Medio Oriente e i Balcani.

La ripartizione percentuale degli aiuti italiani, che nel medio periodo risulta abbastanza stabile, vede approssimativamente il quaranta per cento destinato all’Africa sub-sahariana, il venticinque al Medio Oriente e Nord Africa, il dodici per cento all’Europa balcanica, il quindici per cento all’America latina e l’otto per cento all’Asia.

 

 


 


 



[1]    L’articolo 11- ter della legge n. 468/1978 stabilisce che ciascuna legge che comporti nuove o maggiori spese debba indicare espressamente la spesa autorizzata e detta le modalità attraverso le quali ne viene determinata la copertura finanziaria. L’articolo 7, secondo comma, numero 2) della legge n. 468 cit., prevede invece che il Ministro del tesoro, con appositi decreti, possa autorizzare trasferimenti di somme dal Fondo di riserva per le spese obbligatorie e d’ordine al fine di aumentare gli stanziamenti dei capitoli di spesa aventi carattere obbligatorio o connessi con l’accertamento e la riscossione delle entrate.

[2]    Per la ricostruzione più approfondita del complesso contesto della crisi afghana si rinvia alla scheda Storia e prospettive a pag. 191.

[3]    Una cronologia dettagliata degli avvenimenti fra il maggio 2007 e le elezioni del 18 febbraio 2008 è riportata nella scheda Cenni storici e profilo attuale a pag. 200.

[4]    Per un approfondimento, vedi scheda Le missioni internazionali, nel Dossier del Dipartimento Difesa.

[5]    Per la ricostruzione dei presupposti storici della crisi kosovara si rinvia alla scheda Origini ed evoluzione della crisi a pag. 210.

[6]    Anche accelerando ulteriormente le procedure per la firma in tempi brevi dell’accordo di stabilizzazione e associazione e la concessione dello status di paese candidato.

[7]    Uno degli argomenti usati dai russi prima dell’indipendenza kosovara era la minaccia di far valere il precedente di Pristina anche in altri casi analoghi (ma, dal punto di vista russo, a parti rovesciate). In particolare, nei casi di rivendicazione di indipendenza – con il sostegno di Mosca - di due regioni secessioniste della Georgia, ossia l’Ossezia meridionale e l’Abkhazia: puntualmente, il 5 e il 7 marzo rispettivamente, le due regioni hanno chiesto all’ONU e ai maggiori attori internazionali di veder riconosciuta la propria indipendenza.

[8]    Si ricorda infatti che lo scorso 25 gennaio il gigante russo Gazprom, mediante un accordo siglato a Mosca, aveva assunto il controllo della maggiore azienda del gas e del petrolio della ex Jugoslavia, la Nis.

[9]    Una maggioranza degli Stati membri, capeggiati dal gruppo dei Paesi più grandi (Germania, Regno Unito, Francia e Italia), si sono detti pronti al riconoscimento, mentre Cipro, Romania e Spagna hanno ribadito la loro netta contrarietà. Un altro gruppo di sei Stati membri – comprendente Grecia, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Rep. Ceca e Slovacchia - si è riservato di decidere in un secondo momento.

[10]Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa.

[11]  Si rinvia al capitolo La situazione in Libano a pag. 48.

[12]Vedi azione comune 2005/797/PESC del 14 novembre 2005.

[13]Regolamento (CE) n. 423/2007 del Consiglio concernente misure restrittive nei confronti dell’Iran, come modificato dai successivi regolamenti (CE) n. 618/2007 del Consiglio (del 5 giugno 2007) e n. 441/2007 della Commissione (del 20 aprile 2007).

[14]   I prodotti, compresi i software, e le tecnologie, che possono avere un’utilizzazione sia civile che militare; comprendono tutti i beni che possono sia essere utilizzati a fini non esplosivi che entrare in qualche modo nella fabbricazione di armi nucleari o di altri dispositivi nucleari esplosivi.

[15]   Adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 23 dicembre 2006.

[16]   Per un approfondimento, si veda la scheda Le missioni internazionali nel Dossier del Dipartimento Difesa.

[17]   La marginalizzazione del sud e dell’ovest del paese ha comunque origini lontane e nasce nel periodo coloniale, quando i britannici divisero il Paese in due colonie, privilegiando nettamente gli investimenti in quella settentrionale, mentre l’altra colonia venne lasciata ad un destino di economia agricola di mera sussistenza.

[18]   In proposito appare rilevante la decisione dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, che il 28 gennaio 2008 hanno autorizzato il dispiegamento in Ciad e nella Repubblica centrafricana della missione EUFOR (3700 uomini forniti da 14 Stati membri, 2000 dei quali solo dalla Francia; l’Italia invierà personale sanitario per un ospedale e tecnici delle trasmissioni, per un totale di un centinaio di uomini). Lo scopo principale della missione, in accordo a quanto previsto dalla risoluzione n. 1778 (25 settembre 2007) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è di assicurare la protezione dei profughi del Darfur, soprattutto in vista di un loro reinsediamento nei luoghi di origine.

[19]   L’iniziativa è stata successivamente replicata il 13 aprile 2008.

[20]   Con la successiva risoluzione n. 1784 del 31 ottobre 2007 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha esteso il mandato della UNMIS fino al 30 aprile 2008, attribuendo alla UNMIS anche il compito di collaborare al pieno dispiegamento della forza “ibrida” UNAMID (v. infra).

[21]  Recante Disposizioni urgenti in materia di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali, e convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 2008, n. 45.

[22]  Recante Disposizioni urgenti in materia di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali, e convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 2008, n. 45.

[23]   Va infatti tenuto presente che l’area corrispondente al Tibet storico coprirebbe un quarto circa dell’immenso territorio cinese, e infatti minoranze tibetane non irrilevanti vivono anche in altre regioni della Cina.

[24]   Istituito con la risoluzione 60/251, votata dall’Assemblea generale a larghissima maggioranza il 15 marzo 2006, il Consiglio si differenzia dalla precedente Commissione in quanto organismo sussidiario dell’Assemblea Generale che, con maggioranza qualificata, può sospendere il diritto di appartenenza ad un membro del Consiglio che commetta rilevanti e sistematiche violazioni dei diritti umani. Il Consiglio, inoltre, si riunisce con maggiore frequenza (non meno di tre volte l’anno in sede ordinaria, ma sono previste sessioni speciali ogni volta che se ne ravvisi la necessità). La composizione del Consiglio tiene conto della rappresentanza geografica: i 47 membri - eletti con voto segreto dalla maggioranza assoluta (97 voti) dei membri dell’Assemblea Generale - occupano, infatti, seggi assegnati in ragione di 13 ai Paesi africani, 13 ai Paesi asiatici, 6 ai Paesi dell’Europa orientale, 8 all’America Latina e Caraibi e 7 all’Europa occidentale e altri Stati.

[25]   Il Comitato consultivo sostituisce la precedente sottocommissione per la promozione e protezione dei diritti umani.

[26]   I compiti e la struttura del CIDU (istituito con decreto ministeriale 15 febbraio 1978, n. 519) sono stati ridefiniti, da ultimo, con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell’11 maggio 2007(emanato ai sensi  dell’articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006 n.223 convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248. Si rammenta chel'art. 29 prevede, al comma 1, la riduzione della spesa  complessiva  sostenuta  dalle  amministrazioni  pubbliche  per commissioni,  comitati  ed  altri organismi del 30% e, al comma 2, il riordino   di   tali   organismi,   anche mediante soppressione o accorpamento delle strutture). Il Comitato vigila sull’attuazione delle norme internazionali recepite nell’ordinamento italiano, svolgendo così anche un’azione propositiva presso le istituzioni nazionali e mantenendo rapporti costruttivi con le ONG che operano nel settore dei diritti umani. Ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 19 marzo 1999 n. 80, il Comitato è tenuto a presentare al Parlamento una relazione annuale sull’attività svolta e, più in generale, sulla tutela e il rispetto dei diritti umani in Italia. L’ultima relazione, relativa all’anno 2006, è stata trasmessa al Parlamento dal Ministro degli Affari esteri il 18 luglio 2007 (Doc. CXXI, n. 2).

[27]   Si tratta del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966 e ratificati dall’Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881.

[28]   Istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 13 aprile 2007.

[29]   Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. L’l’Italia si è inserita nel sistema di protezione dei diritti umani gestito dall’ONU quando ne era già stato delineato il quadro di riferimento. Il nostro Paese non ha infatti preso parte all’elaborazione della Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945, né era membro dell’Organizzazione quando è stata adottata, nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. A partire però dal suo ingresso all’ONU (l’Italia ha ratificato la sua adesione con la legge n. 848 del 17 agosto 1957), ha prestato il suo impegno e il suo contributo sia in occasione dell’adozione dei due Patti internazionali del 16 dicembre 1966 cui si è fatto cenno, sia in sede di elaborazione di tutti gli strumenti, costituiti da convenzioni internazionali o dichiarazioni di principio contenute in risoluzioni dell’Assemblea Generale, che sono seguiti ai Patti del 1966 in vari settori, con lo scopo di precisare maggiormente la normativa internazionale sui diritti umani.

[30]   Legge 28 febbraio 2008, n. 31, art 49-bis recante conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria.

[31]   Si tratta di Osvaldo Alfonso Valdés, ex presidente del Partito liberal democratico cubano, Joel Brito, ex sindacalista del sindacato unico cubano e di Michele Trotta, portavoce europeo del Movimento cristiano di liberazione fondato da Oswaldo Payá.

[32]   La cui prima sessione ha avuto luogo dal 19 al 30 giugno 2006.

[33]   Risoluzione 7/00253.

[34]   La drammatica situazione colombiana era stata rappresentata alla Commissione Esteri anche nel corso della XIV legislatura,  in un’audizione svolta il 5 novembre 2003.

[35]   Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti si è costituito in base alla Convenzione europea per la prevenzione della tortura del 1987, divenuta operativa nel 1989 dopo la ratifica da parte degli Stati. Tale convenzione si incentra sull’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, il quale stabilisce che nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Il CPT, che ha totale accesso a tutti i luoghi di privazione della libertà, è costituito da un membro per ciascuno dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa.

[36]   L’OIL è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne. I suoi principali obiettivi sono la promozione dei diritti dei lavoratori e dell’occupazione in condizioni dignitose, il miglioramento della protezione sociale e del dialogo sulle problematiche del lavoro.

[37]   L’OIL ha certificato 4.500 casi collettivi in un solo anno, equivalenti a decine di migliaia di individui, carcerati o abitanti in villaggi, costretti a lavorare per l'esercito o per le autorità locali.

[38]   Risoluzione (7/00291).

[39]   La Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU) -firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953 - stipulata dai Paesi del Consiglio d’Europa ha delineato un sistema di protezione dei diritti umani da più parti riconosciuto come la più perfezionata struttura del genere operante al mondo. Tale sistema assume un carattere sussidiario rispetto alle forme di protezione dei diritti umani esistenti negli ordinamenti degli Stati membri, accogliendo il principio del “previo esaurimento dei ricorsi interni” rispetto all’attivazione del sistema internazionale. L’obiettivo del Consiglio d’Europa, in linea con i principi internazionali in materia di tutela dei diritti umani, è quello di far sì che il rispetto dei diritti umani sia assicurato innanzitutto dai singoli ordinamenti nazionali.

[40]   Tra gli impegni posti al Governo figura anche la ratifica del Protocollo n. 13 alla Convenzione del Consiglio d'Europa per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, concernente l'abolizione della pena di morte in tutte le circostanze (firmato a Vilnius il 3 maggio 2002). Il disegno di legge di ratifica (A.C. 3273) è stato assegnato, il 5 gennaio 2008, alla Commissione Esteri, che non ne ha avviato l’esame. Il Protocollo n. 13 è uno dei Protocolli aggiunti alla Convenzione - firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con la legge n. 848 del 1955 - per ampliare e precisare la tutela dei diritti in essa contenuti. Il Protocollo n. 13, entrato in vigore il 1° luglio 2003, vieta il ricorso alla pena di morte per qualsiasi reato commesso, compresi i crimini perpetrati in tempo di guerra (si veda il capitolo  La moratoria sulla pena di morte a pag. 100) o nel pericolo imminente di un conflitto; esso, inoltre, è citato nel Preambolo delle risoluzioni approvate dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite negli ultimi anni (si veda il già richiamato capitolo La moratoria sulla pena di morte).

[41]   Risoluzione 62/149.

[42]   I passi virgolettati sono tratti dal Comunicato stampa del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, rilasciato il 19 dicembre 2007 (UNRIC/ITA/1116/07).

[43]   I promotori dell’iniziativa sottolinearono che, in quell’occasione, ben 20 Paesi attualmente membri dell’Unione europea, si astennero.

[44]   Risoluzione 1997/12.

[45]   Seduta dell’Assemblea del 23 maggio 2006.

[46]   Si trattava della 61a sessione dell’ Assemblea Generale, che si è aperta nel settembre del 2006. Si rammenta che l’Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e prosegue, di regola, fino alla terza settimana di dicembre.

[47]   Tutto ciò è emerso nel corso dei dibattiti che si sono svolti durante le sedute del 19 ottobre 2006 e 4 aprile 2007della Commissione Esteri della Camera dei deputati, rispettivamente dedicate all’approvazione della risoluzione 8/00018D’Elia ed altri, e all’audizione del Governo sull’iniziativa italiana per la moratoria universale della pena di morte.

[48]   Risoluzione conclusiva di dibattito in Commissione 8/00018 D’Elia ed altri.

[49]   Con 591 voti a favore, 45 contrari e 31 astenuti.

[50]   Risoluzione P6_TA(2007)0018.

[51]   Risoluzione P6_TA(2007)0166.

[52]   Risoluzione in Commissione 7/00209 D’Elia ed altri

[53]   Cfr. Comunicato stampa 2809a sessione del Consiglio Affari generali e relazioni esterne, Lussemburgo 18 giugno 2008.

[54]   Si veda Il Sole 24ore del 19 giugno 2007, pag. 11.

[55]   E’ quanto ha riferito alle Commissioni Riunite III Camera e 3a Senato(seduta dell’11 settembre 2007) il rappresentante del Governo.

[56]   Risoluzione P6_TA-PROV(2007)0418.

[57]   Il Social, Humanitarian and Cultural Affairs Committee.

[58]   I Paesi contrari alla moratoria ne avevano presentati 17, motivati dall’argomento che la moratoria inciderebbe sulla sovranità nazionale e sugli ordinamenti giuridici interni.

[59]   Azerbaijan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.

[60]   Si rammenta che il Segretario Generale dell’Onu ha presentato (il 10 febbraio 2006) un  Rapporto che, con riferimento alla pena di morte, dà conto dei cambiamenti nella legislazione dei vari Paesi, dei cambiamenti delle pratiche in uso e della tutela dei condannati a morte; il rapporto considera il biennio 2004-2005.

[61]   Il testo approvato deriva dalle modificazioni, limitate alla parte introduttiva e proposte dal primo firmatario, apportate alla risoluzione in commissione 7/00059, D’Elia ed altri.

[62]   In occasione della riunione del gruppo di lavoro sui diritti umani dell’Unione Europea (COHOM) del 10 ottobre 2006.

[63]   Mozione 1/00016 D’Elia ed altri.

[64]   Dedicata a un’audizione sulle priorità dell’azione italiana in seno alle Nazioni Unite anche con riferimento alla proposta di moratoria della pena di morte.

[65]   Il rappresentante del Governo ha rammentato che il CAGRE del 22 gennaio 2007 aveva fatto propria l’iniziativa italiana di avviare una consultazione in sede Onu per valutare l’opportunità di riaprire una discussione sulla moratoria internazionale sulla pena di morte.

[66]   Nel frattempo saliti da 85 ad 88 con le adesioni di Namibia, Kirghizistan e Russia.

[67]   Il riferimento, in particolare, è alla delegazione italiana presso il Consiglio d’Europa, dove siedono numerosi Paesi che non sono membri dell’Unione europea.

[68]   Giunta ad essere sottoscritta da 93 Paesi.

[69]   Sudafrica, Filippine, Nuova Zelanda, Angola, Senegal, Brasile, Messico, Salvador e Kirghizistan.

[70]   Abolizione della pena di morte nel codice penale militare di guerra. La norma ha soppresso ogni riferimento alla pena capitale ancora esistente nel codice penale militare di guerra.

[71]   La Carta delle Nazioni Unite (o Statuto) fu redatta verso la fine della II Guerra mondiale, al termine di un processo negoziale avviato nel 1941, dai rappresentanti di 50 nazioni riuniti a San Francisco nel giugno del 1945. L'adesione alla Carta è aperta a tutti i paesi del mondo che ne accettino gli impegni. L'ammissione viene decisa dall'Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza.

[72]   Come è noto, il Consiglio è composto da cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina) e da dieci non permanenti, eletti per mandati di durata biennale e non rieleggibili immediatamente.

[73]   Così come gli altri Paesi del Gruppo United for Consensus, (tra cui Canada, Pakistan, Spagna, Argentina, Messico e Corea), uno dei tre schieramenti che animano il dibattito sulla riforma. 

[74]   Nell’elezione, che si è svolta il 16 ottobre 2006, l'Italia ha raccolto 186 voti su 189 votanti (tre Paesi si sono astenuti).Con l'Italia sono stati eletti Belgio (che ha avuto 180 voti), Sudafrica e Indonesia. Il seggio spettante ai Paesi latinoamericani e caraibici è stato assegnato solo il 1° novembre successivo a Panama, candidato di compromesso dopo una lunga impassetra Venezuela, osteggiato dagli USA, e Guatemala, favorito dagli Stati Uniti. Alla vigilia dell’elezione di Panama in Consiglio di sicurezza un’informativa urgente del Governo, svolta nella seduta dell’Assemblea del 30 ottobre 2006, dava conto della posizione assunta dall'Italia sulla questione del seggio latino caraibico, favorevole all’individuazione di una candidatura di mediazione che consentisse di superare l’empasse.

[75]   Si tratta dellasesta volta, nella storia dell'ONU, che l’Italia viene eletta in Consiglio di sicurezza (l'ultima presenza risale al biennio 1995-96). Con l’insediamento del gennaio 2007 l’Italia è diventata il Paese europeo con più mandati nel Consiglio di Sicurezza, davanti a Olanda, Polonia, Belgio, Germania, Norvegia e Spagna.

[76]    United Nations interim force in Lebanon.

[77]    United Nations assistance mission in Afghanistan.

[78]   Tale impegno è stato confermato dalla conferenza di Roma (2-3 luglio 2007) sullo stato di diritto in Afghanistan, i cui risultati sono stati riportati in seno al Consiglio di sicurezza con un’apposita Dichiarazione Presidenziale.

[79]    International Security Assistance Force in Afghanistan.

[80]   Si rammenta che l’Italia è il sesto maggior contributore al bilancio del peace-keeping dell’ONU con circa 2.250 militari impegnati.

[81]   L’Italia è dal 2002 il sesto contributore del sistema ONU.

[82]    Arrangements for establishing the Peacebuilding Fund.

[83]   Documento A/60/L.63.

[84]   Si rammenta che nel corso della medesima sessione, il 19 dicembre 2006, è stata presentata all'Assemblea generale la dichiarazione sull'abolizione della pena di morte e sull'introduzione di una moratoria delle esecuzioni, predisposta dall'Unione europea su iniziativa italiana e sottoscritta (al momento della presentazione) da 87 paesi membri dell'Onu. Come è noto, è stata la successiva Assemblea generale (62a sessione)ad approvare, il 18 dicembre 2007, la risoluzione che chiede una moratoria sulla pena di morte (si veda il capitolo La moratoria sulla pena di mortea pag. 100).

[85]   Nella seduta del 19 luglio 2006.

[86]   Mozione 1-00014 Sereni ed altri

[87]   Risoluzione 7-00073 a firma del Presidente della Commissione esteri, Umberto Ranieri.

[88]   Previsti dall'articolo 19 del Trattato dell'Unione europea.

[89]   Le spese del budget ordinario dell'ONU sono assunte dai membri secondo un’aliquota fissata dall'Assemblea generale ogni tre anni:l’aliquota italiana per il triennio 2007-2009 è 5,079; quella degli USA, principali contributori, è 22.

[90]   Identico contributo, con riferimento al triennio 2005-2007, era stato disposto dalla legge 30 dicembre 2004, n. 317). Lo Staff College è un organismo autonomo delle Nazioni Unite che ha il compito di promuovere l’apprendimento, ed in particolare una cultura di tipo manageriale, nell’ambito del sistema dell’ONU, svolgendo un’attività di formazione dei funzionari internazionali.

[91]   Si ricorda che i vertici della NATO non hanno cadenza regolare ma sono convocati dal Consiglio dell’Atlantico del Nord (massimo organo dell’Alleanza) ogniqualvolta se ne riscontri l’esigenza politica. Gli ultimi due vertici, prima di Riga, si erano tenuti a Praga nel 2002 e a Istanbul nel 2004. Nell’aprile 2008 si è poi svolto il vertice di Bucarest (vedi infra).

[92]   Si vedrà più avanti come la posizione francese sia mutata nel corso degli ultimi due anni e come il vertice di Bucarest abbia registrato tale mutamento.

[93]   La Grecia – per timore che movimenti irredentistici interni possano risultarne incoraggiati - ha sempre manifestato la propria fermissima opposizione alla denominazione di “Repubblica di Macedonia”. Da tempo sono all’opera mediatori delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti per trovare una nuova denominazione concordata dello stato macedone che attualmente – nelle sedi internazionali – è denominato “Former Yugoslav Republic of Macedonia”.

[94]   Per quanto riguarda i decreti legge di rinnovo delle missioni si rinvia alla scheda Le missioni internazionali, nel Dossier del Dipartimento Difesa.

[95]   Recante Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell’articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59.

[96]    D.Lgs. 31 ottobre 2002, n. 257, Modifiche all'articolo 10 del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 303, concernenti gli italiani nel Mondo.

[97]   Si ricorda che la stessa legge, ha recato altre tre disposizioni relative al Ministero degli Affari Esteri. Al comma 567 dell’art. 1, è stata introdotta una disposizione volta ad incentivare la produttività del personale delle aree funzionali in servizio presso il Ministero degli affari esteri in relazione all'incremento dei compiti ad esso assegnati, con uno stanziamento di euro 6 milioni annui, a decorrere dal 2007, da destinare attraverso la contrattazione collettiva nazionale integrativa.

Al comma 568 sono state destinate risorse aggiuntive a carattere permanente al funzionamento e agli interventi di razionalizzazione delle Ambasciate e dei Consolati, da reperire a carico delle maggiori entrate annue derivanti dall’applicazione della tariffa consolare (comunque nel limite di 10 milioni di euro annui).

Al comma 569 si è disposta l'abrogazione dell'art. 80, comma 42, della legge n. 289/2002 (legge finanziaria 2003) che aveva disposto che il 10% delle maggiori entrate di ciascun anno, provenienti dalla riscossione dei diritti consolari fosse prioritariamente destinato all'incentivazione della produttività del personale non dirigente in servizio presso il predetto Ministero, in ragione dei maggiori impegni derivanti dallo svolgimento del semestre di presidenza dell'Unione europea e dalle attività di contrasto all'immigrazione clandestina.

[98]   Si ricorda che con il DPR n. 267 del 1999 - modificato successivamente dal D.P.R. 157 del 2002 - è stata interamente riorganizzata la struttura del MAE, ridisegnando tutte le strutture dirigenziali generali. La riforma del 1999 è stata oggetto – da allora – di continui interventi di manutenzione normativa.

[99]   La I Commissione (che lo ha esaminato nella seduta del 17 ottobre 2007) ha espresso il parere, mentre la III e la V hanno espresso rilievi.

[100]Regolamento che non risulta essere stato emanato.

[101]Si ricorda che il decreto legge n. 223 del 2006 ha introdotto misure urgenti per lo sviluppo, la crescita e la promozione della concorrenza e della competitività, per la tutela dei consumatori e per la liberalizzazione dei settori produttivi. All’art. 29 del decreto legge sono state inserite disposizioni volte alla razionalizzazione degli organismi pubblici (e in particolare “per organi collegiali e altri organismi”) nell’ottica della riduzione della spesa pubblica, disponendo che la spesa complessiva per tali organismi fosse ridotta del trenta per cento rispetto a quella sostenuta nell'anno 2005.

[102] Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Serbia e Kosovo.

[103] Il 29 ottobre 2001 la Croazia e l’UE hanno concluso l’Accordo di stabilizzazione ed associazione, che è entrato in vigore il 1° febbraio 2005.

[104] Il 23 febbraio 2004, UE ed ex Repubblica iugoslava di Macedonia hanno firmato l’Accordo di stabilizzazione ed associazione, che è entrato in vigore il 1° aprile 2004.

[105] L’accordo è in attesa di essere ratificato da: Austria, Belgio, Cipro, Repubblica ceca, Germania, Danimarca, Francia, Grecia, Malta e Portogallo. L’Italia ha ratificato l’accordo con la legge 7 gennaio 2008, n. 10.

[106] L’accordo è stato al momento ratificato soltanto dall’Estonia e dal Montenegro.

[107] I due Stati membri dell’UE lamentano infatti la mancanza di una piena collaborazione con il Tribunale penale per l’ex Iugoslavia e richiedono in particolare che la Serbia consegni il generale Radko Mladic al Tribunale de L’Aja.

[108] Azione comune 2008/124/PESC del 4 febbraio 2008.

[109]Secondo quanto riportato dalla stampa, la Serbia considera la missione dell’UE un’illegittima violazione della propria integrità territoriale e ritiene che la firma dell’accordo provvisorio rappresenti un indiretto riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Come ribadito recentemente dal Commissario europeo per l’allargamento, Olli Rehn, l’offerta dell’Unione europea rimane ancora attuale.

[110]COM (2008) 127.

[111] A tale proposito, si segnala che il 18 settembre 2007 l’UE e tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno firmato accordi di riammissione e di facilitazione delle procedure per il rilascio di visti di breve durata.

[112] Il processo negoziale tra le parti sul futuro status del Kosovo si è concluso il 10 dicembre 2007, senza pervenire ad un accordo. Il processo negoziale è stato facilitato da una troika, costituita da Unione europea, Russia e Stati Uniti. Nella stessa data una relazione finale è stata presentata al Segretario generale delle Nazioni Unite da parte del Gruppo di contatto, composto da Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Russia.

[113]EULEX assumerà le sue responsabilità dopo un periodo di 120 giorni dal momento dell’avvio; la missione delle Nazioni Unite UNMIK rimane dunque pienamente in vigore fino alla fine del periodo transitorio.

[114]COM (2007)774.

[115]"Attuazione della politica europea di vicinato nel 2007", del 3 aprile 2008 (COM (2008) 164.

[116]Si tratta di strumenti considerati cruciali dalla Commissione nel processo di avvicinamento all’Unione, che non sostituiscono gli accordi di associazione o di cooperazione vigenti ma si avvalgono dell’esperienza acquisita nella loro attuazione. I piani d’azione sono differenziati, per riflettere lo stato delle relazioni di ciascun paese con l’UE, le sue necessità e capacità, nonché gli interessi comuni, e defiscono il percorso da seguire nei successivi 3-5 anni. Negoziati tra la Commissione e le autorità del singolo paese, devono essere approvati dal Consiglio e in seguito sottoscritti dai rispettivi consigli di associazione o di cooperazione istituiti dagli accordi bilaterali. Sono attualmente in vigore i piani di azione di: Armenia, Azerbaigian, Autorità palestinese, Egitto, Georgia, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Moldova, Tunisia, Ucraina.

[117] Il partenariato euro mediterraneo è stato inaugurato dalla Conferenza di Barcellona del 27 e 28 novembre 1995, che ha riunito i Ministri degli esteri degli Stati membri dell’Unione europea insieme a quelli di Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e dell’Autorità palestinese. Dal 6 novembre 2007 partecipano a pieno titolo al Processo di Barcellona anche Albania e Mauritania. Obiettivo generale dell’iniziativa è quello di fare del bacino del Mediterraneo una zona di dialogo, di scambi e di cooperazione che garantisca la pace, la stabilità e la prosperità. Entro il 2010 è prevista la creazione di una zona di libero scambio.

[118] Il codice di condotta nella lotta al terrorismo è stato approvato nel corso della Conferenza straordinaria dei Capi di Stato e di Governo tenutasi a Barcellona il 27 e 28 novembre 2005, per celebrare il decimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione di Barcellona che ha istituito il Partenariato euromediterraneo.

[119] All’inizio del 2008 la Commissione dovrebbe avviare con alcuni dei partner euromediterranei negoziati volti a concludere protocolli bilaterali in materia di servizi e diritto di stabilimento. L’obiettivo è quello di arrivare alla progressiva liberalizzazione entro il 2010.

[120] I negoziati avviati a Marrakech nel marzo 2006, in occasione della conferenza ministeriale sul commercio, hanno già fatto buoni progressi con alcuni dei partner euromediterranei.

[121] Il piano d’azione è stato concordato nella prima riunione ministeriale sul rafforzamento del ruolo delle donne nella società tenutasi a Istanbul il 13 e 14 novembre 2006.

[122]Le relazioni tra l'Unione europea e l'Ucraina sono attualmente regolate dall’Accordo di partenariato e cooperazione,firmato il 14 luglio 1994 e entrato in vigore il 1° marzo 1998  per una durata di dieci anni. In vista della scadenza, il 5 marzo 2007 sono stati avviati negoziati per un nuovo accordo, che includa un’area di libero scambio e una cooperazione più intensa in campo energetico.

[123]Durante il regime di Saddam Hussein, l’Unione europea non ha intrattenuto con l’Iraq relazioni politiche o commerciali e il suo ruolo si è limitato all’attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU ed alla fornitura di assistenza umanitaria. Dopo la caduta del regime, l’Unione europea ha avviato un processo di approfondimento delle relazioni con l’Iraq per contribuire attivamente alla normalizzazione della situazione nel paese e alla stabilità della regione. In tale contesto, si segnala l’avvio dei negoziati per un accordo di scambio e cooperazione avvenuta il 20 novembre 2006.

[124]Le relazioni tra l’Unione europea e l’India, avviate a partire dagli anni sessanta, sono attualmente regolate dall’Accordo di cooperazione, firmato dalla Comunità europea e dall’India il 20 dicembre 1993 ed entrato in vigore il 1° agosto 1994. Nel corso del Vertice UE-India del 13 ottobre 2006, è stato deciso di avviare i negoziati per un accordo su commercio e investimenti.

[125]La base giuridica dei rapporti tra UE e Cina è tuttora rappresentata dall’Accordo di Cooperazione e Commercio firmato nel 1985, che, in sostituzione di un precedente accordo del 1978, copre le relazioni economiche e commerciali nonché i programmi di cooperazione UE-Cina. Nel corso del Vertice bilaterale, tenutosi a Helsinki il 9 settembre 2006, UE e Cina hanno deciso di avviare i negoziati per un accordo quadro di partenariato e cooperazione che dovrebbe ampliare la natura puramente commerciale delle relazioni tra UE e Cina ad altri importanti settori di cooperazione, quali immigrazione, lotta al terrorismo, tutela dei diritti umani, non proliferazione nucleare. I negoziati sono stati formalmente aperti a gennaio 2007 e sono tuttora in corso.

[126]La base giuridica delle relazioni bilaterali tra l’Unione europea e la Russia è costituita dall’Accordo di partenariato e di cooperazione (APC), entrato in vigore il 1° dicembre 1997 per un periodo iniziale di 10 anni ed esteso dal Vertice UE-Russia del 24 novembre 2006 fino all’entrata in vigore di un nuovo accordo. La proposta di mandato negoziale presentata dalla Commissione ha visto finora l’opposizione della Polonia, a causa dell’embargo imposto dalla Russia sulle carni polacche.

[127]In particolare si ricorda che l’Unione europea ha deciso di aumentare l’aiuto ufficiale allo sviluppo, impegnandosi a raggiungere l'obiettivo collettivo dello 0,56% del reddito nazionale lordo nel 2010, per passare allo 0,7% nel 2015.

[128]Si rinvia al capitolo L’Alleanza atlantica a pag. 117, nel quale si riferisce in merito alle conclusioni del vertice NATO di Bucarest dell’aprile 2008.

[129]Un successivo rapporto del febbraio 2008, a conclusione dell’inchiesta indipendente condotta da Scotland Yard su invito del governo pakistano, ha evidenziato che l’unico attentatore ha dapprima sparato contro la Bhutto, ma senza colpirla, mentre invece la morte è sopraggiunta per l’onda d’urto della successiva esplosione innescata dal kamikaze.

[130]Nella società del Kosovo si verificava nel frattempo un fenomeno di coesistenza parallela di strutture duplicate, non solo politico-amministrative, ma anche economiche e di servizi, come ad esempio nella sanità e nella scuola.

[131]Si tratta di un atto  che autorizzava il Comandante militare per l’Europa (cd. SACEUR) a mettere in atto il piano militare per l’attacco aereo senza ulteriori determinazioni politiche.

[132]Si ricorda comunque che nel Parlamento di Pristina 20 seggi sono riservati alle minoranze regionali, e di questi 10 ai serbi del Kosovo.

[133]Nella carica di premier è subentrato il Ministro dell’ambiente Kosumi, peraltro indicato dallo stesso Haradinaj.

[134]Va peraltro ricordato che il 3 aprile 2008 il Tribunale penale per i crimini nella ex Jugoslavia ha assolto Haradinaj da ogni addebito (pulizia etnica, omicidi, stupri, torture) mosso a lui e ai suoi commando delle Aquile nere – corpo speciale dell’UCK -: la sentenza non ha mancato di destare forti reazioni da parte serba, ove l’assoluzione di Haradinaj è stata qualificata alla stregua di un crimine grave del Tribunale penale contro il popolo serbo.

[135]Il nuovo esecutivo ha ricevuto l’approvazione del Parlamento di Pristina il 9 gennaio 2008.

[136]Il Kosovo ha due centrali per l'energia termica che dovrebbero bastare per il fabbisogno interno, ma la tecnologia obsoleta e la mancanza di professionalità del personale hanno causato frequenti guasti e black-out. Dal 1999 sono stati allontanati 8.000 lavoratori serbi nell'industria energetica, ma senza provvedere ad adeguate sostituzioni. In una situazione normalizzata, il Kosovo potrebbe divenire esportatore di energia elettrica.

[137]Oltre alle forme di pluralismo politico – a cui si fa principalmente riferimento in questa scheda – occorre ricordare che la rigida teocrazia instaurata ormai quasi 30 anni fa, non ha annullato la ricchezza della società e della cultura iraniane. Anche in questo retroterra affondano le radici quelle aspirazioni egemoniche rispetto all’area mediorientale che spesso trovano espressione nella politica estera iraniana (perfino da parte di esponenti politici fra loro distanti).

Un’opera che recentemente ha offerto un quadro del composito panorama sociale, soffermandosi in particolare sul ruolo delle donne, che risulta crescente nonostante il regime clericale e che differenzia la società iraniana dal mondo arabo, è: Renzo Guolo, La via dell’Imam: l’Iran da Khomeini ad Ahmadinejad, Laterza 2007.

[138]Candidato riformista.

[139]Questa convergenza ha invece funzionato nelle successive elezioni amministrative del dicembre 2006 e sembra essere il principale trend in atto oggi nel paese.

[140]  Sulle origini e gli effetti di questa decisione dell’amministrazione Bush si ritorna, più avanti nel paragrafo dedicato alle relazioni fra i due paesi.

[141]Le origini della scuola sono legate alla setta Hojjatieh (vedi infra).

[142]Larijani è un ex-ufficiale dei pasdaran, ex Ministro della cultura ed ex consigliere per la sicurezza della Guida suprema. Ha rivestito per 10 anni la carica di presidente della radiotelevisione e da due anni era stato nominato capo negoziatore sul nucleare. E’ un politico inviso all’ala riformista, ma in rotta di avvicinamento verso posizioni pragmatiche.

[143]Il 10 gennaio 2008 è stata diffusa dalla stampa locale la notizia che il Tribunale di Shiraz ha comminato tale pena a due giovani accusati di stupro, ripristinando un’antica tradizione islamica.

[144]Tuttavia, le esecuzioni sono normalmente effettuate al compimento del diciottesimo anno d’età.

[145]Si ricorda che Siria e Libia si schierarono dalla parte dell’Iran nella guerra del 1980-1988 contro l’Iraq.

[146]Dichiarazione alla Knesset del ministro per le questioni strategiche Avigdor Lieberman del 17 dicembre 2007.

[147]D’altra parte è noto che l’ostilità fra i due paesi è ormai un dato storico e nessuna amministrazione americana da Carter in poi ha mai impresso una svolta sostanziale rispetto alla drammatica rottura del novembre 1979.

[148]Vedi a pag. 251 la scheda La questione nucleare.

[149]E’ ormai accertato che l’Iran ha operato – per anni – in collaborazione con la rete illegale creata dallo scienziato pakistano A.Q. Khan, le cui attività erano finalizzate non certo alla costruzione di impianti civili.

[150]Espressa in modo molto chiaro nella recente opera di Trita Parsi, Treacherous Alliance: the secret dealings of Israel, Iran and United States, Yale University Press, 2007.

[151]Il TNP, sottoscritto il 1 luglio 1968 ed entrato in vigore il 5 marzo 1970, proibisce agli stati firmatari che non disponevano di armamenti nucleari all’epoca della firma (stati non-nucleari), di ricevere o fabbricare tali armamenti o di procurarsi tecnologie e materiale utilizzabile per la costruzione di armamenti nucleari. Ugualmente il trattato proibisce agli stati nucleari firmatari (USA, URSS/Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di cedere a stati non-nucleari, armi nucleari e tecnologie o materiali utili alla costruzione di queste armi. Inoltre il trasferimento di materiale e tecnologie nucleari, da utilizzarsi per scopi pacifici, deve, secondo il trattato, avvenire sotto lo stretto controllo dall’Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA). E’ proprio l’assistenza dell’AIEA per gli sviluppi pacifici che viene offerta in cambio ai paesi firmatari (e negata ai non firmatari). India, Israele e Pakistan (che si sono dotati di armamento nucleare) non sono stati-parte e non hanno aderito agli inviti di entrare nel trattato come stati non nucleari. Anche Argentina e Brasile non hanno firmato il TNP.

[152]Tra di essi: il riconoscimento formale del diritto dell’Iran alla tecnologia nucleare civile; il sostegno all’adesione dell’Iran all’OMC; assicurazioni sul carattere temporaneo della moratoria sull’arricchimento dell’uranio, che avrebbe potuto riprendere una volta certificata la natura pacifica del programma nucleare. Il pacchetto conteneva peraltro anche la minaccia di sanzioni all’Iran in caso di inadempimento.

[153]Si fa presente che questo punto consente di fatto alla Russia di portare a compimento la costruzione in Iran dell’impianto nucleare civile ad acqua leggera di Bushehr.

[154]Non sono mancate le interpretazioni in chiave politica del rapporto NIE: esso sarebbe, secondo la tesi sostenuta da alcuni esponenti neoconservatori, il frutto di una insidiosa iniziativa di ambienti interni alla CIA ostili all’amministrazione repubblicana. E’ nota la polemica neoconservatrice contro la gestione clintoniana della CIA e contro ciò che di tale gestione sopravvive ancora oggi.

[155]Va inoltre ricordato che pochi giorni prima Israele aveva proceduto al collaudo di un missile dotato di dispositivi di propulsione di nuova concezione.

[156]In particolare, Il gruppo salafita Fatah al Islam deriverebbe da un distaccamento di un analogo gruppo siriano, anch'esso operante nei campi profughi palestinesi in Siria, con l'obiettivo di sostituirsi alla leadership, principalmente di stampo nazionalista filo-Fatah, dei campi palestinesi in Libano. I jihadisti della milizia non sono tutti palestinesi, bensì provengono da numerosi teatri arabi quali Pakistan, Arabia Saudita, Iraq; tale circostanza, assieme alla condanna espressa sia da parte delle autorità palestinesi (ANP), sia dagli stessi profughi palestinesi in Libano, confermerebbe l'estraneità del gruppo alla causa dell'indipendenza palestinese. Viceversa, molto forti sarebbero i legami tra il gruppo e il terrorismo islamista di al-Qaeda, stante anche lo stretto legame tra il leader di Fatah al-Islam, Shaker Abssi, e l’ex capo di al-Qaeda in Iraq, Abu Musab Al-Zarqawi, entrambi di origine palestinese.

[157]  Si rammenta che l’ultima riforma del Consiglio di sicurezza risale al 1965 quando il numero dei suoi membri fu elevato da 11 a 15, a seguito del progressivo aumento del numero degli Stati membri, a loro volta saliti dai 51 iniziali a 118.

[158]Le funzioni del CICS, soppresso dalla legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 1, sono state nuovamente riattribuite al CIPE con D:P:R: 20 aprile 1994, n. 373, Regolamento recante devoluzione delle funzioni dei Comitati interministeriali soppressi e per il riordino della relativa disciplina.

[159]Al proposito il viceministro degli Affari esteri, Patrizia Sentinelli, nel corso dell’audizione sulla cooperazione allo sviluppo presso la Commissione Affari esteri della Camera (seduta del 18 ottobre 2006) ha quantificato in un terzo la quota dell’APS di pertinenza del proprio Dicastero, i restanti due terzi essendo amministrati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

[160]L’APS italiano si suddivide per un terzo nella componente bilaterale, e per la restante parte in quella multilaterale: quest’ultima tuttavia include la quota italiana dell’APS europeo, che rappresenta la metà dell’APS multilaterale italiano.

[161]In proposito assume particolare importanza la partecipazione italiana al Fondo globale contro l’AIDS, la tubercolosi e la malaria: la Conferenza di rifinanziamento del Fondo, svoltasi a Berlino nel settembre 2007, ha indicato in almeno 130 milioni di euro annui il contributo dell’Italia. Si ricorda inoltre che la proposta di legge a prima firma dell’On. Leoni (A.C. 1194) - il cui esame era stato avviato dalla Commissione Affari esteri della Camera in sede referente - era diretta a rendere certo e stabile il contributo italiano al Fondo globale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria, assicurando nel contempo la distinzione del medesimo contributo rispetto agli stanziamenti destinati alla cooperazione internazionale.