Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Responsabilità extrafunzionale del Presidente della Repubblica - Seconda edizione
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 8
Data: 08/07/2008
Descrittori:
IRRESPONSABILITA' DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA   PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni
II-Giustizia


Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Documentazione e ricerche

Responsabilità extrafunzionale del Presidente della Repubblica

 

 

 

 

 

n. 8

Seconda edizione

 

10 Luglio 2008

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIPARTIMENTO istituzioni

SIWEB

 

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File: ac0116.doc

 

 


INDICE

Premessa

Il regime della responsabilità del Presidente della Repubblica                 3

§      La responsabilità funzionale                                                                            3

§      La responsabilità extrafunzionale                                                                    5

Dottrina

§      L. Carlassare, Art. 90, in Commentario della Costituzione(a cura di G. Branca), Bologna, 1983 (estratto)                                                                                                        11

§      G. Zagrebelsky, Procedimento d’accusa (voce), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, Milano, 1986 (estratto)                                                                                                        17

§      G. Di Raimo, Reati ministeriali e presidenziali (voce), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVIII, Milano, 1986 (estratto)                                                                                               19

§      V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Art. 90, in La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Roma 1969                                                              27

§      C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975 (estratto)                  37

§      G. Ferrara, Sulla responsabilità penale del Presidente della Repubblica, in AA.VV., Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, Padova, 1995                                                       43

§      U. De Siervo, La responsabilità penale del Capo dello Stato, in AA.VV., Il Presidente della Repubblica(a cura di M. Luciani e M. Volpi), Bologna, 1997 (estratto)                            61

§      A. Pace, Le forme extrapenali di responsabilità del Capo dello Stato, in AA.VV.,Il Presidente della Repubblica(a cura di M. Luciani e M. Volpi), Bologna, 1997 (estratto)        69

§      A. Pugiotto, Ben oltre il ‘caso Cossiga’: le importanti novità della sentenza n. 154 del 2004, in Diritto&Giustizia, n. 26, luglio 2004                                                                77

§      F. Sorrentino, Tra immunità e privilegi, in www.federalismi.it, luglio 2004   81

§      L. Elia, Il Presidente iracondo e i limiti della sua responsabilità,in Giurisprudenza costituzionale, 3/2004                                                                                                            85

§      A. D’Andrea, L'irresponsabilità del Capo dello Stato non è pari all'insindacabilità dei parlamentari: la Corte ‘distingue’ e rilancia l'interpretazione restrittiva dell'immunità, in Giurisprudenza costituzionale, 3/2004                                                                                                            93

§      E. Malfatti, La ‘doppia’ pronuncia sul ‘caso Cossiga’: di molte strade percorribili, la Corte non sceglie la più lineare, in Giurisprudenza costituzionale, 3/2004                              105

§      T.F. Giupponi, Le immunità della politica. Contributo allo studio delle prerogative costituzionali, 2005 (estratto)                                                                                                      117

Normativa di riferimento

§      Costituzione della Repubblica (art. 90)                                                       159

§      L.Cost. 9 febbraio 1948, n. 1. Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d'indipendenza della Corte costituzionale.                                                  160

§      L.Cost. 11 marzo 1953, n. 1. Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale.                                                                                              162

§      L. 25 gennaio 1962, n. 20. Norme sui procedimenti e giudizi di accusa.   166

§      L. 5 giugno 1989, n. 219. Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione.                                                                                       172

Giurisprudenza costituzionale

§      Sentenza 20 gennaio 2004, n. 24                                                                183

§      Sentenza 26 maggio 2004, n. 154                                                              200

 

 


Premessa

 


Il regime della responsabilità del Presidente della Repubblica

La responsabilità funzionale

A norma dell’articolo 90 della Costituzione, “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento ed attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.

Come dispongono gli articoli 134 e 135 della Costituzione, il giudizio sulle accuse mosse contro il Presidente della Repubblica spetta alla Corte Costituzionale. La Corte, normalmente composta da quindici giudici[1], è in tali giudizi integrata da sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini che il Parlamento elegge ogni nove anni.

Sul procedimento d’accusa interviene altresì la legge costituzionale n. 1 del 1953[2]. Quest’ultima[3] ha introdotto nel procedimento d’accusa nei confronti del Presidente della Repubblica il Comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa, formato dai membri delle Giunte della Camera e del Senato competenti per le autorizzazioni a procedere, cui è affidato il compito di compiere l’attività istruttoria e riferire al Parlamento in merito a tali procedimenti.

La procedura parlamentare per i procedimenti d’accusa nei confronti del Presidente della Repubblica prevede dunque due fasi: una fase istruttoria da parte del Comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa e una deliberante che spetta al Parlamento in seduta comune (Camera dei deputati e Senato), che può decidere di mettere in stato d’accusa il Presidente.

 

L’attività del Comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa è disciplinata dalla legge 219 del 1989[4] e dal regolamento parlamentare per i procedimenti d’accusa, approvato dal Senato il 7 giugno 1989 e dalla Camera il 28 giugno 1989.

Il Comitato è un organo bicamerale formato dai membri della Giunta per le elezioni e delle immunità del Senato e della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio della Camera, composte rispettivamente di 23 e 21 membri, per un totale di 44 componenti. I membri delle due Giunte – la cui attività ordinaria riguarda le decisioni relative all’immunità dei membri del rispettivo ramo del Parlamento – si riuniscono nel Comitato esclusivamente per decidere sui procedimenti di accusa.

Il Comitato si attiva d’ufficio, anche su proposta di un componente, o su stimolo del Presidente della Camera, al quale devono essere presentati o fatti immediatamente pervenire i rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati indicati nell'articolo 90 della Costituzione. Entro dieci giorni il Comitato si deve riunire, su convocazione del Presidente.

Le sedute del comitato sono ordinariamente segrete.

Il Comitato, in primo luogo, decide sulla fondatezza della denuncia. Ove venga accertata la manifesta infondatezza, il Comitato delibera l’immediata archiviazione. In tale caso, un quarto dei componenti il Parlamento può chiedere che il Comitato presenti una relazione al Parlamento in seduta comune.

In caso contrario, il Comitato esperisce le proprie indagini entro il termine di cinque mesi, prorogabili a otto.

La convocazione, la discussione e la deliberazione del Parlamento in seduta comune sono regolate dalla legge costituzionale n. 1 del 1953, dalla legge n. 20 del 1962[5], dalla legge n. 219 del 1989 e dal regolamento parlamentare per i procedimenti d’accusa. La deliberazione di messa in stato d’accusa deve essere adottata a scrutinio segreto ed a maggioranza assoluta dei componenti il Parlamento in seduta comune; in tale caso il Parlamento elegge uno o più commissari per sostenere l’accusa davanti alla Corte costituzionale.

 

Per la fase del giudizio di fronte alla Corte costituzionale dispongono gli articoli da 21 a 34 della L. n. 20/1962, e le Norme integrative per i giudizi di accusa davanti alla Corte Costituzionale approvate dalla Corte il 27 novembre 1962.

 

Primo adempimento della Corte è il sorteggio di sedici giudici aggregati – che devono integrare il collegio giudicante e costituirne sempre la maggioranza – dall’elenco di quarantacinque persone aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore formato ogni nove anni, mediante elezione, dal Parlamento in seduta comune[6].

 

L’articolo 15 della legge costituzionale n. 1 del 1953 detta disposizioni in materia di sanzioni nell’ipotesi di condanna per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica (tali fattispecie, infatti, non sono tipizzate dalla legislazione penale). Le sanzioni penali sono determinate dalla stessa Corte nei limiti del massimo di pena previsto dalle leggi vigenti al momento del fatto; la Corte determina altresì le sanzioni costituzionali, amministrative e civili adeguate al fatto.

La responsabilità extrafunzionale

La Costituzione non reca alcuna disciplina della responsabilità del Presidente della Repubblica per l’attività compiuta al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni.

 

Nel silenzio della Costituzione, la dottrina ha elaborato differenti orientamenti interpretativi.

Secondo taluni (Carlassare, Pace, Zagrebelsky) la lettera dell’articolo 90 della Costituzione non darebbe adito ad alcuna disposizione derogatoria: l’aver espressamente riferito l’irresponsabilità presidenziale soltanto agli atti compiuti dal Capo dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni lascerebbe intendere che, in tutti gli altri casi, l’attività del Presidente non è sottratta alle regole comuni, valendo pienamente la sua responsabilità civile, penale e amministrativa. Non si potrebbe pertanto escludere che nel corso del suo mandato il Presidente possa essere sottoposto alla giurisdizione dei giudici ordinari e incorrere nelle sanzioni da questi pronunciate.

A riguardo, vi è chi (Zagrebelsky) osserva che tale lacuna costituzionale ha prodotto una situazione paradossale, soprattutto rispetto alla responsabilità penale, nella quale non vale per il Presidente alcuna forma di protezione, prevista in altri casi dalla Costituzione, contro iniziative arbitrarie dell’autorità giudiziaria.

Secondo altri (De Siervo, Martines, Rescigno) l’esigenza di una temporanea sottrazione del Capo dello Stato alla giurisdizione penale, anche se non ricavabile dalla lettera dell’articolo 90 della Costituzione, può essere sostenuta in via di interpretazione sistematica del complessivo assetto costituzionale, sulla base di una ricostruzione dello status presidenziale che sembrerebbe palesemente incompatibile, nel periodo del mandato, con la condizione giuridica di indagato o imputato. L’improcedibilità temporanea sarebbe in questo senso funzionale al doveroso prestigio delle istituzioni e all’esigenza che i relativi organi possano operare con l’autonomia e la serenità necessarie per esercitare le funzioni di cui sono attributari.

Ciò essendo ricostruito per via implicita, la stessa dottrina segnala comunque la necessità di disposizioni che chiariscano opportunamente la mera sospensione dei termini di prescrizione, onde evitare che l’improcedibilità temporanea determini la possibile estinzione degli illeciti per avvenuta prescrizione, risolvendosi in sostanziale immunità.

 

Un contributo al chiarimento della questione è stato dato dalla Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 154 del 2004, ha precisato che “l'art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell'alto tradimento e dell'attentato alla Costituzione – solo per gli “atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni”. Per la Corte “è dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni inerenti all'esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni, restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica, che conserva la sua soggettività e la sua sfera di rapporti giuridici, senza confondersi con l'organo che pro tempore impersona”.

In questo quadro la Corte ha inoltre evidenziato, sotto il profilo procedurale, che “spetta all'autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, accertare se le dichiarazioni medesime costituiscano esercizio delle funzioni, o siano strumentali ed accessorie ad una funzione presidenziale, e solo in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dalla immunità del Presidente della Repubblica, di cui all'art. 90 della Costituzione”.

La Corte non si è peraltro pronunciata sul “diverso e discusso problema degli eventuali limiti alla procedibilità di giudizi (in particolare penali) nei confronti della persona fisica del Capo dello Stato durante il mandato, limiti che, se anche sussistessero, non varrebbero, appunto, se non fino alla cessazione della carica”.

 

La vicenda che ha portato alla sentenza 154 della Corte costituzionale nasce dalle sentenze n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, con le quali la terza sezione civile della Corte di cassazione aveva annullato due decisioni della Corte d’Appello di Roma concernenti l’irresponsabilità del Presidente Cossiga per le opinioni, ritenute diffamatorie, espresse nei confronti di due senatori della Repubblica, vincitori invece in primo grado dinanzi al Tribunale di Roma.

Nei due giudizi instauratisi dinanzi al Tribunale e alla Corte d’appello di Roma, il convenuto sen. Cossiga aveva eccepito preliminarmente la improponibilità o la inammissibilità delle domande in base all’art. 90 della Costituzione, sostenendo che le dichiarazioni per cui egli era in giudizio fossero coperte dalla immunità ivi sancita per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni presidenziali.

Tale tesi, era stata respinta dai giudici di primo grado, accolta invece dalla Corte d’Appello, che aveva dichiarato improponibili le due domande giudiziali, nuovamente respinta dalla Corte di Cassazione.

In particolare, la Corte di Cassazione, nel rinviare le cause ai giudici di merito, aveva stabilito i seguenti principi:

§       l’immunità di cui all’art. 90 Cost. copre solo gli atti “funzionali” del Presidente della Repubblica, comprendendosi fra questi quelli compiuti nell’esercizio delle funzione di rappresentanza dell’unità nazionale di cui all’art. 87 Cost. e gli atti di “autodifesa” dell’organo costituzionale;

§       le “esternazioni” del Presidente della Repubblica, non equiparabili a libere manifestazioni di pensiero ai sensi dell’art. 21 Cost., sono coperte da immunità solo quando siano strumentali o accessorie a una funzione presidenziale;

§       le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di una esternazione presidenziale sono coperte da immunità solo se commesse come “estrinsecazione modale” della funzione;

§       l’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il presidente di sollevare conflitto di attribuzioni per “menomazione”.

Ritenendo le due sentenze della Suprema Corte un atto di lesione delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute al Capo dello Stato, Cossiga aveva presentato contro di esse, in data 11 febbraio 2002, un ricorso alla Corte costituzionale.

 

Per quanto attiene invece alla procedibilità nei confronti del Capo dello Stato nel corso del suo mandato, si segnala la posizione espressa nel 1993 dal Procuratore della Repubblica di Roma nel provvedimento di rifiuto a prendere in considerazione - nel cosiddetto “procedimento SISDE” relativo a presunti reati ministeriali – la posizione processuale dell’allora Presidente della Repubblica Scalfaro, in quanto la Costituzione impedirebbe “di avviare qualsiasi indagine” di natura penale a carico del Capo dello Stato[7].

 


Dottrina

 


 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 

 


 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 


 

 


 

 

 


 

Normativa di riferimento

 


 

Costituzione della Repubblica
(art. 90)

 

Art. 90

Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.

 

In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune [Cost. 55], a maggioranza assoluta dei suoi membri [Cost. 134, 135] (1).

 

 

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(1) Vedi, anche, gli artt. 12, 13 e 15, L.Cost. 11 marzo 1953, n. 1 concernente integrazioni alla Costituzione relativamente alla Corte costituzionale, e la L. 25 gennaio 1962, n. 20, sui procedimenti e giudizi d'accusa, nonché il Regolamento parlamentare per i procedimenti di accusa, 7-28 giugno 1989.

 

 


 

L.Cost. 9 febbraio 1948, n. 1.
Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d'indipendenza della Corte costituzionale.

 

 

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 20 febbraio 1948, n. 43.

(2)  Vedi anche il Titolo I e il Capo II del Titolo II Legge 11 marzo 1953, n. 87; i Capi I e II delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale e il Regolamento generale.

(3)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti circolari:

- Ministero per la pubblica istruzione: Circ. 18 giugno 1998, n. 278.

 

 

Art. 1. 

La questione d'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione.

 

 

Art. 2.

Quando una Regione ritenga che una leggeÐ od atto avente forza di legge della Repubblica invada la sfera della competenza ad essa assegnata dalla Costituzione, può, con deliberazione della Giunta regionale, promuovere l'azione di legittimità costituzionale davanti alla Corte, nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente forza di legge.

 

Una legge d'una Regione può essere impugnata per illegittimità costituzionale, oltre che nei casi e con le forme del precedente articolo e dell'art. 127 della Costituzione, anche da un'altra Regione, che ritenga lesa da tale legge la propria competenza. L'azione è proposta su deliberazione della Giunta regionale, entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge.

 

 

Art. 3.

 

(4)

 

I giudici della Corte costituzionale non possono essere rimossi, né sospesi dal loro ufficio se non con decisione della Corte, per sopravvenuta incapacità fisica o civile o per gravi mancanze nell'esercizio delle loro funzioni.

 

Finché durano in carica, i giudici della Corte costituzionale godono della immunità accordata nel secondo comma dell'art. 68 della Costituzione ai membri delle due Camere. L'autorizzazione ivi prevista è data dalla Corte costituzionale (5).

 

 

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(4)  Comma abrogato dall'art. 7, L. cost. 22 novembre 1967, n. 20.

(5)  Vedi anche, oltre i provvedimenti citati nella nota all'epigrafe, artt. 3, 5, 7, 8 e 11, L. cost. 11 marzo 1953, n. 1.

 

 

Art. 4. 

La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.


 

L.Cost. 11 marzo 1953, n. 1.
Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale.


 

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 14 marzo 1953, n. 62.

(2)  Vedi anche L. 25 gennaio 1962, n. 20; norme integrative per i giudizi di accusa davanti alla Corte Costituzionale; Regolamento generale riportato al n. B/II e Regolamento parlamentare per i procedimenti di accusa.

 

 

Art. 1. 

La Corte costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme, nei limiti ed alle condizioni di cui alla Carta costituzionale, alla L. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, ed alla legge ordinaria emanata per la prima attuazione delle predette norme costituzionali.

 

Art. 2. 

Spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso.

 

Le modalità di tale giudizio saranno stabilite dalla legge che disciplinerà lo svolgimento del referendum popolare.

 

 

Art. 3. 

(3).

 

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(3)  Articolo abrogato dall'art. 7, L. cost. 22 novembre 1967, n. 2.

 

 

Art. 4. 

(4).

 

 

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(4)  Articolo abrogato dall'art. 7, L. cost. 22 novembre 1967, n. 2.

 

 

Art. 5. 

I giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni.

 

 

Art. 6.

I giudici della Corte costituzionale hanno una retribuzione mensile che non può essere inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria ed è determinata con legge.

 

 

Art. 7. 

I giudici della Corte costituzionale possono essere rimossi o sospesi dal loro ufficio a norma dell'art. 2 (5) della L. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, solo in seguito a deliberazione della Corte presa a maggioranza di due terzi dei componenti che partecipano all'adunanza.

 

 

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(5)  Rectius art. 3.

 

 

Art. 8. 

Il giudice della Corte costituzionale che per sei mesi non eserciti le sue funzioni decade dalla carica (6).

 

 

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(6)  Vedi anche art. 16, L. 11 marzo 1953, n. 87.

 

 

Art. 9. 

Il presidente della Corte, quando lo ritenga necessario, può con provvedimento motivato ridurre fino alla metà i termini dei procedimenti.

 

 

Art. 10.

 

 ... (7).

 

 

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(7)  Articolo abrogato dall'art. 7, L. cost. 22 novembre 1967, n. 2.

 

 

Art. 11. 

Le disposizioni degli artt. 5 e 6 si applicano anche ai cittadini eletti dal Parlamento ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 135 della Costituzione, limitatamente al periodo in cui esercitano le loro funzioni presso la Corte.

 

 

Art. 12.

1. La deliberazione sulla messa in istato di accusa del Presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione è adottata dal Parlamento in seduta comune su relazione di un Comitato formato dai componenti della Giunta del Senato della Repubblica e da quelli della Giunta della Camera dei deputati competenti per le autorizzazioni a procedere in base ai rispettivi Regolamenti.

 

2. Il Comitato di cui al comma 1 è presieduto dal Presidente della Giunta del Senato della Repubblica o dal Presidente della Giunta della Camera dei deputati, che si alternano per ciascuna legislatura.

 

3. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche alle ipotesi di concorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, di Ministri nonché di altri soggetti nei reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione.

 

4. Quando sia deliberata la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale può disporre la sospensione della carica (8).

 

 

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(8)  Cosí sostituito dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1.

 

 

Art. 13. 

Il Parlamento in seduta comune, nel porre in istato di accusa il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei Ministri o i Ministri, elegge, anche tra i suoi componenti, uno o più commissari per sostenere l'accusa.

 

I commissari esercitano davanti alla Corte le funzioni di pubblico ministero e hanno facoltà di assistere a tutti gli atti istruttori.

 

 

Art. 14. 

L'atto di accusa contro il Presidente del Consiglio dei Ministri o i Ministri implica di pieno diritto la sospensione dalla carica.

 

 

Art. 15. 

Per i reati di attentato alla Costituzione e di alto tradimento commessi dal Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, nel pronunciare sentenza di condanna, determina le sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto dalle leggi vigenti al momento del fatto, nonché le sanzioni costituzionali, amministrative e civili adeguate al fatto.

 

Le norme contenute nelle leggi penali relative alla sussistenza del reato, alla punibilità ed alla perseguibilità sono applicabili nei giudizi di accusa nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri, ma la Corte può aumentare la pena fino a un terzo anche oltre la misura stabilita, in caso di circostanze che rivelino l'eccezionale gravità del reato. La Corte può infliggere, altresì, le sanzioni costituzionali e amministrative adeguate al fatto.

 

 

Disposizione transitoria - La prima elezione della Commissione preveduta dall'art. 12 avrà luogo entro due mesi dall'entrata in vigore della presente legge.


 

L. 25 gennaio 1962, n. 20.
Norme sui procedimenti e giudizi di accusa.


 

 

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 13 febbraio 1962, n. 39.

(2)  Vedi, anche, il Regolamento parlamentare per i procedimenti di accusa e le norme integrative per i giudizi d'accusa davanti alla Corte costituzionale.

 

 

1.-16.  ... (3).

 

 

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(3)  Abrogati dall'art. 9, L. 10 maggio 1978, n. 170.

 

 

Art. 17.

Deliberazione di messa in stato d'accusa.

La deliberazione di messa in stato d'accusa, prevista dall'art. 12 della L. cost. 11 marzo 1953, n. 1, è adottata dal Parlamento a norma dell'art. 90 della Costituzione e a scrutinio segreto.

 

L'atto di accusa deve contenere l'indicazione degli addebiti e delle prove su cui l'accusa si fonda.

 

Il Presidente della Camera dei deputati, entro due giorni dalla deliberazione del Parlamento, trasmette l'atto di accusa al Presidente della Corte Costituzionale.

 

Il Presidente della Corte dispone che entro due giorni dalla ricezione dell'atto esso sia notificato all'accusato.

 

 

Art. 18.

Costituzione del Collegio d'accusa. Commissari delegati.

Quando i commissari eletti dal Parlamento per sostenere l'accusa a norma dell'art. 13 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, sono più di due, essi, subito dopo la loro elezione, si costituiscono in Collegio di accusa eleggendo fra loro il presidente.

 

Il Collegio di accusa può nominare tra i suoi componenti uno o più commissari delegati a prendere la parola nel dibattimento e a formulare le richieste secondo l'atto d'accusa e le deliberazioni del Collegio stesso.

 

 

Art. 19.

Sostituzione dei commissari d'accusa. Sospensione del giudizio.

Nel caso di cessazione dall'ufficio o di impedimento di tutti i commissari d'accusa, il giudizio innanzi alla Corte Costituzionale è sospeso sin quanto il Parlamento non abbia provveduto alla loro sostituzione.

 

Il Parlamento è riunito per provvedervi entro dieci giorni.

 

 

Art. 20.

Cessazione dall'incarico dei commissari di accusa.

 

I commissari d'accusa cessano dall'incarico col deposito della sentenza in cancelleria.

 

 

Art. 21.

Sorteggio e giuramento dei giudici aggregati.

La Corte Costituzionale, ricevuto l'atto di accusa, procede, in pubblica udienza e con la partecipazione dei commissari d'accusa, al sorteggio dei giudici aggregati previsto dall'art. 10 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1.

 

I giudici sorteggiati prestano giuramento nelle mani del Presidente della Corte Costituzionale secondo la formula prescritta dall'art. 5 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

 

Il giuramento non è ripetuto se è già stato prestato in occasione di un precedente giudizio.

 

 

Art. 22.

Compimento degli atti di indagine.

Il Presidente della Corte Costituzionale provvede, direttamente ovvero delegando giudici della Corte, al compimento degli atti di indagine necessari, ivi compreso l'interrogatorio dell'imputato, nonché alla relazione; se l'imputato non ha un difensore di fuducia provvede altresí alla nomina di un difensore di ufficio (4).

 

 

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(4)  Così sostituito dall'art. 13, L. 5 giugno 1989, n. 219.

 

 

Art. 23.

Poteri della Corte Costituzionale.

La Corte può, anche d'ufficio, adottare i provvedimenti, cautelari e coercitivi, personali o reali, che ritiene opportuni. Può altresí revocare o modificare i provvedimenti cautelari e coercitivi deliberati dal comitato di cui all'art. 12 della L. cost. 11 marzo 1953, n. 1, come modificato dall'art. 3 della L. 16 gennaio 1989, n. 1 (5).

 

 

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(5)  Così sostituito dall'art. 14, L. 5 giugno 1989, n. 219.

 

 

Art. 24.

Fissazione della data del dibattimento.

Chiusa l'istruzione, il Presidente fissa nel termine non inferiore a venti giorni la data del dibattimento e dispone che per quella data siano convocati i giudici ordinari e aggregati. Il decreto è notificato all'accusato e al suo difensore.

 

 

Art. 25.

Astensione e ricusazione dei giudici.

Prima dell'inizio delle formalità di apertura del dibattimento i giudici ordinari ed aggregati possono presentare istanza motivata con la quale chiedono di astenersi dal giudizio e possono essere ricusati con istanza motivata dell'accusato o del suo difensore ovvero dei commissari d'accusa.

 

La Corte decide immediatamente sulla richiesta di astensione o sulla ricusazione senza l'intervento dei giudici ai quali l'astensione o la ricusazione si riferisce.

 

 

Art. 26.

Composizione del Collegio giudicante.

Ai giudizi di accusa partecipano tutti i giudici della Corte, ordinari e aggregati, che non siano legittimamente impediti.

 

Il Collegio giudicante deve, in ogni caso, essere costituito da almeno ventuno giudici, dei quali i giudici aggregati devono essere in maggioranza.

 

Il giudice che non sia intervenuto ad una udienza non può partecipare alle udienze successive.

 

Chiuso il dibattimento, la Corte si riunisce in Caruera di consiglio, senza interruzione con la presenza dei giudici ordinari ed aggregati intervenuti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio.

 

I giudici ordinari e aggregati che costituiscono il Collegio giudicante continuano a farne parte sino all'esaurimento del giudizio, anche se sia sopravvenuta la scadenza del loro incarico.

 

 

 

Art. 27.

Relazione tra il giudizio innanzi alla Corte Costituzionale e l'atto di accusa. Reati connessi.

La Corte Costituzionale può conoscere soltanto i reati compresi nell'atto d'accusa.

 

La Corte può altresí conoscere per connessione, se lo ritiene necessario, di reati che siano aggravati ai sensi dell'art. 61, numero 2), del codice penale con riferimento ad uno dei reati previsti dall'art. 90 della Costituzione. In tal caso, se per i suddetti reati sia già in corso procedimento penale innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria o militare, la Corte richiede la trasmissione degli atti relativi, che deve essere disposta senza ritardo dall'autorità giudiziaria (6).

 

Può altresì dichiarare la connessione per un reato previsto dall'art. 90 della Costituzione non compreso nell'atto di accusa, dandone comunicazione al Presidente della Camera dei deputati. In tal caso il giudizio innanzi alla Corte Costituzionale è sospeso sino alla definizione davanti al Parlamento del procedimento per il reato connesso (7).

 

Può tuttavia in ogni momento ordinare la separazione dei procedimenti qualora lo ritenga conveniente.

 

[Ai procedimenti per reati connessi si applicano le disposizioni dell'art. 1] (8).

 

 

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(6)  Comma così sostituito dall'art. 15, L. 5 giugno 1989, n. 219.

(7)  Comma così modificato dall'art. 15, L. 5 giugno 1989, n. 219.

(8)  Comma abrogato dall'art. 15, L. 5 giugno 1989, n. 219.

 

 

Art. 28.

Il Presidente formula separatamente per ogni accusato e per ogni capo d'imputazione le questioni di fatto e di diritto; dopo che queste sono state discusse e votate, formula, ove ne sia il caso, le questioni sull'applicazione della pena; le mette in discussione e le fa votare. Nelle votazioni, il Presidente raccoglie i voti cominciando dal giudice meno anziano e vota per ultimo. Nessuno dei votanti può esprimere per iscritto i motivi del proprio voto. Non sono ammesse astensioni dal voto.

 

In caso di parità di voti prevale l'opinione più favorevole all'accusato.

 

Il dispositivo della sentenza è letto dal Presidente in pubblica udienza.

 

La sentenza è depositata in cancelleria ed è trasmessa al Ministro per la grazia e giustizia per la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

 

 

Art. 29.

Irrevocabilità e revisione della sentenza.

La sentenza è irrevocabile, ma può essere sottoposta a revisione con ordinanza della Corte Costituzionale se, dopo la condanna, sopravvengono o si scoprono nuovi fatti o nuovi elementi di prova, i quali, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il fatto non sussiste ovvero che il condannato non lo ha commesso.

 

Il potere di chiedere la revisione attribuito al pubblico ministero dal codice di procedura penale è esercitato dal comitato di cui all'art. 12 della L. cost. 11 marzo 1953, n. 1, come modificato dall'art. 3 della L. cost. 16 gennaio 1989, n. 1 (9).

 

L'ordinanza che ammette la revisione è comunicata al Presidente della Camera dei deputati. Questi convoca il Parlamento in seduta comune per l'elezione dei commissari d'accusa.

 

 

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(9)  Comma così sostituito dall'art. 16, L. 5 giugno 1989, n. 219.

 

 

Art. 30.

Giudizi civili o amministrativi.

1. Il giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e per il risarcimento del danno può essere iniziato o proseguito contro il colpevole di uno dei reati indicati nell'articolo 90 della Costituzione solo se la Corte costituzionale non ha applicato sanzioni restitutorie o risarcitorie ai sensi del primo comma dell'art. 15 della L. cost. 11 marzo 1953, n. 1 (10).

 

 

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(10)  Così sostituito dall'art. 17, L. 5 giugno 1989, n. 219.

 

 

Art. 31.

 Poteri nell'esecuzione penale.

I poteri previsti dall'art. 144 del codice penale sono esercitati dal primo presidente della Corte d'appello di Roma. Quelli attribuiti dal codice penale e dal codice di procedura penale al pubblico ministero nell'esecuzione penale sono esercitati dal procuratore generale presso la Corte stessa.

 

 

Art. 32.

Amnistia ed indulto - Riabilitazione.

La Corte applica l'amnistia e l'indulto e decide sulle domande di riabilitazione relative a sentenze di condanna da essa pronunciate.

 

 

 

Art. 33.

Composizione del Collegio per l'istanza di revisione, per l'applicazione dell'amnistia e dell'indulto e per la riabilitazione.

La Corte costituzionale giudica sulle istanze di revisione e provvede all'applicazione dell'amnistia o dell'indulto e alla riabilitazione nella composizione prevista per i giudizi di accusa.

 

Il sorteggio dei giudici aggregati è fatto dalla Corte in pubblica udienza con la partecipazione di un delegato della Commissione inquirente.

 

Ai provvedimenti di cui al primo comma si applica la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 28.

 

 

Art. 34.

Applicabilità dei codici penale e di procedura penale.

Nel procedimento d'accusa e nel giudizio previsti dalla presente legge si osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente disposto, le norme dei codici penali e di procedura penale.

 

 

Art. 35.

Abrogazione di norme precedenti.

È abrogato il capo IV del titolo II della legge 11 marzo 1953, n. 87.


 

L. 5 giugno 1989, n. 219.
Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione.


 

 

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 6 giugno 1989, n. 130.

 

 

Capo I

Norme in materia di reati ministeriali

 

1.  1. Il collegio di cui all'articolo 7 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , procede alle indagini previste dall'articolo 8 della stessa legge con i poteri spettanti al procuratore della Repubblica nell'istruzione sommaria e con l'osservanza delle forme stabilite per tale istruzione. Il collegio può altresì compiere anche d'ufficio gli atti che a norma del codice di procedura penale sono comunque di competenza del giudice istruttore. Il collegio può inoltre procedere ad atti di polizia giudiziaria direttamente o per mezzo di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria.

 

2. Successivamente alla data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il collegio procede alle indagini di cui al comma 1 con i poteri che spettano al pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. Ove ne ricorrano le condizioni il collegio può disporre anche d'ufficio incidente probatorio, provvedendo direttamente allo stesso, che si considera ad ogni effetto come espletato dal giudice delle indagini preliminari. Il collegio può altresì compiere anche d'ufficio gli altri atti che a norma del nuovo codice di procedura penale sono di competenza del suddetto giudice.

 

3. Prima che il collegio concluda le proprie indagini i soggetti interessati possono presentare memorie o chiedere di essere ascoltati. Agli stessi è consentito, ove lo richiedano, di prendere visione degli atti.

 

4. Dopo la data indicata nel comma 2, l'indicazione di delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l'ordine di cattura, contenuta nel comma 1 dell'articolo 10 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , si intende riferita ai delitti menzionati nella seconda parte del comma 3 dell'articolo 343 del nuovo codice di procedura penale.

 

5. Per quanto non diversamente previsto dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , e dal presente articolo, nello svolgimento delle indagini di cui al comma 1 si osservano le disposizioni del codice di procedura penale vigente all'atto della loro esecuzione, in quanto compatibili (2).

 

 

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(2)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

Art. 2. 

1. Il collegio, sentito il pubblico ministero e dopo lo svolgimento di ulteriori indagini ove richiesto dal procuratore della Repubblica ai sensi del comma 3 dell'articolo 8 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , dispone l'archiviazione di cui al comma 2 del predetto articolo 8, se la notizia di reato è infondata, ovvero manca una condizione di procedibilità diversa dall'autorizzazione di cui all'articolo 96 della Costituzione, se il reato è estinto, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se l'indiziato non lo ha commesso ovvero se il fatto integra un reato diverso da quelli indicati nell'articolo 96 della Costituzione; in tale ultima ipotesi il collegio dispone altresì la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria competente a conoscere del diverso reato.

 

2. Quando sopravvengano nuove prove il decreto di archiviazione indicato nel comma 1 può essere revocato dal collegio, su richiesta del procuratore della Repubblica competente ai sensi dell'articolo 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , ed osservate le forme ivi previste. Se dispone la revoca, il collegio provvede ai sensi dell'articolo 8 della predetta legge costituzionale e il termine di novanta giorni ivi previsto decorre dalla data del ricevimento della richiesta del procuratore della Repubblica (3).

 

 

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(3)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 3. 

1. Quando gli atti siano stati rimessi ai sensi del comma 4 dell'articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , al collegio ivi indicato, il procedimento continua secondo le norme ordinarie vigenti al momento della rimessione (4).

 

2. Nei casi di cui al comma 1 il collegio provvede senza ritardo a trasmettere gli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale indicato nell'articolo 11 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 .

 

3. Gli atti e i provvedimenti relativi allo svolgimento delle indagini di cui all'articolo 8 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , sono ad ogni effetto considerati come compiuti o disposti nel corso del procedimento ordinario (5).

 

 

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(4)  La Corte costituzionale, con sentenza 11-24 aprile 2002, n. 134 (Gazz. Uff. 2 maggio 2002, 1ª Serie speciale - Ediz. str.), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111 della Costituzione, dal Collegio per i procedimenti relativi ai reati previsti dall'art. 96 della Costituzione.

(5)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 4. 

1. Quando sia negata l'autorizzazione a procedere ai sensi del comma 3 dell'articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , l'assemblea della Camera competente ne dà comunicazione al collegio di cui all'articolo 1, che dispone l'archiviazione degli atti del procedimento, per mancanza della suddetta condizione di procedibilità, nei confronti dei soggetti per i quali l'autorizzazione è stata negata. Il provvedimento di archiviazione è irrevocabile.

 

2. Se il procedimento è relativo ad un reato commesso da più soggetti in concorso tra loro, l'assemblea indica a quale concorrente, anche se non Ministro né parlamentare, non si riferisce il diniego, per l'assenza dei presupposti di cui al comma 3 dell'articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (6).

 

 

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(6)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Capo II

Norme concernenti i reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione

 

Art. 5. 

1. I rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati indicati nell'articolo 90 della Costituzione devono essere presentati o fatti immediatamente pervenire al Presidente della Camera dei deputati, che li trasmette al comitato di cui all'articolo 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 , come modificato dall'articolo 3 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 .

 

2. Il membro del Parlamento che intende fare una denuncia la presenta al Presidente della Camera cui appartiene.

 

3. Il comitato dà comunicazione al Presidente della Camera dei deputati delle indagini promosse d'ufficio.

 

4. Salvo quanto disposto dagli articoli seguenti, il comitato procede alle indagini con gli stessi poteri attribuiti al collegio di cui all'articolo 7 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 , dall'articolo 1 della presente legge ed osservando le forme ivi previste (7).

 

 

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(7)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

 

Art. 6.

1. Nei procedimenti relativi ai reati di cui all'articolo 90 della Costituzione non sono richieste le autorizzazioni previste dal secondo e dal terzo comma dell'articolo 68 della Costituzione.

 

2. Nei procedimenti relativi ai reati di cui al comma 1 non pososno essere opposti il segreto di Stato e il segreto d'ufficio (8).

 

 

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(8)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 7.

1. Per il compimento delle indagini di cui al comma 4 dell'articolo 5 il comitato può delegare uno o più dei suoi componenti.

 

2. Devono in ogni caso essere deliberati dal comitato i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, ovvero perquisizioni personali o domiciliari, nonché quelli che applicano misure cautelari limitative della libertà personale nei confronti degli inquisiti.

 

3. Nei confronti del Presidente della Repubblica non possono essere adottati i provvedimenti indicati nel comma 2 se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica.

 

4. In casi eccezionali di necessità ed urgenza il presidente del comitato può adottare in via provvisoria i provvedimenti indicati nel comma 2, riferendone immediatamente al comitato. Se il comitato non convalida i provvedimenti entro dieci giorni dalla loro adozione, gli stessi si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.

 

5. I provvedimenti deliberati dal comitato a norma del comma 2 sono sottoscritti dal presidente e da un segretario.

 

6. Per l'esecuzione dei provvedimenti adottati con i poteri di cui al comma 2 il comitato si avvale della polizia giudiziaria (9).

 

 

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(9)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 8. 

1. Il comitato esperisce le indagini entro il termine massimo di cinque mesi. Tuttavia, ove si tratti di indagini particolarmente complesse, il comitato può deliberare per una sola volta la proroga del termine suddetto per un periodo non superiore a tre mesi.

 

2. Ove ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall'articolo 90 della Costituzione, il comitato dichiara, nei termini di cui al comma 1, la propria incompetenza. Ove ravvisi la manifesta infondatezza della notizia di reato, dispone con ordinanza motivata, nei medesimi termini, l'archiviazione degli atti del procedimento. In ogni altra ipotesi presenta al Parlamento in seduta comune la relazione prevista dall'articolo 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 , come modificato dall'articolo 3 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 .

 

3. Qualora il comitato abbia dichiarato la propria incompetenza a norma del comma 2, gli atti del procedimento sono trasmessi all'autorità giudiziaria salvo che sia presentata la richiesta di cui al comma 4.

 

4. Se è dichiarata l'incompetenza ovvero è disposta l'archiviazione, copia della relativa ordinanza è trasmessa ai Presidenti delle due Camere, che ne danno comunicazione alle rispettive Assemblee. Nel termine di dieci giorni dall'ultima di tali comunicazioni, almeno un quarto dei componenti del Parlamento può chiedere che il comitato, entro un mese dalla richiesta, presenti la relazione indicata nel comma 2.

 

5. In ogni caso il Parlamento, su richiesta di almeno quaranta membri, può disporre, per una sola volta, che il comitato compia un supplemento di indagini, stabilendo a tal fine un termine non superiore a tre mesi (10).

 

 

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(10)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 9.

1. Il comitato procede alle indagini relative ai reati di cui al comma 1 dell'articolo 5 anche nei confronti di qualsiasi soggetto che abbia concorso negli stessi.

 

2. Se il comitato ritiene che fatti per i quali procede l'autorità giudiziaria ordinaria o militare integrano taluno dei reati previsti dall'art. 90 della Costituzione, afferma la propria competenza indicando le persone nei cui confronti intende procedere e richiede la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria, che provvede senza ritardo dopo aver dichiarato con sentenza la propria incompetenza.

 

3. Tuttavia l'autorità giudiziaria, se ritiene che i fatti siano diversi da quelli previsti nell'articolo 90 della Costituzione, pronuncia ordinanza con la quale ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione del conflitto. Nello stesso modo provvede quando ritiene che i fatti per i quali procedono il comitato o il Parlamento in seduta comune rientrino nella sua competenza (11).

 

 

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(11)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 10.

1. Qualora ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall'articolo 90 della Costituzione il Parlamento in seduta comune dichiara la propria incompetenza e trasmette gli atti all'autorità giudiziaria.

 

2. Se l'autorità giudiziaria dissente dalla pronuncia di incompetenza del Parlamento o del comitato, provvede a norma del comma 3 dell'articolo 9 (12).

 

 

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(12)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 11.

1. Salvo che il comitato disponga altrimenti, sono pubbliche le sedute del comitato stesso destinate alla votazione sulla proposta di archiviazione ovvero su quella di presentazione della relazione per il Parlamento; nelle stesse l'inquisito ha diritto di esporre, personalmente o a mezzo del difensore, le proprie difese. Della data di tali sedute è dato avviso, a cura del presidente del comitato, almeno dieci giorni prima all'interessato e al suo difensore, che fino a cinque giorni prima della seduta hanno facoltà di prendere visione, presso la segreteria del comitato, delle cose e degli atti relativi alle indagini effettuate e di estrarne copia.

 

2. Salvo che il comitato disponga altrimenti, è vietata la pubblicazione col mezzo della stampa o con altri mezzi di divulgazione, fatta da chiunque in qualsiasi modo, totale o parziale, anche per riassunto o a guisa d'informazione, di ogni atto e documento relativo alle indagini compiute dal comitato stesso fino alla seduta in cui viene deliberata l'archiviazione o la presentazione della relazione di cui all'articolo 12 della legge costituizonale 11 marzo 1953, n. 1 , come modificato dall'articolo 3 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 . Fino a tale momento, sono obbligati al segreto per tutto ciò che concerne gli atti di indagine e i loro risultati i componenti del comitato e ogni altra persona che abbia compiuto gli atti predetti ovvero concorso o assistito al loro compimento eccettuate le parti private e i testimoni.

 

3. Per la violazione del divieto di pubblicazione previsto dal comma 2 si applicano, qualora il fatto non costituisca più grave reato, le pene previste dall'articolo 683 del codice penale (13).

 

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(13)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Art. 12. 

1. Ai soggetti interessati è dato avviso della convocazione del Parlamento in seduta comune, con invito ad esercitare la facoltà di nominare un difensore, qualora non vi abbiano già provveduto, di prendere visione degli atti del procedimento, di estrarne copia, nonché di presentare istanze e memorie e di produrre documenti.

 

2. Le facoltà di cui al comma 1 devono essere esercitate entro cinque giorni dalla data del ricevimento dell'avviso, salvo che il Presidente della Camera non ritenga di stabilire un termine più ampio (14).

 

 

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(14)  La Corte costituzionale, con ordinanza 12-24 luglio 2000, n. 346 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32, serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 5 giugno 1989, n. 219, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, 111 della Costituzione.

 

 

Capo III

 

Modifiche alla legge 25 gennaio 1962, n. 20

 

Art. 13. 

 

1. ... (15).

 

 

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(15)  Sostituisce l'art. 22, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

 

 

Art. 14. 

1. ... (16).

 

 

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(16)  Sostituisce l'art. 23, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

 

 

Art. 15. 

1. ... (17).

 

2. ... (18).

 

3. ... (19).

 

 

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(17)  Sostituisce il secondo comma dell'art. 27, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

(18)  Modifica il terzo comma dell'art. 27, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

(19)  Abroga l'ultimo comma dell'art. 27, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

 

 

Art. 16. 

1. ... (20).

 

 

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(20)  Sostituisce il secondo comma dell'art. 29, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

 

 

Art. 17. 

1. ... (21).

 

 

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(21)  Sostituisce l'art. 30, L. 25 gennaio 1962, n. 20.

 

 

Capo IV

 

Entrata in vigore

 

18.  1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 

 

 

 


Giurisprudenza costituzionale

 


 

Sentenza 20 gennaio 2004, n. 24

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 30 giugno 2003 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Silvio Berlusconi iscritta al n. 633 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2003.

 

Visti gli atti di costituzione di Silvio Berlusconi e della CIR spa nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 9 dicembre 2003 il Giudice relatore Francesco Amirante;

 

uditi gli avvocati Gaetano Pecorella e Niccolò Ghedini per Silvio Berlusconi, Giuliano Pisapia, Alessandro Pace e Roberto Mastroianni per la CIR spa e l'avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.— Nel corso di un processo penale in cui è imputato l'on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 101, 112, 68, 90, 96, 24, 111 e 117 della Costituzione, dell'art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato).

 

Osserva innanzitutto il giudice a quo che la questione è rilevante perché, imponendo la norma impugnata la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio, il Tribunale è tenuto ad applicare tale norma e, in caso di dubbio sulla legittimità costituzionale della medesima, a sollevare questione davanti a questa Corte.

 

Ciò posto, il Tribunale rileva che occorre occuparsi sia della previsione generale del comma 1 sia di quella specifica del comma 2, allo scopo di valutare la natura della norma impugnata. A tal proposito, il Collegio afferma che la sospensione in esame non ha nulla a che vedere con le altre ipotesi di sospensione del processo penale previste nel nostro ordinamento (normalmente riferibili a situazioni oggettive di carattere endoprocessuale) che, anche nel caso in cui implichino qualità personali dell'imputato (art. 71 cod.proc.pen.), hanno riguardo ad una situazione obiettiva di incapacità del medesimo a stare in giudizio tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento. Né, d'altra parte, possono ravvisarsi analogie tra la norma impugnata e il regime derogatorio dell'assunzione della prova testimoniale dettato dall'art. 205 cod.proc.pen a favore dei soggetti cui si riferisce l'art. 1 della legge n. 140 del 2003, poiché la suddetta norma del codice di rito si limita a stabilire un contemperamento degli interessi in gioco, ma non sottrae i soggetti da essa contemplati ai doveri comuni a tutti gli altri cittadini rispetto all'esercizio della funzione giurisdizionale. La disposizione impugnata, invece, collegando la non sottoposizione a processo penale e la connessa sospensione dei processi penali in corso all'assunzione ed alla durata della carica o della funzione, configura una ipotesi di non processabilità che non ha nulla a che vedere con cause e motivazioni endoprocessuali e che si atteggia, quindi, come una prerogativa in favore dei soggetti chiamati a ricoprire le cinque più alte cariche dello Stato. Poiché tale beneficio incide sull'esercizio dell'azione penale - che è da intendere non solo come esplicazione di attività di indagine o formulazione di un'accusa, bensì anche come possibilità di vagliare nel contraddittorio processuale la fondatezza dell'ipotesi accusatoria davanti ad un giudice terzo ed imparziale - il giudice remittente ravvisa innanzitutto una violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e dell'art. 112 della Costituzione.

 

Né va omesso di considerare che il principio di eguaglianza rientra tra i principi fondanti della Carta costituzionale, derogabile solo dalla stessa Costituzione o con modifiche costituzionali adottate ai sensi dell'art. 138 Cost., come risulta confermato dal fatto che tutte le prerogative riguardanti cariche o funzioni costituzionali sono regolate da fonti di tale rango (artt. 90, 96 e 68 Cost. ed art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso ai giudici costituzionali le immunità accordate ai parlamentari dall'art. 68, secondo comma, Cost., nel testo allora vigente). Conseguentemente, da questo punto di vista, l'impugnato art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003, in riferimento al comma 1 della stessa disposizione, si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost. in relazione agli artt. 101 e 112 Cost. Né, ad avviso del Tribunale di Milano, è utilmente richiamabile, sotto il profilo della non necessità di una legge costituzionale per introdurre la prerogativa in questione, l'art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, riguardante i componenti del Consiglio superiore della magistratura. Tale norma infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell'imputato, non ha creato alcuna forma di immunità, ma - come precisato da questa Corte nella sentenza n. 148 del 1983 - ha solo previsto una speciale causa di non punibilità, rigorosamente circoscritta «alle manifestazioni di pensiero funzionali all'esercizio dei poteri-doveri costituzionalmente spettanti ai componenti il Consiglio superiore», la quale, da un lato, non è assimilabile alle immunità e prerogative previste dalla Costituzione e, dall'altro, ha un ambito di operatività che è diverso rispetto a quello delle scriminanti di diritto penale comune e che risulta «frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco». La norma impugnata, invece, non ha creato una scriminante speciale (di per sé compatibile con l'esercizio della giurisdizione), ma una causa di “non processabilità” o di sospensione dei processi in corso che, inevitabilmente, si pone in conflitto col carattere di obbligatorietà dell'azione penale.

 

Prosegue poi il Tribunale ravvisando un palese contrasto tra la norma impugnata e gli artt. 3, 68, 90 e 96 della Costituzione.

 

L'art. 1 della legge n. 140 del 2003, infatti, fa salva l'applicazione degli artt. 90 e 96 della Costituzione, con ciò indirettamente confermando di voler istituire una prerogativa ulteriore rispetto a quelle ivi previste, per di più priva di ogni collegamento funzionale con la carica rivestita e senza un limite temporale preciso e determinato. Nel disegno fissato dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., invece, le speciali forme di immunità e le particolari condizioni di procedibilità ivi regolate risultano strettamente connesse con l'esercizio delle funzioni di parlamentare, di Presidente del Consiglio, di Ministro e di Presidente della Repubblica, mentre la norma in questione non ha alcun collegamento con la funzione, imponendo, come si è detto, la sospensione di tutti i processi penali, per qualsiasi tipo di reato ed anche in riferimento a fatti antecedenti l'assunzione della carica. D'altra parte pare in sé irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa dell'imputato e dell'art. 111 Cost., che, in particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri possa essere sottoposto a giudizio, previa autorizzazione della Camera di appartenenza, per i reati funzionali e non possa - a tempo indeterminato e irrinunciabilmente - esserlo per i reati comuni.

 

Il giudice remittente, poi, passa ad analizzare - con riguardo alla tutela dei diritti della parte offesa costituitasi parte civile nel procedimento penale sospeso - ulteriori motivi di censura in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo in rapporto con l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Da tale ultimo parametro, in particolare, si evince, alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la possibilità concreta di accedere agli organi di giustizia è da considerare fondamentale per l'effettiva tutela dei diritti, sicché «uno Stato non può, senza riserve o senza il controllo degli organi della Convenzione, sottrarre dalla competenza dei tribunali tutta una serie di azioni civili o esonerare da responsabilità delle categorie di persone», ancorché possano giustificarsi prerogative nei confronti dei parlamentari.

 

Ma la più evidente violazione dei diritti della parte civile costituita deriva dal fatto che, in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., la norma impugnata viene a creare un «impedimento indeterminato dell'esercizio dell'azione civile per effetto della disposizione di cui all'art. 75, comma 3, cod.proc.pen.». Tale ultima disposizione stabilisce che «se l'azione è proposta in sede civile contro l'imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale … il processo civile è sospeso fino alla pronunzia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge». Poiché la norma impugnata non prevede alcuna eccezione alla suddetta regola, è palese che la parte civile si trova nell'impossibilità di trasferire la propria pretesa risarcitoria in sede civile. Né potrebbe ipotizzarsi una revoca della costituzione di parte civile (art. 82 cod.proc.pen.), in quanto la sospensione del processo imposta dall'art. 1 della legge n. 140 del 2003 non consente lo svolgimento di alcuna attività processuale, ivi compresa la suddetta revoca.

 

Un ulteriore profilo di violazione degli artt. 24 e 111 Cost. sarebbe ravvisabile, infine, per effetto della mancata previsione, da parte della norma impugnata, di una clausola che faccia salvo il compimento degli atti urgenti di natura processuale - come, ad esempio, l'assunzione urgente di una prova in sede di incidente probatorio - non potendosi certamente fare ricorso all'art. 512 cod.proc.pen. che disciplina l'ipotesi di acquisizione in dibattimento di atti assunti in sede di indagine nel caso in cui, «per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione». La disciplina dell'incidente probatorio riguarda, invece, il caso in cui vi sia, per vari motivi, fondato timore di non poter più acquisire nella sede propria dibattimentale la prova necessaria. Sicché è del tutto evidente la diversità delle due situazioni.

 

Il giudice a quo solleva poi un'altra questione di legittimità costituzionale riguardante l'art. 110, quinto comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, che forma oggetto di separato procedimento.

 

2.— Si è costituito in giudizio l'on. Silvio Berlusconi che, con ampia ed articolata memoria, ha chiesto che tutte le proposte questioni vengano dichiarate non fondate.

 

In riferimento alla questione relativa all'art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003 la parte costituita sottolinea, preliminarmente, che il Presidente della quinta sezione penale della Corte di cassazione, chiamato ad esaminarne la posizione di imputato in altro procedimento (nel quale era stato prosciolto insieme ad altri coimputati, con provvedimento impugnato in Cassazione), in data 30 giugno 2003 ha disposto la separazione di tale posizione con conseguente sospensione del relativo processo e creazione di un separato fascicolo, «così dando atto dell'immediata applicabilità delle disposizioni della legge n. 140 del 2003», senza prospettare alcun dubbio di costituzionalità in merito alla norma oggi impugnata.

 

Ciò posto, l'on. Berlusconi rileva che la ratio della norma stessa è quella di salvaguardare le più alte cariche dello Stato, durante lo svolgimento del mandato, dagli inevitabili turbamenti conseguenti all'esercizio di ogni azione penale. Nel sistema costituzionale non è affatto necessario che tutto ciò che riguarda tali cariche sia regolato con legge costituzionale, né a tale ricostruzione ostano gli artt. 90 e 96 della Costituzione: l'irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni (tranne che in caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione) e la valutazione politica circa l'opportunità che il Presidente del Consiglio ed i Ministri vengano sottoposti a processo penale per i c.d. reati ministeriali non confliggono con la sospensione dei processi per i reati comuni. Per questi ultimi, infatti, la Carta costituzionale nulla prevede, e ciò implica che al legislatore ordinario non è inibito di provvedere autonomamente al riguardo, tanto più che, nei casi in cui la Costituzione ha preteso che si provvedesse con legge costituzionale, lo ha espressamente stabilito (v., ad esempio, artt. 116 e 132 Cost.).

 

La memoria passa poi ad occuparsi direttamente del contenuto precettivo della norma impugnata per valutare in particolare se nel nostro ordinamento esista o meno l'istituto della sospensione del processo penale e se vi sia un collegamento (nel senso di una possibile violazione) tra detta sospensione ed il principio di obbligatorietà dell'azione penale richiamato dal Tribunale di Milano. A tal fine si osserva che il sistema conosce la sospensione del processo penale, finalizzata a vari obiettivi; è richiamata in proposito un'ampia serie di norme contenute nel codice di procedura penale del 1930 (artt. 18, 19 e 20), nel vigente codice di procedura penale (artt. 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477 e 479), nel codice penale (artt. 159 e 371-bis) e in numerose altre leggi particolari, come quelle in materia di condono tributario o di rimessione di una questione di legittimità costituzionale a questa Corte o di questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia delle Comunità europee. In tutti questi casi non c'è un termine preciso per la ripresa dell'attività processuale dopo la sospensione e, qualora vi sia sospensione anche della prescrizione, non sussistono particolari problemi per il protrarsi dei tempi del processo.

 

Si tratta di norme che disciplinano situazioni di «varia natura» che, tuttavia, in alcuni casi attribuiscono rilevanza determinante a scelte politiche prevalenti rispetto alla giurisdizione (art. 243 cod.pen.mil.guerra) e in altri casi a caratteristiche peculiari dei soggetti che si giovano della sospensione (v. decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e art. 71 cod.proc.pen.). Tra quest'ultimo tipo di norme la parte privata si sofferma, in particolare, sull'ipotesi di sospensione del processo disciplinata dall'art. 71 cod.proc.pen., richiamando le pronunce di questa Corte n. 281 del 1995, n. 354 del 1996, n. 19 del 1999 e n. 33 del 2003, desumendone, da un lato, che la sospensione del processo non costituisce violazione dell'art. 112 Cost. in quanto comporta una semplice sospensione dell'azione penale e, dall'altro, che neppure è configurabile il contrasto con il principio della ragionevole durata del processo in quanto «si verte in tema di ius singulare che comporta una eccezione» e, comunque, la sospensione della prescrizione garantisce l'esercizio della giurisdizione. Questi argomenti ben si attagliano al caso di specie, sicché anche per esso deve escludersi la contrarietà con gli indicati parametri costituzionali.

 

D'altra parte, il sistema processuale vigente prevede, oltre ai casi di sospensione, anche quelli nei quali il reato è perseguibile soltanto a richiesta del Ministro della giustizia (artt. 8, 9 e 10 cod.pen.), ovvero dietro sua autorizzazione (art. 313 cod.pen., positivamente scrutinato da questa Corte nella sentenza n. 22 del 1959), ovvero a querela di parte; inoltre questa Corte ha in più occasioni ribadito la legittimità costituzionale dell'art. 260 cod.pen.mil.pace che subordina la procedibilità di una serie di reati militari alla richiesta del comandante del corpo.

 

Il principio di eguaglianza richiamato dal Tribunale di Milano ha, quindi, il significato di vietare leggi ad personam allorquando le persone prese in considerazione siano effettivamente “eguali”, ma non quello di impedire le opportune diversificazioni. In tale ottica la parte privata osserva che vi sono numerose norme, sia di diritto penale sostanziale sia di diritto processuale penale, nelle quali rileva la condizione soggettiva del destinatario; tra queste ultime vengono ricordate, oltre all'art. 205 cod.proc.pen., l'art. 200 cod.proc.pen. sul segreto professionale e le norme sull'incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone.

 

Dopo aver esaminato l'aspetto relativo alla sospensione del processo, la difesa affronta il problema delle cause di immunità riconosciute dal nostro ordinamento, cercando innanzitutto di stabilire cosa si intenda effettivamente per immunità. Si richiamano, all'uopo, alcune specifiche disposizioni riguardanti il trattamento processuale dei funzionari e dei dipendenti consolari nonché le immunità in favore dei componenti il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Si passa poi a considerare l'art. 5 della legge n. 1 del 1981 relativa ai componenti del Consiglio superiore della magistratura, che ha introdotto una causa soggettiva di non punibilità «ben più pregnante ed incisiva sulla giurisdizione che non una sospensione» del processo, con annessa sospensione della prescrizione. Il giudice remittente avrebbe altresì dimenticato di tener presente tutta una serie di ipotesi nelle quali sussistono altre cause di immunità (si citano, in proposito, sentenze della Corte di cassazione sull'estradizione, sulle immunità diplomatiche e consolari, sui reati commessi da militari appartenenti alla NATO nel territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, nonché sui reati commessi da soggetti appartenenti ad enti centrali della Chiesa cattolica).

 

Fatte queste premesse generali, la parte privata richiama la distinzione dottrinale tra le immunità funzionali e quelle extrafunzionali, ricordando che queste ultime, in particolare, fanno sì che l'individuo che ne gode non possa essere assoggettato al processo penale per reati “comuni” commessi nel corso del proprio incarico o prima dello stesso. Terminato il mandato, però, si ha una reviviscenza della punibilità per i fatti extrafunzionali, sicché tale tipo di immunità non crea, in effetti, alcun tipo di limite al potere giurisdizionale. Si sarebbe perciò in presenza di una esenzione temporanea dalla giurisdizione, determinata da motivi di opportunità politica per cui il soggetto, «pur penalmente capace al momento della commissione dell'illecito, non lo è processualmente, per evitare un qualsiasi turbamento nel regolare svolgersi dell'attività»; concluso l'incarico, nulla può impedire l'avvio o la prosecuzione del processo penale per illeciti penali di carattere privato. I suddetti motivi di opportunità politica correlati all'attività del soggetto possono essere inerenti ai rapporti tra poteri dello Stato ovvero sul piano internazionale ai rapporti tra organi di Stati diversi che comportano una autolimitazione da parte dell'ordinamento della propria giurisdizione, la quale torna poi a riespandersi nella sua interezza al termine del mandato cui è connessa la prerogativa (si citano, al riguardo, un parere della Corte internazionale di giustizia dell'Aja a proposito delle immunità dei componenti dell'ONU e la sentenza della medesima Corte del 14 febbraio 2002 sull'immunità di un Ministro degli esteri della Repubblica del Congo nei confronti del quale un giudice belga aveva emesso un ordine di arresto internazionale, c.d. caso Yerodia).

 

Dalla suddetta analisi si desume che «la possibilità di prevedere … immunità extrafunzionali con legge ordinaria appare … conclamata», ma tale osservazione non è l'unica a dimostrare l'erroneità del ragionamento seguito dal Tribunale di Milano, perché l'argomento principale attraverso il quale si perviene a questo risultato è rappresentato dalla profonda diversità che sussiste tra il tema della sospensione temporanea del processo e quello delle immunità. Se, infatti, si ha chiara tale differenza, tutta una serie di argomentazioni sviluppate nell'ordinanza di rimessione diventano ininfluenti, in quanto è proprio la suddetta diversità che spiega perché, mentre per le immunità è necessariamente richiesto un collegamento con la funzione esercitata al momento della commissione del fatto, ciò invece non è necessario per la sospensione. Inoltre, mentre l'immunità, sottraendo un soggetto all'esercizio della giurisdizione, deve essere, in alcuni casi, prevista da norme di rango costituzionale, ciò non è richiesto per la sospensione che, ove si accompagni a quella della prescrizione del reato, non incide sull'integrità del valore della giurisdizione, ma coinvolge altri beni costituzionalmente protetti e, precisamente, quello della funzionalità della carica di rilevanza costituzionale e quello della ragionevolezza dei tempi del processo.

 

Una volta escluso che la norma impugnata avrebbe dovuto avere rango di legge costituzionale, resta da valutare se essa violi, per il suo contenuto precettivo, uno dei parametri costituzionali richiamati dal giudice remittente.

 

Con riguardo all'art. 112 Cost., la parte privata osserva che in tema di condizioni di procedibilità al legislatore è concessa ampia discrezionalità, sicché il punto decisivo non è quello dei rapporti col principio di obbligatorietà dell'azione penale, quanto piuttosto quello di stabilire se la norma sia o meno ragionevole. Si richiamano, al riguardo, le sentenze n. 89 del 1982, n. 85 del 1998, n. 298 del 2000, e n. 223 del 2001 di questa Corte, dalle quali si deduce che è soltanto in caso di trattamento diverso di situazioni uguali che può affermarsi la sussistenza di un'irragionevolezza conseguente alla diversità di trattamento. La violazione del principio di eguaglianza presuppone, in altre parole, una valutazione in cui vi è un tertium comparationis alla stregua del quale si ravvisi la disparità; nel caso della norma impugnata, invece, le uniche situazioni similari con le quali sembrerebbe possibile un raffronto sono quelle di cui agli artt. 90 e 96 Cost., ma, al di là del fatto che esse si riferiscono a soggetti presi in considerazione anche dalla norma impugnata, le ipotesi rispettivamente disciplinate sono, in realtà, molto diverse e, quindi, inconfrontabili. Infatti, l'art. 96 Cost. stabilisce, a tutela della funzione ministeriale, che per i reati commessi nell'esercizio di tale funzione è competente un particolare organo giurisdizionale, senza dire nulla in relazione alla procedibilità; analogamente, l'art. 90 Cost. prevede, a tutela della libertà della funzione del Presidente della Repubblica, l'impunità per gli atti compiuti nel relativo esercizio e i casi di deroga a tale impunità. La legge n. 140 del 2003, invece, si limita a dettare semplicemente una regola di procedura.

 

Tale regola che, per quanto fin qui si è detto, non contrasta con l'art. 3 Cost. dal punto di vista del principio di eguaglianza, neppure viola il suddetto parametro per quel che riguarda il principio di ragionevolezza. Al riguardo potrebbe sostenersi l'irragionevolezza in sé della normativa impugnata in conseguenza dell'impossibilità che essa determinerebbe in ordine alla formazione della prova, ma anche questa censura è destituita di fondamento in quanto l'utilizzazione del termine “processo” e non di quello “procedimento” ha proprio il significato tecnico di consentire l'assunzione delle prove nel corso delle indagini preliminari.

 

La memoria difensiva si sofferma, poi, sul particolare aspetto della questione riguardante la parte civile. Si sostiene, in proposito, che detta questione sarebbe stata impropriamente sollevata dal Tribunale di Milano in sede penale, nell'erronea convinzione che l'art. 1 della legge n. 140 del 2003, imponendo l'immediata sospensione del processo, non consenta lo svolgimento di alcuna attività processuale. In realtà, anche trascurando la circostanza che, nella specie, la parte civile costituita non ha in effetti mai dichiarato di voler trasferire la propria domanda in sede civile - sicché la questione dovrebbe ritenersi inammissibile, in quanto del tutto ipotetica - resta il fatto che il dubbio di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere posto nella sede competente, ossia davanti al giudice civile, chiamato eventualmente a fare applicazione dell'art. 295 del codice di procedura civile. Del resto, sarebbe del tutto incongrua una sospensione ex lege del processo penale cui non faccia seguito la possibilità di trasferimento dell'azione in sede civile. In tal senso vanno letti l'art. 75, comma 3, cod.proc.pen. e l'art. 82 del medesimo codice (che consente la revoca della costituzione di parte civile) e ciò vale, di per sé, ad escludere qualsiasi violazione dell'art. 24 Cost. Tale lettura corrisponde al principio della separazione delle giurisdizioni che, in materia di rapporti tra giudizi diversi, ha sostituito, nel vigente codice di procedura penale, quello dell'unità della giurisdizione cui, invece, si ispirava il codice del 1930. Una conferma dell'esattezza di tale tesi è rinvenibile, secondo la parte privata, anche nella sentenza n. 354 del 1996 di questa Corte con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del citato art. 75, comma 3, cod.proc.pen., nella parte relativa alla mancata previsione dell'inapplicabilità della disciplina ivi stabilita per i rapporti tra azione civile e azione penale all'ipotesi di «accertato impedimento fisico permanente che non permetta all'imputato di comparire all'udienza, ove questi non consenta che il dibattimento prosegua in sua assenza». A tale conclusione la pronuncia è pervenuta al fine di impedire - in armonia con quanto deciso nella precedente sentenza n. 330 del 1994 - una stasi del processo «di durata indefinita ed indeterminabile» che avrebbe vulnerato il diritto di azione e difesa della parte civile. È del tutto evidente che l'ipotesi esaminata nella citata sentenza non è affatto assimilabile a quella disciplinata dalla norma attualmente impugnata. Infatti, anche a prescindere dal fatto che le cariche indicate dalla legge n. 140 del 2003, pur essendo alcune volte ipoteticamente reiterabili, hanno una durata predeterminata ex lege, va considerato che la disciplina censurata dalla Corte «non era quella attuale ma quella del codice del 1930», sicché non solo per essa non si ponevano problemi di ammissibilità rispetto alla proposizione delle relative questioni di legittimità costituzionale direttamente nel giudizio penale, ma soprattutto emergeva la necessità di superare la regola del divieto della translatio iudicii dalla sede penale a quella civile derivante dal principio dell'unità della giurisdizione. La disciplina attualmente vigente non è più ispirata, come si è detto, a tale principio; conseguentemente il problema allora denunciato non può più porsi in quanto la parte civile ha, di regola, la facoltà di trasferire la propria azione in sede civile.

 

3.— Si è costituita anche la CIR s.p.a., parte civile costituita nel giudizio a quo, sostenendo la piena condivisibilità delle argomentazioni dell'ordinanza di rimessione e chiedendo che la norma denunciata venga dichiarata costituzionalmente illegittima.

 

Osserva la parte privata che l'art. 1 della legge n. 140 del 2003, prevedendo l'automatica sospensione del processo a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, è in contrasto innanzitutto con l'art. 3 Cost. (in relazione agli artt. 101 e 112 Cost.), perché attribuisce una prerogativa incompatibile col principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, principio che può essere derogato solo con una legge costituzionale (sentenza n. 300 del 1984 di questa Corte). A tale conclusione induce, con assoluta evidenza, il fatto che nel nostro ordinamento di regola le prerogative o le immunità riguardanti cariche o funzioni istituzionali sono previste o direttamente dalla Carta costituzionale (artt. 68, 90 e 96 Cost.) ovvero in successive leggi costituzionali (es. legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, in materia di procedimenti per i reati di cui all'art. 96 Cost.).

 

Per altro verso, e sempre in relazione all'art. 3 Cost., la norma impugnata viola il principio di obbligatorietà dell'azione penale, poiché impedisce a tempo indeterminato che il processo penale venga condotto ad una definizione, in considerazione del fatto che l'attuale Presidente del Consiglio potrebbe continuare a ricoprire la carica per molti anni, ovvero essere eletto ad altra carica istituzionale tra quelle di cui alla norma in questione.

 

Fatte queste premesse, la memoria osserva che nel nostro sistema le immunità e le prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost., oltre ad essere disposte da norme di rango costituzionale, sono comunque collegate allo svolgimento delle funzioni, di modo che il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio ed i Ministri, fino all'entrata in vigore della legge in esame, erano, per i reati comuni, soggetti alla legge come tutti gli altri cittadini. Oggi, invece, i procedimenti eventualmente instaurati a carico del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri in merito a tali ultimi reati, sono tutti sospesi ope legis e senz'alcuna possibilità di controllo istituzionale, anche nell'ipotesi in cui si tratti di reati commessi prima dell'assunzione della carica, mentre per i reati c.d. funzionali continua ad avere vigore la disciplina che ne prevede la giustiziabilità, sia pure a certe condizioni. Ne consegue che, da questo punto di vista, la norma impugnata appare in contrasto con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

 

Il carattere obbligatorio e non rinunziabile della sospensione sarebbe poi lesivo sia del diritto di difesa (art. 24 Cost.) sia del principio della ragionevole durata dei processi sancito dall'art. 111 Cost., il che è tanto più evidente in relazione alla mancanza di una specifica norma che garantisca la possibilità di assunzione al processo delle prove non rinviabili o di compimento degli atti urgenti, a differenza di quanto è espressamente stabilito dal codice di procedura penale in altri casi di sospensione (si citano gli artt. 3, comma 3; 41, comma 2; 47, comma 3; 70, commi 2 e 3; 71, comma 4, cod.proc.pen.).

 

Per quanto specificamente interessa la domanda avanzata dalla parte civile costituita, si rileva che la sospensione del processo penale, in mancanza di una norma che deroghi al disposto dell'art. 75, comma 3, cod.proc.pen., viene di fatto a paralizzare sine die ogni pretesa risarcitoria della suddetta parte nei confronti dell'imputato. Il processo penale è, infatti, sospeso, mentre la domanda eventualmente proposta in sede civile dovrebbe necessariamente comportare la sospensione anche di quest'ultimo processo, poiché le eccezioni previste alla regola del citato art. 75, comma 3, sono tassative e non estensibili in via analogica.

 

La CIR s.p.a., infine, si associa alle considerazioni fatte dal Tribunale di Milano a proposito della violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento al principio relativo al diritto di accesso ad un tribunale, desumibile dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (secondo quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza Golder del 21 febbraio 1975 e nella sentenza Cordova del 31 gennaio 2003).

 

4.— È altresì intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che vengano dichiarate inammissibili o comunque infondate entrambe le questioni proposte dal Tribunale di Milano.

 

Quanto alla questione relativa all'art. 1 della legge n. 140 del 2003, la difesa erariale osserva che il giudice a quo muove da un presupposto erroneo, ossia quello per cui detta norma avrebbe creato una nuova figura di immunità. Essa, invece, si limita a disporre la sospensione dei processi in corso, con conseguente sospensione dei termini di prescrizione dei reati, in linea con quanto stabilito per altre ipotesi di sospensione del processo penale - sia obbligatoria (v. art. 71 cod.proc.pen. e art. 3, comma 5, della stessa legge n. 140 del 2003) sia facoltativa (v. art. 486 cod.proc.pen.) - previste dal sistema. Ne consegue che non vi sarebbe lesione dell'art. 112 Cost., sia perché l'azione penale viene ugualmente esercitata nei confronti dei soggetti che ricoprono le alte cariche istituzionali indicate nella norma impugnata (anche se con sospensione del processo per la durata del mandato) sia perché il decorso del tempo non incide sulla pretesa punitiva dello Stato, in virtù dell'espresso richiamo dell'art. 159 cod.pen., in materia di sospensione del corso della prescrizione.

 

Escluso, quindi, che la norma de qua abbia a che fare con le immunità riservate alla regolamentazione costituzionale, l'Avvocatura dello Stato ritiene che essa non si ponga in contrasto neppure con gli altri principi costituzionali invocati dal giudice a quo. Si tratta di una disciplina che è stata dettata allo scopo di impedire che «vicende processuali di diritto comune possano intralciare l'operato dei vertici costituzionali democraticamente scelti per tutto - e solo - il tempo in cui essi svolgono la loro funzione». La ratio cui si è ispirato il legislatore non era, quindi, quella di proteggere i soggetti che ricoprono le alte cariche dello Stato, ma la loro funzione, sicché appare ultroneo ogni richiamo al principio di eguaglianza come principio fondante dell'ordinamento, visto che anche questa Corte ha ripetutamente affermato che la violazione di tale principio deriva dal trattamento eguale di situazioni diverse e non dalla previsione di trattamenti differenziati per alcune categorie di soggetti giustificata dal contemperamento del principio stesso con la tutela di altri principi costituzionali. Tale ultima evenienza è proprio quella che si riscontra nella fattispecie nella quale la tutela della posizione istituzionale del Presidente del Consiglio dà fondata ragione della deroga all'ordinario trattamento processuale.

 

Analogamente, poi, la difesa erariale ritiene infondata la presunta lesione del principio di ragionevolezza in riferimento a quanto disposto dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., sul principale rilievo che, in una logica di ponderazione e bilanciamento degli interessi in gioco, non è irrazionale che il Presidente del Consiglio continui ad essere perseguibile per i c.d. reati ministeriali e si veda invece sospesi i processi penali per i reati comuni. Infatti, mentre il perseguimento dei reati funzionali non può essere procrastinato, data «la rilevanza di carattere generale degli interessi incisi» e la loro «indubbia maggiore gravità dal punto di vista istituzionale», il perseguimento dei reati comuni ben può essere rinviato al momento della cessazione dell'esercizio delle funzioni protette, visto che la loro commissione comporta la lesione di «interessi cedevoli».

 

Ritiene inoltre la difesa pubblica che siano infondate tutte le doglianze riguardanti una presunta lesione degli artt. 24 e 111 Cost., sotto il duplice profilo del diritto di difesa dell'imputato (che non può rinunciare all'applicazione della sospensione) e del diritto della persona offesa dal reato ad un giudizio rapido ed efficace in merito alle sue pretese risarcitorie. Quanto al primo profilo, si osserva che l'obbligatorietà della protezione accordata dalla norma impugnata deriva dal fatto che essa ha rilevanza oggettiva, è finalizzata a tutelare l'interesse dell'ordinamento e non è stata concepita come un privilegio di cui la persona che ricopre la carica possa, a sua scelta, decidere di godere o meno. Quanto alla pretesa violazione dei diritti della persona offesa costituitasi parte civile nel processo penale sospeso, si osserva che nell'ipotesi di cui si tratta la parte offesa subisce un ritardo nella delibazione delle sue pretese del tutto analogo a quello che si verifica non solo nelle numerose altre ipotesi di sospensione del processo, ma anche in altre situazioni processuali, come ad esempio in quella relativa alla conclusione del procedimento penale con sentenza di patteggiamento nella quale, ai sensi dell'art. 445 cod.proc.pen., è impedito alla parte civile di giovarsi della suddetta sentenza in sede civile. D'altra parte, non appare conferente al riguardo il richiamo all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali atteso che la normativa denunciata è il frutto di un ponderato - e, cioè, «ragionevole» - contemperamento dell'esigenza di definizione del processo in tempi rapidi con quella di tutela di altri interessi ritenuti anch'essi di rilevanza primaria.

 

Quanto, infine, alla presunta mancanza di norme che facciano salva la possibilità di compimento degli atti urgenti, l'Avvocatura dello Stato rammenta che, a parte il rilievo per cui ciò costituirebbe solo un'ipotetica manchevolezza, detta questione non risulta adeguatamente precisata nell'ordinanza di rimessione, il che impone che la stessa debba ritenersi inammissibile.

 

5.— Nell'imminenza dell'udienza la CIR s.p.a. ha depositato memoria, in cui premette che il presente giudizio concerne soltanto la disciplina dell'improcedibilità concessa dalla legge n. 140 del 2003 al Presidente del Consiglio: non può quindi sostenersi la legittimità dell'art. 1, comma 1, sulla base della posizione dei titolari delle altre cariche, ferma l'estensibilità a queste ultime della eventuale dichiarazione d'incostituzionalità della norma (ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87).

 

In ragione del carattere rigido della Costituzione, nessuna fonte può modificarla surrettiziamente, qualora ne pregiudichi una o più norme: le limitazioni sostanziali o processuali della (altrimenti assoluta) responsabilità del funzionario - ex art. 28 Cost. - devono individuarsi in altre norme costituzionali (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, ministri, parlamentari, giudici costituzionali, titolari di organi giurisdizionali) perché ogni limitazione di tale responsabilità si risolve nella corrispondente restrizione del diritto di azione e di difesa. Inoltre la differenziazione delle discipline processuali con riferimento a fatti extrafunzionali viola il principio di eguaglianza (non sopprimibile nemmeno con una legge di revisione costituzionale). Pertanto l'art. 3, primo comma, Cost. non può essere derogato, senza che sulla validità della deroga vi sia verifica da parte di questa Corte. Non si può discutere della legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 140 come se l'illegittimità di questa norma dipendesse esclusivamente dal fatto che essa è contenuta in una legge ordinaria, anziché in una disposizione approvata ex art. 138 Cost.: la sottoponibilità al sindacato permarrebbe comunque, poiché le immunità valgono soltanto nei limiti delle previsioni costituzionali, e qualsiasi legge ordinaria che ne ampliasse l'ambito sarebbe incostituzionale.

 

Nel porre una disciplina di favore per i governanti in relazione a fatti extrafunzionali, si è determinata la violazione sia del principio di eguaglianza, sia di quello della responsabilità dei pubblici funzionari allorché agiscano al di fuori delle funzioni, sia infine del diritto di azione e di difesa. Infatti, esiste un istituto che adeguatamente mette al riparo i titolari delle più alte cariche pubbliche da eventuali impedimenti alla propria attività istituzionale, derivanti dalla pendenza di un processo penale, ancorché relativo a reati comuni, essendo imposto al giudice penale di valutare in concreto la sussistenza di impedimenti dell'imputato, tenendo conto degli interessi degli altri poteri.

 

La norma impugnata prevede una forma di immunità processuale prescindendo da ogni connessione funzionale fra la carica pubblica e gli atti posti in essere dal soggetto che la ricopre. Ciò in violazione dell'art. 3 Cost., che vieta al legislatore ordinario d'introdurre differenziazioni normative basate esclusivamente su elementi soggettivi. Per la tendenziale universalità del precetto di legge la norma deve dirigersi a tutti senza distinguere in base a categorie soggettive, ma soltanto oggettive (natura dell'atto, dei beni, etc.) in logico rapporto con la natura dell'attività e senza aver riguardo a connotati inerenti alle persone (prestigio, onore, dignità, etc.). Nella fattispecie, invece, un tale rapporto è del tutto assente (laddove si prevede la sospensione dei processi per illeciti compiuti prima dell'assunzione della carica). In essa, infatti, il munus publicum rappresenta non già il fondamento e il limite dell'immunità, bensì il mero presupposto di essa. Ciò che si tutela, dunque, non è la funzione, ma la persona, introducendo così un vero e proprio privilegio personale.

 

Negli artt. 68, 90 e 96 Cost. l'immunità ha il fondamento ed il limite nell'esercizio della funzione. Per effetto della censurata normativa il Presidente del Consiglio dei ministri già sottoposto, previa autorizzazione parlamentare, alla giurisdizione ordinaria per i reati funzionali, ne è viceversa sottratto ope legis per quelli comuni. Il che è contraddittorio, perché in base all'art. 96 Cost. l'autorizzazione a procedere può essere negata solo nei casi ivi previsti. Poiché l'unico soggetto sottoposto a processo, per «fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione», era l'on. Berlusconi, si è in presenza di una legge personale di favore, definita da autorevole dottrina come lesiva dell'art. 3 Cost., in quanto volta ad estendere, oltre i casi previsti dalla Costituzione, le ipotesi di improcedibilità soggettiva e le garanzie costituzionali impedienti la immediata attuazione della legge. Infatti, tali improcedibilità e garanzie privano di concreta efficacia la legge rispetto a determinati cittadini e creano diseguaglianze formali tra i medesimi.

 

Quanto alla violazione degli artt. 101 e 112 Cost., ogni condizione di procedibilità in tanto può ritenersi legittima in quanto sia direttamente riconducibile ad un interesse costituzionalmente protetto, da bilanciare con quello ex art. 112 Cost., che, nella specie, non sussiste. Infatti, non ogni processo penale è tale da comportare necessariamente un «turbamento» per la carica, il cui prestigio sarebbe anzi ancor più gravemente compromesso, ove colui che la ricopre se ne servisse per sottrarsi alla giurisdizione; è interesse della collettività sapere se i titolari delle più alte cariche erano e sono al di sopra di ogni sospetto.

 

Paradossalmente, per tutelare la funzione, si «iberna» il processo a carico di chi la ricopre, impedendogli di chiedere l'assunzione di prove a suo favore, senza fare neppure salvo il compimento di eventuali atti urgenti e indifferibili e senza stabilire un termine massimo di durata della sospensione medesima, che potrebbe protrarsi indefinitamente.

 

La violazione degli artt. 24 e 111 Cost. con riguardo alla parte civile si radica nell'automatismo della paralisi sine die dell'azione civile e nella mancata previsione della rinunziabilità alla sospensione del processo penale, nonché di una deroga all'art. 75, comma 3, del codice di procedura penale.

 

La norma, inoltre, viola l'art. 117, primo comma, Cost. con riguardo alla Convenzione europea per i diritti dell'uomo, sia sotto il profilo del «diritto ad un tribunale» (ex artt. 13 e 14 della Convenzione che, rispettivamente, sanciscono il diritto a un ricorso effettivo davanti ad un giudice, nonché la garanzia del godimento dei diritti e delle libertà ivi assicurati) sia in riferimento al «diritto ad un processo equo».

 

Dopo una disamina di diritto comparato sulle immunità funzionali ed extrafunzionali proprie dei titolari della cariche omologhe a quella del Presidente del Consiglio dei ministri italiano, la parte privata contesta puntualmente le tesi difensive.

 

In particolare sarebbe l'esigenza di diversificare la disciplina delle situazioni (oggettive) differenti, in rapporto con quella di non collegare la differenziazione al soggetto, in quanto tale, a condurre alla definizione dell'eguaglianza come «pari trattamento di pari situazioni e diverso trattamento di situazioni diverse». Ne deriva, da un lato, che il legislatore non è libero di differenziare i soggetti fin dove la Costituzione non frappone limiti specifici e, dall'altro, che le differenziazioni normative possono essere eccezionalmente legittime, nei limiti in cui si riflettano sull'oggetto e sempre che sussista un nesso di assoluta necessità tra la differenziazione ed un fine costituzionalmente consentito e se sono ispirate a ragionevolezza: il che impone che si versi in ipotesi in cui siano le «situazioni di fatto» messe a confronto ad essere tra loro differenti. Al contrario, nel caso di specie, la situazione in cui si trovano i titolari delle cinque cariche è ontologicamente identica a quella di qualsiasi altro cittadino perseguito per reati comuni.

 

La memoria contesta poi la pertinenza degli esempi di «sospensione» richiamati ex adverso e cioè l'art. 18, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., gli artt. 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477 e 479 cod.proc.pen. (ipotesi di sospensione «endoprocessuale», ossia di temporanea stasi dell'iter processuale, giustificate da ragioni interne al processo che ne causano una sorta di quiescenza, in cui la momentanea sospensione si giustifica per assicurare il diritto di difesa e la terzietà-imparzialità del giudice, o per ottenere l'autorizzazione a procedere, o per garantire una sollecita definizione del processo).

 

Considerazioni analoghe valgono per tutti gli altri casi di «sospensione», singolarmente contestati, unitamente: 1) alla citazione dell'art. 205 cod.proc.pen. la cui ratio è di evitare che i soggetti ivi previsti non rendano in pubblico la loro deposizione, così limitandosi a disciplinarne le modalità di assunzione e non esimendoli dal relativo dovere; 2) al richiamo all'art. 5 della legge n. 1 del 1981, che non configura una causa di sospensione, bensì una causa di non punibilità specifica, avente per oggetto le sole manifestazioni di pensiero funzionali all'esercizio dei poteri-doveri propri dei componenti del C.S.M.; 3) al riferimento alla procedibilità «a richiesta» o dietro «autorizzazione» del Ministro della giustizia (artt. 8, 9, 10 e 313 cod.pen.), ovvero su querela della persona offesa: qui la condizione di procedibilità gioca a tutela del soggetto passivo del reato, e non già del soggetto attivo.

 

È inconferente anche la citazione delle immunità di cui alla Convenzione di Vienna, perché l'ordinamento consente - per il rispetto dell'eguaglianza degli Stati - trattamenti di privilegio in favore di determinati soggetti per la loro qualità di funzionari di altri Stati; ma ciò avviene per il principio di cui all'art. 10 Cost., che conferisce alle norme internazionali generalmente riconosciute il livello di norme primarie: il rango costituzionale della norma di adattamento dell'ordinamento italiano al diritto internazionale (anche consuetudinario) giustifica la compressione del principio di eguaglianza e del diritto alla tutela giurisdizionale. Anche l'estradizione è una delle forme di collaborazione tra Stati in materia penale: la ratio della sospensione del processo in tal caso sta nel rispetto della sovranità degli altri Stati (l'estradizione opera esclusivamente per i reati per i quali è stata concessa).

 

 

Considerato in diritto

 

1. Il Tribunale di Milano solleva questione di legittimità costituzionale del comma 2, in relazione al comma 1, dell'art. 1 della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), il quale, fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, dispone la sospensione, dall'entrata in vigore della legge stessa, dei processi penali in corso nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente della Corte costituzionale), in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

 

Secondo il giudice remittente la norma censurata, nello stabilire per i processi suindicati la sospensione automatica, generalizzata e senza prefissione di un termine finale, viola l'art. 3 Cost., anzitutto con riguardo all'art. 112 Cost., che sancisce il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale; in secondo luogo con riferimento agli artt. 68, 90 e 96 Cost., in quanto attribuisce alle persone che ricoprono una delle menzionate alte cariche dello Stato una prerogativa non prevista dalle citate disposizioni della Costituzione, che verrebbero quindi ad essere illegittimamente modificate con legge ordinaria, in violazione anche dell'art. 138 Cost., disposizione questa che il remittente non indica nel dispositivo dell'ordinanza, ma cita in motivazione ed alla quale fa implicito ma chiaro riferimento in tutto l'iter argomentativo del provvedimento; infine viola gli artt. 24, 111 e 117 Cost., perché non consente l'esercizio del diritto di difesa da parte dell'imputato e delle parti civili, in contrasto anche con la Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

 

2. In via preliminare si osserva che l'astensione dei magistrati componenti del collegio presso il quale era incardinato il processo penale e che ha sollevato la presente questione incidentale non ha influenza sulla rilevanza e quindi sull'ammissibilità della medesima.

 

L'astensione, infatti, non comporta la regressione del giudizio ad una fase preprocessuale, tale da escludere l'immediata applicazione della norma da scrutinare.

 

È opportuno soggiungere che, secondo il principio affermato dall'indirizzo di gran lunga prevalente di questa Corte (v., ex plurimis, ordinanze n. 270 del 2003, n. 383 del 2002, n. 110 del 2000, sentenze n. 171 del 1996 e n. 300 del 1984), le vicende del giudizio a quo non incidono sullo svolgimento del processo costituzionale, caratterizzato dall'interesse generale alla risoluzione della prospettata questione. Né si può aderire alla tesi difensiva secondo la quale, non essendovi altri processi pendenti nei quali potrebbe ipotizzarsi l'applicazione della norma censurata, non sarebbe configurabile alcun interesse generale cui riferirsi. Non soltanto, infatti, non è provata tale situazione, ma la tesi non tiene conto del rilievo secondo cui la disposizione in oggetto (comma 2 dell'art. 1 della legge n. 140 del 2003) ha carattere di transitorietà anche rispetto alla norma - non espressamente formulata ma necessariamente desumibile - la quale impone l'immediata sospensione di quei processi penali nei quali dovesse verificarsi in qualsiasi momento la coincidenza della qualità d'imputato con quella di titolare di una delle cinque alte cariche indicate nel comma 1 dello stesso art. 1.

 

La questione, pertanto, non riguarda soltanto il processo in cui è stata sollevata, ma ha valenza generale, sicché dev'essere esaminata nel merito.

 

3. Per rispondere agli interrogativi posti dall'ordinanza di rimessione occorre, in primo luogo, definire quali siano la natura, la funzione e la portata della normativa impugnata.

 

Essa riguarda una sospensione del processo penale, istituto che si sostanzia nel temporaneo arresto del normale svolgimento del medesimo ed è oggetto non di una disciplina generale, bensì di specifiche regolamentazioni dettate con riguardo alla diversità dei presupposti e delle finalità perseguite.

 

Le sospensioni possono essere così raggruppate:

 

a) sospensioni per l'esistenza di una pregiudiziale (costituzionale, comunitaria, civile, amministrativa, tributaria etc.);

 

b) sospensioni dovute all'instaurazione di procedimenti incidentali finalizzati ad assicurare la terzietà del giudice o la serenità dello svolgimento del processo (ricusazione, rimessione);

 

c) sospensioni per il compimento di atti e comportamenti che possono influire sull'esito del processo in modo tale da rendere tale esito, nella valutazione del legislatore, preferibile rispetto a quelli prevedibili sulla base del normale svolgimento del processo stesso (come avviene per l'affidamento in prova dell'imputato nel processo minorile e per il compimento delle riparazioni, delle restituzioni e del risarcimento del danno nel processo davanti al giudice di pace);

 

d) sospensioni per ragioni soggettive, quali quella dipendente dalla condizione dell'imputato che per infermità di mente non è in grado di partecipare coscientemente al processo, e quella degli appartenenti a reparti mobilitati prevista dall'art. 243 del codice penale militare di guerra.

 

Se si prescinde da quest'ultima, peraltro prevista in un testo risalente (regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303), mai sottoposto a scrutinio di costituzionalità e soprattutto connesso ad una situazione eccezionale quale lo stato di guerra, le altre sospensioni soddisfano esigenze del processo e sono finalizzate a realizzare le condizioni perché esso abbia svolgimento ed esito regolari, anche se ciò può comportare la temporanea compressione dei diritti che vi sono coinvolti. Ciò vale anche per la sospensione stabilita per l'ipotesi dell'imputato incapace, perché la capacità dell'imputato di partecipare coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile, come questa Corte ha affermato fin dai primi anni della sua attività (cfr. sentenze n. 59 del 1959 e n. 354 del 1996).

 

Da quanto fin qui esposto emerge che la sospensione, di solito prevista per situazioni oggettive del processo, è funzionale al suo regolare proseguimento.

 

Ciò non significa che quello delle sospensioni sia un sistema chiuso e che il legislatore non possa stabilire altre sospensioni finalizzate alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali, ma implica la necessità di identificare i presupposti di tali sospensioni e le finalità perseguite, eterogenee rispetto a quelle proprie del processo.

 

4. La situazione cui si riconnette la sospensione disposta dalla norma censurata è costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato ed il bene che la misura in esame vuol tutelare deve essere ravvisato nell'assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche.

 

Si tratta di un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale.

 

È un modo diverso, ma non opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma la tesi secondo la quale il legislatore, considerando che l'interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire, abbia voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento. Anche sotto questo aspetto la misura appare diretta alla protezione della funzione.

 

Occorre ora accertare e valutare come la norma incida sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti.

 

5. La sospensione in esame è generale, automatica e di durata non determinata.

 

Ciascuna di siffatte caratteristiche esige una chiarificazione.

 

La sospensione concerne i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica, come risulta chiaro dalla espressa salvezza degli artt. 90 e 96 della Costituzione.

 

Essa è automatica nel senso che la norma la dispone in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l'imputazione ed in qualsiasi momento dell'iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti.

 

Infine la sospensione, predisposta com'è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall'imputato, subisce, per quanto concerne la durata, gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati. E non è fondata l'obiezione secondo la quale il protrarsi dell'arresto del processo sarebbe da attribuire ad accadimenti e non alla norma, perché è questa a consentire l'indefinito protrarsi della sospensione.

 

6. Da quanto detto emerge anzitutto che la misura predisposta dalla normativa censurata crea un regime differenziato riguardo all'esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale.

 

La constatazione di tale differenziazione non conduce di per sé all'affermazione del contrasto della norma con l'art. 3 della Costituzione. Il principio di eguaglianza comporta infatti che, se situazioni eguali esigono eguale disciplina, situazioni diverse possono implicare differenti normative. In tale seconda ipotesi, tuttavia, ha decisivo rilievo il livello che l'ordinamento attribuisce ai valori rispetto ai quali la connotazione di diversità può venire in considerazione.

 

Nel caso in esame sono fondamentali i valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l'esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione.

 

Alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali.

 

L'automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, sul diritto di difesa dell'imputato, al quale è posta l'alternativa tra continuare a svolgere l'alto incarico sotto il peso di un'imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l'accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.). Ed è appena il caso di osservare che, in considerazione dell'interesse generale sotteso alle questioni di legittimità costituzionale, è ininfluente l'atteggiamento difensivo assunto dall'imputato nella concretezza del giudizio.

 

Sacrificato è altresì il diritto della parte civile la quale, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell'azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dal comma 3 dell'art. 75 del codice di procedura penale.

 

7. Si è affermato, per sostenere la legittimità costituzionale della legge, che nessun diritto è definitivamente sacrificato, nessun principio costituzionale è per sempre negletto.

 

La tesi non può essere accolta.

 

All'effettività dell'esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo. Ancor prima che fosse espressamente sancito in Costituzione il principio della sua ragionevole durata (art. 111, secondo comma), questa Corte aveva ritenuto che una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza n. 354 del 1996) e che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell'efficienza del processo (sentenza n. 353 del 1996).

 

8. La Corte ritiene che anche sotto altro profilo l'art. 3 Cost. sia violato dalla norma censurata.

 

Questa, infatti, accomuna in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti. Né vale invocare, come precedente e termine di comparazione, l'art. 205 cod.proc.pen. il quale disciplina un aspetto secondario dell'esercizio della giurisdizione, ossia i luoghi in cui i titolari delle cinque più alte cariche dello Stato possono essere ascoltati come testimoni.

 

Non è superfluo soggiungere che, mentre vengono fatti salvi gli artt. 90 e 96 Cost., nulla viene detto a proposito del secondo comma dell'art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell'immunità accordata nel secondo comma dell'art. 68 Cost. ai membri delle due Camere. Ne consegue che si riscontrano nella norma impugnata anche gravi elementi di intrinseca irragionevolezza.

 

La questione è pertanto fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

 

Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale.

 

9. La disposizione direttamente impugnata si inserisce in un contesto normativo le cui articolazioni, per quanto riguarda i primi due commi - che si riferiscono, rispettivamente, alle due situazioni della non sottoponibilità a processo e della sospensione dei processi eventualmente già in corso - sono dirette alla medesima, sostanziale finalità, hanno lo stesso ambito soggettivo di applicazione ed entrano in contrasto con gli stessi precetti costituzionali. Pertanto, in via conseguenziale ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve estendersi anche ai commi 1 e 3, non direttamente impugnati, dell'art. 1 della legge n. 140 del 2003: al comma 1 per le ragioni appena dette, ed al comma 3, concernente la sospensione della prescrizione per il tempo di applicazione delle misure di cui ai primi due commi, perché lo stesso, caducati i precedenti, non ha alcuna autonomia applicativa.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riservata a separata decisione la questione di legittimità costituzionale dell'art. 110, quinto comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), sollevata dal Tribunale di Milano con l'ordinanza in epigrafe;

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato);

 

dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 3, della predetta legge n. 140 del 2003.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.

 

F.to:

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2004.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


 

Sentenza 26 maggio 2004, n. 154

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente, Gustavo ZAGREBELSKY, Giudici: Valerio ONIDA , Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle sentenze emesse dalla Corte di cassazione, sez. III civile, n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, di annullamento con rinvio di due decisioni della Corte d’appello di Roma, in data 21 aprile 1997 e 16 marzo 1998, concernenti la irresponsabilità dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga relativamente alle opinioni espresse nei confronti dei parlamentari Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato, promosso con ricorso del senatore a vita Francesco Cossiga, nella qualità di ex Presidente della Repubblica, notificato il 12 dicembre 2002, depositato in cancelleria il 19 successivo ed iscritto al n. 44 del registro conflitti 2002.

 

Visti l’atto di costituzione della Corte di cassazione e della III sezione civile della medesima Corte di cassazione, nonché l’atto di costituzione del Presidente della Repubblica, e gli atti di intervento di Pierluigi Onorato e di Sergio Flamigni;

 

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;

 

uditi gli avvocati Franco Coppi, Giuseppe Morbidelli e Agostino Gambino per il senatore a vita Francesco Cossiga, nella sua qualità di ex Presidente della Repubblica, l’avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente della Repubblica, gli avvocati Massimo Luciani e Federico Sorrentino per Pierluigi Onorato e l’avvocato Giuseppe Zupo per Sergio Flamigni.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ricorso depositato l’11 febbraio 2002 il senatore a vita Francesco Cossiga, nella sua qualità di ex Presidente della Repubblica, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte suprema di cassazione, III sezione civile, chiedendo l’annullamento delle sentenze n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, rese nell’ambito di due distinti giudizi civili per risarcimento dei danni intentati nei confronti del senatore Cossiga stesso, rispettivamente, dai senatori Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato, a causa di dichiarazioni pronunciate nel corso del mandato presidenziale che questi ultimi assumono essere ingiuriose e diffamatorie nei loro riguardi.

 

Le decisioni della Corte di cassazione hanno disposto l’annullamento con rinvio di due sentenze della Corte d’appello di Roma – rispettivamente del 21 aprile 1997 e del 16 marzo 1998, che avevano a loro volta riformato due pronunce di condanna del senatore Cossiga, emesse dal Tribunale di Roma adito per il risarcimento dei danni dai due parlamentari – affermando i seguenti principi di diritto:

 

“a) Ai sensi dell’art. 90, primo comma della Costituzione, l’immunità del Presidente della Repubblica (che attiene sia alla responsabilità penale che civile o amministrativa) copre solo gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (nelle quali rientrano, oltre quelle previste dall’art. 89 della Costituzione, anche quelle di cui all’art. 87 della Costituzione, tra le quali la stessa rappresentanza dell’unità nazionale) e non quelli ‘extrafunzionali’; né la continuità del munus comporta che l’immunità riguardi ogni atto compiuto dalla persona che ha la titolarità dell’organo per quanto monocratico.

 

b) Tra le funzioni del Presidente della Repubblica, coperte dall’immunità, può annoverarsi anche l’‘autodifesa’ dell’organo costituzionale, ma solo allorché l’ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nel caso in cui oggettive circostanze concrete impongano l’immediatezza dell’autodifesa.

 

c) L’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione.

 

d) Pur non essendo il Presidente della Repubblica vincolato ad esprimersi solo con messaggi formali (controfirmati a norma dell’art. 89 della Costituzione), il suo c.d. ‘potere di esternazione’, che non è equiparabile alla libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 della Costituzione, non integra di per sé una funzione, per cui è necessario che l’esternazione sia strumentale o accessoria ad una funzione presidenziale, perché possa beneficiare dell’immunità.

 

e) Le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di un’esternazione presidenziale beneficiano dell’immunità solo se commesse “a causa” della funzione, e cioè come estrinsecazione modale della stessa, non essendo sufficiente la mera contestualità cronologica, che dà luogo solo ad atto arbitrario concomitante.

 

f) Il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale e nella pura contumelia, con lesione del diritto di altri all’integrità morale”.

 

Il ricorrente ripercorre i passaggi centrali delle decisioni, da quelle di primo grado – basate su una lettura “stretta” della disciplina dell’immunità del Presidente della Repubblica ex art. 90 della Costituzione, ricollegata ai soli atti espressivi di esercizio delle funzioni presidenziali proprie –, a quelle di appello – viceversa fondate su una concezione ampia della prerogativa, anche alla stregua delle prassi costituzionali recentemente poste in essere –, fino a quelle della Cassazione, che hanno, per la prima volta, delineato ambito e contenuti della responsabilità del Capo dello Stato.

 

Secondo il ricorrente, la Corte di cassazione in tali sentenze si sarebbe attenuta ai seguenti criteri: (a) una lettura ampia dei poteri del Presidente della Repubblica, titolare non solo delle funzioni elencate nell’art. 87 della Costituzione ma anche legittimato al compimento di atti o dichiarazioni non tipizzati, correlati a dette funzioni, tra cui le espressioni del c.d. “potere di esternazione”, convalidato dalla prassi costituzionale e dal “diritto vivente”; (b) per converso, e in contrario avviso rispetto all’impostazione dei giudici d’appello, la sottolineatura dell’esigenza di agganciare la irresponsabilità penale, civile, amministrativa alla sussistenza di un nesso funzionale tra l’illecito commesso e i poteri propri del Presidente, dovendosi ammettere la possibilità di “esternazioni” solo alla condizione della loro strumentalità rispetto a un compito presidenziale, ratione materiae dunque, e non ratione personae, diversamente che nella forma di Stato monarchica; (c) l’affermazione che l’irresponsabilità giuridica del Capo dello Stato può essere pertanto riconosciuta solo in presenza di atti e comportamenti che siano diretto esercizio delle funzioni o che trovino la loro causa in queste, escludendosi in tal modo le attività “extrafunzionali”; (d) il rilievo per il quale spetta al giudice comune accertare l’esistenza di detto nesso funzionale, salva la facoltà del Presidente della Repubblica di promuovere il conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale; (e) l’osservazione secondo cui le dichiarazioni eventualmente diffamatorie pronunciate dal Capo dello Stato, se connesse nel senso detto alla funzione, non hanno a che fare con il diritto di libera manifestazione del pensiero ex art. 21 della Costituzione, al quale si riconnette la critica politica che è facoltà comune a tutti i cittadini, ma che deve comunque essere contenuta in limiti espressivi, comuni anch’essi alla generalità dei cittadini.

 

Ciò premesso, il ricorrente svolge in primo luogo alcune considerazioni in punto di ammissibilità del ricorso, sotto il profilo della legittimazione a ricorrere di chi sia stato Presidente della Repubblica.

 

Posta l’elasticità della nozione di “potere” ai fini del promovimento del conflitto, che si tradurrebbe nella necessità di valutare caso per caso l’individuazione del potere confliggente, nell’ambito del pluralismo istituzionale che contrassegna il quadro costituzionale, il ricorrente ritiene di trarre argomenti in senso favorevole dalla più recente giurisprudenza costituzionale resa in materia di insindacabilità ex art. 68 della Costituzione a fronte di ricorsi proposti da singoli parlamentari, nella quale, pur ribadendo l’attinenza della prerogativa alla Camera e non al singolo parlamentare, la Corte avrebbe mostrato talune aperture alla possibilità che in concreto si diano ipotesi in cui si configuri una attribuzione costituzionale di potere individuale, per la cui tutela pertanto sia legittimato a ricorrere il singolo (ordinanze n. 177 del 1998 e n. 101 del 2000). Ciò equivarrebbe a dire che l’aspetto centrale è quello “oggettivo” del conflitto, essendo impossibile predefinire i soggetti che possono entrare in conflitto e che possono ricevere tutela in sede di giurisdizione costituzionale.

 

Alla stregua di questi rilievi, il fatto che il senatore Cossiga non rivesta più la carica di Presidente della Repubblica non ne escluderebbe la legittimazione, tanto più considerando che egli è stato citato in giudizio durante il mandato e che attualmente, pur pendendo i giudizi civili, non potrebbe far valere le garanzie che gli spettano qualora si adottasse una nozione formalistica di “potere”.

 

In questa direzione, assumerebbe rilievo la posizione peculiare rivestita da colui che abbia ricoperto un ufficio pubblico e per il quale, conseguentemente, la qualità di “ex” abbia rilievo giuridico, come elemento impeditivo rispetto a ulteriori munera, o all’inverso come requisito o come vera e propria condizione per accedere a ulteriori cariche.

 

In questo ordine di idee, l’art. 59 della Costituzione, che stabilisce che è senatore di diritto a vita chi sia stato Presidente della Repubblica, testimonierebbe esplicitamente che anche dopo la scadenza del mandato presidenziale il titolare conserva una posizione giuridicamente rilevante sul piano costituzionale, essendo tra l’altro tenuto al segreto d’ufficio sui fatti appresi durante il settennato.

 

Si potrebbe perciò desumere dal contesto costituzionale complessivo che l’avere rivestito la carica di Capo dello Stato produce una sorta di “effetto di irradiamento” sulla posizione del soggetto cessato dalla carica, e che non può dunque negarsi la legittimazione al ricorso, tanto più in relazione ad un giudizio pendente su fatti che riguardavano l’ufficio presidenziale durante l’esercizio del mandato.

 

Quanto al profilo oggettivo del conflitto, osserva il ricorrente che si è in presenza di un conflitto da menomazione, che avrebbe origine da “eccedenze” del potere giudiziario e in particolare dall’attribuzione di responsabilità civile per condotte, come l’esercizio del potere di esternazione, che sarebbero da ricollegare alla funzione presidenziale e che dunque non ammetterebbero tale ascrizione di responsabilità, secondo la disciplina dell’immunità delineata in Costituzione (art. 90).

 

Peraltro, “nel nostro ordinamento”, sostiene il ricorrente, “deve essere la Corte costituzionale, e nessun altro organo, a risolvere le controversie che possono insorgere tra gli organi giudiziari e gli organi titolari delle immunità”, sicché farebbe “molto dubitare l’asserita compatibilità costituzionale di una verifica effettiva di ciò che sia esercizio delle funzioni presidenziali e di ciò che non lo sia, lasciata alla giurisdizione ordinaria”.

 

In ordine ai confini della responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica vi sarebbe inoltre una notevole incertezza interpretativa, avendo questa materia ricevuto nel testo costituzionale una disciplina particolarmente “ambigua”.

 

Muovendo dalle origini storiche dell’istituto, nel passaggio dall’inviolabilità personale del Re propria dell’esperienza monarchica – espressione della sacralità del titolare e della necessità che un soggetto responsabile affiancasse l’agire del sovrano, imputandosene la responsabilità, donde l’origine della controfirma del ministro per l’atto del sovrano – al principio della irresponsabilità non più personificata ma “oggettivata nella funzione”, il ricorrente sottolinea come nel disegno costituzionale, una volta effettuata la scelta per la forma repubblicana, la figura del Presidente della Repubblica presenti tuttavia una persistente difficoltà di ricostruzione unitaria e generalmente accettata, coesistendo in essa aspetti di un organo “governante” e aspetti di un organo “garante”: per i primi rileva la astrattezza di una tesi che configuri un organo totalmente super partes, data la valenza politica della carica, per i secondi rileva una ulteriore sottodistinzione, tra chi riconosce in capo al Presidente della Repubblica un ambito di indirizzo politico-costituzionale rivolto a dare attuazione – e appunto a garantire – principi e fini costituzionali, per tutelare gli aspetti fondamentali e permanenti della comunità statale, e chi accentua invece la funzione di stretta garanzia; non senza registrare ulteriori disparità di accenti e di vedute circa l’essenza di detta funzione garante.

 

Da ciò l’eterogeneità di letture sul connesso tema della responsabilità, accentuandosi l’esigenza della piena e totale irresponsabilità nell’ottica della funzione “governante” e restringendosi invece tale prerogativa nell’ambito del profilo di garanzia, con una gamma di ricostruzioni che vanno dalla tesi della totale immunità, di diritto sostanziale e processuale, durante e dopo il mandato, alla tesi della responsabilità piena e secondo il diritto comune per tutte le attività del Capo dello Stato che non si possano ricondurre alla funzione assegnata ed esercitata secondo la Costituzione.

 

É in questo composito e non stabilizzato quadro teorico, prosegue il ricorrente, che la Corte costituzionale è chiamata a valutare se delle dichiarazioni per le quali il senatore Cossiga è stato citato in giudizio egli debba rispondere. Questa verifica, si precisa, era stata già effettuata dalla Corte d’appello di Roma, che aveva vagliato la portata “offensiva” delle dichiarazioni, per pervenire a escludere ogni responsabilità in base a una – dal ricorrente condivisa e fatta propria – ricostruzione del ruolo e delle funzioni del Presidente della Repubblica quale si è venuta delineando nella forma di governo e nella prassi costituzionale. Un risultato, questo, che tra l’altro impedisce il paradosso di una garanzia del Capo dello Stato di livello inferiore a quella dei parlamentari, e che tutela le comunicazioni del Presidente con l’immunità, quale aspetto della assoluta indipendenza di esso di fronte a qualsiasi altro organo o potere, superando l’idea, inattuale, di un Presidente avulso dalla formazione dell’indirizzo politico-costituzionale.

 

Quanto al potere di “esternazione” del Presidente della Repubblica, esso dovrebbe oramai ritenersi riconosciuto in via di principio, quale facoltà di svolgere e chiarire le proprie valutazioni e i propri orientamenti se reputati indispensabili per lo svolgimento delle funzioni attribuite dalla Costituzione, tra cui in primo luogo l’indirizzo, autonomo, volto a garantire il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali che appartengono all’intera comunità.

 

Ciò discenderebbe dalla nuova e differente collocazione del Capo dello Stato, che finisce per trovarsi in un ambito di “frontiera” rispetto agli altri organi definiti politici, e che risentirebbe del mutare degli assetti che si danno nelle altre “zone” dell’ordinamento costituzionale, così che la caratteristica monocratica della carica ha finito per differenziare ruolo e caratteristiche dell’organo, in una logica di “personalizzazione” intrinseca a questa figura.

 

Caratteristica evidente della presidenza del senatore Cossiga sarebbe stata appunto la prassi delle “esternazioni”, attraverso i media e in vista di una comunicazione diretta e non mediata con i cittadini e la pubblica opinione.

 

Questo potere, prosegue il ricorrente, è oggetto di discussione teorica, e la sua configurazione è in continua evoluzione, di pari passo con lo sviluppo pluralistico della società e con l’aumentata importanza della comunicazione politica, in un circuito volto a ricercare l’adesione della pubblica opinione intorno a temi di rilevanza costituzionale; e ciò, si conclude sul punto, non può certo essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria.

 

Sotto altro aspetto, poi, il ricorrente osserva come sia estremamente difficile una rigorosa distinzione tra le manifestazioni del pensiero uti singulus e le enunciazioni riconducibili alla funzione, in particolare quando, nel circuito comunicativo che si è sopra detto, le esternazioni si sottraggono alla dimensione formale dello scritto: anche questo aspetto, prosegue il ricorrente, è stato affrontato dalla Corte d’appello di Roma, che ha concluso per l’irresponsabilità di esse, in quanto comunque riferibili alla realizzazione dell’indirizzo politico-costituzionale, ai poteri di stimolo e di persuasione, alle forme di “autotutela” della istituzione presidenziale, prescindendosi dunque del tutto dal formalistico collegamento – istituito invece dai giudici di primo grado – tra irresponsabilità e controfirma ministeriale.

 

Questa conclusione, afferma il ricorrente, deve ora essere ribadita, per “superare l’anacronistica concezione dei poteri e delle prerogative presidenziali dei Costituenti, costantemente smentita nella prassi recente e non più compatibile con la logica del sistema costituzionale”: deve affermarsi che sono coperte dall’immunità le esternazioni non direttamente ascrivibili a una delle funzioni tipizzate del Capo dello Stato, ma comunque riferibili alla dimensione politico-rappresentativa che a questa carica è connaturata.

 

Alla stregua di tali premesse, le dichiarazioni rese dal senatore Cossiga nei confronti dei senatori Flamigni e Onorato non potrebbero essere qualificate come atti privati, trattandosi della reazione del titolare della più elevata carica della Repubblica agli attacchi a essa rivolti suo tramite; né – prosegue il ricorrente – avrebbe serio fondamento il tentativo di sostenere la non riconducibilità delle reazioni del Presidente della Repubblica all’esercizio delle funzioni, essendo una mera “finzione” la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica nelle comunicazioni di valore e contenuto politico da parte di un organo monocratico, il cui titolare è investito del munus in modo permanente, non a date e orari prestabiliti.

 

Nella specie, talune delle frasi pronunciate nei confronti del senatore Onorato costituirebbero la reazione – “franca e senza ipocrisie”, ma non gratuitamente denigratoria – nei riguardi di posizioni espresse dal medesimo su temi di straordinario rilievo istituzionale, come la collocazione dell’Italia nel sistema di alleanze internazionali in occasione della guerra del Golfo, e come la vicenda “Gladio”, in relazione alla quale il parlamentare, con altri, aveva sollecitato una messa in stato di accusa del Presidente, ciò che comportava un attacco evidente alla massima carica dello Stato, finalizzato a screditarne il titolare; altre frasi rivolte sempre al senatore Onorato – quali quelle circa la “faziosità”, cioè l’essere di parte, o quelle circa il senso dello Stato e della Patria, oltretutto reciproche – dovrebbero reputarsi perfino prive di contenuto offensivo; mentre le frasi pronunciate nei riguardi del senatore Flamigni costituirebbero reazione alle posizioni da costui espresse, sia in sede di commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro sia in un libro, relativamente a vicende anch’esse di indubbia rilevanza politico-costituzionale, come il presunto coinvolgimento del senatore Cossiga, allora Ministro dell’interno, in trame legate, nell’ambito della vicenda Moro, alla loggia massonica P2 e ai servizi segreti deviati.

 

Il ricorrente rileva quindi la riconducibilità di tutte queste “esternazioni” all’immunità ex art. 90 della Costituzione, anche alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nel contiguo settore dell’insindacabilità dei parlamentari ex art. 68 della Costituzione, attraverso il criterio del nesso funzionale tra opinioni e attività parlamentare tipica.

 

Infine, il ricorrente affronta l’aspetto del regime dei c.d. atti “extrafunzionali” del Presidente della Repubblica, disciplinando la Costituzione solo quelli “funzionali”, cioè compiuti, come recita l’art. 90 della Costituzione, “nell’esercizio delle sue funzioni”: richiamati i lavori sul punto dell’Assemblea costituente, si sottolinea come alla fine prevalse, per ragioni di opportunità, l’idea di non disporre espressamente alcunché sulla responsabilità del Capo dello Stato per illeciti comuni.

 

Al riguardo – sottolinea il ricorrente – anche le opinioni di dottrina maggiormente propense, per non trasformare la garanzia in privilegio, a delimitare un’area “stretta” di irresponsabilità del Presidente della Repubblica, devono pur sempre riconoscere l’esistenza di aspetti particolari, specie nel settore delle opinioni o “esternazioni”, aspetti che male si prestano a una generica riconduzione alla responsabilità comune tout court; di qui la ricostruzione, proposta da una dottrina ampiamente citata nell’atto introduttivo e fatta propria dal ricorrente, che, partendo dalla identificazione tra carica monocratica e soggetto ad essa preposto, afferma che l’integrità della persona vale, data questa identificazione, anche a tutela dell’istituzione. In questo senso, la lacuna costituzionale nella disciplina dell’irresponsabilità del Presidente della Repubblica viene colmata con l’affermazione che l’immunità presidenziale preserva da ogni procedimento giudiziario che possa limitare la libertà d’azione del titolare o che lo ponga in condizione di soggezione o subalternità di fronte ad un potere diverso; e la residua responsabilità comune, certo sussistente, non potrà essere fatta valere durante l’esercizio del mandato: in una logica secondo cui è rovesciata la tesi che le immunità debbano configurarsi come eccezioni al diritto comune, essendo esse – sempre nella ricostruzione proposta – un postulato coessenziale agli organi supremi costituzionali.

 

Il ricorrente conclude “affinché codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare ammissibile” il ricorso.

 

2.– Con memoria depositata nell’imminenza della delibazione sull’ammissibilità del conflitto il ricorrente ha insistito “affinché questa Corte, previa declaratoria di ammissibilità” del ricorso, “annulli le sentenze” della Corte di cassazione.

 

A conforto dell’ammissibilità del ricorso, il ricorrente sostiene che si verta in una situazione di “ultrattività del potere”, analoga a quella che questa Corte ebbe a risolvere con la sentenza n. 7 del 1996, concernente il conflitto sollevato dall’ex Ministro della giustizia.

 

Nel caso di specie, il senatore Cossiga, convenuto in giudizio “in prossimità dello spirare del mandato settennale”, “non è stato neppure destinatario, in pendenza della funzione, di un atto o di un provvedimento proveniente da altro Potere dello Stato”, tale da consentirgli di sollevare contro di esso conflitto di attribuzione.

 

Negare successivamente tale facoltà significherebbe, prosegue il ricorrente, “privare il soggetto titolare della funzione di qualsiasi tutela”, legando quest’ultima ad un evento indipendente dalla volontà del titolare del potere, quale la durata del processo.

 

Il ricorrente aggiunge che solo a seguito delle sentenze rese dalla Corte di cassazione il conflitto avrebbe potuto essere sollevato, poiché si tratta dell’organo che esprime “l’ultima parola” del potere giudiziario, e perché, in ogni caso, la sentenza di primo grado è intervenuta successivamente allo spirare del mandato presidenziale.

 

3.– Con ordinanza n. 455 del 2002 questa Corte ha dichiarato l’ammissibilità del conflitto ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, disponendo l’integrazione del contraddittorio anche nei confronti del Presidente della Repubblica, “la cui posizione costituzionale, in relazione alle questioni di principio circa l’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione, è oggetto delle due decisioni della Corte di cassazione e del ricorso per conflitto” proposto nei confronti di esse.

 

Il ricorso e l’ordinanza sono stati notificati nei termini ai contraddittori così individuati.

 

4.– Si è costituito in giudizio il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, riservando “al prosieguo la formulazione delle proprie conclusioni”.

 

Osserva il Presidente della Repubblica di essere stato destinatario della notifica dell’ordinanza di questa Corte dichiarativa dell’ammissibilità del conflitto, non tanto in relazione “al profilo contingente (…) collegato ad eventi puntuali e ad altrettanto puntuali interessi, sia pur di rilievo costituzionale, contrapposti”, quanto in relazione al “profilo immanente di una ‘actio finium regundorum’ fra potere presidenziale e potere giudiziario”.

 

Per tale ragione, “ogni argomentazione e conclusione non potrà quindi prescindere dalla posizione che assumerà in giudizio il potere giudiziario nella sua epifania della Suprema Corte di cassazione”.

 

5.– Con atto denominato “di intervento” si è costituita in giudizio la Corte di cassazione, in persona del Primo Presidente pro tempore, e, “per quanto possa occorrere”, la Sezione III civile della Corte di cassazione, in persona del Presidente pro tempore, rappresentate e difese dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per il rigetto del ricorso.

 

L’Avvocatura ritiene sufficiente ripercorrere l’iter logico cui si sono attenute le due sentenze della Suprema Corte oggetto del conflitto.

 

La Cassazione sarebbe partita dalla premessa secondo cui, ai sensi dell’art. 90 della Costituzione, il Presidente della Repubblica gode di immunità “penale, civile o amministrativa” per i soli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni.

 

Tra questi non si potrebbero ricomprendere i soli “atti ufficiali controfirmati”, ma le stesse manifestazioni del potere di esternazione, purché strumentale ed accessorio ad una funzione presidenziale.

 

Esso costituirebbe, infatti, non una funzione, bensì “solo un mezzo, cioè uno dei possibili strumenti con cui il Presidente provvede all’esercizio di alcune funzioni presidenziali”.

 

Altro sarebbe, invece, la manifestazione del pensiero della persona fisica che ricopre la carica.

 

Tra le funzioni presidenziali, cui si connette il potere di esternazione, la Suprema Corte avrebbe annoverato anche “l’autodifesa” delle prerogative e del prestigio dell’organo costituzionale, a fronte di lesioni arrecatevi da terzi.

 

Tuttavia, il compito di tutelare sotto tale profilo il Presidente sarebbe in via ordinaria assegnato dall’ordinamento ad altri “organi istituzionali” (articoli 278 e 313 del codice penale; art. 343 del codice di procedura penale), salva l’ipotesi residuale “in cui le oggettive circostanze concrete impongano al Presidente l’immediatezza nel respingere gli attacchi offensivi”.

 

Spetterebbe all’autorità giudiziaria valutare se, in concreto, si versi nella sfera di immunità così delineata; salvo che il Presidente della Repubblica non si esprima sul punto egli stesso con “un atto valutativo presidenziale”, impugnabile solo tramite la via del conflitto di attribuzione.

 

Nel caso di specie, in mancanza di ciò (posto che a tale atto non sarebbe equiparabile l’eccezione proposta nel giudizio civile tramite memoria di difesa), toccherebbe al Presidente sollevare il conflitto, avverso la pronuncia dell’autorità giudiziaria, mentre è compito del giudice di merito, innanzi a cui le cause sono state rinviate, stabilire se ricorra oppure no l’esimente del legittimo esercizio della critica politica.

 

Sulla circostanza secondo cui l’odierno conflitto non è stato sollevato avverso le sentenze del Tribunale di Roma che affermarono in primo grado la responsabilità del senatore Cossiga, nonché su “ogni altro punto riguardante l’ammissibilità definitiva del ricorso”, l’Avvocatura “si rimette al giudizio” di questa Corte.

 

6.– É intervenuto in giudizio Pierluigi Onorato, attore in uno dei giudizi che hanno originato il conflitto.

 

L’interveniente ritiene di essere legittimato all’intervento, in quanto “titolare di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, che può essere compromesso (o soddisfatto) dall’esito della controversia”, e chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile e in subordine infondato.

 

7.– In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato ampia memoria illustrativa con la quale, dopo aver ripercorso i passaggi della vicenda ed i temi implicati nel conflitto, chiede che siano annullate “le sentenze della Suprema Corte di cassazione per la non spettanza all’autorità giudiziaria del potere di individuare il contenuto delle immunità presidenziali di cui all’art. 90 della Costituzione, nonché di giudicare se gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica abbiano natura funzionale o extrafunzionale”, previa definitiva pronuncia di ammissibilità del ricorso.

 

Il ricorrente ribadisce, in ordine all’ammissibilità del conflitto, l’analogia fra il presente conflitto e quelli sollevati dal Ministro della giustizia nel caso deciso con la sentenza n. 7 del 1996, osservando che le citazioni – riguardanti il contenuto di esternazioni pronunciate durante il mandato presidenziale e ritenute offensive – proposte dagli attori nei suoi confronti davanti al Tribunale di Roma gli erano state notificate durante il mandato presidenziale ed in prossimità della scadenza di esso, ma che nessun provvedimento menomativo della propria sfera di attribuzioni era stato adottato dall’autorità giudiziaria in pendenza del mandato, sicché non vi erano stati né l’interesse da parte del Presidente a sollevare conflitti di attribuzione, cioè a difendere le proprie prerogative costituzionali, né, a maggior ragione, la necessità e la materiale possibilità di farlo.

 

Se dunque non si consentisse oggi ad esso ricorrente di sollevare conflitto nei confronti dell’autorità giudiziaria di ultima istanza, si priverebbe il soggetto, scaduto dalla carica, della benché minima tutela, perché la possibilità di sollevare o meno il conflitto per fatti inerenti alla carica non sarebbe più collegata alla libera scelta del titolare del potere, ma ad un mero criterio di decorrenza temporale.

 

Quanto al merito, il ricorrente ribadisce e sviluppa le argomentazioni già svolte nel ricorso introduttivo, ed in particolare si sofferma sulla necessità di negare ogni distinzione tra le manifestazioni di pensiero compiute uti singulus dal Presidente e le enunciazioni riconducibili all’esercizio della carica.

 

Il titolare di un organo monocratico di vertice come il Presidente, si osserva in proposito, non avrebbe una dimensione politica privata – la sfera delle esternazioni informali – contrapposta ad una dimensione pubblica, ma una sfera assolutamente privata – nella quale rientrerebbero, ad esempio, l’intervista ad un giornale sulle proprie preferenze calcistiche o le dichiarazioni sui propri gusti letterari in occasione della consegna di un premio –, nella quale egli è pienamente responsabile, contrapposta ad una sfera pubblica nella quale esercita le sue funzioni, che sono quelle previste, esplicitamente o implicitamente, dalla Costituzione: “le esternazioni, di conseguenza, o riguardano le funzioni tipiche oppure no”, essendo inserite in un circuito politico-culturale e collegate al ruolo svolto dal Presidente quale organo “moderatore” del sistema politico, di “stimolo”, di “persuasione”, di “monito”, di “influenza”, di “garante” dei valori costituzionali, di “rappresentante” dell’unità nazionale.

 

Quanto al tema del regime dei c.d. atti extrafunzionali del Presidente della Repubblica, nella disciplina della responsabilità per fatti estranei all’esercizio di funzioni si rivelerebbe una lacuna che lascia esposto il Presidente alle conseguenze di iniziative arbitrarie o destabilizzanti.

 

Non sarebbe pertanto ammissibile che l’autorità giudiziaria possa sostituirsi al Presidente nel valutare la congruità dei mezzi per soddisfare gli interessi istituzionali affidati alla sua tutela, non prestandosi tale valutazione – per l’indiscutibile politicità che comporta – ad essere svolta da organi la cui azione non è discrezionale ma vincolata, e che, comunque, non sono titolati ad affrontare e decidere questioni di tono costituzionale, in quanto ciò determinerebbe una lesione del principio della divisione dei poteri.

 

8.– Ha depositato memoria il Presidente della Repubblica, che si è rimesso “integralmente al giudizio di questa Corte” sia per la questione pregiudiziale di ammissibilità del conflitto, sia, “in caso di soluzione positiva della stessa, per quanto attiene alla perimetrazione dei confini funzionali della responsabilità presidenziale”.

 

La difesa del Presidente, richiamando la sentenza di questa Corte n. 116 del 2003, osserva che “i conflitti fra poteri dello Stato vedono assai spesso il profilo giuridico indissolubilmente intrecciato con quello politico e talvolta accade addirittura che in essi la dimensione giuridica della controversia finisca per essere assorbita da quella politica”; e rileva che “in conflitti di tale natura oltretutto possono emergere risvolti personali indotti dalla natura monocratica dell’organo che impersona il potere chiamato in causa”.

 

Sulla base di tali premesse, conclude essere “pertanto intendimento del Potere evocato in giudizio astenersi dal prendere posizione sulle questioni pregiudiziali di ammissibilità del ricorso e limitare la propria presa di posizione alla condivisione del principio del necessario collegamento fra irresponsabilità ed esercizio della funzione. Principio non revocato in dubbio dal ricorrente”.

 

9.– Ha altresì depositato memoria il sen. Pierluigi Onorato, insistendo nelle conclusioni rassegnate nell’atto di intervento.

 

L’interveniente anzitutto illustra i motivi a sostegno della ammissibilità dell’intervento di un terzo dalla posizione qualificata nel giudizio per conflitto di attribuzione fra poteri, valorizzando, tra l’altro, il caso, relativo ad un conflitto tra enti (sentenza n. 76 del 2001), nel quale tale intervento è stato, appunto, ritenuto ammissibile. Confuta quindi la tesi della tardività dell’intervento nella fattispecie, dovendo necessariamente decorrere il termine per lo stesso dalla pubblicazione del ricorso nella Gazzetta ufficiale.

 

Dopo aver ricordato i fatti all’origine del giudizio promosso davanti al giudice civile, eccepisce l’inammissibilità del conflitto, tanto sotto il profilo oggettivo – segnatamente per la mancanza di un petitum e dell’indicazione delle attribuzioni lese nel ricorso –, che sotto quello soggettivo, per più ragioni, ed in particolare in quanto le prerogative di una carica non potrebbero nella presente sede essere tutelate che ad iniziativa dell’attuale titolare di essa.

 

Nel merito, ad avviso dell’interveniente, piena adesione meritano i principi affermati dalle sentenze della Corte di cassazione, che disegnerebbero una nozione dell’irresponsabilità presidenziale tutt’altro che restrittiva, la quale valorizza al massimo il ruolo presidenziale di rappresentante dell’unità nazionale.

 

10.– In prossimità dell’udienza pubblica ha depositato “atto di intervento in giudizio” il sen. Sergio Flamigni, attore nell’altro giudizio civile all’origine del conflitto, il quale, assumendo di averne tardivamente avuto notizia informale, chiede, in ragione della propria posizione nel detto giudizio, che rischierebbe di essere compromessa o soddisfatta all’esito del giudizio in corso davanti a questa Corte, di essere ammesso a parteciparvi, concludendo affinché il ricorso sia dichiarato inammissibile e in subordine infondato.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato è proposto dal sen. Francesco Cossiga in qualità di ex Presidente della Repubblica (il suo mandato, esplicatosi negli anni 1985-1992, è terminato il 28 aprile 1992) contro la Corte suprema di cassazione, III sezione civile, in relazione a due sentenze da questa pronunciate il 27 giugno 2000, n. 8733 (in causa Flamigni contro Cossiga) e n. 8734 (in causa Onorato contro Cossiga).

 

Le due sentenze, largamente analoghe nella motivazione, sono state rese in due giudizi civili instaurati, rispettivamente, dal sen. Sergio Flamigni e dal sen. Pierluigi Onorato nei confronti del sen. Cossiga, per ottenere il risarcimento del danno morale che sarebbe derivato agli attori da alcune dichiarazioni asseritamente diffamatorie o ingiuriose rese dal medesimo sen. Cossiga, allorquando ricopriva la carica di Presidente della Repubblica. Esse, in accoglimento dei ricorsi principali degli attori, nonché dei ricorsi incidentali del convenuto, annullano con rinvio due sentenze della Corte d’appello di Roma (rese rispettivamente il 16 marzo 1998 e il 21 aprile 1997), le quali, riformando le pronunce del Tribunale di Roma, di condanna del convenuto sen. Cossiga, avevano dichiarato improponibili le domande giudiziali dei sen. Flamigni e Onorato.

 

Nei due giudizi, instaurati quando ancora era in corso il mandato presidenziale del sen. Cossiga, ma che erano proseguiti, giungendo alle decisioni del Tribunale, dopo la scadenza di tale mandato, il convenuto sen. Cossiga – costituendosi, nel primo caso, prima della scadenza del mandato presidenziale (con atto del 14 febbraio 1992), nel secondo caso, nello stesso giorno della sua scadenza (con atto del 28 aprile 1992) – aveva eccepito, preliminarmente, la improponibilità o la inammissibilità delle domande in base all’art. 90 della Costituzione, sostenendo che le dichiarazioni per cui era giudizio fossero coperte dalla immunità ivi sancita per gli atti del Presidente della Repubblica compiuti nell’esercizio delle sue funzioni: tesi respinta dai giudici di primo grado, e accolta invece in appello.

 

La Corte di cassazione, nel rinviare le cause ai nuovi giudici di merito, ha stabilito i punti di diritto (identici nelle due pronunce) che si sono integralmente riportati nell’esposizione in fatto della presente sentenza. Essi, in sintesi, si sostanziano nell’affermazione che l’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione copre solo gli atti “funzionali” del Presidente della Repubblica, comprendendosi fra questi quelli compiuti nell’esercizio della funzione di rappresentanza dell’unità nazionale di cui all’art. 87 della Costituzione, nonché gli atti di “autodifesa” dell’organo costituzionale quando l’ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nel caso in cui in concreto si imponga l’immediatezza dell’autodifesa medesima; che le “esternazioni” del Presidente della Repubblica, non equiparabili a libere manifestazioni di pensiero ai sensi dell’art. 21 della Costituzione, sono coperte da immunità solo quando siano strumentali o accessorie ad una funzione presidenziale; che le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di una esternazione presidenziale sono coperte da immunità solo se commesse come “estrinsecazione modale” della funzione; che l’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente di sollevare conflitto di attribuzioni per “menomazione”; che, infine, il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale e nella pura contumelia, con lesione dell’altrui diritto all’integrità morale.

 

Il ricorrente, nell’articolare diffusamente le proprie censure nei confronti delle pronunce del giudice di legittimità, prospetta sostanzialmente due tesi principali ed una subordinata. In via principale egli sostiene, in primo luogo, che non potrebbe riconoscersi all’autorità giudiziaria, ma solo alla Corte costituzionale, il potere di tracciare la distinzione fra atti coperti e atti non coperti dalla prerogativa di irresponsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione. Si dovrebbe pertanto affermare, secondo la testuale conclusione formulata nella memoria del ricorrente, “la non spettanza all’autorità giudiziaria del potere di individuare il contenuto delle immunità presidenziali di cui all’art. 90 Costituzione, nonché di giudicare se gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica abbiano natura funzionale o extrafunzionale”. In secondo luogo, e sul terreno sostanziale, la tesi del ricorrente è che non si potrebbe fare alcuna distinzione, nell’ambito delle esternazioni non appartenenti alla “sfera assolutamente privata” del Presidente, ma in qualche modo “riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa”, fra manifestazioni di pensiero compiute uti singulus ed enunciazioni riconducibili all’esercizio della carica; o, sotto un altro profilo, che la garanzia di assoluta indipendenza del Presidente nei confronti di qualsiasi atto proveniente da altro organo o potere richiederebbe che l’immunità si estenda “anche alla persona del titolare, e quindi alla sfera della sua responsabilità extra-funzioni”.

 

In via non formalmente, ma logicamente subordinata rispetto alle tesi ora esposte, il ricorrente argomenta circa la necessità di riconoscere che le dichiarazioni alle quali si riferiscono le domande giudiziali del sen.  Flamigni e del sen. Onorato sono da ritenersi ricomprese nella sfera della irresponsabilità presidenziale, in quanto espressione di legittima reazione di natura politica e di autodifesa da attacchi portati alla istituzione presidenziale, in relazione a posizioni espresse dagli attori con riguardo a vicende di straordinaria valenza istituzionale (rapimento e uccisione dell’on. Moro, posizione italiana nella “guerra del Golfo”, vicenda “Gladio”, richieste di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica), e in quanto dunque strumentali al ruolo “pubblico, politico ed istituzionale” del Presidente e di “indubbia valenza politica”. Inoltre il ricorrente, con riguardo al giudizio che lo vede opposto al sen. Onorato, nega il “carattere denigratorio ed offensivo” delle dichiarazioni addebitategli e nega che esse superassero i limiti del legittimo diritto di critica politica.

 

2.– Devono essere innanzitutto dichiarati ammissibili gli interventi spiegati nel presente giudizio dalle parti attrici nei due giudizi civili in cui sono state rese le impugnate sentenze della Corte di cassazione.

 

Questa Corte, pur confermando che di norma nei giudizi per conflitto di attribuzioni non è ammesso l’intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi, ha riconosciuto che tale preclusione non opera quando l’oggetto del giudizio per conflitto consista proprio nella affermazione o negazione dello stesso diritto di agire in giudizio di chi pretende di essere stato leso da una condotta in relazione alla quale si controverte, nel giudizio costituzionale, se essa sia o meno da ritenersi coperta dalle eccezionali immunità previste dalla Costituzione (sentenza n. 76 del 2001). Tale conclusione, raggiunta dalla Corte con riguardo ad un conflitto avente ad oggetto l’applicabilità della immunità prevista dall’art. 122 della Costituzione per le opinioni espresse e i voti dati dai consiglieri regionali nell’esercizio delle loro funzioni (e dunque implicitamente riferibile anche all’analoga ipotesi concernente l’applicazione della prerogativa della insindacabilità di cui godono i membri del Parlamento ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione), non può non estendersi, per l’evidente identità di ratio, al caso presente, in cui il conflitto riguarda l’applicabilità della ipotesi di immunità prevista dall’art. 90 della Costituzione per gli atti del Presidente della Repubblica compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.

 

In siffatte ipotesi, infatti, negare ingresso alla difesa delle parti del giudizio comune, in cui si controverte sull’applicazione della immunità, significherebbe esporre tali soggetti all’eventualità di dover subire, senza possibilità di far valere le proprie ragioni, una pronuncia il cui effetto potrebbe essere quello di precludere definitivamente la proponibilità dell’azione promossa davanti alla giurisdizione: il che contrasterebbe con la garanzia costituzionale del diritto al giudice e ad un pieno contraddittorio, che discende dagli articoli 24 e 111 della Costituzione, ed è protetto altresì dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (cfr., da ultimo, sentenze 30 gennaio 2003, Cordova c. Italia I, ric. n. 40877/98, e Cordova c. Italia II, ric. n. 45649/98).

 

3.– Il ricorso è rivolto contro pronunce dell’autorità giudiziaria che si sostiene abbiano leso la prerogativa della irresponsabilità presidenziale sancita dall’art. 90 della Costituzione: sotto il profilo oggettivo, dunque, esso prospetta indubbiamente un conflitto “per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali” (art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953), alla stessa stregua degli altri casi già presentatisi in passato, in cui la Corte ha riconosciuto l’ammissibilità di ricorsi con i quali organi costituzionali (in un caso anche il Presidente della Repubblica) contestavano atti di autorità giurisdizionali ritenuti lesivi della propria posizione costituzionale (cfr. ad es. sentenze n. 129 del 1981, n. 435 del 1995, n. 379 del 1996, n. 225 del 2001, n. 263 del 2003 e n. 58 del 2004).

 

Né possono sorgere incertezze circa l’oggetto della domanda giudiziale, ancorché l’atto introduttivo non contenga un esplicito petitum di merito ma si limiti a chiedere che la Corte dichiari ammissibile il ricorso medesimo: infatti dal ricorso, proposto per l’annullamento delle sentenze impugnate, si ricavano in modo univoco le ragioni per le quali il ricorrente ritiene dette sentenze lesive delle prerogative costituzionali dell’istituzione presidenziale.

 

4.– Essendo parimenti fuori discussione la legittimazione passiva della Corte di cassazione che ha reso le pronunce impugnate, la Corte deve invece interrogarsi sulla sussistenza della legittimazione attiva del ricorrente, che nella specie è la persona fisica che ricopriva la carica di Presidente della Repubblica all’epoca in cui effettuò le dichiarazioni a lui addebitate come fonte di responsabilità per danni, ma che al momento dell’emanazione degli atti impugnati e della proposizione del ricorso era cessato dalla carica medesima.

 

Non è qui in gioco la posizione costituzionale dell’ex titolare della carica in quanto tale, né lo sono eventuali attribuzioni costituzionali a lui spettanti in tale qualità. L’oggetto del conflitto è infatti una prerogativa e dunque un’attribuzione spettante alla istituzione presidenziale e ad essa sola.

 

É ovvio che, di norma, legittimato a ricorrere per conflitto di attribuzioni è soltanto chi impersona il potere delle cui attribuzioni si discute, nel momento in cui il ricorso viene proposto.

 

Tuttavia, la Corte ritiene che la legittimazione possa estendersi a chi ha cessato di ricoprire la carica, nelle particolari situazioni, come quella che si verifica nel presente caso, in cui concorrono le seguenti due circostanze: a) la controversia sulle attribuzioni e sulla loro ipotizzata lesione coincide con una controversia circa l’applicabilità, nel caso concreto, di una norma costituzionale la cui portata si sostanzia nell’escludere o nel limitare, in via di eccezionale prerogativa, la responsabilità della persona fisica titolare della carica costituzionale per atti da essa compiuti; b) vi è coincidenza fra la persona fisica della cui responsabilità si discute, e il titolare, nel momento in cui è stato compiuto l’atto da cui si fa discendere la responsabilità, della carica monocratica alla quale la norma costituzionale collega la prerogativa della immunità.

 

Infatti tale prerogativa è bensì connessa ad atti di organi costituzionali, ma, riguardando la persona fisica, si estende nel tempo anche al di là della cessazione dalla carica di chi tali atti ha posto in essere. E poiché l’applicazione in giudizio della norma che sancisce la prerogativa avviene per sua natura a posteriori, anche a distanza di tempo dal momento in cui gli atti forieri di responsabilità sono stati compiuti (“ora per allora”), è evidente come possa accadere che il giudizio sulla responsabilità, in coincidenza col quale si prospetta la controversia costituzionale sulle attribuzioni, si svolga quando la persona fisica della cui responsabilità si discute non è più titolare della carica costituzionale.

 

Il giudizio per conflitto di attribuzioni è bensì uno strumento apprestato dalla Costituzione a tutela delle attribuzioni proprie della carica di Presidente della Repubblica, ma tale tutela, in queste situazioni, coincide con la protezione della persona fisica dalla responsabilità, in forza della prerogativa; e quindi il conflitto opera anche o principalmente come strumento di difesa nei confronti di possibili applicazioni giudiziali delle norme che si traducano in violazioni della prerogativa.

 

Non appare allora ragionevole che la possibilità di sollevare conflitto, di cui il titolare della carica gode finché dura il mandato, in relazione agli atti da lui compiuti, sia invece rimessa alle scelte di un titolare diverso da quello della cui responsabilità si discute per il solo fatto casuale che il giudizio di responsabilità – che riguarda sempre la persona fisica – insorga dopo, anziché prima della scadenza di detto mandato: tenendo anche conto del fatto che non solo diversi titolari della carica possono valutare in modo diverso la portata o l’applicabilità concreta della norma sulla prerogativa, ma che, per un nuovo e diverso titolare della carica, la scelta del ricorrere per conflitto non si configura come atto dovuto, ma piuttosto come scelta di opportunità politica, da cui verrebbe però a dipendere l’attivazione, in concreto, dello strumento di difesa della prerogativa di immunità.

 

Si deve dunque concludere che, verificandosi la situazione indicata, la legittimazione a ricorrere – ovviamente sempre spettante al titolare attuale della carica – spetta anche ai precedenti titolari. Una legittimazione – quella dei precedenti titolari –, peraltro, limitata strettamente non solo ai conflitti concernenti atti da loro stessi compiuti durante il mandato, ma a quelli soltanto nei quali la lesione lamentata consista proprio nella negazione in concreto, nei loro confronti, della prerogativa di irresponsabilità: in cui quindi l’interesse al ricorso nasca dal fatto che oggetto del conflitto sia l’affermazione o la negazione della possibilità di far valere in concreto la responsabilità per detti atti.

 

Nonostante la scissione e quindi la possibile duplicità della legittimazione a ricorrere in questi casi, le regole del giudizio costituzionale, il contraddittorio che in esso si svolge, e in definitiva la decisione della Corte, consentirebbero in ogni modo di dare soluzione alle possibili ipotesi di divaricazione o di contrasto fra le posizioni processuali e le tesi sostanziali del titolare in carica dell’organo e del precedente titolare della cui responsabilità si discute. Nella specie, peraltro, il Presidente della Repubblica, evocato in giudizio per iniziativa di questa Corte (ordinanza n. 455 del 2002), si è costituito senza nulla eccepire quanto alla legittimazione del ricorrente, mentre, nel merito, si è limitato a dichiarare la propria “condivisione del principio del necessario collegamento fra irresponsabilità ed esercizio della funzione”.

 

5.– Il ricorso è in parte non fondato, in parte inammissibile sotto un profilo diverso da quello precedentemente esaminato.

 

Non può accogliersi, in primo luogo, la tesi secondo cui l’autorità giudiziaria ordinaria difetterebbe radicalmente di competenza giurisdizionale in ordine alla qualificazione degli atti del Presidente della Repubblica, al fine di verificare l’applicabilità o meno della clausola di esclusione della responsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione.

 

Tale clausola non fa che recare, infatti, una eccezione alla regola della responsabilità di ciascuno per gli atti compiuti in violazione di diritti altrui. Questa regola, che discende dallo stesso principio di legalità e di giustiziabilità dei diritti, e che per i pubblici funzionari è espressamente ribadita dall’art. 28 della Costituzione, col rinvio alle “leggi penali, civili e amministrative” caso per caso applicabili, fonda la generale competenza delle autorità giudiziarie all’accertamento dei presupposti della responsabilità e alla pronuncia delle eventuali misure sanzionatorie, restitutorie o risarcitorie conseguenti.

 

É pertanto alla stessa autorità giudiziaria che spetta, in prima istanza, decidere circa l’applicabilità in concreto, in rapporto alle circostanze del fatto, della clausola eccezionale di esclusione della responsabilità. Se nel decidere in proposito l’autorità giudiziaria venisse ad apprezzare erroneamente la portata della clausola o a negare ad essa erroneamente applicazione, con conseguente lesione della prerogativa e dunque dell’attribuzione presidenziale, oltre ai normali rimedi apprestati dagli istituti che consentono il controllo sulle decisioni giudiziarie ad opera di altre istanze pure giudiziarie, varrà il rimedio del conflitto di attribuzioni davanti a questa Corte. Ma non può essere negata la competenza dell’autorità giudiziaria a pronunciarsi, nell’esercizio della sua generale funzione di applicazione delle norme, ivi comprese quelle della Costituzione.

 

La competenza di questa Corte a risolvere i conflitti di attribuzione non può sostituirsi a quella del giudice comune per l’accertamento in concreto dell’applicabilità della clausola di esclusione della responsabilità. Infatti la giurisdizione costituzionale sui conflitti non è istituto che sostituisca l’esercizio della funzione giurisdizionale là dove siano in gioco diritti dei soggetti di cui si chieda l’accertamento e il ristoro (e l’azione di responsabilità integra tipicamente tale fattispecie), ma vale solo a restaurare la corretta osservanza delle norme costituzionali nei casi in cui, in concreto, a causa di un cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, questa abbia dato luogo ad una illegittima menomazione delle attribuzioni costituzionali di un altro potere.

 

Nemmeno potrebbe ipotizzarsi un qualsiasi effetto inibitorio dell’esplicarsi dell’esercizio della funzione giurisdizionale, collegabile alla semplice affermazione, da parte di colui la cui responsabilità viene evocata in giudizio, della applicabilità della prerogativa, stante la non configurabilità di un potere di definizione unilaterale, in causa propria, dei limiti della propria responsabilità.

 

La garanzia del rispetto della norma costituzionale, anche nei confronti di eventuali erronee applicazioni da parte dell’autorità giudiziaria, non sta nell’esclusione a priori della competenza di questa – che verrebbe in pratica a configurare una esenzione senza limiti dalla giurisdizione e un privilegio personale privo di fondamento costituzionale – ma nella possibilità (esplicitamente riconosciuta, del resto, anche dalle pronunce impugnate) di sollevare conflitto di attribuzioni contro le determinazioni dell’autorità giudiziaria.

 

6.– Nemmeno può condividersi, sul piano sostanziale, la tesi secondo cui anche gli atti extrafunzionali, o almeno tutte le dichiarazioni non afferenti esclusivamente alla sfera privata, del Presidente della Repubblica dovrebbero ritenersi coperti da irresponsabilità, a garanzia della completa indipendenza dell’alto ufficio da interferenze di altri poteri, o in forza della impossibilità di distinguere, in relazione alle esternazioni, il munus dalla persona fisica.

 

É appena il caso di precisare che non viene qui in considerazione il diverso e discusso problema degli eventuali limiti alla procedibilità di giudizi (in particolare penali) nei confronti della persona fisica del Capo dello Stato durante il mandato, limiti che, se anche sussistessero, non varrebbero, appunto, se non fino alla cessazione della carica. Qui si discute invece dei limiti della responsabilità, che come tali valgono allo stesso modo sia durante il mandato presidenziale, sia, per gli atti compiuti durante il mandato, dopo la sua scadenza.

 

A questo riguardo, quale che sia la definizione più o meno ampia che si accolga delle funzioni del Presidente, quale che sia il rapporto che si debba ritenere esistente fra l’irresponsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione e la responsabilità ministeriale di cui all’art. 89, e, ancora, quale che sia la ricostruzione che si adotti in relazione ai limiti della cosiddetta facoltà di esternazione non formale del Capo dello Stato, una cosa è fuori discussione: l’art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”.

 

É dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni, restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica, che conserva la sua soggettività e la sua sfera di rapporti giuridici, senza confondersi con l’organo che pro tempore impersona.

 

Si può riconoscere che operare la distinzione, nell’ambito delle “esternazioni”, fra quelle riconducibili all’esercizio delle funzioni presidenziali e quelle ad esse estranee può risultare, in fatto, più difficile di quanto non sia distinguere nel campo dei comportamenti o degli atti materiali, o anche di quanto non sia distinguere fra opinioni “funzionali” ed “extrafunzionali” espresse dai membri di un’assemblea rappresentativa, che si differenzia dagli individui che ne fanno parte, laddove nel caso del Presidente l’organo è impersonato dallo stesso individuo: ma l’eventuale maggiore difficoltà della distinzione non toglie che essa sia necessaria.

 

Quando dunque la Corte di cassazione, nelle pronunce impugnate, stabilisce i principi di diritto secondo cui l’immunità del Presidente della Repubblica riguarda solo gli atti che costituiscono esercizio delle funzioni presidenziali e le dichiarazioni strumentali o accessorie rispetto a tale esercizio, coglie correttamente la portata dell’art. 90 della Costituzione e non reca lesione alle prerogative del Presidente.

 

Anche la possibilità che nell’ambito dell’esercizio delle funzioni possano rientrare, in determinate ipotesi, attività o dichiarazioni intese a difendere l’istituzione presidenziale non può mai tradursi automaticamente in una estensione della immunità a dichiarazioni extrafunzionali per la sola circostanza che esse siano volte a difendere la persona fisica del titolare della carica e, come tali, possano indirettamente influire sul suo prestigio o sulla sua “legittimazione” politica.

 

7.– Restano da considerare le censure, avanzate dal ricorrente in via logicamente subordinata, con le quali si sostiene che le dichiarazioni nella specie addebitate al sen. Cossiga sarebbero tutte legate da “nesso funzionale” con l’esercizio delle funzioni presidenziali, e come tali tutte coperte dalla clausola di immunità.

 

Ma su questo terreno e con riguardo a questi motivi il ricorso è inammissibile in quanto rivolto contro pronunce che non affermano in concreto la responsabilità del sen. Cossiga, e nemmeno escludono in concreto che le dichiarazioni a lui addebitate possano, in tutto o in parte, risultare coperte dalla immunità alla stregua dei criteri indicati, ma si limitano a fissare i principi di diritto cui dovrà attenersi il giudice di merito in sede di giudizio di rinvio, esplicitamente affermando, inoltre, che contro l’accertamento da parte dell’autorità giudiziaria può essere sollevato conflitto di attribuzione “per menomazione” davanti a questa Corte.

 

Le censure in esame sono dunque premature, potendo, se del caso, essere proposte solo nei confronti delle pronunce con le quali l’autorità giudiziaria abbia giudicato nel merito sugli addebiti mossi al sen. Cossiga, escludendo che essi siano coperti dalla immunità.

 

8.– Restano fuori dall’ambito del giudizio costituzionale per conflitto le censure e le affermazioni del ricorrente relative al carattere, che si sostiene non denigratorio né offensivo, di talune fra le dichiarazioni per cui è giudizio, che non travalicherebbero i limiti della “continenza” come espressione del legittimo diritto di critica politica. Si tratta infatti di profili (apparentemente da riferire all’ultimo dei principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione) che non possono venire in considerazione nella presente controversia sulle attribuzioni, e attengono piuttosto alla valutazione, spettante all’autorità giudiziaria, delle dichiarazioni che, in ipotesi, dovessero essere in concreto riconosciute come estranee all’ambito dell’immunità costituzionale. Onde anche per questo aspetto il ricorso è inammissibile.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara che spetta all’autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, accertare se le dichiarazioni medesime costituiscano esercizio delle funzioni, o siano strumentali ed accessorie ad una funzione presidenziale, e solo in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dalla immunità del Presidente della Repubblica, di cui all’art. 90 della Costituzione;

 

b) dichiara inammissibile, quanto ai restanti motivi, il ricorso per conflitto di attribuzioni indicato in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 2004.

 

 

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

 

Valerio ONIDA, Redattore

 

 

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2004.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1]     Nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa.

[2]    Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale.

[3]     Nel testo modificato dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione che ha soppresso il procedimento d’accusa per i reati ministeriali, ora sottoposti alla giurisdizione ordinaria.

[4]     L. 5 giugno 1989, n. 219, Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione.

[5]    Legge 25 gennaio 1962, n. 20, Norme sui procedimenti e sui giudizi d’accusa.

[6]    Articolo 135 della Costituzione; articolo 1 del regolamento parlamentare per i procedimenti d’accusa; articoli 21 e 26 della legge n. 20 del 1962.

[7]     Stralci di tale provvedimento si trovano citati in G. Ferrara, Sulla responsabilità penale del Presidente della Repubblica, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, I vol., Padova, 1995, p. 587, nota 2.