Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari comunitari | ||||||
Altri Autori: | Servizio Biblioteca - Ufficio Documentazione italiana | ||||||
Titolo: | La sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee sul regime pensionistico dei dipendenti pubblici - Sentenza del 13 novembre 2008 ' Causa C-46/07 | ||||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 48 | ||||||
Data: | 24/02/2009 | ||||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | XIV - Politiche dell'Unione europea | ||||||
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
La sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee sul regime pensionistico dei dipendenti pubblici |
Sentenza del 13 novembre 2008 – Causa C-46/07 |
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n. 48 |
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24 febbraio 2009 |
SIWEB
Servizio responsabile:
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File: UE0082.doc
INDICE
§ La sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee
§ La normativa comunitaria sulle pari opportunità: applicazione in ambito pensionistico
§ Sentenza del 13 novembre 2008 – Causa C-46/07
§ Eurostat – Statics in focus n. 97/2007. The transition of women and men from work to retirement
Pubblicistica
§ Il principio di non discriminazione fra uomini e donne e l’unificazione dell’età di pensionamento
§ Età pensionabile nel pubblico impiego e discriminazioni di sesso secondo la Corte di giustizia (C-46/07) di Fabio Ravelli
§ La Corte di Giustizia Europea e le pensioni di Fabio Pammolli e Nicola C. Salerno
§ Fine della discriminazione tra uomini e donne anche nei regimi applicati ad altri lavoratori, di Marina Castellaneta
§ No dell’Europa alla diversa età pensionabile di uomini e donne nel pubblico impiego di Armando Montemarano
Riferimenti normativi
§ Trattato 25 marzo 1957. Trattato che istituisce la Comunità europea (n.d.r. Versione in vigore dal 1° febbraio 2003). (artt. 2, 3 e 141)
§ Com. 12 dicembre 2007. Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (artt. 21 e 23)
§ Dir. 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE. Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).
Con la sentenza del 13 novembre 2008[1], emessa a seguito della procedura di infrazione avviata nel luglio 2005 dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, contravvenendo pertanto al disposto dell’articolo 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea[2].
Nell’avviare la procedura di infrazione, la Commissione europea ha sostenuto che il regime gestito dall’INPDAP[3] è un regime c.d. professionale al quale si applicano la direttiva 86/378/CEE[4], come modificata dalla direttiva 96/97/CE, nonché l’articolo 141 del Trattato, i quali vietano qualsiasi discriminazione retributiva in base al sesso. Conseguentemente, il sistema pensionistico definito in Italia per il pubblico impiego è stato ritenuto un regime discriminatorioin quanto stabilisce che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne.
La procedura di infrazione non ha riguardato i dipendenti privati perché il regime previdenziale amministrato dall’INPS è considerato dalla giurisprudenza comunitaria un regime c.d. legale conforme all’ambito applicativo della direttiva 79/7/CEE[5].
La Commissione europea ha dapprima invitato l’Italia ad adottare i provvedimenti necessari a conformarsi al principio di non discriminazione e successivamente adito la Corte di giustizia.
La Corte ha ricordato preliminarmente che, al fine di valutare se una pensione di vecchiaia rientri nell’ambito applicativo dell’articolo 141 del Trattato, assume carattere determinante il c.d. “criterio dell’impiego”, ovvero il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce all’ex datore di lavoro.
Inoltre, sulla base di una giurisprudenza comunitaria consolidata, è stato rilevato che un regime pensionistico di vecchiaia deve essere considerato retribuzione qualora ricorrano i seguenti requisiti:
§ la pensione interessa soltanto una categoria particolare di persone;
§ la pensione è direttamente funzione degli anni di servizio prestati;
§ l’importo viene calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente.
Dopo aver esaminato il regime della pensione di vecchiaia gestita dall’INPDAP, la Corte di giustizia ha constatato che:
ü i dipendenti pubblici che beneficiano del regime previdenziale INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori;
ü la pensione erogata dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero degli anni di servizio prestati dal dipendente ed allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento;
ü la base di calcolo della pensione INPDAP risponde ai criteri stabiliti dalla Corte in precedenti sentenze[6] ai fini della qualificazione della pensione come retribuzione.
La Corte ha pertanto concluso che la pensione versata in forza del regime INPDAP costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’articolo 141 del Trattato e che la fissazione di un requisito di età variabilesecondo il sesso per la concessione della pensione di vecchiaia (che costituisce una retribuzione ai sensi del citato articolo 141) è in contrasto con il principio della parità retributiva tra uomini e donne.
La sentenza non ha accolto, tra l’altro, l’argomento fornito dalla Repubblica italiana secondo il quale la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione di età diversa in relazione al sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. In proposito, è stato evidenziato che la fissazione di una condizione di età diversa per la pensione di vecchiaia non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile.
La Corte ha pertanto concluso che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’articolo 141 del Trattato[7].
La parità fra uomini e donne rappresenta un principio fondamentale del diritto comunitario, per effetto del combinato disposto degli articoli 2 e 3, paragrafo 2, del Trattato che istituisce la Comunità europea e della stessa giurisprudenza della Corte di giustizia.
L’articolo 141 del Trattato prevede, inoltre, che ciascuno Stato membro assicuri l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. A tal fine, per retribuzione si intende il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo.
La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:
§ che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;
§ che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.
Il citato articolo 141 del Trattato chiarisce che, allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero ad evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.
Analoghe previsioni sono contenute negli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ove si vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e si sancisce il diritto alla parità di trattamento fra uomini e donne in tutti i campi, inclusi i settori dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione.
In conformità ai suesposti principi, è stata da ultimo adottata la direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio, del 5 luglio 2006, relativa all'attuazione del principio di parità di opportunità e di parità di trattamento fra donne e uomini in materia di occupazione e di lavoro. La direttiva mira a semplificare, modernizzare e migliorare la normativa comunitaria in materia di parità di trattamento fra donne e uomini sul piano dell’occupazione e del lavoro, riunendo in un unico documento (mediante rifusione) le disposizioni introdotte dalle numerose direttive già adottate in materia.
La direttiva affronta essenzialmente i seguenti aspetti:
Ø la parità retributiva;
Ø la parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale;
Ø la parità di trattamento per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.
Con riferimento alla parità retributiva, l’articolo 4, nel confermare quanto previsto dalla direttiva 75/117/CEE, stabilisce che:
§ un lavoro uguale o di valore uguale deve essere retribuito nella stessa maniera;
§ allorquando un sistema di classificazione professionale viene utilizzato per determinare le retribuzioni, tale sistema deve essere basato su criteri comuni ai lavoratori di sesso femminile e maschile, e definito in maniera tale da escludere ogni discriminazione basata sul sesso.
Quanto ai regimi professionali di sicurezza sociale (articoli da 5 a 13), la direttiva fa riferimento ai regimi non regolati dalla direttiva 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale aventi lo scopo di fornire ai lavoratori, subordinati o autonomi, raggruppati nell'ambito di un'impresa o di un gruppo di imprese, di un ramo economico o di un settore professionale o interprofessionale, prestazioni destinate a integrare le prestazioni fornite dai regimi legali di sicurezza sociale o di sostituirsi ad esse, indipendentemente dal fatto che l'affiliazione a questi regimi sia obbligatoria o facoltativa. Anche in questo settore viene quindi sancito il divieto di discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso, specificamente per quanto riguarda:
a) il campo d'applicazione dei regimi professionali di sicurezza sociale e relative condizioni d'accesso;
b) l'obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi;
c) il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni (articolo 5).
Le disposizioni relative ai regimi professionali di sicurezza sociale si applicano alla popolazione attiva, compresi i lavoratori autonomi, i lavoratori la cui attività è interrotta per malattia, maternità, infortunio o disoccupazione involontaria e le persone in cerca di lavoro, ai lavoratori pensionati e ai lavoratori invalidi, nonché agli aventi causa di questi lavoratori in base alle normative e/o prassi nazionali (articolo 6).
Dal punto di vista del campo di applicazione materiale, l’articolo 7 precisa che le disposizioni concernenti la parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale riguardano:
a) i regimi professionali di sicurezza sociale che assicurano una protezione contro la malattia, l’invalidità, la vecchiaia, compreso il caso del pensionamento anticipato, l’infortunio sul lavoro e malattia professionale, la disoccupazione;
b) i regimi professionali di sicurezza sociale che prevedono altre prestazioni sociali, in natura o in contanti, in particolare prestazioni per i superstiti e prestazioni per i familiari, ove tali prestazioni costituiscano vantaggi pagati dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo;
c) i regimi pensionistici di una categoria particolare di lavoratori come quella dei dipendenti pubblici, se le relative prestazioni sono versate al beneficiario a motivo del suo rapporto di lavoro con il datore di lavoro pubblico. Tale disposizione si applica anche nell'ipotesi in cui il regime in questione faccia parte di un regime legale generale.
Nell’elencare alcuni esempi di discriminazione, l’articolo 9 individua tra le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento quelle che si basano direttamente o indirettamente sul sesso per:
§ definire le persone ammesse a partecipare ad un regime professionale di sicurezza sociale;
§ stabilire se la partecipazione ad un regime professionale di sicurezza sociale sia obbligatoria o facoltativa;
§ prevedere norme differenti per quanto riguarda l'età di accesso al regime o per quanto riguarda la durata minima di occupazione o di affiliazione al regime per ottenerne le prestazioni;
§ stabilire condizioni differenti per la concessione delle prestazioni o fornire queste ultime esclusivamente ai lavoratori di uno dei due sessi;
§ stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo;
§ interrompere il mantenimento o l'acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo di maternità o di congedo per motivi familiari prescritti in via legale o convenzionale e retribuiti dal datore di lavoro;
§ fissare livelli differenti per le prestazioni, per i contributi dei lavoratori, per i contributi dei datori di lavoro, salvo specifiche eccezioni.
L’articolo 13 stabilisce, inoltre, che la facoltà riconosciuta a uomini e donne di chiedere un'età pensionabile flessibile alle stesse condizioni non è incompatibile con il principio di pari opportunità.
Gli articoli 14-16 intervengono sulla parità di trattamento per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, riprendendo le disposizioni della direttiva 76/207/CEE, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE. Al riguardo, viene contemplata la possibilità di deroghe al principio della parità di trattamento nel caso in cui un lavoro è di natura tale da esigere un lavoratore di un determinato sesso (in tal caso il sesso costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa). Sono confermate le disposizioni della direttiva 2002/73/CE sul potenziamento della protezione delle lavoratrici in congedo di maternità e sulla protezione dei genitori in congedo parentale o di adozione (nei casi in cui gli Stati membri riconoscono i diritti corrispondenti).
Gli articoli da 17 a 30 recano alcune disposizioni orizzontali, riprendendo le misure di cui alla direttiva 2002/73/CE (che riflettono la giurisprudenza della Corte di giustizia) al fine di garantirne l’applicazione in tutti i settori oggetto della direttiva:
In particolare, la direttiva prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie ad assicurare che ogni pregiudizio derivante da una discriminazione basata sul sesso dia luogo a una riparazione o a un indennizzo, secondo il principio di proporzionalità. L'onere della prova è a carico della parte convenuta, la quale deve provare che non vi è stata alcuna violazione del principio della parità di trattamento.
La direttiva recupera, poi, le disposizioni introdotte dalla direttiva 2002/73/CE che riguardano la designazione da parte degli Stati membri di organismi volti a promuovere il principio della parità di trattamento e ad assistere le vittime di discriminazioni. Essa demanda altresì agli Stati il compito di favorire il dialogo tra le parti sociali e con le organizzazioni non governative che hanno un legittimo interesse a contribuire alla lotta delle discriminazioni fondate sul sesso.
Nell’ambito delle disposizioni orizzontali di carattere generale, sono contenute, tra l’altro, specifiche misure in materia di protezione contro eventuali misure di ritorsione successive a una denuncia, di regime delle sanzioni, di prevenzione delle discriminazioni, di prescrizioni minime, di integrazione nelle diverse politiche delle questioni attinenti alla parità di trattamento fra le donne e gli uomini, di diffusione dell'informazione. In particolare, la direttiva statuisce che ogni misura contraria al principio della parità di remunerazione e di trattamento deve essere soppressa o dichiarata nulla. Gli Stati membri sono quindi chiamati ad elaborare un regime di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive per eventuali violazioni. La direttiva è volta, tra l’altro, a garantire la protezione dei lavoratori, compresa quella dei loro rappresentanti, contro ogni trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro derivante da una reazione a una denuncia ovvero a un'azione giudiziaria volta a fare rispettare il principio della parità di trattamento. Gli Stati membri hanno infine l’onere di incoraggiare i datori di lavoro ed i responsabili della formazione professionale a intraprendere misure efficaci per la prevenzione delle discriminazioni basate sul sesso, delle molestie e delle molestie sessuali.
Le disposizioni finali della direttiva (articoli da 31 a 36) attribuiscono agli Stati membri l’onere di:
Ø comunicare alla Commissione, entro il 15 febbraio 2011, le informazioni necessarie per l'elaborazione di una relazione sullo stato di attuazione della normativa in materia;
Ø trasmettere alla Commissione, ogni 4 anni, il testo e la relazione di attuazione delle misure adottate ai sensi dell'art. 141 del Trattato;
Ø procedere a un controllo periodico dell'evoluzione della realtà sociale in materia di parità dei sessi, tenendo informata la Commissione dei risultati almeno ogni 8 anni.
La direttiva ha fissato al 15 agosto 2008 il termine per adeguare gli ordinamenti nazionali o per provvedere affinché le parti sociali introducano le disposizioni necessarie mediante accordo. Ove necessario per tener conto di particolari difficoltà, gli Stati membri dispongono tuttavia di un ulteriore anno al massimo per il recepimento delle nuove norme.
In proposito, va rilevato che, nel corso della XV legislatura, il Governo ha trasmesso alle Camere, in data 3 marzo 2008, lo schema di decreto legislativo (atto n. 230) volto a recepire la direttiva 2006/54/CE, in attuazione della delega contenuta nell’articolo 1 della Legge 13/2007 (legge comunitaria 2006). L’esame dello schema di decreto è stato svolto dalle competenti Commissioni parlamentari della Camera con l’espressione del prescritto parere[8], ma non dalle corrispondenti Commissioni del Senato a causa della conclusione anticipata della legislatura. La citata direttiva è stata pertanto inserita, per il recepimento nell’ordinamento nazionale, nell’Allegato B del disegno di legge comunitaria 2008 (A.S. 1078), attualmente all’esame della 14° Commissione (Politiche dell’Unione europea) del Senato.
SENTENZA
DELLA CORTE (Quarta Sezione)
13 novembre 2008 (*)
«Inadempimento di uno Stato – Art. 141 CE – Politica sociale – Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile – Nozione di “retribuzione” – Regime pensionistico dei dipendenti pubblici»
Nella causa C‑46/07,
avente ad oggetto un ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, presentato il 1° febbraio 2007,
Commissione delle Comunità europee, rappresentata dalla sig.ra L. Pignataro‑Nolin e dal sig. M. van Beek, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,
ricorrente,
contro
Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Fiengo e dalla sig.ra W. Ferrante, avvocati dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,
convenuta,
LA CORTE (Quarta Sezione),
composta dal sig. K. Lenaerts, presidente di sezione, dai sigg. T. von Danwitz (relatore), E. Juhász, G. Arestis e J. Malenovský, giudici,
avvocato generale: sig. M. Poiares Maduro
cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 22 maggio 2008,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 Col suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diversa a seconda se siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.
2 La Repubblica italiana conclude per il rigetto del ricorso e la condanna della Commissione alle spese.
Ambito normativo nazionale
3 La legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Supplemento ordinario alla GURI n. 257 del 31 ottobre 1992), fornisce il quadro giuridico del regime pensionistico di cui trattasi nella presente causa. Tale regime si applica ai dipendenti pubblici e agli altri lavoratori del settore pubblico nonché ai lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico.
4 Tale regime pensionistico è gestito dall’Istituto nazionale della previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (in prosieguo: l’«INPDAP»), istituito con decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 479 (Supplemento ordinario alla GURI n. 178 del 1° agosto 1994, pag. 20).
5 Il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Supplemento ordinario alla GURI n. 305 del 30 dicembre 1992), disciplina più in dettaglio taluni aspetti del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.
6 Ai sensi del suo articolo 5, i dipendenti pubblici hanno diritto alla pensione di vecchiaia nell’ambito del regime gestito dall’INPDAP alla stessa età prevista dal sistema pensionistico gestito dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (in prosieguo: l’«INPS») per le categorie generali di lavoratori. L’età normale per il pensionamento di vecchiaia nell’ambito di quest’ultimo sistema è di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini, come risulta dal combinato disposto dell’art. 5, n. 1, e della tabella A del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Per taluni dipendenti pubblici per i quali era stata precedentemente stabilita un’età pensionabile più elevata, l’art. 2, n. 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Supplemento ordinario alla GURI n. 190 del 16 agosto 1995), dispone che, a partire dal 1° gennaio 1996, i dipendenti pubblici di sesso femminile, cui fa riferimento detto art. 5, nn. 1 e 2, possono percepire la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni, senza tuttavia prevedere una facoltà analoga per i dipendenti pubblici di sesso maschile.
7 L’articolo 2, n. 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, avente ad oggetto la riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, precisa che «con effetto dal 1° gennaio 1996, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Supplemento ordinario alla GURI n. 30 del 6 febbraio 1993), iscritti alle forme di previdenza esclusiva dell’assicurazione generale obbligatoria, nonché per le altre categorie di dipendenti iscritti alle predette forme di previdenza, si applica, ai fini della determinazione della base contributiva e pensionabile, l’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153 [(Supplemento ordinario alla GURI n. 111 del 30 aprile 1969)] e successive modificazioni e integrazioni (…)».
8 L’articolo 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella versione applicabile alla presente causa, precisa che «per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza dal rapporto di lavoro». L’ultimo paragrafo di detto articolo prevede che «la retribuzione come sopra determinata è presa, altresì, a riferimento per il calcolo delle prestazioni a carico delle gestioni di previdenza e assistenza sociale interessate».
9 Il regime pensionistico gestito dall’INPDAP garantisce ai propri iscritti la tutela previdenziale per invalidità, vecchiaia, malattia e superstiti. Esso dispone di un bilancio indipendente finanziato con i contributi e la copertura degli eventuali disavanzi è garantita dalle leggi finanziarie annuali.
La fase precontenziosa del procedimento
10 La Commissione, ritenendo il regime pensionistico gestito dall’INPDAP un regime professionale discriminatorio contrario all’art. 141 CE, in quanto prevede per i dipendenti pubblici che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, ha espresso le sue preoccupazioni in una lettera amministrativa del 12 novembre 2004. La Repubblica italiana ha risposto con una lettera in data 10 gennaio 2005, alla quale è stata allegata una relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004.
11 La Commissione, il 18 luglio 2005, ha inviato alla Repubblica italiana una lettera di costituzione in mora alla quale tale Stato membro non ha risposto.
12 Con lettera del 5 maggio 2006, la Commissione ha inviato un parere motivato invitando detto Stato membro a adottare i provvedimenti necessari al fine di conformarsi a tale parere entro due mesi a decorrere dalla sua ricezione.
13 La Repubblica italiana ha risposto a tale parere motivato con lettera 17 maggio 2006, cui era allegata una nota dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, contestando in sostanza la posizione della Commissione relativa alla natura professionale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.
14 La Commissione, non ritenendo soddisfacente la risposta al parere motivato, ha deciso di introdurre il presente ricorso.
Sul ricorso
Argomenti delle parti
15 La Commissione ritiene che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituisca un regime discriminatorio contrario all’art. 141 CE in quanto fissa l’età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile.
16 La Commissione sottolinea che la Corte ha confermato, nelle sentenze 17 maggio 1990, causa C‑262/88, Barber (Racc. pag. I‑1889), e 6 ottobre 1993, causa C‑109/91, Ten Oever (Racc. pag. I‑4879), che una pensione corrisposta da un datore di lavoro ad un ex dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE e che la Corte ha dichiarato, nelle sentenze 28 settembre 1994, causa C‑7/93, Beune (Racc. pag. I‑4471); 29 novembre 2001, causa C‑366/99, Griesmar (Racc. pag. I‑9383), nonché 12 settembre 2002, causa C‑351/00, Niemi (Racc. pag. I‑7007), che le pensioni erogate dallo Stato agli ex dipendenti che hanno prestato servizio nel settore pubblico possono costituire una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE.
17 Nel determinare se una pensione prevista dalla legge, che lo Stato corrisponde ad un ex dipendente, rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 CE oppure in quello della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU L 6, pag. 24), la Commissione rinvia ai criteri stabiliti nelle sentenze sopra citate Beune e Niemi. Secondo la Commissione, occorre esaminare se, nella presente causa, siano soddisfatti i tre criteri che risultano da questa giurisprudenza affinché un regime pensionistico sia qualificato come regime professionale, vale a dire che la pensione interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, che sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e che il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico.
18 La Commissione, al fine di qualificare il regime pensionistico in questione, fa riferimento alla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004, allegata alla lettera della Repubblica italiana del 10 gennaio 2005 e da cui risulta, secondo la Commissione, che la pensione versata nell’ambito di tale regime risponde a questi tre criteri.
19 Secondo la Commissione, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP sia disciplinato direttamente dalla legge, non sarebbe sufficiente per escluderlo dal campo di applicazione dell’art. 141 CE. Infatti, nella citata sentenza Beune, la Corte avrebbe esplicitamente respinto questo criterio puramente formale.
20 Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP sia improntato all’obiettivo di politica sociale di tener conto delle regole del sistema pensionistico gestito dall’INPS riguardante categorie generali di lavoratori non sarebbe sufficiente, secondo la Commissione, per escludere il suddetto regime dal campo di applicazione dell’art. 141 CE.
21 Per di più, secondo la Commissione, che fa riferimento alle sentenze precitate Griesmar e Niemi, è chiaro che la pensione che rientra nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP è versata dallo Stato in qualità di datore di lavoro, criterio che la Corte ha ritenuto essenziale.
22 Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana relativo alla portata del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Commissione si basa sulla citata sentenza Niemi in cui la Corte si sarebbe già pronunciata sulla qualifica di un regime professionale che copre diverse categorie di lavoratori concludendo che, qualora siano soddisfatti i tre criteri menzionati al punto 17 della presente sentenza, il fatto che tale regime ricopra diverse categorie di lavoratori non avrebbe alcuna rilevanza.
23 A tal riguardo, la Commissione fa anche riferimento alla sentenza 23 ottobre 2003, cause riunite C‑4/02 e C‑5/02, Schönheit e Becker (Racc. pag. I‑12575), e osserva che la Corte, nella citata sentenza Niemi, ha qualificato come regime professionale un regime che copre diverse categorie di lavoratori, ma tutti appartenenti al settore pubblico e ha così considerato l’insieme dei dipendenti pubblici come una categoria particolare.
24 Infine, la Commissione contesta l’argomento della Repubblica italiana secondo cui l’introduzione di differenziazioni di disciplina dell’età pensionabile in funzione del regime, sia esso l’INPS o l’INPDAP, comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori del settore privato e i dipendenti pubblici. Essa sostiene che tale argomento deriva dalla premessa erronea secondo cui il regime pensionistico gestito dall’INPDAP è un regime legale e non un regime professionale. Inoltre, la Commissione fa notare che le similitudini esistenti tra questi due regimi non sarebbero pertinenti.
25 La Repubblica italiana contesta l’inadempimento addebitato facendo valere il carattere legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.
26 A tal riguardo, tale Stato membro, richiama, in primo luogo, il contesto delle privatizzazioni e delle riforme nel settore del pubblico impiego nel quale si inquadra il regime in questione.
27 Il processo di privatizzazione che la Repubblica italiana ha condotto, a decorrere dagli anni ’90, nel settore del pubblico impiego, avrebbe come conseguenza che, ad eccezione di alcune funzioni particolari, quali la magistratura, le forze armate, la diplomazia, le prefetture e l’avvocatura dello Stato, il rapporto di lavoro pubblico è stato progressivamente attratto nella contrattazione collettiva e, successivamente, assimilato in tutto ad un rapporto di impiego privato.
28 In secondo luogo, la Repubblica italiana sottolinea che i limiti di età, fissati a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, sono uniformemente stabiliti, sia per lavoratori iscritti all’INPS che per i lavoratori iscritti all’INPDAP. Pertanto, la normativa contestata manterrebbe, proprio in quanto conforme a quella applicabile alle categorie di lavoratori iscritti all’INPS, una valenza generale, tale da far considerare il regime pensionistico gestito dall’INPDAP come avente natura legale. Considerata l’avvenuta privatizzazione di quasi tutta l’aerea del pubblico impiego, l’introduzione di differenziazioni nella fissazione dell’età pensionabile comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori.
29 Per evidenziare la natura legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Repubblica italiana fa valere che l’art. 3 del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 479, prevede un unico e uniforme regime di organizzazione dell’INPDAP e dell’INPS per quanto riguarda gli organi di gestione.
30 A questo stesso fine, la Repubblica italiana sottolinea che l’INPDAP conferisce inoltre ai suoi iscritti prestazioni che non costituiscono il corrispettivo dei contributi versati e pone l’accento sulle modalità di finanziamento del regime pensionistico di cui è causa.
31 In terzo luogo, tale Stato membro contesta il parere della Commissione secondo cui si potrebbero raggruppare in una sola categoria professionale tanti e diversi dipendenti pubblici.
32 La Repubblica italiana fa valere, in quarto luogo, che la Commissione non può basare la sua valutazione del regime pensionistico di cui è causa sulla relazione dell’INPDAP. A tale proposito, questo Stato membro sottolinea che tale relazione si fonda su disposizioni precedenti alla messa in mora e quindi inutilizzabili come elementi di prova. Inoltre, non sarebbe corretto dedurre da tale relazione che la pensione che rientra nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento agli anni di servizio prestati e allo stipendio percepito. A tal riguardo, il detto Stato membro precisa che il termine «retribuzioni», utilizzato dal legislatore italiano per indicare il sistema di calcolo delle pensioni, dovrebbe essere inteso come riferito ai contributi che su tali retribuzioni sono stati pagati e che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere dagli anni ’90, la pensione tiene conto della media delle retribuzioni percepite nel corso degli ultimi 10 anni e dei corrispondenti contributi versati.
33 All’udienza dinanzi alla Corte, la Repubblica italiana ha sostenuto, infine, che la fissazione di un’età pensionabile diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne esistenti ancora nell’evoluzione del contesto socioculturale.
Giudizio della Corte
34 Ai sensi dell’art. 141, n. 1, CE, ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. In base al n. 2, primo comma, di tale articolo, per retribuzione si intende il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.
35 Occorre ricordare che, per valutare se una pensione di vecchiaia rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, soltanto il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce al suo ex datore di lavoro, ossia il criterio dell’impiego, desunto dalla lettera stessa dell’art. 141 CE, può avere carattere determinante (sentenze citate supra Beune, punto 43; Griesmar, punto 28; Niemi, punto 44, nonché Schönheit e Becker, punto 56).
36 Certo, questo criterio non può avere un carattere esclusivo, poiché le pensioni corrisposte da regimi legali previdenziali possono, in tutto o in parte, tener conto della retribuzione dell’attività lavorativa (sentenze citate supra Beune, punto 44; Griesmar, punto 29; Niemi, punto 46, nonché Schönheit e Becker, punto 57). Ora, siffatte pensioni non costituiscono retribuzioni ai sensi dell’art. 141 CE (v., in tal senso, sentenze 25 maggio 1971, causa 80/70 Defrenne, Racc. pag. 445, punto 13; 13 maggio 1986, causa 170/84, Bilka-Kaufhaus, Racc. pag. 1607, punto 18; Beune, cit., punto 24 e 44; Griesmar, cit., punto 27, nonché Schönheit e Becker, cit., punto 57).
37 Tuttavia, le considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica o anche le preoccupazioni di bilancio che hanno avuto o hanno potuto avere un ruolo nella determinazione di un regime pensionistico da parte di un legislatore nazionale non possono considerarsi prevalenti qualora la pensione interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico (sentenze citate supra Beune, punto 45; Griesmar, punto 30; Niemi, punto 47, nonché Schönheit e Becker, punto 58).
38 Di conseguenza, gli argomenti della Repubblica italiana, relativi al metodo di finanziamento del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, alla sua organizzazione ed alle prestazioni diverse dalle pensioni che esso conferisce, diretti a dimostrare che tale regime costituisce un regime previdenziale ai sensi della citata sentenza Defrenne che non rientra nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, non possono essere accolti. Inoltre, il fatto che l’età pensionabile sia fissata in maniera uniforme per i lavoratori che rientrano nel regime di cui è causa e per quelli che rientrano nel regime generale, ossia il sistema pensionistico gestito dall’INPS, non è pertinente per la qualificazione della pensione versata dal regime pensionistico gestito dall’INPDAP.
39 Partendo da queste precisazioni circa il senso del termine «retribuzione» nel settore dei regimi pensionistici occorre esaminare se la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP corrisponda ai criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza.
40 Per quanto riguarda il primo criterio, occorre rilevare che i dipendenti pubblici che beneficiano di un regime pensionistico devono essere considerati come una categoria particolare di lavoratori. Infatti, essi si distinguono dai lavoratori di un’impresa o di un gruppo di imprese, di un comparto economico o di un settore professionale o interprofessionale soltanto in ragione delle caratteristiche peculiari che disciplinano il loro rapporto di lavoro con lo Stato, con altri enti o datori di lavoro pubblici (sentenze citate supra Griesmar, punto 31, e Niemi, punto 48).
41 Ne deriva che i dipendenti pubblici che beneficiano del regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori.
42 Questo risultato non può essere confutato dagli argomenti dedotti dalla Repubblica italiana. In primo luogo, tale Stato membro fa valere che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP comprende, oltre ai dipendenti pubblici, lavoratori del settore pubblico e lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico.
43 A tal riguardo, occorre ricordare che il presente ricorso riguarda solo i dipendenti pubblici, per cui, nella presente causa, non si tratta di determinare se i lavoratori del settore pubblico e i lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico costituiscano anch’essi una categoria particolare di lavoratori o se costituiscano, considerati unitamente ai dipendenti pubblici, una sola categoria particolare di lavoratori. Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applichi non solo ai dipendenti pubblici ma anche ad altre categorie di lavoratori non può privare i dipendenti pubblici della tutela conferita dall’art. 141 CE allorché gli altri criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza sono soddisfatti. Come risulta dal punto 49 della sentenza Niemi sopramenzionata, il fatto che un regime pensionistico comprenda non solo una certa categoria di dipendenti pubblici ma anche l’insieme dei dipendenti dello Stato non ha come conseguenza che la categoria di dipendenti pubblici interessata non possa essere considerata una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte.
44 La Repubblica italiana fa valere, in secondo luogo, che i numerosi e diversi gruppi di dipendenti pubblici non possono essere riuniti in un’unica categoria professionale.
45 A tale riguardo, occorre osservare che, come risulta dal punto 41 della presente sentenza, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applica ai dipendenti pubblici che costituiscono una categoria particolare di lavoratori. Il fatto che, nell’ambito della categoria dei dipendenti pubblici, si potrebbero identificare diverse categorie non ha rilevanza in quanto questa categoria si distingue, come ricordato al punto 40 della presente sentenza, dagli altri gruppi di lavoratori del settore privato o pubblico per le caratteristiche proprie che disciplinano il rapporto di impiego dei dipendenti pubblici con lo Stato.
46 Di conseguenza, i dipendenti pubblici che rientrano nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte richiamata al punto 40 della presente sentenza.
47 Per quanto riguarda gli altri due criteri accolti dalla giurisprudenza menzionata al punto 37 della presente sentenza, ossia che la pensione deve essere direttamente proporzionale agli anni di servizio prestati e il suo importo deve essere calcolato in base all’ultima retribuzione del dipendente pubblico, occorre esaminare se essi siano soddisfatti di modo che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP possa essere considerata comparabile a quella che verserebbe un datore di lavoro privato ai suoi ex dipendenti.
48 La Commissione si basa a tal riguardo sulla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004, che è stata allegata dalla Repubblica italiana alla sua risposta del 10 gennaio 2005 alla lettera amministrativa della Commissione del 12 novembre 2004. Essa deduce da tale relazione che la pensione versata nell’ambito del regime pensionistico gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero di anni di servizio prestati dal dipendente e allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento.
49 La Repubblica italiana, pur contestando queste affermazioni per il motivo che tale relazione è basata su disposizioni precedenti alla messa in mora, ammette tuttavia che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere dagli anni ’90, la pensione di cui trattasi tiene conto della media delle retribuzioni percepite nell’ultimo decennio e dei contributi versati corrispondenti.
50 Partendo da quest’ultima constatazione, occorre esaminare se questo metodo di calcolo risponda ai due criteri accolti dalla giurisprudenza della Corte.
51 Per quanto riguarda questi due criteri, la Corte, ai punti 33 e 34 della sentenza Griesman, sopramenzionata, ha qualificato come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui importo deriva dal prodotto di una percentuale applicata ad un importo base, il quale è costituito dallo stipendio corrispondente all’ultimo coefficiente retributivo applicabile al dipendente pubblico nel corso degli ultimi sei mesi di attività.
52 Costituisce anche una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui importo è calcolato sulla base del valore medio della retribuzione percepita nel corso di un periodo limitato ad alcuni anni immediatamente precedenti il ritiro dal lavoro (v. sentenza Niemi, cit., punto 51) nonché una pensione il cui importo è calcolato sulla base dell’importo di tutti i contributi versati durante tutto il periodo di iscrizione del lavoratore e ai quali si applica un fattore di rivalutazione (v. sentenza 1° aprile 2008, causa C‑267/06, Maruko, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 55).
53 Ne deriva che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP deve essere qualificata come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE. Infatti, la base di calcolo di tale pensione risponde ai criteri stabiliti dalla Corte nelle citate sentenze Griesmar, Niemi e Maruko.
54 Pertanto, la pensione versata in forza del detto regime pensionistico costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE.
55 Come risulta da una costante giurisprudenza, l’art. 141 CE vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza. Secondo questa stessa giurisprudenza, la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per la concessione di una pensione che costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE è in contrasto con questa disposizione (v. sentenze Barber, cit., punto 32; 14 dicembre 1993, causa C‑110/91, Moroni, Racc. pag. I‑6591, punti 10 e 20; 28 settembre 1994, causa C‑408/92, Avdel Systems, Racc. pag. I‑4435, punto 11, nonché Niemi, cit., punto 53).
56 Come sostiene la Commissione, senza essere contraddetta al riguardo dalla Repubblica italiana, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP prevede una condizione di età diversa a seconda del sesso per la concessione della pensione versata in forza di tale regime.
57 L’argomento della Repubblica italiana secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione di età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne non può essere accolto. Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo [v., per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale concluso tra gli Stati della Comunità europea ad eccezione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU 1992, C 191, pag. 91), sentenza Griesmar, cit., punto 64].
58 Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale.
59 Tenuto conto delle considerazioni che precedono, occorre constatare che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a ricevere la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.
Sulle spese
60 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, il soccombente è condannato alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha concluso per la condanna della Repubblica italiana e quest’ultima è risultata soccombente nei suoi motivi, occorre condannarla alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce:
1) Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
Firme
[1] Causa C-46/07.
[2] L’articolo 141 del Trattato stabilisce che ciascuno Stato membro deve assicurare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per retribuzione si intende il salario o il trattamento normale di base o minimo, e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura, e che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.
[3] Il regime pensionistico gestito dall’INPAP è regolato dalla legge 421/1992 e dal d.lgs. 503/1992.
[4] Direttiva del Consiglio del 24 luglio 1986 relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale.
[5] L’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, stabilisce che gli Stati membri possono escludere dal campo di applicazione della medesima direttiva la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro, e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni.
[6] Sentenza 29 novembre 2001, causa C-351/00, Griesmar; sentenza 12 settembre 2002, causa C-351/00, Niemi; sentenza 1° aprile 2008, causa C-267/06, Maruko.
[7] Si rileva che qualora la Corte di Giustizia accerti, con una sentenza di inadempimento, che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del Trattato, questo è tenuto a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza comporta, ponendo fine all’infrazione. Se la Commissione ritiene che lo Stato non si sia conformato a tale sentenza, con un parere motivato avvia una procedura ex art. 228 del Trattato CE, fissando un termine entro il quale lo Stato deve prendere i provvedimenti per l’esecuzione della sentenza, precisando i punti sui quali lo Stato membro risulta inadempiente. Qualora lo Stato non si conformi al parere motivato, la Commissione può adire la Corte di Giustizia, specificando l'importo delle sanzioni di cui chiede l’irrogazione. Le sanzioni consistono in una somma forfetaria e in una penalità di mora, adeguate alla gravità e alla persistenza dell’inadempimento.
[8] Camera dei Deputati:
§ Commissione XI (Lavoro): Parere favorevole con condizione espresso il 18 marzo 2008;
§ Commissione V (Bilancio): Parere favorevole con condizione espresso il 18 marzo 2008;
§ Commissione XIV (Politiche dell’Unione europea: Parere favorevole espresso il 1° aprile 2008.