Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Conferenza interparlamentare sulla politica estera e di sicurezza e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PESC-PSDC). Paphos, 9-10 settembre 2012
Serie: Documentazione per le Commissioni - Riunioni interparlamentari    Numero: 106
Data: 05/09/2012
Descrittori:
DIFESA E SICUREZZA INTERNAZIONALE   POLITICA ESTERA
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Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

 

 

 

 

Documentazione per le Commissioni

riunioni interparlamentari

 

 

 

 

 

 

Conferenza interparlamentare sulle politiche estera e di sicurezza e di difesa comuni (PESC-PSDC)

 

Paphos, 9-10 settembre 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 106

 

5 settembre 2012


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dossier è stato curato dall’Ufficio rapporti con l’Unione europea
(' 066760.2145 - * cdrue@camera.it)

I capitoli ‘La partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali”, “I più recenti sviluppi della primavera araba” e “La crisi siriana: cronologia degli avvenimenti” sono stati curati dal Servizio Studi, Dipartimento Affari esteri (' 066760.4939).

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I N D I C E

Schede di lettura   1

La Conferenza interparlamentare per il controllo sulla PESC/PSDC   3

Il Progetto di regolamento della Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC   5

Le missioni UE nell’ambito della pesc/psdc   9

·        Le conclusioni del Consiglio del 1° dicembre 2011  11

·        Pooling & sharing  13

·        L’Agenzia europea di difesa  14

·        Le missioni dell’UE attive nell’ambito della PSDC   16

La partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali23

·        Le operazioni per il mantenimento della pace  26

·        Il quadro delle missioni militari dell’Italia dal secondo dopoguerra ad   oggi27

·        La componente civile nelle missioni internazionali28

L’Unione europea e la primavera araba   31

·        Aiuto umanitario  32

·        Finanziamenti32

·        Mobilità  33

·        Mercati34

·        Società civile  35

·        Le iniziative verso i singoli paesi35

I più recenti sviluppi della primavera araba   45

·        Libia  45

·        Tunisia  52

·        Egitto  55

·        Yemen  71

·        Bahrein  74

La crisi siriana: cronologia degli avvenimenti77

Le priorità della Presidenza cipriota dell’UE   121

Documenti125

BOZZA DI REGOLAMENTO DELLA CONFERENZA INTERPARLAMENTARE PER LA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA COMUNE E LA POLITICA DI SICUREZZA E DIFESA COMUNE   127

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Schede di lettura


 
La Conferenza interparlamentare
per il controllo sulla PESC/PSDC

La Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE che si è svolta a Varsavia il 19-21 aprile 2012 ha raggiunto un accordo sull’istituzione della Conferenza per il controllo parlamentare sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC).

Successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), e in particolare delle disposizioni in materia di politica estera e di difesa comune - tra cui la clausola di mutua assistenza in caso di aggressione armata - il 31 marzo 2010 la Presidenza spagnoladell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), a nome degli Stati membri effettivi del Trattato UEO, ha annunciato la decisione collettiva di ritirarsi dal Trattato stesso,determinandone così la dissoluzione avvenuta il 30 giugno2011. Conseguentemente sono cessate anche le attività dell’Assemblea parlamentare dell’UEO.

L’istituzione di una Conferenza interparlamentare per il controllo sulla PESC/PSDC era già stata discussa durante la Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE svoltasi a Bruxelles il 4 e 5 aprile 2011. In quella sede non si riuscì ad addivenire a un accordo su tutti i profili relativi all’istituzione della Conferenza, in particolare per le differenze di posizioni sulla composizione della Conferenza stessa, con specifico riguardo alla consistenza delle rappresentanze rispettivamente del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, nonché sulle modalità di assicurare ad essa un segretariato.

Le conclusioni della Conferenza dei Presidenti dei Parlamentidi Varsavia hanno fissato i seguenti princìpi istitutivi:

-     la Conferenza interparlamentare per la PESC/PSDC sostituisce le riunioni dei Presidenti delle Commissioni affari esteri dei Parlamenti dell’UE (COFACC) e dei Presidenti delle Commissioni difesa (CODAC);

-     ogni Parlamento decide autonomamente sulla composizione della sua delegazione. I Parlamenti nazionali sono rappresentati da delegazioni composte da 6 membri. Per i Parlamenti bicamerali il numero dei membri potrà essere distribuito con accordi interni. Il Parlamento europeo è rappresentato da una delegazione di 16 membri. I Parlamenti dei paesi candidati all’adesione ed i Parlamenti di paesi europei membri della NATO potranno partecipare con una delegazione composta da 4 osservatori[1];

-     la Conferenza si riunisce due volte l'anno nel Paese che esercita la Presidenza semestrale del Consiglio o presso il Parlamento europeo a Bruxelles. La decisione spetta alla Presidenza. La Conferenza può tenere riunioni straordinarie in caso di necessità o urgenza;

-     la Presidenza delle riunioni è esercitata dal Parlamento nazionale dello Stato membro che ricopre la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo;

-     Il Segretariato della Conferenza è esercitato dal Parlamento nazionale dello Stato membro che esercita la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo, e i Parlamenti nazionali della precedente e successiva Presidenza di turno dell’UE;

-     l'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR) è invitato alle riunioni della Conferenza per esporre le linee d’indirizzo e le strategie della politica estera e di difesa comune dell'Unione;

-     la Conferenza può adottare per consenso conclusioni non vincolanti;

-     sulla base dei principi sopra esposti, la Conferenza approva i propri regolamento interno e metodi di lavoro.

La Conferenza dei Presidenti di Varsavia ha, inoltre, previsto che al termine di due anni dalla prima riunione della Conferenza interparlamentare si procederà ad una revisione della formula adottata per la sua composizione.


Il Progetto di regolamento della Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC

La prima Conferenza per il controllo parlamentare PESC/PSDC, che si svolgerà a Paphos (Cipro) dal 9 all’11 settembre 2012, ha come primo punto all’ordine del giornola discussione e l’approvazione del regolamento interno,sulla base del progetto trasmesso dalla Presidenza cipriota, che è composto da un preambolo e nove articoli.

Il progetto appare in larga parte coerente con i princìpi fissati dalla Conferenza dei Presidenti di Varsavia, salvo per alcuni aspetti evidenziati di seguito.

Il preambolo richiama l’articolo 9 del protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali allegato al Trattato di Lisbona, nel quale si stabilisce che l’organizzazione e la promozione della cooperazione interparlamentare sono definite congiuntamente da Parlamento europeo e Parlamenti nazionali. Si richiamano, inoltre, le decisioni assunte dalla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE tenutesi, rispettivamente, a Bruxelles e Varsavia nel 2011 e nel 2012, in merito all’istituzione della Conferenza per controllo parlamentare su PESC/PSDC.

L’articolo 1 stabilisce che la Conferenza costituisce la sede per promuovere lo scambio di informazioni e di migliori prassi tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo e favorire un consenso politico nelle aree della PESC/PSDC. L’articolo dispone che la Conferenza sia composta da membri delle Commissioni affari esteri e difesa.

Le conclusioni della Conferenza dei Presidenti di Varsavia stabilivano il principio per cui ogni Parlamento decide autonomamente sulla composizione della propria rappresentanza. La previsione del progetto di regolamento, volta a stabilire che i membri della Conferenza debbano appartenere alle Commissioni esteri e difesa potrebbe risultare non pienamente rispettosa dell’autonomia di ciascun Parlamento.

Al riguardo, si segnala che alcuni emendamenti proposti dai Parlamenti del Regno Unito, della Polonia e del Belgio  propongono di sopprimere il riferimento esplicito alle Commissioni esteri e difesa.

L’articolo 1 stabilisce altresì che la Conferenza sostituisce le riunioni interparlamentari dei Presidenti delle Commissioni affari esteri (COFACC) e delle Commissioni difesa (CODACC). Si prevede, inoltre, che la Conferenza possa adottare conclusioni non vincolanti per i Parlamenti nazionali in materia di PESC/PSDC

L’articolo 2 definisce la composizione della Conferenza: i Parlamenti nazionali sono rappresentati da 6 membri per Parlamento ed il Parlamento europeo da  16 membri; i Parlamenti nazionali dei paesi candidati all’UE e i paese europei membri della NATO da 4 osservatori per Parlamento.

Un emendamento presentato dal Bundestag all’articolo 7 è volto a chiarire che nell’ambito della conferenza il voto sarebbe esercitato su base individuale. Un altro emendamento, anch’esso presentato, dal Bundestag, prospetta l’ipotesi di una consistenza delle delegazioni dei diversi Parlamenti nazionali su base proporzionale, in coerenza con i criteri vigenti nell’ambito del Consiglio d’Europa. Tale ipotesi sembrerebbe, tuttavia, contraddire le determinazioni adottate dalla Conferenza dei Presidenti che stabiliva, come ricordato, in 6 il numero di rappresentanti di ciascun Parlamento nazionale, a prescindere dall’entità della rispettiva  popolazione.

Sulla base della discussione svolta alla Conferenza dei Presidenti di Varsavia e come sottolineato dall’intervento in tale sede del Presidente della Camera dei deputati, sembra doversi ritenere che le rappresentanze dei Parlamenti non devono essere considerate come delegazioni stabili, ma modulabili di volta in volta, anche in base agli argomenti all'ordine del giorno di ciascuna conferenza.

Alcuni emendamenti presentati dai Parlamenti del Regno Unito, della Polonia della Danimarca e del Belgio appaiono diretti ad esplicitare tale principio laddove stabiliscono che ciascun parlamento decide autonomamente sulla composizione della propria delegazione.

Alla stessa logica sembra rispondere un emendamento presentato dal Bundestag al comma 3 dell’articolo 1 che afferma la libertà di ciascun Parlamento di “determinare e cambiare la composizione della propria delegazione”.

L’articolo stabilisce altresì che l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza sia invitato alle riunioni della Conferenza per illustrare le priorità dell’UE in materia di PESC/PSDC. Si precisa infine che le riunioni della Conferenza siano pubbliche, a meno di diversa decisione.

L’articolo 3 prevede che la Conferenza si riunisca ogni 6 mesi nello Stato membro che esercita la Presidenza di turno dell’UE o presso il Parlamento europeo a Bruxelles. La decisione spetta alla Presidenza, esercitata dal Parlamento nazionale dello Stato membro che ricopre la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo. La Conferenza può tenere riunioni straordinarie in caso di necessità o urgenza.

L’articolo 4 stabilisce che l’ordine del giorno della Conferenza include argomenti relativi alla PESC/PSDC e deve essere trasmesso non più tardi di 8 settimane prima di ogni riunione. Sia la Presidenza sia le singole delegazioni dei Parlamenti possono trasmettere documenti.

L’articolo 5 dispone che le lingue di lavoro della Conferenza siano inglese e francese e che il servizio di interpretariato simultaneo da e verso queste due lingue e dalla lingua della Presidenza sia fornito dalla Parlamento che ospita la conferenza. Si specifica inoltre che per le riunioni che hanno luogo presso il Parlamento europeo la traduzione in tutte le lingue sarà assicurata dal medesimo PE con oneri a suo carico. Al comma 2 si precisa poi che, per le riunioni da svolgere presso il Parlamento che detiene la Presidenza, la traduzione simultanea in altre lingue addizionali sarà fornita se tecnicamente possibile, ed i relativi costi saranno a carico della delegazione che ne avanzi richiesta. Tutta la documentazione della Conferenza dovrà essere disponibile in inglese e francese.

La Conferenza dei Presidenti di Varsavia non ha definito princìpi in merito al regime linguistico della Conferenza. Al riguardo, si segnala l’opportunità di valutare se non si debba applicare il regime vigente per la Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE, ossia che il Parlamento ospitante garantisca il servizio di interpretariato – fornendo la necessaria attrezzatura tecnica - da e verso tutte le lingue ufficiali dell’UE, su richiesta del Parlamento che ne faccia richiesta, ovviamente tenuto a sostenere i relativi costi.

Anche su questo aspetto sono stati presentati alcuni emendamenti, in particolare dai Parlamenti del Regno Unito e del Belgio. Le proposte emendative sopprimono il riferimento al regime linguistico che si applicherebbe alle riunioni della conferenza da svolgere presso il Parlamento europeo. La soppressione viene motivata in ragione del fatto che il comma 2 del medesimo articolo 5 già dispone in proposito. Merita tuttavia segnalare che le fattispecie disciplinate, rispettivamente, al comma 1 e al comma 2 dell’articolo 5 non coincidono trattandosi, nel primo caso, delle riunioni presso il Parlamento europeo e, nel secondo caso, delle riunioni presso il Parlamento del Paese che ricopre la Presidenza di turno.

L’articolo 6 prevede che il segretariato della Conferenza sia esercitato dal Parlamento nazionale dello Stato membro che ha la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali della precedente e successiva Presidenza.

L’articolo 7 stabilisce che la Conferenza possa adottare per consenso conclusioni non vincolanti: il progetto di tali conclusioni è redatto dalla Presidenza e trasmesso alle delegazioni per l’eventuale presentazione di emendamenti. Le conclusioni, una volta adottate, sono trasmesse per informazione anche ai Presidenti della Commissione europea e del Consiglio dell’UE.

Al riguardo, si segnala che due emendamenti, rispettivamente del Senato francese e del Bundstag, sostituiscono il criterio del consenso con quello maggioritario ai fini dell’adozione, da parte della Conferenza, di eventuali conclusioni. Nel caso dell’emendamento francese si prospetta la maggioranza assoluta mentre l’emendamento del Bundestag fa riferimento alla maggioranza di 3/4 dei voti espressi. Entrambe le proposte si pongono tuttavia in contrasto con le decisioni assunte dalla Conferenza dei Presidenti di Varsavia che aveva esplicitamente fissato il criterio del consenso. Si segnala che l’emendamento francese, sembrerebbe, inoltre, far venir meno il principio per cui le conclusioni eventualmente adottate non sarebbero vincolanti. Anche in questo caso risulterebbe contraddetto quanto stabilito alla Conferenza dei Presidenti.

L’articolo 8 prevede che il regolamento della Conferenza possa essere modificato con una decisione presa per consenso.

Ai sensi dell’articolo 9 la Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE procede, due anni dopo la prima riunione della Conferenza per il controllo su PESC/PSDC, ad un riesame del regolamento interno della Conferenza stessa.


Le missioni UE nell’ambito della pesc/psdc

La strategia europea in materia di sicurezza, adottata nel dicembre 2003 ed aggiornata nel 2008, prende le mosse dai mutamenti intervenuti con la fine della guerra fredda negli scenari internazionali. In particolare, viene evidenziato che nessun paese è in grado di affrontare da solo i complessi problemi che si pongono a livello internazionale. Con la strategia viene, quindi, rivendicato un ruolo più incisivo per l’Unione europea nel contesto internazionale. In particolare, si sottolinea la necessità, da parte dell’Unione, di assumersi le sue responsabilità di fronte ad alcune minacce globali (terrorismo, criminalità organizzata, proliferazione delle armi di distruzione di massa, conflitti regionali).

Nel 2008 – insieme all’aggiornamento della strategia di sicurezza - si è provveduto a fissare obiettivi quantificati e precisi affinché l’UE sia in grado di portare a buon fine simultaneamente al di fuori del suo territorio una serie di missioni civili e di operazioni militari di varia portata corrispondenti agli scenari più probabili. Il Consiglio europeo del dicembre 2008 ha fissato l’obiettivo che l'UE sia effettivamente in grado di dispiegare 60.000 uomini in 60 giorni per un'operazione importante, nonché di pianificare e condurre simultaneamente:

-    due importanti operazioni di stabilizzazione e ricostruzione, con un'adeguata componente civile sostenuta da un massimo di 10.000 uomini per almeno due anni;

-    due operazioni di reazione rapida di durata limitata utilizzando segnatamente i gruppi tattici dell'UE;

-   un'operazione di evacuazione d'emergenza di cittadini europei (in meno di 10 giorni), tenendo conto del ruolo primario di ciascuno Stato membro nei confronti dei suoi cittadini e ricorrendo al concetto di Stato guida consolare;

-   una missione di sorveglianza/interdizione marittima o aerea;

-   un'operazione civile-militare di assistenza umanitaria della durata massima di 90 giorni;

-   una dozzina di missioni civili PSDC (segnatamente, missioni di polizia, di Stato di diritto, di amministrazione civile, di protezione civile, di riforma del settore della sicurezza o di vigilanza) in forme diverse, incluso in situazione di reazione rapida, tra cui una missione importante (eventualmente fino a 3000 esperti) che potrebbe durare vari anni.

Il maggiore rilievo attribuito alla materia della sicurezza comune (il c.d. secondo pilastro), ha trovato riscontro nelle disposizioni del Trattato di Lisbona che ha provveduto:

·      a individuare la nuova figura dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), cui si riconnette l’istituzione di un Servizio europeo per l’azione esterna chiamato ad assistere, in collaborazione con le strutture diplomatiche degli Stati membri, l’Alto rappresentante;

·      a consolidare e definire le linee generali dell’azione dell’Unione con riferimento alla  politica estera e di sicurezza comune (PESC) e alla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), fondate sulla reciproca solidarietà degli Stati membri e sul perseguimento di una sempre più stretta convergenza delle azioni poste in essere dai medesimi Stati. In questa prospettiva si ipotizza di pervenire ad un modello di difesa comune. Tale prospettiva, tra le altre cose, ha comportato l’istituzione, nel 2004, dell’Agenzia europea per la difesa (EDA)chiamata, tra le altre cose, a promuovere la cooperazione europea in materia di armamenti.

Il Trattato di Lisbona ribadisce comunque che il perseguimento della politica di sicurezza e di difesa comune non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, rispetta gli obblighi derivanti dal Trattato del Nord-Atlantico, per gli Stati membri che ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la NATO, ed è compatibile con la politica di sicurezza e di difesa comune adottata in tale contesto.

Tra le altre innovazioni si ricorda l’istituzione di un fondo per finanziare le attività preparatorie delle attività militari dell’Unione europea; il fondo dovrebbe facilitare il dispiegamento delle operazioni militari.

In merito alla dotazione finanziaria della politica estera dell’UE, si ricorda che nel bilancio per l'anno 2012 alla voce "l'UE quale attore globale" sono stanziati 9,4 miliardi di euro a titolo di impegno, con un aumento del 7,4% rispetto al 2011.

Per quanto riguarda in particolare le missioni PSDC, si segnala che il Trattato ha disposto l’estensione delle cosiddette missioni di Petersberg - missioni umanitarie e di soccorso; missioni di mantenimento della pace (peace-keeping); missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace (peace making) - integrandole con ulteriori compiti relativi alle missioni di disarmo, di consulenza ed assistenza in materia militare, di stabilizzazione al termine dei conflitti. Si specifica inoltre che tutte queste missioni possono contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a paesi terzi per combattere il terrorismo sul loro territorio.

Quanto alle procedure decisionali, il Consiglio adotta le relative decisioni all’unanimità stabilendone l'obiettivo, la portata e le modalità generali di realizzazione. L'Alto rappresentante, sotto l'autorità del Consiglio e in stretto e costante contatto con il comitato politico e di sicurezza, provvede a coordinare gli aspetti civili e militari di tali missioni.

 

 

Le conclusioni del Consiglio del 1° dicembre 2011

Gli indirizzi della strategia europea di sicurezza sono stati ribaditi dal Consiglio del 1° dicembre 2011, che ha sottolineato l'importanza della PSDC quale elemento essenziale di un approccio globale. Per essere efficace, secondo il Consiglio la PSDC deve essere sostenuta da capacità sufficienti ed adeguate, in termini di personale, mezzi e sostegno analitico all'intelligence, tenuto conto degli attuali vincoli finanziari. A tale proposito, il Consiglio sottolinea l'importanza di sfruttare appieno tutta la variegata gamma delle risorse esistenti a livello nazionale e di UE, massimizzare le sinergie e rafforzare la cooperazione.

Il Consiglio ha riconosciuto inoltre l'esigenza di un miglioramento delle prestazioni dell'UE nella pianificazione e nella conduzione delle missioni civili e delle operazioni militari della PSDC, tra l'altro mediante un potenziamento delle competenze civili e una migliore integrazione delle dimensioni civili e militari.

A tale scopo ha chiesto all’Alto rappresentante (AR) di produrre una relazione, che è stata presentata al Consiglio del 23 luglio 2012.

La relazione dell’AR segnala che si sta lavorando ad un miglioramento delle attività di pianificazione e realizzazione delle missioni:

·      in primo luogo, attraverso un approccio integrato: le missioni e operazioni dell’UE devono essere meglio inserite nelle strategie regionali dell’UE. In questa logica, le strategie per il Corno d’Africa e per il Sahel sono state la base per pianificare nuove missioni (rispettivamente EUCAP Nestore per la capacity building regionale marittima e la futura missione di polizia in Niger) e per rivedere missioni esistenti (Atalanta, EUTM Somalia). Inoltre, le attività PSDC sono meglio integrate con altri strumenti dell’UE, quali lo strumento per la stabilità, il fondo europeo per lo sviluppo e lo strumento di preadesione. E’ poi sottolineata la necessità di migliorare la cooperazione con i partner internazionali per produrre migliori sinergie;

·      in secondo luogo, si sta migliorando il focus della missione, come è stato fatto per EULEX Kosovo che è stata orientata a sostenere le autorità kosovare dove hanno maggiori necessità, vale a dire nelle funzioni operative di lotta alla corruzione e persecuzione dei criminali di guerra o in Bosnia dove ALTHEA è concentrata soprattutto su capacity building e formazione per rafforzare le istituzioni statali;

·      in terzo luogo, occorre individuare tutti i modi per valorizzare e non sprecare le risorse finanziarie destinate alle missioni: la missione EUCAP Nestore agirà per esempio da catalizzatore per assicurare contributi e sostegno da parte dei paesi terzi; la revisione strategica delle missioni UE nella Repubblica Democratica del Congo individua le linee guida per una maggiore efficacia dal punto di vista dei costi.

Tra gli ulteriori elementi positivi, la relazione segnala, in linea con le decisioni del Consiglio di marzo 2012, l’attivazione del centro operativo dell'UE a sostegno delle missioni e operazioni PSDC nel Corno d'Africa, vale a dire l'operazione Atalanta, EUTM Somalia ed EUCAP Nestore, con l'obiettivo di rafforzare l'efficienza, la coerenza e le sinergie.

E’ inoltre in corso la revisione delle procedure di gestione delle crisi al fine di accelerare e migliorare l'efficacia della pianificazione, del processo decisionale, dell'esecuzione e della valutazione della PSDC, con il coinvolgimento degli Stati membri nell'intero processo. E’ prevista la presentazione di proposte concrete entro la fine del 2012.

I progressi segnalati dall’AR sono stati accolti con favore dai ministri della difesa riuniti in sede di Consiglio affari esteri il 23 luglio 2012.

In quell’occasione il Consiglio ha ribadito l'importanza di assegnare risorse adeguate alle missioni e operazioni PSDC e alle strutture di gestione delle crisi del SEAE, perché siano in grado di espletare il proprio mandato.

Il Consiglio ha espresso soddisfazione per i lavori attualmente in corso per sviluppare ulteriormente la cooperazione con i paesi partner in vista della loro partecipazione e del loro sostegno alle missioni e operazioni PSDC, in particolare con i paesi del vicinato meridionale e del vicinato orientale. Il Consiglio ha inoltre incoraggiato l'approfondimento della cooperazione con le organizzazioni regionali e multilaterali, in particolare le Nazioni Unite, la NATO e l'Unione africana.

Tanto la relazione dell’AR quanto le conclusioni dei ministri della difesa hanno evidenziato, nel quadro del miglioramento delle prestazioni dell’UE, l’importanza di fare progressi in due ambiti considerati rilevanti:

·      pooling and sharing delle capacità militari (vedi infra).

Il Consiglio ha ribadito la necessità di un approccio strutturato a lungo termine per la messa in comune e la condivisione delle capacità militari, alla luce delle evoluzioni dell'ambiente strategico e dei vincoli imposti ai bilanci per la difesa, nonché tenendo conto dell'esigenza di continuare a promuovere sinergie con le politiche più generali dell'UE.

·      miglioramento delle capacità civili (vedi infra).

Il Consiglio ha accolto con favore il piano di lavoro pluriennale approvato dagli Stati membri sulle capacità civili, che ha lo scopo di contribuire a far sì che le missioni civili PSDC siano dotate di personale altamente qualificato e ricevano tempestivamente i servizi e le apparecchiature necessari. Le azioni per il 2012 e il 2013 includono: la stesura di un inventario delle capacità degli Stati membri in materia di personale specializzato; (l’esplorazione, alla luce dell’inadeguatezza delle unità di polizia integrate in Kosovo, della possibilità di un accordo quadro con la Gendarmeria europea che potrebbe facilitare il rapido dispiegamento; creazione di incentivi ulteriori per gli Stati membri a distaccare personale; rafforzamento dei collegamenti tra PSDC e spazio di libertà, sicurezza e giustizia, da un lato, per mettere a disposizione delle missioni le capacità UE del settore dello stato di diritto e, dall’altro, per portare il valore aggiunto della PSDC alla sicurezza interna dell’UE.

Pooling & sharing

Il cosiddetto “pooling & sharing” identifical’insieme delle misure volte alla razionalizzazione dellecapacità militari europee attraverso l’accorpamento e la condivisionedelle stesse in una prospettiva di economia generale, anche al fine di affrontare la difficilesituazione economico-finanziaria dei Paesi membri.

I bilanci della difesa europea – in costante e rapida diminuzione già nel corso dell’ultima decade – hanno infatti subito ulteriori tagli[2] con la recente crisi finanziaria. L’utilizzazione del pooling and sharing come mezzo per affrontare l’impatto della crisi finanziaria sulla capacità di difesa europea è dunque diventato un tema importante nell’agenda dell’UE.

L’impulso politico alle iniziative di pooling and sharing è venuto nel settembre 2010 dai ministri della difesa riuniti a Gand in modo informale e successivamente nella riunione del Consiglio del 9 dicembre 2010.

In quell’occasione, i ministri della difesa hanno sollecitato gli Stati membri a cogliere tutte le opportunità di cooperare nel campo dello sviluppo delle capacità, sottolineando in particolare la necessità di mettere a punto opzioni di messa in comune e condivisione sulla base di esempi multilaterali positivi come il comando europeo di trasporto aereo, avviato nel settembre 2010.

Su tali basi, il Consiglio ha concordato di realizzare un inventario dei progetti in cui sia possibile condividere e mettere in comune capacità militari per evitare duplicazioni tagliare i costi, chiedendo all'Agenzia europea per la difesa di facilitare l'individuazione dei settori per la messa in comune e la condivisione, tenendo conto della diversità delle esperienze nei vari Stati membri, e a sostenere gli Stati membri negli sforzi volontari volti ad attuare le iniziative di messa in comune e condivisione.

Sulla base del lavoro e delle proposte elaborate dall’Agenzia della difesa, successivamente i ministri della difesa hanno individuato le seguenti iniziative pooling & sharing, nel cui ambito gli Stati membri stanno già collaborando, con l’intermediazione dell’Agenzia europea per la difesa:

·         rifornimento di carburante aria-aria;

·         munizioni "intelligenti";

·         formazione degli equipaggi aerei;

·         addestramento e logistica navale;

·         poli di trasporto europei;

·         intelligence, sorveglianza e ricognizione, compresa la sorveglianza dell'ambiente spaziale;

·         supporto medico;

·         comunicazioni satellitari militari;

·         sorveglianza marittima;

·         addestramento al volo in elicottero;

·         comunicazione satellitare.

Il Consiglio di marzo 2012

Il 22 marzo 2012 i ministri della difesa hanno adottato alcune conclusioni in cui esprimono soddisfazione per i progressi ottenuti nella messa in comune e condivisione delle capacità militari attraverso progetti concreti facilitati dall’Agenzia europea per la difesa, quali il rifornimento aria-aria, l’istituzione di una unità multinazionale di supporto medico; la formazione degli elicotteristi e la sorveglianza marittima.

Il Consiglio ha ricordato tuttavia l'esigenza di sviluppare la cooperazione in materia di capacità militari su una base di lungo termine e più sistematica, il che richiederà un cambiamento di mentalità e impegni politici continui, e incoraggiato gli Stati membri ad esplorare sistematicamente la possibilità di soluzioni di pooling and sharing già nelle fasi iniziali dei processi nazionali.

Nel contesto di ulteriori sviluppi, il Consiglio ha manifestato apprezzamento per il lavoro condotto dall’Agenzia per favorire la cooperazione multinazionale: richieste di condivisione, procedure armonizzate e messa in comune di equipaggiamenti in surplus sosterranno i progressi in termini di capacità e ridurranno i costi.

Riconoscendo le implicazioni del settore della difesa per l’innovazione e la crescita, il Consiglio ha evidenziato con preoccupazione la riduzione generale degli investimenti nei settori ricerca e tecnologia collegati alla difesa e le conseguenze  sulla possibilità dell’Europa di sviluppare ulteriori capacità. Il Consiglio ha dunque incoraggiato l’Agenzia e la Commissione a favorire la sinergia con le altre politiche europee e con il settore della ricerca, ivi incluso il nuovo programma europeo su ricerca e tecnologia Horizon 2020.

Il Consiglio ha infine espresso soddisfazione per la cooperazione tra UE e NATO per lo sviluppo di capacità militari nelle situazioni di crisi, con particolare riguardo alle iniziative pooling and sharing dell’UE e smart Defence della NATO, e ha incoraggiato fortemente a proseguire in maniera trasparente i produttivi contatti tra gli staff delle due organizzazioni.

L’Agenzia europea di difesa

L’Agenzia europea di difesa (AED)è stata istituita con l’azione comune 2004/551/PESC del Consiglio del 12 luglio 2004, al fine di sostenere gli Stati membri ed il Consiglio nell’impegno di promuovere le capacità di difesa europee nel settore della gestione delle crisi, nonché per supportare la politica europea di sicurezza e difesa. L’Agenzia ha sede a Bruxelles.

Il Trattato sull’Unione europea (TUE) ha istituzionalizzato l’Agenzia, ponendola sotto l’autorità del Consiglio e incaricandola di: individuare le esigenze operative; contribuire a individuare e, se del caso, mettere in atto qualsiasi misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica del settore della difesa; partecipare alla definizione di una politica europea delle capacità e degli armamenti; assistere il Consiglio nella valutazione del miglioramento delle capacità militari (articolo 42 del TUE).

Come anticipato, nel contesto delle iniziative di pooling and sharing l’Agenzia mette a disposizione degli Stati membri competenze e pareri su aspetti finanziari, legali e contrattuali. L’Agenzia inoltre esamina e propone modi per ottimizzare l’uso delle capacità esistenti in Europa, sviluppando modelli di cooperazione disegnati sulle migliori pratiche. Esamina anche modi per migliorare gli strumenti attualmente in uso per favorire il pooring and sharing, vale a dire il Capability Development Plan e il database collaborativo.

Il primo è uno strumento strategico, che prefigura le necessità in termini di capacità militari nel breve, medio e lungo periodo nei settori della ricerca e della tecnologia, degli armamenti e dell’industria della difesa, tenendo conto dell’impatto delle future sfide per la sicurezza, dello sviluppo tecnologico e di altri cambiamenti. Il Capability Development Plan assiste inoltre gli Stati membri nella pianificazione dei programmi nazionali di difesa.

Un importante strumento del Capability Development Plan è il database collaborativo, che consente agli Stati membri di pubblicare progetti in corso e opportunità di cooperazione nell’intero ciclo di acquisizione: nel più lungo periodo, quando sarà pienamente operativo, il database non sarà elusivamente uno strumento per trovare opportunità di collaborazione ma fornirà una completa rassegna delle attività nel settore della difesa, in materia di ricerca e tecnologia, formazione, approvvigionamento.

Il miglioramento delle capacità civili

 Le missioni civili dell’UE sono uno strumento chiave della politica estera e di sicurezza comune. A partire dal primo dispiegamento nel 2003, le missioni civili hanno esteso il loro scopo (polizia, monitoraggio, giustizia, riforma del settore di sicurezza, assistenza frontaliera), natura (esecutiva e non esecutiva), collocazione geografica e dimensioni. Più di 4.000 esperti sono attualmente dispiegati in nove missioni civili, con il risultato tra l’altro di un corpo crescente di esperienze disponibili, da cui trarre insegnamento per continuare a rafforzare l’effetto strategico delle missioni UE e individuare le migliori pratiche UE nella gestione delle crisi.

Una più stretta cooperazione con lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e con i partner chiave che forniscono staff per le missioni, così come rendere le procedure di reclutamento più trasparenti sono state inoltre identificate come misure  chiave per rafforzare la qualità delle missioni. Infine, ulteriore sforzo è richiesto per assicurare che le gare di appalto per le missioni, pur rispettando il regolamento finanziario che disciplina le spese dal bilancio UE, siano sufficientemente flessibili e commisurate con le specifiche richieste di scenari in rapido dispiegamento.

Le missioni dell’UE attive nell’ambito della PSDC

Negli ultimi otto anni l'UE ha schierato 24 missioni e operazioni a titolo della PSDC, con il coinvolgimento di 80.000 persone.

Nel settore della gestione delle crisi sono attualmente operative, nell’ambito della PSDC, le seguenti missioni dell’UE:

Balcani occidentali

·      la missione militare in Bosnia-Erzegovina (EUFOR-Althea), istituita con l’azione comune 2004/570/PESC del 12 luglio 2004 e lanciata il 2 dicembre 2004 - rimpiazzando la missione SFOR della NATO - ha contribuito al mantenimento della sicurezza in Bosnia e Erzegovina. EUFOR ha dislocato una robusta forza militare analoga a quella della SFOR – inizialmente pari a 7.000 uomini – per assicurare il rispetto degli accordi di Dayton.

Ulteriori obiettivi sono il sostegno al Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia e alle competenti autorità, ivi inclusa la detenzione degli indagati, e la promozione di un ambiente sicuro in cui la polizia possa agire contro il crimine organizzato. Rilevando che la situazione in Bosnia-Erzegovina, sotto il profilo della sicurezza, si è positivamente evoluta, il 27 febbraio 2007 l’Unione europea ha provveduto ad una riconfigurazione della missione, riducendo le dimensioni del contingente EUFOR a 2500 unità circa. Sulla base delle conclusioni adottate dal Consiglio Affari esteri del 10 ottobre 2011, l’UE ha confermato la sua disponibilità a svolgere un ruolo militare operativo nell’ambito dell’operazione EUFOR ALTHEA sotto un nuovo mandato delle Nazioni Unite. Il Consiglio concorda sul fatto che l’operazione debba essere ulteriormente riconfigurata riducendo le forze presenti in Bosnia ed Erzegovina e concentrandosi sul rafforzamento della formazione, mantenendo, al tempo stesso, i mezzi per contribuire alle azioni di deterrenza svolte dalle autorità nazionali. Il Consiglio conviene sulla necessità di monitorare l’operazione anche sulla base dell’evoluzione della situazione del territorio;

·      il 9 dicembre 2008 è stata dispiegata sul terreno la missione civile EULEX Kosovo, istituita il 4 febbraio 2008 - con l’azione comune 2008/124/PESC. Il suo obiettivo è quello di sostenere le autorità kosovare nel monitoraggio e nel potenziamento di tutti gli ambiti relativi allo Stato di diritto, con particolare attenzione a forze di polizia, sistema giudiziario e sistemi di correzione.

Tra i punti chiave della missione si segnala la protezione delle minoranze, la lotta alla corruzione e al crimine organizzato. La missione è concepita come uno sforzo congiunto con le autorità kosovare, in linea con il principio della titolarità locale, con un occhio alla promozione di un sistema amministrativo e giudiziario autonomo basato su standard europei. EULEX Kosovo – la più grande missione civile UE nell’ambito della politica di sicurezza e difesa comune - è composta da uno staff internazionale di 1950 persone, tra giudici, procuratori, funzionari di dogana e poliziotti, e da uno staff locale di 1250 persone, localizzate al quartiere generale di Pristina o all’interno del sistema giudiziario e di polizia del Kosovo. Capo della missione è stato nominato il francese Yves de Kermabon. Il Rappresentante speciale dell’UE fornisce la guida politica locale al capo della missione, che riferisce al Comando delle operazioni civili a Bruxelles. Il Comitato politico e di sicurezza dell’UE esercita, sotto la responsabilità del Consiglio, il controllo politico e la direzione strategica della missione. Il mandato iniziale della missione – fissato a due anni - è stato esteso fino al 14 giugno 2014. Si prevede comunque che essa termini quando le autorità del Kosovo avranno raggiunto un’esperienza sufficiente a garantire che tutti i membri della società beneficino dello stato di diritto. E’ stato stabilito per il periodo 2012/2013 un finanziamento totale di 111 milioni di euro (fino al 14 giugno 2012).

 

Si ricorda inoltre la missione civile di controllo della frontiera EU BAM Moldavia e Ucraina (in particolare nella regione della Transnistria), istituita nel 2005, con un mandato iniziale di due anni, successivamente prorogato fino al 30 novembre 2015. La missione è stata stabilita a seguito della richiesta congiunta dei presidenti dei due paesi, per fronteggiare le attività illegali transfrontaliere, incluso il traffico di esseri umani che si verificano lungo gli oltre 1.000 chilometri di frontiera comune. Totalmente finanziata dall’Unione europea nel contesto dello strumento di partenariato e vicinato (ENPI), EUBAM ha il mandato di fornire consulenza e assistenza tecnica per migliorare le capacità di gestione delle frontiere dei partner e si rivolge a polizia di frontiera, autorità doganali e altre agenzie competenti.

Medio Oriente

·      la missione civile EUJUST Lex, per la formazione di magistrati e funzionari di polizia iracheni al di fuori dall’Iraq, istituita con l'azione comune 2005/190/PESC del 7 marzo 2005 e operativa dal 1°luglio 2005. Il 14 maggio 2010 il Consiglio ha deciso di prorogare la missione fino al 31 dicembre 2013;

·      la missione civile di polizia per i territori palestinesi (Eupol Copps), istituita con l'azione comune 2005/797/PESC del 14 novembre 2005, in vigore dal 1° gennaio 2006 con una durata iniziale di tre anni, – e successivamente estesa fino al 30 giugno 2013 -. L’obiettivo della missione è quello di fornire sostegno all’Autorità palestinese nella creazione di strutture di polizia duraturi ed efficaci;

·      la missione civile di controllo di frontiera al valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto (EU BAM Rafah), istituita con l'azione comune 2005/889/PESC del 12 dicembre 2005. La missione ha l’incarico di monitorare, verificare e valutare attivamente i risultati conseguiti dall'Autorità palestinese, sviluppare le capacità palestinesi relativamente a tutti gli aspetti della gestione delle frontiere a Rafah e contribuire a mantenere il collegamento tra le autorità palestinesi, israeliane ed egiziane riguardo alla gestione del valico. La missione che si sarebbe dovuta concludere il 30 maggio 2008 è stata ulteriormente prorogata fino al 31 giugno 2013. Si segnala inoltre che il 29 aprile 2007 la Commissione europea ha avviato il primo programma di formazione per funzionari di dogana al valico di Rafah. Allo stato attuale, in conseguenza della situazione di Gaza, la missione è temporaneamente sospesa, in attesa di riprendere al più presto le attività non appena le condizioni lo consentano.

Africa

·      la missione civile di sostegno alla riforma del settore della sicurezza nella Repubblica democratica del Congo (EUSEC Congo), istituita con azione comune 2005/355/PESC del 2 maggio 2005 e lanciata il 12 giugno 2006. Il mandato della missione scade al momento il 30 settembre 2012;

·      il 13 giugno 2007 il Consiglio ha adottato un’azione comune (2007/405/PESC) che stabilisce una missione civile di polizia nella Repubblica Democratica del Congo (EUPOL RD CONGO) al fine di continuare a fornire il contributo dell’Unione europea all’impegno del Congo nella riforma e ristrutturazione della Polizia nazionale congolese e della sua interazione con il sistema giudiziario. Il mandato della missione è stato esteso fino al 30 settembre 2012;

·      la missione militare navale EUNAVFOR-Atalanta, istituita con l’azione comune 2008/851/PESC del 10 novembre 2008per contrastare le azioni di pirateria al largo della costa somala, a sostegno delle risoluzioni 1814 (2008), 1816 (2008) e 1838 (2008) del Consiglio di sicurezza. La missione è chiamata a proteggere le navi noleggiate dal Programma alimentare mondiale - anche con la presenza di elementi armati di Atalanta a bordo delle navi interessate - in particolare quando incrociano nelle acque territoriali della Somalia - nonché le navi mercantili sulla base di una valutazione di necessità effettuata caso per caso. Il Consiglio dell’8 dicembre 2009 ha esteso il mandato della missione per consentire alla forza navale dell’UE di contribuire al monitoraggio delle attività di pesca nell’area. Il mandato scade il 31 dicembre 2012;

·      Il 31 marzo 2010 – con procedura scritta – il Consiglio ha adottato la decisione 2010/197/PESC fissando per il 7 aprile il lancio della missione militare dell'Unione europea volta a contribuire alla formazione delle forze di sicurezza somale (EUTM Somalia).

L’obiettivo generale di EUTM Somalia è quello di contribuire al rafforzamento del Governo federale di transizione e di favorire lo sviluppo sostenibile del settore di sicurezza somalo. La missione ha sede in Uganda- dove le forze somale vengono già addestrate - anche per facilitare il coordinamento delle azioni UE con la missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM). La missione è condotta in stretto coordinamento con gli altri partner, inclusi il Governo di transizione somalo, l’Uganda, le Nazioni Unite e gli USA.

Asia

·      la missione civile di polizia EUPOL Afghanistan, istituita con l’azione comune (2007/369/PESC) del 30 maggio 2007. La missione intende contribuire alla formazione, in Afghanistan, di un servizio di polizia efficiente, che operi nel rispetto del diritto e in accordo con gli standard internazionali e che sia in grado di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini. A tal fine essa coinvolge esperti nei settori del diritto, dell’attività di polizia e della giustizia, con compiti di formazione e consulenza. Al momento impiega 287 persone dello staff internazionale e 166 locali. Il mandato scade il 31 maggio 2013.

Caucaso

·      la missione civile di vigilanza dell'Unione europea in Georgia, (EUMM Georgia) istituita con azione comune 2008/736/PESC del Consiglio del 15 settembre 2008. A breve temine, l’obiettivo è stato quello di verificare sul posto l’applicazione integrale dell'accordo in sei punti tra Georgia e Russia, raggiunto il 12 agosto 2008 grazie alla mediazione della Presidenza francese dell’Unione europea e delle successive misure di attuazione; a lungo termine la missione contribuisce alla stabilizzazione della Georgia e della regione limitrofa. Il mandato scade il 30 settembre 2012.

Le nuove missioni

Il 16 luglio 2012 il Consiglio ha autorizzato una nuova missione civile nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), la EUCAP SAHEL Niger, il cui obiettivo è sostenere le autorità nigerine nello sviluppo di capacità proprie di lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo nel Sahel. Le attività riguarderanno inizialmente il Niger.

Secondo l'Alto rappresentante dell'UE, Catherine Ashton, l'intensificarsi delle attività terroristiche e le conseguenze del conflitto in Libia hanno aumentato in maniera drammatica l'insicurezza nel Sahel. La nuova missione contribuirà a rafforzare la capacità locale di lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Gli esperti europei formeranno le forze di sicurezza nigerine affinché migliorino il controllo del territorio e la cooperazione regionale.

La missione avrà un ruolo di formazione, controllo, consulenza ed assistenza per rafforzare le capacità della gendarmeria nigerina, della polizia nazionale e della guardia nazionale; essa migliorerà inoltre il coordinamento regionale nel Sahel per far fronte alle sfide comuni in materia di sicurezza. Non svolgerà alcuna funzione esecutiva.

EUCAP SAHEL Niger ha un mandato iniziale di due anni. Il personale, composto di circa 50 membri internazionali e 30 locali, sarà basato presso il comando della missione a Niamey (Niger), con ufficiali di collegamento a Bamako (Mali) e Nouakchott (Mauritania). Per il primo anno è stata stanziata una dotazione di 8,7 milioni di euro. La missione prenderà avvio all'inizio di agosto 2012.

Il 18 giugno 2012 il Consiglio ha dato il via libera ad una nuova missione di politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) dell’UE, volta a rafforzare la sicurezza aerea presso l’aeroporto internazionale di Juba, nel Sud Sudan. La missione, denominata EUAVSEC Sud Sudan, si pone l’obiettivo di rendere il Sud Sudan - che è senza sbocco sul mare e fortemente dipendente dal traffico aereo - uno Stato stabile e prospero. Il miglioramento della sicurezza aerea consentirà di incrementare il flusso di persone e beni. In particolare, EUAVSEC Sud Sudan formerà i servizi di sicurezza locali e fornirà assistenza tecnica in materia di sicurezza aerea. La missione avrà una durata di 19 mesi, a partire dal prossimo mese di settembre, il suo quartier generale sarà a Juba e saranno impiegate fino a 64 unità di personale. Il budget stanziato è di 12,5 milioni di euro.

Il Consiglio del 12 dicembre 2011 ha approvato una nuova missione,  EUCAP Nestore, per rafforzare la capacità degli Stati della regione del Corno d’africa e dell’Oceano indiano occidentale a gestire efficacemente le loro acque territoriali. La missione è parte dell’approccio complessivo dell’UE alla lotta alla pirateria e all’instabilità della regione e si inserisce nel quadro strategico dell’UE per il Corno d’Africa recentemente adottato.

EUCAP Nestore sarà una missione civile,  accresciuta da expertise militare, pienamente compatibile con le altre missioni dell’UE nell’area, vale a dire Atalanta e EUTM Somalia. Avrà un mandato iniziale di due anni, con una valutazione strategica dopo un anno. Per eseguire questa missione, l’UE ha stabilito partenariati con l’Organizzazione marittima internazionale, con l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine e con il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo; sarà inoltre cruciale la complementarietà con altri programmi finanziati dall’UE, tra i quali in particolare il Programma percorsi marittimi critici, in corso dal 2009 nell’ambito dello strumento di stabilità per aumentare le capacità marittime nella regione dell’oceano indiano occidentale, concentrandosi su formazione e condivisione delle informazioni. Anche il sostegno fornito nell’ambito del Fondo europeo di sviluppo per assistere Africa orientale e meridionale darà un importante contributo agli sforzi dell’UE nel settore.

La cooperazione rafforzata

Nel quadro delle decisioni relative alle missioni, il Consiglio può affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità necessarie. Tali Stati membri, in associazione con l'alto rappresentante, si accordano sulla gestione della missione. Gli Stati membri che partecipano alla realizzazione della missione informano periodicamente il Consiglio dell'andamento della missione, di propria iniziativa o a richiesta di un altro Stato membro.

E’ inoltre prevista la possibilità di creare, con decisione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata, una cooperazione strutturata permanente in materia di difesa tra gli Stati membri che hanno le capacità militari necessarie e la volontà politica di aderirvi. La procedura prevede che gli Stati membri intenzionati a partecipare alla cooperazione strutturata notifichino la loro intenzione al Consiglio e all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Entro tre mesi dalla notificazione il Consiglio adotta una decisione che istituisce la cooperazione strutturata permanente e fissa l'elenco degli Stati membri partecipanti. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata previa consultazione dell’Alto rappresentante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


La partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali

Nel corso degli ultimi anni la partecipazione delle forze armate italiane a missioni militari all’estero ha assunto una considerevole importanza, sia in considerazione del notevole incremento delle operazioni che hanno visto impegnati contingenti militari italiani, sia sotto il profilo del maggior impiego di uomini e di mezzi, connesso alla più complessa articolazione degli interventi ai quali l’Italia ha partecipato.

Al riguardo, va, infatti, rilevato che nel corso degli ultimi decenni si è passati da semplici operazioni di ingerenza umanitaria, attraverso l'invio di osservatori internazionali, a missioni di mantenimento della pace (peace keeping), di formazione della pace e prevenzione dei conflitti (peace making), di costruzione della pace (peace building), fino ad arrivare a missioni di imposizione della pace (peace enforcement).

Sotto il profilo della loro durata, si tratta di operazioni di portata assai variabile in quanto si passa da missioni esauritesi nel breve lasso di tempo di qualche mese, ad altre, invece, che arrivano a coprire un notevole arco temporale, quasi ad assumere il carattere della permanenza.

Da un punto di vista normativo, nel nostro ordinamento giuridico non esiste una normativa di carattere generale riguardante le missioni internazionali con la conseguenza che tale disciplina, con particolare riferimento ai profili concernenti il trattamento economico e normativo del personale impegnato in tali missioni e i molteplici e peculiari profili amministrativi che caratterizzano le missioni stesse, sono di volta in volta regolati nell'ambito dei provvedimenti legislativi che finanziano le missioni stesse.

A questo proposito si ricorda che le Commissioni riunite III Affari esteri e IV Difesa della Camera hanno da tempo avviato l’esame in sede referente delle proposte di legge C. 1213, C. 1820, C. 2605 e 2849, volte ad introdurre una complessiva ed organica normativa di riferimento sul trattamento economico e giuridico del personale impegnato nelle missioni, nonché a disciplinare la procedura da adottare per l’invio dei militari all’estero. Ai fini dell’istruttoria legislativa su tali proposte di legge, le due Commissioni hanno svolto un’indagine conoscitiva ed hanno quindi istituito un comitato ristretto.

Si segnala, inoltre, che le Commissioni riunite II Giustizia e IV Difesa del Senato hanno iniziato l’esame congiunto del disegno di legge governativo n. 2099, recante la delega al Governo per l’emanazione del codice penale delle missioni militari all’estero e della proposta di legge n. 335, recante la delega al Governo per la riforma del codice penale militare di pace e introduzione dell’articolo 4-bis della legge 7 maggio 1981, n. 180, concernente l’ufficio militare di sorveglianza. Il disegno di legge governativo è stato adottato come testo base nella seduta del 28 giugno 2011. Il provvedimento è stato da ultimo esaminato dalle Commissioni riunite nella seduta del 13 dicembre 2011.

 

 

Per quanto riguarda, invece, l'inquadramento di queste operazioni nell'ordinamento costituzionale, la legittimità delle operazioni militari per mantenere o imporre la pace è stata finora individuata sulla base del parametro contenuto nella seconda parte dell’articolo 11 della Costituzione secondo il quale “l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”.

In questo contesto si colloca l’articolo 89 del codice dell’ordinamento militare (corrispondente alla legge n. 331 del 2000, abrogata a seguito dell’entrata in vigor del richiamato codice) la quale, dopo aver ricordato che il compito delle Forze armate italiane è la difesa dello Stato, aggiunge che queste possono essere impiegate all’estero al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, ma sempre in conformità delle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali di cui l’Italia sia membro.

Per quanto riguarda, poi, le procedure interne al nostro ordinamento in forza delle quali è possibile pervenire all’adozione della decisione riguardante il coinvolgimento delle truppe italiane nell’ambito delle missioni militari oltreconfine, va rilevato che l’assenza di una disciplina costituzionale degli stati di crisi diversi dalla guerra intesa in senso classico e di una disciplina costituzionale dell’uso della forza militare in forma circoscritta e con obiettivi limitati, come avviene nelle missioni di pace all’estero, ha posto il problema relativo all’applicabilità alle missioni internazionali del procedimento previsto dagli articoli 78 e 87 della Costituzione.

Le due disposizioni, alle quali non si è mai fatto ricorso dopo l’entrata in vigore della Costituzione, implicano una deliberazione delle Camere e il conferimento al Governo dei poteri necessari (art. 78). Spetta invece al Presidente della Repubblica, che ha il comando delle Forze armate, dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere (art. 87, 9° comma).

La questione è emersa, in particolare, nel corso dei primi anni novanta, quando successivamente allo scoppio della c.d. “guerra del Golfo”, si è verificata la crisi internazionale che ha costretto il nostro paese a misurarsi con le tematiche della legittimità costituzionale dei procedimenti di deliberazione delle decisioni connesse all’invio all’estero di contingenti militari italiani[3].

Peraltro, nella prassi, la conclusione del dibattito parlamentare relativo ai vari interventi militari è avvenuta generalmente mediante l’approvazione di mozioni (partecipazione italiana alla missione internazionale nel 1987 per la protezione di navi mercantili nel Golfo persico, durante il conflitto Iran-Iraq), o risoluzioni in Assemblea (invio nel 1991 di una forza multinazionale per il ristabilimento dello status quo in Kuwait dopo l’invasione irachena), o risoluzioni in Commissione (partecipazione italiana alla missione navale nel Golfo persico del 1990-91 per il controllo dell’embargo ONU e per lo sminamento del Golfo).

In altri casi il Governo è ricorso allo strumento del decreto legge, soprattutto ai fini del finanziamento delle missioni militari, ma anche in modo da sollecitare la decisione parlamentare e, nello stesso tempo, la formulazione di un indirizzo politico sull’operazione.

Va, comunque, rilevato che a partire dalla XI legislatura la gestione degli stati di crisi è stata oggetto di varie proposte di legge le quali, pur nella loro diversità, sostanzialmente miravano ad un rafforzamento del ruolo del Governo e, al suo interno, del Presidente del Consiglio e, nello stesso tempo, ad un incremento dei poteri di controllo e di garanzia del Parlamento, cui veniva riservata la definizione della politica generale della difesa, indipendentemente dal verificarsi delle varie emergenze interne ed internazionali.

In questo contesto la legge 18 febbraio 1997, n. 25, successivamente confluita nel Codice dell’ordinamento militare, si è proposta di dare una risposta, sul piano organizzativo-procedimentale, alle diverse esigenze di difesa alle quali lo Stato è tenuto a fare fronte .

A tal fine, nella citata legge al Governo sono riservate le deliberazioni in materia di sicurezza e difesa, le quali sono prima sottoposte al Consiglio supremo di difesa, poi approvate dal Parlamento ed infine attuate dal Ministro della difesa; al Ministro della difesa sono, invece, riservate le direttive nell’ambito della politica militare[4].

In relazione alla citata normativa occorre evidenziare che la Commissione difesa della Camera dei Deputati, con la risoluzione n. 7-1007 del 16 gennaio 2001, ha apportato ulteriori elementi di precisazione al vigente quadro normativo specificando, con riferimento all’indicato procedimento decisionale, la necessità dei seguenti  quattro passaggi procedurali:

 

Ø             deliberazione governativa in ordine alla partecipazione alla missione di pace all’estero e conseguente informativa alle Camere;

Ø             approvazione parlamentare (anche da parte di una sola Camera o delle Commissioni permanenti competenti) della deliberazione governativa;

Ø             presentazione di un disegno di legge o emanazione di un decreto-legge contenente la copertura finanziaria della missione;

Ø             adozione delle disposizioni attuative da parte della amministrazione militare.

Le operazioni per il mantenimento della pace

Come in precedenza rilevato le operazioni per il mantenimento della pacesono state caratterizzate nel corso degli anni da una rilevante evoluzione qualitativa e quantitativa. Si possono individuare sinteticamente differenti tipologie di operazioni di pace, pur nella consapevolezza sia della relatività delle classificazioni, sia della compresenza di differenti tipologie all'interno delle operazioni realizzate:

a) operazioni di formazione della pace e prevenzione del conflitto (peace-making): sono utilizzate in presenza di una controversia che determina un conflitto. Si tratta, perciò, di attività volte prevalentemente alla soluzione pacifica delle controversie attraverso il ricorso ai mezzi diplomatici tipici del diritto internazionale per la soluzione dei conflitti;

b) operazioni di peace-keeping: si tratta di operazioni militari volte a prevenire, limitare od eliminare situazioni di conflitto tra Stati o all'interno di Stati, al fine di mantenere o ristabilire la pace. In particolare, le funzioni cui assolvono tali operazioni hanno un contenuto variabile che va dai compiti di osservazione e verifica (che comprendono il controllo del cessate il fuoco, della liberazione del territorio e del conseguente ritiro delle forze di occupazione) a quelli di interposizione (che comporta l'assunzione di un ruolo di mera presenza tra le due parti in conflitto, allo scopo di ridurre la tensione tra le stesse e di prevenire gli scontri) e a quelli di mantenimento dell'ordine e del rispetto del diritto;

c) operazioni di imposizione della pace (peace-enforcing): si tratta di operazioni militari volte ad imporre con la forza alle parti in conflitto o al soggetto individuato come aggressore, l'attuazione delle misure di controllo e riduzione della situazione di conflittualità decise dall'organizzazione internazionale che invia o autorizza l'operazione. Ciò implica la possibilità di vere e proprie azioni di combattimento;

d) operazioni di assistenza internazionale: si tratta di attività volte a realizzare le condizioni per una pace duratura poste in essere al termine di un conflitto o di una guerra civile, al fine di evitare che sorgano nuove controversie e si determinino altre situazioni di conflittualità. Rientrano in tale categoria tutte le attività che consentono la ripresa delle condizioni di vita ordinaria e comprendono programmi di aiuto e ricostruzione economica, sociale, sanitaria, soprattutto nella fase successiva alla cessazione delle operazioni militari.

Il quadro delle missioni militari dell’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi

Dal secondo dopoguerra l'Italia ha partecipato, in ottemperanza agli impegni internazionali assunti in sede internazionale e comunitaria o nell'ambito di iniziative bilaterali, a 122 missioni militari fuori dai confini nazionali. Di queste, 30 sono tuttora in corso.

La prima missione ha riguardato la presenza di contingenti italiani in Somalia nell’ambito dell’esercizio del mandato fiduciario conferito all’Italia dall’ONU nel 1950, e si è conclusa nel 1960 con l’indipendenza di quel Paese.

Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito ad un netto incremento del numero delle missioni militari internazionali cui l’Italia ha preso parte. Fino alla fine degli anni Ottanta tali operazioni hanno comportato l’impiego di una ridotta quantità di uomini (se si eccettuano le operazioni di pace in Libano tra il 1982 e il 1984), anche in considerazione del fatto che la media delle missioni in corso nei singoli anni è stata costantemente inferiore a 4; nella seconda metà degli anni Ottanta la media delle missioni in corso ha raggiunto progressivamente quota 9-10.

Negli anni Novanta, la presenza internazionale italiana è cresciuta in particolare attraverso la partecipazione alle operazioni conseguenti alla crisi del Golfo Persico (1990-1991) e alle vicende dei Balcani (in particolare nel 1995 e nel 1999) ed il numero di missioni svolte in ciascun anno ha superato mediamente le 20, raggiungendo quota 30 nel 1999. Dal 2000 il numero delle missioni si è mantenuto prossimo alle 30.

Da ultimo, il decreto-legge n. 215 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 13 del 24 febbraio 2012, ha previsto una serie di disposizioni volte ad assicurare, per il periodo dal 1° gennaio 2012 al 31 dicembre 2012, la proroga della partecipazione del personale delle Forze armate e di polizia alle missioni internazionali, nonché la prosecuzione degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione.

Inoltre, lo scorso 8 maggio 2012 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge n. 58, convertito, senza modifiche, con la legge 6 luglio 2012, n. 99 riguardante la partecipazione italiana alla missione di osservatori militari delle Nazioni unite in Siria, di cui alla risoluzione 2043 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

 

 

 

 

 

Nel corso della seduta delle Commissioni riunite esteri e difesa della Camera dei deputati del 30 maggio 2012, il Governo ha reso comunicazione in merito alle missioni internazionali e gli interventi di cooperazione in corso.

In particolare, il Governo ha rilevato che “oggi schieriamo complessivamente 6.740 unità delle Forze armate. Più specificamente, nell’ambito delle missioni dell’Unione europea operano 276 militari e 142 civili. Vi sono 230 uomini impegnati nell’operazione Atalanta, quindi nella lotta alla pirateria e nell’impiego in mare. Siamo impegnati inoltre nei teatri balcanici (con EULEX in Kosovo, EUPM in Bosnia, EUFOR Althea), nel teatro somalo (EUTM in Somalia) e in Caucaso (EUMM in Georgia).

Per quanto riguarda le missioni dell’Unione europea siamo quindi tra i primi Paesi contributori in Europa in termini di personale militare (ad agosto abbiamo assunto anche il comando di Atalanta) e quarti per quanto riguarda il personale civile.

Nelle missioni NATO abbiamo 5.044 uomini e siamo il quarto contributore (impegno ISAF in Afghanistan e KFOR in Kosovo).

All’ONU siamo il primo contributore di truppe tra i Paesi dell’Unione europea e tra i primi 20 in assoluto. Vi sono 1.115 unità impegnate in Medio Oriente (UNIFIL, UNTSO e UNSMIS ora in Siria), ma anche in Africa (UNAMID in Darfur, UNMIS in Sudan e MINURSO nel Sahara occidentale). Vi sono infine le missioni OSCE nei Paesi balcanici, nell’ambito delle quali c’è una nostra presenza significativa: Kosovo, Bosnia, F.Y.R.O. Macedonia e Serbia, dove abbiamo complessivamente 33 unità civili.

 

Quindi il nostro contributo si qualifica non solo per quella straordinaria professionalità e dedizione delle nostre Forze armate, che credo debba essere riconosciuta in ogni occasione possibile, ma anche per l’altrettanto grande qualità del personale civile che possiamo mettere in campo per le ricostruzioni postconflitto. Un ulteriore valore viene dalla sintonia con cui operano i Ministeri degli affari esteri e della difesa. Su questo credo di potermi attendere  una condivisione da parte del Ministro della difesa.

 

 

 

 

La componente civile nelle missioni internazionali

La componente civile delle missioni ha dunque assunto progressivamente un ruolo sempre più rilevante nelle missioni internazionali di ONU, UE, NATO e OSCE. Come ha ricordato il ministro degli esteri Terzi di Sant’Agata nella citata audizione del 30 maggio 2012, l’Italia è tra i primi paesi contributori in Europa in termini di personale militare ed è al quarto posto per quanto riguarda il personale civile.

Nell’ambito delle missioni dell’Unione europea, ad esempio, volte a contribuire alla ricostruzione delle strutture statali, alla riforma del sistema di sicurezza e dello stato di diritto, dell'amministrazione della giustizia e di monitoraggio degli accordi di pace, operano 142 civili mentre, in ambito Osce, sono circa 62 gli esperti  italiani impiegati nelle missioni sul terreno.

Sono sempre più numerosi gli interventi dove viene impiegato solo personale civile: si pensi ad esempio alle missioni di monitoraggio elettorale o a talune missioni di assistenza alle istituzioni locali nella ricostruzione, così come al sempre maggiore coinvolgimento della Cooperazione allo sviluppo nelle aree di crisi e nei processi di pace, stabilizzazione e ripristino delle condizioni che consentono lo sviluppo.

Il decreto legge n. 215 del 2011 citato, assegna per le attività di competenza del Ministero degli affari esteri, per l’anno 2012, una somma di oltre 120 milioni di euro.

Di questi, circa 50 milioni sono destinati ai processi di ricostruzione e alla partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e stabilizzazione. Tra i molteplici interventi previsti, si ricordano quelli in Libia, in Iraq, nello Yemen e in Afghanistan, oltre che gli stanziamenti per l’Unione per il Mediterraneo e per le attività civili di peace keeping e di diplomazia preventiva ed ai progetti di cooperazione promossi dall’OSCE.

Sempre in questo ambito, sono previste autorizzazioni di spesa, ciascuna superiore ai 3 milioni di euro, per la partecipazione italiana al Fondo fiduciario della NATO (destinato al sostegno dell’Esercito nazionale afghano), per la partecipazione italiana alle iniziativedella Politica estera e di sicurezza comune (PESC), della Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), e per la realizzazione degli interventi e delle iniziative a sostegno dei processi di pace e di rafforzamento della sicurezza nell’Africa sub sahariana. Un impegno finanziario ancora più importante è destinato alla prosecuzione degli interventi operativi di emergenza e di sicurezza per la tutela dei cittadini e degli interessi italiani nei territori bellici e ad alto rischio (11,5 milioni di euro) e per il rafforzamento delle misure di sicurezza attiva, passiva e informatica delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari (8,5 milioni di euro).

I fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo assommano invece a 70 milioni di euro. Di questi, oltre 34 milioni di euro sono destinati all’area Afghanistan - Pakistan dove sono in corso di realizzazione programmi agricoli, educativi e sanitari.

Ad altre aree di intervento - Iraq, Libano, Libia, Myanmar, Somalia, Sudan e Sud Sudan - dove le attività sono finalizzate al miglioramento nelle condizioni di vita delle popolazioni – nonché dei rifugiati nei paesi limitrofi - ed al tempo stesso ad assicurare i processi di ricostruzione civile, andranno oltre 33 milioni di euro. Il decreto assicura anche un’altra delle attività nelle quali l’Italia è impegnata in prima fila da molto tempo, ossia lo sminamento umanitario, uno dei settori per i quali la Cooperazione allo sviluppo collabora più attivamente con le ONG italiane presenti sul campo.

 

 

 

 

 

 

 

 


L’Unione europea e la primavera araba

L’Unione europea ha risposto agli eventi della primavera araba con una serie di iniziative, messe in atto già a partire dall’inizio del 2011, riconoscendo - insieme all’importanza delle sfide poste dalla transizione politica ed economica della regione - anche la necessità di un nuovo approccio nelle relazioni con i suoi vicini meridionali.

A tal fine, l'Alto Rappresentante (AR), Catherine Ashton, ha istituito una task force volta a riunire il Servizio europeo di azione esterna e gli esperti della Commissione per adattare gli strumenti già a disposizione dell’UE al fine di aiutare i Paesi del Nord Africa. L'obiettivo è quello di fornire un pacchetto completo di misure adeguate alle esigenze specifiche di ciascun Paese.

Nel Consiglio europeo dell’11 marzo 2011 l’Alto rappresentante e la Commissione hanno presentato un documento orientativo, volto a proporre un nuovo partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo meridionale.

Tale partenariato dovrebbe essere fondato su una maggiore integrazione economica, un accesso al mercato più ampio e la cooperazione politica. La comunicazione sottolinea la necessità di sostenere la domanda di partecipazione politica, dignità, libertà e opportunità di occupazione proveniente dai popoli della regione e di delineare un approccio basato sul rispetto dei valori universali e su interessi condivisi. Si propone inoltre il principio del “more for more” in base al quale maggiore assistenza finanziaria, mobilità incrementata e accesso al mercato unico dell’UE saranno resi disponibili ai paesi partner più avanzati sulla strada delle riforme.

Tale approccio è stato ulteriormente elaborato nella comunicazione “Una nuova risposta ad un vicinato in mutamento” (COM (2011) 313)[5] che l’Alto rappresentante e la Commissione hanno presentato il 25 maggio 2011 nell’ambito dell’annuale pacchetto sulla politica di vicinato. Secondo quanto indicato nella comunicazione, il sostegno dell’UE alle riforme politiche nei paesi vicini ha ottenuto risultati limitati; è emersa dunque la necessità di una maggiore flessibilità e di risposte più adeguate, in linea con la rapida evoluzione della situazione nei partner. Su tali basi, l’UE è impegnata nel breve e lungo periodo ad aiutare i suoi partenr in due importanti sfide:

·      in primo luogo, costruire democrazie solide, non soltanto scrivendo costituzioni democratiche e conducendo libere elezioni, ma anche creando e sostenendo sistemi giudiziari indipendenti, libera stampa, società civile dinamica e tutte le altre caratteristiche di una democrazia matura;

·      in secondo luogo, assicurare una crescita economica inclusiva e sostenibile, senza la quale la democrazia non può attecchire. Una particolare sfida è rappresentata dalla creazione di posti di lavoro.

Pur riconoscendo che un certo numero di sfide sono comuni a tutti i paesi partner, l’UE - come già anticipato - sosterrà ogni paese su una base differenziata, corrispondendo a necessità e priorità individuali.

Commissione e AR hanno presentato – nell’ambito del pacchetto sulla politica europea di vicinato del 15 maggio 2012 - una tabella di marcia intesa a definire e orientare l'attuazione della politica dell'UE nei confronti dei partner del Mediterraneo meridionale, che elenca gli obiettivi, gli strumenti e le azioni, concentrandosi sulle sinergie con l'Unione per il Mediterraneo e altre iniziative regionali.

Il Consiglio europeo di marzo 2012 ha inoltre ribadito la volontà dell’UE di far corrispondere l’entità del sostegno economico al livello delle riforme democratiche, “offrendo maggiori aiuti ai partner che compiono maggiori progressi verso sistemi democratici inclusivi, riconsiderando il sostegno ai governi in casi di oppressione o di gravi o sistematiche violazioni dei diritti umani''.

Aiuto umanitario

La direzione generale della Commissione responsabile per l’aiuto umanitario e la protezione civile è stata la prima a reagire nel febbraio 2011 e più tardi nei mesi di marzo ed aprile. L’aiuto totale fornito ammonta a 80,5 milioni di euro che comprendono 40 milioni di euro per decisioni d’emergenza; 20 milioni dal piano umanitario (vale a dire da fondi programmati); 10 milioni per il reinserimento dei cittadini del Ciad fuoriusciti dalla Libia; 10,5 milioni dalla linea di bilancio della protezione civile per l’evacuazione di cittadini dei paesi terzi.

Finanziamenti

Nel maggio 2011 l’UE ha reso disponibili - in aggiunta ai 5,7 miliardi di euro già disponibili per il periodo 2011-2013 - ulteriori 1,24 miliardi di euro da risorse già esistenti, da dividere tra i partner del vicinato meridionale ed orientale.

In aggiunta, la Banca europea per gli investimenti (BEI) fornirà oltre ai 4 miliardi disponibili prima della primavera araba, contributi aggiuntivi di 1 miliardo di euro per la regione. La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) ha deciso di estendere la sua copertura geografica per includere il vicinato meridionale e fornire annualmente 2,5 miliardi di euro agli investitori del settore privato e pubblico per sostenere l’espansione degli affari e il finanziamento delle infrastrutture.

Il 22 dicembre 2011 la Commissione ha adottato un nuovo programma regionale per i vicini meridionali denominato SPRING e rivolto inizialmente a Tunisia e Marocco con l’obiettivo di promuovere indipendenza e efficienza del sistema giudiziario, governance e lotta alla corruzione, protezione dei diritti umani e dei principi democratici, contrasto al traffico di esseri umani. Il budget ammonta  a 350 milioni di euro totali per gli anni 2012 2013.

E’ stata inoltre istituita nell’ambito dello strumento finanziario per il vicinato e il partenariato (ENPI) un fondo società civile con un budget di 22 milioni di euro per ciascun anno (2012 e 2013) rivolto ad attori non statali con gli obiettivi di:

·      sostenere la democratizzazione, tra l’altro rafforzando il ruolo delle organizzazioni della società civile e promuovendo il pluralismo dei media e organizzando missioni di osservazione elettorale;

·      promuovere lo sviluppo della società civile e delle organizzazioni non statali.

Misure speciali sono state assunte nel settembre 2011 a sostegno delle aree più povere della Tunisia (per un valore di 20 milioni di euro) per promuovere occupazione e creazioni di nuovi posti di lavoro nel paese; migliorare le condizioni di vita degli abitanti delle aree urbane nelle regioni più impoverite; favorire l’accesso al credito.

Nell’ambito del programma Erasmus mundus è stato disposto un finanziamento di 30 milioni di euro per i paesi del vicinato meridionale. L’obiettivo è ottenere una migliore comprensione reciproca tra UE e paesi vicini favorendo la mobilità di studenti e accademici e lo scambio di conoscenze e competenze.

Nelle proposte di bilancio per il periodo 2014-2020 presentate il 7 dicembre 2011, la Commissione raccomanda di allocare più di 18,1 miliardi di euro a sostegno dei paesi del vicinato sia orientale sia meridionale, con un incremento sostanziale (pari quasi il 40%) rispetto alle precedenti prospettive finanziarie. Secondo la proposta della Commissione, il nuovo strumento per il vicinato sarà capace di fornire assistenza in modo più rapido e flessibile, consentendo una maggiore differenziazione ed incentivi per i partner più attivi, secondo il citato principio del more for more.

Mobilità

Sarà favorita la mobilità nell’UE dei cittadini dei paesi partner attraverso:

·      maggiore disponibilità di borse di studio universitarie (Erasmus mundus) e di scambi; i fondi del programma Tempus[6] sono stati incrementati per sostenere la modernizzazione dell’istruzione superiore nei paesi mediterranei e espandere la collaborazione con le università dell’UE per gli anni 2012 e 2013;

·      l’istituzioni di partenariati per la mobilità[7], che comprendano anche accordi di riammissione e di facilitazione delle procedure per il rilascio dei visti. Dialoghi preparatori a tale scopo sono stati avviati con Tunisia e Marocco.

I partenariati per la mobilità costituiscono uno strumento già elaborato dall’Unione europea a partire dal 2007. In particolare nella comunicazione  Migrazione circolare e partenariati di mobilità tra UE e paesi terzi” (COM(2007)248), del maggio 2007, volta a promuovere l’immigrazione legale, la Commissione europea aveva esaminato la natura giuridica, la forma e i contenuti di tali  partenariati, che l’Unione europea potrà concludere con i paesi terzi, che si sono impegnati a cooperare attivamente nella gestione dei flussi migratori, anche combattendo contro la migrazione illegale, e che desiderano assicurare ai loro cittadini un migliore accesso al territorio dell’Unione. In questo quadro il 5 giugno 2008, erano stati lanciati, come progetti pilota, partenariati di mobilità con la Repubblica di Moldavia e con Capo Verde, attraverso la firma di dichiarazioni comuni con ciascuno dei due paesi. I partenariati per la mobilità, che saranno concertati a livello politico tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e il paese partner interessato, dall’altro, dovrebbero riguardare, tutte le misure (legislative od operative) atte a garantire che la circolazione delle persone tra l’UE e il paese partner sia gestita correttamente ed avvenga in condizioni di sicurezza. L’Unione europea sosterrà, sia tecnicamente che economicamente, gli sforzi compiuti dal paese partner, anche tramite le sue agenzie (FRONTEX, EASO ed EUROPOL).

Mercati

Un migliore accesso al mercato dell’UE e la progressiva integrazione delle economie dei paesi partner nel mercato unico dell’UE saranno gli obiettivi principali dei futuri negoziati su aree di libero scambio con Marocco, Giordania, Tunisia, Egitto e Tunisia che saranno lanciati appena i lavori preparatori saranno stati completati. Messi a confronto con le attuali relazioni commerciali tra UE e paesi partner, le aree di libero scambio andranno oltre la sola rimozione delle tariffe per coprire tutte le questioni regolamentari relative al commercio, quali protezione degli investimenti e pubblici appalti.

Un nuovo strumento per gli investimenti delle piccole e medie imprese denominato SANAD ('sostegno' in lingua araba) è stato inaugurato nell’agosto 2011, insieme alla banca tedesca "Kreditanstalt Für Wiederaufbau" (KFW), per un totale di 20 milioni di euro. Il fondo è rivolto alle piccole e medie imprese della regione del Medio Oriente e del Nord Africa, segmento che è troppo piccolo per le banche e troppo grande per il microcredito. Infine, si sta sviluppando un nuovo strumento per il Mediterraneo denominato “Investimento sicuro”, congiuntamente all’Agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l’Unione per il Mediterraneo.

Società civile

Una priorità dell’UE è rappresentata dal sostegno alle organizzazioni della società civile, che svolgono un ruolo chiave nel migliorare la governance e rendere affidabili i governi. Donne e giovani avranno un ruolo importante da giocare a questo riguardo e l’UE sta lanciando progetti concreti a sostegno della loro attiva partecipazione alla vita economica e politica.

L’UE continuerà a sostenere la società civile sia attraverso l’assistenza bilaterale differenziata in ogni paese sia rinvigorendo gli esistenti forum, quale quello creato nell’ambito dell’Unione per il Mediterraneo. L’UE ha già inaugurato il fondo società civile.

E’ in corso la preparazione di una Sovvenzione europea per la democrazia, con un focus iniziale sul vicinato, che rifletterà la volontà dell’UE di rendere più semplice per i beneficiari il sostegno e il finanziamento delle attività. Infine, la Commissione, per iniziativa del Vice presidente Neelie Kroes, ha avviato la "No Disconnect Strategy" che contribuirà ad assicurare il rispetto dei diritti umani anche online. La strategia fornirà strumenti tecnologici per aumentare privacy e sicurezza nelle comunicazioni online; accrescere la consapevolezza degli utenti sulle opportunità e i rischi della comunicazione digitale; monitorare il livello di sorveglianza; aiutare i soggetti interessati a condividere informazioni; favorire la cooperazione interregionale.

La nomina di un rappresentante speciale dell’UE per il Mediterraneo meridionale, Bernardino León, incrementerà il dialogo politico con i vicini meridionali e aiuterà ad assicurare il coordinamento degli sforzi tra le istituzioni UE, gli Stati membri, gli istituti finanziari rilevanti (quali BEI e BERS) e il settore privato. Task force di alto livello copresiedute dall’AR e dai leader nazionali dei paesi partner rappresentano un ulteriore importante strumento a questo riguardo. La prima task force è stata inaugurata in Tunisia a settembre 2011 e altre sono previste nei mesi a venire.

Le iniziative verso i singoli paesi

Algeria

Come risposta immediata alla primavera araba in Algeria, l’UE ha lanciato un programma di sostegno all’occupazione giovanile con una dotazione di 23,5 milioni di euro; collaborerà con il ministero della gioventù e dello sport, a livello nazionale e locale, così come con le organizzazioni giovanili attraverso attività di informazione, formazione e finanziamento di progetti. Il programma si prefigge di rafforzare la partecipazione dei giovani alla società, migliorare le loro prospettive lavorative e sostenere l’attuazione di una politica nazionale a favore dei giovani.

Anche dialogo politico, sicurezza e diritti umani occupano un posto importante dell’agenda dell’UE: il sottocomitato UE-Algeria dedicato a questi temi ha tenuto le sue prime riunioni a settembre e dicembre 2011.

Il commissario europeo per l’allargamento, Stefan Füle, ha visitato l’Algeria nel maggio 2011, per discutere in particolare la partecipazione dell’Algeria alla PEV con uno status avanzato e favorire l’adozione del piano d’azione; a tale proposito si segnala che l’8 dicembre 2011 il viceministro Abdelkader Messahel ha annunciato a Bruxelles la volontà algerina di avviare i negoziati sul piano d’azione.

Inoltre, in vista delle elezioni legislative di maggio 2012, l’UE ha offerto il suo sostegno tecnico e una missione di osservazione elettorale. In una dichiarazione ufficiale l’UE ha espresso la propria soddisfazione per il fatto che le elezioni si siano tenute in un clima pacifico ed ordinato. La missione di osservazione elettorale, guidata dal membro del Parlamento europeo, José Ignacio Salafranca, infatti in una valutazione preliminare ha sottolineato i positivi sviluppi del processo elettorale, individuando alcune aree che potrebbero essere migliorate. L’UE considera questo un passo in avanti nella strada delle riforme intrapresa dal paese a partire dall’aprile 2011 e che dovrebbe concludersi con la revisione della Costituzione entro il 2012.

Bahrein

A partire dalla prima fase delle dimostrazioni a Manama, l’UE ha richiamato tutte le parti a rifiutare la violenza e avviare il dialogo. Un’ampia serie di dichiarazioni pubbliche e contatti diplomatici con le autorità locali ha posto l’attenzione sulla situazione dei diritti umani nonché sulla necessità di perseguire i responsabili degli abusi, di ospitare una missione dell’Ufficio dell’Alto commissario ONU per i diritti umani e di promuovere una reale riconciliazione nella società. L’AR ha sottoposto la situazione in Bahrein all’ordine del giorno di diverse riunioni del Consiglio dei ministri degli esteri dell’UE, nonché a livello di Capi di Stato e di governo. La pressione esercitata dall’UE e da molte organizzazioni della società civile ha contribuito all’istituzione di una commissione indipendente di inchiesta nel giugno 2011 e la revisione di tutti i processi e i verdetti delle corti militari.

Egitto

Immediatamente dopo la partenza dell’ex presidente Mubarak e in risposta alle aspirazioni del popolo egiziano al rispetto dei diritti civili, politici e socio-economici, l’UE ha istituito un pacchetto di 20 milioni per la società civile. Inoltre, alla luce delle nuove circostanze, l’assistenza prevista nell’ambito dell’ENPI per il periodo 2011-2013 è stato rivisto: per il 2011 sono stati approvati programmi per un valore di 132 milioni di euro e per il 2012 sono già in avvio iniziative per 95 milioni di euro. I programmi 2011 hanno sostenuto il miglioramento delle condizioni di vita nelle aree povere del Cairo, gli scambi e la crescita economica (e la conseguente creazione di posti di lavoro), le piccole e medie imprese, la riforma dei settori dell’energia e dell’acqua.

L’UE ha anche offerto missioni di osservazione elettorale in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali, che le autorità egiziane hanno rifiutato, accettando invece il sostegno di 2 milioni di euro offerti dall’UE nell’ambito dello strumento di stabilità per assistere l’Alta commissione elettorale nel suo lavoro. L’UE ha anche inaugurato dialoghi preparatori al Cairo per un partenariato della mobilità; per integrare progressivamente l’economica egiziana nel mercato unico europea e migliorare l’accesso dei prodotti egiziani al mercato europeo si sta preparando inoltre l’avvio dei negoziati su un’area di libero scambio non appena il paese sarà pronto.

Giordania

Lavorando sullo status avanzato del partenariato UE-Giordania concordato ad ottobre 2010, l’AR ha espresso in diverse occasioni la disponibilità dell’UE a sostenere la Giordania sulla via delle riforme. Per assistere il governo giordano nell’affrontare le sfide economiche, l’UE ha concordato nel maggio 2011 di anticipare al 2011 l’importo di 40 milioni di euro dai programmi 2012/2013. Tale finanziamento sosterrà lo sviluppo delle piccole e medie imprese con l’obiettivo di ridurre la povertà e la disoccupazione nelle aree meno favorite, aumentare il contributo per ricerca e innovazione e rafforzare ulteriormente la gestione della finanza pubblica. Programmi in corso (inclusi nel contributo iniziale di 71 milioni di euro per il 2011) già sostengono le riforme in diversi settori, quali efficienza energetica, istruzione, governance e sviluppo economico locale. Inoltre il processo preparatorio per i negoziati sull’area di libero scambio con la Giordania verrà lanciato nel corso del 2012; il primo incontro della task force UE Giordania ha avuto luogo il 22 febbraio 2012.

Libia

L’eccezionale brutalità delle repressioni dell’ex regime ha indotto l’UE a sospendere immediatamente la cooperazione tecnica e i negoziati su un accordo quadro UE-Libia. Un Consiglio europeo straordinario sulla Libia si è tenuto a marzo 2011 e della situazione nel paese si è discusso in tutte le successive riunioni del Consiglio affari esteri.

Dall’inizio della crisi l’UE ha fornito più di 155 milioni di aiuto umanitario e mobilitato le squadre di protezione civile per alleviare le condizioni di sofferenza dei civili sia in Libia sia ai confini. In aggiunta la Commissione sta rendendo disponibili altri 30 milioni per sostenere le priorità immediate di stabilizzazione del Consiglio transitorio nazionale; ulteriori 50 milioni di euro saranno forniti per programmi di sostegno di più lungo periodo. Come concordato all’incontro internazionale a Parigi nel settembre 2011, l’UE sta procedendo a valutare le necessità di miglioramento in materia di comunicazioni, società civile e gestione delle frontiere e ha già dispiegato esperti in questi settori così come in materia di sicurezza e appalti. Infine, sono in via di ripresa i progetti in materia di migrazione che erano stati sospesi nel febbraio 2011.

L’impegno dell’UE a riprendere e rafforzare le relazioni con la Libia è stato nuovamente ribadito nella conclusioni del Consiglio affari esteri del 23 luglio 2012, che ha manifestato soddisfazione per la conduzione pacifica delle elezioni parlamentari del 7 luglio. 

Marocco

Il 2 luglio 2011, l’AR e il Commissario per la politica di vicinato, Stefan Füle, hanno considerato favorevolmente l’esito positivo del referendum sulla nuova Costituzione che ha approvato le riforme proposte dal re Mohammed VI e hanno ribadito il sostegno dell’UE agli sforzi del Marocco di attuare riforme di lungo periodo. Il partenariato per la mobilità con il Marocco è stato inaugurato a Rabat a ottobre 2011 e l’UE ha dato nuovo impulso ai negoziati per il nuovo piano d’azione sullo status avanzato del paese nell’ambito della PEV, ripresi in dicembre; il processo preparatorio per  i negoziati su un’area di libero scambio sarà avviato nel corso del 2012.

Con riguardo al sostegno finanziario, le cinque aree prioritarie già individuate restano invariate: sviluppo di politiche sociali; modernizzazione economica; sostegno istituzionale; governance e diritti umani; protezione ambientale. Il bilancio indicativo per il 2011-2013 è di 580 milioni di euro che rappresenta il 20 percento di aumento rispetto al periodo precedente. Il Marocco beneficia anche di programmi tematici e regionali nonché del sostegno del nuovo Fondo società civile e di Erasmus mundus.

Siria

L’Unione europea ha reagito alla repressione violenta delle proteste antigovernative in Siria, iniziata nel marzo 2011, richiedendo in più occasioni la fine delle violenze inaccettabili, il ritiro dell’esercito siriano dalle città e villaggi occupati, l’attuazione di riforme democratiche credibili e l’avvio di un dialogo nazionale inclusivo[8].

Da ultimo il Consiglio europeo del 29 giugno 2012 ha condannato le brutali violenze perpetrate contro la popolazione civile, sollecitando il regime a porvi immediatamente fine, e richiesto indagini internazionali trasparenti sulle violazioni dei diritti umani in Siria. Al regime è richiesto inoltre di raggiungere il cessate il fuoco, dando attuazione al piano Annan in sei punti, di permettere l’accesso alle organizzazione umanitarie e di garantire la sicurezza degli osservatori delle Nazioni Unite. I gruppi di opposizione sono incoraggiati ad operare verso una transizione ordinata, pacifica ed inclusiva verso un futuro senza il regime di Assad. Nell’apprezzare le ulteriori misure restrittive assunte dall’UE, il Consiglio europeo ha invitato il Consiglio di sicurezza dell’ONU ad agire unitariamente per esercitare maggiore pressione sul regime.

Come riportato nella dichiarazione ufficiale rilasciata il 2 agosto scorso dall’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Catherine Ashton, il citato piano Annan in sei punti rimane la migliore speranza per la Siria, anche dopo le dimissioni di Kofi Annan da inviato speciale dell’ONU e della Lega araba. Nella dichiarazione l’AR ribadisce l’impegno dell’UE verso una transizione politica della crisi a guida siriana ed esprime il proprio rammarico per le dimissioni di Annan, che a suo parere rendono evidente quanto sventurato sia stato il fatto che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite non sia stato in grado di concordare su una risoluzione.

Da ultimo, con una dichiarazione rilasciata alla stampa il 27 agosto 2012 Michael Mann, portavoce dell’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, avrebbe espresso la ferma condanna dell’Unione europea per il massacro perpetrato contro la popolazione civile a Daraya nella periferia di Damasco. Il portavoce, ricordando che le circostanze del massacro non sono ancora perfettamente chiarite, avrebbe inoltre affermato che l’Unione europea condanna senza riserve le violenze perpetrate dal regime di Bachar Al-Assad contro il popolo siriano, auspica una transizione pacifica verso la democrazia e sostiene tutti i gruppi di opposizione che credano nei diritti umani e nella democrazia.

 

Di fronte al proseguimento delle azioni violente e repressive, a partire dal maggio 2011 l’UE ha deciso di introdurre misure restrittive, in più occasioni rafforzate, per aumentare la pressione sul governo del presidente Bashar al-Assad (vedi infra).

Sempre nel maggio 2011 l’UE ha deciso di congelare la proposta di accordo di associazione che stava negoziando con la Siria e ha sospeso i programmi di cooperazione bilaterale tra UE e governo siriano, finanziati nell’ambito dello strumento finanziario per il vicinato e il partenariato (ENPI). La Commissione europea ha sospeso la partecipazione delle autorità siriane ai programmi regionali e la Banca europea per gli investimenti ha interrotto le operazioni di  prestito e l’assistenza tecnica alla Siria. Il 30 novembre 2011, in reazione alle misure adottate dall’UE, la Siria ha sospeso la propria partecipazione all’Unione per il Mediterraneo.

D’altro canto nei mesi scorsi i ministri degli affari esteri hanno più volte ribadito che, non appena avrà inizio un'autentica transizione democratica, l'UE sarà disposta a sviluppare un nuovo, ambizioso partenariato con la Siria in tutti i settori di interesse reciproco, anche ponendo in atto misure di assistenza e rafforzando le relazioni commerciali ed economiche nonché sostenendo la giustizia di transizione e il processo di transizione politica.

A fronte delle misure assunte dall’UE nei confronti del regime, diversi progetti sono in corso con attori non statali, società civile e rifugiati. Proseguono anche i programmi Tempus ed Erasmus con gli studenti e gli universitari siriani.

La Commissione ha approvato alla fine del 2011 una misura speciale di sostegno a due progetti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA) rivolti sia ai profughi palestinesi sia ai rifugiati siriani. I profughi palestinesi restano infatti una priorità: su una popolazione totale di oltre 500.000 rifugiati, si stima che più del 10% siano direttamente colpiti dal conflitto. Come segnalato dalla Commissione, l’UNRWA è al momento una delle ultime agenzie esecutive con una reale capacità operativa sul territorio e il suo mandato consente l’inclusione dei rifugiati siriani come beneficiari.

L’UE è gravemente preoccupata per la situazione umanitaria in Siria e sottolinea la necessità pressante di proteggere i civili. Finora l’Unione europea ha messo a disposizione complessivamente 146 milioni di euro, ( di cui 69 milioni dalla Commissione  e il resto dagli Stati membri)  per sostenere le vittime civili della crisi in Siria e i rifugiati nei paesi vicini ( Turchia, Giordania, Libano e Iraq).

Secondo l’UE è di vitale importanza che le autorità siriane concedano alle organizzazioni umanitarie un accesso immediato, pieno e senza restrizioni a tutte le zone della Siria per consentire loro di prestare assistenza umanitaria e medica.  Il 29 agosto 2012, alla vigilia della riunione del Consiglio di sicurezza dell’ ONU, il  Commissario europeo per la cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari e la risposta alle crisi, Kristalina Georgieva, ha dichiarato che l’Unione europea è pronta ad aumentare significamente agli aiuti, al fine di rispondere ai bisogni crescenti della regione.

L’UE partecipa attivamente al gruppo degli amici del popolo siriano e sta collaborando strettamente con la comunità internazionale (inclusi Lega araba, Nazioni Unite, Organizzazione per la cooperazione islamica e Consiglio di cooperazione del golfo) per esercitare pressione sul governo siriano e indurlo a porre fine alle atrocità. L’UE sostiene in particolare la Lega araba nei suoi sforzi di risolvere la crisi, riconoscendo il suo impegno e la sua leadership. Ha fornito inoltre sostegno tecnico alla Lega per la sua missione di osservazione in Siria, in particolare per la creazione della situation room.

L’UE ha inoltre lavorato strettamente con i partner internazionali per assicurare una risposta delle Nazioni Unite alla crisi siriana. Uno dei risultati è stata l’adozione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni unite della risoluzione 66/253 del 16 febbraio  2012, che condanna la repressione del regime di Assad, chiedendogli di lasciare il potere e appoggia il piano della Lega araba per una soluzione a guida siriana della crisi.

L’UE continua comunque a sollecitare i membri del Consiglio di sicurezza ad assumersi le loro responsabilità e concordare su una forte azione delle Nazioni Unite verso il paese, chiedendo la fine del bagno di sangue e un futuro democratico per la Siria.  A tale proposito, come riferito dall’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, la questione siriana è stata una dei principali argomenti del Vertice del 4 giugno 2012 tra UE e Russia, in considerazione del ruolo cruciale della Russia nel successo del piano Annan.

L’UE ha inoltre espresso la propria soddisfazione per l'adozione all'unanimità della risoluzione 2042 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU del 14 aprile 2012 che ha autorizzato lo spiegamento immediato di un gruppo preparatorio di osservatori militari disarmati (fino a un massimo di trenta) e della risoluzione 2043 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU del 21 aprile 2012 che ha istituito nella sua integralità la missione di supervisione dell'ONU in Siria (UNSMIS) con uno spiegamento iniziale di osservatori militari disarmati (fino a un massimo di trecento) nonché un'appropriata componente civile affinché sorveglino la cessazione della violenza armata e verifichino e sostengano l'applicazione di tutti gli aspetti della proposta in sei punti dell'inviato speciale congiunto dell'ONU e della Lega degli Stati arabi, Kofi Annan.

Le misure restrittive

Come anticipato, di fronte alla brutale e continua repressione e alla violazione persistente dei diritti umani da parte del regime siriano, a partire da maggio 2011 l’UE ha gradualmente introdotto misure restrittive, che consistono in:

-     embargo alla vendita, fornitura, trasferimento alla Siria o esportazione nel paese di armamenti e materiale connesso, che potrebbero essere utilizzati nella repressione interna. E’ altresì vietata ogni forma di assistenza tecnica e finanziaria;

-     obbligo per gli Stati membri di ispezionare tutte le navi e gli aeromobili diretti in Siria, nei loro porti e aeroporti, e nelle loro acque territoriali, con il consenso, se necessario conformemente al diritto internazionale, dello Stato di bandiera, qualora lo Stato membro interessato abbia fondati motivi di ritenere, in base alle informazioni di cui dispone, che il carico di tali navi e aeromobili contenga armi o apparecchiature, beni o tecnologie che potrebbero essere utilizzati a fini di repressione interna;

-     vietati l’acquisto, l’importazione o il trasporto dalla Siria di petrolio greggio e di prodotti petroliferi;

-     divieto di investimento nelle industria petrolifera siriana e nelle compagnie impegnate nella costruzione di nuovi impianti per la produzione di energia elettrica in Siria;

-     vietata la partecipazione alla costruzione di nuove centrali elettriche per la produzione di energia elettrica in Siria;

-     divieto di fornire, trasferire o esportare in Siria attrezzature e tecnologie chiave per i settori dell'industria del petrolio e del gas naturale in Siria. Il divieto si estende ad imprese siriane o di proprietà siriana operanti in tali settori al di fuori della Siria;

-     i beni della Banca centrale siriana in territorio UE sono congelati ed è proibito rendere disponibili fondi o risorse economiche;

-     embargo del commercio di oro, metalli preziosi e diamanti con enti pubblici siriani e Banca centrale;

-     divieto di consegnare banconote e monete alla Banca centrale siriana;

-     divieto per gli Stati membri di fornire nuovi prestiti e contributi al Governo siriano;

-     congelati i beni di 52 entità e 155 persone responsabili della repressione violenta della popolazione siriana;

-     divieto di visto per 155 persone responsabili della repressione violenta della popolazione siriana;

-     vietati la vendita, la fornitura, il trasferimento o l'esportazione di apparecchiature o software destinati principalmente ad essere usati per il controllo e l'intercettazione, da parte del regime siriano, o per suo conto, di Internet e delle comunicazioni telefoniche di rete fissa o mobile in Siria,

-     vietati le erogazioni o i pagamenti della Banca europea per gli investimenti (BEI) nell'ambito di accordi di prestito esistenti tra la Siria e la BEI nonché la prosecuzione da parte della BEI di ogni contratto di prestazione di servizi di assistenza tecnica esistente per progetti sovrani situati in Siria;

-     vietati la vendita, l'acquisto, l'intermediazione o l'assistenza – diretti o indiretti – all'emissione di obbligazioni pubbliche siriane o garantite dalle autorità pubbliche emesse dopo il 1 o dicembre 2011 verso o da governo della Siria, suoi enti, entità giuridiche e agenzie pubblici, Banca centrale siriana;

-     proibizione per le istituzioni finanziarie siriane di aprire nuovi uffici o filiali  in territorio UE e stabilire nuove relazione bancarie con l’UE; d’altro canto le istituzioni bancarie e finanziarie dell’UE non possono aprire nuovi uffici e filiali in Siria;

-     gli Stati membri non possono fornire sostegno finanziario al commercio con la Siria, inclusi crediti alle esportazioni e assicurazioni;

-     vietata la fornitura di servizi di assicurazione o riassicurazione al governo della Siria, suoi enti, entità giuridiche e agenzie pubblici;

-     i voli cargo da vettori siriani non possono accedere agli aeroporti dell’UE;

-     divieto di esportare beni di lusso in Siria.

Tunisia

L’UE è intervenuta a sostegno della Tunisia in occasione dei recenti cambiamenti politici.

L’UE ha fornito sostegno alla preparazione delle elezioni, attraverso la previsione di assistenza tecnica alle autorità transitorie cosi come attraverso il sostegno diretto alle organizzazioni della società civile.

E’ stato reso disponibile anche un considerevole aiuto umanitario, in particolar modo per aiutare la Tunisia a fronteggiare il massiccio afflusso di rifugiati dalla Libia.

A seguito del cambiamento di regime, l’UE ha incrementato i fondi disponibili per la cooperazione bilaterale per il periodo 2011-2013, aumentati da 240 a 400 milioni di euro, con un incremento di oltre il 60% degli aiuti.

Complessivamente per il solo 2011 l’UE ha raddoppiato il contributo, fino a 160 milioni di euro, destinati in particolare a:

·      sostegno al programma di emergenza in materia di crescita economica del governo transitorio (100 milioni di euro);

·      sostegno al settore dei servizi per rafforzare la competitività, soprattutto in materia di salute, trasporti, servizi professionali, information tecnology (20 milioni di euro);

·      sostegno alle aree meno sviluppate per facilitare la transizione democratica, riducendo le disuguaglianze sociali e le discrepanze regionali (20 milioni di euro);

·      azioni a sostegno della società civile e della preparazione delle elezioni ( 9.7 milioni di euro).

L’impegno dell’UE a sostegno della Tunisia sarà rafforzato nei prossimi mesi. A tale scopo, una task force presieduta congiuntamente dall’Alto rappresentante, Catherine Ashton, e dal primo ministro tunisino, Béji Caĭd Essebsi, è stata istituita per assicurare un migliore coordinamento tra il sostegno dell’UE e quello internazionale. In totale, quasi 4 miliardi di euro (inclusi prestiti e sovvenzioni)  potrebbero essere resi disponibili per sostenere la transizione in Tunisia nei prossimi tre anni: 3 miliardi dalle istituzioni dell’UE banche dell’UE e istituti internazionali (banca africana per lo sviluppo banca islamica per lo sviluppo banca mondiale) e un miliardo dagli Stati membri dell’UE. La task force è chiamata anche ad individuare le priorità di azione.

Tali priorità includono tra l’altro:

·      il rilancio dei negoziati per stabilire un partenariato privilegiato tra UE e Tunisia, attraverso la concessione dello status avanzato;

·      il sostegno alle autorità tunisine sui temi della ricostruzione;

·      il sostegno alla società civile, attraverso dialogo rinforzato e incremento dei finanziamenti;

·      ulteriori finanziamenti per i programmi Erasmus Mundus e TEMPUS, con l’obiettivo di rafforzare, modernizzare e internazionalizzare l’istruzione superiore e dare opportunità di movimento a studenti e personale accademico;

·      il rilancio dei negoziati sulla liberalizzazione dei prodotti agricoli;

·      la conclusione di un accordo di libero scambio. A tale scopo, il Consiglio affari esteri del 14 dicembre 2011 ha autorizzato la Commissione ad avviare negoziati bilaterali con la Tunisia, l’Egitto, la Giordania e il Marocco;

·      l’avvio di un dialogo su migrazione, mobilità e sicurezza. La Tunisia è il primo paese del Mediterraneo meridionale a beneficiare di questa iniziativa.

Per quanto riguarda le attività del 2012, sarà mobilitata una missione di programmazione, per rivedere la cooperazione in corso e definire obiettivi e parametri per i finanziamenti del 2012. L’attenzione dovrebbe essere concentrata su occupazione (quasi 60 milioni di euro) e giustizia (20 milioni di euro). Sarà anche valutato come rendere disponibili al paese i fondi del programma SPRING varato dalla Commissione il 27 settembre 2011 con un budget totale di 350 milioni di euro per due anni (2012-2013) e destinato a favorire la transizione democratica, la ripresa economica e la crescita inclusiva.

 

Yemen

Dall’inizio della protesta nel febbraio 2011, l’UE ha esercitato costante pressione su tutte le parti per fermare la violenza e facilitare un trasferimento pacifico di potere. L’AR ha rilasciato diverse dichiarazioni, condannando la violenza, e ha tenuto contatti regolari con i membri del regime e i suoi oppositori. Anche grazie all’azione dell’UE in seno al Consiglio diritti umani dell’ONU, il Consiglio di sicurezza ha adottato all’unanimità una risoluzione che sollecitava tutte le parti in Yemen ad attuare i passi necessari verso la transizione politica. Il 23 novembre 2011, dopo mesi di stallo politico, l’AR ha valutato positivamente la firma a Riyadh dell’accordo per la transizione politica tra il Presidente Saleh e i rappresentanti dell’opposizione, sotto gli auspici del Consiglio di cooperazione del Golfo e ha richiamato tutti i gruppi politici ad aiutare l’attuazione dell’accordo così che diventi il fondamento di un processo di riconciliazione che raggiunga tutti i cittadini del paese.

L’impegno politico è soltanto una parte del coinvolgimento dell’UE nel paese: l’UE si sforza di dirigere il flusso di aiuti umanitari e allo sviluppo verso coloro che ne hanno più bisogno, vale a dire la popolazione del paese che sta pagando il prezzo della crisi: 20 milioni di euro di aiuto umanitario sono arrivati dai fondi dell’UE, con un’aggiunta di 40 milioni di euro dagli Stati membri.


 

I più recenti sviluppi della primavera araba

 

Libia

Il 22 novembre 2011 ha visto finalmente la nascita del nuovo governo libico guidato da Abdurrahim el-Keib, esperto di energia ed esponente, dalla metà degli anni settanta, del movimento di opposizione al regime del colonnello Gheddafi. Nonostante l'entusiasmo del nuovo premier in merito alla rappresentatività ampia dell'esecutivo appena formato, la situazione del paese registrava sempre una forte tensione tra le fazioni armate. Da rilevare la nomina al decisivo ministero del petrolio di un ex funzionario dell’ENI, Ben Yezza.

L'inizio di dicembre ha evidenziato il perdurare del problema delle milizie che, ben oltre le necessità della lotta contro Gheddafi, hanno continuato a presidiare la capitale, dando vita a ripetuti scontri a fuoco. Tale problema – il CNT aveva posto l'ultimatum del 20 dicembre per il ritiro delle milizie da Tripoli, ma si è rivelato incapace di procedere a una requisizione delle armi – è apparso a lungo come uno dei principali della nuova Libia, che peraltro, nonostante la positiva disposizione del presidente del CNT Jalil e del premier el-Keib ad un un atteggiamento di perdono e riconciliazione verso chi ha combattuto contro la rivoluzione, si è vista anche stigmatizzare da un rapporto dell’ONU di fine novembre, che ha stimato in circa 7.000 il numero dei prigionieri nelle carceri libiche, tra i quali molte donne e bambini: nei confronti dei detenuti sarebbero state perpetrate anche torture.

Alla metà di dicembre vi è stata la fine delle sanzioni ONU e USA contro la Libia, mentre particolarmente rilevante per l’Italia è stata la visita del capo del CNT, Jalil, a Roma (15 dicembre): nel corso degli incontri romani – anche con il Presidente della Repubblica Napolitano – Jalil ha avuto un lungo colloquio con il Presidente del Consiglio, Sen. Mario Monti, al termine del quale è stata annunciata la rimessa in vigore del Trattato di amicizia italo-libico sospeso durante il conflitto, e contestualmente lo sblocco di 600 milioni di euro dei fondi libici a suo tempo congelati in Italia. Il 21 gennaio 2012 il presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti si è recato a Tripoli, accompagnato dai Ministri degli esteri e della difesa: il premier ha sottoscritto un documento nell’ambito del tentativo di rafforzare il legame di amicizia e collaborazione tra i due Paesi nell’era post gheddafiana, la Dichiarazione di Tripoli”, siglato anche dal premier del Consiglio nazionale di Transizione, al-Keib. La dichiarazione assicura il sostegno politico del nostro Paese al processo di pacificazione nazionale. In particolare, l’accordo intende proseguire sulla “strada degli accordi firmati – si legge nel testo -, guardando al futuro con l'aiuto e il contributo nelle varie attività, attraverso commissioni tecniche ad hoc nei vari settori nei due rispettivi Paesi”.

Contestualmente, è stata sottoscritta una dichiarazione d’intenti tra i rispettivi titolari della Difesa. Rispetto al trattato di amicizia siglato con il colonnello Gheddafi, il Governo libico ha fatto sapere che sarà preservata la parte relativa al risarcimento che il nostro Paese si è impegnato a versare per il periodo coloniale. Si conferma anche l’accettazione delle scuse da parte italiana.

Nella delegazione governativa era presente l’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, che ha fatto sapere che la produzione petrolifera aveva ormai raggiunto i livelli precedenti alla rivoluzione.

Nel frattempo, tuttavia, la situazione d’instabilità della nuova Libia non accennava a migliorare: oltre al problema delle fazioni armate che non intendevano smobilitare, emergeva una forte contestazione verso i nuovi governanti, quasi sempre precedentemente collaboratori di Gheddafi, e perciò malvisti da chi effettivamente ha partecipato alla rivoluzione combattendo: è il caso del vicepresidente del CNT Ghoga, duramente contestato a Bengasi, dove la gravità della situazione ha indotto lo stesso presidente del CNT Jalil a fare pressioni per le sue dimissioni, annunciate il 22 gennaio. Mentre si è dimesso lo storico ambasciatore libico a Roma, Gaddur; è slittata l'approvazione della legge elettorale per l'Assemblea costituente, al centro di forti polemiche soprattutto per la previsione, da molti contestata, di una quota del 10% riservata alle donne.

A caratterizzare il post-Gheddafi, con il Consiglio nazionale di transizione palesemente incapace di garantire livelli accettabili di sicurezza, come anche di rispettare le scadenze istituzionali previste; sono emersi elementi di inquietante continuità con il precedente regime. Infatti, seppur con toni assai morbidi, le nuove autorità di Tripoli hanno fatto presente di non essere in grado di controllare le potenziali ondate di immigrazione verso l'Europa provenienti dall'Africa subsahariana e in transito nel territorio libico: mentre Gheddafi aveva usato questo argomento con toni palesemente ricattatori, i nuovi governanti libici hanno comunque richiesto con urgenza finanziamenti e mezzi per assicurare il funzionamento del sistema di sorveglianza delle frontiere e per poter ristrutturare i 19 centri di detenzione provvisoria già in essere sotto Gheddafi. Assai più preoccupante è quanto invece emerso sulle torture inflitte ai prigionieri accusati di lealismo verso il precedente regime: infatti esponenti di vertice di Médecins sans frontières hanno reso noto di avere constatato torture ripetute su prigionieri condotti nelle strutture della Organizzazione umanitaria per essere curati, in vista di nuovi maltrattamenti.

Tutto ciò sarebbe stato facilitato dal fatto che le autorità centrali non controllavano la miriade di centri di detenzione esistenti, per la gran parte illegali. Amnesty International, dal canto suo, ha confermato le pratiche di tortura in atto in Libia, asserendo anche che in alcuni casi avrebbero provocato la morte dei prigionieri. Su queste denunce le autorità libiche si sono impegnate il 31 gennaio ad aprire un’inchiesta.

Il panorama politico libico è stato arricchito il 21 febbraio da una nuova formazione, l'Alleanza delle forze nazionali, concepita per porre in qualche modo un argine all'ondata islamista che ha caratterizzato tutti i paesi usciti dalla Primavera Araba, e contrapporsi, in particolare, al Partito islamico della riforma e dello sviluppo, nato nel gennaio 2012 a Bengasi per l'iniziativa di un gruppo di ulema, che vorrebbe porre la legge islamica quale unica fonte del diritto per la Libia. La nuova formazione politica, che fa capo all'ex premier del Consiglio nazionale di transizione Jibril e conta sull'appoggio di molte figure di moderati libici, deriva dal coordinamento di una trentina di partiti e di più di 400 organizzazioni della società civile nella prospettiva delle elezioni di giugno (poi slittate a luglio) per il Congresso nazionale, incaricato di redigere la nuova Costituzione e preparare vere e proprie elezioni politiche.

La situazione di persistente instabilità della Libia post-Gheddafi – evidenziata nel mese di febbraio anche da sanguinosi scontri fra tribù rivali per il controllo dei traffici illegali nel sud del paese - ha conosciuto all’inizio di marzo una drammatica accelerazione, che sembrava tra l'altro dare ragione alle nere previsioni dello stesso colonnello libico sul destino del paese dopo la fine della sua guida, visto come inevitabile approdo alla frammentazione territoriale e istituzionale, in modo analogo a quanto avvenuto alla Somalia dopo Siad Barre. Il 6 marzo infatti esponenti di tribù e gruppi armati della parte orientale del paese, la Cirenaica, hanno deciso a Bengasi di formare un Consiglio provvisorio per la Barqa - nome arabo della Cirenaica - all'insegna di rivendicazioni autonomistiche e federaliste, e in contrapposizione all'egemonia di Tripoli, accusata di essere in mano ad esponenti del passato regime riciclatisi nella nuova situazione della Libia. La presa di posizione di Bengasi si spiega nella prospettiva imminente dell'elezione del Congresso nazionale: in tale organismo è infatti previsto un meccanismo di leggera prevalenza dei rappresentanti della Tripolitania su quelli della Cirenaica. Inoltre, non meno importante sembrava l'intenzione della parte orientale del paese di acquisire il pieno controllo sulle ingenti risorse petrolifere ivi situate. A capo del neonato Consiglio provvisorio per la Barqa è stato nominato Ahmed al-Senussi, pronipote dell'ultimo re libico Idriss, incarcerato per 31 anni da Gheddafi dopo aver tentato nel 1970 un colpo di Stato contro di lui, e importante esponente del Consiglio nazionale di transizione, nonché recentemente insignito dal Parlamento europeo del Premio Sakharov. Il leader del CNT Jalil ha immediatamente reagito accusando alcuni paesi arabi di aver fomentato e finanziato la costituzione del nuovo organismo di Bengasi - va ricordato che più volte  esponenti del CNT libico avevano lanciato accuse al Qatar di intromettersi pesantemente negli affari interni libici appoggiando alcuni gruppi contro il governo centrale di Tripoli. Jalil ha inoltre apertamente bollato la nascita del nuovo organismo di Bengasi alla stregua di una cospirazione contro il nuovo corso della Libia, minacciando di usare la forza per ristabilire il pieno controllo del CNT sul paese.

La preoccupazione delle autorità di Tripoli si è palesata con la richiesta alle Nazioni Unite di porre fine all'embargo sulle armi nei confronti della Libia, sì da permettere al governo centrale di stabilire il proprio controllo sull'intero paese; nonché con l'incontro al Cairo tra il maresciallo Tantawi e il capo di Stato maggiore libico el-Mankush per colloqui sulla sicurezza delle frontiere orientali libiche.

Il 17 marzo è stato arrestato in Mauritania Abdallah Senussi, detto il macellaio libico, capo dell’intelligence libica sotto Gheddafi, ricercato dalla CPI per crimini contro l’umanità durante la rivolta del 2011, ma implicato anche in passato in molteplici episodi di terrorismo con centinaia di vittime. Il 26 marzo sono ripresi gravissimi scontri tribali nella parte meridionale del paese, con 150 morti e 400 feriti: il 31 marzo il capo del governo di transizione al-Keb ha annunciato il raggiungimento di un accordo per porre fine agli scontri.

L’8 maggio la ricorrente instabilità della Libia è stata confermata da decine di miliziani provenienti dalla città di Yafran, che hanno assalito la sede del governo libico a Tripoli, reclamando i compensi loro dovuti in quanto combattenti contro il regime di Gheddafi – compensi la cui corresponsione era stata in effetti iniziata dalle nuove autorità, ma poi sospesa per presunte irregolarità.

Alla metà di maggio Abdel Hakim Belhaj, capo del Consiglio militare di Tripoli e uno dei principali protagonisti della rivoluzione contro Gheddafi, si è dimesso dalla carica e ha annunciato il proprio ingresso a tutti gli effetti nella vita politica. Storico oppositore armato del regime libico, Belhaj è stato in contatto con gruppi islamici radicali sin da quando si schierò a fianco mujaheddin afghani contro l’invasione sovietica. Dopo l’11 settembre 2001 è stato accusato di rapporti con al Qaida e detenuto nel campo di Guantanamo, per essere poi consegnato al regime libico, che lo graziò nel 2010. Attualmente dietro Belhaj e i suoi sodali islamisti integrali vi sarebbe il forte sostegno del Qatar.

L’imminenza delle elezioni per l’Assemblea costituente, che avrebbero dovuto svolgersi il 19 giugno, ha scatenato in Libia violenze e rivendicazioni senza precedenti dalla caduta di Gheddafi. Il 4 giugno una milizia di Tarhuna, con il pretesto del rilascio di uno dei suoi leader apparentemente scomparso la notte precedente, ha preso d’assalto l’aeroporto internazionale di Tripoli, facendo uso anche di mezzi blindati. La situazione è poi tornata normale grazie all’intervento della milizia di Zintan, che svolgeva una sorta di funzione informale di polizia nella capitale. Come previsto, poi, nella stessa giornata è stato ufficializzato il rinvio delle elezioni per l’Assemblea costituente, che sono state poi fissate al 7 luglio, rinvio giustificato anche da problemi procedurali, per l’impossibilità delle autorità di scrutinare adeguatamente le candidature (oltre 4000) per i 200 seggi a disposizione.

Il 5 giugno esponenti della fronda di Bengasi, che aveva nei mesi precedenti dato vita al Consiglio della Cirenaica contro Tripoli, hanno richiesto di modificare a loro favore la ripartizione dei seggi dell’Assemblea costituente, richiedendone 60, e hanno intanto messo in atto un blocco delle merci in provenienza dalla capitale, minacciando anche di estendere l’embargo alla circolazione di mezzi privati. Gli esponenti della Cirenaica rivendicano inoltre, ed è forse ancor più rilevante, il diritto di decidere sugli impieghi dei proventi collegati all’export di petrolio, abbondante nella Libia orientale.

Il terzo fronte di preoccupazione si è aperto alla stessa giornata del 5 giugno, con l’esplosione di un ordigno lungo il muro di cinta dell’ufficio di rappresentanza americano a Bengasi: a rivendicare è stato un gruppo ispirato alla prigionia dello sceicco cieco Omar Abdel-Rahman, che sta scontando l’ergastolo negli Stati Uniti per aver ideato una serie di attacchi terroristici - è considerato tra l’altro la mente dell’attentato del 1993 contro il World Trade Center -, nonché il tentato assassinio di Mubarak. L’attentato è stato ricollegato più in generale all’azione di al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI), che infatti molti esperti prevedevano avrebbe potuto dispiegarsi liberamente proprio dopo la rimozione di Gheddafi e il successivo caos nella situazione di sicurezza.

Il 7 giugno si è verificato il secondo sequestro di motopesca italiani da parte delle nuove autorità libiche, dopo quello del novembre 2011: infatti tre imbarcazioni della flotta di Mazara del Vallo sono state dirottate nel porto di Bengasi  mentre si trovavano nel braccio di mare antistante alla città libica. Il fronte dei rapporti tra l'Italia e la nuova Libia è stato agitato nel mese di giugno anche in relazione alla questione dell'accordo sull'immigrazione che il Ministro dell’interno Annamaria Cancellieri ha firmato il 3 aprile nella sua visita a Tripoli, e che continuerebbe ad includere la clausola del respingimento in mare già applicata dal precedente governo suscitando numerose polemiche e la condanna, lo scorso febbraio, da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. In particolare, la disposizione sui respingimenti è stata criticata in quanto non permetterebbe di distinguere tra immigrati clandestini con motivazioni di tipo economico e immigrati da zone del mondo che danno diritto a chi ne proviene al riconoscimento dello status di rifugiato. La rinnovata polemica è iniziata a seguito di un rapporto di Amnesty International del 15 giugno che denunciava l'accordo del nuovo governo italiano con le autorità libiche per la riammissione in quel paese di immigrati irregolari intercettati in mare. Il 20 giugno, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, il delegato dell'Alto commissariato ONU per i rifugiati nell'Europa meridionale, Laurens Jolles, ha nuovamente criticato l'Italia per non aver tenuto conto, negli accordi con la nuova Libia, della necessità di clausole di salvaguardia a protezione dei potenziali rifugiati. In entrambi i casi la reazione del governo italiano è stato decisa, nel senso di negare ogni continuità con la pratica precedente dei respingimenti in mare, e di affermare la piena conformità di quanto stipulato con Tripoli alle convenzioni internazionali e al rispetto dei diritti umani: ciò è stato fatto tanto dal Ministro per la cooperazione internazionale Andrea Riccardi, quanto dal Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi.

Va peraltro ricordato che Bengasi si confermava centro di particolare pericolosità soprattutto nei riguardi di esponenti occidentali: negli ultimi mesi sono stati quattro gli agguati contro missioni internazionali, due dei quali il 6 giugno contro la rappresentanza USA nella città e l’11 giugno contro un convoglio diplomatico britannico che aveva a bordo l’ambasciatore Asquith, rimasto illeso, mentre due guardie del corpo hanno riportato ferite.

Il 24 giugno le autorità libiche hanno ottenuto il rimpatrio di Baghdadi el-Mahmudi, ex premier sotto Gheddafi, che era fuggito in Tunisia: la decisione di estradare Mahmudi ha aperto un grave conflitto istituzionale proprio a Tunisi tra il premier Djebali – islamico moderato – e il Presidente laico Moncef Marzouki, fortemente contrario per le scarse garanzia di equità giudiziaria e di incolumità che la Libia offrirebbe a Mahmudi.

Il 7 luglio si sono finalmente potute svolgere le elezioni per l'Assemblea costituente, precedute da grande preoccupazione per la situazione di caos e di mancanza di sicurezza nel paese. Ciò nonostante, malgrado sporadici problemi soprattutto nella parte orientale della Libia - nella serata del 7 luglio vi è stata una vittima della città di Ajdabiya - il voto si è svolto complessivamente in un clima di condivisione da parte della popolazione, e si è potuto votare nel 98% dei seggi, registrando una buona affluenza, pari al 62% degli aventi diritto. I primi dati hanno evidenziato un vantaggio della coalizione moderata di 40 formazioni politiche di liberali ed indipendenti guidata dall'ex premier del Consiglio nazionale di transizione Mahmud Jibril, che nei risultati preliminari diramati il 18 luglio si è confermato, con l’attribuzione alla coalizione di Jibril di 39 seggi sugli 80 destinati ai partiti – 120 seggi sono invece da attribuire a candidati indipendenti -, mentre il partito Giustizia e Ricostruzione, vicino ai Fratelli musulmani, ne avrebbe conquistati 17. Il carattere non tradizionale del voto libico è rafforzato dal sorprendente numero di donne elette nel primo gruppo, ben 33, ovvero più del 15% del totale dei componenti l’Assemblea Costituente.

Nella tarda serata dell'8 agosto 2012, con una cerimonia di alto valore simbolico alla quale hanno presenziato rappresentanti delle missioni diplomatiche straniere in Libia, oltre ai componenti del Cnt (Consiglio nazionale di transizione), del governo e di diversi partiti politici, si è consumato il passaggio di poteri dal Consiglio nazionale di transizione al Congresso nazionale libico uscito dalle elezioni del 7 luglio. Il Congresso dovrà nell'immediato scegliere un nuovo governo, e successivamente redigere la nuova Costituzione sulla base della quale si terranno poi elezioni legislative vere e proprie. Il presidente del Cnt Mustafa Jalil ha sottolineato – come ha fatto anche il nostro Ministro degli Esteri Giulio Terzi – il carattere storico del momento istituzionale vissuto dalla Libia, ma non ha nascosto il ritardo con cui sotto la sua presidenza il paese ha affrontato nodi tuttora difficili, come quello della sicurezza o quello del disarmo, in considerazione dell’imponente arsenale ereditato dal regime di Gheddafi.

Il 10 agosto si è proceduto alla nomina del presidente del Congresso nazionale libico, nella persona di Mohammed Magarief, di tendenza islamica moderata, il quale, dopo aver rivestito cariche di rilievo nel regime di Gheddafi, già nel 1980 se ne distaccava, dimettendosi dalla carica di ambasciatore in India e dando vita a una formazione politica di fuoriusciti libici denominata Fronte di salvezza nazionale libico.

Nonostante questi positivi sviluppi istituzionali, la situazione della sicurezza in Libia si è mantenuta piuttosto critica: dopo la bomba che il 3 agosto aveva causato un ferito nel centro di Tripoli, il 16 agosto vi è stata un’esplosione in prossimità del quartiere generale dei servizi segreti militari di Bengasi. Il 19 agosto l'ultimo giorno del Ramadan nella capitale è stato funestato dall'esplosione dapprima di un'autobomba vicino agli uffici del ministero dell'interno, che non ha provocato vittime, e subito dopo dallo scoppio di altre due auto imbottire di esplosivo nei pressi dell'ex quartier generale dell'accademia di polizia femminile, con a morte di due giovani automobilisti in transito al momento dell'attentato, e il ferimento di diverse persone. Quest'ultimo attentato è stato attribuito dal responsabile della sicurezza libico all'opera di sostenitori del passato regime. Il 20 agosto a Bengasi saltava in aria – per fortuna senza vittime - l’auto di un diplomatico egiziano: nelle stesse ore a Tripoli venivano arrestate 32 persone, ritenute legate al passato regime, in relazione agli attentati del giorno precedente. Il 2 settembre a Bengasi una bomba a bordo di un’auto, fatta esplodere a distanza, ha ucciso un colonnello dell’intelligence libica già in vista al tempo di Gheddafi, ferendo un altro militare che si trovava anch’egli a bordo dell’automobile.

 

 

Tunisia

In Tunisia il 23 ottobre si sono tenute le previste elezioni per l’Assemblea costituente: il panorama politico in vista dell’importante appuntamento elettorale, con l’eccezione del partito di orientamento islamico Ennahdha, modello di compattezza e organizzazione, si presentava caratterizzato da estrema frammentazione, con 116 partiti ufficialmente riconosciuti, 1.659 liste elettorali e 11.686 candidati. Delle liste elettorali, 828 erano state presentate da partiti, 655 da indipendenti e 34 da coalizioni. La consultazione, riconosciuta anche dagli osservatori come sostanzialmente corretta e svoltasi pacificamente, ha visto l’affluenza alle urne di quasi il 70% degli aventi diritto. Man mano che i risultati affluivano, si concretizzava la prevista vittoria di Ennahdha, che ha avuto più del 40% dei consensi, conquistando 90 dei 217 seggi dell’Assemblea costituente. La portata dell’affermazione del partito islamico si comprende appieno se si pensa che il secondo partito, il Congresso per la Repubblica di Marzouk, ha ottenuto solo 30 seggi. La formazione del governo è stata prevista dal leader storico di Ennahdha, Gannouchi, in tempi molto brevi, pur nella necessità per il suo partito di fare ricorso ad alleati per una compagine di coalizione, ma ciò che Gannouchi ha ritenuto più urgente è stato rassicurare alcuni ambienti avanzati dell’economia e della società tunisina sull’impatto dell’arrivo alla direzione del paese del partito islamico, che è stato presentato come moderato.

Mentre nel paese sono sembrati rafforzarsi gli elementi più integralisti, lanciati alla conquista delle principali moschee, ma anche impegnati in una serrata azione nelle università – che non ha mancato di destare reazioni di docenti e studenti -; il 19 novembre è stato raggiunto un accordo istituzionale tra le tre forze politiche uscite vincitrici dalle recenti elezioni per l’Assemblea costituente, per la ripartizione delle principali cariche. In base all’intesa, il partito islamico Ennahdha, unico vero trionfatore della consultazione, si è visto attribuire il premier nella persona del numero due Hamadi Jemali. A Moncef Marzouki, capo del partito di centro-sinistra Congresso per la Repubblica è andata la carica di Capo dello Stato, mentre il leader del partito di sinistra Ettakatol, Mustafa ben Jamar, è divenuto presidente dell’Assemblea costituente. L’accordo ha visto un compromesso istituzionale tra forze islamiche e forze sinora intransigentemente laiche, ed è apparso ispirato da un forte pragmatismo.

La Tunisia è tornata di interesse per il nostro paese in occasione della visita a Roma (15 marzo 2012) del primo ministro tunisino Jebali, durante la quale ha incontrato il proprio omologo, il sen. Mario Monti, nonché il Capo dello Stato Napolitano ed il Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini. A breve giro ha fatto seguito la visita del Ministro dell'interno Cancellieri a Tunisi del 22 marzo, nel corso della quale ha incontrato il Ministro degli esteri tunisino e il proprio omologo nel paese arabo: al centro dei colloqui sono stati soprattutto i timori di una ripresa delle partenze di immigrati clandestini verso il territorio italiano, fenomeno paventato con il ritorno della buona stagione. La parte tunisina ha confermato gli impegni presi nell'aprile 2011 di evitare esodi via mare dalle proprie coste, a fronte di un impegno dell'Italia a fornire collaborazione in specifici settori - in particolare da parte tunisina sono stati chiesti aiuti nel settore della protezione civile, in termini di mezzi e di formazione del personale.

Il 23 marzo, l'onda di piena islamista è sembrata arrestarsi, quando è sostanzialmente fallito un raduno alla Kasbah di Tunisi dedicato alla volontà di far prevalere la legge coranica su quella civile, ponendo la Shaaria a fondamento della futura Costituzione tunisina. Un’ulteriore frenata alle istanze islamico-radicali è stata imposta dallo stesso partito maggioritario Ennahdha e dal suo leader Gannouchi, con la decisione di confermare la formulazione vigente dell’art. 1 della Costituzione, escludendo quindi di porre la legge coranica alla base di essa.

La tensione tra le autorità di governo – ispirate all’islamismo moderato di Ennahdha – e le correnti islamiche più fondamentaliste è proseguita il 23 e 24 aprile, quando il Ministero dell’interno è stato infine costretto a intervenire contro l’asfissiante assedio portato avanti da un mese e mezzo dagli estremisti islamici nei confronti dell’edificio e del personale della televisione di Stato tunisina, accusata di essere una roccaforte della tradizionale cultura laica del Paese: si è giunti a proibire sine die qualunque manifestazione nello spazio antistante all’edificio della televisione.

Significativa vittoria islamista è stata però alla metà di maggio la restituzione dello status di luogo di insegnamento alla Moschea di Zitouna, del quale l’istituzione era stata privata dal governo laico della Tunisia postcololoniale di Burghiba. Negli stessi giorni era a Tunisi il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, che il 17 maggio ha tenuto un discorso innanzi all’Assemblea costituente tunisina: il Presidente italiano  ha tenuto a sottolineare il carattere esemplare della Tunisia per l’intero processo di cambiamento in atto nei paesi del Nordafrica, in un equilibrio tra fede religiosa e istituzioni che l’Italia intende doverosamente aiutare a mantenere, nella fiducia che il paese saprà intraprendere una rinnovata strada di sviluppo avvalendosi anche del proprio qualificato capitale umano.

Il 23 maggio la procura militare del Kef ha richiesto la pena capitale nel procedimento contro l'ex dittatore tunisino Ben Alì per la repressione delle sollevazioni popolari all’inizio del 2011, giudicando la sua responsabilità perfino superiore a quella di chi direttamente mise in atto la repressione nelle prime fasi della rivolta tunisina: infatti, nei confronti degli altri 22 imputati, la procura militare si è limitata a richiedere genericamente l'applicazione di pene massime, e ciò ha costituito per la difesa di Ben Alì motivo di opposizione alla richiesta di condanna a morte, che colpirebbe un semplice associato ai fatti in causa, mentre ne sarebbero esenti i diretti responsabili. Va peraltro ricordato che Ben Alì, con la moglie Leila Trabelsi e il più piccolo dei figli, si trova dal 14 gennaio 2011 in Arabia Saudita, ove né i cdecenni di condanne finora ricevute per ruberie e malversazioni, né tantomeno l'eventuale condanna a morte potrebbero raggiungerlo.

I giorni successivi hanno visto un ulteriore peggioramento del clima civile della Tunisia, ove le manifestazioni di prepotenza dei salafiti sono sembrati moltiplicarsi senza un'adeguata risposta da parte delle autorità, e ciò cominciava con evidenza a suscitare malumori anche nelle forze di polizia, espressi dal loro sindacato maggioritario, che ha richiesto al governo di poter finalmente agire in modo efficace per assolvere i compiti che il quadro istituzionale del paese assegna alla polizia. Vi sono stati inoltre segnali non meno preoccupanti di insofferenza anche da parte di forze laiche, ovvero musulmane, ma ispirate al principio della separazione tra fede e Stato, che non sopportavano più l'arroganza aggressiva degli integralisti islamici. Il vero nodo, però, sta proprio nel governo islamico moderato di Ennahdha, che è sembrato quasi paralizzato tra le opposte esigenze dell’affermazione della legalità e la scarsa volontà di colpire il movimento salafita, con cui evidentemente le radici comuni non sono poi tanto secondarie, e nonostante tale movimento critichi aspramente l’islamismo di governo per il suo carattere moderato. Del resto, tale carattere moderato resta ancora l'incognita che gli ambienti internazionali non riescono a mettere a fuoco in ordine alla politica interna tunisina, se è vero che il 30 maggio si è giunti addirittura a temere un assedio di attivisti del partito di governo contro la sede della più forte centrale sindacale tunisina, l’Ugtt, accusata di mettere in difficoltà l'esecutivo con le sue richieste nell'ambito del rinnovo dei contratti nazionali di varie categorie di lavoratori.

In tutto ciò, l'ambiguità del partito di governo non è sembrata certamente sciogliersi quando il 28 maggio è stata autorizzata ufficialmente l'attività politica del partito Hezb Ettahir, espressione politica dei salafiti: se è vero che questa apertura potrebbe favorire una progressiva istituzionalizzazione del movimento salafita - e ciò potrebbe credibilmente essere nei piani dell'élite direttiva di Ennahdha -, è altrettanto vero che da parte dei salafiti potrebbe aversi buon gioco a presentare questo successo come un segnale di debolezza della compagine istituzionale, e un volano per un rinnovato slancio verso la conquista del potere in Tunisia, o quantomeno l’imposizione di elevati livelli di osservanza della legge coranica a tutto il paese.

Dopo che il 23 maggio la procura militare del Kef aveva richiesto la pena capitale nel procedimento contro l'ex dittatore tunisino Ben Alì per la repressione delle sollevazioni popolari all’inizio del 2011, il 13 giugno Ben Alì ha subito due ulteriori condanne, la prima a venti anni di carcere e la seconda all’ergastolo.

Intanto i salafiti hanno perpetrato i massicci attacchi partiti l’11 giugno dal quartiere della Marsa (periferia della capitale), inizialmente diretti contro una galleria d’arte che esponeva opere giudicate immorali dagli integralisti, e successivamente estesi anche ad altre città della Tunisia. Dopo un’iniziale incertezza, le forze di polizia – che hanno registrato nei loro ranghi 65 feriti – si sono mosse, arrestando oltre 160 manifestanti, ed il 12 giugno è stato imposto il coprifuoco nella capitale e in altri sei governatorati, la misura più grave adottata dalla caduta di Ben Ali. Poiché i salafiti avevano fissato per il venerdì di preghiera (15 giugno) la data di una grande mobilitazione, le forze di sicurezza guidate dal Ministero dell’interno,  in cooperazione con le Forze armate, hanno provveduto ad un massiccio presidio del territorio per il rispetto del divieto di manifestazione, e di fatto le previste dimostrazioni non hanno avuto luogo – va rilevato come solo da poche ore fosse in vigore una normativa più estensiva per l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, tale da permetterne l’uso nei casi di pericolo per ciascun agente o propri colleghi, ma più in generale per scongiurare attacchi contro le istituzioni; si tratta evidentemente di una risposta ai malumori espressi nei giorni precedenti dalla polizia per l’impossibilità di intervenire efficacemente contro le manifestazioni salafite.

Alla metà di luglio si è svolto il nono congresso del partito Ennahdha – il primo in condizioni di legalità -, dominante nel governo tunisino, al termine del quale il leader incontrastato Gannouchi si è visto rieleggere con il 72% dei voti: se non vi è stato a suo favore un plebiscito, certamente la sua leadership è rimasta incontrastata. Ciò che più importa, tuttavia, è che nel corso del congresso Gannouchi ha affrontato di petto le difficoltà emerse nelle ultime settimane nel governo del paese, annunciando un prossimo rimpasto della compagine governativa, la cui azione, anche per l'inesperienza del personale politico di Ennahdha, denuncia molteplici défaillances. In tal senso, l'obiettivo di Ghannouci sembra essere proprio il premier Djebali, che non ha saputo far fronte neanche all'ondata di grande caldo che ha colpito il paese. La prospettiva più probabile nell'immediato è quella di un massiccio ingresso, magari in posizione defilata, di uno stuolo di tecnocrati nel governo tunisino, con lo scopo principale di migliorare i rapporti tra il governo e gli ambienti economici, da più punti di vista allarmati per le prese di posizione delle ultime settimane di diversi esponenti dell'esecutivo.

Egitto

Mentre si avvicinava l'importantissima scadenza delle elezioni legislative a partire dal 28 novembre 2011, il dibattito politico si è incentrato in Egitto sulle conseguenze del giro di vite sulla sicurezza messo in atto dai vertici militari, detentori sostanziali del potere, che avevano disposto l'applicazione della legge di emergenza dopo i gravi disordini che il 9 ottobre avevano provocato la morte di 26 manifestanti copti in prossimità della sede della televisione di Stato egiziana. Proprio in relazione a questi avvenimenti veniva arrestato un noto attivista egiziano, Abdel Fattah, protagonista anche della mobilitazione su Internet: nei suoi confronti sono state elevate accuse di incitamento in relazione ai disordini del 9 ottobre, come anche di uso personale di armi e di avere tentato violenze contro un reparto militare. Il giovane attivista tuttavia ha abilmente saputo attirare l'attenzione sulla questione centrale collegata alla legge di emergenza - risalente all’assassinio di Sadat nel 1979, e della quale il movimento di Piazza Tahrir chiedeva da tempo l’abolizione -, ovvero la sottoposizione di civili al giudizio di tribunali militari, alle cui domande egli si è rifiutato di rispondere, ricevendo al proposito anche la solidarietà di due candidati alla Presidenza, ovvero el-Baradei e Sabahi. L'asprezza del dibattito è stata inoltre alimentata anche da iniziative di sciopero della fame e della sete nelle carceri da parte di manifestanti arrestati, come anche dalla morte di Essam Atta, un ventiquattrenne detenuto il cui decesso sarebbe stato provocato dalle torture susseguenti a un tentativo di attivare il suo cellulare dall'interno dell'istituto di pena.

Anche i copti, che l’11 novembre hanno manifestato nella capitale per commemorare i morti del 9 ottobre, hanno mostrato una forte diffidenza nei confronti delle forze armate, le quali, pur avendo imposto una stretta sulla sicurezza proprio dopo il massacro dei copti, da molti tra questi ne sono state ritenute dirette responsabili, e dunque scarsamente credibili nell'accertamento della verità.

Ormai nell’imminenza del primo turno delle elezioni legislative, è letteralmente esploso il contrasto tra le forze che hanno animato la rivoluzione contro Mubarak e i militari, temporanei custodi della sovranità del paese: inoltre ha destato forte opposizione un progetto di riforma costituzionale volto ad abolire i controlli del Parlamento sui bilanci e le attività delle forze armate egiziane, che si sono dette pronte a modificarlo solo parzialmente. Su questo sfondo il 19 novembre sono iniziati scontri in Piazza Tahrir, successivamente estesi anche ad altre località, come Suez, che sono proseguiti con alterne fasi, e il cui bilancio ammontava già il 21 novembre a una quarantina di vittime e diverse centinaia di feriti. Nella stessa giornata si avevano pertanto le dimissioni di Essam Sharaf, e il 24 novembre, dopo un'altra giornata di gravi disordini con nuove vittime, i militari affidavano all'ex primo ministro di Mubarak, Kemal al-Ganzuri, l’incarico di dare vita ad un nuovo governo. Cionondimeno la mobilitazione della Piazza Tahrir è proseguita, anche se le violenze si sono progressivamente attenuate in vista dell'appuntamento del primo turno delle elezioni parlamentari per la Camera Bassa (Assemblea del Popolo) confermato per il 28 novembre, e al quale, come già accaduto per esempio in Tunisia, si è presentata una variegata galassia di ben 55 formazioni politiche.

Dopo un lungo scrutinio sono finalmente stati resi noti (4 dicembre) i risultati del primo dei tre turni delle elezioni legislative, concernente un terzo dei governatorati del paese: il successo è andato, anche oltre le aspettative, ai due partiti islamici maggiori, l’espressione politica dei Fratelli musulmani, il partito Giustizia e Libertà (oltre il 36% dei voti), e la coalizione fondamentalista islamica (salafita) al-Nour (più del 24% dei suffragi). Poco seguito hanno avuto le liste della principale coalizione liberale, il Blocco egiziano (13,5%), come anche quelle degli islamici progressisti del Wasat (4,2%).

Il 7 dicembre ha visto la luce il governo di al-Ganzuri.

Il 16 dicembre si è completato lo svolgimento del secondo dei tre turni delle elezioni legislative, con un’affluenza di circa il 68% degli aventi diritto: secondo i due principali partiti islamici anche questo turno elettorale avrebbe marcato una loro netta affermazione. Frattanto però la violenza si è riaccesa nel centro del Cairo, con pesanti scontri tra forze di sicurezza e manifestanti in prossimità dei palazzi del Parlamento e del Governo: il bilancio, tra il 16 e il 17 dicembre, è stato di una decina di morti e ben oltre duecento feriti. Il nodo del potere reale nelle mani dell’esercito restava centrale nelle motivazioni dei manifestanti, e sembra relativamente indipendente dallo svolgimento regolare del programma elettorale previsto.

Il 4 gennaio 2012 si è completato lo svolgimento dei tre turni delle elezioni legislative, con un’affluenza diminuita rispetto ai due turni precedenti. In attesa dei risultati elettorali complessivi è tornata in primo piano la questione della sorte dell’ex rais Hosni Mubarak, nel cui processo, in corso al Cairo, il 5 gennaio è stata chiesta dall’accusa la pena capitale, da comminare anche all’ex ministro dell’interno el-Adli e a sei suoi collaboratori: la condanna a morte è stata chiesta in relazione all’ordine di uccidere i manifestanti che sarebbe partito proprio da Mubarak nei primi giorni della contestazione di fine gennaio 2011.

Il 14 gennaio uno dei principali candidati alle elezioni presidenziali del 2012, l'ex capo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e premio Nobel per la pace Mohammed el Baradei, liberale, ha annunciato il proprio ritiro dalla corsa presidenziale.

Il 19 gennaio il Ministro degli Esteri Giulio Terzi, in visita al Cairo, ha recato il pieno sostegno del nostro paese alla transizione democratica in corso in Egitto, ribadendo l’importanza dei legami culturali ed economici tra i due paesi. Il ministro Terzi ha incontrato tutti i vertici politici e religiosi egiziani, e ha tenuto a caldeggiare con rinnovato vigore la necessità del rispetto del pluralismo e delle minoranze sul terreno religioso.

Pur se non del tutto completi, i dati della complessa tornata elettorale per la Camera bassa egiziana hanno confermato nella quota proporzionale (332 seggi) la grande vittoria dei partiti islamisti, che hanno totalizzato circa tre quarti dei seggi, ovvero 127 ai Fratelli musulmani, 96 ai salafiti del Nour e 10 al Wasat. Sui circa trenta partiti presentatisi alla consultazione sono stati quindi tredici quelli che hanno ottenuto seggi: tra questi, assai lontani dai partiti islamici, i moderati e i liberali del Wafd e del Blocco egiziano, rispettivamente con 36 e 33 seggi. Anche la galassia di piccole formazioni politiche riconducibili al disciolto Partito nazionale democratico di Mubarak ha portato in Parlamento una quindicina di rappresentanti.

Dopo la sorpresa dei vertici militari, che hanno proceduto a graziare circa duemila detenuti già giudicati della giustizia militare, tra i quali il blogger e attivista copto Nabil; il 23 gennaio vi è stata la seduta inaugurale del Parlamento, che con maggioranza schiacciante ha eletto come proprio presidente Mohammed el-Katatni, appartenente ai Fratelli musulmani.

I segnali di miglioramento del clima politico egiziano, soprattutto in ordine al persistente ruolo di garanzia politica delle forze armate, sono stati subito smentiti il 1º febbraio quando lo stadio di Porto Said è stato teatro di un gravissimo episodio di violenza: i sostenitori della squadra locale, che pure aveva riportato un inatteso successo contro la squadra cairota della el Ahly, hanno invaso in massa il campo e scatenato una caccia all'uomo nei confronti dei tifosi ospiti, alla fine della quale si contavano 73 morti e circa 1000 feriti. Con il passare dei giorni la vicenda ha rivelato nuovi contorni, in quanto l'azione dei supporter di casa sarebbe stata favorita da una sostanziale inerzia delle forze dell'ordine, pure presenti allo stadio, che ha condotto i recenti vincitori delle elezioni legislative, i Fratelli Musulmani, a formulare accuse ai sostenitori del passato regime di aver consumato nello stadio di porto Said una vendetta pianificata. D'altra parte, va ricordato che gli ultras della el Ahly, seppure con motivazioni distanti da quelle politiche, avevano tuttavia partecipato sin dall'inizio ai moti di Piazza Tahrir, mettendo la propria forza organizzata al servizio dei manifestanti, soprattutto per una consolidata ostilità contro le forze di sicurezza del regime di Mubarak. Il ruolo delle forze di sicurezza nella vicenda è divenuto presto il fulcro di una polemica politica che ha visto parzialmente ridisegnarsi gli equilibri di potere, con la messa in difficoltà del tacito patto tra il Consiglio militare i Fratelli Musulmani. D'altra parte, gli ambienti della contestazione di piazza hanno accusato le forze armate di aver architettato un piano di scatenamento di tensioni per terrorizzare il paese e, mediante la richiesta di una stretta sulla sicurezza, nuovamente legittimarsi alla direzione di esso. Nell'immediato, la federazione calcistica egiziana ha sospeso qualunque partita sine die, mentre il 2 febbraio si è riunito il Parlamento in seduta d'urgenza, e ciò non avveniva  da circa quaranta anni, mentre le strade e le piazze circostanti si riempivano progressivamente di manifestanti che urlavano slogan contro le forze armate. Dopo le prime misure contro le autorità di Porto Said e i vertici della federazione calcistica egiziana, la seduta parlamentare ha visto convergere le forze politiche sulla richiesta di dimissioni del ministro dell'interno Ibrahim e sull'inizio di un’indagine parlamentare sui fatti. Divisioni sono tuttavia emerse in merito all'attribuzione delle responsabilità ai militari, rispetto ai quali sia il partito espressione dei Fratelli Musulmani che quello salafita hanno evitato ogni accenno, mentre le forze armate sono state apertamente attaccate dalle forze laiche e liberali, come anche dai pochi deputati espressi dal movimento di piazza. La rapida evoluzione della situazione ha però fatto sì che il 3 febbraio, mentre progressivamente si addensavano intorno ai palazzi istituzionali scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, con i primi morti, la Guida suprema dei Fratelli musulmani Mohamed Badie abbia attaccato in modo durissimo il potere militare, sostenendo che ufficiali conniventi con il vecchio regime hanno voluto punire il popolo e la sua rivoluzione. Badie ha proseguito richiedendo immediati provvedimenti di ristrutturazione del ministero dell'interno, come anche di dare soddisfazione alla piazza eliminando ogni privilegio nella detenzione degli esponenti del vecchio regime, e in particolare trasferendo Mubarak nell'ospedale del carcere.

Sulla scorta della maturazione di queste posizioni, il 6 febbraio la Commissione elettorale egiziana ha annunciato l'anticipo di un mese, rispetto a quanto previsto dal Consiglio militare, della data fissata per la presentazione delle candidature per le elezioni presidenziali, suscettibile di aprire la strada ad un anticipo della stessa consultazione.

In ogni modo, l'11 febbraio ha visto un grave insuccesso della giornata di disobbedienza civile proclamata da movimenti e attivisti egiziani, con l’unica eccezione della massiccia adesione di studenti e università. Il fallimento dell'iniziativa è dipeso soprattutto dal boicottaggio di essa da parte dei movimenti islamisti, tanto quello dei Fratelli Musulmani quanto quello dei salafiti, ma anche i copti non hanno aderito all'appello alla disobbedienza civile.

Comunque, un certo indebolimento della tacita intesa tra i Fratelli musulmani, detentori della maggioranza parlamentare, e l’elemento militare è stato confermato dall’episodio delle accuse contro esponenti di Organizzazioni non governative egiziane e straniere che aveva creato tensione con gli Stati Uniti, dopo il fermo al Cairo di sei cittadini americani – tra i quali il figlio del segretario federale ai trasporti Ray Lahood – che avevano partecipato per conto di tre Organizzazioni non governative americane USA al monitoraggio delle elezioni legislative e ad altre attività di carattere politico. Gli Stati Uniti avevano minacciato di non erogare più all’Egitto il cospicuo contributo militare, che supera il miliardo di dollari. Cionondimeno, i cittadini americani interessati, nel frattempo divenuti diciannove, erano stati rinviati a giudizio il 5 febbraio, con l'accusa di aver creato e gestito senza autorizzazione proprie sedi in Egitto, dando vita inoltre a programmi di formazione politica rivolti ad alcuni partiti nazionali – accuse che comportano una pena intorno ai cinque anni di reclusione. Successivamente tuttavia, il 29 febbraio, la vicenda veniva chiusa revocando il divieto per gli accusati di lasciare il territorio egiziano, ma proprio tale decisione, preceduta dalle dimissioni in blocco dei giudici del procedimento, scatenava durissime polemiche per la presunta ingerenza americana negli affari giudiziari dell’Egitto, che sarebbe stata favorita proprio dal governo e dai militari, storicamente legati agli USA e dipendenti dai loro finanziamenti. In questo clima il Parlamento egiziano convocava per l’11 marzo il premier e i ministri interessati a rispondere dell’intera vicenda. Lo stesso speaker del Parlamento el-Katatni definiva le pressioni sulla magistratura come inaccettabili.

Sul piano della transizione istituzionale va ricordato che il 29 febbraio il presidente della Commissione elettorale presidenziale ha diffuso l'annuncio dello svolgimento delle elezioni presidenziali il 23 e 24 maggio, con eventuale ballottaggio alla metà di giugno. La decisione di fissare la data delle presidenziali è rilevante anche perché essa ha comportato l'inizio del processo per la formazione dell'Assemblea costituente, la scelta dei cui componenti è demandata ai due rami del Parlamento in seduta congiunta.

Va rimarcato come in questa fase, che vedeva già delinearsi con chiarezza le candidature dell'ex Segretario generale della Lega araba Amr Mussa, del fuoriuscito dalla Fratellanza musulmana Abdel Fotuh (islamista moderato), del salafita Hazem Ismail, ma anche dell'esponente del vecchio regime Ahmad Shafik (premier negli ultimi giorni del regime di Mubarak); i Fratelli musulmani sembravano persistere nella decisione di non presentare un loro candidato, onde rassicurare gli ambienti internazionali sulla volontà di mantenere una dialettica aperta nel panorama politico istituzionale egiziano, senza occupare tutti gli spazi a disposizione.

Un altro episodio del confronto tra maggioranza parlamentare e governo si è avuto il 13 marzo quando il Parlamento, contraddicendo clamorosamente l’azione moderatrice che nelle stesse ore il governo esercitava nei confronti del riaccendersi delle tensioni tra Israele e la Striscia di Gaza; approvava all’unanimità un documento volto a una riduzione drastica del livello delle relazioni con Israele, fino a rimettere in discussione persino il Trattato di Camp David del 1979. La presa di posizione parlamentare - che metterebbe a rischio in una situazione economica assai difficile anche i due miliardi di dollari annui che l’Egitto riceve da Washington, e perciò non è stata presa troppo sul serio a livello internazionale – è sembrata una replica all’atteggiamento dell’Esecutivo di rifiutare ogni sindacato parlamentare sulla propria azione, negando altresì ai deputati il potere di sfiducia verso il governo.

Il 17 marzo è morto il papa copto Shenuda III, da tempo malato, aprendo al suo successore lo scenario di un più difficile rapporto con i vertici del potere egiziano, che sempre più si presume apparterranno all’islamismo, nel contesto delle divisioni emerse nella comunità copta in ordine alle reazioni dopo gli attacchi di cui è stata oggetto.

Alla fine di marzo anche l’Assemblea costituente – boicottata dalla minoranza laica e liberale - ha avuto un presidente islamista, ancora una volta nella persona del presidente del Parlamento Mohammed el-Katatni: anche l’elezione di questi rifletterebbe il persistente conflitto dei Fratelli musulmani con le forze armate. Inoltre, la disputa riguarderebbe anche la speciale autonomia costituzionale che i militari, titolari come in Iran di numerose attività economiche e industriali, non intendono perdere, mentre è duramente contestata dalla Fratellanza musulmana.

La stessa candidatura – seppur decisa con gravi contrasti – dell’esponente dei Fratelli musulmani el-Shater alle elezioni presidenziali di maggio, annunciata  il 1° aprile, e che smentiva il precedente proposito di non correre direttamente per le presidenziali per rassicurare gli ambienti internazionali, è sembrata inquadrarsi nella volontà di contrastare le candidature, legate ai militari e al passato regime, di Omar Suleiman – ex capo dell’intelligence sotto Mubarak - e Ahmed Shafik.

Va poi ricordata la visita in Egitto del Presidente del Consiglio Mario Monti (10 aprile), che non ha nascosto le difficoltà e le incertezze del processo di transizione in atto al Cairo, verso il quale peraltro l’Italia desidera porsi come punto essenziale di riferimento verso l’Occidente. Ricordato che il nostro Paese ha mantenuto in Egitto una consistente presenza economica pur frammezzo ai rischi della rivoluzione, il Presidente del Consiglio ha posto per la transizione i paletti dell’approdo necessario a una democrazia che rispetti i diritti delle minoranze, incluse quelle religiose.

Il 17 aprile la Commissione elettorale egiziana ha respinto in via definitiva i ricorsi presentati contro l’esclusione dalla corsa alle presidenziali da tre candidati importanti, ovvero l’ex capo dei servizi segreti di Mubarak, Omar Suleiman; il candidato dei Fratelli musulmani Khairat el-Shater e il predicatore salafita Hazem Ismail. Le candidature erano state bocciate per difetto di requisiti di diversa natura. I Fratelli musulmani hanno così deciso di presentare la candidatura alternativa del capo politico del loro movimento, Mohamed Morsi, mentre Ismail ha promesso di mobilitare i suoi seguaci fondamentalisti in una dura protesta. Quanto a Suleiman, questi sembra aver accettato pacificamente il verdetto della Commissione elettorale, ritirandosi dalla competizione. Sono pertanto rimasti in lizza per l’elezione alla Presidenza dell’Egitto – il cui primo turno è stato confermato per il 23 e 24 maggio - 13 candidati. E’ tuttavia rimasta indeterminata la questione dell’Assemblea costituente, sospesa de facto dalla Corte amministrativa per la schiacciante presenza islamista al suo interno, la cui ripresa di attività è però condizione indispensabile per giungere alla redazione della nuova Costituzione, obiettivo posto in maniera pressante dall’elemento militare.

La pressione islamista sui militari è ripresa quando il 29 aprile la maggioranza parlamentare facente capo ai Fratelli musulmani e il consistente gruppo salafita hanno deciso un’autosospensione dall’attività per reclamare le dimissioni del premier Ganzuri. Peraltro i salafiti hanno fortemente deluso le aspettative della Fratellanza musulmana quando, dopo l’esclusione dalla corsa alla Presidenza del loro candidato, hanno espresso preferenza per l’islamico moderato Abdel Fotouh – espulso dalla Confraternita proprio per la sua decisione di partecipare alle presidenziali quando i Fratelli musulmani non avevano maturato analoga impostazione -, piuttosto che per Mohamed Morsi.

Il contrasto tra la piazza - nella quale confluivano tanto i salafiti e altri islamisti moderati quanto i residui del movimento di Piazza Tahrir – e i militari si è tragicamente riacceso il 2 e il 4 maggio, quando nella capitale vi sono state numerose vittime e centinaia di feriti, con i dimostranti fatti oggetto anche di attacchi da parte di bande di piccola criminalità assoldate per motivi politici.

Il 23 e 24 maggio si è svolto il primo turno delle elezioni presidenziali, cui hanno preso parte 12 candidati: i risultati definitivi, annunciati il 28 maggio dalla Commissione elettorale dopo il respingimento di vari ricorsi per irregolarità e brogli, hanno visto la vittoria del candidato espressione dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi, con il 24,8 per cento dei voti, mentre al secondo posto si è registrata l’affermazione di Ahmed Shafik (23,7 per cento), già premier sotto Mubarak ed esponente di vertice delle forze armate: i due candidati si sono qualificati per il ballottaggio del 16 e 17 giugno. Va rilevato che l’affluenza alle urne (46,4%) è stata ben al di sotto di quella registrata alle legislative (52%). E’ apparso subito arduo il compito di Shafik, inviso tanto all'ala laica della politica egiziana, quanto, e assai più, agli esponenti del movimento rivoluzionario che, nonostante le numerose delusioni sul piano istituzionale già patite, sembravano conservare una certa presa rispetto ai movimenti di piazza – non a caso il quartier generale di Shafik, dopo la notizia del superamento da parte sua del primo turno delle presidenziali, era stato subito preso d'assedio da numerosi dimostranti, che volevano esprimere la propria rabbia per l'affermazione di un candidato che considerano quanto mai compromesso con il passato regime, nonché anche direttamente responsabile dell'assassinio di manifestanti prima della caduta di Mubarak.

Più agevole appariva il compito di Mohammed Morsi, che infatti ha subito avanzato una serie di aperture a vari gruppi a lui pregiudizialmente contrari o nei suoi confronti diffidenti: così, il candidato della Fratellanza musulmana ha escluso, in caso di propria vittoria, ogni monopolio islamista sulle vicepresidenze e altri posti di rilievo, preannunciando anche un governo di coalizione. Ciò in particolare dovrebbe garantire i cristiani copti, che sono una quota rilevante della popolazione egiziana, ma anche il movimento rivoluzionario, che potrebbe finalmente vedere qualche proprio esponente ai vertici del potere. Inoltre, Morsi ha garantito il diritto di manifestazione, facendo intendere di essere favorevole alla cancellazione definitiva delle leggi di emergenza. Per quanto concerne la componente femminile, Morsi ha escluso di voler imporre l'obbligo del velo a tutte le donne, come anche di voler loro impedire di lavorare.

Il 31 maggio è scaduta la legge sullo stato di emergenza, che era stata rinnovata dal Parlamento prima della rivoluzione egiziana, nel 2010; per la verità, il 24 gennaio 2012 vi era stata già una parziale revoca della legge di emergenza, nell'ambito dei festeggiamenti per il primo anniversario della caduta di Mubarak. La legge di emergenza, in base alla Dichiarazione costituzionale approvata in Egitto con referendum nel marzo 2012, potrà essere rimessa in vigore dal Parlamento solo per sei mesi, salvo referendum confermativo.

La fine della legge di emergenza, una delle principali rivendicazioni della piazza, è stata però salutata con favore solo dagli islamisti, tanto moderati quanto fondamentalisti; il movimento 6 aprile, invece, ha rimandato ogni valutazione all’effettivo comportamento delle forze di sicurezza.

Un banco di prova ancor più decisivo è stato quello della sentenza definitiva (2 giugno) contro Hosni Mubarak per la morte di oltre 800 manifestanti nel corso della rivoluzione che poi condusse alla sua caduta l'11 febbraio 2011: nonostante la richiesta della pena capitale da parte dell'accusa, la Corte d'assise del Cairo ha condannato Mubarak all'ergastolo, e la stessa sorte è stata riservata al suo ex ministro dell'interno el-Adly. Violente contestazioni sono state scatenate già in aula dalla restante parte del pronunciamento della Corte d'assise, che ha assolto sei collaboratori di el-Adly per insufficienza di prove e, soprattutto, ha giudicato prescritti i reati di corruzione e abuso di potere che erano stati contestati ai due figli di Mubarak Gamal e Alaa.

La sentenza - mentre Mubarak nel tragitto per rientrare nella prigione di Tora è stato ancora una volta colto da crisi cardiaca - ha scatenato l'ira di migliaia di manifestanti in Piazza Tahrir. Va però rilevato il significativo comunicato delle forze armate, che hanno annunciato la propria opposizione al sabotaggio della democrazia, a qualsiasi prezzo.

Mentre la mobilitazione in Piazza Tahrir è proseguita anche il 3 giugno, la Procura generale egiziana ha annunciato ricorso in Cassazione contro i verdetti del 2 giugno, che le manifestazioni in corso giudicano troppo indulgenti e profondamente segnati dall’impronta del passato regime.

Nei giorni successivi alla sentenza (2 giugno 2012) contro Mubarak e il suo clan, giudicata troppo indulgente e in qualche modo influenzata dai militari, la mobilitazione di piazza ha visto una progressiva convergenza di tutte le anime uscite dalla rivoluzione contro la candidatura di Shafik nell’imminente ballottaggio per le presidenziali – e sottotraccia contro i militari -, e sempre invocando un nuovo processo per Mubarak e il suo ‘entourage’.

Nonostante l’ultimatum posto dai militari, poi, il processo per l’elezione in Parlamento di una nuova Assemblea costituente – dopo l’annullamento della precedente per la preponderanza in essa degli islamisti – ha segnato a lungo il passo, riflettendo soprattutto l’opposizione irriducibile tra partiti laici e maggioranza islamista, per poi sfociare il 12 giugno nell’elezione di un’Assemblea in cui il peso dei membri parlamentari è rimasto di poco superiore al cinquanta per cento, mentre sono stati aperti spazi per la minoranza cristiano-copta, le donne, i giovani e vari esponenti della società civile.

Dopo soli due giorni, tuttavia, anche la nuova Assemblea costituente è stata messa in questione dalla clamorosa cancellazione del Parlamento da parte della Corte costituzionale, conseguente all’accoglimento di ricorsi riguardanti la parte maggioritaria del voto legislativo - conclusosi dopo una lunga procedura in febbraio -: questa, originariamente prevista per i soli candidati indipendenti, era stata poi anch’essa aperta a candidati partitici.

L’annullamento del voto nella parte maggioritaria ha poi avuto effetto, con il successivo decreto del Consiglio supremo militare, sull’intera consultazione elettorale, rendendo indispensabile una nuova sessione elettorale legislativa. Nella stessa giornata del 14 giugno la Corte costituzionale ha anche in via definitiva bocciato la legge a suo tempo approvata dal Parlamento per impedire la candidabilità agli ex esponenti del regime di Mubarak, con l’intento esplicito di sbarrare la strada della Presidenza ad Ahmed Shafik.

Nonostante la rilevanza di questi verdetti, che hanno comunque fatto gridare al golpe da parte della maggioranza parlamentare islamica, le prime reazioni sono state piuttosto contenute.

Il 17 giugno, con le urne per il ballottaggio delle presidenziali ormai in chiusura, la televisione pubblica egiziana ha annunciato l’adozione di una Dichiarazione costituzionale da parte del Consiglio militare, volta ad integrare il testo approvato in marzo con referendum: la Dichiarazione, resasi necessaria per la difficoltà di redigere una nuova Costituzione a causa della tormentata vicenda dell’Assemblea costituente, definisce i poteri del Presidente nei termini della nomina del Primo ministro e dei ministri e della convocazione delle elezioni, mentre ai militari, in assenza del Parlamento, restano i poteri legislativi e di bilancio.

L’intervento normativo dei militari riguarderebbe altresì i criteri per la formazione di una nuova Assemblea costituente, il che significherebbe l’affossamento anche di quella eletta il 12 giugno – che invece si è riunita il 18 giugno eleggendo a proprio presidente il presidente del Consiglio supremo della magistratura egiziana, Hossam el-Gheriyani, mentre i Fratelli musulmani accentuavano la loro opposizione al recente scioglimento del Parlamento. Nella serata del 18 giugno, poi, il maresciallo Tantawi ha annunciato la formazione di un Consiglio militare di difesa, destando ulteriore contrarietà nel composito fronte che teme il ritorno, attraverso i militari, di gran parte del regime di Mubarak.

Il 19 giugno, mentre sembrava delinearsi sempre più chiaramente la vittoria nelle presidenziali di Mohamed Morsi (con il 52% dei voti), tutte le componenti politiche egiziane contrarie al passato regime hanno marciato nella capitale contro lo scioglimento del Parlamento e la nuova Dichiarazione costituzionale, e tra di esse anche i Fratelli musulmani e i salafiti. Per la proclamazione ufficiale del risultato delle elezioni presidenziali si è però dovuto attendere una settimana, durante la quale, se cresceva la tensione della mobilitazione permanente di Piazza Tahrir, saliva altrettanto progressivamente l'attesa dei Fratelli musulmani per la vittoria del loro candidato Mohammed Morsi.

Tutto ciò avveniva nel contesto di una grande diffidenza della piazza verso l’atteggiamento delle forze armate, sospettate di manovrare – e la prova sarebbero stati lo scioglimento del Parlamento e la conseguente avocazione al Consiglio militare dei poteri legislativi – in modo da non giungere al previsto abbandono del potere a fine giugno.

Ciò allarmava tutti i gruppi favorevoli alla prosecuzione del processo democratico avviato con la caduta di Mubarak. In tal modo i giorni precedenti la proclamazione della vittoria di Morsi hanno visto convergere ancora di più le diverse anime della rivoluzione egiziana, una mossa servita ai Fratelli musulmani anche per smentire le voci di un accordo sotterraneo con i militari che non toccasse le prerogative da essi recentemente avocate, in cambio del riconoscimento della vittoria di Morsi. Segnali di sempre maggiore tensione nelle forze armate hanno accompagnato questo compattamento delle forze rivoluzionarie, fino a che il 24 giugno si è avuta la proclamazione ufficiale della vittoria di Morsi, che ha conquistato il 51,73 per cento dei voti, contro il 48,27 di Shafik: tuttavia non si è attenuata la tensione con i militari in ordine al Parlamento sciolto e alle modifiche alla Dichiarazione costituzionale con le quali se ne sono attribuiti i poteri.

Le reazioni internazionali all'elezione di Morsi al vertice dell'Egitto sono state generalmente favorevoli, sia da parte dei paesi occidentali - che hanno posto l'accento soprattutto sugli aspetti di completamento del processo democratico - sia da parte di paesi arabi e mediorientali, incluso l'Iran – con il quale l’Egitto non ha più relazioni diplomatiche dal 1980, cioè dalla vittoria della rivoluzione khomeinista. Con grande entusiasmo la vittoria di Morsi è stata salutata a Gaza, retta da Hamas, che deriva proprio da una componente della Fratellanza egiziana; ma anche dal Consiglio nazionale siriano in lotta contro il regime di Assad. Più sfumata è stata, comprensibilmente, la posizione di Israele, il cui premier Netanyahu ha espresso apprezzamento per il processo democratico egiziano e rispetto per l'esito di esso, non omettendo tuttavia di accennare alle aspettative israeliane di poter proseguire la cooperazione con l'Egitto sulla base degli accordi di pace fra i due paesi - che peraltro Morsi, subito dopo la proclamazione della sua vittoria, ha affermato di voler continuare ad onorare. Gli Stati Uniti, in particolare, si sono congratulati con il popolo egiziano per l’importante risultato democratico raggiunto con l'elezione del nuovo presidente, richiamando però parallelamente alla necessità del rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze religiose, prima fra tutte quella dei cristiano-copti.

Nei primi giorni successivi all’elezione di Morsi,dopo qualche tensione, la questione del giuramento è stata sciolta il 29 giugno in Piazza Tahrir, ove con un discorso di ampia portata e con diversi ammiccamenti populistici il neopresidente ha fatto scaturire proprio dalla piazza la propria investitura; e sul piano formale il 30 giugno, giurando innanzi alla Corte costituzionale come richiesto dai militari, il cui capo, il maresciallo Tantawi, ha rispettato la previsione del passaggio dei poteri al nuovo presidente – poteri per ora peraltro attenuati dall’aggiunta alla Dichiarazione costituzionale adottata poco prima della chiusura dei seggi per il ballottaggio delle presidenziali.

I giorni seguenti hanno visto una serie di colpi di scena istituzionali, a partire dal decreto dell'8 luglio con il quale il neopresidente Morsi ha annullato la decisione del Consiglio supremo militare del 15 giugno che - sulla base della sentenza della Corte costituzionale che aveva annullato l'elezione di un terzo dei parlamentari - si era spinta fino a decretare lo scioglimento dell'intero Parlamento. La reviviscenza dell'Assemblea del popolo, peraltro, è stata limitata fino alle elezioni parlamentari che dovranno seguire entro due mesi dall'approvazione della nuova Costituzione - anche qui tuttavia è stata messa in dubbio la legittimità dell'Assemblea di 100 componenti riunitasi per la prima volta il 18 giugno, in quanto a sua volta designata dall’Assemblea del popolo sciolta subito dopo. Pur con questa limitazione, la decisione di Morsi ha aperto una prova di forza, con la Corte costituzionale a ribadire l’inappellabilità e la definitività delle sue sentenze e i militari tornati a proclamarsi guardiani della Costituzione e della legge, che tutte le istituzioni dello Stato sono tenute a rispettare. Va al proposito rilevato come una ventina di denunce siano state presentate contro Morsi da avvocati di diversa provenienza, con l'accusa di violazione delle leggi costituzionali. Il 10 luglio la Corte costituzionale sospendeva il decreto dell'8 luglio del presidente Morsi: nel contempo l'Assemblea del popolo, riunitasi solo per 12 minuti, decideva di rinviare alla Corte di cassazione la sentenza della Corte costituzionale sulla parziale illegittimità della legge elettorale che aveva consentito tra il 2011 e il 2012 l’elezione della medesima Assemblea. Il suo presidente, Saad Katatni, ha tenuto a precisare sottilmente che il decreto dell'8 luglio del presidente Morsi non ha colpito la sentenza della Corte costituzionale, ma la conseguente decisione adottata dal Consiglio militare, che ha determinato lo scioglimento dell'intero Parlamento.

In attesa dei decisivi verdetti della Corte di cassazione, che a partire dal 17 avrebbero riguardato numerosi ricorsi riguardanti lo scioglimento del Parlamento, lo scioglimento dell'Assemblea costituente e anche il Decreto presidenziale di ripristino dei poteri dell'Assemblea del popolo; il presidente Morsi ha stemperato i toni, affermando di voler rispettare tutte le sentenze e di voler avviare consultazioni ad ampio raggio per tentare di uscire dal difficile snodo istituzionale. Lo stesso giorno, l’11 luglio, Morsi si è  recato in Arabia Saudita per la prima visita di Stato del suo mandato, assai delicata, poiché riguarda un paese che, notoriamente, aveva sempre sostenuto con forza il regime di Mubarak, e senz'altro teme una possibile estensione della Primavera Araba, come anche le ventilate ma non confermate aperture dell'Egitto all'Iran. Di ritorno dall'Arabia Saudita, il 13 luglio Morsi ha ricevuto il presidente tunisino Marzuki. Nonostante le loro diverse impostazioni politiche, i due capi di Stato hanno convenuto su una medesima linea sia nei confronti della crisi siriana che in ordine alla questione palestinese - e in particolare alla riconciliazione tra Fatah a Hamas, rispetto ai quali, nonostante l'oggettivo legame tra i Fratelli musulmani egiziani e Hamas, Morsi ha dichiarato di essere equidistante. Ben più rilevante è stato senz'altro il viaggio del Segretario di Stato USA Hillary Clinton in Egitto (14-15 luglio), dove ha incontrato sia il presidente Morsi che il vertice del Consiglio militare, il maresciallo Tantawi. La posizione americana è stata piuttosto netta nel sostegno completo al passaggio dell'Egitto verso un governo civile, con il ritorno dei militari al ruolo loro precipuo del mantenimento e della garanzia della sicurezza. Il presidente Morsi ha assicurato che l'Egitto continuerà a rispettare gli accordi internazionali, e ciò è stato salutato con favore dagli Stati Uniti, soprattutto in riferimento agli accordi di pace del 1979 con Israele. Hillary Clinton non ha mancato di ricordare al presidente Morsi la necessità del rispetto dei diritti delle minoranze e delle donne, e ha lasciato all'Egitto un contributo di 250 milioni di dollari a sostegno delle piccole e medie imprese egiziane nel difficile momento che il paese tuttora attraversa. La visita della Clinton è stata anche duramente contestata da diversi esponenti delle opposizioni egiziane: in particolare, mentre gli attivisti hanno criticato in radice l’ingerenza negli affari interni del paese che la visita rappresenterebbe, assai più preoccupante appare l'atteggiamento di alcuni esponenti della Chiesa copta ortodossa e della Chiesa evangelica egiziane, che hanno declinato l'invito ad incontrarsi con il Segretario di Stato USA il 15 luglio, poiché ravvisano nell'atteggiamento americano il sostegno unilaterale ai vincitori delle elezioni politiche e presidenziali, ovvero ai Fratelli musulmani.

Il 24 luglio, sorprendendo la maggior parte degli osservatori, il presidente Morsi ha indicato quale nuovo premier Hisham Kandil, un tecnico a capo del ministero delle risorse idriche, e che, come lo stesso presidente, ha studiato nelle università degli Stati Uniti. Kandil ha smentito di essere affiliato a movimenti religiosi, ed è stato presentato dalla presidenza come figura indipendente.

Il 26 luglio il Ministro degli esteri Giulio Terzi si è recato al Cairo, ove ha incontrato il neopresidente Morsi, ribadendo il sostegno italiano alla transizione democratica egiziana, a fronte di un rinnovato impegno del Cairo a garantire la sicurezza degli investimenti e delle numerose imprese italiane che operano nel paese arabo - si ricorda che l'Italia è il primo partner commerciale europeo dell'Egitto. I colloqui tra Morsi e il capo della diplomazia italiana hanno inoltre riguardato il difficile scenario di crisi della Siria, in merito al quale i due interlocutori hanno convenuto sulla necessità di avviare al più presto una soluzione mediante la formazione di un governo di transizione. Il Ministro Terzi ha tenuto a sottolineare la grande solidità dei rapporti tra Italia ed Egitto anche in riferimento alla vicenda del brevissimo sequestro di cinque motopesca siciliani intercettati da una motovedetta a 25 miglia dalla costa egiziana e dirottati nel porto di Alessandria, il cui rilascio il Ministro Terzi ha praticamente ottenuto con effetto immediato, intervenendo sulle autorità del Cairo mentre si trovava sul piede di partenza per il rientro in Italia.

Il 2 agosto è nato ufficialmente il nuovo governo guidato da Hisham Kandil,  composto da 35 ministri, dei quali otto sono i riconfermati - come ad esempio il maresciallo Tantawi alla difesa, nonché i ministri degli esteri e delle finanze. I Fratelli musulmani si sono visti attribuire cinque dicasteri, ovvero quelli dell'edilizia, dell'istruzione superiore, dell'informazione, delle politiche giovanili e della forza lavoro. Il ruolo dei ministri tecnici risulta evidente soprattutto nei dicasteri riguardanti materie economiche e di sviluppo, mentre alla giustizia è stato posto l'ex vicepresidente della Corte di cassazione. Il difficile equilibrismo mirante a far coesistere nella nuova compagine tecnocrati, militari ed esponenti politici ha lasciato fuori i salafiti, pur forti di quasi un quarto dei voti in Parlamento, che hanno deciso di rimanere all'opposizione del nuovo governo, per il quale si erano visti offrire soltanto un posto di ministro.

Il 5 agosto, in concomitanza di nuove gravissime tensioni tra Israele e la Striscia di Gaza, l'Egitto è stato coinvolto nelle violenze, con l'attacco a una postazione di frontiera proprio nei dintorni di Gaza, a seguito della quale gli assalitori – jihadisti o fiancheggiatori locali di al Qaida, che si muovono come in un’osmosi tra il Sinai e la Striscia - si sono impadroniti di due blindati egiziani, uccidendo ben 16 poliziotti. Uno del due blindati è stato poi distrutto dall'aviazione israeliana mentre, varcato il confine, si dirigeva verso un villaggio del Negev occidentale. Il presidente egiziano ha convocato con urgenza una riunione del Consiglio militare, disponendo l’immediata chiusura del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto – del quale invece nel recente incontro con Morsi il premier di Hamas Haniyeh aveva auspicato la piena e definitiva apertura. Inoltre già il 7 agosto affluivano a Rafah imponenti mezzi meccanici, in attesa di iniziare la demolizione dei circa seicento tunnel sotterranei scavati tra Gaza e il territorio egiziano, fondamentali per gli approvvigionamenti della Striscia e per il passaggio di armi e miliziani al di fuori del rigido controllo israeliano imposto ai confini di Gaza dopo l’affermazione nel 2007 di Hamas.

È stata così nuovamente posta con grande drammaticità la questione della sicurezza del Sinai, territorio che in base al Trattato di Camp David del 1979 tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato, ma nel quale proprio perciò, soprattutto nella parte settentrionale, hanno potuto proliferare vari gruppi dell'estremismo islamico che già in luglio, con ogni probabilità, si erano resi responsabili dell'uccisione di due poliziotti egiziani. Vanno poi ricordati gli attacchi del 18 agosto 2011, quando una serie di attentati multipli provenienti dal Sinai e accuratamente congegnati hanno colpito civili e militari israeliani nella regione meridionale del Neghev, provocando nove morti, mentre perdevano la vita anche cinque soldati egiziani, colpiti da un missile israeliano durante un’azione di rappresaglia. Dall’inizio del 2011, infine, va ricordato che il gasdotto che porta il gas egiziano in Israele ha subito quindici tra attacchi e sabotaggi.

Gli eventi del 5 agosto, comprensibilmente, hanno provocato uno sbandamento in Egitto: lo stesso presidente Morsi nell'immediato non ha potuto non accusare il contraccolpo della propria appartenenza alla Fratellanza musulmana, a sua volta ritenuta assai vicina alla fazione palestinese di Hamas che governa la Striscia di Gaza, rivelatasi nella circostanza incapace di controllare le frange più estremiste - va peraltro precisato che in base a successive approfondite analisi del DNA degli attentatori poi uccisi dall’aviazione  israeliana nessuno di questi sarebbe palestinese. Tuttavia, anche imputando ad egiziani l'azione terroristica, quasi sicuramente si tratta di elementi fuggiti dal carcere dopo la caduta di Mubarak, o addirittura di recente amnistiati dallo stesso Morsi in occasione del Ramadan. Tutto ciò sembrava preludere a una parziale riscossa dei militari – significativamente, i solenni funerali delle 16 guardie di frontiera (7 agosto) sono stati disertati sia dal presidente Morsi che dal premier Kandil. L’8 agosto l’Egitto lanciava l’operazione militare “Aquila” contro i terroristi basati nel Sinai settentrionale, ma, dopo poche ore, una riunione del presidente Morsi con lo stato maggiore militare si concludeva in modo sorprendente, con la rimozione in un sol colpo dei capi dell’intelligence, della Guardia repubblicana e della polizia militare, nonché del governatore e del responsabile della sicurezza del Sinai settentrionale.

Non è agevole peraltro tentare di istituire un collegamento tra questi clamorosi provvedimenti e quanto deciso il 12 agosto dal presidente Morsi, con la rimozione del ministro della difesa maresciallo Tantawi e del capo di stato maggiore, sostituiti da due generali, e, soprattutto, con l'abrogazione del decreto del Consiglio militare che aveva a suo tempo integrato la Costituzione vigente, limitando i poteri del presidente che proprio in quelle ore si stava eleggendo in Egitto. Dal punto di vista simbolico, anche se le forze armate hanno tenuto a minimizzare la portata dei provvedimenti, la mossa di Morsi è stata largamente percepita in Egitto come l'attestazione della fine dell'ipoteca militare sulle istituzioni del paese. Ambienti rivoluzionari giovanili hanno rilanciato, con la richiesta al presidente di non concedere le previste onorificenze a Tantawi e al capo di stato maggiore appena rimossi, richiedendo semmai di processarli per le numerose vittime che hanno caratterizzato la scena del paese anche dopo la caduta di Mubarak. In ogni modo, l'effetto più immediato dei provvedimenti del presidente Morsi è stata la sottrazione del potere legislativo ai militari, in una situazione tuttavia nella quale l'assenza di un Parlamento legittimamente costituito impedisce la riattribuzione del potere legislativo alla sua sede naturale, aprendo la strada scenari affatto imprevisti.

Analogamente, sul fronte giornalistico, ha destato preoccupazione la mossa della nuova Amministrazione egiziana che ha delegato la nomina dei direttori di giornali e di altri organi di informazione alla Camera alta (il Consiglio consultivo), con l'esito di scegliere prevalentemente appartenenti alla Fratellanza musulmana, non discostandosi in ciò dalle pratiche dell'epoca Mubarak. In questo scenario si è anche inserita la vicenda del giornalista del quotidiano indipendente al Dostour Islam Afifi, di tendenza nettamente contraria al nuovo corso egiziano e, si potrebbe dire, nostalgico del vecchio regime: Afifi, accusato di oltraggio al nuovo presidente Morsi, era stato arrestato in aula all'inizio del processo suoi nei confronti, ma poche ore dopo veniva rilasciato poiché il presidente Morsi aveva nel frattempo per decreto cancellato l'istituto della detenzione preventiva per reati a mezzo stampa.

Sul fronte del Sinai, mentre proseguiva l'operazione militare e di polizia nella parte settentrionale della penisola, con una certa sorpresa si è registrata una presa di posizione delle tribù beduine, che si sono dette disponibili a collaborare con il governo centrale nella ricerca di nascondigli di uomini e armi. In effetti, ciò potrebbe essere il risultato del nuovo approccio inaugurato da Morsi nei confronti del Sinai settentrionale, con l'invio in loco di una commissione composta da ex jihadisti per una mediazione con l'estremismo islamico locale - una mossa, peraltro, non priva di rischi secondari, poiché il riconoscimento dei jihadisti, implicito nel farne uno strumento della trattativa nel Sinai, potrebbe in un secondo momento rivelarsi un boomerang.

Il 30 agosto il presidente Morsi si è recato in Iran per il passaggio di consegne della presidenza triennale del Movimento dei non allineati al collega Ahmadinejad: non vi è dubbio sul rilievo della visita, la prima di un presidente egiziano in Iran dopo 32 anni di rottura delle relazioni diplomatiche soprattutto sul punto della pace raggiunta nel 1979 dall'Egitto con Israele, che la Repubblica islamica iraniana aveva sempre duramente criticato. Cionondimeno, su una questione cruciale nella regione mediorientale, quella della crisi siriana, non sembra esservi stato alcun avvicinamento, con l'Iran che continua ad appoggiare strenuamente il regime di Assad, mentre il presidente egiziano, proprio dalla tribuna del Vertice dei non allineati di Teheran, ha affermato con nettezza la liceità della ribellione al regime siriano, definito sanguinosamente oppressivo.

 

Yemen

Dopo una fase di rinnovata crisi successiva al rientro del presidente Saleh dal periodo di cure mediche in Arabia Saudita - rese necessarie dal suo ferimento nell'attacco al palazzo presidenziale consumato all'inizio di giugno del 2011 -, l'azione diplomatica martellante dei sei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, capitanati dall'Arabia Saudita, ha condotto il 23 novembre alla firma di un accordo di transizione, in base al quale Saleh ha accettato di uscire di scena dopo ben 33 anni al potere. Il piano ha previsto la permanenza in carica di Saleh a titolo meramente onorifico e solo per tre mesi, trasferendo tuttavia da subito i reali poteri al suo vice, Mansour Hadi, cui è stato dato il compito di costituire un governo di unità nazionale con le opposizioni e di fissare nuove elezioni presidenziali. L'accordo, generalmente salutato con favore a livello internazionale, non ha però dissipato del tutto le nubi che da quasi un anno gravavano sullo Yemen, poiché grave è apparsa l'ipoteca che sull'attuazione dell'accordo avrebbero potuto esercitare alcuni dei capi tribali rivali di Saleh, nonché quei comandanti militari - tra cui il fratellastro del presidente - unitisi all'opposizione. Va poi tenuto presente che l’ala più radicale dell’opposizione di piazza non ha accettato l’immunità che l'accordo di transizione ha accordato a Saleh in riferimento alle numerose vittime della repressione dei mesi precedenti.

Alcune di queste incognite si sono dimostrate ben operanti già il giorno successivo alla firma dell'accordo di transizione, quando cinque partecipanti a una manifestazione dell'opposizione contro l'immunità garantita al presidente Saleh sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nel cuore della capitale yemenita. Va rimarcato che la manifestazione era rivolta anche contro i gruppi politici dell'opposizione, guidata dal Partito della riforma, che avevano accettato l'accordo del giorno precedente.

In ogni modo, il 27 novembre il capo delle opposizioni Mohamed Basindawa - già ministro degli esteri dal 1993 al 1994, prima della definitiva rottura col partito del presidente Saleh - è stato incaricato di formare nel termine di due settimane un governo di unità nazionale: il giorno precedente Mansour Hadi aveva firmato il decreto di anticipo delle elezioni presidenziali al 21 febbraio 2012. Significativamente, tuttavia, il presidente Saleh, con un atto che probabilmente non era più nei suoi poteri, già delegati a Mansour Hadi, e che dimostrava la sua volontà di continuare in qualche modo a giocare un ruolo nella transizione, ha decretato un'amnistia generale per i partecipanti alle contestazioni dei mesi precedenti, che infatti l'opposizione ha duramente criticato.

Il 10 dicembre il governo yemenita di unita' nazionale, guidato da Basindawa e composto da più di trenta ministri in rappresentanza dell'opposizione e del Congresso popolare generale – il partito al potere con Saleh - ha prestato giuramento.

Il 25 dicembre una nuova manifestazione delle opposizioni contro l’immunità a Saleh ha registrato a Sanaa non meno di tredici vittime per mano delle forze di sicurezza: il giorno successivo almeno due persone sono rimaste ferite nella capitale in scontri fra sostenitori del presidente e militari, fra cui diversi ufficiali.

Ad aggravare la situazione dello Yemen, dalla zona meridionale del paese, in particolare dalla provincia di Abyan e dal suo capoluogo Zinjibar, endemicamente teatro di scontri fra truppe governative ed esponenti della rete di Al-Qaida, localmente fortissima, si è registrata alla metà di gennaio 2012 una importante novità, quando gli integralisti islamici hanno iniziato a muovere da sud verso la capitale, conquistando quasi senza colpo ferire una cittadina a soli 170 km da Sanaa. Contemporaneamente, nella regione nordoccidentale dello Yemen (provincia di Hajja), in preda da anni a una rivolta degli sciiti, vi sono state almeno 25 vittime in scontri armati tra diverse tribù appartenenti a una minoranza religiosa sciita. Segnali di un probabile coinvolgimento degli USA nella vicenda yemenita si sono avuti quando una quindicina di appartenenti ad al Qaida nella penisola arabica sono morti il 31 gennaio in seguito ad un attacco di aerei senza pilota.

La seconda metà di febbraio ha visto realizzarsi quanto previsto dall'accordo di novembre per il passaggio dei poteri: infatti il 21 febbraio si sono svolte le elezioni presidenziali con un unico candidato, Mansour Hadi, dal 1994 vicepresidente sotto il regime del presidente Saleh. Alla vigilia del voto, e soprattutto il giorno stesso delle elezioni, vi sono stati incidenti che hanno provocato alcune vittime nel sud del paese, dove è presente anche un movimento di tipo separatista che contesta la riunificazione dello Yemen avvenuta nel 1990. Ciononostante il risultato delle elezioni, cui hanno partecipato oltre sei milioni e mezzo di yemeniti, ha visto un plebiscito a favore di Mansour Hadi, con il 99% dei voti.

Il 25 febbraio, giorno del giuramento di Mansour Hadi ma anche del ritorno di Saleh dagli Stati Uniti, dove aveva trascorso un periodo di cure, ha visto un sanguinoso attentato nel sud dello Yemen, rivendicato da Al-Qaïda, in cui hanno trovato la morte 26 persone, quasi tutti appartenenti alla Guardia repubblicana. Il 27 febbraio, infine, si è consumato il passaggio pieno dei poteri da Saleh a Mansour Hadi, il cui incarico presidenziale avrà una durata di due anni, durante i quali si dovrà procedere a redigere una nuova Costituzione e a preparare elezioni multipartitiche.

Nonostante il completamento delle procedure per il passaggio dei poteri, i ripetuti atti di violenza e il terrorismo nel sud del paese denunciano la difficoltà della situazione dello Yemen, che oltre al separatismo e al terrorismo di Al-Qaïda nella parte meridionale deve fare i conti con la rivolta degli sciiti nel Nord. Inoltre l'ex presidente Saleh è sembrato a lungo ancora in grado di esercitare una pesante ipoteca sul futuro politico del paese, visto che è comunque rimasto a capo del suo partito, e che molti dei suoi familiari conservano posizioni di rilievo nell'apparato dello Stato e soprattutto nelle forze armate.

In particolare, nel paese ha assunto sempre maggiore rilevanza il problema del radicamento di al-Qaida nella zona meridionale: il nuovo governo yemenita ha riproposto - con il pieno sostegno degli Stati Uniti -, la lotta alle attività di al-Qaida nel sud del paese tra le proprie priorità, ma proprio il giorno in cui ha prestato giuramento il presidente Mansour Hadi, il 25 febbraio, un attentato suicida provocava a Mukalla, nel sud dello Yemen, 26 morti. L'episodio più grave era tuttavia quello del 5 marzo, quando in un attacco di al-Qaida ad una base militare della provincia di Abyan sono stati uccisi circa duecento soldati governativi, e molti altri sono stati fatti prigionieri. Dal 9 all'11 marzo una serie di attacchi portati da droni statunitensi ha provocato la morte di almeno 64 presunti membri di al-Qaida nella zona meridionale del paese.

Dal 9 al 12 aprile rinnovati combattimenti hanno opposto truppe governative e appartenenti ad al-Qaida nel sud del paese, con un bilancio di 185 morti.

La campagna delle truppe governative nel sud del paese contro al Qaida, che nelle successive settimane avrebbe complessivamente portato alla morte di 150 appartenenti alla rete terroristica, ha provocato una feroce reazione quando il 21 maggio un soldato yemenita legato ad al-Qaida ha portato a termine una missione suicida, facendosi esplodere nel bel mezzo dei ranghi delle prove di una parata militare, e provocando in questo modo quasi 100 morti e oltre 200 feriti. Ciononostante, nel mese di giugno l’offensiva governativa, appoggiata dalle milizie locali dei comitati di resistenza popolare, ha avuto successo, e gli appartenenti alla rete terroristica sopravvissuti hanno dovuto lasciare gran parte del territorio conquistato, per rifugiarsi sulle montagne, dalle quali conducono ancora sporadici attacchi, restando peraltro preda degli attacchi di droni americani. Il 4 agosto un attentatore suicida ha colpito una riunione commemorativa di miliziani nella città di Jaar – già una delle roccheforti di al Qaida -, provocando la morte di 45 persone e ferendone quasi altrettante, proprio mentre un drone USA colpiva un’auto nello Yemen orientale, uccidendo cinque presunti terroristi.

Il 29 luglio il nostro paese è stato in qualche modo coinvolto nella instabile situazione yemenita, quando Alessandro Spadotto, un carabiniere italiano addetto alla sicurezza dell'Ambasciata a Sanaa, mentre era libero dal servizio e si trovava in un negozio, è stato rapito da uomini armati, che non sarebbero terroristi ma criminali appartenenti ad un gruppo tribale, il cui capo rivendica dal governo yemenita l’immunità dalle accuse di banditismo e un risarcimento in denaro. Nella stessa mattinata vi era stato l'assalto contro il ministero degli interni, attuato da un centinaio di militanti fedeli all'ex presidente Saleh che chiedono di essere reintegrati nelle forze di polizia, successivamente rientrato - non vi sarebbe alcun legame con l'episodio che ha interessato il carabiniere italiano –, ma solo per infuriare nuovamente il 31 luglio, con la morte di otto persone e il ferimento di numerose altre. Nella mattinata del 31 luglio il carabiniere ha comunque potuto inviare un SMS tranquillizzante alla fidanzata, mentre il 1° agosto il capo dei rapitori ha annunciato la liberazione di Spadotto entro due giorni, dandovi effettivamente corso il 2 agosto, e consentendo al carabiniere italiano il rientro in patria il giorno successivo.

 

Bahrein

L'apparente pacificazione del piccolo regno del Golfo Persico dopo i grandi tumulti del febbraio-marzo 2011, avvenuta anche grazie all'intervento di truppe inviate dall’Arabia saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, non sembra aver risolto il problema di fondo delle rivendicazioni della maggioranza sciita nei confronti della minoranza sunnita che esprime anche le autorità di governo, a partire dal re Abdullah al-Khalifa. Nonostante i segnali di buona volontà del sovrano, come l'accettazione del rapporto della commissione d'inchiesta indipendente che ha denunciato moltissimi abusi nei confronti dei manifestanti del 2011, non vi è stato l’auspicato decollo di un dialogo nazionale per la risoluzione dei problemi sul tappeto.

Conseguentemente, il 14 febbraio 2012, in occasione dell'anniversario del maggior episodio della contestazione del 2011, si sono verificati nella capitale scontri assai duri tra le forze dell'ordine e centinaia di dimostranti. Il 9 marzo, poi, decine di migliaia di manifestanti sono tornati in piazza nei pressi della capitale per ribadire le loro richieste di giustizia e democrazia, e chiedere la fine della discriminazione verso gli sciiti, il riequilibrio nella distribuzione delle ricchezze e il rispetto delle normative internazionali in materia di diritti umani.

Una nuova occasione di mobilitazione è stata offerta ai manifestanti dalla conferma per il 22 aprile della gara di Formula Uno sul circuito nazionale di Sakhir, dopo vari tentennamenti. Il maggiore blocco dell'opposizione sciita ha subito annunciato una settimana di manifestazioni fino allo svolgimento del Gran Premio. D'altra parte, la monarchia al potere ha interpretato la conferma dell'appuntamento sportivo come un'espressione di fiducia internazionale per la capacità del Bahrein di offrire stabilità e sicurezza. In ogni modo, nonostante un'ottantina di arresti preventivi negli ambienti sospettati di voler organizzare manifestazioni in concomitanza del Gran Premio, vi sono stati nei giorni precedenti lo svolgimento della gara manifestazioni caratterizzate da scontri anche gravi tra le forze dell'ordine e i dimostranti, che hanno provocato una vittima, oltre a numerosi feriti e un centinaio di arresti.

Il 18 maggio gli sciiti del Bahrein, unitamente a decine di migliaia di correligionari in Iran, hanno manifestato per contrastare un progetto che mirerebbe all’unificazione politica del Bahrein con l’Arabia Saudita, quale primo atto di un più vasto disegno volto a realizzare l’unione politica della regione. Gli sciiti del Bahrein non possono accettare tale prospettiva, che farebbe gravitare gli equilibri geopolitici fortemente a favore delle monarchia sunnite del Golfo, a danno dell’Iran, al quale invece la maggioranza della popolazione del Bahrein guarda con crescente interesse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La crisi siriana: cronologia degli avvenimenti

(dicembre 2011-agosto 2012)

 

Invio di una missione della Lega araba di osservazione (dicembre)

Il 19 dicembre 2011 la Siria ha accettava, dopo sei settimane di estenuanti trattative, una parte rilevante del piano di pace della Lega araba - cui Damasco aveva acconsentito formalmente già il 2 novembre -, ovvero l’invio di una missione di circa 500 osservatori arabi in territorio siriano. La Siria  comunque otteneva che i movimenti degli osservatori si coordinassero con quanto richiesto dal governo per ragioni di sicurezza interna. Il raggiungimento dell’accordo è stato anche in parte risultato delle pressioni di Mosca e Teheran su Damasco.

Nel lungo periodo delle trattative, peraltro, nonostante la liberazione di circa 2.800 prigionieri, il regime aveva continuato nella durissima repressione in atto contro le proteste in tutto il paese: secondo alcuni comitati di attivisti, nel mese e mezzo trascorso dalla formale accettazione del piano di pace della Lega araba sarebbero stati uccisi più di novecento civili, tra cui circa ottanta tra bambini e adolescenti.

I primi osservatori giungevano a Damasco tre giorni dopo la firma dell’intesa tra Siria e Lega araba, e la missione era a pieno organico entro Natale. La presenza degli osservatori non modificava però granché la situazione sul terreno, poiché veniva continuamente riferito di vittime civili durante rinnovate proteste contro il regime, mentre anche il fenomeno più recente degli attentati suicidi proseguiva, culminando nei due attacchi contemporanei del 23 dicembre e in quello del 6 gennaio 2012, in entrambi i casi a Damasco. Lo stesso svolgimento della missione della Lega araba destava critiche, soprattutto per l’asserito scarso contatto con esponenti della contestazione al regime, oltre al fatto di una certa dissonanza tra quanto dichiarato dagli osservatori sul campo e quanto riferito dal Segretario generale della Lega araba, decisamente più ottimista in ordine agli sviluppi siriani.

Si assisteva intanto un cospicuo reingresso sulla scena mediatica del presidente Assad, con il quarto discorso televisivo (10 gennaio 2012) alla nazione dall'inizio della crisi politica del paese: Assad insisteva nel negare qualunque responsabilità diretta del regime della sanguinosa repressione, attribuendo gli sviluppi tragici dei dieci mesi di proteste ad una serie di eventi innescata principalmente da una cospirazione contro il paese, che si servirebbe anche dell'azione di gruppi armati e terroristici. Proprio la lotta contro questi elementi dovrà accompagnare secondo Assad l'azione riformistica del governo, peraltro già più volte preannunciata, e stavolta nella forma di emendamenti alla Costituzione da sottoporre al voto popolare entro il mese di marzo 2012, per tenere poi due mesi dopo elezioni legislative. Il presidente siriano ribadiva altresì la sua volontà di restare al potere.

 

Fine della missione interaraba e nuove sanzioni dell’UE contro Damasco (gennaio)

L'11 gennaio Assad rilanciava con un comizio in Piazza degli Omayyadi, a Damasco, davanti a una folla di propri sostenitori e sotto gli occhi della moglie e dei figli. Quasi a smentire i toni trionfalistici di Assad, tuttavia, vi è stata nella stessa giornata la defezione di uno degli osservatori della Lega araba impegnati in Siria, algerino, che in un'intervista rilasciata ad al-Jazira ha accusato il regime siriano di perpetrare crimini e organizzare una serie di messinscene per depistare gli osservatori, utilizzando in pratica la missione della Lega araba come un paravento dietro il quale proseguire nella repressione. Inoltre, un noto corrispondente di guerra francese, Gilles Jacquier, recentemente vincitore del premio Ilaria Alpi, perdeva la vita nelle stesse ore,mentre seguiva un corteo lealista nella città di Homs, colpito da schegge di mortaio.

Mentre proseguiva senza soluzione di continuità l'ondata di violenze nel paese, che in effetti vedeva tra le vittime sempre più frequentemente anche appartenenti alle forze di sicurezza, la Siria rigettava con forza l’ipotesi, avanzata qualche giorno prima dall’emiro del Qatar, di inviare truppe di paesi arabi per fermare i massacri. Damasco si diceva pronta solo a considerare l'eventualità di una proroga del mandato della missione degli osservatori della Lega araba.

Il 22 gennaio 2012 si svolgeva nella capitale egiziana una riunione dei Ministri degli esteri degli Stati aderenti alla Lega araba ne corso della quale l'Arabia saudita annunciava il ritiro dei propri osservatori di fronte al mancato rispetto siriano del piano di pace. Alla fine della riunione si perveniva ad un risultato rilevante: la Lega araba chiedeva ufficialmente alle Nazioni Unite il sostegno per il nuovo piano di pace, che prevedeva entro due mesi il trasferimento dei poteri del presidente Assad al suo vice e la costituzione di un governo di unità nazionale - una soluzione molto simile a quella adottata per lo Yemen. Collateralmente la Lega araba decideva di estendere il mandato della missione di osservatori che aveva già operato in Siria per circa un mese.

I Ministri degli esteri dell'Unione europea, riunitisi il 23 gennaio, concordavano nel sostenere il ruolo che la Lega araba giocava al momento nella crisi siriana, approvando contestualmente l'undicesima tornata di sanzioni contro Damasco, con un'ulteriore estensione dei divieti sui visti e il congelamento di altri beni siriani in territorio europeo. Non vi sono stati tuttavia segnali di cedimento nel forte appoggio russo alla Siria.

Mentre sul terreno gli scontri tra le forze di sicurezza pro regime e i disertori oramai numerosi prendevano sempre più il posto delle pacifiche dimostrazioni duramente represse, e il regime, nel timore di uno sblocco della situazione in seno alle Nazioni Unite che avrebbe potuto portare all'intervento internazionale, cercava di accelerare le operazioni contro manifestanti e oppositori armati; sul piano diplomatico la Siria, pur continuando a rifiutare il piano di pace messo a punto dalla Lega araba, il 24 gennaio infine acconsentiva a una proroga della missione di osservatori della Lega araba medesima in territorio siriano.

La Lega araba, dal canto suo, doveva fare i conti con il ritiro dal team di osservatori dell'Arabia Saudita e di altri stati monarchici del Golfo Persico. L’obiettivo del segretario generale al Araby pertanto diveniva quello di portare la questione siriana al Palazzo di vetro, per ottenere maggiore prestigio e credibilità sulla proposta di pace avanzata alla Siria, pur scontando anticipatamente l'opposizione russa, intenzionata con il veto a bloccare ogni possibilità di via libera a un intervento internazionale contro il regime di Assad.

L'escalation di violenza in atto in Siria ha trovato il 27 gennaio corrispondenza anche in Egitto, dove più di un centinaio di oppositori siriani ha assaltato l'ambasciata di Damasco, riuscendo a penetrarvi e a danneggiare alcune suppellettili, prima dell’intervento della polizia egiziana.

Considerata la grave accelerazione delle violenze in Siria, il 28 gennaio la Lega araba annunciava la sospensione della missione di osservatori, riservando ad un momento successivo una decisione definitiva sul destino di essa. Nel contempo, la Lega avviava colloqui con la Russia per un’intesa insede ONU, ove si sperava di far approvare una risoluzione, già messa a punto dalla stessa Lega araba e da alcuni paesi occidentali, basata sul piano di pace già da tempo avanzato dalla Lega araba al presidente Assad.

 

Iniziative internazionale per una soluzione della crisi siriana. Intensificazione della repressione da parte del regime (febbraio)

L'inizio di febbraio registrava il dispiegarsi di un intenso lavoro diplomatico concernente la situazione siriana, dapprima con il tentativo di far votare in Consiglio di sicurezza una risoluzione presentata dal Marocco per conto della Lega araba che prevedeva l'uscita di scena di Assad, e successivamente, nel tentativo di ottenere il consenso russo e cinese, un testo molto ammorbidito, che in pratica si limitava alla condanna della repressione messa in atto dal regime di Assad. Tuttavia, con grave disappunto delle democrazie occidentali e delle stesse Nazioni Unite, anche su questo testo il 4 febbraio si registrava il veto della Russia e della Cina, che innescava durissime reazioni delle cancellerie occidentali, come anche dei paesi appartenenti alla Lega araba.

In particolare, il 6 febbraio gli Stati Uniti hanno chiuso la loro rappresentanza a Damasco, mentre il giorno successivo gli Stati arabi appartenenti al Consiglio di cooperazione del Golfo e diversi paesi occidentali - Italia, Francia, Spagna e Olanda - hanno richiamato per consultazioni i propri ambasciatori in Siria. I paesi del CCG hanno fatto di più, giungendo ad espellere gli ambasciatori siriani accreditati nelle loro capitali e ad accusare il regime di Assad di massacro collettivo contro un popolo disarmato.

Di fronte all’impasse diplomatica, nei giorni successivi alla bocciatura della risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU si rincorrevano le indiscrezioni su progetti di fornitura di armi ai ribelli siriani, sulla valutazione da parte americana di possibili opzioni di intervento militare - sulle quali non vi era l'accordo dell'Unione europea, comunque pronta anche ad operare mediante piani di evacuazione di emergenza dalla Siria -, nonché sulla presenza in territorio siriano di agenti militari dei paesi occidentali, ipotesi questa agitata soprattutto dalla Russia.

Il 12 febbraio la Lega araba, riunita al Cairo, imprimeva un nuovo slancio agli sforzi per venire a capo della tragica situazione della Siria: infatti l'Organizzazione panaraba poneva fine con nettezza alle ambiguità che avevano circondato lo svolgimento della missione di osservatori in territorio siriano, dichiarandone la cessazione, e rilanciando abbastanza clamorosamente con la richiesta alle Nazioni Unite della creazione di una forza di pace congiunta formata dalle Nazioni Unite e Lega araba. Veniva inoltre deciso di sospendere il coordinamento diplomatico tra paesi arabi e Siria, sia a livello bilaterale, sia in seno alle Organizzazioni internazionali. Di grande importanza è apparsa poi la richiesta di sottoporre al diritto internazionale la punizione di quanti verranno ritenuti responsabili dei massacri contro la popolazione civile siriana.

La Lega araba apriva altresì con chiarezza al fronte degli oppositori al regime di Assad, ai quali, in cambio del raggiungimento di una maggiore compattezza e unità di intenti, assicurava appoggio politico e finanziario, come dimostra anche il via libera dato alla richiesta tunisina di ospitare il 24 febbraio una conferenza degli amici della Siria. La proposta di una forza congiunta di pace sembrava incontrare il favore dell'Italia e dell'Unione europea, con un distinguo francese - di essa avrebbero dovuto far parte militari dei paesi occidentali -: sostanzialmente contraria invece la Russia, per la quale il primo obiettivo da perseguire era la cessazione delle ostilità sul terreno.

Anche l’inizio di febbraio vedeva purtroppo proseguire lo stillicidio di attacchi delle forze armate e di sicurezza siriane contro i civili, mentre il regime di Assad continuava a presentare gli avvenimenti quale legittima reazione ad un complotto armato in atto nel paese. Già il 1º febbraio si registravano una sessantina di morti nella regione centrale di Homs e nei dintorni di Damasco, ma anche sulle montagne occidentali nei pressi del confine libanese.

Dalla serata del 3 febbraio, poi, iniziava un pesante bombardamento della città di Homs, che secondo fonti dell’opposzione avrebbe provocato circa 250 morti e la distruzione di 30 edifici, fatti oggetto di colpi di mortaio e di artiglieria. Anche in altre località della Siria, come in un sobborgo a sud della capitale e nella città nord-occidentale di Hama vi sono state vittime deilla repressione. Per converso, le ambasciate siriane in molti paesi arabi ed europei venivano assaltate da seguaci dell'opposizione, che ne hanno quasi ovunque danneggiato gli arredi e sostituito la bandiera con il tricolore siriano dell'indipendenza.

Dopo il veto russo e cinese del 4 febbraio alla risoluzione in discussione nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, il giorno successivo si registrava una recrudescenza dei combattimenti tra soldati governativi e disertori, con quasi sessanta vittime, mentre la furia degli oppositori siriani all'estero prendeva di mira anche le ambasciate russe in Libano e in Libia. Il 6 febbraio, nonostante l'imminente arrivo a Damasco del Ministro degli esteri russo Lavrov, con l’obiettivo di indurre il regime a considerare la possibilità di una trattativa con gli oppositori, oltre cinquanta persone sono morte per bombardamenti a Homs e nei sobborghi di Damasco.

Frattanto vi sono stati segnali di tensione nell'elemento militare delle opposizioni, ancora privo di una consolidata leadership. La repressione è proseguita senza soluzione di continuità il 7 febbraio con non meno di 25 vittime a Homs, a Daraa, alla periferia della capitale e presso il confine libanese. Il giorno successivo ha visto un nuovo picco del numero delle vittime, con un centinaio di morti tra Homs, Daraa e la regione a ovest della capitale: si sono diffuse anche le prime voci di bombardamenti contro ospedali, e uno di questi avrebbe provocato la morte di 18 neonati. L'escalation delle vittime è proseguita il 9 febbraio, sesto giorno consecutivo di bombardamenti su Homs, ove si sono avute la maggior parte delle oltre cento vittime della giornata.

Il 10 febbraio anche l'ambasciata siriana a Roma veniva danneggiata da alcuni militanti del “Coordinamento siriani liberi” di Milano, successivamente arrestati: nella stessa giornata del 10 febbraio un duplice attentato suicida colpiva nella regione settentrionale Aleppo, il maggiore centro economico del paese, provocando la morte di 28 persone e il ferimento di oltre duecento. Fino a quel momento non toccata dalla contestazione al regime di Assad, una settimana prima Aleppo aveva visto però le prime manifestazioni contro il governo, cui le opposizioni hanno attribuito la paternità degli attentati. Intanto, proseguendo il bombardamento di Homs e i combattimenti nei sobborghi di Damasco, si contavano il 10 febbraio almeno altre cinquanta vittime.

L'11 febbraio il regime siriano, dopo l'uccisione a Damasco di un generale medico, è tornato a denunciare l'azione del terrorismo, che sarebbe responsabile della tragica situazione del paese. Mentre pare evidente l'uso strumentale della teoria del complotto internazionale che il regime ha fatto sin dall'inizio della repressione – e alla quale non sembra credere nemmeno l’alleato russo -, non vanno sottovalutate le possibilità che effettivamente elementi del terrorismo internazionale si siano progressivamente infiltrati nel paese per sfruttarne l'instabilità: in tal senso si sono ad esempio espresse alcune fonti dell'intelligence statunitense, per le quali alla base di alcuni attentati perpetrati in Siria a partire dal dicembre 2011 vi sarebbero elementi di al Qaida provenienti dall'Iraq. Il 12 febbraio il capo di al Qaida al Zawahiri è sembrato in qualche modo dar ragione a questa ipotesi, intervenendo in video a sostegno della rivolta contro Assad, ma mettendo in guardia la popolazione nei confronti delle iniziative occidentali e di quelle della Lega araba.

Nella seconda metà di febbraio proseguiva la repressione violenta di ogni manifestazione di dissenso, con particolare accanimento contro le due città centrali di Homs e Hama, ma senza trascurare la capitale e l’area meridionale di Daraa. Frattanto veniva messa in campo un'intensa attività diplomatica intorno alla questione siriana, che ha visto però sempre la Russia e la Cina ostacolare ogni progetto della Comunità internazionale nei confronti di Damasco.

Il regime di Assad il 15 febbraio annunciava che 11 giorni dopo si sarebbe svolto un referendum su un progetto di nuova Costituzione che prevedeva l'introduzione di un sistema multipartitico, dando corso alla soppressione del monopolio politico del partito Baath. Tuttavia, la nuova Costituzione  vietava tanto i partiti costituiti su base religiosa, quanto quelli a base regionale: in tal modo sarebbero comunque esclusi dalla competizione politica sia i Fratelli musulmani che i partiti curdi. Il progetto di Costituzione prevedeva inoltre l'elezione a suffragio universale diretto del presidente, per non più di due settennati. Da notare che il combinato disposto di altre previsioni del progetto costituzionale fa sì che il presidente possa essere soltanto di sesso maschile e di religione musulmana. La giurisprudenza islamica veniva posta alla base di tutte le norme del paese, ed era abolito qualsiasi riferimento al socialismo nell'organizzazione socio-economica del paese. La reazione occidentale è stata quella di considerare l'offerta del regime assolutamente tardiva e non credibile.

Il 16 febbraio l'Assemblea generale dell'ONU approvava un progetto di risoluzione di condanna della repressione attuata dal regime siriano, oramai definita più volte anche dallo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite alla stregua di crimini contro l'umanità: il documento, presentato dall'Egitto a nome della Lega araba, ha ricevuto il voto contrario di soli 12 paesi, mentre 17 si sono astenuti. Tra i contrari anche Russia e Cina, persistenti nel sostegno al regime di Assad, al di là di una dissociazione formale dagli aspetti più plateali della repressione. Mentre la Croce rossa internazionale ha intrapreso trattative con il regime siriano per una temporanea cessazione delle ostilità volta a consentire di recare aiuto ai civili coinvolti nella repressione in diverse città della Siria, Cina e Russia hanno infatti inviato propri emissari a Damasco, e si sono pronunciate a favore del processo di riforme intrapreso dal regime con il progetto di nuova Costituzione.

Il 22 febbraio un'inviata del Sunday Times ed un fotografo francese sono stati uccisi nel bombardamento dell'edificio in cui si trovavano nel quartiere Bab Amro di Homs, uno dei più martoriati dalla repressione. L'organizzazione Reporters sans frontières ha riferito del ferimento di altri due giornalisti occidentali, e ha accusato il regime di aver bombardato intenzionalmente la casa in cui si trovavano le due vittime, poiché era ampiamente risaputo che essa ospitava da tempo giornalisti stranieri.

Intanto Nazioni Unite e Lega araba incaricavano l'ex segretario dell'ONU Kofi Annan di intraprendere un'iniziativa diplomatica a tutto campo per tentare di giungere alla cessazione delle ostilità in Siria: anche la Cina e la Russia appoggiavano la nomina di Annan, soprattutto per togliere credibilità alla riunione del 24 febbraio degli amici della Siria, svoltasi a Tunisi su iniziativa della Lega araba, e con l'adesione di Stati Uniti, Unione europea e Turchia. Nonostante una vasta partecipazione di circa 60 paesi, l'incontro si chiudeva effettivamente senza particolari risultati, più che altro con una serie di dichiarazioni di intenti per un inasprimento dell'azione della Comunità internazionale verso il regime siriano.

Il 26 febbraio si è svolto in Siria il previsto referendum costituzionale, con un'affluenza di poco superiore alla metà degli aventi diritto: il progetto veniva tuttavia approvato con una larghissima maggioranza da quasi il 90% dei partecipanti alla consultazione.

Il 27 febbraio l'Unione europea varava il dodicesimo pacchetto di sanzioni contro il regime di Assad, procedendo in particolare al congelamento delle attività finanziarie della Banca centrale siriana, nonché al divieto del commercio di metalli preziosi e di diamanti e all'interdizione dei voli merci effettuati da compagnie siriane; tali misure si aggiungevan all'embargo sugli armamenti e all'embargo sulle importazioni ed esportazioni di petrolio siriano già in precedenza deliberati. Alle 150 personalità ed entità della Siria già colpite dall'Unione europea congelandone i beni e bloccandone i visti di ingresso nel territorio dell'Unione sono stati aggiunti sette ministri del governo di Damasco.

Successivamente, la sanguinosa repressione ha nuovamente raggiunto con particolare accanimento la roccaforte di Bab Amro nella città di Homs, nella quale peraltro sono rimasti per giorni prigionieri due reporter francesi, dopo che il 22 febbraio due altri loro colleghi aveva perduto la vita sotto le bombe del regime. Il 1º marzo fortunosamente i due reporter francesi hanno potuto raggiungere il Libano e mettersi in salvo, ma solo grazie all'aiuto di gruppi di ribelli al regime di Assad.

Il 2 marzo il vertice dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea ha deciso un ulteriore inasprimento delle sanzioni mirate contro il regime siriano, riconoscendo altresì il Consiglio nazionale siriano come legittimo rappresentante del popolo, e dando il via a una raccolta di prove per l'incriminazione dei responsabili delle stragi dinanzi alla Corte penale internazionale.

Intanto la situazione a Bab Amro, nonostante le affermazioni del regime di averne preso pieno possesso, si è mantenuta incerta, tanto che la Croce Rossa internazionale non ha potuto recare nel quartiere di Homs gli aiuti umanitari, limitandosi a rifornire le zone ad esso limitrofe e a soccorrere i numerosi profughi in fuga dalla regione centrale verso il confine con il Libano.

Nonostante il proseguire degli sforzi a livello internazionale quantomeno per attenuare la tragica situazione della Siria, la repressione è proseguita anche nella settimana successiva, concentrandosi in particolare contro la città di Idlib. Vi sono stati peraltro alcuni segnali di indebolimento del regime, quando l'8 marzo la televisione panaraba al Arabiya ha riportato notizie sulla diserzione di tre generali dell'esercito, che erano stati preceduti dall’ancor più importante abbandono del regime da parte del viceministro del petrolio Hussameddin, l'esponente di più alto grado a lasciare Assad dall'inizio delle proteste nel paese.

 

Avvio della mediazione Annan. Eccidio di Homs. Dichiarazione del CdS delle Nazioni Unite (marzo)

Il 10 marzo l'ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, inviato dall'ONU e dalla Lega araba per tentare di avviare una soluzione della questione siriana, si è recato a Damasco: qui lo stesso presidente Assad ha ribadito la versione ufficiale per cui la repressione in atto sarebbe occasionata esclusivamente dall'esistenza di gruppi armati e terroristi nel paese. Sostegno alla difficile missione di Kofi Annan è stato ribadito al Cairo nelle stesse ore da una dichiarazione congiunta della Lega araba e della Russia, che sono tornate a chiedere la cessazione delle violenze da qualsiasi parte perpetrate, la possibilità di un controllo da parte di istituzioni neutrali ma al di fuori di qualsiasi influenza straniera in Siria, il libero accesso di aiuti umanitari alla popolazione nelle zone più martoriate.

Il giorno successivo Kofi Annan si è nuovamente incontrato con Assad, mentre l'offensiva delle forze di sicurezza siriane su Idlib si intensificava: alla fine del colloquio l'ex Segretario generale dell'ONU ha rilasciato una dichiarazione che esprimeva al tempo stesso la consapevolezza della grande difficoltà di giungere a una cessazione delle violenze nel paese ed un ottimismo di fondo basato sull’esistenza, secondo Kofi Annan, di una volontà di giungere alla pace.

Nella notte tra 11 e 12 marzo un nuovo atroce episodio di violenza si consumava a Homs, ove intere famiglie sono state decimate, con un bilancio di una cinquantina di vittime, tra le quali molte donne e bambini.

Nel frattempo, alle Nazioni Unite, non registrava progressi un’ulteriore bozza di risoluzione, incentrata sull’esigenza di fare affluire aiuti umanitari urgenti alla popolazione siriana, e sulla quale è persistito lo scetticismo russo e cinese, i due paesi temendo sempre la ripetizione dello scenario libico di un anno prima. In questo contesto, nel quale oltre alla prosecuzione delle violenze contro i civili sarebbero stati ormai secondo le Nazioni Unite circa trentamila i siriani fuggiti nei paesi vicini e duecentomila gli sfollati interni; il regime, sulla base del referendum costituzionale di febbraio, ha indetto per il 7 maggio elezioni politiche, la cui regolarità è stata subito contestata dal Dipartimento di Stato USA.

Il 14 marzo anche il nostro Paese ha sospeso l’attività della propria rappresentanza diplomatica a Damasco, richiamandone in patria il personale, per motivi di sicurezza e per dimostrare la riprovazione italiana per le violenze perpetrate dal regime siriano.

Il 16 marzo il primo ministro turco Erdogan ha annunciato che il proprio paese avrebbe valutato la possibilità di creare una zona-cuscinetto al confine con la Siria, in presenza di un costante flusso di profughi verso la Turchia, che sarebbero stati già 15.000. Intanto il giorno dopo due esplosioni hanno colpito a Damasco la sede dei servizi di sicurezza dell'aeronautica e gli uffici della sicurezza criminale, provocando 27 vittime, per lo più civili. I servizi di sicurezza dell'aeronautica sono particolarmente famigerati, in quanto ritenuti la più efficiente agenzia di controllo e direzione della repressione.

Il 18 marzo anche la città di Aleppo è stata toccata dall'ondata di attentati, quando un'autobomba è esplosa vicino a un ufficio dei servizi della sicurezza politica, provocando almeno due morti e una trentina di feriti. Tutti questi attentati hanno nuovamente scatenato reciproche accuse fra il regime e gli oppositori, mentre la televisione e la stampa ufficiale del regime siriano hanno apertamente attaccato il Qatar e l'Arabia saudita, bollati come responsabili di tutte le violenze in atto nel paese.

Il 19 marzo giungeva a Damasco una squadra di cinque esperti nominati dall'emissario speciale dell'ONU e della Lega araba per la crisi siriana, Kofi Annan, con l'obiettivo di esaminare congiuntamente con le autorità di governo siriane la possibilità di applicare alcune delle proposte elaborate dall'ex segretario generale delle Nazioni Unite. Altro personale ONU si trovava già dal giorno precedente in Siria per una valutazione sul campo della situazione umanitaria.

Il 19 marzo il leader del gruppo liberaldemocratico al Parlamento europeo, Guy Verhofstadt, citando fonti dell'opposizione siriana, ha affermato che forze speciali della Russia avrebbero scaricato nel porto siriano di Tartus armi destinate al regime: Verhofstadt ha chiesto un'indagine da parte dell'ONU, poiché tale condotta, qualora appurata, renderebbe la Russia complice dei crimini contro l'umanità perpetrati dal regime di Assad.

Quasi facendo seguito alle aspre critiche all'atteggiamento del governo siriano da parte della Russia, pronunciate dal ministro degli esteri Lavrov il 20 marzo, il giorno successivo il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava una dichiarazione - con il concorso della Russia della Cina, che stavolta non si opponevano all’adozione del documento - nella quale si richiedeva a Damasco di attuare prontamente le proposte dell'inviato dell'ONU e della Lega araba Kofi Annan. Tali proposte comprendevano il ritiro delle forze militari dalle città e il rilascio di tutti coloro che fossero stati arbitrariamente arrestati. Come notava lo stesso Ministro degli esteri francese Juppé, si è delineata una certa evoluzione della posizione russa, in rapporto al fatto che il regime siriano appariva impermeabile a qualunque iniziativa internazionale.

Ciò è dimostrato dal fatto che il giorno dopo la dichiarazione del Consiglio di sicurezza, dunque il 22 marzo, vi è stata un’intensificazione delle violenze, con un bilancio non inferiore a 70 morti. Tra l'altro veniva impedito anche a centinaia di famiglie che cercavano di abbandonare il territorio siriano per entrare in Giordania di lasciare il paese, costringendole ad accamparsi a ridosso della frontiera siro-giordana. La presa di posizione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata comunque criticata da esponenti del Consiglio nazionale siriano, poiché giudicata troppo blanda.

Il 23 marzo l'Unione europea ha adottato ulteriori misure sanzionatorie nei confronti di esponenti del regime siriano e di entità del paese, portando complessivamente a 126 il numero degli individui e a 41 il numero delle entità da esse toccati. L'ultima tornata di sanzioni ha riguardato quattro donne al vertice del potere siriano, ovvero la first lady, la madre del presidente Assad, nonché una sorella maggiore e una cognata di questi. Le ultime sanzioni hanno colpito anche il Ministro dell'elettricità, il ministro dell'amministrazione locale, alcuni sottosegretari e un imprenditore siriano. Due sono state invece le società toccate dalle nuove misure restrittive.

Il 23 marzo è peraltro coinciso anche con un nuovo venerdì di protesta, al termine del quale si sono contate 32 vittime, per lo più nella città di Homs. Il 24 marzo i bombardamenti delle forze governative su diverse città sono proseguiti, provocando almeno 20 morti, e tutto ciò ad onta del proseguire dell'iniziativa di Kofi Annan, che si recava a Mosca il 25 marzo, e a Pechino il 27 marzo. La crisi siriana è sembrata dunque sempre più precipitare in una dimensione di scontro militare, come testimoniava anche la decisione di creare un Consiglio militare nel quale dovrebbero confluire tutte le truppe dei disertori. La Turchia, che ha visto sempre più deteriorarsi i rapporti con l’ex alleato siriano, dal quale oltretutto temeva di veder favorire un rilancio del terrorismo secessionista curdo del PKK; concordava con gli Stati Uniti, nell’incontro tra Erdogan e il presidente Obama a Seul (25 marzo), nel dare il via a forniture di carattere non militare ai ribelli siriani.

La successiva settimana, apertasi con le speranze suscitate dal convergere della Russia e della Cina a favore del piano di Kofi Annan per la cessazione delle violenze nel paese, e soprattutto dall'annuncio del governo siriano (27 marzo) dell'accettazione del piano; si è poi dipanata con il consueto elenco quotidiano di scontri e di vittime, senza sostanziali progressi verso il cessate il fuoco. Nulla infatti è stato attuato del piano, a cominciare dal ritiro delle truppe e delle armi pesanti dai centri abitati della Siria e dalla parziale tregua quotidiana per consentire la fornitura di aiuti umanitari laddove necessario.

Profondo scetticismo era stato del resto espresso dagli oppositori siriani riuniti a Istanbul, ove il 28 marzo sono riusciti a convergere su un itinerario mirante all’instaurazione di un governo transitorio dopo l'auspicata fine del regime di Assad. Gli oppositori hanno inoltre ribadito che il Consiglio nazionale siriano va considerato l'interlocutore ufficiale e formale del popolo siriano. L'unico neo sulla riunione è stata la parziale defezione di alcuni elementi curdi, scontenti per la mancanza di prospettive di autonomia nel futuro assetto della Siria.

Il vertice della Lega araba, che per la prima volta in 22 anni si è svolto nella capitale irachena Baghdad (29 marzo), rilanciava l'esortazione alla Siria ad applicare immediatamente il piano Annan, constatando l'assoluta inerzia di fatto del regime di Assad nel dare seguito a quanto a parole accettato il 27 marzo. Tuttavia, Damasco non ha preso troppo sul serio quanto uscito dalla riunione di Baghdad, anche perché ufficialmente sospesa dalla Lega araba. Va del resto rilevato che anche da parte dei ribelli si poneva un ostacolo non irrilevante all'attuazione del piano, poiché anche questi ultimi non intendevano deporre le armi prima che a farlo fosse il regime siriano, ritirando i blindati e le armi pesanti dalle principali città.

 

Tensioni turco-siriane. Risoluzioni del CdS delle Nazioni Unite sulla crisi siriana (aprile)

Il 1º aprile si è svolta a Istanbul la seconda Conferenza degli amici della Siria, cui hanno preso parte circa 80 paesi, che ha chiesto con forza di indicare una data ultimativa al regime siriano per l'applicazione del piano formalmente accettato. In particolare, il segretario generale della Lega araba, al Arabi, ha esortato le Nazioni Unite ad adottare misure severe contro il regime di Assad, non escluse quelle previste dal VII capitolo della Carta dell'ONU, che riguarda gli interventi armati a difesa della pace.

Nonostante questa presa di posizione, nel complesso la Conferenza non ha espresso alcun orientamento per armare direttamente i ribelli, bensì solo per appoggiarli finanziariamente. La Conferenza ha inoltre ribadito il riconoscimento del Consiglio nazionale siriano come legittimo rappresentante di tutti i cittadini e raggruppamento delle varie frange dell'opposizione. Lo stesso Consiglio nazionale siriano, peraltro, ha giudicato un po' tiepide le misure uscite dalla Conferenza di Istanbul, richiedendo l'apertura di corridoi umanitari per la popolazione sotto il tallone della repressione, nonché la fornitura di armi ai disertori dell'esercito siriano impegnati nei combattimenti.

La data del 10 aprile, entro la quale secondo l'inviato speciale dell'ONU e della Lega araba Kofi Annan il governo siriano si sarebbe impegnato a ritirare le truppe dalle città e a cessare dalla repressione, è divenuta il terreno di scontro con il regime di Assad nell’ultima settimana: infatti la Siria ha sostenuto che il 10 aprile andava considerata data di inizio del ritiro delle proprie forze armate dai centri abitati, da completare semmai entro i due giorni successivi, ed esattamente entro le ore 6 del 12 aprile. Successivamente il regime di Assad ha manifestato la tendenza ad un’ulteriore dilazione del termine, considerando la mancanza di qualunque impegno delle forze di opposizione a cessare a loro volta dai combattimenti, che, si ricorda, il regime di Damasco ha costantemente richiamato quale vera causa della repressione.

L'atteggiamento della Siria ha preso corpo nonostante le esortazioni di Kofi Annan e dell'attuale Segretario generale dell'ONU a cessare immediatamente ogni violenza, e nonostante la seconda Dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU del 5 aprile, nella quale si ribadiva il pieno sostegno all'opera di Kofi Annan, con l'obiettivo di favorire l'accesso degli ormai indispensabili aiuti umanitari in Siria e avviare un processo di transizione politica verso un regime pluralistico nel paese. La Dichiarazione insistevaaltresì sull’importanza di una credibile supervisione delle Nazioni Unite sul rispetto degli impegni assunti da Damasco - nella stessa giornata del 5 aprile, infatti, un primo gruppo di appartenenti alla missione di osservatori ONU era giunto nella capitale siriana.

Nei giorni successivi la repressione e i combattimenti sono proseguiti, mentre da parte dell'opposizione armata siriana è emerso progressivamente un impegno ad aderire alla cessazione delle ostilità entro il 12 aprile, accompagnato però dalla minaccia di riprendere immediatamente i combattimenti in caso di inosservanza del cessate il fuoco da parte del regime di Assad. Ulteriori difficoltà sono emerse poi del coinvolgimento indiretto dei paesi confinanti, anzitutto della Turchia, che ha visto salire in modo esponenziale il numero di profughi provenienti dalla Siria, e il cui campo di Kilis è stato più volte attinto dal fuoco delle truppe governative siriane impegnate a scoraggiare l'esodo dei profughi o a fronteggiare oppositori armati - naturalmente ciò ha suscitato forti proteste da parte del governo di Ankara.

Anche nel Nord del Libano il fuoco delle forze di sicurezza siriane ha provocato la morte di un cameraman della televisione libanese e il ferimento di due suoi colleghi, nelle stesse ore in cui due siriani e due turchi venivano feriti nel campo profughi di Kilis.

La pericolosità delle tensioni turco-siriane si presentava tanto maggiore alla luce delle accuse che Damasco rivolgeva da tempo alla Turchia, ma anche all’Arabia saudita e al Qatar, di sostenere attivamente e di addestrare i gruppi armati operanti nel paese.

Esortazioni a rispettare gli impegni per la cessazione delle ostilità sono nuovamente venute da Kofi Annan il 10 aprile, in occasione della visita in un campo profughi che ospitava siriani nel sud della Turchia. Nelle stesse ore, tuttavia, il Ministro degli esteri siriano poneva ulteriori condizioni all'espletamento del mandato della missione di osservatori, pretendendo anche di intervenire sulla composizione di essa, mentre le truppe governative provocavano la morte di un altro centinaio di persone.

L’11 aprile il governo siriano, dopo un trionfalistico annuncio sulla sconfitta dei “terroristi” e la ripresa totale di controllo del territorio, si diceva pronto ad attuare la tregua a partire dal giorno successivo, mantenendo peraltro le truppe pronte a nuovi interventi. In effetti nella giornata del 12 aprile, nonostante sporadici bombardamenti a Hama e Homs, il cessate il fuoco veniva sostanzialmente rispettato da entrambe le parti, come rilevava con moderata soddisfazione Kofi Annan.

La giornata del 12 aprile ha visto maturare a Washington, durante la seconda giornata della riunione dei ministri degli esteri del G8, un'evoluzione della posizione russa, disponibile ad accettare nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU la discussione di una bozza di risoluzione per l'invio di una missione di osservatori in Siria. Mentre la tregua veniva rispettata solo parzialmente, tanto che nelle prime 36 ore le forze governative uccidevano una trentina di persone, al Palazzo di Vetro la Russia frapponeva qualche ulteriore resistenza all'approvazione del testo in discussione, giudicato da Mosca eccessivamente lungo e dettagliato.

Il 14 aprile, infine, la bozza di risoluzione è stata approvata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza (Risoluzione 2042): il testo approvato prevede l'invio immediato di una missione esplorativa in Siria, composta da non più di trenta osservatori militari non armati, allo scopo di controllare il rispetto del cessate il fuoco, ma anche degli altri punti del piano di pace sottoposto ad Assad da Kofi Annan, con particolare riguardo al ritiro delle forze militari e degli armamenti pesanti dai centri abitati. Le autorità siriane sono inoltre invitate a consentire il libero accesso del personale umanitario a tutte le persone bisognose di assistenza, facilitandone l’operato. La risoluzione contiene inoltre l’intendimento del Consiglio di Sicurezza, qualora le parti assicurino una cessazione duratura delle violenze, di dar vita immediatamente ad una vera e propria missione di monitoraggio dell’ONU in Siria. Il Segretario generale delle Nazioni Unite viene impegnato a riferire sull’attuazione della risoluzione 2042 entro e non oltre il 19 aprile 2012.

La Russia, per bocca dell'ambasciatore presso le Nazioni Unite Churkin, ha in qualche modo tuttavia avvertito che per l'invio della missione di osservatori vera e propria avrebbe dovuto essere approvata una seconda risoluzione, successivamente ad un rapporto sulla situazione siriana da parte del Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon.

Nella serata del 15 aprile sono arrivati a Damasco i primi osservatori dell'ONU, mentre il segretario generale Ban Ki-moon esprimeva preoccupazione per le violazioni della tregua, che avrebbero provocato nella giornata 13 vittime tra i civili. Peraltro il governo di Damasco ha messo in qualche modo le mani avanti, precisando di non essere in grado di garantire l'incolumità degli osservatori se il loro lavoro e i loro movimenti non fossero avvenuti in completo raccordo con le autorità del paese, e ribadendo inoltre di avere il diritto di non accettare eventualmente la nazionalità di alcuni degli osservatori. A tale proposito il Consiglio nazionale siriano, per bocca di un suo esponente, ha esplicitamente accusato il regime di voler controllare tutti i movimenti della missione di osservatori, anche per mezzo della sezione speciale dei servizi di sicurezza che sarebbe stata creata già durante la missione di osservatori della Lega araba dei mesi scorsi.

Pur dopo l'inizio della missione di osservatori dell'ONU, la situazione nel paese è rimasta difficile, con le Nazioni Unite che in diverse prese di posizione hanno fatto presente come la tregua sia stata rispettata solo parzialmente dal regime, il quale, dal canto suo, sempre appoggiato dalla Russia, ne ha addossato la responsabilità ai combattenti definiti terroristi.

Il 19 aprile il Segretario generale dell'ONU ha denunciato il proseguire delle violenze da parte delle forze del regime e il mancato ritiro delle truppe e degli armamenti dalle città, mentre non vi era stato alcun rilascio di prigionieri e si continuavano a denunciare abusi contro di essi. Anche l'accesso di aiuti umanitari risultava ancora problematico. Da parte dei combattenti contro il regime di Assad sono state rivolte nella stessa giornata esortazioni a compiere operazioni militari mirate in appoggio alle azioni dei ribelli.

Il 21 aprile il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una seconda Risoluzione sulla Siria (la n. 2043), la cui urgenza era stata particolarmente sostenuta dalla Russia, votando all'unanimità l’invio di un contingente di non più di trecento osservatori militari disarmati, oltre alla necessaria componente civile. La missione  deliberata (UNSMIS – United Nations Supervision Mission in Syria) è stata posta sotto la guida del generale norvegese Robert Mood, e per essa è stata prevista una durata iniziale di 90 giorni – sull’impianto della missione già in precedenza le Nazioni Unite avevano firmato un protocollo d'intesa con il governo siriano. Si ricorda al proposito che il Consiglio dei ministri italiano ha autorizzato l’8 maggio la partecipazione all’UNSMIS di militari italiani, nel ruolo di “osservatori delle Nazioni Unite”, non armati, fino ad un massimo di 17 unità (D.L. 58/2012, convertito dalla legge  6 luglio 2012, n. 99). La Risoluzione invita inoltre sia le autorità siriane che le opposizioni armate a porre fine a ogni combattimento, presupposto questo essenziale per la valutazione del Segretario generale sulle modalità e i tempi di dispiegamento di UNSMIS.

Gli attivisti dei comitati di coordinamento che si oppongono in Siria al regime non hanno nascosto la loro delusione, sostenendo che la missione fallirà il proprio obiettivo, in quanto insufficiente a coprire il vasto territorio siriano, e si risolverà solo in un’ulteriore concessione di tempo al regime di Assad.

La nuova risoluzione ha inoltre aperto il problema di trovare l'accordo con la Siria sulle nazionalità dei componenti della missione, che Damasco desiderava più possibile appartenere a paesi non ostili al regime di Assad. Il 23 aprile, mentre si sono nuovamente levate voci a denunciare la perdurante repressione in atto nel paese, che viola l'impegno sul cessate il fuoco, nuove sanzioni europee e americane hanno colpito la Siria: in particolare, quelle decise dal Presidente USA Obama si sono rivolte verso una serie di tecnologie con le quali il regime sarebbe in grado di rintracciare e colpire gli oppositori mediante il controllo dei telefoni cellulari e dei social network della rete Internet.

Il 26 aprile vi è stata, tra l’altro, l’uccisione di 11 bambini nel bombardamento di un palazzo a Hama – ma il governo ha attribuito l’esplosione all’attività di terroristi che preparavano ordigni -, nelle stesse ore in cui la Turchia ha ventilato la possibilità di portare in sede NATO la situazione di tensione del proprio confine con la Siria, oggetto nei giorni precedenti di ripetute violazioni durante l’inseguimento di profughi. Il giorno successivo un attentato suicida ha colpito il centro di Damasco, confermando che il cessate il fuoco veniva sostanzialmente violato, con conseguente fallimento del piano di Kofi Annan, come già rilevato dalla Francia ed a seguire dagli USA.

Quando il 30 aprile diverse esplosioni hanno colpito la città nordoccidentale di Idlib, solo da un mese ritornata sotto il controllo del regime di Assad, il governo ha avuto buon gioco nell’attribuire la morte di non meno di otto persone ai “terroristi”. Gli oppositori hanno tuttavia rigettato ogni responsabilità sulle autorità siriane, accusate di organizzare attentati – come alcuni episodi recenti dimostravano – per poter presentarsi quali vittime del terrorismo agli occhi della Comunità internazionale. Del resto anche l’arrivo degli osservatori della Lega araba nello scorso dicembre era stato accompagnato, sempre secondo gli oppositori, da una serie di attentati.

 

Invio di una missione di osservatori delle Nazioni Unite. Massacro di civili ad Hula. Rottura delle relazioni diplomatiche con la Siria (maggio)

Il 3 maggio sono stati gli studenti universitari di Aleppo, solo da poco tempo unitisi alla contestazione del regime siriano, ad essere vittime della repressione, con una massiccia irruzione delle forze di sicurezza nei dormitori del campus, danneggiando suppellettili, procedendo ad arresti e - secondo quanto riferito – uccidendo due dei giovani ospiti. Nel contempo si diffondeva la notizia dell’arresto di due figli del noto dissidente Fayez Sara, fondatore della Lega dei giornalisti siriani. Il portavoce della UNSMIS ha in effetti rilevato che non vi era ancora il completo rispetto del cessate il fuoco.

Nemmeno le elezioni politiche del 7 maggio hanno segnato una ricomposizione dei contrasti: piuttosto, esse sono state boicottate anche da forze di opposizione moderata non colpite finora dalla repressione, in quanto giudicate solo un’operazione cosmetica del regime, il cui controllo sul Parlamento – già di per sé scarsamente incidente sulla vita politica siriana – non viene meno per la sola fine del monopolio politico del Partito Baath, giacché esso continuerà a designare oltre la metà dei deputati su base corporativa, mentre il divieto della formazione di partiti a sfondo etnico o confessionale ha reso possibile solo la presentazione di liste di candidati indipendenti piuttosto omogenei tra loro. Inutile dire che le elezioni sono state bollate alla stregua di una farsa dalle opposizioni più radicali.

L’8 maggio Kofi Annan rilevava come gran parte del suo piano per il cessate il fuoco non fosse stata attuata, ma esprimeva fiducia nell’azione dei trecento osservatori che entro la fine di maggio sarebbero stati verosimilmente tutti al lavoro in Siria - e tra loro un nucleo di osservatori italiani, dei quali 5 in imminente partenza, come deciso dal Governo l’8 maggio e comunicato il giorno successivo in un’informativa alle Commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera.

Il pessimismo sul destino della missione ONU si è accresciuto il 9 maggio, quando un attentato ha sfiorato addirittura un convoglio di osservatori che si dirigeva verso Daraa, e soprattutto il giorno successivo, con la morte di oltre 50 persone – tra cui 11 bambini - e il ferimento di trecento in un duplice attacco di kamikaze a Damasco. L’attentato è stato rivendicato due giorni dopo da un gruppo fondamentalista sunnita poco conosciuto, il Fronte della vittoria, che già si era attribuito in gennaio un analogo ma meno sanguinoso atto terroristico nella capitale.

Il 13 maggio il Ministro degli Esteri Giulio Terzi ha ricevuto a Roma il capo del Consiglio nazionale siriano Burhan Ghalioun, proprio nella capitale italiana impegnato dal giorno precedente in un incontro del Segretariato del CNS. Tale riunione ha contribuito a sancire le perduranti divisioni nel fronte che si contrappone al regime di Assad, scosso da polemiche politiche e rivalità personali tra i dissidenti all'estero e quelli in patria - questi ultimi, riuniti in maggioranza nella Commissione per il coordinamento nazionale (CCN).

Gli esponenti della Ccn accusano il Cns di essere diretto solo da esponenti di élite espatriati, pur avendo un importante seguito di militanti all'interno della Siria. I dissidi interni alle opposizioni siriane si sono acuiti dopo la rielezione di Ghalioun nella riunione di Roma, ove ha sconfitto il candidato Sabra, cristiano e più legato all’opposizione operante all’interno della Siria, tanto che lo stesso Ghalioun si è detto pronto alle dimissioni per scongiurare il completo fallimento dei tentativi di unificare il fronte delle opposizioni, e si è dopo pochi giorni effettivamente dimesso, criticando anche le divisioni tra laici e islamici in seno allo stesso Cns.

Frattanto si sono verificati, a partire dalla metà di maggio, casi di propagazione del conflitto siriano in Libano, che hanno destato comprensibilmente una grande preoccupazione sia nelle locali autorità che nella Comunità internazionale. Il 18 maggio lo stesso segretario generale dell’ONU, a seguito di prove presentategli dal rappresentante siriano alle Nazioni Unite, ha riconosciuto la presenza di al Qaida in Siria e l’elevata probabilità che abbia portato a termine gli attentati di Damasco del 10 maggio. Nella stessa giornata del 18 maggio si è svolta ad Aleppo – seconda città della Siria -, in concomitanza con il venerdì di preghiera, la più massiccia manifestazione di contestazione al regime dall’inizio delle proteste nel 2011.

Il 25 maggio i carri armati del regime siriano sono entrati per la prima volta anche ad Aleppo, ma, soprattutto, va segnalato il massacro di Hula, cittadina della provincia di Homs, dove pesanti bombardamenti di artiglieria attribuiti dagli osservatori dell’ONU ai carri armati delle forze governative – che peraltro hanno negato ogni responsabilità, attribuendola a forze terroristiche impegnate in un complotto straniero - hanno provocato più di cento morti, e tra questi moltissimi bambini.

Tra le reazioni indignate della Comunità internazionale spicca quella del ministro degli esteri italiano Giulio Terzi,il quale, incontrando a Roma l'omologo francese Laurent Fabius, ha richiesto una nuova riunione del Gruppo degli Amici della Siria, per valutare ulteriori iniziative in sede ONU anche al di là del piano Annan, e definito inaccettabile lo sviluppo degli eventi in Siria. D'altra parte, il massacro di Hula ha fatto sì che l'Esercito libero siriano, essenzialmente composto da militari disertori, abbia dichiarato la fine del piano Annan, esortando le Nazioni Unite e i paesi amici dell'opposizione siriana a lanciare raid aerei contro le forze del presidente Assad, e preannunciando una escalation militare contro le forze governative, suscettibile di configurare sempre più la crisi siriana come una vera e propria guerra civile.

La Russia peraltro ha continuato a puntare con forza sulla riuscita del piano Annan, mettendo in luce come le responsabilità delle violenze siano ormai condivise dal regime e dall’opposizione siriani, e non è sembrata disponibile ad accogliere una soluzione – che piacerebbe invece agli USA - come quella che nello Yemen ha portato all’allontanamento dal potere del presidente Saleh, mantenendo però alla direzione del paese buona parte del suo entourage politico.

Il 28 maggio Kofi Annan è tornato a Damasco, lanciando un appello per l’effettiva applicazione del piano di pace da lui stesso formulato, soprattutto con la fine delle violenze da chiunque perpetrate. La reazione alla strage consumatasi a Hula ha raggiunto il 29 maggio un momento di coordinamento a livello europeo, con la decisione di Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito di espellere i rappresentanti diplomatici siriani nelle rispettive capitali, dichiarandoli persona non grata. Altrettanto hanno fatto gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia: i capi delle diplomazie europee hanno chiuso ufficialmente ogni possibilità per Assad di rimanere alla guida della Siria, e anche il premier turco Erdogan ha parlato di situazione ormai giunta al limite da parte del regime di Assad.

La Russia, invece, ha proseguito nel sostegno al regime siriano, continuando a lanciare appelli alla fine delle violenze a tutti gli attori del conflitto, ed esortando l’ONU a condurre un'inchiesta imparziale sui fatti di Hula, sui quali è stato peraltro reso noto dall’Alto commissariato ONU per i diritti umani che i resti delle vittime dimostrerebbero come solo una piccola parte di esse sia stata provocata dai colpi di artiglieria, mentre quattro quinti dei morti sarebbero stati uccisi in un secondo tempo, in vere e proprie esecuzioni, anche con armi da taglio, da parte dei miliziani filogovernativi – questo tragico clichet si sarebbe poi ripetuto nei giorni sucessivi in varie circostanze.

Rilevato come le divisioni nel seno dell'opposizione al regime di Assad siano proseguite e semmai si siano aggravate - i vertici all'estero dell’Esercito di liberazione siriano (ELS) non hanno condiviso l'ultimatum di 48 ore lanciato il 30 maggio dai ribelli operanti all'interno della Siria perché il regime di Assad applicasse finalmente tutti punti del piano Annan - e segnalato come, in modo abbastanza strumentale, la questione siriana sia ormai entrata pienamente anche nella campagna per le presidenziali americane - il candidato repubblicano Romney ha infatti accusato il presidente Obama di consentire il massacro siriano rifiutandosi di armare i ribelli, mentre l'Amministrazione in carica ribatte che, per le divisioni al loro interno e le loro caratteristiche ancora in buona parte non chiarite, sarebbe troppo rischioso consegnare armamenti alle numerose fazioni dell'opposizione -; anche sul piano europeo si sono rilevate notevoli divergenze di posizione, con il Belgio quale unico sostenitore della prospettiva di intervento armato in Siria - ma il neopresidente francese Hollande non aveva escluso a sua volta del tutto  tale eventualità -, mentre la Germania, ad esempio, affida solo alla via dei negoziati e della politica la soluzione del rebus di Damasco.

Ciò ha consentito al presidente russo Putin, teoricamente in difficoltà per il costante appoggio alla permanenza del regime siriano, di affrontare senza troppe difficoltà il doppio vertice del 1º giugno a Berlino e del 2 giugno a Parigi, rispettivamente con la cancelliera Merkel ed il Presidente francese, facendo valere l'approccio più morbido della Germania nei confronti di una Francia per la quale è assolutamente improponibile l'ipotesi di una permanenza di Assad al potere. In tal modo, comunque, né la Germania nella Francia sono riuscite ad ottenere alcun cedimento russo sulla prospettiva, perlomeno, di un inasprimento sanzionatorio nei confronti di Damasco.

 

Impasse della missione internazionale di osservatori. Ipotesi d’intervento armato delle Nazioni Unite. Abbattimento di un jet militare turco da parte della contraerea siriana (giugno)

Il ruolo di sostegno al regime siriano da parte di Cina e Russia è stato confermato anche il 1º giugno, quando il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani ha approvato a Ginevra una risoluzione di condanna del massacro di Hula, con una maggioranza nella quale non figuravano né Mosca né Pechino.

Il 2 giugno, mentre una sessione straordinaria della Lega araba convocata in Qatar sollecitava nuovamente al rispetto del piano di pace di Kofi Annan, minacciando in caso contrario l'uso della forza, lo stesso Kofi Annan paventava la prospettiva di una guerra a tutto campo ormai imminente in Siria. Inoltre, il 2 e 3 giugno il conflitto siriano è tornato a riecheggiare anche nel Nord del Libano, dove nella città di Tripoli vi sono stati 14 morti e più di trenta feriti in rinnovati scontri tra gruppi sunniti e alawiti.

Nemmeno l’intervento di Assad in Parlamento (3 giugno) ha offerto speranze di una qualche evoluzione positiva della situazione: il presidente siriano è tornato ad accusare forze straniere e terroristiche per l’escalation delle violenze, incluso il massacro di Hula, e in tal senso ha escluso qualsiasi possibilità di dialogo con il Consiglio nazionale siriano. Dure critiche ha destato il discorso di Assad da parte dell’Arabia Saudita – il cui capo della diplomazia ha auspicato la creazione in Siria di una zona-cuscinetto – e della Turchia, per bocca del premier Erdogan.

Il Vertice tra Russia ed Unione europea svoltosi nei pressi di San Pietroburgo e concluso il 4 giugno non ha portato novità in riferimento alla tragedia siriana: le parti hanno sì convenuto sulla necessità di sostenere ulteriormente l’attuazione del Piano Annan, ma hanno confermato le divergenze già registrate in ordine al livello di pressioni da esercitare sul regime siriano e sul suo capo Bashar al-Assad – la cui permanenza al potere, tuttavia, la Russia ha precisato subito dopo – e nello stesso senso si è espressa Pechino - non sarebbe una priorità inderogabile.

All’interno della Siria è apparso poi con chiarezza il superamento della tregua che i ribelli avevano accettato all’inizio dell’applicazione del Piano Annan: soprattutto dopo il massacro di Hula essi hanno dichiarato di voler riprendere i combattimenti a protezione delle popolazioni siriane attaccate dal regime, mentre chiedono a gran voce l’intervento armato della Comunità internazionale. Che il conflitto siriano, nello stallo sostanziale della diplomazia, precipiti sempre più in una sorta di guerra civile, sembra confermato anche dal relativo calo del numero dei civili uccisi, accompagnato dal netto incremento delle vittime tra i governativi e i ribelli in armi. Il 5 giugno, come ritorsione all’espulsione degli ambasciatori siriani decretata il 29 maggio in diversi Paesi occidentali, la Siria ha dichiarato indesiderati 17 diplomatici.

Il 6 giugno – mentre a Damasco è stato incaricato un ex ministro dell’agricoltura di dar vita al nuovo governo dopo le contestate elezioni legislative del mese precedente - si è svolto il Vertice russo-cinese a Pechino, dal quale è venuta la proposta di una Conferenza internazionale per garantire l’attuazione del Piano Annan. Parallelamente, paesi occidentali e arabi si sono ritrovati a Istanbul nell’ambito del gruppo degli Amici della Siria, e si sono espressi per nuove sanzioni contro Damasco e per il deciso avvio di un processo di transizione. A quest’ultima prospettiva sembrano però opporsi le gravi divisioni interne al fronte degli oppositori del regime di Assad, come anche i rischi di degenerazione in uno scontro confessionale aperto tra sunniti e alawiti in Siria e nel vicino Libano.

La prospettiva della Conferenza lanciata da Russia e Cina sembra invece improbabile poiché Mosca e Pechino desidererebbero vi partecipasse anche l’Iran, paese indubbiamente in grado di premere sugli attori della crisi siriana, ma, secondo il resto della Comunità internazionale, in senso negativo.

Il 6 giugno vi è stata anche una nuova strage di civili ad opera dell’artiglieria governativa e delle milizie lealiste alla periferia di Hama: il bilancio è stato di circa cento vittime, di cui venti bambini. La nuova strage ha fatto dichiarare apertamente il giorno dopo al segretario generale Ban Ki-moon, davanti all’Assemblea generale dell’ONU, che il regime di Damasco ha ormai perso ogni legittimità.

Segnali di ricompattamento delle opposizioni al regime siriano si sono avuti il 10 giugno, quando il Consiglio nazionale siriano, nella riunione di Istanbul, ha eletto il nuovo leader, nella persona del curdo lungamente esiliato in Svezia Abdelbasset Sieda, una figura potenzialmente capace di coinvolgere maggiormente le minoranze etniche e religiose della Siria nell’opposizione ad Assad. Sieda ha subito annunciato che il Cns assumerà la direzione dei ribelli armati operanti all’interno del paese, inquadrati nell’Esercito libero siriano. Sieda, inoltre, è tornato a lanciare un vibrante appello alla Comunità internazionale perché, ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’ONU, autorizzi un intervento armato a protezione dei civili siriani.

L'11 giugno gli osservatori della missione ONU in Siria hanno fatto rilevare una ulteriore escalation da parte del regime di Assad, con l'uso di elicotteri militari contro le basi della ribellione armata, e nel mezzo del conflitto sempre più numerosi sono i civili che restano intrappolati e privi anche dei più elementari mezzi di sussistenza. Non a caso gli stessi osservatori si sarebbero impegnati nell'evacuazione di un gran numero di civili, fra cui naturalmente anche donne e bambini, intrappolati nella città di Homs. Un rapporto sempre di fonte ONU ha subito dopo evidenziato gli orrori nei quali vengono coinvolti in Siria i bambini, uccisi, incarcerati e fatti oggetto di ogni forma di violenza, fino a utilizzarli come scudi umani nei convogli di soldati governativi.

Anche i ribelli, tuttavia, si sarebbero resi responsabili di tali atrocità, con il reclutamento e l'uso in combattimento di numerosi bambini. Sempre a proposito dei ribelli va segnalato, secondo testimoni citati dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, che il massacro di Hula del 25 maggio andrebbe addebitato invece che al regime alle opposizioni, stante il fatto che la maggior parte delle vittime sarebbero stati alawiti e non sunniti.

Il 13 giugno la Francia è tornata con forza, per bocca del nuovo ministro degli esteri Fabius, a invocare un intervento delle Nazioni Unite basato sul capitolo VII della Carta dell'ONU, che consentirebbe di armare coloro che vengono inviati sul campo. Inoltre, Fabius è tornato a ventilare l'opportunità di imporre una parziale no fly zone sui cieli siriani, a protezione dei civili delle zone più martoriate. È emerso intanto il raccapricciante assassinio di una madre e di cinque figli tutti di età non superiore a sei anni in una zona a Nord di Aleppo a maggioranza curda, nelle stesse ore nelle quali l'esercito governativo assumeva il controllo della cittadina di Haffe, nella regione costiera di Latakia, popolata da sunniti e cristiani, ma circondata da villaggi alawiti.

Parallelamente al rilancio francese in direzione di una possibilità almeno parziale di intervento armato delle Nazioni Unite - che Parigi ha poi ulteriormente corroborato annunciando la fornitura ai ribelli di mezzi di comunicazione -, gli Stati Uniti hanno accentuato la pressione su Mosca, accusata anche di fornire al regime siriano gli elicotteri militari utilizzati già più volte nella repressione: il ministro degli esteri russo Lavrov, in visita a Teheran, ha respinto ogni accusa, asserendo che Mosca fornirebbe a Damasco esclusivamente armamenti difensivi, confermando la propria opposizione ad ogni ipotesi di ricorso all'intervento armato in Siria e rigettando le accuse nel campo statunitense, con l'accusa a Washington di fornire armamenti ai ribelli siriani.

Il capo della missione di osservatori delle Nazioni Unite ha accusato il 15 giugno sia i governativi che i ribelli di limitare il lavoro della UNSMIS a causa della escalation delle violenze: il giorno successivo le operazioni sono state sospese e gli osservatori militari si sono ritirati nelle loro basi. vaIl Consiglio nazionale siriano ha richiesto l’invio di una missione ONU più numerosa e armata, in grado di proseguire nella propria opera nonostante le violenze.

Nell’incontro in margine al Vertice G20 di Los Cabos (Messico) del 18 e 19 giugno i presidenti russo e americano, in un clima assai più disteso rispetto alle relazioni bilaterali degli ultimi mesi, hanno convenuto di collaborare per contribuire a porre fine alle violenze in Siria e scongiurare lo spettro di una guerra civile totale, nonché permettere al popolo siriano di scegliere indipendentemente e democraticamente il proprio futuro: in pratica, tuttavia, ognuno è rimasto sulle sue posizioni, senza far registrare alcun progresso.

Mentre continuava l’impasse della missione di osservatori disarmati delle Nazioni Unite, impossibilitati a svolgere il loro compito per l’escalation della violenza, si è assistito intanto a un notevole intensificarsi delle azioni armate dei ribelli contro le forze di sicurezza del regime siriano: il 20 giugno un convoglio che comprendeva operatori italiani dell’ANSA è stato colpito, probabilmente da una bomba posta al margine della strada, che ha provocato la morte di uno degli agenti siriani che accompagnavano il convoglio e il ferimento di altri tre.

Si sono anche infittite le voci di intense trattative per giungere a uno sblocco della situazione siriana attraverso l'esilio di Bashar al-Assad, e si è avuto il 21 giugno anche il primo caso di defezione di un pilota militare siriano, il cui Mig-21 è atterrato in Giordania, ove è stato concesso al militare asilo politico.

Il 22 giugno la questione siriana si è arricchita di un nuovo elemento di grave tensione, quando un velivolo militare turco è stato abbattuto dalla contraerea siriana mentre si trovava in volo sul mare poco più a sud del confine turco-siriano, poiché avrebbe, secondo Damasco, violato lo spazio aereo nazionale. Una riunione d'urgenza veniva convocata ad Ankara da Erdogan, con la partecipazione del capo di stato maggiore, dei ministri dell'interno, degli esteri e della difesa, nonché del capo dei servizi segreti di Ankara. Il 23 giugno interveniva il presidente turco Abdullah Gul, dopo un contatto telefonico con Damasco, preannunciando un'indagine per comprendere se il velivolo turco avesse violato lo spazio siriano: Gul affermava inoltre che la vicenda dell'abbattimento dell'aereo era di gravità tale da non poter in nessun caso essere ignorata.

Il 24 giugno il ministro degli esteri turco Davutoglu, in un intervento in diretta televisiva, sosteneva che il velivolo si trovava nello spazio aereo internazionale – un possibile breve sconfinamento nello spazio aereo siriano non è stato escluso, ma si sarebbe verificato un quarto d'ora prima dell'abbattimento -, era disarmato e non tentava in alcun modo di nascondere la propria nazionalità. Inoltre, l'abbattimento sarebbe avvenuto senza alcun preavviso, e Davutoglu ha espresso scetticismo sulla dichiarazione siriana per la quale la contraerea di Damasco avrebbe ignorato trattarsi di un aereo della Turchia.

Il governo di Ankara ha dunque dichiarato quello siriano un atto ostile, precisando peraltro di voler dare una risposta nei limiti del diritto internazionale. Dalla Siria veniva una secca replica, rivendicando l'abbattimento come atto di difesa della propria sovranità, e comunque perpetrato alla stregua di un incidente, e non con intenti aggressivi, verso un veicolo che comunque si sarebbe trovato lo spazio aereo siriano.

I rapporti bilaterali tra Turchia e Siria sono stati inaspriti anche dalla denuncia di Damasco, che in qualche modo potrebbe collegarsi all’abbattimento del velivolo turco, delle continue infiltrazioni di gruppi definiti terroristici dal confine settentrionale - ovvero dalla Turchia - a tale proposito si sono moltiplicate le voci e le conferme di un’intensa attività della CIA nei pressi del confine siriano, con una sorta di smistamento degli armamenti che l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia invierebbero ai ribelli siriani, anche per impedire che finiscano nelle mani di Al-Qaïda o di gruppi fondamentalisti sunniti siriani.

Il governo turco chiedeva intanto alla NATO la convocazione di una riunione sull'abbattimento del proprio caccia da parte dei siriani: secondo la portavoce della NATO la Turchia avrebbe chiesto consultazioni sulla scorta dell'articolo 4 del Trattato istitutivo dell'Alleanza atlantica, che le prevede appunto qualora uno Stato membro ritenga di essere oggetto di una possibile minaccia alla sua sicurezza o indipendenza politica. La Turchia ha inoltre accompagnato l'iniziativa diplomatica con una nota di protesta inviata alla Siria.

In riferimento all’abbattimento del jet militare turco da parte dei siriani, avvenuto il 22 giugno, le riunioni dei ministri degli esteri UE del 25 giugno e quella degli Ambasciatori NATO del giorno successivo hanno espresso solidarietà alla Turchia, anche per il carattere finora equilibrato della sua reazione. Ai toni di crescente rabbia delle massime autorità turche la Siria – appoggiata da esperti russi – ha ribattuto di non credere alla versione turca del jet disarmato sconfinato per errore: si sarebbe trattato piuttosto di un tentativo di spiare le forze armate siriane  a vantaggio dei ribelli,  o addirittura di un test sulle difese antiaeree siriane a beneficio di possibili azioni della NATO.

La Turchia ha iniziato a rafforzare il dispositivo militare sui 600 km. di frontiera con la Siria, preannunciando immediate reazioni in caso di violazioni di frontiera. Il 30 giugno, il 1° e il 2 luglio velivoli turchi F-16 si sono alzati in volo a prevenire eventuali violazioni dello spazio aereo turco da parte di elicotteri siriani in avvicinamento alla frontiera comune. Il 3 luglio il presidente Assad, in un’intervista a un quotidiano turco, ha tentato di allentare la tensione esprimendo rincrescimento per l’abbattimento dell’aereo di Ankara e condoglianze alle famiglie dei due piloti - i cui corpi sono stati finalmente individuati il 4 luglio, giorno nel quale la pubblicazione della seconda parte dell’intervista ad Assad ha rinfocolato le tensioni, con accuse al premier turco Erdogan di ingerenza negli affari interni della Siria e di aperto sostegno ai gruppi “terroristi”. Peraltro il ritrovamento dei corpi dei due piloti e dei resti del jet turco abbattuto ha fatto emergere la maggior credibilità della tesi siriana, per la quale l'abbattimento sarebbe avvenuto effettivamente nelle acque territoriali della Siria, e la prova principale sarebbe l'assenza di tracce, sui rottami, dell’impatto di un missile - a riprova che l'aereo sarebbe stato colpito dal fuoco della contraerea a distanza ravvicinata. In tal senso Erdogan, che non ha ricevuto se non espressioni di solidarietà a parole, inizia a incassare anche le critiche della stampa nazionale, che constata il sostanziale blocco dell'iniziativa di Ankara. Anche l'opposizione politica turca, soprattutto quella socialdemocratica, attacca il governo denunciando i lati oscuri della vicenda e facendosi interprete dei sentimenti largamente pacifisti dell'opinione pubblica turca.

Mentre le atrocità sul terreno siriano non accennavano a scemare, e furiosi combattimenti interessavano anche i dintorni della capitale, la cittadina di Duma sarebbe divenuta un’altra delle emergenze umanitarie del paese, con la morte anche di numerosi bambini.

 

Nuovo piano internazionale di transizione per la Siria. Attentato al ministro siriano della difesa a Damasco. Escalation delle vittime (luglio)

è stata colpita da un attentato la cui dinamica rimane ancora poco chiara, anche se la rivendicazione è venuta poco dopo sia dall’Esercito libero siriano che dal gruppo Liwa al Islam, che ha provocato la morte del ministro della Difesa Daud Rajha

Il 30 giugno si è svolta a Ginevra una Conferenza sulla Siria convocata da kofi Annan dopo la constatazione del fallimento di fatto del proprio piano per la cessazione delle violenze nel paese mediorientale. Alla conferenza hanno preso parte USA, Regno Unito, Francia, cina, Russia, Iraq, Qatar, Kuwait e Turchia, oltre ai segretari generali di ONU e Lega araba e all’Alto rappresentante UE per la politica estera Catherine Ashton.

La Conferenza ha approvato un piano di transizione imperniato sulla creazione di un organo esecutivo formato da esponenti dell’attuale governo di Damasco e da membri dell’opposizione. Il piano non tratta esplicitamente del destino politico del presidente Assad, e proprio su tale questione sono riemerse dopo la Conferenza le divergenze tra chi (i paesi occidentali) ritiene che il piano implichi la fine politica di Assad, e chi invece (la Russia), attenendosi alla lettera del documento, non ne prevede necessariamente le dimissioni. Tanto le opposizioni quanto il regime di Assad hanno per una volta convenuto nel definire la Conferenza di Ginevra come ennesimo fallimento, poiché non avrebbe fatto registrare alcun mutamento nelle posizioni dei principali attori internazionali.

Nel crescente scetticismo sulle possibilità di una soluzione diplomatica del conflitto siriano, il regime ha promulgato il 2 luglio una nuova legge che prevede la pena di morte per chi a seguito di atti terroristici cagioni la menomazione o addirittura il decesso delle vittime. A fronte di tali inasprimenti, le opposizioni hanno proseguito nel mostrare profonde divisioni, con il boicottaggio della riunione del 3 luglio al Cairo – alla quale hanno partecipato il Consiglio nazionale siriano, la Turchia e la Lega araba – da parte dell’Esercito siriano libero, che opera all’interno del paese. Uno dei leader curdo-siriani si è spinto ad accusare il Cns di vole instaurare un regime islamico.

Il 6 luglio si è svolta a Parigi l’ennesima conferenza degli amici della Siria, con la massiccia presenza di ben 107 delegati di altrettanti Stati – ma con l’assenza di Russia e Cina -, dalla quale è risuonato un vigoroso monito ad Assad perché lasci il potere. In particolare, il segretario di Stato USA Hillary Clinton ha propugnato con forza la necessità di adottare una nuova risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, nella quale si definiscano con chiarezza le conseguenze per il regime siriano se continuerà a non rispettare il piano Annan, conseguenze che dovranno attingere anche le misure previste dal capitolo VII della Carta dell’ONU (che, si ricorda, prevede anche come extrema ratio interventi armati).

Tra i punti della dichiarazione finale della conferenza spiccano il rifiuto di ogni impunità per i crimini sinora commessi, l’effettiva applicazione delle sanzioni economico-finanziarie e un deciso rafforzamento dell’appoggio alle opposizioni al regime di Assad. La conferenza si è svolta mentre era in volo verso Parigi il generale Manaf Tlass, comandante di una delle unità della Guardia repubblicana e vicinissimo ad Assad, come suo padre lo era stato nei confronti del padre del presidente siriano, Hafez Assad: la defezione di Tlass è stata vista unanimemente come un duro colpo alla compattezza del regime siriano.

Il 7 luglio, a più riprese, razzi e proiettili di mortaio siriano hanno raggiunto il nord del Libano, uccidendo cinque persone, tra cui due profughi siriani: il giorno dopo, a margine della conferenza sull’Afghanistan svoltasi a Tokio, Hillary Clinton ha rincarato la dose, prospettando per la Siria il rischio di un attacco militare catastrofico. Alla Clinton ha risposto in serata il presidente Assad, accusando gli USA di sostenere politicamente e logisticamente i ribelli siriani in vista della destabilizzazione del paese. Il 10 luglio altre bombe siriane hanno colpito il territorio libanese, dopo che nella notte una sparatoria aveva coinvolto presso il confine le forze di sicurezza di Damasco e miliziani presumibilmente appartenenti alle opposizioni armate siriane.

Una nuova iniziativa diplomatica di Kofi Annan si è sviluppata il 9 e 10 luglio, rispettivamente con incontri a Damasco con il presidente Assad e a Teheran con la dirigenza iraniana, che l'ex segretario generale dell'ONU vorrebbe senz'altro coinvolgere nei tentativi di soluzione della grave crisi siriana - al proposito, la posizione di Teheran sembra relativamente distaccata rispetto al futuro politico di Assad, rimandando a libere elezioni dei siriani nel 2014, in attesa delle quali tuttavia gli Stati stranieri dovrebbero astenersi da interferenze nella grave situazione di scontro sul terreno interno.

Kofi Annan, che ha poi concluso il suo tour diplomatico con un incontro a Baghdad con il premier iracheno al-Maliki, ha fatto cenno a un “nuovo approccio” concordato con Assad, e volto a risolvere dapprima le situazioni più grave conflitto in vari distretti siriani. Va comunque rilevato che tanto le opposizioni al regime di Assad quanto gli Stati Uniti hanno rifiutato con forza la prospettiva di un coinvolgimento dell'Iran nella questione della Siria, il cui esercito intanto, a partire dal 7 luglio, ha dato dimostrazione di forza con lo svolgimento di esercitazioni militari su larga scala, mentre una squadra navale russa sarebbe in viaggio verso il porto siriano di Tartus, in missione di addestramento ma con evidenti riflessi a vantaggio del regime di Assad.

La situazione siriana si è mantenuta a lungo sullo sfondo di un sostanziale stallo diplomatico, con la Russia sempre impegnata a difendere la posizione del presidente Assad, perlomeno fino allo svolgimento di elezioni politiche - difficilmente ipotizzabili, però, nello scenario attuale -, mentre i paesi occidentali tentavano di accrescere le pressioni sul regime siriano, senza ancora trovare tuttavia gli strumenti necessari.

Infatti, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si sono confrontate due diverse bozze di risoluzione, quella russa, che si limitava ad auspicare il rinnovo trimestrale del mandato della missione di osservatori dell'ONU, e quella dei paesi occidentali, che intimava al regime di Assad di cessare entro dieci giorni di utilizzare armi pesanti contro le città maggiormente coinvolte nella ribellione, a pena dell'imposizione immediata di sanzioni economiche e diplomatiche.

Il 12 luglio vi sarebbe stato un nuovo massacro nella città di Tremseh, nella provincia di Hama: secondo lo stesso Kofi Annan le forze di sicurezza siriane avrebbero utilizzato armi pesanti, carri armati ed elicotteri, violando impegni contratti con il piano di pace da lui prediposto. Il bilancio della strage sarebbe stato almeno di 150 morti. Di fronte alle veementi proteste internazionali, alle quali si sono uniti anche il Segretario di Stato USA Hillary Clinton e il Segretario generale dell'ONU, il regime siriano, servendosi anche di un rapporto degli osservatori dell'ONU giunti il 14 luglio a Tremseh, ha sostenuto che nella cittadina l'attacco sarebbe stato concentrato contro cinque edifici usati come base da quelli che il regime chiama terroristi, e che il numero dei morti sarebbe stato di gran lunga inferiore a quello riportato, con l'uccisione di 37 ribelli e solo due civili. Inoltre, a Tremseh le forze siriane non avrebbero utilizzato nessun tipo di arma pesante. Intanto il 15 luglio i combattimenti tra forze governative e ribelli hanno raggiunto i sobborghi della capitale, finora immuni dalle violenze, provocando la chiusura della strada che collega la capitale con l'aeroporto internazionale.

Il 16 luglio i combattimenti sono divampati nel punto più vicino al centro di Damasco mai raggiunto dall'inizio della ribellione in Siria, il quartiere di al Midan, mentre il ministro degli esteri russo Lavrov denunciava come irrealistiche le pressioni occidentali su Mosca per convincerla ad accettare la dipartita di Assad - secondo Lavrov ricattando la Russia con la minaccia di non prorogare il mandato della missione degli osservatori dell'ONU - poiché il presidente siriano sarebbe sostenuto in primis da una parte cospicua della popolazione siriana stessa.

Sul fronte delle pressioni diplomatiche va intanto segnalato che il 16 luglio il Marocco ha espulso l'ambasciatore siriano, ricevendone come ritorsione l’immediata dichiarazione di persona non grata nei confronti dell'ambasciatore marocchino. In questo scenario l'Unione europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, avrebbe già effettuato esercitazioni di una evacuazione di massa per mettere in salvo circa 25.000 europei e americani presenti in Siria all'eventuale precipitare della situazione, nella prospettiva anche di un più ampio piano di evacuazione che dovrebbe coinvolgere ben 200.000 persone nel Libano, presumibilmente il primo tassello nell'effetto domino sulla regione.

Il 17, e soprattutto il 18 luglio, la situazione siriana ha registrato un’ulteriore escalation, con l’infuriare dei combattimenti nella capitale, che si sono sempre più avvicinati al centro della città, mentre diversi quartieri subivano i bombardamenti delle forze governative. Sintomaticamente, anche il governo iracheno ha ritenuto di dover invitare i propri cittadini presenti in Siria a rientrare in patria, dopo la morte di 23 connazionali coinvolti negli scontri dei giorni passati - tra le vittime irachene anche due giornalisti che seguivano gli eventi siriani sul terreno.

E’ inoltre cresciuto l’allarme sollevato già alcuni giorni prima, quando informazioni di intelligence avevano evidenziato come il regime siriano stesse spostando una frazione del notevole arsenale di armi chimiche in suo possesso: oltre all’attenzione statunitense, anche Israele ha iniziato serrate consultazioni interne tra i vertici politici e militari per studiare l'evoluzione della situazione, con particolare riguardo, oltre che alle armi non convenzionali in possesso dei siriani, anche all'eventualità che le alture del Golan - tuttora occupate dagli israeliani -possano divenire il terreno di un esodo di massa dalla Siria, che porrebbe a diretto contatto con le truppe israeliane masse di profughi disarmati in marcia per lasciare il paese.

Tutto ciò nello scenario già paventato da Israele da tempo, per il quale lo sfaldamento eventuale del regime siriano, con conseguente liberazione di un gran numero di elementi sunniti in precedenza repressi, possa agevolare le attività terroristiche di Al-Qaida contro lo Stato israeliano.

Il 18 luglio la sede della sicurezza nazionale siriana, mentre era in corso una riunione ad alto livello tra ministri e funzionari, è stata colpita da un attentato la cui dinamica rimane ancora poco chiara, anche se la rivendicazione è venuta poco dopo sia dall’Esercito libero siriano che dal gruppo Liwa al Islam, che ha provocato la morte del ministro della Difesa Daud Rajha – l’esponente cristiano più in alto nel regime, del generale Hassan Turkmani e soprattutto di Assef Shawkat, cognato del presidente Assad e direttamente impegnato nella direzione della repressione. Il successo dell'attentato ha corroborato le aspettative degli oppositori, già palesate anche dai Fratelli musulmani, di trovarsi in un momento di svolta nella crisi siriana, della quale hanno dichiarato di attendersi una fine non lontana: in tal senso le dichiarazioni di Abdulbaset Sieda, presidente del Consiglio nazionale siriano.

Intanto la Russia, che ha duramente condannato l’attentato, ha continuato a rifiutare l’ipotesi di una nuova risoluzione ONU sulla Siria, poiché essa andrebbe a sostenere quella che per Mosca è una rivoluzione in corso. Mentre Kofi Annan chiedeva un differimento del voto in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, La Lega araba ha convocato a Doha per il 22 luglio una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione.

­­­Sulla questione delle armi chimiche va segnalato che gli Stati Uniti hanno accresciuto la propria attenzione, soprattutto allarmati dall'ipotesi per cui, vistosi alle strette, il regime di Assad potrebbe addirittura usarne una parte contro l'opposizione e i civili, per non parlare dell'ipotesi funesta per la quale l'arsenale non convenzionale siriano possa finire nelle mani del terrorismo internazionale.

Tuttavia, Il portavoce del Dipartimento di Stato ha sottolineato il 19 luglio che non vi sono al momento indizi di una perdita di controllo del regime siriano su tali armamenti, aggiungendo anche che Damasco è comunque responsabile della sicurezza delle proprie armi non convenzionali, e il mancato rispetto dei relativi obblighi sarà motivo di incriminazione a livello internazionale dei responsabili. In ogni caso, secondo il New York Times, sarebbero stati avviati contatti tra israeliani americani su possibili iniziative comuni nei confronti degli armamenti non convenzionali siriani.

Il 19 luglio vi sono stati comunque segnali di ripresa del regime siriano, con un’apparizione televisiva del presidente Assad impegnato a ricevere il nuovo ministro della difesa, che ha contraddetto le voci di una sua fuga nella città costiera di Latakia. Per la prima volta sono apparsi anche i carri armati governativi a Damasco, ponendo le premesse di una progressiva ripresa di controllo della situazione nei quartieri semicentrali. Intanto la Russia e la Cina hanno nuovamente posto il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU di iniziativa occidentale, che prevedeva sanzioni contro il regime e faceva riferimento anche al capitolo VII della Carta dell'ONU.

Nella difficile situazione siriana emerge intanto progressivamente la tendenza più o meno forte delle minoranze etniche e religiose a non vedere un futuro e a lasciare preferenzialmente il paese: non va infatti dimenticato che il regime siriano, anche al vertice, ha visto per decenni esponenti di una minoranza, quella degli alawiti, in posizione preminente, e può caratterizzarsi proprio come un regime coalizionale di minoranze, che non a caso sotto il dominio degli Assad hanno sempre goduto di un elevato livello di garanzie. Nel nuovo scenario, in cui si prevede l'arrivo al potere della maggioranza sunnita (circa il 70% dei siriani),  le minoranze, oltre a temere vendette per il precedente status privilegiato, vedono un oggettivo restringimento degli spazi culturali e religiosi a propria disposizione.

Il 19 luglio è stato anche il giorno dell'incontro a Roma del Ministro degli esteri Giulio Terzi con il presidente del Consiglio nazionale siriano Sieda, a margine del quale il Ministro si è detto preoccupato per lo stallo della risoluzione nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, che potrebbe dare al regime siriano la sensazione di essere ancora più indisturbato nel continuare con le violenze. Secondo il Ministro degli esteri italiano è comunque necessario reagire alla situazione, riattivando al massimo grado le possibilità insite nell'azione del Gruppo di amici del popolo siriano, per esercitare ulteriori pressioni sul regime e un potenziamento delle iniziative umanitarie attualmente carenti. Il Ministro Terzi ha infatti ricordato che vi sono oggi in Siria 2 milioni di rifugiati interni, e, oltre alle circa 20.000 vittime, 70.000 feriti, 170.000 arrestati e 70.000 scomparsi.

Lo stesso giorno ha poi preso corpo effettivamente l'opposizione russa e cinese alle iniziative della restante parte della Comunità internazionale nei confronti della Siria, quando Mosca e Pechino hanno posto il veto sul documento presentato dai paesi occidentali che minacciava sanzioni nei confronti del regime di Assad. Non è dunque stato sufficiente differire il voto sulla risoluzione, come era stato chiesto da Kofi Annan: l'ambasciatore russo presso le Nazioni Unite ha sostenuto che la bozza in discussione avrebbe aperto la porta ad un intervento militare, e minacciava sanzioni solo nei confronti del governo di Damasco, e non degli oppositori. Anche il rappresentante cinese ha rilevato come il documento fosse sbilanciato e suscettibile di un ulteriore aggravamento della situazione. Ancora una volta, l'atteggiamento russo cinese ha destato le aspre critiche dei paesi occidentali

Il 19 luglio si è confermata giornata cruciale della crisi siriana anche sul piano delle vittime: infatti l'Osservatorio nazionale per i diritti dell'uomo in Siria ha reso noto che vi sono stati 248 morti, il record dall'inizio della crisi.

Il 20 luglio il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha approvato all'unanimità una risoluzione che si limita prolungare di 30 giorni il mandato della missione di osservatori in Siria. Va rilevato che la Russia aveva minacciato di opporsi anche a questa bozza di risoluzione, per la condizionalità che essa pone al regime di Damasco, nel senso di specificare il divieto di ulteriore proroga del mandato della missione di osservatori qualora il regime non cessi di utilizzare armi pesanti contro i ribelli e non crei una situazione più sicura per l'espletamento dei compiti degli osservatori. L'approvazione del documento non ha messo la sordina alle polemiche tra Russia e paesi occidentali: gli Stati Uniti hanno autorevolmente sostenuto di aver ormai intenzione di agire al di fuori del quadro delle Nazioni Unite, e la Russia ha ribattuto definendo preoccupante ma anche inefficace questo tipo di iniziative

A Damasco intanto è proseguita la controffensiva dell'esercito per respingere le infiltrazioni dei ribelli, mentre per la prima volta si sono accesi scontri nella seconda città siriana, Aleppo.

Per quanto riguarda la situazione dei profughi, risultava che tra 19 e 20 luglio circa 30.000 siriani si siano riversati in Libano: ben più imponente il flusso di ritorno dei 400.000 iracheni circa che avevano a suo tempo cercato riparo in Siria, e che ora ritengono preferibile muoversi nella direzione opposta. Il governo iracheno, tra l'altro, ha iniziato a rafforzare il dispositivo di sicurezza nella regione di Anbar confinante con la Siria, inviando rinforzi alla frontiera, anche per prevenire iniziative di Al-Qaida o dei ribelli siriani, che il 19 luglio si erano impadroniti di un posto di confine siriano nella zona.

Per quanto concerne la situazione degli scontri, nella capitale è apparso che le forze governative abbiano ripreso progressivamente il controllo dei quartieri prossimi al centro, mentre anche nella giornata del 20 luglio vi sono state ben 145 vittime – tra di esse va annoverata la morte di un quarto esponente degli apparati repressivi per le ferite riportate nell’attentato del 18 luglio, segnatamente  il capo degli apparati di sicurezza Hiktiyar.

Il 21 luglio è stato reso noto che due tecnici italiani che lavorano per conto di una ditta legata ad Ansaldo Energia, per la costruzione di una centrale elettrica in Siria, sarebbero scomparsi il 17 luglio mentre stavano per lasciare il paese insieme ad altri loro colleghi. Anche dopo la liberazione dei due italiani, apparsi il 28 luglio alla tv di Stato siriana, le circostanze e gli autori della loro scomparsa restano incerti, mentre la loro liberazione non sarebbe avvenuta mediante un blitz.

Mentre è apparso sempre più chiaramente che le forze governative hanno ripreso il controllo di buona parte della capitale, gli scontri sono proseguiti con violenza ad Aleppo. Prosegue poi con successo la strategia dei ribelli di conquistare alcuni posti di frontiera: nella giornata del 21 luglio ne è stato conquistato uno al confine tra Iraq e Siria, mentre due posti di frontiera tra Siria e Turchia erano già caduti nelle mani degli oppositori.

Risulta anche che altri due generali abbiano abbandonato il regime siriano e siano fuggiti in Turchia nella notte tra 20 e 21 luglio, unitamente a uno stuolo di altri ufficiali.

Gli Stati Uniti hanno dal canto loro nuovamente allertato sulla questione delle armi non convenzionali siriane, asserendo di monitorare i relativi depositi e di consultarsi attivamente con i paesi vicini per ogni possibile iniziativa.

Sul fronte delle Nazioni Unite va rilevato come, significativamente, il segretario generale delle Nazioni Unite abbia annunciato l'invio in Siria del sottosegretario per le operazioni di peacekeeping e del capo dei consiglieri militari del Segretario generale per una supervisione sull'azione degli osservatori dell'ONU il cui mandato è stato prorogato di un mese.

Il 22 luglio sono stati confermati i progressi militari del regime nella capitale, giacché i bombardamenti hanno cominciato a interessare oramai i sobborghi, ma anche la continuazione degli scontri nel centro di Aleppo. Bombardamenti sarebbero stati effettuati anche su Homs e Dayr az Zor. Un altro generale siriano avrebbe disertato nella notte tra 21 al 22 luglio, portando a 25 il numero dei suoi pari grado riparati in Turchia, secondo lo stesso ministero degli esteri di Ankara.

Intanto la Farnesina ha ripetuto l'invito ai connazionali presenti in Siria a lasciare il paese.

Fonti dei ribelli in Turchia hanno poi asserito che gli oppositori avrebbero conquistato un ulteriore posto di frontiera tra Siria e Turchia, che sarebbe il terzo, situato a nord di Aleppo: la notizia sarebbe stata confermata da diplomatici turchi a Istanbul.

Nella giornata del 22 luglio il nuovo primo ministro siriano Hijab si è presentato in Parlamento per illustrare il programma di governo, al centro del quale ha ribadito esservi la sicurezza. Hijab ha espressamente reso omaggio alle forze armate, impegnate a suo dire nella resistenza a piani ostili.

Per quanto riguarda il ruolo della Turchia nella crisi siriana, va rilevato il rafforzamento del dispositivo militare lungo la frontiera comune, con l'invio di batterie di missili terra-aria e veicoli da trasporto truppe nel sud-est della Turchia.

Qualificate fonti statunitensi hanno poi sostenuto che l'Amministrazione Obama  avrebbe ormai abbandonato i tentativi di soluzione diplomatica della questione siriana, e starebbe accrescendo gli aiuti ai ribelli e i piani per assemblare una coalizione di paesi capace di esercitare una decisiva pressione perché Assad lasci il potere. In tal senso gli Stati Uniti si starebbero consultando prioritariamente con la Turchia e con Israele.

Il 23 luglio i ministri degli esteri dell'Unione europea, riuniti a Bruxelles, hanno adottato il 17° pacchetto di sanzioni nei confronti del regime siriano, con effetto dal 25 luglio: in particolare, è stato sancito per gli Stati membri l'obbligo di rafforzare i controlli sulle navi e sugli aerei diretti in Siria, al fine di prevenire la fornitura di armamenti o di altro materiale utilizzabile dalle forze di sicurezza contro la popolazione. Anche gli aspetti umanitari, sia nei confronti della popolazione sfollata in territorio siriano che della prevedibile crescente ondata di profughi nei paesi vicini, sono stati al centro della riunione di Bruxelles, contemporaneamente alla quale la Commissione europea ha annunciato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro.

Per quanto concerne le armi chimiche vi è stata il 23 luglio per la prima volta l'ammissione di Damasco di detenere tali armamenti: il portavoce del ministero degli esteri ha tuttavia sottolineato come la Siria potrebbe servirsi delle armi chimiche solo in caso di aggressione dall'esterno, e non mai contro i civili e in territorio siriano. Per quanto riguarda i combattimenti, mentre anche nella capitale sono rimaste sacche di resistenza dei ribelli, gli scontri più violenti si sono spostati ad Aleppo, dove anche nella giornata successiva, il 24 luglio, sono state fatte affluire ingenti forze dell'esercito. Il generale Tlass, che alcuni giorni prima era riparato in Francia in polemica con regime del suo finora fraterno amico Assad, ha rivolto un appello ai militari siriani a defezionare, per non rendersi complici di veri e propri atti criminali di un regime corrotto.

Il 25 luglio La televisione turca Ntv ha annunciato la chiusura dei posti di confine con la Siria, dopo che nei giorni precedenti erano stati oggetto di attacco da parte dei ribelli siriani, che ne avevano conquistati tre. Il viceministro degli esteri russo Gatilov, dal canto suo, ha reso noto che la Russia avrebbe ricevuto forti rassicurazioni dalla Siria sul pieno controllo dell'arsenale chimico da parte delle forze del regime. Va rilevato come, dopo la proroga di un mese del mandato della missione di osservatori dell’ONU, e dopo le successive dimissioni del capo della missione medesima, circa la metà degli osservatori hanno lasciato la Siria e di fatto abbandonato la missione delle Nazioni Unite.

Va segnalato come il 26 luglio rappresentanti di 11 gruppi dell'opposizione interna siriana hanno firmato a Roma, con il patrocinio della Comunità di S. Egidio, un appello per una soluzione pacifica della crisi siriana affidata alla Comunità internazionale e non all'uso delle armi. In tal senso le Nazioni Unite, quale unico responsabile degli aiuti umanitari, dovrebbero intervenire per il completo ritiro degli apparati militari e un vero cessate il fuoco. L'appello di Roma non esclude nemmeno la possibilità che esponenti del regime siriano non macchiatisi di crimini possano essere considerati interlocutori nel processo di soluzione, del quale però non dovrà far parte il presidente Assad. Da notare la critica che gli esponenti convenuti a Roma hanno riservato al Consiglio nazionale siriano, il quale, composto da siriani espatriati, non avrebbe diritto a chiedere interventi armati esterni dei quali il popolo siriano sarebbe la prima vittima.

Il tragico scenario siriano, nel quale aumentano le defezioni di importanti esponenti del regime, tra i quali deputati  e diplomatici, comincia a preoccupare seriamente per le sue conseguenze su scala regionale la Turchia -che vede un grave rischio nel prevalere nel nord della Siria di milizie curde, e perciò preannuncia di riservarsi la possibilità di eventuali inseguimenti in territorio siriano- e Israele, che si prepara a fronteggiare massicci esodi, o addirittura attacchi, dalla parte delle alture del Golan. Frattanto, confermando alcune voci del giorno precedente, è divenuto evidente il 27 luglio l'assedio che le forze corazzate del regime hanno posto attorno alla città di Aleppo, nella quale le postazioni dei ribelli state colpite da ripetute incursioni di elicotteri. Particolarmente drammatica si è subito rivelata la situazione dei civili nella seconda città della Siria, per i quali il Comitato internazionale della Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa siriana hanno allestito rifugi di fortuna in diverse scuole, mentre prosegue l'esodo di numerosi siriani verso il Libano, la Turchia e la Giordania.

Intanto, mentre il regime annunciava la creazione di un Tribunale speciale per l'antiterrorismo, per la prima volta si è verificato uno scontro tra le forze armate siriane e quelle giordane al confine tra i due paesi, dopo che i siriani avrebbero occupato una postazione di avvistamento in territorio giordano.

Il 28 luglio si è pienamente scatenata l'offensiva delle forze del regime su Aleppo, con massicci bombardamenti da terra e dal cielo, aggravando ulteriormente le condizioni dei civili, in gran parte intrappolati nei loro quartieri. Il ministro degli esteri russo Lavrov, d'altra parte, ha sostenuto essere irrealistica l’aspettativa che il governo siriano non reagisca all'occupazione delle grandi città da parte dei ribelli - al proposito, infatti, i combattimenti sono proseguiti anche nella capitale e nei sobborghi di essa.

Il 29 e il 30 luglio è proseguita la battaglia nella città di Aleppo, con dichiarazioni di opposto tenore delle parti in lotta, ciascuna delle quali ha vantato successi, a scopo più che altro propagandistico. Sul fronte diplomatico non si sono registrate evoluzioni nella posizione russa in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, mentre il regime ha dovuto prendere atto delle defezioni dell'incaricato d'affari siriano a Londra e del vicecapo della polizia di Latakia, città da cui proviene il clan alawita degli Assad.

Oltre ad Aleppo, sono infuriati scontri a Homs, come riferito dal nuovo capo della missione di osservatori dell’ONU Babacar Gaye, che il 29 luglio è stato fatto segno con il suo team di un attacco, che non ha fortunatamente provocato vittime né feriti.

 

I più recenti sviluppi.

Si sono inoltre intensificati gli scontri tra le forze del regime e i ribelli in prossimità del confine turco (regione di Idlib), accrescendo sensibilmente le preoccupazioni di Ankara,  che ha rafforzato il dispositivo militare al confine con la Siria con ulteriori truppe e batterie missilistiche, e ha effettuato il 1° agosto manovre di mezzi corazzati. La stessa giornata vedeva la prosecuzione dei combattimenti ad Aleppo per il quinto giorno consecutivo, mentre nel complesso perdevano la vita in tutta la Siria quasi 120 persone. Le opposizioni tornavano a mostrare tutte le loro divisioni, che passano soprattutto per la discriminante di fondo dell'essere all'interno della Siria o dell'agire all'estero. In particolare, gli espatriati hanno visto una prematura volontà di spartizione del potere all’interno della Siria, come dimostrerebbe la proposta di una fazione vicina all'Arabia Saudita, che ha ipotizzato la possibilità di dar vita a un governo di transizione.

Il 2 agosto la situazione apparentemente senza sbocco della Siria induceva Kofi Annan ad annunciare le sue dimissioni dall’incarico di inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega araba per il conflitto in Siria: l'ex segretario generale dell'ONU ha rilevato l'ostinazione del governo siriano a non applicare nella sua intierezza il piano in sei punti a suo tempo sottoscritto, ma nello stesso tempo ha stigmatizzato l'escalation in senso militare dell'azione delle opposizioni. Questi elementi si inseriscono poi, secondo Kofi Annan, nello stallo nell’iniziativa della Comunità internazionale, in ragione delle profonde divisioni all'interno di essa: tali divisioni sono state del resto confermate persino nella sede non vincolante dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove ha subito un rinvio il voto su una bozza di risoluzione della crisi siriana presentata dai paesi arabi.

Il 2 agosto è stata anche la giornata di un tentativo di attacco dei ribelli all'aeroporto militare sito a nord di Aleppo, servendosi di un carro armato con ogni probabilità sottratto alle forze del regime: l'attacco è stato tuttavia respinto dalla pronta reazione delle forze lealiste. Il ministero degli esteri siriano ha criticato aspramente i servizi di sicurezza turchi per l'appoggio che fornirebbero alle azioni dei ribelli, cui sarebbe consentito di partire dal territorio turco per compiere attacchi in Siria, e verrebbe assicurato appoggio logistico. In effetti, le affermazioni del governo siriano sembrano corroborate da più voci, compresa quella degli Stati Uniti, che hanno confermato lo stanziamento di 25 milioni di dollari in aiuti di carattere non letale ai rivoltosi siriani.

Mentre la battaglia in corso ad Aleppo registrava anche l'interruzione delle comunicazioni telefoniche e telematiche per quasi 24 ore, l'esercito siriano tornava a bombardare pesantemente il territorio giordano, aumentando i rischi di estensione regionale del conflitto, al di là della motivazione di colpire elementi della ribellione rifugiatisi in Giordania.

Il 3 agosto l’Assemblea generale dell'ONU ha finalmente potuto approvare la risoluzione sulla Siria, passata con una larga maggioranza, nella quale viene sollecitata la transizione politica nel paese, ma, soprattutto, si deplora in modo del tutto irrituale lo stallo in seno al Consiglio di sicurezza a fronte dell’escalation di violenza nel paese. Nelle stesse ore i ribelli, che significativamente hanno cominciato a esercitare un servizio di protezione delle proteste ripetutesi in tutta la Siria in occasione della preghiera islamica del venerdì, hanno pronunciato una forte condanna delle esecuzioni sommarie di lealisti emerse nei giorni precedenti, diffondendo anche un rudimentale codice etico per il rispetto dei diritti dei prigionieri e la disciplina del comportamento degli appartenenti alla ribellione armata, in vista anche di una riconsegna completa delle armi alle future autorità legittime della Siria. La maggior parte delle vittime nella giornata del 3 agosto si sono avute a Hama, dove avrebbero perso la vita sotto i bombardamenti dell'artiglieria governativa quasi 70 persone. Frattanto il perdurante sostegno della Russia al regime di Assad è stato confermato dal raggiungimento a Mosca di un accordo per la fornitura di greggio alla Siria.

Il 4 agosto, nonostante le affermazioni dei giorni precedenti da parte delle forze governative, nuovi combattimenti di grande intensità hanno interessato alcuni quartieri della capitale siriana, non troppo distanti dai palazzi del potere. Ad Aleppo intanto i ribelli sono riusciti a prendere per qualche ora il controllo dell'edificio dove opera la televisione di Stato, per essere poi nelle ore successive respinti: grande preoccupazione ha destato l'avvicinarsi dei combattimenti alla cittadella antica di Aleppo, dichiarata dall'UNESCO patrimonio culturale dell'umanità.

l'Iran è stato nuovamente coinvolto nel conflitto siriano, dopo la vicenda di alcuni mesi prima che aveva visto il rapimento e la successiva liberazione di una decina di iraniani a Homs, per la mediazione decisiva della Turchia: infatti 48 pellegrini sciiti iraniani sono stati catturati da bande di ribelli sulla strada tra Damasco e l'aeroporto internazionale, che oltretutto è una delle arterie più importanti per il regime siriano. Il giorno successivo, il 5 agosto, emergeva che tra i pellegrini iraniani rapiti vi sarebbero anche alcuni pasdaran.

Il 6 agosto vi è stata la clamorosa defezione del neo premier del regime siriano, Riad Hijab, che tramite il suo portavoce ha dichiarato alla tv panaraba al-Jazira di denunciare il genocidio collettivo commesso dal regime di Assad. Hijab ha sostenuto di essere stato sin dall'inizio dalla parte della ribellione, ma di non aver potuto disertare perché sotto minaccia di morte, anche nei confronti dei propri familiari. La defezione di Hijab ha avuto sicuramente un alto valore simbolico, come segno ulteriore della disgregazione del regime siriano, ma scarso impatto istituzionale, poiché l'ordinamento peculiare della Siria vede per il capo del governo e per il Parlamento un ruolo meramente rappresentativo, con il potere reale saldamente nelle mani del rais Assad e della sua cerchia di uomini fidati.

Il 7 agosto l’alto rappresentante della Guida Suprema iraniana Jalili, incontrando a Damasco il presidente Assad, ha ribadito pienamente il sostegno della Repubblica islamica al regime siriano, impegnato secondo gli iraniani in uno scontro tra i sostenitori e gli avversari dell'asse della resistenza - con ciò intendendo il fronte antisraeliano nel Medio Oriente: la Siria, secondo l'Iran, è un perno essenziale di tale asse, cui Teheran non farà mai mancare il proprio sostegno. Intanto l'osservatorio nazionale dei diritti umani in Siria, per una volta all'unisono con l'agenzia ufficiale Sana, ha denunciato come grave crimine l'uccisione di 16 operai a Homs, la maggior parte dei quali alawiti, che sarebbe stata perpetrata da ribelli non controllati dall’Esercito libero siriano.

Oltre a ribadire il sostegno alla Siria, tuttavia, la diplomazia iraniana, nella persona del ministro degli esteri Salehi – recatosi ad Ankara – si è impegnata nei confronti della Turchia per ottenere la liberazione dei pellegrini iraniani catturati nei giorni precedenti, che i ribelli accusano di avere tra le loro file alcuni pasdaran. Oltre alla richiesta di interessamento, tuttavia, la Turchia si è vista anche investire da minacce del capo di stato maggiore iraniano, per il quale in Turchia potrebbe spostarsi il prossimo teatro di violenze nella regione, proprio per il sostegno di Ankara alle opposizioni siriane.

L’8 agosto Teheran ha ammesso la presenza di alcune guardie rivoluzionarie in pensione ne gruppo dei pellegrini sequestrati in Siria, negando tuttavia ogni motivazione extrareligiosa del loro pellegrinaggio. In una giornata in cui è stata documentata l’uccisione di non meno di 91 persone, tra cui 12 donne e 10 bambini, è stato anche diramato il tragico bilancio sulle vittime del conflitto siriano nel mese di luglio: in una carneficina che ha raggiunto l'apice a un anno e mezzo dall'inizio delle manifestazioni contro il regime di Assad, sarebbero morte in luglio 3.643 persone, con una media di 121 al giorno, e tra queste vi sarebbero ben 274 bambini e 322 donne.

Il 9 agosto infuriava ancora la battaglia ad Aleppo, con le forze governative in avanzata, senza peraltro riuscire a piegare in via definitiva il fronte dei ribelli. Intanto a Damasco veniva nominato il nuovo primo ministro, nella persona del  ministro della sanità Wael Halqi. Sono cresciuti i segnali di una possibile estensione del conflitto siriano a livello regionale: infatti, la Turchia si spingeva ad accusare Damasco di appoggiare l'offensiva dei ribelli separatisti curdi del PKK, che in pochi giorni, a partire dalla fine di luglio, ha provocato nel Kurdistan turco quasi 150 morti. In tal senso il ministro degli esteri turco accusava direttamente la Siria di armare il PKK, e il premier di Ankara Erdogan minacciava di colpire i  separatisti curdo-turchi anche in territorio siriano. D'altro canto, la Turchia riceveva a sua volta accuse siriane di sostenere e armare i ribelli in lotta contro il regime di Assad, e nel contempo vedeva complicarsi ulteriormente i rapporti con Teheran, che sospendeva l'esenzione dei visti per l'ingresso dei cittadini turchi in Iran. In tal senso, nei colloqui di Istanbul dell’11 agosto, il premier turco Erdogan e il segretario di Stato USA Hillary Clinton hanno concordato su un più stretto coordinamento operativo, in previsione di un peggioramento dello scenario.

Lo stesso Iran si rendeva protagonista sul piano diplomatico, con l’organizzazione di una conferenza consultiva sulla Siria, con la partecipazione di una trentina di paesi non schierati con il fronte occidentale anti Assad. La conferenza ha lanciato un appello al dialogo nazionale tra il governo di Damasco e le opposizioni, nonché alla fine delle violenze in Siria, ma anche un avvertimento a non mettere in atto alcun tipo di intervento militare nel paese storicamente alleato dell'Iran. Il 9 agosto vi è stato anche il secondo sbarco di profughi siriani in Calabria, al largo di Crotone, con l'arrivo di 108 persone, dopo le 27 già arrivate il 4 agosto nella Calabria meridionale.

Il 12 agosto, mentre ristagnava la battaglia ad Aleppo, si spargeva la notizia dell’uccisione, il giorno precedente, di due giornalisti che lavoravano per la tv pubblica e per l’agenzia ufficiale Sana, mentre il 10 era scomparsa una troupe televisiva filogovernativa – il cui cameraman Hatem Yahiya è stato ucciso il 13 agosto.

Il conflitto siriano è divenuto intanto teatro di ulteriori atrocità, perlopiù perpetrate proprio dai ribelli e documentate da molteplici fonti di informazione, tanto che gli stessi ambienti dell’opposizione al regime di Assad hanno reagito con sdegno alle brutalità perpetrate da alcune frange dei ribelli - tra i quali sembra crescere progressivamentela la componente jihadista non siriana -; lo stesso presidente dell'osservatorio siriano dei diritti umani ha parlato di atrocità, e il comando dell'Esercito libero siriano si è dissociato da tali atti. Il 13 agosto è stato anche abbattuto per la prima volta un Mig siriano, a quanto pare grazie all'utilizzazione da parte dei ribelli di un mitragliatore antiaereo sottratto alle forze di sicurezza del regime – il quale ha ricevuto un altro colpo quando il proprio rappresentante presso il Consiglio ONU dei diritti umani ha annunciato a Ginevra la propria defezione, per unirsi al gruppo dissidente di Parigi denominato Raggruppamento democratico.

Il 15 agosto è stato pubblicato un rapporto della Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite, stabilita su mandato del Consiglio ONU per i diritti umani, al fine di investigare sulle violazioni e gli abusi commessi nel corso della crisi siriana. Il rapporto attesta la commissione di crimini di guerra e crimini contro l'umanità su indicazione e con il coinvolgimento dei più alti livelli di governo e delle forze di sicurezza siriani. In particolare, la Commissione ha accertato omicidi, esecuzioni extragiudiziali e torture, nonché gravi violazioni dei diritti umani quali uccisioni illegali, attacchi contro i civili e atti di violenza sessuale. La Commissione rileva altresì come crimini di guerra, in particolare assassinii e torture, siano stati compiuti anche dagli oppositori del regime siriano, ma non della stessa efferatezza, né con la stessa frequenza. Il rapporto mette a fuoco in modo ben preciso il modus operandi delle forze del regime siriano nel portare a termine i massacri, perpetrati dai militari con l'aiuto delle milizie Shabbiha, dapprima attraverso massicci bombardamenti, e poi andando a stanare casa per casa i nemici del regime - compito quest'ultimo nel quale si sono distinti particolarmente proprio i miliziani, accanitisi con ferocia sugli oppositori catturati, ma anche spesso su civili innocenti.

Il 15 agosto è stato anche il giorno in cui l’Organizzazione per la cooperazione islamica – la ex Organizzazione della Conferenza islamica – ha deciso di sospendere la rappresentanza siriana, e nel quale è stata resa nota l’ennesima strage, con il ritrovamento di 60 cadaveri con le mani legate in una discarica nel sobborgo di Qatana della capitale siriana.

Il 16 agosto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di porre fine in via definitiva alla missione degli osservatori in territorio siriano, ordinando il ritiro degli ultimi berretti blu. Nella stessa riunione il Consiglio di sicurezza ha scelto il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi in sostituzione di Kofi Annan, dimessosi del ruolo di inviato speciale della Lega Araba e delle Nazioni Unite per la Siria. In una giornata che ha visto altre 179 vittime certificate dagli attivisti siriani - particolarmente raccapricciante quanto constatato da Human Rights Watch nella cittadina settentrionale di Azaaz, ove si sono registrati almeno 40 morti, tra cui molte donne e bambini, colpiti dall'aviazione governativa -, il regime ha dato luogo a un ulteriore rimpasto governativo, sostituendo i ministri dell'industria e della giustizia – gli oppositori hanno rilevato che probabilmente i due ministri avevano tentato di disertare, come già aveva fatto l'ex premier Hijab. Frattanto in Libano il clan Miqdad - fiancheggiatore del movimento sciita Hezbollah - un esponente del quale era stato catturato dai ribelli siriani nei pressi di Damasco nei giorni precedenti, scatenava la propria rappresaglia, dando luogo al rapimento di più di 30 siriani e di un cittadino turco. L’instabilità che minaccia il Libano in conseguenza della crisi siriana potrebbe tra l’altro mettere in forse la prevista visita del Papa nel Paese dei Cedri alla metà di settembre.

Il 17 agosto, mentre veniva pienamente ufficializzata la nomina di Brahimi, circa 160 persone perdevano la vita in Siria in varie località. Sul piano diplomatico l'Iran si diceva favorevole alla proposta egiziana di formare un gruppo di contatto delle potenze regionali musulmane sulla Siria, che dovrebbe comprendere oltre a Egitto e Iran anche l'Arabia Saudita e la Turchia.

Il 18 agosto, mentre si diffondevano voci di una defezione tentata dal vice presidente siriano Faruk al Sharaa, che secondo i ribelli sarebbe poi stato arrestato, venivano uccise in Siria più di 140 persone, con l'artiglieria del regime che infieriva in maniera particolarmente pesante la regione meridionale di Daraa.

Nei giorni successivi, mentre proseguivano i combattimenti, e il 20 agosto ad Aleppo perdeva la vita la giornalista giapponese Mika Yamamoto proprio mentre cercava di documentarli; si verificava un botta e risposta tra gli Stati Uniti e il regime siriano, con il presidente Obama ad ammonire per l’ennesima volta la Siria a non fare ricorso ad armi chimiche (e nemmeno a dispiegarle), pena l’intervento militare statunitense, e il regime di Assad a ribattere che anche contro l’Iraq nel 2003 le armi chimiche si rivelarono un pretesto falso, ma decisivo per l’attacco, che evidentemente i Paesi occidentali preparerebbero anche contro la Siria. A parziale sostegno delle tesi siriane sono sembrate andare le ammissioni francesi in ordine alla forniture militari ai ribelli da parte di Arabia Saudita e Qatar, come anche le indiscrezioni di stampa in Germania e nel Regno Unito sul supporto di intelligence che già da tempo Londra e Berlino darebbero ai ribelli siriani. Intanto il 21 agosto perdevano la vita in Siria 183 persone, e tra queste le decine di cadaveri ritrovati in alcuni sotterranei nel sobborgo sud-occidentale della capitale di Muaddamiya.

Forse ancor più cruenta era il 22 agosto l'azione repressiva delle forze governative siriane contro alcuni sobborghi della capitale in cui i ribelli si erano attestati in posizioni di forza: secondo i consueti schemi, ai bombardamenti e all'attacco massiccio delle forze corazzate faceva seguito l’irruzione casa per casa delle milizie lealiste, anche per terrorizzare la popolazione di queste località, in buona parte favorevole ai ribelli. Nel corso di queste azioni di “disinfestazione” - così le hanno definite i media ufficiali - è stato ucciso anche un ex giornalista ormai da mesi schieratosi contro il regime, Musaab Awdallah, freddato con un colpo alla testa in una vera e propria esecuzione. Il suo destino è stato condiviso da una settantina di altre persone, passate per le armi durante i rastrellamenti.

Nel Libano si sono intanto ripetuti scontri armati nella città portuale settentrionale di Tripoli, ancora una volta tra fazioni filosiriane e militanti sunniti.

103 morti hanno caratterizzato la giornata del 23 agosto, che ha visto una nuova offensiva delle forze governative contro la periferia meridionale e i sobborghi antistanti della capitale, senza trascurare la prosecuzione dei combattimenti ad Aleppo, anche qui con le forze del regime in fase di ripresa.

Nei giorni successivi l'offensiva governativa si è concentrata particolarmente su uno dei sobborghi della capitale, quello meridionale di Daraya, provocando più di duecento vittime, tra le quali, numerosi, donne e bambini. Mentre il 24 agosto sono rimasti feriti nel Nord del Libano due giornalisti, coinvolti negli scontri in atto tra miliziani sunniti e filosiriani alawiti, il presidente Assad ha incontrato il 26 agosto un l'emissario iraniano, e al termine dei colloqui ha rincarato la dose, inquadrando gli eventi in corso in Siria nel più vasto contesto regionale, contro il quale sarebbero diretti gli sforzi delle potenze straniere di destabilizzazione del regime di Damasco, quale premessa di un generale ridisegno dei rapporti di forza nella regione mediorientale – della quale la Siria costituisce secondo Assad una pietra miliare.

Nella stessa giornata del 26 agosto è stato posto fine al giallo che riguardava il vicepresidente siriano Faruk al Sharaa, secondo l'emittente panaraba saudita al Arabiya ormai in salvo in Giordania: in realtà al Sharaa è ricomparso nel suo ufficio nella capitale e ha anche partecipato all'incontro di Assad con l'inviato iraniano, senza peraltro nell’immediato rilasciare dichiarazioni. In seguito, tuttavia, al Sharaa è intervenuto sul complesso della situazione siriana, asserendo che la soluzione della crisi siriana passa per una cessazione della violenza da parte di tutti gli attori in campo, senza precondizioni di sorta.

Il 27 agosto, in occasione della conferenza degli ambasciatori di Francia all’Eliseo, il Presidente François Hollande ha affiancato gli Stati Uniti nel sostenere che l'eventuale utilizzazione di armi chimiche da parte del regime siriano costituirebbe per la Comunità internazionale legittima causa di intervento militare diretto. Hollande ha in un certo senso concordato con quanto affermato in precedenza dal presidente siriano Assad sul carattere strategico della Siria per tutta la sicurezza in Medio Oriente, con particolare riguardo alla stabilità libanese. Il presidente francese si è detto disposto a riconoscere un governo provvisorio siriano già all'atto della sua formazione. Nella stessa giornata si è registrato l'abbattimento di un elicottero governativo da parte dei ribelli sui cieli della capitale, mentre l'offensiva governativa si è concentrata sulla parte orientale di Damasco. Nel complesso si sono registrati 112 morti, dei quali 41 nella capitale e dintorni.

Di 61 persone è stato invece il bilancio delle vittime il 28 agosto, 17 delle quali uccise nella cittadina del nord ovest di Kfarnabl pesantemente bombardata dall'aviazione siriana. Nel sobborgo di Jaramana, a sud di Damasco, vi è stato un attentato che ha provocato la morte di 12 persone, e che il governo ha attribuito ai ribelli: Jaramana  ha una popolazione prevalentemente costituita da drusi, un'altra minoranza sciita non ortodossa, che non si è apertamente schierata contro il regime di Assad.

Il 29 agosto, mentre proseguivano i combattimenti a Damasco e ad Aleppo, nella parte orientale della capitale i ribelli hanno conquistato un deposito di missili all'interno della base militare di Saqba. Inoltre, i ribelli avrebbero attaccato l'aeroporto militare di Duhur, tra le città di Aleppo e Idlib, nel Nordovest siriano. Nel complesso, la giornata ha fatto registrare 76 vittime, la maggior parte delle quali nella capitale e negli immediati dintorni.

Il 30 agosto il presidente egiziano Morsi, recatosi in Iran per il passaggio di consegne della presidenza triennale del Movimento dei non allineati al collega Ahmadinejad, ha affermato con nettezza la liceità della ribellione al regime siriano, definito sanguinosamente oppressivo, rimanendo in ciò agli antipodi della posizione di Teheran, che continua ad appoggiare strenuamente il regime di Assad. Morsi ha chiesto ai 120 paesi non allineati intervenuti al Vertice di Teheran di sostenere la lotta dei siriani con la ricerca di una soluzione non militare, ma politica alla crisi in atto.

Nella stessa giornata i ribelli siriani riuscivano per la seconda volta in meno di un mese ad abbattere un Mig governativo, e, soprattutto, progredivano nel tentativo di impadronirsi dell’aeroporto militare di Duhur. Ne seguiva un pesante bombardamento sulla cittadina, con il sapore della rappresaglia, che provocava anche la morte di otto bambini. La giornata del 30 agosto avrebbe registrato complessivamente 67 vittime tra i civili e i ribelli, in seguito tra l’altro a combattimenti nei sobborghi meridionali e nordorientali di Damasco, durante i quali i governativi avrebbero anche assaltato un ospedale.

Il 31 agosto mostrava che le forze filogovernative non intendevano rinunciare al controllo dell’aeroporto di Duhur, intorno al quale tornavano a infuriare i combattimenti, peraltro forti anche in altre zone della Siria, come in prossimità del confine iracheno – qui l’offensiva è in mano ai ribelli -, ad Aleppo e nei dintorni settentrionali della capitale, ove le autorità procedevano a sbarrare gli accessi dall’esterno, nonché ad isolare le principali moschee dei quartieri maggiormente interessati dalla rivolta. Anche il 31 agosto il numero delle vittime è stato stimato in 67.

In considerazione del sempre crescente numero di sfollati e profughi siriani – secondo stime dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati avrebbe raggiunto la cifra di 230.000 la massa dei siriani espatriati, a fronte di un milione e mezzo di sfollati interni – la cooperazione italiana allo sviluppo ha inviato in Turchia un volo carico di aiuti umanitari per i profughi siriani colà ospitati.

Il 1° settembre è caduta la resistenza dei governativi nella base della difesa aerea di Albukamal, nell’estremo lembo orientale della Siria: in tal modo i ribelli hanno potuto impadronirsi di grandi quantità di armi e munizioni antiaeree – sembra al proposito che gli oppositori armati non siano in grado di pilotare i velivoli eventualmente catturati, le cui bombe e missili sono perciò inservibili. Infatti, un gran numero di aerei ed elicotteri sarebbero stati distrutti a terra nei vari attacchi ad aeroporti militari. I media russi hanno riferito di un ultimatum dei ribelli alle compagnie aeree tuttora impegnate nei voli civili verso la Siria, in base al quale entro 72 ore inizierà l’assalto agli aeroporti civili di Damasco e Aleppo, che il regime utilizzerebbe dopo la perdita del controllo su alcuni scali militari.

Il 2 settembre, a conferma del delicato ruolo che l’intelligence americana ricopre in Turchia per coordinare gli aiuti ai ribelli e, al tempo stesso, impedire che finiscano nelle mani sbagliate (al Qaida), rassicurando nel contempo Ankara sulla possibile escalation delle azioni armate del terrorismo curdo, il capo della CIA David Petraeus si è recato in Turchia. I ribelli denunciano frattanto una campagna di attacchi indiscriminati contro i civili in tutto il territorio siriano, con l’obiettivo, da parte delle forze lealiste, di prevenire l’estensione della rivolta, colpendo soprattutto i giovani, potenziali nuovi ribelli; nonché di precostituire forse una ridotta di estrema resistenza per gli alawiti nella regione occidentale di Latakia, previa una vera e propria pulizia etnica. Da parte loro i ribelli hanno colpito con due diversi ordigni il quartier generale dell’esercito siriano, con effetti tuttavia assai limitati.

Per porre fine alle persistenti divisioni in seno alle opposizioni – la ribellione è infatti guidata dall’Esercito libero siriano e da comitati locali, assai più che dal Consiglio nazionale siriano - lo stesso Cns avrebbe deciso di aprirsi alla partecipazione di ulteriori gruppi di oppositori, operanti sia in patria che all’estero.

Nel frattempo a Roma, il 4 settembre scorso, si è tenuta la prima riunione del “Tavolo interministeriale sulla Siria”, presieduta dal ministro degli esteri Giulio Terzi, assistito dal sottosegretario Marta Dassù, a pochi giorni dall’incontro del “Core Group” del Gruppo degli Amici della Siria svoltosi sempre nella capitale il 29 agosto.

"La caduta del regime di Assad, quando avverrà, non deve trovarci impreparati. L’Italia è impegnata con i principali partner a definire le linee che guideranno l’azione internazionale e, in questo ambito, il suo impegno nazionale - nei settori dell’aiuto umanitario, del sostegno economico, e della ricostruzione delle istituzioni - nella Siria del 'dopo Assad'”: con queste parole il Ministro degli Affari esteri ha commentato l’insediamento di questo nuovo organismo che ha trattato la preoccupanete questione degli sfollati all’interno del Paese (almeno un milione e mezzo) e dei rifugiati nei Paesi confinanti (oltre 200mila, fra Turchia, Giordania, Libano, Kurdistan iracheno), un aspetto della crisi che, oltre ai suoi dolorosi risvolti umanitari, può ripercuotersi sulla stabilità regionale, ed in prospettiva può costituire anche un elemento di preoccupazione per i flussi migratori verso l’Europa

Il Tavolo ha altresì affrontato il tema della ricostruzione economica della Siria, in considerazione dei tradizionalmente forti legami economici bilaterali, che, prima della crisi, vedevano l’Italia primo partner commerciale del Paese fra gli Europei. Si è concordato di individuare le aree prioritarie e di tracciare una mappatura dei settori verso i quali Governo e imprese dovranno concentrare il loro impegno nel dopo Assad.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Le priorità della Presidenza cipriota dell’UE

 

La Presidenza cipriota dell’UE (1° luglio-31 dicembre 2012) ha individuato quattro grandi aree di priorità:

·       un’Europa più efficiente e sostenibile;

·       un’Europa con un’economia basata sulla crescita;

·       un’Europa più vicina ai cittadini,

·       un’Europa più attenta ai suoi vicini: la dimensione esterna.

Per quanto riguarda quest’ultima, particolare attenzione verrà accordata alla dimensione meridionale della politica europea di vicinato, al fine di rafforzare i rapporti con i partner del Mediterraneo. La Presidenza intende inoltre promuovere tutti i processi di allargamento dell’UE in corso, e dare attuazione agli impegni dell’Unione in materia di aiuti allo sviluppo. Da ultimo, verrà dato impulso ai negoziati per la conclusione degli accordi con i principali partner commerciali.

 

Per quanto riguarda il processo di allargamento, la Presidenza cipriota si prefigge di favorire progressi tangibili di tutti i paesi candidati, a partire da quelli già coinvolti nei negoziati di adesione. In particolare, la Presidenza cipriota intende contribuire ai negoziati di adesione del Montenegro e dare ulteriore impulso al processo di avvicinamento della Serbia all’UE, dopo la concessione dello status di paese candidato da parte del Consiglio europeo di marzo 2012. Allo stesso tempo e in linea con il rinnovato consenso sull’allargamento, approvato dal Consiglio europeo del 2006, il rafforzamento della prospettiva europea dei Balcani occidentali costituirà una priorità dell’agenda europea.

Sullo stato di avanzamento del processo di allargamento, si ricorda che:

·       la Croazia, conclusi i negoziati di adesione a giugno 2011 e firmato il trattato di adesione a dicembre dello stesso anno, dovrebbe entrare nell’UE il 1° luglio 2013;

·       i negoziati di adesione sono attualmente in corso con la Turchia e con l’Islanda. La Turchia – che ha ottenuto lo status di paese candidato dal Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 – ha avviato i negoziati di adesione con l’Unione europea il 3 ottobre 2005. Allo stato attuale è sostanzialmente chiuso il negoziato sul capitolo scienza e ricerca e sono aperti dodici capitoli negoziali. Si ricorda inoltre che – in conseguenza della mancata applicazione del protocollo di Ankara nei confronti della Repubblica di Cipro da parte della Turchia - sono tuttora sospesi otto capitoli negoziali. Per quanto riguarda l’Islanda, i negoziati di adesione – avviati il 27 luglio 2010 – procedono speditamente. Secondo la Commissione, i progressi dei negoziati sono dovuti all'elevato livello di integrazione dell'Islanda in termini strutturali, al fatto che l'Islanda è una democrazia di lunga data, alla sua partecipazione allo Spazio economico europeo e allo spazio Schengen e all'alto profilo della sua pubblica amministrazione;

·       il 26 giugno 2012 il Consiglio ha dato la sua approvazione all’avvio dei negoziati di adesione con il Montenegro (che ha ottenuto lo status di paese candidato nel dicembre 2010). I negoziati sono stati avviati ufficialmente il 29 giugno 2012;

·       Albania e Serbia hanno avanzato richiesta di adesione all’UE, rispettivamente il28 aprile e il 22 dicembre 2009.La Serbia ha ottenuto a marzo 2012 lo status di paese candidato; quanto all’Albania, la Commissione ritiene che in questo paese non sia stato ancora raggiunto il necessario livello di conformità con i criteri di adesione, segnatamente i criteri politici di Copenaghen connessi alla stabilità istituzionale necessaria per garantire, in particolare, la democrazia e lo Stato di diritto;

·       per quanto riguarda la ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, il 14 ottobre 2009 la Commissione ha presentato la raccomandazione favorevole all’apertura dei negoziati, su cui si esprimerà il Consiglio. Poiché l’avvio dei negoziati richiede una decisione unanime degli Stati membri, è indispensabile trovare una soluzione alla controversia relativa al nome del Paese, che viene contestato in particolare dalla Grecia.

 

Per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo, le priorità della Presidenza cipriota sono:

·       raggiungere l’accordo sugli strumenti per il finanziamento della politica di sviluppo e dell’aiuto umanitario per il periodo 2014-2020 e su tutti gli strumenti europei destinati alla cooperazione con i paesi in via di sviluppo;

·       promuovere innovazione politica e cambiamenti sostenibili nelle società in transizione, concentrandosi sui paesi del vicinato in cui sono in corso riforme politiche, economiche e sociali, con l’obiettivo di rafforzare il ruolo dell’UE come partner importante in tali processi;

·       approfondire l’impegno e la partecipazione di società civile e autorità locali, stabilendo un nuovo quadro politico e pratico per l’impegno dell’UE verso tali attori;

·       rafforzare il ruolo della protezione sociale nella politica di sviluppo dell’UE per promuovere sviluppo sostenibile e inclusivo.

·       rafforzerà le politiche per la sostenibilità del debito e per gli investimenti esteri diretti;

·       in materia di aiuto umanitario, promuovere la revisione dello strumento per l’aiuto umanitario, il miglioramento della sicurezza alimentare e della nutrizione nei paesi in via di sviluppo, nonché l’istituzione del corpo umanitario volontario europeo.

 



Documenti



 

BOZZA DI REGOLAMENTO DELLA CONFERENZA INTERPARLAMENTARE PER LA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA COMUNE E LA POLITICA DI SICUREZZA E DIFESA COMUNE

 

PREAMBOLO

 

La Conferenza interparlamentare per la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), in seguito denominata la “Conferenza interparlamentare”,

 

visto il protocollo 1 del Trattato di Lisbona sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’Unione Europea, segnatamente l’articolo 9,

 

viste le decisioni della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea (UE) alle riunioni di Bruxelles il 4-5 aprile 2011 e di Varsavia il 20-21 aprile 2012, che istituiscono una Conferenza interparlamentare per la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la politica di sicurezza e difesa comune (PSDC),

 

(la Conferenza interparlamentare) è istituita nello spirito del rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell’UE, in seguito denominati “Parlamenti nazionali”, e del Parlamento europeo, in virtù del Trattato di Lisbona, e in particolare nel contesto della cooperazione interparlamentare, conformemente al Protocollo (1) sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’UE.

 

La Conferenza interparlamentare fa parte delle attività della dimensione parlamentare della Presidenza del Consiglio dell’UE, svolte dal Parlamento nazionale dello Stato membro dell’UE che esercita la Presidenza del Consiglio dell’UE, in seguito denominati rispettivamente “Parlamento che esercita la Presidenza” e “Stato membro che esercita la Presidenza”.

 

Ha adottato il presente regolamento alla sua prima riunione a Cipro, il 9-10 settembre 2012.

 

ARTICOLO 1 – OBIETTIVI

 

1.1.            La Conferenza interparlamentare offre un contesto per lo scambio di informazioni e di migliori pratiche nel settore della PESC e della PSDC, per permettere ai Parlamenti nazionali e al Parlamento europeo di essere pienamente informati nell’espletamento dei rispettivi ruoli in questa sfera politica.

 

1.2.            La Conferenza interparlamentare favorisce il consenso politico nel settore della PESC e della PSDC, promuovendo un’azione più concertata, coerente ed efficace da parte dell’UE e dei suoi Stati membri dinanzi a minacce e sfide globali, con il dovuto rispetto delle loro prerogative nel settore della PESC e della PSDC.

 

1.3  La Conferenza interparlamentare è composta da membri delle Commissioni per gli Affari esteri e per la Difesa e sostituisce pertanto la Conferenza dei Presidenti delle Commissioni Affari esteri (COFACC) e la Conferenza dei Presidenti delle Commissioni Difesa (CODACC).

 

1.4 La Conferenza interparlamentare, conformemente alle procedure previste all’articolo 7, può adottare conclusioni su questioni relative alla PESC e alla PSDC dell’UE. Le conclusioni non vincolano i Parlamenti nazionali né pregiudicano la loro posizione.

 

ARTICOLO 2 – COMPOSIZIONE

 

2.1. Membri

 

a)      I Parlamenti nazionali sono rappresentati da sei (6) membri per ciascun parlamento. Qualora un Parlamento nazionale sia bicamerale, il numero dei membri delle delegazioni è ripartito in base a un accordo interno.

 

b) Il Parlamento europeo è rappresentato da sedici (16) membri del Parlamento europeo.

 

2.2. Osservatori

 

a)      I Parlamenti nazionali dei Paesi candidati all’adesione all’UE e di ciascuno degli Stati europei membri della NATO, esclusi quelli di cui all’articolo 2.1., possono essere rappresentati da una delegazione di quattro (4) osservatori ciascuna.

 

2.3. L’Alto rappresentante, ospiti speciali ed esperti

 

a)   L’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea è invitato alle riunioni della Conferenza interparlamentare per delineare le priorità e le strategie dell’UE nel settore della PESC e della PSDC.

 

b)   Il Parlamento che esercita la Presidenza, di concerto con il Parlamento europeo, può invitare ospiti speciali ed esperti ad intervenire alle riunioni su questioni relative all’ordine del giorno della Conferenza interparlamentare.

 

2.4. Pubblicità delle riunioni

Le riunioni della Conferenza interparlamentare sono pubbliche, salvo diversamente stabilito.

 

ARTICOLO 3. RUOLO DELLA PRESIDENZA E ORGANIZZAZIONE

 

3.1. La Conferenza interparlamentare si riunisce una volta ogni sei mesi nel Paese del Parlamento che esercita la Presidenza o nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles. La Presidenza decide al riguardo. Sono convocate riunioni straordinarie qualora lo si ritenga necessario o urgente.

 

3.2. La Presidenza, di concerto con il Parlamento Europeo, presenta una proposta di ordine del giorno per la riunione.

 

3.3. La Conferenza interparlamentare è presieduta dal Parlamento che esercita la Presidenza, di concerto con il Parlamento europeo.

 

3.4. [ex 6.2.] All’inizio di ciascuna sessione, il/i Presidente/i della/e Commissione/i competente/i del Parlamento che esercita la Presidenza propone un programma per la sessione e indica la durata degli interventi che, in ogni caso, non possono superare i tre (3) minuti ciascuno.

 

ARTICOLO 4. DOCUMENTAZIONE DELLE RIUNIONI

 

4.1. Ordine del giorno

   a) L’ordine del giorno di ciascuna riunione include questioni inerenti alla PESC e alla PSDC, in linea con il mandato e il ruolo della Conferenza interparlamentare.

b)  Un progetto di ordine del giorno deve essere comunicato a tutti i Parlamenti con un minimo di otto (8) settimane di anticipo rispetto a ciascuna riunione.

 

4.2. Altri documenti

Prima di ciascuna riunione, le delegazioni possono inviare alla Segreteria del Parlamento che esercita la Presidenza documenti relativi ai punti all’ordine del giorno. Il Parlamento che esercita la Presidenza può anche elaborare documenti di lavoro per la Conferenza interparlamentare.

 

ARTICOLO  5. LINGUE

 

5.1. Le lingue di lavoro della Conferenza interparlamentare sono l’inglese e il francese. Il Parlamento ospitante garantisce l’interpretazione simultanea da e verso tali lingue, nonché da e verso la lingua dello Stato membro che esercita la Presidenza. Per le riunioni che si svolgono nella sede del Parlamento europeo, l’interpretariato è garantito in tutte le lingue e il Parlamento europeo si fa carico dei relativi costi.

 

5.2. L’interpretariato simultaneo verso altre lingue può essere assicurato se tecnicamente possibile. Le spese saranno a carico della rispettiva delegazione nazionale.

 

5.3. Gli atti della Conferenza interparlamentare sono trasmessi ai Parlamenti nazionali in inglese e in francese.

 

ARTICOLO 6. IL SEGRETARIATO

 

6.1. Al Segretariato della Conferenza interparlamentare provvede il Parlamento che esercita la Presidenza, di concerto con il Parlamento europeo e con i Parlamenti della Presidenza precedente e della Presidenza successiva.

 

 

6.2. Il Segretariato assiste il Parlamento che esercita la Presidenza nell’elaborazione dei documenti di ogni riunione e nella loro trasmissione ai Parlamenti nazionali e al Parlamento europeo.

 

ARTICOLO 7. CONCLUSIONI

 

7.1. La Conferenza interparlamentare può adottare per consenso conclusioni non vincolanti su questioni inerenti alla PESC e alla PSDC relative all’ordine del giorno della Conferenza interparlamentare.

 

7.2. Il Parlamento che esercita la Presidenza redige il progetto di conclusioni della Conferenza interparlamentare in inglese e in francese, e lo trasmette alle delegazioni dei Parlamenti nazionali e al Parlamento europeo nel corso della riunione, con ragionevole anticipo rispetto all’adozione per consentire la presentazione e l’esame di eventuali emendamenti.

 

7.3. Dopo l’adozione delle conclusioni, il Parlamento che esercita la Presidenza trasmette per informazione i testi definitivi in inglese e in francese a tutte le delegazioni, ai Presidenti dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo e ai Presidenti del Consiglio e della Commissione. Ciascuno dei testi fa ugualmente fede.

 

ARTICOLO 8.  REGOLAMENTO

 

8.1. I Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo possono presentare proposte di emendamento al presente regolamento. Gli emendamenti sono presentati per iscritto a ciascun Parlamento nazionale e al Parlamento europeo almeno un mese prima delle riunioni della Conferenza interparlamentare.  

 

8.2. Su tutte le proposte di emendamento al regolamento presentate dalle delegazioni dei Parlamenti nazionali e dal Parlamento europeo si perviene a una decisione per consenso.

 

ARTICOLO 9. VERIFICA DEL FUNZIONAMENTO DELLA CONFERENZA

 

9.1. La Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea verifica il regolamento e i metodi di lavoro, che sono basati sulle relative decisioni della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea, nonché il funzionamento della Conferenza interparlamentare a due anni dalla sua prima riunione.

 

 



[1] Si tratta di Croazia (in procinto di divenire membro dell’UE), Islanda e Turchia in quanto candidati all’adesione e Norvegia e Albania, in quanto Paesi europei membri della NATO;

[2] Sulla base dei dati forniti dall’Agenzia europea per la difesa, tra il 2008 e il 2010 le spese complessive per la difesa sostenute dagli Stati membri  sono diminuite del 4%.

[3] Su questa problematica la dottrina si è espressa in maniera differente. In particolare, Capotosti ha considerato necessaria l’adozione della procedura più “pesante”, mentre Motzo la qualifica come opportuna ma non necessaria. A sua volta De Vergottini non ritiene sussistere una correlazione necessaria tra la difesa di un alleato ai sensi del Trattato NATO e la delibera dello ‘stato di guerra in senso tecnico-formale, potendo l’esigenza dell’immediatezza dell’aiuto richiesto dall’Alleanza non consentire i tempi di attesa connessi alla procedura prevista dagli art. 78 e 87 della Costituzione.

[4] In particolare, ai sensi del comma 1 dell’articolo 1 della legge n. 25 del 1997, il cui contenuto è confluito nell’articolo 10 del decreto legislativo n. 66 del 2010 “il Ministro della difesa, preposto all'amministrazione militare e civile della difesa e massimo organo gerarchico e disciplinare, attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all'esame del Consiglio supremo di difesa e approvate dal Parlamento”.

[5] Si veda il Bollettino a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea, “Una nuova risposta ad un vicinato in mutamento” (COM(2011)313), XVI legislatura-Documentazione per le Commissioni-Esami di atti e documenti dell’UE, n. 95, 8 luglio 2011.

[6] Tempus è un programma finanziato dall’Unione europea che sostiene la modernizzazione dell’istruzione superiore in Europa orientale, in Asia centrale, nei Balcani occidentali e nella regione del Mediterraneo.

[7] L’UE negozia con i paesi terzi partenariati per la mobilità, che consentano ai cittadini di tali paesi un migliore accesso al territorio dell’Unione europea. Tali partenariati riguarderebbero i paesi terzi determinati a collaborare con l’UE nel settore della gestione dei flussi migratori, in particolare in materia di lotta contro l’immigrazione clandestina.

[8] Il Consiglio affari esteri si è occupato della situazione in Siria nelle riunioni del 23 luglio 2012; 25 giugno 2012; 14 maggio 2012; 23 aprile 2012; 23 marzo 2012; 27 febbraio 2012; 23 gennaio 2012; 1° dicembre 2011; 14 novembre 2011; 10 ottobre 2011; 20 giugno 2011; 23 maggio 2011; 12 aprile 2011. Sulla situazione in Siria il Parlamento europeo ha approvato risoluzioni nelle sedute del 15 dicembre 2011 e del 16 febbraio 2012.